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Associazione Culturale "Giulianova sul Web" - C.F. 91040070673
Rivista Madonna dello Splendore n° 33 del 22 Aprile 2014
L’enigma dell’imperatrice Galla e lo scempio di San Flaviano nel
territorio di Giulianova
di Luigi Girolami
Del castello di S. Flaviano, osservando le fonti medievali, è possibile ritenere che nessun altro
centro contermine ha avuto una citazione così ricca di fatti e personaggi che trainarono la fama
del luogo nei vasti ambiti delle diplomazie ascolane, fermane e “regnicule”.
Il nome del luogo aveva origine agionimica corrispondente cioè al santo patrono e
all’intitolazione a S. Flaviano della chiesa battesimale della comunità, detta dai naturali anche
“Cattedrale”(1) nella convinzione “fuisse olim Sedem Episcopalem”(2).
La chiesa aveva radici antichissime e ci sono tutte le prove: il testo di un placido giudiziario
tenuto nell’897 “in Castro a S. Flabiano”, ricorda la donazione fatta dall’imperatore Carlo III al
vescovo di Teramo dell’intera corte di Montone, con S. Maria “et Sancto Flaviano pro mercede
animae suae”(3).
Altro placito del 1065 fu dato “in territorio Aprutiensi in loco qui dicitur ad castro in Sancto
Flaviano” per la restituzione al vescovo di Teramo del castello di Civitella a Mare(4). Alla luce di
tali elementi, non può essere messa in alcun dubbio l’esistenza pregressa della chiesa di S.
Flaviano, gelosa custode delle reliquie dell’omonimo patriarca di Costantinopoli. Il tempio
flavianeo, attorniato dai ruderi del potente castello, emergeva “fuori distante da Giulia circa un
terzo di miglio”(5), segnatamente presso la fontana “sotto Giulianova”(6).
Il patriarca S. Flaviano di Costantinopoli con gli indumenti e le insegne del potere episcopale (particolare dello scrignoreliquiaro della Collegiata di Giulianova). Foto arch. Osvaldo De Fabiis
Struttura del tempio sacro
Grazie ad una descrizione proveniente dall’Archivio Storico
della Curia Vescovile di Teramo, non è più un’impresa
disperata ricomporre l’impianto architettonico della chiesa di
S. Flaviano, la quale “erat magna et proportionata”(7), cioè di
tono altisonante e quindi abbagliante nei suoi caratteri più
compiuti, capaci di impressionare fortemente forestieri e
pellegrini. L’aspirazione alla monumentalità, in sintonia con i
tratti caratteristici delle basiliche e delle cattedrali, aveva
determinato l’impianto a tre navate (“cum tribus navibus”)(8)
di grande fascino spaziale nei suoi alzati, con colonne
marmoree alte e massicce sostenenti file di archi atti a
dividere la navata centrale da quelle laterali, tanto da
conferire all’ambiente un’atmosfera pienamente suggestiva. I capitelli illustravano decorazioni
lussuosamente complesse, partorite dall’abilità dei migliori scalpellini attivi in Abruzzo: tra i
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manufatti spiccavano “due capitelli bellamente lavorati, ed adorni di rosoni a fogliami con
lunghi e spessi petali, lavoro squisitissimo, in uno de’ quali si ammira scolpita, a piccolo rilievo,
come in un quadretto, la immagine della Vergine, in soave e casto atteggiamento”(9). Altri
esemplari colpivano invece per la qualità dell’arcaico modellato.
La tribuna, o presbiterio della chiesa, era absidata con l’altare maggiore rivolto ad oriente, cioè
verso il sole nascente che per i primi cristiani simboleggiava il Cristo, la vera luce del mondo;
mentre l’uscita dei fedeli era orientata ad occidente, equivalente al buio e alla fine della
vita(10).
Dei portali non abbiamo comunque descrizioni architettoniche, ma è lecito pensare a
decorazioni scolpite nella facciata anteriore con varietà di temi e figure.
Di notevole suggestione era inoltre l’offerta degli imponenti cicli pittorici, che sappiamo
composti da “multe immagines ab antiquo tempore factis, ut ex opera videntur sub grossa
forma” (cioè da molte immagini risalenti a tempo antico, come risulta dall’opera in forma
grossolana)(11). Tali affreschi, col gioco diuturno della luce, esprimevano tutta lo loro
funzionalità policroma ed agiografica.
L’urna di San Flaviano e la lapide celebrativa
Ma il Sancta Sanctorum dell’organismo religioso era costituito dalla cripta o “grupta
subterranea” sviluppata sotto la pavimentazione con colonne marmoree di sostegno, nel cui
ambiente era conservata l’urna col corpo di S. Flaviano di Costantinopoli. La “cassa di pietra”
rimaneva a destra della tribuna centrale (presbiterio absidato inferiore) cioè nel coro, in cui
erano l’altare maggiore e una lapide celebrativa sotto l’affresco del venerato patrono(12), di
cui riportiamo la più antica trascrizione epigrafica inclusiva dei segni abbreviativi, eseguita nel
1610 dal vescovo di Teramo Giambattista Visconti, controllore della fede e delle chiese giuliesi.
La scoperta costituisce il superamento dei vecchi interrogativi sull’attendibilità delle varie
redazioni trasmesse nel passato dalla penna di vari autori(13). La lapide c’era, eccome! Ed
ecco l’esatta verseggiatura:
INDUPERATRIX(14) GALLA.HUC ME FLAVIANUM CONDUXIT PER MARE
PATARCHAM(15) INTUS RECLUSUM IN ARCAM ET DUDUM FUIT QUANDO
QUARTOQUE MILLESIMO ANNO(16) ET ECCE SUM VOBISCUM, ET IUSTUM.
TENEO FISCUM. PRO VOBIS ALTISSIMUM ROGO CAVETE NE DECIPIAR.
EGO(17).
Traduzione letterale: “L’imperatrice Galla condusse qui per mare me Flaviano patriarca
rinchiuso in un’arca. E fu da lungo tempo quando nell’anno 1004 ecco sono con voi e reggo il
giusto fisco prego per voi l’altissimo e state attenti che io non mi inganni”.
Trascrizione della lapide flavianea eseguita nel 1610 dal vescovo di Teramo Giambattista Visconti. (Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo)
Il “fiscum” del santo, nel contesto devozionale
e nell’immaginario cristiano, è riferibile al
tesoro(18) o fisco divino al quale devolvere
tributi di venerazione in un’adesione d’amore e fiducia, che avrebbero assicurato ai fedeli
l’intercessione del glorioso patriarca presso il Signore per la conquista della beatitudine eterna
da godere in un posto sicuro nel paradiso, dopo la cancellazione dei peccati. Gesù di Nazaret,
rispondendo ai malevoli provocatori, esortò a versare all’erario romano quel che era
dell’Imperatore e all’erario divino quel che era di Dio, in fedeltà assoluta al suo primato e in
conformità al suo volere.
L’enigma della data
Ciò che a prima vista non quadra nella lapide flavianea è la citazione dell’imperatrice Galla
associata alla data 1004, che ha ingenerato anacronismi e fatto dubitare non pochi studiosi
sulla validità dell’iscrizione. Lo storico Niccola Palma, nel 1832, smantellò la tradizione
dell’imperatrice Galla accusando gli storici di una “superficiale riflessione” nella lettura
dell’iscrizione del patriarca bizantino giacché, facendo i calcoli, nell’anno 1004 l’imperatrice
risultava estinta da diversi secoli e non poteva aver “trasportato il corpo di S. Flaviano in
Castro”. L’anacronismo è lapalissiano, ma nei pensieri del Palma non balenò il sospetto
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dell’errore cronologico compiuto dal lapicida oppure dalla dettatura di un committente
ecclesiastico poco informato sugli aspetti agiografici del santo. E neppure valutò l’eventualità
dei due tempi diversi riassunti malamente nel contenuto arcaico della lapide, ma comprensibile
ai primi destinatari forniti dell’adatto decodificatore. I due tempi, con attenta valutazione,
appaiono evidenti nell’impiego di “fuit” (passato remoto) e “sum” (indicativo presente),
mediante i quali è possibile ipotizzare un ragionevole assunto: la traslazione iniziale del
patriarca a Castro Novo (primo tempo), e la scultura della lapide commemorativa collocata
nella cripta nel 1004 nell’ambito di un probabile rifacimento della chiesa (secondo tempo) di
cui, si badi, non abbiamo riscontri archivistici e non possiamo effettuare rilievi architettonici
per la scomparsa dell’organismo sacro.
La confutazione del Palma
Passando ora all’atteggiamento critico del Palma, va osservato che l’esimio canonico non
consultò gli atti pastorali di mons. Visconti; per la sua confutazione ricorse alla trascrizione
epigrafica di un manoscritto del gesuita Rodolfo Acquaviva contenenti errori rispetto alla
trascrizione del Visconti, che evidenzieremo entro parentesi quadre per agevolare la
differenziazione ai lettori:
Induperatrix Galla / Huc me Flavianum conduxit / Per mare Patrarcam [Patarcham] / Intus
reclusum in Arcam / Et dudum erat [fuit] quanno / Quartoque millesimo anno / Et nunc [Ecce]
sum vobiscum / et juxta [iustum] teneo Fiscum / Pro vobis Altissimum rogo / Cavete ne
decipiar ego.”(19).
Quindi l’autore si affanna nella ricerca di similitudini letterarie per dare nuovi significati alle
parole cardini dell’impianto epigrafico:
Induperatrix = imperiale (anziché imperatrice).
Galla = nave, galea(20) (anziché Galla Placidia).
Fiscum = residenza ecclesiastica e proprietà religiose non
colpite dal fisco(21) (anziché tesoro celeste o erario divino).
Justum = vicino (anziché giusto)(22).
Tutto ciò gli permise di strutturare una riflessione esplosiva ma di scarso rapporto col
significato originario trasmesso dalla tradizione: “Ecco come io spiego l’iscrizione. Una nave
imperiale Greca salpata da Costantinopoli, trasportò per mare me Flaviano Patriarca, cioè il
mio corpo, racchiuso entro un’Arca qua in Castro: e ciò da gran tempo; allorchè in quest’anno
mille e quattro è stato il mio deposito cinto di marmi, e vi si è apposta iscrizione. Ed ecco che
ora sono con Voi. Qui ho fisso il mio domicilio: qui ove tengo vicina l’abitazione addetta agli
Ecclesiastici impiegati al mio culto, e vicini i fondi a tal uopo necessari”(23).
