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12/6/2014 Gaetano Pesce: il mio album - Casa & Design http://design.repubblica.it/2014/06/12/gaetano-pesce-il-mio-album/#1 1/5 Residence Hotel Paradiso *** Family & Sport Hotel al mare tra le Marche e l’Abruzzo. Milano Design Award Cerca Compasso d’Oro: le foto dei vincitori Ospiti in arrivo: sos design RSS Dalla moka al frigo tricolore: il Mondiale è di casa «È l’acrobata che cammina sul filo sospeso fra arte e design. Si chiama Gaetano Pesce ed è tornato molto di moda. Senza fare nulla per esserlo. Semplicemente restando fedele a se stesso, come gli orologi rotti che due volte al giorno segnano l’ora esatta. Alla fine è stata la moda a passare dalle sue parti. Se volete la prova del nove, basterà aspettare la retrospettiva che dal 26 giugno gli dedica il Maxxi di Roma e che dice tutto già nel Gaetano Pesce: il mio album L'artista e designer si racconta in esclusiva per noi. In occasione della grande retrospettiva al Maxxi, dal 26 giugno FOTO 1 DI 11 1964: questa è una bellissima foto, scattata da uno degli architetti dello studio di Alvar Aalto. Milena ed io andammo, giovanissimi, da Aalto a Helsinki, che allora era il centro dell'architettura, a chiedergli se era disponibile per realizzare la seconda ala del museo degli Eremitani a Padova. Lui rispose di sì. Poi furono i politici che non capirono l'importanza di questa opportunità e non se ne fece niente. Peccato. 0 Tweet 1 Pinterest 1 Consiglia 0 HOME NOVITÀ COME FARE GALLERY ARGOMENTI STRUMENTI MERITALIA Cesare Designer Tobia Scarpa NETWORK SCELTI DA NOI CATALOGO GENERALE

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Dalla moka alfrigo tricolore: ilMondiale è dicasa

«È l’acrobata che cammina sul filo sospeso fra arte e design. Si

chiama Gaetano Pesce ed è tornato molto di moda. Senza fare

nulla per esserlo. Semplicemente restando fedele a se stesso,

come gli orologi rotti che due volte al giorno segnano l’ora

esatta. Alla fine è stata la moda a passare dalle sue parti. Se

volete la prova del nove, basterà aspettare la retrospettiva che

dal 26 giugno gli dedica il Maxxi di Roma e che dice tutto già nel

Gaetano Pesce: il mio albumL'artista e designer si racconta in esclusiva per noi. In occasione della grande

retrospettiva al Maxxi, dal 26 giugno

FOTO 1 DI 11

1964: questa è una bellissima foto, scattata da uno degli architetti dello studio di

Alvar Aalto. Milena ed io andammo, giovanissimi, da Aalto a Helsinki, che allora era

il centro dell'architettura, a chiedergli se era disponibile per realizzare la seconda

ala del museo degli Eremitani a Padova. Lui rispose di sì. Poi furono i politici che

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titolo: Il tempo della diversità.»

Che cosa significa?

«Veniamo da epoche di produzione seriale e standardizzazione.

La rivoluzione francese proclamava l’égalité, una bella speranza

ma anche, estremizzando, un pericolo. Pensi all’obbligo di

vestirsi tutti nello stesso modo come nella Cina di Mao. Oggi

vogliamo sentirci tutti diversi l’uno dall’altro, tutti unici. Adesso

anche l’industria vuole produrre pezzi personalizzati, unici. Sarò

felice quando ognuno di noi avrà un’auto fatta su misura e

potremo riconoscere gli amici semplicemente vedendo passare

la loro auto. La diversità è essenziale. Siamo diversi, ci parliamo,

comunichiamo e impariamo l’uno dall’altro».

I suoi lavori sono spesso pezzi unici o comunque diversi in

qualche particolare anche quando sono prodotti in una certa

quantità. Oggetti in cui la funzione non è mai il carattere

dominante; opere dove arte, protesta, provocazione, colore e

gioco si mescolano di continuo. Non sempre facili da capire.

«Forse. Ma ciò che conta è che ciascuno vi trovi qualcosa. Alla

fine degli anni Cinquanta sono stato tra i fondatori del gruppo N,

che faceva arte astratta. Ma poi mi sono accorto che

sbagliavamo. Nell’arte ci deve essere la realtà che conosciamo e

riconosciamo, con cose e persone. Dobbiamo molto al Futurismo

che ha portato la vita e il movimento nell’arte. Pensi che poi uno

come Duchamp ha portato la produzione seriale nelle opere

d’arte, Elsa Schiaparelli, che collaborava con Dalì, scelse la moda,

e Depero si metteva a fare manifesti pubblicitari… Mi piacciono

gli oggetti e i materiali vivi, che si muovono».

E infatti lei lavora molto con materiali che si modificano al

tatto, come la resina o il poliuretano. Con cui ha fatto Up5,

una poltrona che oggi è un’icona del design.

