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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO – BICOCCA Facoltà di Psicologia Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione SOCRATE, PLATONE, ARISTOTELE: tecniche formative a confronto Relatore: Prof. Silvio MORGANTI Tesi di Laurea di: Marica CASTIGLIONI Matricola 051453 Anno Accademico 2004 – 2005

SOCRATE, PLATONE, ARISTOTELE: tecniche formative a confronto · considerato la fonte più importante: infatti fu discepolo diretto di Socrate e con lui condivise sempre l’idea della

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO – BICOCCA

Facoltà di Psicologia

Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione

SOCRATE, PLATONE, ARISTOTELE: tecniche formative a confronto

Relatore: Prof. Silvio MORGANTI

Tesi di Laurea di: Marica CASTIGLIONI

Matricola 051453

Anno Accademico 2004 – 2005

Ringrazio per il suo prezioso supporto

il professor Silvio Morganti.

Valga una dedica del tutto personale

ai miei genitori e a Davide.

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SOMMARIO Presentazione …………………………………………………………………………………… 4 Parte Prima - Socrate, Platone, Aristotele: i tre maestri della formazione del passato 5 Introduzione……………………………………………………………………………………… 6 Capitolo 1 – Socrate…………………………………………………………………………… 9 1.1 La vita………………………………………………………………………………………… 9 1.2 Il dialogo socratico…………………………………………………………………………11 1.3 Il non-sapere…………………………………………………………………………………11 1.4 L’ironia, il dubbio………………………………………………………………………… 12 1.5 La maieutica…………………………………………………………………………………12 Capitolo 2 – Platone…………………………………………………………………………… 15 2.1 La vita……………………………………………………………………………………… 15 2.2 Il significato del mito……………………………………………………………………… 16 2.2.1 Il mito della caverna…………………………………………………………………… 16 2.3 La funzione del mito nell’educazione…………………………………………………… 18 2.4 Il metodo maieutico nell’interpretazione di Platone………………………………… 19 Capitolo 3 – Aristotele………………………………………………………………………… 20 3.1 La vita……………………………………………………………………………………… 20 3.2 Il Liceo……………………………………………………………………………………… 21 3.3 Insegnamento e conoscenza……………………………………………………………… 22 3.4 Gli scritti…………………………………………………………………………………… 22 3.4.1 La logica………………………………………………………………………………… 23 3.4.2 La dialettica……………………………………………………………………………… 23 3.4.3 Psicologia e gnoseologia……………………………………………………………… 23 3.4.4 L’etica………………………………………………………………………………………24 3.4.5 La politica………………………………………………………………………………… 25 Parte Seconda - La formazione ai giorni nostri: il gruppo……………………………… 26 Introduzione…………………………………………………………………………………… 27 Capitolo 1 - Il formatore……………………………………………………………………… 35 1.1 Chi è il formatore………………………………………………………………………… 35 1.2 Gli assiomi della comunicazione…………………………………………………………48 1.2.1 L’impossibilità di non-comunicare………………………………………………… 49 1.2.2 Livelli comunicativi di contenuto e di relazione……………………………………50 1.2.3 La punteggiatura della sequenza di eventi………………………………………… 51 1.2.4 Comunicazione numerica e analogica………………………………………………51 1.2.5 Interazione complementare e simmetrica………………………………………… 52

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Capitolo 2 - Il gruppo ………………………………………………………………………… 54 2.1 Introduzione …………………………………………………………………………………54 2.2 Training group………………………………………………………………………………56 2.3 Strumento di formazione …………………………………………………………………58 2.4 Cos’è il gruppo…………………………………………………………………………… 59 2.4.1 Questione n°1…………………………………………………………………………… 60 2.4.2 Questione n°2…………………………………………………………………………… 63 2.4.3 Questione n°3…………………………………………………………………………… 67 2.5 Il gruppo di lavoro………………………………………………………………………… 70 2.5.1 Obiettivo……………………………………………………………………………………71 2.5.2 Metodo…………………………………………………………………………………… 76 2.5.3 Ruoli……………………………………………………………………………………… 79 2.5.4 Leadership…………………………………………………………………………………83 2.5.5 Comunicazione……………………………………………………………………………86 2.5.6 Clima……………………………………………………………………………………… 89 2.5.7 Sviluppo……………………………………………………………………………………93 2.6 Ricerche sperimentali sui gruppi di lavoro…………………………………………… 95 2.6.1 Ricerca n°1……………………………………………………………………………… 97 2.6.2 Ricerca n°2………………………………………………………………………………100 2.6.3 Ricerca n°3………………………………………………………………………………104 Parte terza - Due epoche a confronto……………………………………………………… 106 Capitolo 1 – Riassumendo……………………………………………………………………107 Conclusioni…………………………………………………………………………………… 110 Bibliografia…………………………………………………………………………………… 112

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PRESENTAZIONE

L’uditore non deve apprendere pensieri

ma deve imparare a pensare; bisogna non portarlo, ma guidarlo, se si vuole che

in futuro sia in grado di camminare da se stesso. Kant1

L’intento di questa tesi è quello di sottolineare come le tecniche formative costruite e

utilizzate da tre grandi maestri quali Socrate, Platone e Aristotele siano ancora molto

attuali nonostante ci siano secoli e secoli di distanza tra la loro epoca e la nostra.

In particolare, si dimostrerà come queste tecniche vengono utilizzate nella formazione

di gruppo, descrivendo la figura del formatore da una parte, ossia le tecniche a sua

disposizione e ciò che egli deve conoscere per svolgere la sua attività, e dall’altra parte

il gruppo, ossia cos’è e cosa avviene al suo interno.

L’elaborato è stato diviso in tre parti.

Nella prima parte verranno analizzati i tre autori citati e le loro tecniche formative.

Nella seconda parte verrà illustrata brevemente l’evoluzione delle metodologie di

formazione, e si focalizzerà l’attenzione sui due “attori” principali del processo

formativo: il formatore e il gruppo.

Nella terza e ultima parte verrà presa in esame la connessione tra passato e presente

rispetto alle tecniche formative al servizio del formatore.

1 In “Prefazione” a Fare Filosofia (1998).

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PARTE PRIMA

Socrate, Platone, Aristotele

I tre maestri della formazione del passato

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INTRODUZIONE

Partendo dal presupposto che lo studio dei grandi pensatori del passato possa aiutare a

capire il presente, analizzeremo brevemente le tecniche di comunicazione innovative

proposte e utilizzate da tre grandi maestri: Socrate, Platone, Aristotele, e che, come

vedremo, vengono utilizzate ancora oggi.

Iniziamo il nostro percorso descrivendo brevemente gli eventi che caratterizzarono il

periodo nel quale i citati pionieri della formazione si sono trovati ad agire.

Ci troviamo nel V secolo a.C., e il movimento filosofico protagonista di questa epoca fu

la scuola sofistica. Mentre fino ad allora le scuole filosofiche indagavano i grandi

principi della natura, i sofisti accentrarono le loro discussioni sul problema dell’uomo

come cittadino, cioè dell’uomo che vive con altri uomini e tra essi deve far valere il

proprio acume critico, le proprie capacità, la propria convinzione morale. Gli allievi a

cui si rivolsero non costituirono, come nelle vecchie scuole filosofiche, ristrette cerchie

di studiosi che volevano essere “iniziati” alla scienza, ma gruppi di giovani che

sentivano il bisogno di istruirsi al fine di perfezionare le proprie capacità di cittadini. Il

nuovo tipo di cultura da essi affermato fu uno dei prodotti che meglio rappresentarono

le trasformazioni in atto nella società greca e, nel contempo, la causa di ulteriori sempre

più radicali trasformazioni; fu l’espressione di una profonda crisi, che si rifletté

nell’insegnamento sofistico e nei successivi.

Il nuovo tipo di insegnamento ebbe particolare successo in Atene perché seppe venire

incontro alle esigenze emerse dalla caduta dell’antico regime aristocratico. Vivere

attivamente in democrazia significava partecipare ad assemblee, prendervi la parola, far

valere la propria opinione in mezzo alle altre; e perciò saper pesare le varie accezioni e

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sfumature dei vocaboli, avere in mente le più belle espressioni dei poeti, riuscire a

comporre discorsi che accendevano l’attenzione; significava insomma, possedere quel

complesso di cognizioni grammaticali, lessicali, sintattiche, stilistiche, letterarie che

costituisce l’arte dell’eloquenza. I sofisti furono appunto maestri di eloquenza, maestri

di un’abilità indispensabile al ceto dirigente che apriva le vie al successo nella vita

politica.

Il successo dell’insegnamento sofista portò alla necessità di compiere un serio sforzo di

chiarificazione e semplificazione della loro scienza, di agganciamento di essa ad

applicazioni concrete, in modo da essere compresa dall’intera popolazione.