In tale interpretazione, con l’omissis degli ultimi versi, il Palma non trovò impresentabile la
negazione della tradizione perpetuata nei secoli e, soprattutto, non ritenne fuori luogo che in
una epigrafe votiva si parlasse della casa addetta ai religiosi del santuario e dei benefici di
sussistenza, anziché del tesoro o fisco divino al quale versare oboli di preghiera legati al
patrocinio del santo, che ci sembra più consono al contesto epigrafico e alla fede di quei tempi.
Il rivoluzionario intervento del Palma, demolitore di secolari credenze, causò grandissima
impressione all’arciprete Andrea Castorani di Giulianova, tenace custode della tradizione e
sostenitore della tesi dell’Appiani come dettagliatamente vedremo più avanti. L’arciprete,
preoccupato per gli sbocchi negativi della vicenda, l’11 aprile 1836 trasmise al frate teologo
Stanislao Melchiorri, che stava licenziando uno studio su S. Flaviano, le conoscenze storiche in
possesso della collegiata presentate dal religioso come patrimonio di credibilità spirituale: “S.
Flaviano di Costantinopoli è Titolare della nostra insigne Real Collegiata, e Parrocchiale Chiesa,
e principal Protettore di Giulia; per cui due volte all’anno gli si celebra con gran solennità la
festa, cioè li 24 novembre, giorno anniversario della venuta del suo S. Corpo nell’antichissima
Città di Castro; e li 18 Febbraio giorno del suo glorioso Martirio […]. Esiste in questa Collegiata
una memoria, la quale dice, che prima della venuta di S. Flaviano vi esisteva una Collegiata
insigne sotto il Titolo di Santa Maria in platea; e questa stessa anche per la venerazione verso
del Santo fu dedicata a di Lui onore, e la Città fu chiamata Castrum Sancti Flaviani. Nella
venuta di S. Flaviano era questa Città soggetta al Vescovo d’Ascoli per nome Lucenzio (mentre
vacava da molto tempo la Sede Vescovile Aprutina) il quale venne in Castro con vari Canonici,
e Cavalieri Ascolani a ricevere il S. Corpo, e lo ripose sotto l’Altare Maggiore del Tempio
Massimo detto Santa Maria in platea. Esso corpo era involto in un fazzoletto grande di seta di
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color cremesi attualmente esistente incorrotto dentro una Cassetta d’Argento, come si è
osservato da’ Vescovi Aprutini pro tempore in Santa Visita; fazzoletto, io dico, incorrotto fino
da oggi”(24).
I problemi della tradizione
Non sappiamo se la lapide flavianea raccolse in qualche modo l’episodio della traslazione
effettivamente avvenuta, ma è certo che nel Medioevo la tradizione ebbe la sua genesi soltanto
nella stesura originaria della lapide: “L’imperatrice Galla condusse qui per mare me Flaviano
patriarca”.
L’iscrizione flavianea di Giulianova edita da Ferdinando Ughelli nella monumentale Italia Sacra.
(Biblioteca Comunale di Ascoli Piceno)
I versi dell’iscrizione, letti e commentati per secoli
dal clero carismatico alle masse dei fedeli con
parole vicine alla loro sensibilità, consentono di
cogliere idealmente quanto d’insopprimibile pulsava
nella fede di quella gente che si inginocchiava
devotamente sull’urna del patriarca. Era
impensabile, in quei tempi, la modificazione della
credenza popolare affermata e radicata nella valle
del Tordino.
Ma chi era questa imperatrice sopravvissuta alla morte di S. Flaviano ed artefice della
traslazione a Castro Novo per la promozione del suo culto nel Piceno? Molti pensano a Galla
Placidia, figlia di Teodosio il Grande, che nel 414 sposò il barbaro Ataulfo re dei Visigoti.
Rimasta vedova nel 415, fu riconsegnata all’imperatore Onorio che la fece rimaritare col
vecchio generale Costanzo. Dalla coppia nacque Valentiniano III, che dopo la morte di Onorio
fu posto sul trono d’occidente sotto la reggenza della madre e l’alta tutela della corte
costantinopolitana(25). Per questo motivo Galla fu detta imperatrice come esattamente attesta
l’iscrizione di S. Flaviano in Castro carica di potenza ancestrale ma con elementi temporali di
natura anacronistica, cioè discordanti inesorabilmente col quadro storico e cronologico della
drammatica catena delle lotte eretiche nello scenario dell’impero d’oriente, che coinvolse il
protettore di Giulianova. Galla Placidia morì infatti il 27 novembre 450, mentre nel 452 il corpo
di S. Flaviano, sepolto assieme ai vescovi bizantini, era ancora oggetto di particolare culto e
lodi pubbliche nella basilica dei Santi Apostoli di Costantinopoli(26); ragion per cui non ha
alcun fondamento l’intervento di Galla Placidia presso l’imperatore Marciano e sua moglie
Pulcheria di Costantinopoli per prelevare le ossa del martire e traslarle in un tranquillo luogo
dell’impero d’occidente, di cui Castro Novo costituiva un vitale centro portuale raggiungibile dai
pellegrini di entrambi gli imperi.
Galla Placidia e i suoi figli riprodotti nel tondo di vetro incastonato nella croce di Desiderio, conservata nel Museo Romano di Brescia. (da Storia d’Italia, II, Fabbri, Milano, 1965, p. 430)
Quello che è possibile abbozzare, considerando che non si hanno
testimonianze relative a traslazioni posteriori, è che dopo le
comunicazioni di Teodosio II a Ravenna sulla destituzione e
scomparsa del vescovo Flaviano(27), l’imperatrice Galla Placidia
muovesse istanza a Costantinopoli per ottenere il corpo dello
stimato e martirizzato patriarca: richiesta che sarebbe stata
accolta soltanto dopo la sua morte nell’acuirsi delle drammatiche
tensioni tra la chiesa e gli irriducibili monofisisti che mal sopportavano il deposito del corpo del
vescovo Flaviano (destituito e scomunicato) accanto ai sepolcri dei suoi predecessori (non
destituiti)(28). Ma, sia chiaro, è solo un’illazione gratuita in favore della leggenda immortalata
dalla lapide millenaria di S. Flaviano in Castro.
Padre Antonio Appiani (1639-1700), notati gli elementi dissonanti della morte dell’imperatrice
Galla (450) e delle reliquie di S. Flaviano osannate a Costantinopoli (452), nel XVII secolo
arrischiò un espediente tirando in ballo la nipote Placidia, cioè la figlia di Valentiniano III ed
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Eudosia che chiamò Galla Placidia(29). Nel 454 Placidia sposò il patrizio Olibrio Anicio che nel
472 fu imperatore d’Occidente per alcuni mesi. Nelle visioni dell’Appiani, che ritenne di
ricostruire i fatti nella loro oggettività, questa donna avrebbe stivato in una nave il corpo di S.
Flaviano per condurlo a Castro Novo su richiesta del vescovo Lucenzio di Ascoli(30), avente
all’epoca giurisdizione nel Piceno(31). L’evento si sarebbe verificato alla vigilia
dell’incoronazione di Olibrio, allorquando l’impero d’occidente consumava i suoi ultimi giorni.
Ecco il racconto del gesuita: Placidia, partita da Costantinopoli verso l’Italia “per l’Elezione del
suo sposo in Imperadore, ad istanza del celebrato Lucenzio Vescovo d’Ascoli portò seco il
Beato Corpo del Martire S. Flaviano, alla cui memoria Lucenzio, che l’aveva vigorosamente
difeso nel Sinodo di Calcedone professava particolare venerazione. Giunta Galla Placidia per
l’Adriatico a Castro Novo, antica Città maritima del Piceno, ed allora della sua Diocesi quattro
miglia distante dal Porto d’Ascoli; e quivi accolta con sagra Pompa dal nostro Vescovo
consegnogli il Santo Deposito, che da Lui fu serbato onorevolmente nel maggior Tempio di
quella Terra, dove cominciò subito il Santo ad operare tanti Miracoli, ed i Popoli a riverirlo con
tal concetto, che Castro novo, perduto a poco a poco il suo Nome passò in quel di S. Flaviano”.
Per quanto concerne la documentazione di riferimento, l’Appiani blinda il suo racconto
dichiarando di aver consultato “fedeli antiche Memorie Ascolane”(32), che allo stato, almeno
per quello che ci hanno tramandato le fonti, non si conoscono. La sua tesi, comunque, ebbe
vasta eco e fu accettata dal clero giuliese che la inserì in una “memoria” citata dall’arciprete
Castorani.
A partire dal XVII secolo non mancarono purtroppo studi carichi di equivoci e invenzioni che si
rivelarono devastanti sul piano storico ed agiografico, tanto da mettere a rischio, con la
ripetizione deleteria delle confusioni, le componenti originarie del culto e della tradizione
flavianea. E non vi fu congettura, possiamo dire, che non ebbe i suoi sostenitori fino alle
dissertazioni dei nostri giorni.
Nei quattro punti che seguono, a beneficio dei lettori, cercheremo di raccapezzare i tratti
narrativi più salienti delle varie influenze interpretative.
1. Confusione col patriarca di Antiochia
Nel 1645 i curatori degli Atti dei Santi confusero il patrono di Giulianova (erroneamente posta
in diocesi di Chieti) con S. Flaviano II di Antiochia, dalla cui città fu condotto a Castro Novo
dall’imperatrice Galla Placidia (“licet hic requeiscat in Julia-nova Teatine dioecesis, illuc
Antiochia advectus à Galla Placidia Imperatrice”)(33).
L’errore fu ripetuto con altre inesattezze nel 1657 da uno storico teatino, allorché espose
clamorosamente che il venerabile protettore di Giulianova aveva la sua festa il 4 luglio e “si
tiene essere stato Patriarca di Antiochia trasferito per mare in quella riva da una tale
Imperatrice Galla nel 1004”(34).
Similmente Ferdinando Ughelli, nel 1720, dichiarava che nel Martirologio Romano del 4 luglio
“(tradotto) si ricorda Flaviano Secondo Vescovo di Antiochia, il cui corpo gli abitanti del castello
di Giulianova del ducato di Atri, un tempo chiamato di S. Flaviano, fu trasportato nell’anno
1004 presso la riva del fiume Tordino per mare con una nave, e venerato con l’onore di un
tempio”(35).
Sappiamo, invece, che gli antichi giuliesi, per ravvivare l’energia protettrice del santo
bizantino, s’imposero la pratica delle processioni votive col simulacro del santo:
“una cioè a 18 febraro giorno del di lui martirio” e l’altra il “24 novembre giorno della
traslazione delle di lui reliquie” secondo la consuetudine restituita dai documenti(36). In
entrambi gli uffici divini delle due festività, il clero annunciava: “S. Flaviani triumphus a Graecis
die 18 Februarii celebratur; quo die sacrum ejus Corpus Costantinopolim honorifice traslatum
est”(37) (Il trionfo di S. Flaviano è celebrato dai Greci il 18 febbraio, giorno nel quale il suo
sacro corpo fu trasportato con tutti gli onori a Costantinopoli).