«Ma, soprattutto, resta valido il suo messaggio: guardandola è

facile riconoscere una donna accovacciata, con accanto Up6, un

pouf che le fa da palla al piede. Malgrado tante chiacchiere, le

donne continuano a subire ingiustizie e violenza. Alla fine del

percorso della mostra del Maxxi ci sarà una Up5 gigante, alta 7

metri in cui i visitatori potranno entrare. Ci saranno delle sbarre,

come in una prigione, e al di là della sbarre dei televisori

porranno delle domande sulla condizione femminile».

Questo è un suo argomento ricorrente. In mostra c’è anche la

Chador Lamp per Meritalia, in cui il paralume evoca appunto

un chador. Come mai?

«Da bambino ero un ribelle, mio padre, un ufficiale di marina, è

morto che ero molto piccolo, ma ho avuto la fortuna di crescere

circondato da donne, da cui ho avuto tantissimo. E mi chiedo

perché vogliamo continuare a farci del male impedendo alla

metà del genere umano di esprimersi e di offrire al mondo tutto

quello che potrebbe. E poi da tempo vado dicendo che questa

crisi non è solo economica, ma anche di idee. Forse il pensiero

maschile è ormai stanco e, monolitico come è, inadatto a

un’epoca complessa e “multitasking” con cui le donne mi

sembrano molto più in sintonia. Comunque opere di denuncia ne

ho fatte molte, non solo sulla questione femminile. un’altra

lampada, la Verbal Abuse, l’ho fatta pensando agli abusi che

alcuni insegnanti commettono con le parole nei confronti dei

loro studenti. Li opprimono, li scoraggiano, impediscono che

diano il meglio che hanno dentro. Anche perché capire le

potenzialità di un ragazzo non è facile. Lo sa che in via della

Spiga c’è una scuola dove è andato anche Albert Einstein? Un

giorno il padre è stato convocato da un insegnante che gli ha

detto: “Suo figlio per le scienze è proprio negato”».

Appartamenti

Lazio, Latina, Terracina

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Casorate Primo

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Per la casa, arredamento

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12/6/2014 Gaetano Pesce: il mio album - Casa & Design

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Porta due fedi, come mai?

«Per ricordare due donne che non si sono più. Una è la madre dei

miei figli più gandi, Francesca. L’altra è Milena Vettore, che ho

conosciuto ragazzo, e che è morta in un modo un po’ assurdo».

Vuole ricordarlo?

«Avevamo accettato l’invito di Cesare Cassina di andare a

trovarlo in fabbrica, dove aveva dei macchinari modernissimi,

per fare degli esperimenti creativi. Durante una di queste prove

di produzione, un ultrasuono prodotto da uno dei macchinari la

colpì al cervello procurandole un embolo. Morì dopo undici giorni

di coma».

A Venezia ha avuto insegnanti importanti e illustri.

«Sì, Ernesto Nathan Rogers, Carlo Scarpa, Franco Albini, Bruno

Zevi fino a un giovanissimo Mario Bellini che oggi è un grande

amico. Ma non tutti ugualmente bravi come docenti. Scarpa, per

esempio, forse perchè aveva girato poco, era un po’ provinciale,

viveva nel mito di Frank Lloyd Wright».

Lei invece ha girato molto, e vive a New York.

«La spinta ad andare all’estero me l’hanno data la morte di

Milena e le difficoltà a farsi strada nell’università italiana. Così

sono stato nel nord Europa, soprattutto a Helsinki, dove c’era

molto da imparare, poi a Parigi e alla fine a New York. Nei primi

anni Ottanta ho insegnato ad Harvard. Ma ho trovato che

l’università era affetta da troppo specialismo, invece

interdisciplinarietà ed eclettismo sono fondamentali, Come

mutevolezza e imprevedibilità».

Si spieghi meglio.

«Finita l’università mi sono reso conto che conoscevo il legno, la

pietra, il vetro, materiali del passato, ma nessuno mi aveva

parlato dei materiali del presente. Così ho scritto ad alcune

aziende chimiche, la Dunlop, la Rhone Poulen, la Bayer,

chiedendo di poter visitare i loro stabilimenti per imparare. Così

ho conosciuto schiume che si sviluppavano e crescevano in

pochi secondi, materiali dalle prestazioni e dai comportamenti

sorprendenti. Produrre con i materiali del proprio tempo è una

forma di sincerità verso se stessi e verso la società. magari con

uno sguardo sul futuro. Adesso, per dire, sto lavorando su

oggetti che nascono morbidi ma diventano duri quando vengono

riscaldati oltre una certa temperatura».

Nel 1969 con il poliuretano ha fatto Up5.

«Sì, perchè ho avuto la fortuna di incontrare uno come Cesare

Cassina, fondatore con Piero Busnelli della C&B (oggi B&B, ndr),

che mi ha dato la possibilità di provare senza l’assillo del

risultato. Mi aveva detto: io le do tre milioni al mese, lei deve

solo sperimentare, provare cose nuove. Un vero mecenate che

mi ha fatto anche un po’ da padre. I mecenati sono sempre

esistiti, anche Caravaggio ne aveva uno, che però era così tirchio

che lui lo aveva soprannominato Monsignor Insalata, perché con

il poco che gli passava non si poteva permettere di cibi costosi.