Per questo motivo l’attenzione dei sofisti si focalizzò principalmente sul discorso, con

l’intento di renderlo via via più efficiente e di impossessarsi sempre meglio della tecnica

che ne è alla base, della sua più interna struttura.

Sorse così la nuova disciplina che caratterizzerà più di ogni altra l’epoca sofistica: la

retorica.

Nonostante l’enorme successo, il termine “sofista” acquistò col tempo un significato

dispregiativo. Ciò fu dovuto soprattutto alla polemica condotta contro di essi da Platone

e Aristotele.

Nei suoi celebri dialoghi, Platone attribuì al personaggio di Socrate il delicato compito

di ribattere il sapere dei sofisti. Non c’è dubbio, però, sul fatto che il Socrate storico non

fu, nella polemica contro i sofisti, così aspro come ce lo dipinge Platone. Infatti i suoi

contemporanei lo dipinsero come maestro di arte sofistica.

Comunque non è questa la sede per affrontare un discorso così complesso.

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Quello che preme sottolineare ora è l’enorme importanza che personaggi quali Socrate,

Platone e Aristotele assunsero nel campo formativo, ognuno con una tecnica

comunicativa e formativa propria e che assumono ancora oggi.

Le loro tecniche formative, come vedremo più dettagliatamente nella seconda parte e

nella terza parte di questo elaborato, sono ancora attuali.

Ad esempio il dialogo socratico è la tecnica utilizzata dal formatore nella conduzione

del gruppo in aula; i miti platonici oggi sono rappresentati dalle favole piuttosto che

dagli esempi utilizzati dal formatore per far comprendere agli allievi un concetto; il

peritato, può essere rappresentato dagli attuali metodi di insegnamento all’aperto.

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CAPITOLO 1 - SOCRATE

1.1 - LA VITA

La personalità di Socrate segna un momento fondamentale, non solo della filosofia

greca, ma dell’intera storia intellettuale dell’Occidente. Infatti la vita e la parola di

quest’uomo hanno avuto un’eco profonda, che è stata paragonata talora a quella di un

Cristo o di un Buddha.

Nacque ad Atene nel 470 o 469 a.C. (e morì nel 399 a.C.) il padre, Sofronisco, era

scultore, la madre, Fenarete, levatrice. Compì in Atene la sua educazione giovanile. Di

condizioni economiche appena mediocri, esercitò dapprima la professione del padre; in

seguito riuscì ad organizzarsi una vita modesta senza però urgenti preoccupazioni di

guadagno. Si allontanò da Atene solo tre volte per compiere il suo dovere di soldato e

partecipò alle battaglie di Potidea, Delio e Anfiboli. Non amava viaggiare, ma amava

invece circondarsi di giovani intelligenti con i quali dibattere i problemi più vivi del

momento. La sua passione per la discussione giunse a fargli avvicinare persone di ogni

età, ceto e professione.

Socrate si tenne lontano dalla vita politica attiva. La sua vocazione, il compito al quale

si dedicò e si mantenne fedele fino all’ultimo, dichiarando al tribunale stesso che si

apprestava a condannarlo che non lo avrebbe in nessun caso tralasciato, fu la filosofia.

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Ma egli intese la ricerca filosofica come un esame incessante di se stesso e degli altri; a

questo esame dedicò l’intero suo tempo, senza nessun insegnamento regolare.

Eppure quest’uomo, che ha dedicato alla filosofia l’intera esistenza ed è morto per essa,

non ha scritto nulla. È questo indubbiamente il più gran paradosso della filosofia greca.

Se Socrate non scrisse nulla, fu perché ritenne che la ricerca filosofica, quale egli la

intendeva e praticava, non poteva essere condotta innanzi, o continuata dopo di lui, da

uno scritto. Il motivo probabile della mancata attività di Socrate scrittore può vedersi

citato nel Fedro (275) platonico, nelle parole che il re egiziano Thamus rivolge a Theuth

inventore della scrittura: <<Tu offri ai discenti l’apparenze, non la verità della

sapienza; perché quand’essi, mercè tua, avranno letto tante cose senza nessun

insegnamento, si crederanno in possesso di molte cognizioni, pur essendo

fondamentalmente rimasti ignoranti e saranno insopportabili agli altri perché avranno

non la sapienza, ma la presunzione della sapienza>>. Per Socrate, che intende il

filosofare come l’esame incessante di sé e degli altri, nessuno scritto può suscitare e

dirigere il filosofare. Lo scritto può comunicare una dottrina, non stimolare la ricerca.

Se Socrate rinunziò a scrivere, ciò fu quindi dovuto al suo atteggiamento filosofico e fa

parte essenziale di tale atteggiamento.

Il fatto che Socrate non abbia scritto nulla costituisce, tuttavia, una grossa difficoltà per

la ricostruzione del suo pensiero. Infatti le testimonianze indirette che possediamo sono

parecchie e non sempre tra loro coerenti.

Platone, nei suoi Dialoghi, ci offre la più suggestiva e amorosa presentazione del

maestro, da cui è scaturita l’immagine “tradizionale” di Socrate. Egli può essere

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considerato la fonte più importante: infatti fu discepolo diretto di Socrate e con lui

condivise sempre l’idea della filosofia come ricerca continua.

1.2 - IL DIALOGO SOCRATICO

Il metodo di indagine praticato da Socrate si basa sull’argomentazione discorsiva,

rendendola snella, penetrante, sincera. Il suo metodo è il dialogo: dialogo tra persone

sinceramente intese a sviscerare il problema in esame, a precisarne i termini, a chiarirne

gli equivoci, sempre disposte a mutare le conclusioni raggiunte qualora si scoprano

nuovi argomenti contro di esse. Questa provvisorietà delle conclusioni è il sintomo di

una apertura nuova, di una nuova sensibilità per i problemi, di un profondo amore della

coerenza, che è tutto caratteristico di Socrate.

1.3 - IL NON-SAPERE

Per Socrate la prima condizione della ricerca e del dialogo filosofico è la coscienza della

propria ignoranza. Quando Socrate conobbe la risposta dell’oracolo di Delfi, che lo

proclamava il più sapiente fra gli uomini, interpretò il responso divino come se esso

avesse voluto dire che sapiente è soltanto chi sa di non sapere. Solo così riuscì a

convincersi che la sacerdotessa aveva ragione. La formula socratica incoraggia la

ricerca sull’uomo, costituendosi come sua condizione preliminare, poiché solo chi sa di

non sapere cerca di sapere, mentre chi si crede già in possesso della verità non sente

l’impellente bisogno interiore di cercarla. Di conseguenza, la tesi socratica del non

sapere funziona come un invito o uno stimolo ad indagare, entro i limiti dell’esperienza,

i problemi fondamentali dell’uomo.

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1.4 - L’IRONIA, IL DUBBIO

Nell’esame cui Socrate sottopone gli altri, coinvolgendo anche se stesso, la sua prima

preoccupazione è di renderli consapevoli della loro ignoranza. A tale scopo egli si

avvale dell’ironia. L’ironia socratica è il gioco di parole o il variopinto teatro di

“finzioni” attraverso cui il filosofo, denudando le coscienze soddisfatte delle loro

formule cristallizzate e delle loro pseudo-certezze, giunge a mostrare il sostanziale non-

sapere in cui si trovano. L’ironia è dunque il metodo usato da Socrate per svelare

all’uomo la sua ignoranza e per gettarlo nel dubbio e nell’inquietudine, impegnandolo

nella ricerca. È una ironia che Socrate rivela anzitutto contro coloro che si credono

grandi maestri, non essendo consapevoli delle vere difficoltà delle questioni; ma non

risparmia nemmeno contro se stesso, per evitare il rischio di trasformare le proprie

concezioni in dogmi. Facendo ironicamente finta di non sapere, Socrate chiede al suo

interlocutore di renderlo edotto circa il settore di cui quest’ultimo è competente. Dopo

una teatrale adulazione del sapere del personaggio, Socrate comincia a martellarlo di

domande e ad avvolgerlo in una rete di quesiti. Utilizzando l’arma del dubbio e

manovrando l’abile tecnica della confutazione delle deboli e avventate risposte ottenute,

Socrate giunge a mostrare alla persona che gli sta di fronte l’inconsistenza delle sue

affermazioni, provocando in lui vergogna. Il filosofo può dunque raggiungere il suo

scopo principale: invogliare alla ricerca del vero.

1.5 - LA MAIEUTICA

Tutto ciò non significa che Socrate dopo aver fatto il vuoto nella mente del discepolo, si

proponga di riempirla immediatamente con una sua verità. Infatti egli non vuole

comunicare dall’esterno una propria dottrina, ma soltanto stimolare l’ascoltatore a

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ricercarne dall’interno una sua propria. Egli non ritiene di possedere alcuna verità da

riversare nei discepoli. La funzione della sua parola può soltanto essere quella di

risvegliare gli animi. Da ciò la celebre maieutica o arte di far partorire di cui parla

Platone, dicendo che Socrate aveva ereditato da sua madre la professione di ostetrico.