2. Confusione col vescovo di Chieti
Poi dobbiamo sgombrare il campo dagli equilibrismi compiuti in passato per affermare che S.
Flaviano di Giulianova (patriarca, vescovo e martire) coinciderebbe con S. Flaviano di Chieti
(vescovo e confessore), festeggiato egualmente il 24 novembre (donde la confusione). Il nome
del presule, specificava Girolamo Nicolino, nel 1657 figurava nel Cathalogo de’ Vescovi
esistente nella “sala Arcivescovale dell’istessa Città”(38). Il suo corpo riposava nella chiesa di
S. Giustino sotto l’altare della famiglia Cantera con l’iscrizione “Hic etiam requiescit Corpus
Sancti Flaviani Episcopi, et Confessoris”. Più tardi le “sante Reliquie” furono riposte “dentro una
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cassa posta nel Thesoro della Chiesa Metropolitana” e in suo onore la famiglia Cantera vi
eresse una cappella; “et se bene quivi non si dice di che Città San Flaviano fusse Vescovo, si
deve per intendere che fusse di Chieti […]; ne pare che si possa dire che questo sia il
medesimo S. Flaviano, il cui corpo hoggi si conserva in Giulianova […]. Et questo è quanta
memoria si trova di questi dui Santi Flaviani”(39). Pertanto è chiaro, secondo dichiarazioni
oggettivamente valide, che nessuna tradizione associava il vescovo-confessore di Chieti al
patriarca-martire di Costantinopoli. L’idea fascinosa che le due reliquie di Chieti e Giulianova
ricomponessero assieme il corpo di S. Flaviano, deve la sua origine alla mente di Ferdinando
Ughelli, che nel 1720 si espresse con queste parole: “(tradotto) In questo castello si
conservano il capo e parte del corpo del vescovo Flaviano, la parte restante venerano
amorevolmente nella città di Chieti”(40). Più avanti l’Ughelli palesò comunque i suoi dubbi
dichiarandosi neutrale: “(tradotto) Potrei dubitare della validità di questa congettura che parte
del corpo di Flaviano fosse traslato dalle rovine del castello di Flaviano a Chieti e che,
nell’iscrizione [della cripta], fosse annotato il tutto per la parte [del corpo]; tuttavia non oserei
affermare ciò e ne approvo ne respingo la sopradetta storia della traslazione di Flaviano”(41).
Tutto inutile: una nuova strada era stata spianata verso l’ennesima alternativa santorale non
suffragata dalle fonti e dalla tradizione.
3. Confusione col vescovo di Castro
Il titolo pastorale patriarca inciso nella lapide, inteso come capo di una chiesa orientale, non ci
permette di dare alcuna considerazione alla tesi ingegnosa e revisionista secondo la quale il
culto di S. Flaviano non ha nulla a che fare col patriarca di Costantinopoli, in quanto le reliquie
venerate a Giulianova apparterrebbero a un certo Flavianus vescovo della discussa diocesi di
Castro(42).
Già al tempo dell’Ughelli vi erano persone piuttosto povere di raziocinio, che nelle loro opinioni
si allontanavano dalla “tradizione continuativa degli antichi” ignorando il contenuto della lapide.
Scriveva infatti l’abate circestense: “(tradotto) E non mancarono coloro che sostenevano che
S. Flaviano fu vescovo di quel castello per un certo periodo di tempo e che, l’episcopato
flavianense, nei primi tempi fu chiamato così dal nome del santo; ma coloro che scrissero degli
antichi episcopati di questa provincia ritengono che ciò sia stato affermato gratuitamente”(43).
E ancora: “Come credono i naturali, questo S. Flaviano poteva essere il vescovo dello stesso
luogo in onore del quale chiamarono il castello”.
Descrivendo il complesso delle macerie, l’Ughelli aggiunse: “a due stadi di distanza dal castello
di Giulianova della diocesi aprutina, riferiscono vi siano le vestigia di un tempio molto ampio, e
tutto intorno molte rovine di edifici, dove gli abitanti affermano vi fosse un tempo una sede
vescovile ma non hanno nessun fondamento per provare che li vi fosse un episcopato. Potrei
credere, invece, che fossero le macerie dell’antico castello di S. Flaviano”(44).
4. La favola della nave fantasma
Nel XVIII secolo altre visioni fantastiche elaborarono l’approdo di S. Flaviano a “Castrum
Novum” con taglio misterioso e senza l’interessamento del vescovo di Ascoli e dell’imperatrice
Galla: “In questo Castro dicono che approdasse dall’Oriente il Sacro Corpo di S. Flaviano
Patriarca di Costantinopoli senza che il legno fosse diretto dalla mano degli uomini”(45).
L’episodio della nave fantasma, non attestato dall’epigrafe e quindi di matrice gratuita
(“fanfaluca” per alcuni(46)), viene interpretato dagli studiosi moderni come conseguenza di
una tempesta che non diede scampo all’equipaggio, donde l’abbandono del legno alle correnti
marine fino alla spiaggia di Castro Novo. La pezza non regge: se nella nave casualmente
approdata non vi erano sopravvissuti a bordo, come fecero i soccorritori a sapere dell’iniziativa
benefica dell’imperatrice e a identificare il corpo impacchettato del santo sì da scolpirli nella
lapide sepolcrale?
Fondazione di Giulianova e traslazione delle reliquie di S. Flaviano nella collegiata
Con la fondazione della nuova città di Giulianova, voluta nella seconda metà del XV secolo dal
celebre Giulio Antonio Acquaviva e già in piedi nel 1474(47), la chiesa di S. Flaviano fu
risparmiata nel rispetto delle sacre pietre e dei sepolcri contenenti le ossa degli antichi abitatori
del castello, nonché per gli usi liturgici di transizione dalla vecchia alla nuova chiesa sotto la
medesima titolatura. Le reliquie del santo, particolarmente venerate, furono tolte dall’arca e
riposte in uno scrigno d’argento appositamente commissionato dal duca d’Atri e conte di S.
Flaviano; quindi, con una solenne processione, il reliquiario fu trasferito nella nuova
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“venerabilis Ecclesia Sancti Flaviani de platea Jiulie Nove” dotata di fonte battesimale(48).
Secondo i calcoli del Vogel, sguarniti di documentazione probante, Giulio Antonio Acquaviva si
sarebbe occupato del trasbordo “circa annum 1455”(49). Più tardi, in relazione ai fatti narrati,
il patrizio ascolano Giuseppe Rilucenti, ben fornito di cognizioni letterarie, ricopiò su
pergamena la lapide di S. Flaviano aggiornandola con opportuni elementi complementari di
contestualizzazione storica non presenti nella stesura originaria del manufatto:
- il 451, quale anno di approdo (anacronistico) dell’imperatrice Galla a Castro Novo;
- la costernazione dell’imperatrice per la morte del patriarca (“luxit”);
- l’azione di Giulio Antonio nella traslazione delle reliquie dalla vecchia chiesa alla nuova
collegiata;
- il sostantivo “Castrum” riferibile alla comunità castrense della foce del Tordino.
Frontale del quattrocentesco scrigno-reliquiario di S. Flaviano martire e patriarca di Costantinopoli (Collegiata di Giulianova). Foto arch. Osvaldo De Fabiis
L’ascolano, ci sembra evidente, non intese creare
un’iscrizione alternativa a quella ufficiale facente
bella mostra di sé tra i ruderi di S. Flaviano (e nota
a vescovi e studiosi): il suo contributo, del tutto
personale, tendeva a mettere assieme le migliori
informazioni basate sugli espliciti riferimenti della
tradizione dall’imperatrice Galla alla traslazione delle reliquie del santo patrono nella collegiata
di Giulianova; ma il Vogel, avutoli fra le mani, dichiarò quei versi “merce insulsa” rispetto ad
altre trascrizioni che gli capitò di consultare nell’ambito del suo volume De Ecclesiis
Recanatensi et Lauretana commentarius historicus (stampato a Recanati nel 1859): da qui la
nota accusa di “falsario ascolano”.
“Carmen hoc insulsum, atque Cicarellianis mercibus adnumerandum
secundum exemplum Asculanum hoc est:
Anno Dei quatricenteno / atque primo quinquageno / Imperatrix Galla Luxit, /
quae huc Flavianum conduxit / per mare patriarcham / interclusum in Arcam /
et dudum fui, quando / quarto (et) millesimo ando (anno, idest annis 1004
post 451) / Julius inde me asportavit. / Et ecce sum vobiscum / et iuxta teneo
fiscum / nomine castrum rego / cavete ne decipiar ego”(50).
(nell’anno del Signore 451 l’imperatrice Galla si addolorò e condusse qui
Flaviano il patriarca per mare rinchiuso in un’arca… Giulio poi mi portò via ed
ecco sono con voi, ecc.).
Per quanto siamo in grado di dire, nelle visite pastorali non emergono prove sulla collocazione
di questa iscrizione artefatta nella collegiata di Giulianova, ma è certo che lo Sternion, nel
1964, prese un grossa cantonata nel ritenerla il testo originale della lapide (quella cioè
trascritta dal vescovo Visconti e dagli storici): errore che lo indusse a classificare il nostro
manufatto “non antico” e ad attribuirlo allo scalpello di “un falsario del sec. XV”(51). Noi
conosciamo una realtà sostanzialmente diversa: la rozza lapide, recante l’anno 1004, aveva
radici medievali ed esisteva accanto all’urna di S. Flaviano posta nella cripta del più importante
centro religioso dell’omonimo castello, che cessò ogni funzione liturgica a cavallo del XV e XVI
secolo.
L’argenteria di S. Flaviano
Ora dedichiamo un tributo di particolare attenzione allo scrigno delle reliquie del santo patrono,
annunciate ai fedeli con l’iscrizione “SACRUM DIVI FLAVIANI M[artiris] ET P [atriarchae]”,
conforme la tradizione immortalata dalla lapide del sepolcro di provenienza.
Nel 1533 l’argenteria liturgica di S. Flaviano di Piazza, autentico patrimonio votivo della cultura
popolare giuliese, fu oggetto di una scrupolosa inventariazione su disposizione del vescovo
Ludovico Chierigatto, indice della funzionalità della nuova parrocchia che aveva soppiantato la
vecchia cattedrale nella cura pastorale delle anime. In tale circostanza furono descritti cimeli
veramente pregiati come piviali, pianete, reliquiari, croci, calici, patene, coppe, turiboli e
tabernacoli di cristallo, di cui è bene mettere in risalto la trascrizione.