Cassina invece era un uomo straordinariamente generoso.

L’idea della Up5 mi era venuta sotto la doccia, con una spugna.

Mi ha ispirato per una poltrona che, come una spugna potesse

essere schiacciata e diventare piccolissima, per poi riprendere le

normali dimensioni. La Up5 all’inizio veniva imballata

sottovuoto e questo consentiva di risparmiare molto spazio. E

gonfiarla per farla tornare alle normali dimensioni era un po’ un

gioco».

L’eclettismo è un suo segno distintivo. Ci sono degli esempi in

mostra?

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12/6/2014 Gaetano Pesce: il mio album - Casa & Design

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«Certo. C’è un 33 giri con della musica elettronica, La canzone

dello yeti, prodotto dalla Rca nel 1959. C’è il film che ho fatto per

la nota mostra del 1972 New Domestic Landscape, al Moma: una

specie di ultima cena cannibale con l’ossessivo rumore di una

goccia che cade, o il modellino di una performance del 1967, con

un piano inclinato su cui c’era una persona seduta di spalle. Il

pubblico in sala piombava nel buio, si sentiva uno sparo e

quando si riaccendevano le luci la persona seduta sanguinava

copiosamente al punto che il sangue, cinquecento litri di liquido

rosso e fumante, arrivava fino al pubblico che non poteva uscire

finché gli inservienti non ripulivano; le scarpe personalizzabili

che ho fatto per il marchio brasiliano Melissa, Ci sono poi alcuni

lavori che testimoniano il tentativo di un’arte multisensoriale,

in cui sono coinvolti più sensi contemporaneamente».

Direi che come esempi possono bastare. Per tornare ai

materiali, certi suoi oggetti hanno forme bizzarre,

apparentemente casuali.

«In parte è vero. Intanto, io non sono uno di quelli che arrivano

con il loro disegnino e le idee perfettamente chiare su quello che

vogliono. Per me è fondamentale scambiare idee ed esperienze

sul campo, confrontandosi per esempio con gli artigiani e le

maestranze delle aziende. E poi mi piace il fattore sorpresa.

Inoltre tendo a pensare che sia doveroso usare materiali del

proprio tempo, ne faccio una questione di sincerità e onestà

espressiva. Devo dire che amo lavorare con materiali che si

muovono. Anche il legno si muove, ma lentamente, gli ci

vogliono mesi, anni. Voglio maetirali che reagiscono, e con la loro

reazione contribuiscono al risultato finale, anche in maniera

imprevedibile. Fra le ragioni per cui ritengo il futurismo un

movimento fondamentale, una vera preparazione al design, c’è

anche il fatto che ha portato nell’arte il movimento. Oltre

naturalmente a tutta la realtà la vita vera. L’arte deve partire

dal mondo sensibile, addirittura dalla quotidianità; è un

commento alla realtà».

Ha parlato del fattore sorpresa. Che cosa intende?

«Quando si inietta la schiuma in uno stampo si cerca di fare in

modo che contemporaneamente esca tutta l’aria. Al Pompidou,

per esempio, c’è una libreria che ho fatto partendo al principio

opposto: impedendo all’aria di uscire, si sono formate delle bolle

in maniera imprevedibile che hanno portato a un risultato unico.

Un’altra volta dovevo fare una scala e per un mio errore lo

stampo è esploso. Ne è venuta fuori una scala surreale che è

molto piaciuta anche al committente».

La sorpresa come frutto del caso.

«Il caso e le combinazioni. Che sono sempre in agguato nella

nostra esistenza. Giovanna Melandri, che ha fortemente voluto

questa mostra, mi diceva di essere nata a New York e nominava

la stessa via in cui abito. Poi mi ha mostrato la foto dell’edificio in

cui è nata. Beh, è casa mia».

Anche la sua mostra finisce con qualche piccola, anzi, grande

sorpresa, con le installazioni fatta per l’occasione…

«Alla fine del percorso espositivo avrei voluto uno spazio

mantenuto alla temperatura di un grado dove un blocco di

ghiaccio si scioglie molto lentamente e degli amplificatori

amplificano il rumore delle gocce che cadono con un ritmo

irregolare, opposto allo scorrere dei secondi sull’orologio, per

dare un’altra idea del tempo. Purtroppo ci sarà solo in forma

virtuale, per problemi tecnici e di sicurezza. All’esterno della

mostra invece c’è una Up5 gigante, in cui si entra e ci si trova

come in una prigione. Ci sono delle sbarre e al di là delle sbarre

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dei televisori che pongono domande sulla condizione femminile.

La questione della diseguaglianza dopo tanti anni, purtroppo,

resta ancora molto attuale».

Un articolo di scritto da Aurelio Magistà il 12 giugno 2014