Come costei, essendo levatrice, aiutava le donne a partorire i bambini, così Socrate,

ostetrico di anime, aiuta gli intelletti a partorire il loro genuino punto di vista sulle cose.

La funzione della missione socratica, come le levatrici greche (che erano anziane e

quindi non più in grado di partorire), consisteva nell’aiutare i giovani, attraverso la

conversazione, a partorire conoscenze non viziate da inganni o pregiudizi. Scopo della

maieutica è esaminare e mettere alla prova i giovani, in modo da capire se le loro

intelligenze sono gravide di concetti validi e degni di essere sviluppati o, al contrario, di

falsità e illusioni da lasciar cadere. Il contesto educativo in cui deve avvenire tale ricerca

è il dialogo interpersonale, fatto di domande e risposte brevi, affidato alla amichevole

conversazione quotidiana. Socrate sosteneva che è proprio dal dialogo che viene a galla

la verità. Lo stile oratorio è scarno, secco e quasi familiare, ma modulato a seconda

dell’interlocutore. Socrate pone le domande e critica le risposte degli interlocutori. La

critica diventa stimolo per l’interlocutore a fornire una seconda risposta meglio

articolata: il gioco può andare avanti a lungo e spesso rimane aperto.

Pur essendo così aperto, l’insegnamento di Socrate non può dirsi privo di conclusione:

questa non sarà tuttavia una conclusione teorica (in quanto non consisterà nel possesso

di una verità assoluta), ma sarà una conclusione morale. Risvegliando ciò che vi è di più

intimo nelle coscienze, l’insegnamento avvia i giovani alla virtù: la virtù infatti è sapere,

cioè consapevolezza dei valori che l’uomo porta in sé, è superamento della propria

limitatezza con la comprensione di ciò che accomuna tutti gli individui.

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Egli rimane ancora oggi, per ciascuno di noi, maestro insuperato di chiarezza filosofica

e di profondo impegno culturale e morale. Infatti Socrate era convinto che il sapere deve

riuscire utile, interpretando questa utilità in senso concreto. Non si tratta di un sapere

utile alla vita pubblica, ma utile all’uomo in quanto essere ragionevole, e perciò utile a

tutte le attività umane, anche alle più modeste; qualsiasi attività umana infatti deve

trarre un immenso vantaggio dal diventare consapevole di se stesso.

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CAPITOLO 2 - PLATONE

2.1 - LA VITA

Platone nacque ad Atene nel 427 a.C. da nobile famiglia, che vantava una parentela con

Solone. Il contesto storico in cui visse e operò porta i tratti della decadenza e della crisi

politico-culturale.

Platone morì nel 347 a.C., all’età di 81 anni, senza vedere realizzato il suo sogno

dell’unione di tutta la Grecia nella forma di una federazione guidata da una polis

egemone ispirata ai principi dell’Accademia, la scuola che il filosofo aveva fondato nel

387 a.C. ad Atene, in un luogo sacro, ricco di monumenti e di tombe, nei pressi dei

giardini dedicati all’eroe Accademo. Essa fu uno dei massimi centri culturali

dell’antichità (venne chiusa da Giustiniano nel 529 d.C.).

Da giovanissimo compose poesie, che più tardi però volle distruggere. Iniziato alla

filosofia da Eraclito, passò poi nel circolo di Socrate e li rimase fino alla morte del

maestro. Egli ne fu, quindi, discepolo e visse in prima persona l’ingiusta condanna del

maestro (della quale si fa portavoce nell’Apologia): nasce proprio da questa esperienza

la filosofia platonica.

Perché Platone amasse tanto l’oralità e il dialogo è facile intuirlo: il dialogo presenta

parecchi vantaggi tra i quali la possibilità di interloquire e di modulare il discorso in

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base a chi ci si rivolge: un libro, invece, non consente un dibattito e può finire nelle

mani di persone che potrebbero fraintenderlo. Tuttavia egli stesso ha scritto molto. La

sua attività di scrittore inizia poco prima del 395 con l’Apologia di Socrate (una sorta di

manifesto con cui si volle riscattare la memoria del maestro ingiustamente condannato).

Scrisse poi diversi Dialoghi e alcune Lettere.

Platone è il primo filosofo di cui ci siano pervenuti tutti gli scritti. Ma che funzione

aveva la scrittura per Platone? Egli, pur prediligendo apertamente l’oralità, sente il

bisogno di scrivere, e lo fa mediante i miti. Può sembrare strano che un filosofo, che per

definizione è chi cerca di dare spiegazioni razionali e scientifiche, si serva del mito, che

non è nient’altro che una spiegazione fondata sulla tradizione e sulla religione: la verità

è che per Platone il mito è una cosa al di fuori del comune, che ha ben poco a che fare

con la tradizione. Egli sapeva bene che l’argomentazione razionale era migliore, ma

sapeva altrettanto bene che un mito, una favola o una metafora possono sortire ottimi

effetti: stimolano la fantasia, divertono e restano meglio impressi.

2.2 - IL SIGNIFICATO DEL MITO

2.2.1 - Il mito della caverna

Il racconto della caverna rappresenta uno dei miti più noti del settimo libro della

Repubblica, e del platonismo in generale.

Immaginiamo vi siano dei prigionieri incatenati in una caverna sotterranea e costretti a

guardare solo davanti a sé. Sul fondo della caverna si riflettono ombre, che sporgono al

di sopra di un muricciolo alle loro spalle e raffigurano tutti i generi di cose. Dietro il

muro si muovono, senza essere visti, i portatori degli oggetti, e più in là brilla un fuoco

che rende possibile il proiettarsi delle ombre sul fondo. I prigionieri scambiano quelle

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ombre per la sola realtà esistente. Ma se uno di essi riuscisse a liberarsi dalle catene,

voltandosi si accorgerebbe degli oggetti e capirebbe che essi, e non le ombre, sono la

realtà. Se egli riuscisse in seguito a risalire all’apertura della caverna scoprirebbe, con

ulteriore stupore, che la vera realtà non sono nemmeno gli oggetti, poiché questi ultimi

sono a loro volta imitazione di cose reali, nutrite e rese visibili dall’astro solare.

Dapprima, abbagliato da tanta luce, non riuscirà a distinguere bene gli oggetti e

cercherà di guardarli riflessi nelle acque. Solo in un secondo tempo li scruterà

direttamente. Ma, ancora incapace di volgere gli occhi verso il sole, guarderà le

costellazioni e il firmamento durante la notte. Dopo un po’ sarà finalmente in grado di

fissare il sole di giorno e di ammirare lo spettacolo scintillante delle cose reali.

Ovviamente, il prigioniero vorrebbe rimanersene sempre là, a godere, rapito, di quel

mondo di superiore bellezza, tanto che “preferirebbe soffrire tutto piuttosto che tornare

alla vita precedente”. Ma se egli, per far partecipi i suoi antichi compagni di ciò che ha

visto, tornasse nella caverna, i suoi occhi sarebbero offuscati dall’oscurità e non

saprebbero più discernere le ombre: perciò sarebbe deriso e spregiato dai compagni

che, accusandolo di avere gli occhi “guasti”, continuerebbero ad attribuire i massimi

onori a coloro che sanno più acutamente vedere le ombre della caverna. E alla fine,

infastiditi dal suo tentativo di scioglierli e dei portarli fuori della caverna, lo

ucciderebbero.

Secondo Platone fa parte dell’educazione del filosofo il ritorno alla caverna, che

consiste nella riconsiderazione e nella rivalutazione del mondo umano alla luce di ciò

che si è visto al di fuori di questo mondo. Ritornare alla caverna significa, per l’uomo,

porre ciò che ha visto a disposizione della comunità, rendersi conto egli stesso di quel

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mondo, che, per quanto inferiore, è il mondo umano, quindi il suo mondo, e obbedire al

vincolo di giustizia che lo lega all’umanità nella propria persona e in quella degli altri.

Dovrà dunque riabituarsi all’oscurità della caverna; e allora vedrà meglio dei compagni

che vi sono rimasti e riconoscerà la natura e i caratteri di ciascuna immagine per averne

visto il vero esemplare. Soltanto con il ritorno nella caverna, soltanto cimentandosi nel

mondo umano, l’uomo avrà compiuto la sua educazione e sarà veramente filosofo.

2.3 - LA FUNZIONE DEI MITI NELL’EDUCAZIONE DEI GIOVANI

Se da una parte, i miti vanno esclusi dal curricolo di studio dei futuri governanti,

dall’altra non si può fare a meno di divulgare quelle favole che presentano esempi

positivi e che incitano al bene e alla virtù. Infatti, il criterio che deve presiedere alla

selezione dei miti è quello della giustizia: i racconti devono contenere esempi positivi

che colpiscano l’immaginazione dei lettori al fine di predisporli a compiere azioni giuste

e a ripudiare l’ingiustizia.