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In primis una crux argentea tota cum duobus crucifixis argenteis(52).
Item una crux argentea minor predicta.
Item unus calix cum coppa argentea aurata et pede eris aurati.
Item unus calix totus argenteus auratus cum patena argentea aurata.
Item unus calix cum coppa argentea aurata cum pede eiris aurati.
Item unus thurribulum magnum ruptum et argenteum.
Item unus scrineus argenteus in quo resident reliquie Sancti Flavianj.
Item bracchium Sancti Blasii cum capsa argentea(53).
Item una crucetta argentea cum reliquiis et tabernaculum cristalli cum
reliquiis […].
Item unum tabernaculum cristalli cum summitate seu cohoperimento
argenteo aurato et pede eris aurati.
Item unum turribulum de cupro cum navicella de stagno;
item septem patene eiris aurati et una stagni(54).
A sinistra il nobile committente di casa Acquaviva
(Giulio Antonio secondo la tradizione, il figlio Andrea Matteo III secondo alcuni studi); a destra lo scudo araldico contrinquartato del personaggio
riprodotto, col leone degli acquavivi e gli emblemi reali aragonesi concessi a Giulio Antonio nel 1477 (particolari dello scrigno-reliquiario di S. Flaviano). Foto arch. Osvaldo De Fabii
Nel 1731, tra i preziosi votivi della collegiata,
troviamo ancora il braccio di S. Biagio, “la
crocetta con molte reliquie dentro” e la “cassetta d’argento, dentro della quale vi è un grosso
pezzo di cranio con molte altre ossa e carboni le quali son tenute e venerate per reliquie di S.
Flaviano”(55). Lo stile dello scrigno e i costumi dei soggetti raffigurati sembrano suggerire la
seconda metà del XV secolo, datazione peraltro confortata dai fatti che stiamo oggettivamente
riesumando. Al centro del coperchio, campeggia lo stemma del nobile committente circondato
da un serto di alloro legato ai lati con nastri svolazzanti. Lo scudo araldico, tipico del XV
secolo(56), è a testa di cavallo con otto lati e decorazioni vegetali laterali uscenti dalla punta.
L’arma si offre contrinquartata cioè divisa in quattro quarti di cui il secondo e il terzo col leone
degli Acquaviva e il primo e il quarto ulteriormente inquartati con gli emblemi reali aragonesi,
concessi nel 1477 dal re Ferdinando all’intrepido Giulio Antonio(57).
L’immagine del santo, proposta frontalmente con statica ieraticità sul vuoto dello sfondo,
adotta soluzioni figurative con gli indumenti e le insegne del potere episcopale (piviale, stola,
mitra e pastorale); la sua destra è benedicente per rendere ai fedeli il concetto di
protezione(58).
Ai fianchi del patriarca riempiono lo spazio il committente e la consorte genuflessi in orazione
nel pieno del loro vigore. La tradizione li identifica con Giulio Antonio Acquaviva (deceduto nel
1481) e sua moglie Caterina Orsini artefici della traslazione, ma non mancano direzioni
interpretative verso il figlio Andrea Matteo III e sua moglie Isabella Piccolomini(59).
Ora cerchiamo di vedere un po’ più chiaro il destino che si compì in maniera straziante per
l’antica sede cultuale di S. Flaviano.
La cattedrale abbandonata
L’antica cattedrale di S. Flaviano di Terra Vecchia fu oggetto di ripetute visite ispettive da parte
dei presuli aprutini, che certamente la ritennero una pietra miliare nella storia della diocesi
senza però riservargli attenzioni restaurative. Così l’incuria e le intemperie iniziarono ad
insediarla con esiti nefasti circa la resistenza della struttura e dell’altare maggiore.
Nel 1546 il vicario generale aprutino Pietro Michelini, in visita a Giulianova, si fermò “ad
ecclesiam Sancti Flaviani de Terra Veteri diruta prope terram Iulie nove, nove, et dictam
ecclesiam de more visitavit aram reperiit semidirutam et fractam atque ex omni parte
minantem ruinam”(60), cioè si recò nell’antica chiesa di S. Flaviano di Terra Vecchia, da anni
diruta presso Giulianova, per visitarla secondo il solito; al suo interno rinvenne l’altare
semidistrutto e danneggiato, minacciante rovina da ogni parte: indice dell’avanzato stato di
~ ix ~
degrado determinato dal trasferimento del clero e del fonte battesimale nella nuova collegiata
di S. Flaviano di Piazza.
Nel 1590 il vescovo Giulio Ricci di Teramo, in un soggiorno pastorale a Giulianova, descrisse lo
stato della cattedrale venerata come un sacro ricordo da ogni giuliese: “Di fuori distante da
Giulia circa un terzo di miglio se vedono le reliquie d’un gran tempio, che era di San Flaviano,
Avvocato di questa terra, et se dice esser’stata Cathedrale(61), et intorno posta Giulia Città
vecchia, alcune macerie sparse per quel contorno dimostrano che vi fusse
grand’habitationi”(62), chiaramente appartenenti al primigenio castello di S. Flaviano. Per
“reliquie” non è comunque da intendere lo stato desolante di un esteso accumulo di rovine
semisepolte, ma la decadenza strutturale dell’organismo diroccato oramai prossimo alla sua
completa disgregazione, che si annuncerà e manifesterà con veemenza nell’ambito del
progetto edificatorio di un nuovo chiostro per la vita monastica.
Fondazione del convento cappuccino e distruzione di S. Flaviano
Nell’ultimo decennio del XVI secolo le diverse componenti sociali del tessuto demografico
giuliese desideravano la presenza dei frati cappuccini, i quali, insediatisi sul posto, lasciarono il
duplice marchio di spiritualità francescana e flagello distruttore dell’antica cattedrale di S.
Flaviano, di cui è necessario offrire un piccolo corredo di episodi.
Nel 1595, convocato nel palazzo comunale(63), il magnifico Giovanni di Filippo di Giovanni,
devoto di S. Francesco e rispettoso della spiritualità cappuccina, asserì davanti agli uomini del
reggimento municipale e ai procuratori dell’ordine fratesco, di “tenere et possedere” un certa
possessione con alberi, viti e costruzioni (“cum domo et fabrica”) in contrada S. Rocco(64) e di
essere disposto a lanciarsi nell’avventura del baratto per la salvezza della propria anima. Egli,
infatti, allorché il Comune e la pietà dei benestanti avessero dato impulso alla fondazione di un
nucleo cappuccino (“Magnifica Universitas terre Iulie nove aut alii particulares cives dicte terre
Iulie Nove construi facere monasterium Capucinorum in territorio Iulie”), avrebbe messo a
disposizione la sua possessione “pro loco situ, et erectione ecclesie et monasterii predicti in
puram elemosinam pro salute anime sue ipsorum posterum”(65).
Altri benefattori manifestarono la loro solidarietà e perfino i beni della chiesa di S. Angelo
“furno permutati con li beni che furno donati per fare detto convento, cioè dalla parte avanti al
rimpetto di detto convento verso occidente”(66).
Nei mesi successivi, per farla breve, intoppi e congiunture ritardarono l’esecuzione dei lavori
fortemente agognati dal duca Alberto Acquaviva d’Aragona, che poco prima di morire aveva
confidato al vescovo Vincenzo da Montesanto il suo grande desiderio “di vedere che Giulia
avesse un convento di padri cappuccini, dolendosi che si facesse difficoltà che
s’edificasse”(67). E così, perorata la causa, le pastoie burocratiche si sbloccarono il 15
dicembre 1597 allorquando la sospirata licenza sbaragliò le ultime attese(68), avviando il
cantiere presso la chiesa di S. Maria di Loreto(69) e nell’area di S. Angelo acquista dai
frati(70).
Ma attenzione: fiutato il pericolo di un imminente smantellamento dell’antica cattedrale di S.
Flaviano in favore del nascente chiostro cappuccino, il vescovo Montesanto impose la sua
protezione sentenziando “che non si toccasse veruna cosa” e minacciando di scagliare la
terribile arma della scomunica contro i predatori dei manufatti sacri(71) (ovviamente conci,
colonne, cornici, sculture, altari, cappelle, portali, pavimentazione e quant’altro ancora esisteva
nell’area di S. Flaviano).
Parole comunque inutili alla filosofia del potere ducale e patronale degli Acquaviva, che con
beffarda indifferenza autorizzò i figli di S. Francesco di ridurre in cava di pietra la monumentale
e gloriosa cattedrale di S. Flaviano di Costantinopoli: un atto barbaro e sacrilego compiuto con
grave detrimento dell’architettura religiosa e dell’arte sacra abruzzese. I padri cappuccini,
infatti, abbatterono il campanile e le pareti della chiesa per costruire il loro nucleo conventuale
a Giulianova. E possiamo anche dire, nell’ambito di quel cantiere, che non passava giorno in
cui l’ex cattedrale non venisse razziata della sua lussuosa ornamentazione. Molti affreschi si
ridussero in calcinacci e non si ebbe rispetto neppure per i materiali più strettamente
devozionali della fede giuliese, come l’arca in pietra di S. Flaviano che, per tanti secoli, aveva
custodito le reliquie del patrono ed era stata sfiorata dalla venerazione popolare nell’esperienza
cultuale, personale e collettiva. L’urna del santo fu difatti trasportata nel chiostro del nuovo
convento per essere destinata, grazie alla sua qualità impermeabile di vasca monolitica, alla
lavatura delle tovaglie e degli indumenti francescani, con sommo scandalo del clero e dei fedeli
per antonomasia depositari della memoria storica dei loro antenati in virtù dell’ancestrale
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trasmissione orale circa il sacro rispetto del luogo iniziale della conservazione e della pratica
cultuale del glorioso protettore.
Scempi e scandali a parte, per restituire idealmente l’immagine festosa dell’inaugurazione del
cantiere del convento cappuccino di Giulianova, può essere valido rifarsi alla cultura religiosa e
folcloristica di una parrocchia marchigiana della diocesi di Teramo. Tempi e pastore sono infatti
gli stessi. Nel 1594, come da lapide murata nell’ingresso del chiostro conventuale di
Monsampolo del Tronto (AP), il vescovo Vincenzo Montesanto autorizzò l’edificazione del nuovo
cenobio e, nel 1601, ne pose personalmente la prima pietra con applausi e ovazioni. Seguirono
fiaccolate e fuochi d’artificio con musiche festose e riti religiosi, magnificati dall’abilità omiletica
del presule proveniente dall’Ordine dei Predicatori, il quale, per accrescere la fede, concesse 40
giorni di indulgenza ai visitatori della struttura cenobitica che volle dedicata a S.