Platone accoglie il mito come strumento per esprimere in modo piacevole alcune verità

che la ragione non sa cogliere con sufficiente chiarezza. La motivazione e il significato

dell’utilizzazione dei miti da parte di Platone costituiscono tuttora argomento di

dibattito tra gli studiosi; in linea generale, si può affermare che il mito, in Platone, ha

due significati fondamentali. Per una certa categoria di racconti, il mito è uno strumento

di cui il filosofo si serve per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva le proprie

dottrine all’interlocutore. Da questo punto di vista, esso è un mezzo didattico concepito

proprio per facilitare la comunicazione intellettuale e la comprensione del pensiero: si

tratta di miti inventati appositamente dallo stesso filosofo. Per un altro gruppo di

racconti, invece, il mito assume un senso più profondo: è il mezzo utilizzato dal filosofo

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per poter parlare di realtà che vanno al di là dei limiti cui l’indagine rigorosamente

razionale può spingersi. In tal senso, il mito risulta essere qualcosa che si inserisce nelle

lacune della ricerca filosofica, permettendole, in alcuni casi, di formulare una teoria

“verosimile” che, come tale, non è né una semplice favola né un’argomentazione

pienamente dimostrativa, bensì qualcosa che, pur essendo indimostrabile, si può

ragionevolmente ritenere vero.

2.4 - IL METODO MAIEUTICO NELL’INTERPRETAZIONE DI PLATONE

Il compito di fondamentale importanza che Platone attribuisce al filosofo è quello di

infranger le catene della conoscenza sensibile e portarci al mondo delle idee.

Questa radicale liberazione si potrà compiere con il metodo ereditato da Socrate, il

metodo maieutico, ma in una rivisitazione del tutto nuova.

Con esso, come sappiamo, Socrate mirava a risvegliare negli interlocutori la voce della

coscienza. Platone invece lo interpreta come rivolto a condurre il discepolo a trovare in

sé le verità razionali, contrapposte alle apparenze dei sensi.

Tipico è il celebre esempio riferito nel Menone. Viene interrogato un giovane schiavo,

totalmente privo di conoscenze geometriche; gli si pone un quesito ed egli, dopo

qualche errore iniziale, trova da sé la soluzione richiesta.

Si tratta di un’applicazione del metodo maieutico ad un campo di problemi che non fu

mai affrontato da Socrate.

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CAPITOLO 3 - ARISTOTELE

3.1 - LA VITA

Aristotele nacque a Stagira, una cittadina della penisola Calcifica nel nord della Grecia,

nel 384 a.C. Il padre Nicomaco era medico presso la corte del re dei macedoni Aminta,

ma morì quando Aristotele era ancora giovane. Egli fu quindi allevato da un parente più

anziano, di nome Pirosseno. Nel 367, all’età di 17 anni, andò ad Atene ed entrò nella

scuola di Platone. Vi rimase sino alla morte del maestro (348-347), cioè per 20 anni,

svolgendo un’attività di insegnamento. È probabile che Aristotele pensasse di assumere

la direzione della Scuola, che venne invece assunta da Speusippo, nipote di Platone e

successivamente da Senocrate. La sua formazione spirituale si compì dunque

interamente sotto l’influenza dell’insegnamento e della personalità di Platone.

Alla morte di Platone, Aristotele lasciò l’Accademia, alla quale più nulla oramai lo

legava, e si recò ad Asso, in Asia minore. In realtà se ne sarebbe già andato prima in

quanto aveva idee divergenti da quelle del maestro, ma si trattenne fino alla sua morte

per il rispetto che aveva nei confronti di Platone. Ad Asso, con altri due scolari di

Platone, ricostituì una piccola comunità platonica, dove probabilmente egli tenne per la

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prima volta un insegnamento autonomo, grazie ad Ermia, tiranno di Atarneo, che

nutriva simpatie per la filosofia platonica.

Nel 355, dopo 13 anni, Aristotele ritornò ad Atene. L’amicizia del potente re metteva a

sua disposizione mezzi di studio eccezionali, che facilitarono le ricerche che egli

condusse in tutti i campi del sapere. La scuola che Aristotele fondò, il Liceo,

comprendeva, oltre all’edificio e al giardino, la passeggiata o peripato da cui prese il

nome.

3.2 - IL LICEO

Il Liceo è considerato la prima scuola superiore della storia dell'umanità. Venne fondato

nel ginnasio dedicato ad Apollo Licio, chiamato per questo motivo Liceo o Peripato. Si

tramanda che Aristotele usasse insegnare passeggiando per trasmettere ai sui discepoli

l'amore per tutto ciò che è il mondo e per far loro assorbire l'essenza della natura. Da ciò

nacque il nome "peripatetica" per la scuola. Il Liceo teneva corsi regolari, mattina e

pomeriggio. Nei primi il livello delle lezioni era normale, negli altri, riservati a

pochissime persone, teneva lezioni dottissime ed esemplarmente preparate. Inoltre,

organizzava anche il lavoro di approfondimento degli allievi, facendo eseguire ricerche

di biologia, mineralogia, astronomia, matematica ed anatomia, e raccogliere testi di

scrittori, soprattutto filosofi e pensatori saggi. Non sappiamo invece quali fossero le

differenze di metodo rispetto all'Accademia di Platone, che lo stesso Aristotele aveva

frequentato per molti anni.

Nel 323 però, morto Alessandro in Oriente, prese il sopravvento ad Atene la corrente

avversaria capeggiata da Iperide. La tradizione vuole che Aristotele, accusato di

empietà, abbia allora pronunciato la celebre frase: “Non voglio che gli Ateniesi

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commettano un secondo crimine contro la filosofia”, alludendo alle vicende di Socrate.

Di fatti egli si allontanò da Atene e si ritirò a Calcide, sull’isola di Eubea.

Qui nel 322 morì all’età di 62 anni. E così il suo Liceo, diretto prima da Teofrasto e poi

da Stratone pian piano perse di importanza e non ebbe più alcun peso nella cultura del

mondo antico.

In ogni caso, alla morte di Aristotele, il suo Liceo aveva circa duemila allievi e poteva

essere considerato il primo esempio di istituto scientifico nel senso moderno del

termine. La sua grandiosa biblioteca costituì il modello per tutte le grandi biblioteche

dell’antichità.

3.3 - INSEGNAMENTO E CONOSCENZA

Aristotele riteneva che conoscenza e insegnamento fossero inseparabili. Pensava infatti

che non si potesse asserire di conoscere qualcosa se non si è capaci di trasmettere ad

altri tale conoscenza e considerava l’insegnamento la manifestazione specifica della

conoscenza.

3.4 - GLI SCRITTI

Inoltre, oggi disponiamo di un’enorme quantità di scritti aristotelici, riguardanti quasi

tutti i campi del sapere. Ricordiamo: scritti di logica; scritti filosofici; scritti di fisica, di

storia naturale, di matematica e di psicologia; scritti di etica, di politica, di economia e

di poetica. Vediamo alcuni concetti trattati in questi scritti da Aristotele.

22

3.4.1 - La logica

Nella classificazione aristotelica delle scienze non trova posto la logica, poiché essa ha

per oggetto la forma comune di tutte le scienze, cioè il procedimento dimostrativo, o le

varie modalità di ragionamento, di cui esse si avvalgono. Infatti il termine logica allude

allo studio del pensiero espresso nei lògoi o discorsi. Tuttavia, il termine non è

aristotelico; egli per designare la sua dottrina del ragionamento, ovvero del

“sillogismo”, usava piuttosto il termine analitica, alludendo con tale espressione, al

metodo di “risoluzione” del ragionamento nei suoi elementi costitutivi.

La teoria del sillogismo è esposta da Aristotele negli Analitici primi e negli Analitici

secondi.

3.4.2 - La dialettica

I Topici, invece, sono dedicati allo studio della dialettica. La dialettica si distingue dalla

scienza per la natura dei suoi principi: i principi della scienza sono necessari, cioè

assolutamente veri, i principi della dialettica sono probabili cioè sembrano accettabili a

tutti o ai più. Fondati su principi di questo genere sono i ragionamenti adoperati

nell’oratoria forense e politica, che Aristotele studia nella Retorica, oppure quelli che

sono fatti allo scopo di esercitarsi nell’arte di ragionare. A questo proposito Aristotele

distingue, classifica e valuta nel loro valore dimostrativo i luoghi logici, cioè gli schemi

argomentativi che sono usati nella discussione.

3.4.3 - Psicologia e gnoseologia

Per quanto riguarda la teoria della conoscenza, Aristotele comincia la sua analisi dalla

sensibilità, affermando che, oltre ai cinque sensi specifici, ognuno dei quali fornisce

23

particolari sensazioni, c’è un senso comune cui egli attribuisce una duplice funzione:

quella di costituire la coscienza della sensazione; quella di percepire le determinazioni

sensibili comuni a più sensi come il movimento. Dal senso si distingue

l’immaginazione, che è la facoltà di produrre, evocare o combinare immagini

indipendentemente dagli oggetti cui esse si riferiscono. Pur derivando geneticamente

dalla sensibilità, in quanto l’immagine è una sorta di traccia o memoria lasciata

nell’anima dalla sensazione, l’immaginazione si distingue strutturalmente da essa per la

sua autonomia nei confronti dagli oggetti esterni. Più semplicemente l’immagine

generale rappresenta una sorta di antecedente all’universale.

Tuttavia, l’universale sarebbe destinato a non venire mai alla luce, se non intervenisse

l’intelletto. Infatti, quest’ultimo, agendo sui dati offerti dalla sensibilità e

dall’immaginazione, riesce a costruire i concetti universali su cui si basa tutta la nostra

conoscenza.

3.4.4 - L’etica

Ogni azione e ogni scelta sono fatte in vista di un fine che appare buono e desiderabile:

il fine e il bene coincidono. I fini delle attività umane sono molteplici e alcuni di essi

sono desiderati soltanto in vista di fini superiori; ad esempio, la ricchezza, la buona

salute si desiderano per la soddisfazione e i piaceri che possono dare. Ma ci deve essere

un fine supremo, un fine che è desiderato per se stesso, e non già in quanto condizione o

mezzo di un fine ulteriore. Non c’è dubbio, secondo Aristotele, che questo fine ultimo

sia la felicità. La ricerca e la determinazione di esso è l’oggetto primo e fondamentale

della scienza politica, perché solo rispetto ad esso si può prescrivere ciò che gli uomini

nella loro vita associata e come esseri singoli debbono fare o apprendere.

24

Ognuno è felice in quanto fa bene l’opera sua. Ma il compito proprio dell’uomo in

quanto tale è la vita della ragione. L’uomo dunque sarà felice solo se vive secondo

ragione; e questa vita è la virtù. Ci sono due virtù fondamentali: la prima consiste

nell’esercizio stesso della ragione, quindi virtù intellettiva; l’altra consiste nel dominio

della ragione sugli impulsi sensibili, quindi virtù morale (etica).

3.4.5 - La politica

Secondo Aristotele, l’origine della vita associata è da ricercarsi nel fatto che l’individuo

non basta a se stesso; non solo nel senso che non può da solo provvedere ai suoi

bisogni, ma anche nel senso che non può da solo, cioè al di fuori della disciplina

imposta dalle leggi e dall’educazione, giungere alla virtù. Per conseguenza, lo stato è

una comunità che non ha in vista soltanto l’esistenza umana, ma l’esistenza

materialmente e spiritualmente felice.

25

PARTE SECONDA

La formazione ai giorni nostri: il gruppo

26

INTRODUZIONE

Sono dell’avviso che si stia assistendo in questi anni a un processo di profonda e

radicale trasformazione dei metodi formativi.

Ma in che cosa consiste esattamente questo cambiamento?

Chiunque abbia presente la situazione della formazione credo non fatichi molto a

ritrovare nel tema dei metodi un dibattito che può essere sintetizzato nelle tre

opposizioni seguenti:

a) accademismo vs. attivismo.

Accademismo: significa distanza (rilevante ed eccessiva) tra docente e allievo,

rigidità della relazione pedagogica, freddezza, impersonalità.

Attivismo: significa coinvolgimento diretto dell’allievo, riferimento al gruppo,

imparare facendo esercizi, sperimentando, risolvendo problemi, alternanza di

momenti di apprendimento, costruzione finalizzata e guidata

dell’apprendimento, discussione e confronto, vivacità, responsabilizzazione.

L’opposizione tra i due approcci si sintetizza così come differenza tra una

modalità di conseguimento del sapere vincolata all’ascolto e all’attenzione ed

una basata sul coinvolgimento in prima persona dell’allievo; tra un sapere per

trasmissione ed uno per elaborazione, per analisi, soluzione, discussione di

problemi.

b) contenuti vs. processi. Opposizione che contrappone chi punta su finalità di

apprendimento e traguardi educativi espressi dal conoscere contenuti propri del

cosiddetto know-how professionale (il “bagaglio” di sapere) e chi invece ritiene

di importanza prioritaria traguardi educativi connessi ad un sapere dei

comportamenti di lavoro e delle relazioni interpersonali, cioè quei processi

27

implicati nella relazione con gli altri (a fatti cioè di comunicazione, di comando

e guida dei collaboratori, di esercizio di autorità, di conflitto e collaborazione, di

decisione…).

Questa differenza diviene reale opposizione proprio rispetto al metodo, come

confronto tra una modalità di apprendimento basata prevalentemente sulla

trasmissione di sapere ed una centrata sull’elaborazione più personale.

c) strutturazione vs. destrutturazione. Viene a configurarsi una più precisa

opposizione di approcci didattici tra una formazione programmata nei dettagli ed

una come contenitore di eventi: tra una modalità educativa espressa nel far

compiere un certo percorso di apprendimento in modo logico e ordinato secondo

una sequenza prestabilita, rigorosamente strutturata, ed una che è pensata come

il percorso stesso, che si tratterà di costruire momento per momento e in quel

momento, dove ciò che è prestabilito non sono i temi (o i mezzi, i materiali, le

procedure nel dettaglio) ma solo ed esclusivamente i confini spazio-temporali

(l’aula fisicamente intesa o il gruppo e la durata degli incontri rispetto all’arco

temporale del seminario).

Queste tre opposizioni, pur se molto schematicamente ricostruite, esprimono in

definitiva caratteri e contenuti del dibattito e della riflessione sul metodo, oggetto di

questa tesi.

Guardando ai contributi in tema di metodologie didattiche, alcuni dei quali ormai

decisamente classici, le classificazioni tra metodi tendono a ricorrere pressoché

identiche. Si può anzi individuare una tipologia-standard nell’elenco che segue:

a) istruzione programmata: si concretizza in una sequenza di unità di

28

conoscenza in forma di altrettante domande per ciascuna delle quali è prevista

risposta e possibilità di controllo della stessa: la risposta esatta consente la

prosecuzione del percorso, la risposta errata esige riapprendimento.

b/c/d) lezione/lettura/discussione. Queste metodologie configurano di fatto la

tradizionale relazione di insegnamento: al soggetto è richiesta attenzione e ascolto.

La lezione istituisce massima dipendenza dell’allievo dal docente ma consente

altresì basso controllo da parte di quest’ultimo sull’apprendimento del primo: chi

potrebbe negare la possibilità sempre presente in questi casi per il soggetto di

evadere mentalmente, di interrompere l’ascolto indipendentemente dal fatto che il

docente continui secondo lo schema che si era prefissato?

A parziale integrazione della lezione, lettura e discussione consentono uno scambio

più attivo tra docenti e allievi: un confronto, un’interrogazione reciproca, una

verifica.

e/f) incident/caso. Un caso è una decisione da prendere, un intervento da proporre,

un cambiamento da adottare come soluzione della situazione-problema. Esso

costituisce il punto di passaggio dall’approccio accademico a quello cosiddetto

attivo: dove la relazione pedagogica tra docente e allievo privilegia la discussione ed

il confronto al semplice “ascolto”.

L’incident invece lo si potrebbe definire un “caso da completare”. Ai soggetti,

infatti, posti di fronte ad una situazione-problema delineata nei suoi tratti essenziali

è anzitutto richiesto di ricostruire il caso, di individuare il tipo di dati e informazioni

necessarie all’analisi e di proporre una soluzione “in ipotesi”.

g/h/i/l) simulazione/in-basket/role-play/esercitazione. Questi metodi segnalano il

definitivo passaggio da un approccio “accademico” ad un attivo. La logica condivisa

29

è quella dell’apprendimento per esercizio, sperimentazione, riproduzione (attiva) di

problemi e situazioni. Riferimento altrettanto condiviso è ad un modello di

apprendimento di tipo esperienziale che segue rigorosamente i passaggi di

sperimentazione analisi concettualizzazione.

In linea di principio si tratta dunque di metodi didattici che puntano su un più

elevato e diretto coinvolgimento dei soggetti nel processo di apprendimento, che

ridefiniscono il ruolo del docente in funzione di compiti e obiettivi di stimolazione,

guida, “conduzione” del processo stesso.

m) gruppo esperienziale. Il gruppo è momento e strumento, motivo e movente,

soggetto e oggetto di apprendimento. Il riferimento classico è al T-group come

scoperta originale e creativa delle possibilità e delle potenzialità formative del

gruppo (come vedremo oltre).