Francesco(72). E, difatti, nel primo sigillo conventuale commissionato dai Minori Osservanti,
campeggia la figura mistica del poverello di Assisi circondata dalla leggenda “+ CONVENTUS •
SANCTI FRANCISCI • MONTIS • DIVI • PAULI”(73).
L’ispezione del nuovo vescovo di Teramo
Nel novembre del 1610 il nuovo vescovo aprutino Giambattista Visconti, nell’ambito della sua
visita pastorale, volle recarsi assieme all’arcipresbitero don Muzio Boccalario e ai canonici di
Giulianova “ad venerabilem ecclesiam Sancti Flaviani extra terram Iulie”, allo scopo di
prendere atto della situazione e descrivere quanto di misero era scampato alla brutale
distruzione. Lo spettacolo gli apparve raccapricciante, nel senso più pieno che al termine si
poteva dare: dell’antica chiesa restavano in piedi soltanto le muraglie verso oriente e
mezzogiorno, “cum columnis et lapidibus marmoreis magnis udique per terram” (con colonne e
pietre di marmo grandi da ogni parte in terra).
La voragine apertasi sotto il piano di calpestio, a causa dell’asportazione delle lastre
pavimentali e dei coperchi sepolcrali, offrirono lo spettacolo della parte sotterranea della chiesa
adorna parimenti di affreschi e di colonne marmoree ben denotanti il capolavoro geniale delle
origini. Gli alzati del presbiterio superiore della zona absidale, ostentavano affreschi sacri di
chissà quale inventiva artistica, ma che il vescovo Visconti seppe riconoscere e distinguere
senza indugio nelle diverse proposte agiografiche: sulla tribuna centrale egli colse il
travolgente trionfo del Salvatore attorniato da uno stuolo di santi, tra i quali, a sinistra, il
precursore S. Giovanni Battista; al di sotto riempivano gli spazi il gruppo degli Apostoli con la
scena del Purgatorio. Nella tribuna sinistra osservò i Magi offrenti doni al Bambino di Betlemme
e in quella destra le scene della Passione di Gesù di Nazaret.
Dopo l’ispezione del rudere, il vescovo volle conoscere l’esatta cronaca dello scempio e i nomi
dei famelici predatori. I convisitatori, vale a dire i membri più autorevoli del clero giuliese,
raccontarono senza alcun riserbo i fatti che oramai erano sulla bocca di tutti, anche per
cautelarsi dall’eventuale accusa di colpe non commesse: “Monsignore questa chiesa è andata a
terra, et in rovina da diec’anni in qua, et li Padri Capuccini l’hanno mandata in terra per fare il
loro convento con l’autorità delli Acquavivi [i famigerati mandanti dell’atto criminoso], se bene
frate Vincenzo Montesanto Vescovo Aprutino ci mese la scomunica che non si toccasse veruna
cosa. Anzi che la cassa di Pietra dove fu trovato, et che anticamente stava il corpo di S.
Flaviano in lo coro dove sono li detti versi, se la portorno li detti padri capuccini, quali la
tengono a lavare li panni nello claustro di loro convento, quale convento è fatto quasi tutto
delle pietre di questa chiesa”(74).
I ruderi di S. Flaviano di Terra Vecchia a tre navate come si presentarono al vescovo Visconti nel 1610
(ricostruzione dell’architetto e prof. Luigi Neroni)
I giuliesi non aggiunsero altro e neppure
furono comminate punizioni spirituali (peraltro
stabilite dal vescovo Montesanto e
probabilmente mai applicate), ai famigerati
mandanti della riprovevole distruzione, vale a
dire gli Acquaviva, uomini forti e potenti da
non inimicarsi con inutili censure. Mons.
Visconti dimostrò di avere ben altro per la
testa: accompagnato dall’arciprete don Muzio
Boccalario, dal canonico aprutino e da altri
~ xi ~
ragguardevoli personaggi, l’11 novembre 1610 riprese il suo itinerario pastorale “versus villa
Colonie comitatus dicte terre Iulie“ per visitare la chiesa di S. Nicola e le opere religiose
generate dalla pietà degli “homini di Cologna, quali sono tutti schiavoni, se bene tra di loro ci
sono alcuni italiani che stanno alle massarie convicine”(75).
Gli “schiavoni” erano immigrati slavi provenienti dalla Dalmazia, organizzati in colonie più o
meno cospicue sin dal principio del XV secolo. “Tutte le città della Marca avevano nel ’400 una
colonia, più o meno cospicua, di questi uomini dell’altra sponda, che avevano attraversato
l’Adriatico in cerca di pane o per sottrarsi alle scorrerie dei turchi”(76). Una curiosità etnica
avvolge dunque le origini di Cologna, un tempo nel distretto di Giulianova, posta “vicina al
mare, tutta abitata in pagliari da Schiavoni, che nascendo ivi hanno la lingua nativa, et
italiana”(77).
La scomparsa della lapide millenaria
La lapide flavianea, contrariamente a quanto asserisce il Palma, non andò “perduta nella
traslocazione degli abitanti del castello di S. Flaviano all’odierna Giulianova”(78), cioè nella
seconda metà del XV secolo, ma scomparve nella prima metà del Settecento per il crollo totale
della cripta o per l’azione dei vandali che avrebbero depredato i resti della gloriosa cattedrale.
L’inconsistenza della convinzione del Palma, sia detto per inciso, viene dimostrata allorché si
leggono gli autorevoli scritti del vescovo Visconti, che nel 1610, ispezionando i pietosi lacerti
della cripta di S. Flaviano, osservò la lapide ricopiandone fedelmente il testo. L’iscrizione,
ovviamente, non faceva bella mostra di sé nella tomba dismessa di S. Flaviano, vale a dire
nell’arca di pietra già asportata da mani sacrileghe (vedi più avanti), ma insisteva presso
l’altare maggiore della tribuna centrale, come appresso illustrarono i sacerdoti giuliesi al
pastore aprutino: “in questa grotta stava una cassa di pietra dove stava il corpo di S. Flaviano,
et in particolare era da lato destro della tribuna di mezzo, dove era l’altare magiore, et ivi in
quel mezzo sono anchora le lettere in versi”(79).
Il manufatto epigrafico resisteva “in loco” ancora al tempo del dottor Girolamo Nicolino (1657)
e del gesuita Antonio Appiani deceduto nel 1700, che nei suoi studi si arrese alla complicatezza
dell’iscrizione “difficile ad intendersi e barbara a maggior segno secondo la qualità dei
tempi”(80). L’Ughelli, parimenti, la pubblicò nel 1720 fornendo un dettaglio d’immensa
importanza: “in dicta veteri Ecclesia Sancti Flaviani” la lapide aveva il suo spazio votivo “sub
imagine eiudem Sancti”(81), comprovando così il prosieguo dei cicli pittorici nella tribuna della
cripta.
Ma oramai la tinta rosa del crepuscolo era scesa per sempre sui gloriosi resti di S. Flaviano,
che da lì a poco sarebbero stati rasi al suolo e ingoiati dall’inesorabile oblio. Difatti, nel 1757,
la lapide era già sparita assieme alla cripta che la ospitava. Il dott. Giovanni Panelli, a seguito
di una ricognizione sul territorio, attestava con rimprovero: “giovami eziando di far sapere,
come la sopra riferita barbara iscrizione col Ritmo usato di quei tempi, e che quindi diè motivo
ai Poeti Italiani di crearne le rime, non si trova di presente per tutte le diligenze da me usate
potendo sospettarsi, che sia perita nelle ruine del vicino Castello di S. Flaviano, o per
negligenza di Coloro che non hanno saputo tener conto di siffatti giojelli dei secoli Barbari”(82).
Termina con questi dati il dossier su S. Flaviano, un lavoro impegnativo ma molto appagante
per l’esposizione accurata delle fonti.
Appendice. Verbale ispettivo dei ruderi di S. Flaviano redatto nel 1610 dal vescovo di Teramo
Giambattista Visconti, trascritto e tradotto in collaborazione con la dott. Laura Ciotti
dell’Archivio di Stato di Ascoli Piceno.
Die 18 mensis. Santo Flaviano.
Idem Illustrissimus ac Reverendissimus Dominus Episcopus et visitator de mane associuatus a
non nullis contulit se ad venerabilem ecclesiam Sancti Flaviani extra terram Iuliam animo
continuandi visitationem … (lo stesso illustrissimo e reverendissimo vescovo e visitatore, di
mattina, accompagnato da alcune persone, si recò a visitare la chiesa di S. Flaviano fuori della
terra di Giulia, per continuare la visita).
Invenit illam dirutam, et solum ad sunt menia a parte orientis ubi erat altare maius, et
videmtur ibi depicte multe immagines ab antiquo tempore factis, ut ex opera videntur sub
~ xii ~
grossa forma (trovò la chiesa diruta e rimangono solo le mura dalla parte orientale dove era
l’altare maggiore e vi appaiono dipinte molte immagini risalenti a tempo antico, come risulta
dall’opera in forma grossolana).
Videtur ibi fuisse etiam a dicta parte grupta subterranea cum columnis marmoreis, prout in
parte adhuc videtur existere, et pro alia parte est diruta (Sembra esservi stata anche da detta
parte una grotta sotterranea con colonne di marmo come in parte ancora appare e per il resto
è distrutta).
Astantes dixerunt (i presenti dissero) che in questa grotta stava una cassa di pietra dove stava
il corpo di S. Flaviano, et in particolare era da lato destro della tribuna di mezzo, dove era
l’altare magiore, et ivi in quel mezzo sono anchora le lettere in versi, et sunt videlicet (e sono
le seguenti):
INDUPERATRIX GALLA HUC ME FLAVIANUM CONDUXIT / PER MARE PATARCHAM INTUS
RECLUSUM IN ARCAM / ET DUDUM FUIT QUANDO QUARTOQUE MILLESIMO ANNO / ET ECCE
SUM VOBISCUM, ET IUSTUM TENEO FISCUM / PRO VOBIS ALTISSIMUM ROGO CAVETE NE
DECIPIAR. EGO
(L’imperatrice Galla condusse qui per mare me Flaviano patriarca rinchiuso in un’arca. E fu da
lungo tempo quando nell’anno 1004 ecco sono con voi e reggo il giusto fisco prego per voi
l’altissimo e state attenti che io non inganni).
Ecclesia erat magna, et proportionata cum tribus navibus, et ad presens videtur diruta, cum
columnis et lapidibus marmoreis magnis undique per terram, et tantum adest murus versus
orientem, et partim versus meridiem (La chiesa era grande e proporzionata con tre navate e
attualmente appare diruta con colonne e pietre di marmo grandi da ogni parte in terra e
rimane solo il muro verso oriente con parte verso meridione).