In generale, va precisato che il “Gruppo Esperienziale” si caratterizza come

modalità formativa anzitutto per il tipo di apprendimento sollecitato, in termini di

analisi e rielaborazione personale dell’esperienza del soggetto “nel gruppo” ed in

funzione di differenti livelli, da quello delle modalità di interazione o di

“rapportarsi” con gli altri a quello dei vissuti emotivi suscitati o emergenti. Si

caratterizza inoltre come progetto educativo in larga misura destrutturato, vincolato

a “ciò che succede qui e ora” ovvero alle verbalizzazioni dei soggetti, al materiale

da essi prodotto. Questo metodo si propone come soluzione formativa privilegiata a

fronte di obiettivi di crescita e sviluppo personale.

n/p/q) gruppo di studio/lavoro di progetto/autocaso. Proposito condiviso è quello di

favorire un apprendimento maggiormente centrato sul soggetto sia rispetto ai

processi attivati che ai contenuti del progetto educativo.

30

Il gruppo di studio si propone come lavoro di approfondimento di argomenti scelti

dai soggetti e per cui è richiesto di raccogliere materiali, di organizzarli, rielaborarli

e predisporre una “relazione” come sintesi del lavoro stesso.

Nel lavoro di progetto l’obiettivo del progetto educativo consiste essenzialmente

nella stesura di un caso, nella ricostruzione “dal vero” di tali situazioni-problema e

dove sono previsti momenti di lavoro “sul campo” per l’acquisizione di dati e

materiale informativo.

L’autocaso è un caso reale di uno dei partecipanti al progetto educativo ricostruito

interamente “in aula” secondo modalità di lavoro che richiedono l’acquisizione di

strumenti concettuali di analisi e classificazione dei dati e la loro applicazione ai

casi in oggetto.

Questo tipo di metodi si propone di sollecitare più elevati livelli di coinvolgimento

in funzione delle “vicinanza” e dell’interesse per i contenuti di lavoro e di attivare

percorsi di apprendimento complessi.

Metodi invece, recenti e/o impraticati sono:

a/b) outdoor development/outward bound. Si tratta di metodologie e progetti

educativi al tempo stesso, caratterizzati da:

- condizioni di apprendimento assolutamente estranee ai soggetti e

prevalentemente del tipo “territori naturali” più o meno difficili (rapide,

montagne, foreste, deserti e mari);

- compiti di apprendimento legati per lo più ad esercizi di esplorazione o

avventura o sopravvivenza nel territorio naturale scelto.

31

Le finalità dei metodi sono evidentemente quelle di proporre un percorso di

apprendimento dalla realtà ma in situazioni-limite che richiedono un completo

coinvolgimento del soggetto (anche fisico) e in condizioni in abituali assolutamente

non familiari tali da richiedere al soggetto stesso l’utilizzazione di tutte le sue

risorse, la ricerca e la sperimentazione attiva in assenza di punti di riferimento stabili

e rassicuranti. Tendono a proporsi come metodologie per lo sviluppo di specifiche

capacità manageriali. La logica seguita è: un gruppo solo di fronte a problemi

concreti può scoprire effettivamente che cosa è un gruppo.

c/d) learning community/autonomy laboratory. L’apprendimento non può che essere

favorito dalla costituzione spontanea di un gruppo di soggetti che reciprocamente si

scelgono, condividono gli stessi obiettivi di apprendimento e l’intenzione di

realizzare un progetto finalizzato. I due metodi sono assai simili, ma:

- learning community si propone come progetto educativo vincolato al principio

che ciascun soggetto è responsabile in prima persona dell’identificazione e

realizzazione dei propri obiettivi di apprendimento nonché della collaborazione

con altri per identificare e realizzare i loro obiettivi. Il concetto di “comunità di

apprendimento” fa riferimento piuttosto alla “rete” che collega i soggetti, non

già alla loro disposizione o collocazione fisica nella stessa stanza.

- Autonomy laboratory. Si lavora prevalentemente con materiali tradizionali

anche se l’obiettivo primario di “apprende ad apprendere” può richiedere mezzi

e risorse le più diverse. Qui il docente ha ruolo di coordinatore e al tempo stesso

di risorsa e “tramite” per l’acquisizione di altre risorse. Il progetto educativo non

tende pertanto a proporsi obiettivi di unidirezionalità e sequenzialità del

processo di apprendimento in conformità con la linearità di rapporto

32

docente allievo.

e/f) action learning/joint development activities. Per quanto riguarda il metodo AL

viene definito la vera innovazione nel campo dei metodi, la “svolta”. I tratti

essenziali sono:

- il tentativo di saldare il momento dell’apprendimento con quello dell’azione

ovvero della quotidiana attività di lavoro del soggetto, il tentativo di ristabilire

quella circolarità sempre cruciale tra

apprendere agire come identità inscindibile dei due momenti.

- L’ancoraggio del progetto educativo a problemi concreti di lavoro

- La sollecitazione di processi di apprendimento complessi finalizzati a

promuovere sapere non per semplice acquisizione dall’esterno bensì per

rielaborazione e scoperta originale. Quindi sviluppo e consapevolezza.

Per quanto riguarda il metodo denominato Joint Development Activities (JDA) esso

tende a coincidere in larga misura con AL.

Unica differenza, per quanto di rilievo, ha a che vedere con l’orientamento

eminentemente “propositivo” dei progetti JDA rispetto a quello tendenzialmente

“risolutivo” di AL: mentre questi ultimi vincolano il modello di apprendimento e la

struttura del progetto a problemi nel senso proprio delle “cose che non vanno o non

funzionano” e per le quali ricercare soluzione, i primi orientano piuttosto i soggetti

nel senso di ricercare nuove idee finalizzate anzitutto alla crescita allo sviluppo alla

realizzazione di nuove opportunità in riferimento al ruolo ricoperto dai soggetti

stessi.

g) metodi riflessivi. Si ritrovano in quest’area in particolare due tipi di metodologie:

33

- MdA riflessivo: obiettivo educativo perseguito è quello di favorire una

riflessione sulle modalità soggettive del conoscere e del costruire e la

conoscenza

- TM (Trascendental Meditation), Seminari anti-stress. Finalità di recupero

psico-fisico, di integrazione mente-corpo, di controllo dei processi mentali,

di espansione delle potenzialità di apprendimento. Più precisi riferimenti

hanno a che vedere, tra l’altro, con tecniche di rilassamento quali il

Training-Autogeno, tecniche di Bioenergetica, di Meditazione, di Sviluppo

della Creatività.

Con queste precisazioni si tratta di riprendere il percorso attinente la formazione di

gruppo, partendo dall’analisi del formatore e proseguendo con l’analisi del gruppo.

34

CAPITOLO 1 - IL FORMATORE

Analizziamo ora la figura del formatore che conduce un gruppo di formazione, quale

può essere l’aula, e tutto ciò che deve essere contenuto nel suo bagaglio di tecniche e

strategie comunicative, nonché di conoscenze relative al gruppo stesso. Ma andiamo

con ordine.

1.1 - CHI È IL FORMATORE

La professionalità richiesta al conduttore di gruppo non è più quella dello specialista in

gruppi che utilizza ripetutamente uno strumento in modo invariato rispetto ai

partecipanti, al contesto e agli obiettivi della formazione. Egli è piuttosto un

professionista che si colloca entro un contesto specifico e progetta situazioni di

formazione entro le quali utilizza anche situazioni di gruppo al fine di promuovere e

accompagnare processi di pensiero e di ricerca, sostenendo la fatica dei partecipanti di

pensarsi all’interno delle condizioni indagate. Questo almeno all’interno di un

orientamento formativo che enfatizzi l’importanza della capacità di pensare, di

apprendere più che l’acquisizione passiva di nozioni e abilità; lo sviluppo della

coscienza di sé e del mondo circostante più che la sottomissione a modelli del sapere e

dell’essere precodificati; la ricerca sui problemi più che la ripetizione.

35

Sul tema del formatore si riscontrano tre elementi di dibattito che sembra possibile

segnalare come:

a) l’identità difficile. Scontata la centralità riconosciuta alla figura di docente un

approfondimento delle caratteristiche professionali e di ruolo che vanno

riconosciute viene spesso risolto “per differenze”: ragionando cioè in funzione

del tentativo di chiarire ciò che non è il docente, anziché ciò che è. Di esse in

particolare, utilizzando la formula delle “opposizioni”, si segnalano le seguenti:

- docente vs. tutor: nel docente è riconosciuto l’insegnante, il “gestore

dell’aula”, il responsabile del processo di apprendimento e nel tutor il

coordinatore del corso. Il criterio utilizzato fa riferimento alle differenti

responsabilità formative.

- Docente vs. trainer: nel trainer si identifica un modo diverso di fare il

docente, conforme ad un approccio pedagogico orientato all’esperienza

anziché alla semplice trasmissione di conoscenze. La differenza di basa sul

ricorso ad un criterio di modello pedagogico.

- Docente vs. “gestore”: prevale l’impiego di un criterio di specializzazione

funzionale: al gestore vengono riconosciuti e affidati compiti di controllo del

progetto educativo anziché di insegnamento, compiti di programmazione dei

corsi, di individuazione dei partecipanti…

- Docente vs. consulente: prevale il rimando ad un più generale criterio di

tipologia di intervento: al consulente è riconosciuto un ambito di azione dai

più ampi confini e per cui formazione significa non più attività didattica ma

piuttosto strumento di intervento.

36

A questo punto sorge l’interrogativo: dove si colloca esattamente il formatore? A quale

delle figure indicate meglio corrisponde?

È proprio a questo specifico interrogativo che sembra non esservi risposta

soddisfacente. Per come ci è possibile rispondere, differenze di ruolo saranno semmai

riconducibili ad altrettante differenze di disegno e di modalità di realizzazione: ad

altrettanti tipi di progetto educativo.

Per cui, ci si può proporre di articolare figure differenti in conformità con differenti

modalità di presidiare e condurre attività formative.

b) i rischi del mestiere. Ossia problematiche del “fare formazione”: difficoltà,

ostacoli, ma anche regole e principi del mestiere.

Tre temi in particolare vanno evidenziati come altrettanti motivi di fondo per tali

riflessioni:

- tema della manipolazione: ha a che vedere con la preoccupazione che fare

formazione significhi in ogni caso “esercitare influenza”: che dunque

l’azione formativa possa tradursi non tanto nella sollecitazione, attivazione,

guida e orientamento di processi di apprendimento, ma piuttosto che ciò

possa essere “praticato” ricorrendo alla persuasione, al convincimento, alla

suggestione. Problema superabile in quanto forse la preoccupazione

maggiore è quella di non incidere affatto, invece che incidere troppo.

- Tema delle fantasie: i rischi del formatore sarebbero sostanzialmente

riconducibili all’incapacità di riconoscere la pluralità di figure che per il

tramite del formatore possono essere “evocate”. Quali ad esempio: terapeuta

37

(guarire), maieuta (dare alla luce, far emergere), analista (interpretare, far

prendere coscienza)…

- Tema della triangolarità: va riferita al tipo di relazione tra le parti che

l’attività formativa chiama in causa: il formatore, come colui che gestisce il

processo o guida l’azione di formazione; il committente, cioè colui che

promuove la richiesta di “intervento formativo”; l’utente, cioè coloro che

direttamente saranno coinvolti dalla formazione in quanto “partecipanti al

corso”.

Il rischio sarà quello dell’incertezza, della non-chiarezza, dell’insicurezza dei

ruoli rispettivi: ciò che costituisce indubbio elemento di complicazione per

l’azione del formatore stesso di saperlo riconoscere esplicitare e risolvere

efficacemente.

c) le cosiddette “expertises”. Un terzo tipo di elementi di riflessione e dibattito ha

infine a che vedere con la professionalità del formatore in termini di:

- competenze/esperienze richieste per un efficace adempimento del ruolo;

- regole e principi-guida per l’azione formativa;

- iter di preparazione e formazione personale.

In particolare si può parlare di:

- competenze: in tema di psicologia dell’apprendimento e strumenti didattici,

analisi organizzativa e dei compiti, programmazione della formazione e

analisi dei risultati;

- caratteristiche di fluidità, autentico interesse per la crescita degli altri,

capacità di affrontare emozioni anche intense, capacità di elaborare

atteggiamenti euforici che possono prodursi in situazioni di formazione;

38

- capacità di avere un buon rapporto con la committenza diretta e l’autorità,

saper diagnosticare i bisogni reali dei partecipanti e dell’organizzazione,

progettare iniziative formative, programmare le risorse utilizzabili, i tempi e

la sequenza dell’attività, realizzare il programma, verificare i risultati.

Il livello del lavoro formativo e dell’analisi è definito dagli obiettivi da realizzare, e

quindi dal tipo di contratto stabilito tra formatori e partecipanti.

L’obiettivo è l’elemento centrale al fine di individuare il livello di lavoro appropriato: la

centratura dipende a priori da ciò, e dalla capacità del formatore di cogliere quando e

come il “gruppo di lavoro” si stia trasformando verso forme di degenerazione antitetiche

all’obiettivo stesso. Il suo intervento sarà, in termini generali, orientato dagli stessi

motivi per i quali è opportuno usare questo strumento. Infatti il gruppo di formazione

risulta utile quando occorra effettivamente che le persone scambino ed elaborino

informazioni.

Esso implica una situazione esperienziale meno passiva di quanto non possano una

lezione o strumenti quale l’assemblea. Esso consente spazi perché tutti i partecipanti

possano prendere la parola in modo non solo impersonale ed esterno, raccontandosi

attraverso le proprie esperienze, attraverso un linguaggio costituito anche dalla

corporeità e dall’emotività.

Da questa premessa possiamo illustrare i vari livelli in cui si può strutturare il ruolo del

formatore in relazione ai partecipanti della formazione e all’obiettivo formativo.

39

V: AGEVOLATORE DELLO SVILUPPO PERSONALE

FIGURA 12.

Come da Figura 1:

LIVELLO-BASE: La figura-base che rappresenta il “grado zero” di articolazione del

modello identifica un situazione relazionale classica, cioè, il ruolo dell’esperto-

consulente è sostanzialmente quello di assumersi “per conto” del cliente il problema e di

fornire adeguata soluzione. A partire dalla figura-base è possibile costruire

progressivamente differenti ipotesi di relazione conformi al campo operativo della

formazione.

2 Figura tratta da Fare formazione (1985).

PROBLEMA (I: CONSULENTE)

III: ANIMATORE

TERRITORIO DEL “LAVORO”: STRUTTURA DELLE RELAZIONI

APPRENDIMENTO DEL PROCESSO DI APPRENDIMENTO

PROCESSO DI APPRENDIMENTO

PROCEDURA DI ANALISI/ SOLUZIONE DEL PROBLEMA

CAMPO DELLE RELAZIONI INTERPERSONALI

IV: “GESTORE” DEL PROCESSO DI APPRENDIMENTO

II: DOCENTE

40

LIVELLO I: Così, nel livello successivo si ritrova l’altrettanto classico schema

relazionale docente-allievo. L’obiettivo diviene l’occasione di apprendimento o meglio

il tramite per l’acquisizione da parte dell’allievo di quegli strumenti (conoscitivi e

tecnici) che gli consentiranno di far fronte al problema. Nella sfera d’azione dell’esperto

stesso come diretta responsabilità della sua risoluzione “al posto” del soggetto-utente, il

ruolo di docente rinvia piuttosto a responsabilità connesse con il processo di

trasmissione di sapere inerente al problema e la sua soluzione dal docente stesso al

soggetto-allievo. La trasformazione del ruolo di esperto in quello di docente corrisponde

pertanto al primo livello di articolazione del modello.

LIVELLO II: Il secondo livello di articolazione del modello prevede una nuova

trasformazione del ruolo di esperto: dove la sua azione si identifica nella trasmissione di

un tipo di sapere non specialistico né finalizzato direttamente all’oggetto-problema ma

piuttosto inerente la relazione tra soggetto e oggetto-problema. In questo caso è anzi la

relazione stessa ad essere oggetto-problema: quindi la promozione di un sapere “sul

soggetto”, anziché la trasmissione di un sapere di tipo tecnico-operativo. La figura

dell’animatore si sostituisce a quella del docente.

LIVELLO III: Diventa del tutto conseguente identificare nel processo di apprendimento

l’oggetto della relazione tra esperto ed utente ad un terzo livello di articolazione.

L’animatore si trasforma in “gestore” di un progetto educativo (coordinatore e guida al

tempo stesso): assume cioè ruolo di presidio delle modalità di svolgimento del progetto

nonché di risorsa a disposizione dell’utente. La sua azione non è focalizzata né in

termini trasmissione di un sapere specialistico né in termini di promozione di un “sapere

41

relazionale”. Si esprime nel controllo delle condizioni di svolgimento del progetto

educativo.

Più precisamente, il ruolo di “gestore” si risolve nel presidiare l’attivazione, nel

soggetto, di un processo di apprendimento per scoperta ovvero di ri-apprendimento

attraverso il recupero della concreta e personale esperienza di lavoro (un po’ come in

Platone la riscoperta della conoscenza del mondo delle idee).

LIVELLO IV: Qui si innesta l’ultimo livello di articolazione previsto dal modello: dove

alla figura del gestore si sostituisce quella dell’agevolatore dello sviluppo personale.

Con analoghe funzioni di guida e coordinatore da un lato e “risorsa a disposizione”

dall’altro il ruolo di agevolatore va pensato rispetto ad una relazione tra esperto ed

utente che ha per oggetto l’apprendimento delle modalità di apprendimento. Si può

parlare in quest’ultimo caso di focalizzazione dell’azione dell’esperto nella direzione di

un trasferimento all’utente del controllo del processo che governa l’apprendere

(consapevolezza e sviluppo): dunque di crescita globale del soggetto.

I. Consulente

II. Docente

III. Animatore

IV. ”Gestore”

V. Agevolatore

Area di controllo dell’esperto Area di controllo dell’utente

FIGURA 23.