Astantes dixerunt (i presenti dissero): Monsignore questa chiesa è andata a terra, et in rovina
da diec’anni in qua, et li Padri Capuccini l’hanno mandata in terra per fare il loro convento con
l’autorità delli Acquavivi, se bene frate Vincenzo Montesanto Vescovo Aprutino ci mese la
scomunica che non si toccasse veruna cosa.
Anzi che la cassa di Pietra dove fu trovato, et che anticamente stava il corpo di S. Flaviano in
lo coro dove sono li detti versi, se la portorno li detti padri capuccini, quali la tengono a lavare
li panni nello claustro di loro convento, quale convento è fatto quasi tutto delle pietre di questa
chiesa.
Nella tribuna di mezzo dalla parte di sopra sta depinto il Salvatore con altri santi in particolare
a sinistris vi sta S. Giovanni Battista et sotto vi sta il Purgatorio, et vi stanno depinti tutti li
Apostoli.
Nella tribuna della nave a destris verso settentrione vi sta depinta la passione del Signore.
Nella tribuna della parte sinistra vi stanno depinti li Magi che offeriscono al Signore83.
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NOTE
1 O. Di Stanislao, Visite Pastorali a Giulianova nel corso dei secoli, 1590-1918, Giulianova,
1998, p. 19.
2 F. Ughelli, Italia Sacra sive de Episcopi Italiae et insularum adiacentium, vol. VI, Venezia,
1720, pp. 668. All’autore, comunque, non risulta l’esistenza di un episcopato in quel di
Giulianova, ma è probabile che la credenza popolare dei suoi abitanti conservasse almeno il
ricordo di quanto, nel 1835, l’arciprete Andrea Castorani trasmise a un teologo francescano
sulla collegiata di cui era rettore: “La suddetta era la più antica della Diocesi Aprutina, e la
seconda Sede Vescovile immediatamente dopo Teramo, e ciò in forza della preeminenza che
godeva, allorché la Collegiata stessa era situata nell’antica Città di Castro, che poi si conservò
nell’attuale Chiesa rieretta nella novella Città; come con atto pubblico dichiarò, e confermò
Monsig. Barba nel 1549. Nella distruzione della Città di Teramo, fatta dai Normanni nel 1149,
la nostra antica Collegiata fu la Sede Vescovile Aprutina di Mons. Guidone” (S. Melchiorri,
Memorie istorico-critiche delle gloriose gesta di S. Flaviano Martire arcivescovo e patriarca di
Costantinopoli protettore del clero e città di Recanati e di Giulia, Fermo, 1836, p. 161).
3 F. Ughelli, Italia Sacra, cit., vol. I, Venezia, 1717, pp. 347-348; N. Palma, Storia della Città e
Diocesi di Teramo, vol. I, Terza Edizione Tercas, 1978, pp. 215-216.
~ xiii ~
4 Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Codice Membranaceo del Cartulario, c. 15;
F. Savini, Cartulario della Chiesa Teramana, n. XIX, marzo 1065, Roma, 1910, p. 42.
5 O. Di Stanislao, Visite Pastorali a Giulianova cit., p. 19.
6 G. Nicolino, Historia della città di Chieti metropoli delle Provincie d’Abruzzo, Chieti, 1657, p.
103, che riferisce del sepolcro di S. Flaviano ubicato “nella chiesa di S. Flaviano nel Castello del
medesimo nome, di cui ancora si veggono i vestigii nella fontana sotto Giulianova”.
7 Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Serie Sante Visite, Settore II B, F. 3, doc. 4,
Visita Pastorale di mons. Giambattista Visconti ai ruderi di S. Flaviano di Giulianova, anno
1610, c. 94.
8 Ivi.
9 O. Di Stanislao, L’ubicazione dell’antico tempio di San Flaviano, in “La Madonna dello
Splendore”, 25, 2013, pp. 104-105, con le foto dei capitelli.
10 Sugli interessanti aspetti della teologia della luce, cfr. M. Rolandozegna, La dimora della
luce, in “Amadeus”, numero speciale dedicato alla “Musica dei Crociati”, n. 2, Marzo 2000, De
Agostini Rizzoli Periodici, pp. 6-10.
11 Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Serie Sante Visite, Settore II B, F. 3, doc.
4, Visita Pastorale di mons. Giambattista Visconti ai ruderi di S. Flaviano di Giulianova, anno
1610, c. 94.
12 F. Ughelli, Italia Sacra, cit., tomo VI, p. 745: “De translatione hujusmodi praeter
antiquorum loci continuata traditionem, extare ajunt in dicta veteri Ecclesia Sancti Flaviani sub
imagine ejusdem Sancti Memoria tenoris sequentis: Induperatrix Galla, Huc me Flavianus
conduxit” ecc.
13 G. Nicolino, Historia della città di Chieti, cit., p. 104; F. Ughelli, Italia Sacra, cit., vol. VI, p.
745; G. Panelli d’Acquaviva, Memorie degli uomini illustri e chiari in medicina del Piceno o sia
della Marca d’Ancona, tomo primo, Ascoli, 1757, p. 198. Il gesuita Antonio Appiani (1639-
1700), in un manoscritto sulla storia della Marca, cita la trascrizione della lapide che ne fece
l’erudito collega “Padre Ridolfo Acquaviva della Compagnia del Gesù, che l’ha esposta con un
discorso in verità meritevole della pubblica luce e della sua nobilissima Penna” (G. Panelli, cit.,
p. 197). Anche Francesco Brunetti di Campli si occupò della lapide di S. Flaviano (N. Palma,
Storia della città cit., p. 238). Il Vogel, scomparso nel 1817, dichiarava di aver consultato la
dizione del patrizio ascolano Giuseppe Rilucenti elaborata in pergamena e, nella sede dei
gonfalonieri di Recanati, altra trascrizione inserita in un codice manoscritto che, per stile e
interpolazioni, gli parve eseguito nel tramonto del XVI secolo (per il brano del Vogel cfr. M.
Montebello, L’antico culto di S. Flaviano a Giulianova e l’episcopio ignorato di Castrum, in
“Bollettino della Deputazione Abbruzzese di Storia Patria”, Annata LXXIX, 1989, p. 241).
14 È forma arcaica di imperatrice, come “Induperator” per imperatore nelle opere di Ennio;
così anche nei paralleli intercettati da Palma (Storia della città, cit., vol. I, p. 240).
15 Dai suggerimenti inviatimi dall’epigrafista Antonio Salvi della Città del Vaticano, è possibile
ritenere che sopra la “T” del termine ci sarebbe stato un segno abbreviativo per indicare “ri”
(“Pat(ri) archam”), non evidenziato nella trascrizione del Visconti.
16 Tra “quartoque” e “millesimo” il vescovo aggiunse “quarto” per indicare quattro. La riga,
suggerisce Antonio Salvi, è molto complicata perche dopo “quando” non segue il verbo.
“Quartoque” sarebbe “et Quarto” e quindi gli elementi numerici andrebbero uniti al verbo
precedente. L’anomalia fu riscontrata nel 1657 anche dal dottor Girolamo Nicolino, che nella
sua trascrizione mise un punto interrogativo dopo il “quando” (Historia della Città di Chieti, cit.,
p. 104).
~ xiv ~
17 Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Serie Sante Visite, Settore II B, F. 3, doc.
4, Visita Pastorale di mons. Giambattista Visconti ai ruderi di S. Flaviano di Giulianova, anno
1610, c. 94.
18 Così anche la traduzione inviatami dal latinista A. Salvi: “Ed ecco sono con voi e tengo il
giusto tesoro, per voi l’Altissimo prego: fate attenzione che io non mi inganni”. Salvi è autore
di splendidi volumi sull’epigrafia ascolana: Iscrizioni Medievali di Ascoli, Ascoli Piceno, 1999;
Iscrizioni medievali nel territorio ascolano, Roma, 2010.
19 N. Palma, Storia della Città cit., p. 238. L’ultimo verso, avvisa l’autore, non fu preso in
considerazione dal “diligentissimo” Francesco Brunetti (ivi, p. 241).
20 Ivi, pp. 239-240.
21 Ivi, pp. 238-239.
22 Ivi, p. 238. Il Palma all’esatto “Justum” (giusto) riportato dal gesuita Acquaviva, dall’Ughelli
e dal vescovo Visconti, preferisce l’arbitrio del Brunetti che riporta “Juxta” (vicino).
23 Ivi, p. 240. Il traduttore dei brani in latino presenti nell’opera, seguendo l’interpretazione
dell’autore, offre questa traduzione: “Un vascello imperiale - ha fatto arrivare, - ben racchiuso
in un’arca, - ed attraverso il mare, - me Flaviano patriarca. - E da allora è trascorso - gran
tempo, veramente. - Ma ora, nel presente, nell’anno millequattro, - mi trovo qui con voi – e
sono ben contento - di avere accanto a me - i fratelli e la Chiesa - e i beni del Convento” (ivi,
p. 238).
24 S. Melchiorri, Memorie istorico-critiche delle gloriose gesta di S. Flaviano, cit., pp. 159-160.
Precisiamo che la sintesi dell’arciprete Castorani verrà ripresa dallo Stiernon, che citerà
soltanto il Melchiorri (Flaviano, vescovo di Castro, cit., p. 886).
25 P. Bianchi - M. Chierici - E. Pirella - B. Rossi, Storia d’Italia, vol. II, Fratelli Fabbri Editori,
Milano, 1965, pp. 425-427.
26 Almeno in nota dobbiamo ricordare che in quei tempi, nello scenario dell’impero d’oriente,
imperversavano le lotte eretiche sulla negazione delle due nature umana e divina del Cristo e
sulla maternità divina di Maria in quanto madre di Dio. Nel 448 il patriarca Flaviano di
Costantinopoli, che operava in regime di comunione con la chiesa cattolica e difendeva le due
nature di Gesù coesistenti dopo l’incarnazione, radunò un sinodo che condannò il monaco
archimandrita Eutiche per posizioni scelleratamente eretiche. Ma la politica dello scomunicato,
influente alla corte di Teodosio II, intorbidì le acque fino al capovolgimento della situazione.
Nel concilio generale di Efeso, pilotato nel 449 dall’ambizioso patriarca Dioscuro di Alessandria,
Eutiche fu infatti riabilitato e Flaviano deposto da vescovo di Costantinopoli per presunte
speculazioni teologiche: menzogne che gli costarono la comunione con la Chiesa e crudeli
violenze corporali che arrestarono il suo cuore sulla via dell’esilio, non prima di “aver
presentato un inutile appello al papa contro l’iniqua sentenza” (Appellatio) (K. Bihlmeyer - H.
Tuechle, Storia della Chiesa, vol. I, L’antichità cristiana, Brescia, 1960, pp. 332-333; Dopo
Gesù. Il trionfo del Cristianesimo, Selezione dal Reader’s Digest, Milano, 1993, .pp. 250-260, I
fatti di Efeso avevano dunque ribaltato la dottrina cristologica con palese affronto alla fede
cattolica (“latrocinium Ephesinum”); ma il corso della vicenda cambiò il 28 luglio 450 con la
morte di Teodosio, in quanto la sorella Pulcheria scelse per marito il generale Marciano
elevandolo ad imperatore d’oriente (25 agosto 450) e schierandosi a favore del pontefice. Il
primo atto dei regnanti fu il recupero del corpo di Flaviano da Ipepa, per trasferirlo nella
basilica dei Santi Apostoli di Costantinopoli, “ove fu sempre in uso seppellirvi i Vescovi suoi
predecessori”. Il dato si ricava dalle notizie trasmesse il 22 novembre 450 da Pulcheria al
pontefice Leone Magno, cinque giorni prima della scomparsa dalla scena politica
dell’imperatrice Galla Placidia (S. Melchiorri, Memorie istorico-critiche cit., pp. 143-144; P.
Bianchi - M. Chierici - E. Pirella - B. Rossi, Storia d’Italia, cit., pp. 430-431). Il 6 luglio 452,
dopo il quarto concilio ecumenico di Calcedonia, che aveva ripristinato le due nature del Cristo,
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gli imperatori Marciano d’oriente e Valentiniano d’occidente promulgarono il celebre editto con
lo scopo di rendere giustizia alla memoria di S. Flaviano, indegnamente violata da Teodosio II.
A tutti i dignitari dell’impero, fra l’altro, essi comunicarono che l’imperiale città di
Costantinopoli aveva fortemente desiderato ed accolto “nel suo seno le di Lui sacre reliquie,
per cui ad Essa sembrò esser Egli fortunato più di qualunque vivente” (S. Melchiorri, Memorie
istorico-critiche cit., pp. 137 e 223; D. Stiernon, Flaviano, patriarca di Costantinopoli, santo, in
Biblioteca Sanctorum, vol. V, Roma, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università
Lateranense 1964, p. 903).
27 I contatti sono documentati: nell’aprile del 450 l’imperatore Teodosio II, fautore e
protettore dell’eresia eutichiana, comunicò a Galla Placidia “che la deposizione di Flaviano
decretata ed eseguita nel Concilio Efesino aveva ridonata la pace alle Chiese d’Oriente, perché
erasi tolto di mezzo il principale autore della discordia” (S. Melchiorri, Memorie istorico-critiche,
cit., p. 125). Galla Placidia e Valentiniano III, su richiesta di papa Leone, “intervennero a
favore di Flaviano presso la corte di Costantinopoli” (D. Stiernon, Flaviano, patriarca di
Costantinopoli, cit., p. 898).
28 Un punto di sostegno al contesto storico è offerto dallo Stiernon, quando afferma: “in
complesso, il culto di Flaviano è rimasto nell’ombra a Bisanzio, forse perché esaltare troppo la
vittima di Dioscoro avrebbe servito ad alienare maggiormente le simpatie alessandrine e
antiochene nei tempi in cui si cercava di restaurare l’unità religiosa dell’impero infranta dalle
dispute cristologiche. Perciò a S. Sofia, tra i diciotto patriarchi di Costantinopoli che godettero
un culto speciale non compare il nome di Flaviano” (D. Stiernon, Flaviano, patriarca di
Costantinopoli, cit., p. 904). Su questo punto la lapide di Giulianova, posta un tempo nel
sepolcro del patriarca, potrebbe offrire un ulteriore elemento di riflessione sulla quasi
indifferenza nei confronti del culto flavianeo in oriente.
29 Sul nome usato dall’Appiani, il Panelli osserva: “non so se [Placidia] avesse, e portasse il
nome anche di Galla, come lo portava la sua Avola Madre di Valentiniano” (G. Panelli, Memorie
degli uomini illustri, cit., p. 199).
30 Briciole di conoscenza si hanno sulla figura di questo presule. F. A. Marcucci, che tace sulla
vicenda di Galla Placidia, riferisce che Lucenzio partecipò come delegato pontificio al quarto
Concilio Ecumenico di Calcedonia, ordinato da papa Leone Magno contro il monofisismo di
Eutiche e Dioscoro (Saggio delle cose ascolane e de’ vescovi di Ascoli nel Piceno, Teramo,
1766, p. 203).
31 Consideriamo comunque discutibile che la diocesi di Ascoli comprendesse all’epoca l’attuale
territorio di Giulianova posto al di là della diocesi di Truento, che costituiva una barriera di
potere spirituale tra “Castrum Novum” e “Asculum”.
32 G. Panelli, Memorie degli uomini illustri, cit., pp. 195-197.
33 G. Henschenio - D. Papebrocchio - F. Bertio - C. Janningo, Acta Sanctorum Iunii, ex Latini
set Graecis aliarumque gentium antiquis Monumentis ..., tomo I, Anversa 1645, p. 619.
34 G. Nicolino, Historia della città di Chieti, cit., p. 103.
35 F. Ughelli, Italia Sacra, cit., p. 745.
36 O. Di Stanislao, Visite Pastorali a Giulianova, cit., p. 22.
37 S. Melchiorri, Memorie istorico-critiche, cit., p. 145. Diego Calcagni, sul culto di S. Flaviano
“Julia Vetus”, aggiunge: “(tradotto) Il suo corpo e le reliquie del corpo furono traslate da
Costantinopoli a Giulia Vecchia; a Giulia Nova il giorno 24 novembre e il 18 febbraio si
venerano con grande afflusso di popolo (“magno Populorum concursu venerantur”)” (Memorie
istoriche della città di Recanati nella Marca d’Ancona, Messina 1711, p. 122).
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38 Anche G. Cappelletti colloca S. Flaviano al secondo posto della “progressiva
amministrazione dei vescovi e degli arcivescovi” che governarono la diocesi di Chieti (Le chiese
d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, vol. XXI, Venezia, 1870, p. 96).
39 G. Nicolino, Historia della Città di Chieti, cit., pp. 103-104. Del vescovo e confessore
d’Abruzzo si interessò anche il contemporaneo Tillemont (vedi M. Montebello, L’antico culto,
cit., pp. 240-241).
40 F. Ughelli, Italia Sacra, cit., vol. VI., p. 668. L’autore, ignorando il Cathalogo de’ Vescovi
esistente nell’arcivescovado teatino, aggiunge: “(tradotto) non avendo trovato alcuna parola
su questo vescovo Flaviano in un elenco abbastanza antico di vescovi di Chieti, potrei credere
che abbiano preso un abbaglio coloro che ritengono Flaviano vescovo di Chieti” (ivi, p. 745).
L’espediente gli servì per accostare le reliquie del “vescovo confessore” di Chieti col patriarca di
Costantinopoli venerato a Giulianova, di cui non vi erano tradizioni in entrambe le città. A
Giulia, addirittura, una nuova corrente di pensiero identificava il corpo di S. Flaviano col
primigenio vescovo di Castro Novo (e non di Chieti).
41 Ivi, p. 745.
42 D. Stiernon, Flaviano, vescovo di Castro, santo, in Bibliotheca Sanctorum, cit., pp. 886-887.
L’autore (ed anche l’Ughelli) ritiene che “l’ipotesi di una diocesi esistente ab antiquo alla foce
del Tordino, poi trasferita a Teramo, è del tutto gratuita”. Di diverso avviso è lo studio di M.
Montebello, L’antico culto di S. Flaviano, cit., pp. 237-280.
43 F. Ughelli, Italia Sacra, cit., vol. IV, p. 745.
44 Ivi, p. 668.
45 L. Ercole, Dizionario topografico alfabetico portatile, in cui sono descritte tutte le città terre
e ville regie, e baronali, giurisdizioni, e Diocesi della Provincia di Teramo, Teramo, 1804, p. 51.
46 G. Ciaffardoni, Breve cenno di Castro e Giulia, Teramo, 1861, pp. 69-70; M. Montebello,
L’antico culto di S. Flaviano, cit., p. 239.
47 Difatti, nel privilegio del 26 settembre 1474 firmato dal vescovo aprutino Giovanni Antonio
Campano (1463-1478), è ricordata la fondazione della confraternita di Santa Maria della
Misericordia “in terra Iulie noviter constructa ab hominibus, et conterrigenis in dicta terra
commorantibus sit ad onorem Dei Onnipotentis, et sub vocabulo Sancte Marie della
Misericordia erecta et costituita, atque ordinata quidam Fraternitas, seu Societas” ecc.
(Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Serie Sante Visite, Settore II B, F. 3, doc. 4,
Visita Pastorale di mons. Giambattista Visconti a Giulianova, anno 1610, c. 86).
48 Per l’inquadramento storico documentato della nuova collegiata, vedi O. Di Stanislao, La
chiesa di San Flaviano a Giulianova dalle origini al restauro del 1838, in “Bullettino della
Deputazione Abruzzese di storia patria”, Annata CII (2011) [CXXIII dell’intera collezione], pp.
119-153.
49 M. Montebello, L’antico culto, cit., p. 241.
50 Vedi la trascrizione del Vogel in M. Montebello, L’antico culto, cit., pp. 241-243 e, per
l’analisi dell’autore, pp. 252-254.
51 D. Stiernon, Flaviano, patriarca di Costantinopoli, cit., p. 905 che, citando il Vogel e il
Benedettucci, afferma: “Secondo una iscrizione certamente non antica ed ora perduta (si
vedeva ancora sulla tomba di Flaviano a Giulianova al tempo del padre A. Appiani, morto nel
1700), opera probabilmente di un falsario del XV, “nell’anno 451, lì imperatrice Galla”
(Placidia?) avrebbe “condotto per mare il patriarca Flaviano, racchiuso in un’arca” fino
all’antica città di Castro, donde sarebbe stato trasferito 1004 anni dopo da Giulio di Acquaviva
nella sua città chiamata appunto Giulianova.
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52 Dalla descrizione risulta che la croce astile di S. Flaviano, completamente d’argento, aveva
il Cristo crocifisso su entrambi i lati, mentre la croce della beata vergine Maria della stessa
città, “que dicitur la Nunciata de terra vecchia” aveva “deo patre ab uno latere et cum crucifixo
argenteo ab alio latere cum pede de eris aurato” (Archivio Storico della Curia Vescovile di
Teramo, Serie Sante Visite, Settore II B, F O, doc. 1, mons. Chierigatto ed altri Vicari
Episcopali (1531-1554), c. 24, primo ottobre 1533, inventario “Ecclesie Sanctissime
Annunciate de Julia nova”).
53 Il reliquiario a forma di braccio, originariamente conservato in una cassa d’argento e tuttora
in ambiente protetto, è un lavoro del 1394 eseguito dell’orefice teramano Bartolomeo di Paolo
su commissione dell’arciprete di S. Flaviano don Antonio di Corropoli (A. Putaturo Murano,
Reliquiari nel Duomo di San Flaviano a Giulianova, in “Teramo e la valle del Tordino”,
Fondazione Tercas, 2006, p. 566).
54 Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Serie Sante Visite, Settore II B, F O, doc.
1, mons. Chierigatto ed altri Vicari Episcopali (1531-1554), cc. 23-23v, primo ottobre 1533,
inventario “Ecclesie Sancti Flaviani de Julia nova”.
55 O. Di Stanislao, Visite Pastorali a Giulianova, cit., pp. 33-34.
56 Per gli scudi quattrocenteschi a testa di cavallo, vedi gli esempi datati in L. Borgia, Gli
stemmi del Palazzo d’Arnolfo di San Giovanni Valdarno, Firenze, Cantini, 1986, pp. 35
(esemplare del 1475), 40 (del 1489), 63 (del 1423 e 1488), 69 (del 1441 e 1481), 81 (del
1453), 115 (del 1489), 119 (del 1491), 123 (del 1499), 141 (del 1511), 149 (del 1516), 157
(del 1523), ecc.
57 F. Campanile, Delle armi overo insegne dei nobili, terza edizione, Napoli, 1681, p. 38, che
attesta: “Sono Armi della Famiglia Acquaviva un Leone Azzurro in campo d’oro […]. Inquartano
i Signori Acquavivi le loro antiche Armi con quelle de’ Re Aragonesi, o vogliam dire della Casa
d’Aragona, che dominò nel Regno di Napoli, e ciò per privilegio del Re Ferdinando conceduto a
Giulio Antonio Duca d’Atri, e suoi descendenti nell’anno 1477”.
58 L’iconografia, con la variante della mano destra che regge il simbolo della città, fu invece
adottata dall’arciprete nei suggelli “della Venerabile Collegiata Chiesa di Santo Flaviano della
Terra di Giulia nova” apposti tra il XVII e XVIII secolo, recante l’iscrizione “S. FLAVIANI ORA
PRO NOBIS”. Per scorgere l’attributo della palma del martirio, che soppiantò il simbolo
topografico della città turrita, occorre attendere le sigillature del XX secolo fornite della dicitura
“ECCL[esie] COLL[egiate] ET PARROCH[ialis] S. FLAVIANI M[artiris] CIV[itate] IULIAE NOVAE”
(Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Atti delle Ordinazioni, III B 63 (1500-1600),
b. 82, Giulianova, pratiche dal 1586 al 1660, cartella “Egidio Piermarino, 1640-1641”,
certificazione battesimale del 13 dicembre 1638; b. 89, fasc. 2, cartella Giuseppe Castagna
(1758-1759), 31 marzo 1758; b. 92, fasc. 11, certificazione dell’economo curato di S.
Flaviano, 14 dicembre 1863). Ringrazio lo storico Ottavio di Stanislao per la segnalazione del
prezioso fondo archivistico ricco di valori araldici e sfragistici.
59 A. Putaturo Murano, Reliquiari nel Duomo di San Flaviano, cit., pp. 568 e 569; P. Rasicci,
Giulianova. Storia - Arte – Cultura - Economia - Turismo, Colonnella, 1997, p. 23.
60 Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Serie Sante Visite, Settore II B, F O, doc.
1, mons. Chierigatto ed altri Vicari Episcopali (1531-1554), c. 121, 3 ottobre 1546; O. Di
Stanislao, L’ubicazione dell’antico tempio di S. Flaviano cit., p. 105, che ringrazio per avermi
trasmesso il documento.
61 La tradizione, in questo caso, sembra avvalorare la tesi di un antico vescovado nell’area del
Tordino. Però l’Ughelli, due secoli dopo, raccolse la memoria dei naturali intorno ai ruderi di S.
Flaviano e alle rovine circostanti “fuit olim Sedem Episcopalem, sed nullum habent
fundamentum, ad probandum quod ibi fuerit episcopatus” (F. Ughelli, Italia Sacra cit., tomo
sesto, p. 668). Dobbiamo altresì aggiungere che le prepositure di una certa dignità ed
~ xviii ~
importanza primaria rispetto alle altre chiese del territorio, erano parimenti definite cattedrali:
nel 1624, ad esempio, il notaio Paris Sacripante rogava un atto “in domo ecclesie Catredali
Castri Monti Sancti Poli”, cioè nella canonica della prepositura o cattedrale dei Santi Maria e
Paolo di Monsampolo del Tronto, soggetta al vescovo di Teramo (Archivio di Stato di Ascoli
Piceno, Archivio Notarile di Ascoli, reg. 1925, atto del 21 agosto 1624).
62 O. Di Stanislao, Visite Pastorali a Giulianova, cit., p. 19; O. Di Stanislao, L’ubicazione, cit. p.
105.
63 L’atto notarile, con abbreviazioni e cassature iniziali di topografia urbana, fu redatto nel
palazzo comunale affacciato sulla piazza tra la via pubblica e la bottega di un certo Mauro:
“Actum in terra Iulie et proprie in domo magnifice Universitatis dicte terre iuxta plateam
publicam, apotecam Mauli, iuxta stratas publicas aliosque fines”, come si legge nel documento
del 7 giugno 1795 edito da S. Galantini, “Sempre affezionatissimi”. Gli Acquaviva d’Aragona, i
Cappuccini e la fondazione del convento di Giulianova, in “La Madonna dello Splendore”, 32,
2012, p. 11.
64 La descrizione circostanziata dei confini colloca la proprietà “in territorio dicte terre Julie in
contrata de Santo Rocco iuxta ab uno latere versus montem stratam realem, ab alio latere
versus marem stratam publicam, a pede bona ecclesie Sancti Flaviani, a capite res et bona
commende Santi Iohannis et alios fines“ (doc. S. Galantini, cit.).
65 Ivi.
66 Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Serie Sante Visite, Settore II B, F. 3, doc.
4, Visita Pastorale di mons. Giambattista Visconti a Giulianova, anno 1610, c. 108, visita a S.
Angelo.
67 S. Galantini, Sempre affezionatissimi, cit., p. 14.
68 Di cui si rinvia al citato studio di S. Galantini, pp. 6-17.
69 Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Serie Sante Visite, Settore II B, F. 3, doc.
4, Visita Pastorale di mons. Giambattista Visconti a Giulianova, anno 1610, cc. 107v, visita a S.
Maria di Loreto con la seguente specificazione: “questa è una chiesa fuori di Giulia Nova, et
proprio vicino il convento de Capuccini”.
70 Ivi, c. 108, visita alla cappella di S. Angelo in cui il vescovo Giambattista Visconti chiese al
rettore De Franchi Napolitano lumi sulle sorti del beneficio: “la chiesa di S. Angelo cioè
quest’istessa, era quella che ora possedono li Padri capuccini, dove sta fabricato il convento di
detti Padri, et li beni che furno di detta chiesa furno permutati, con li beni che furno donati per
fare detto convento, cioè dalla parte avanti al rimpetto di detto convento verso occidente, et
Monsignor Montesanto ordinò che il Rettore di detta chiesa pro tempore havesse il detto peso
d’una messa la settimana qua in questa chiesa, sino che ci fusse il loco per fare l’altare”.
71 Ivi, c. 94, visita ai ruderi di S. Flaviano.
72 A. Talamonti, Cronistoria dei Frati Minori della Provincia Lauretana delle Marche. Monografie
dei Conventi, vol. IV, Sassoferrato, 1945, pp. 30, 34, 35 e 372; L. Girolami, Uno scempio a
Monsampolo del Tronto, in “Flash”, il mensile di vita picena, n. 94, gennaio 1986, pp. 24-26.
73 L. Girolami, La Prepositura di Monsampolo: un millennio di riti, usi e tradizioni, Acquaviva
Picena, 2012, p. 42. Tale sigillo, oramai logoro e inservibile, nel 1807 veniva impiegato dal
padre guardiano per certificare le inumazioni nei sepolcri conventuali.
74 Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Serie Sante Visite, Settore II B, F. 3, doc.
4, Visita Pastorale di mons. Giambattista Visconti ai ruderi di S. Flaviano, anno 1610, cc. 94-
94v.
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75 Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Serie Sante Visite, Settore II B, F. 3, doc.
4, c. 98, Visita Pastorale di mons. Giambattista Visconti a Cologna.
76 G. Fabiani, Ascoli nel Quattrocento, vol. I, seconda edizione, Roma, 1975, p. 364. I notai,
nell’esercizio della loro attività, definivano questa gente oriunda “de Sclavonia”, “de partibus
Scalavonie”, “de Dalmatia”, “de Bosnia de Sclavonia”, ecc. (G. Gagliardi, Schiavoni e albanesi
ad Ascoli nel XV-XVI secolo, in Atti del “2° Seminario sulle Fonti per la Storia della Civiltà
Marinara Picena”, S. Benedetto del Tronto, 8/9 dicembre 2000, pp. 101-110).
77 N. Palma, Storia della città, cit., vol. IV, p. 178; O. Di Stanislao, Visite Pastorali a
Giulianova, cit., p. 19.
78 N. Palma, Storia della Città, cit., vol. I, p. 238.
79 Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Serie Sante Visite, Settore II B, F. 3, doc.
4, Visita Pastorale di mons. Giambattista Visconti ai ruderi di S. Flaviano di Giulianova, anno
1610, c. 94.
80 M. Montebello, L’antico culto, cit., p. 244.
81 F. Ughelli, Italia Sacra, cit., tomo VI, p. 745.
82 G. Panelli, Memorie degli uomini illustri, cit., p. 200.
83 Archivio Storico della Curia Vescovile di Teramo, Serie Sante Visite, Settore II B, F. 3, doc.
4, Visita Pastorale di mons. Giambattista Visconti ai ruderi di S. Flaviano di Giulianova, anno
1610, cc. 94-94v.
L’autore desidera ringraziare il prof. Michele Vello di Feltre (BL), Ottavio Di Stanislao e Cinzia
Falini di Giulianova per aver contribuito alla ricerca del materiale documentario esposto nel
presente contributo.