3 Figura tratta da Fare formazione (1985).

42

Concludendo possiamo dire che i singoli metodi educativi risultano di fatto compatibili

con differenti ruoli di formatore, nel senso che ciascun metodo si presta ad essere

“modulato” proprio in funzione della possibilità di adottare più di un ruolo di formatore.

Questo modello ha evidenziato come il livello-base viene fatto coincidere con l’idea del

docente/insegnante ovvero con l’immagine classica dei processi di istruzione. L’ultimo

livello invece viene riferito alla figura del docente/guida e coordinatore di un progetto

educativo orientato all’apprendimento come momento di reale crescita e sviluppo dei

soggetti.

Alla luce delle considerazioni fatte si può vedere meglio quale sia la funzione di

conduzione del gruppo di formazione. Che cosa il formatore con la sua presenza può

tutelare quando l’orientamento professionale sia indirizzato a valorizzare la pratica dei

partecipanti e a favorire un lavoro di elaborazione della pratica in esperienza, cioè in

conoscenza che i partecipanti possono quindi trasferire ed utilizzare in contesti e in

situazioni generali e diverse da quelle ove la pratica si è generata.

Per concludere di seguito segnalerò i punti che per certi versi sono anche le aree di una

ricerca della quale già esistono i dati grezzi nella pratica, ma che sono ancora in gran

parte da sviluppare.

1) Il gruppo è uno strumento progettato, è un artificio pensato e proposto dal

formatore al fine di accompagnare un processo formativo orientato nella

prospettiva di una “formazione a pensare”. Nella fase preliminare di ogni lavoro

il gruppo quindi è elemento di un “settino” costruito in funzione di informazioni,

dati, elementi presenti nel contesto.

43

In questa fase di esplorazione, il formatore usa il suo potere, la sua arbitrarietà

per delineare e proporre gli elementi costitutivi del contesto entro il quale i

partecipanti individuati possono sospendere la loro attività quotidiana, per

avviare un processo di analisi dei problemi, di ricerca di senso circa la loro

prassi quotidiana.

2) Il problema della qualità e del tipo di relazione tra formatore e partecipanti

richiama il tema della “prudente astensione”.

È possibile comprendere come in ogni gruppo sia attivo un processo mentale

(prodotto delle attività mentali individuali) di “contagio” emotivo che avviene

per via di identificazioni proiettive. Tale contagio, che non è immediatamente

visibile poiché non passa direttamente attraverso la parola e il linguaggio

verbale; che di conseguenza non risulta da pensieri pensati, ma da pensieri

presenti nei fatti, determina la forma delle relazioni sociali caratteristica di un

raggruppamento di persone, influenza il clima di condivisione che si instaura tra

loro, e, poiché è processo che muove in modo potenzialmente indipendente

rispetto al compito e all’organizzazione razionale del lavoro, può ingabbiare i

singoli rispetto alle loro possibilità di pensiero, di relazione e di azione.

Ciò rende necessario il fatto che il formatore, che si inserisce nel campo

relazionale, porti attenzione al processo che si sta avviando non buttandosi nel

gioco con il rischio di trovarsi a sua volta, magari inconsapevolmente,

intrappolato dal contagio emotivo che tende a rinforzare il “noi”, lo spirito

“comunitario”, a sostenere “identità compatte”.

Il suo ruolo infatti è quello di un professionista che ha il compito di aiutare alla

presa di parola e alla comprensione di fenomeni e problemi in parte mascherati.

44

La possibilità che una parte del “sé” si implichi ed identifichi nella situazione, e

che una parte del “sé” riesca a riflettere sul senso di questa implicazione e sulle

emozioni che la situazione gli induce, richiede al formatore da un lato di

lavorare anche in interiorità tollerando una relativa solitudine rispetto al gruppo,

dall’altra di ricercare ogni volta il senso concreto di espressioni generali che lo

invitano a lavorare con “una certa neutralità” ed “una certa astensione”.

3) Una volta costituito il “set” di lavoro attraverso un contratto che ne definisce

anche i tempi, la durata, gli orari, gli impegni di partecipazione per le persone

coinvolte, le questioni di denaro, il lavoro della formazione inizia attorno

all’oggetto costituito dalle situazioni lavorative che i partecipanti portano come

problematiche.

La formazione si costituisce quindi come un luogo di sospensione temporanea

della prassi, al fine di avviare un percorso di ricerca, di arricchimento di senso

relativo alla prassi stessa, agli accadimenti problematici e alle condizioni

dell’esistenza lavorativa entro le quali il soggetto inscrive il suo agire

trasformativo della realtà e quindi anche di possibile prefigurazione dell’azione.

Da questo punto di vista potremmo dire, in prima istanza, che la modalità del

formatore di condurre il gruppo sarà quella di cooperare, con i singoli e con il

gruppo. Il conduttore di gruppo non può, come più sopra segnalato, svolgere la

sua funzione, in modo invariante da gruppo a gruppo, ed anzi la conoscenza e

del contesto in cui intervenire è condizione per poter lavorare al meglio.

4) Poiché il lavoro avviene in “gruppo”, credo sia solo ormai il caso di ricordare

come i partecipanti si muovano all’interno di un microcosmo sociale ove,

soprattutto nei momenti di difficoltà, le persone mostrano stili di relazione con

45

gli altri, con il gruppo, con l’autorità, con la formazione, con gli obiettivi,

corrispondenti agli stili ai quali esse sono state esposte lungo l’arco della loro

storia personale e lavorativa, e che hanno interiorizzato all’interno del processo

di costruzione della loro identità adulta.

Compito del formatore è quindi quello di osservare e cogliere le costellazioni

relazionali come si mostrano nel rapporto di gruppo e in rapporto con lui, con la

formazione, con i problemi analizzati e con gli obiettivi, decidendo di restituirli

in forma di interpretazioni al gruppo quando ritenga che ciò aiuti il gruppo e

sostenga il processo formativo: un processo che, come già abbiamo visto, è un

processo di pensiero che muove e oscilla tra contenuti e fenomeni mentali

arcaici e meno arcaici.

5) Se è chiaro che la proposta di lavoro è quella di cooperare lungo un percorso

progressivo di ricerca, risulta altrettanto evidente che la funzione di

interpretazione non è appannaggio del solo formatore.

Le sue restituzioni non potranno avere il formato di una certezza fotografica, ma

potranno aprire delle piste, offrire prospettive evolutive che aiutino a illuminare

meglio il percorso. Si tratta in altri termini di riformulare i contenuti del lavoro

non solo per spiegare, ma anche per porgere modi e prospettive secondo le quali

guardare i problemi.

Questa attenzione partecipante allo sviluppo delle situazioni risulta evidente

anche nelle decisioni del formatore sull’utilizzo, accanto al gruppo, di altri

strumenti di accompagnamento del lavoro formativo.

Una lezione, ad esempio, una esercitazione o un colloquio richiesto o accordato

ad un partecipante, non sono messi a programma casualmente o ritualmente.

46

Sono piuttosto azioni pensate dal formatore che ipotizza la loro utilità per

definire situazioni relazionali particolari ove è possibile che emergano nuovi

elementi e nuove informazioni utili al percorso di ricerca che può essere

intravisto come da nuove finestre aperte.

6) Le annotazioni precedenti possono dare del formatore l’immagine di una

persona straordinaria che sa giostrarsi tra tanti aspetti e tanti livelli della realtà.

In effetti si tratta di un professionista che deve avere una consistente

preparazione professionale e personale. Anche personale in quanto deve riuscire

a non intervenire in gruppo portando le espressioni delle sue proiezioni, dei suoi

fantasmi e desideri. Questa doppia preparazione, personale e professionale, gli è

necessaria per cogliere lo spessore anche emotivo delle situazioni in cui opera, e

per proporre elementi teorici pertinenti per la conoscenza e per l’azione.

Al formatore spetta di riprendere contatto in prima persona con la complessità della

natura pedagogica della sua azione: è questo il passaggio obbligato per avvicinarsi alle

grandi possibilità che questa attività offre in termini di molteplici opportunità di

conduzione di un progetto educativo.

Solo così la formazione potrà meglio misurare la sua efficacia: e solo così il formatore

le sue soddisfazioni.

47

1.2 - GLI ASSIOMI DELLA COMUNICAZIONE

Non si può non sottolineare il fatto che il formatore, oltre a dover portare con sé tutte le

conoscenze relative alle tecniche e strategie comunicative per la conduzione di un’aula,

deve possedere anche le nozioni-base della comunicazione stessa, intesa non solo nella

direzione formatore aula, ma anche aula formatore.

Per questo motivo nasce la pragmatica della comunicazione umana, la quale si propone

di studiare gli eventi comunicativi partendo dal presupposto che la comunicazione sia

un processo di interazione; c’è, quindi, la convinzione che la comunicazione non può

essere considerata un fenomeno unidirezionale, quanto piuttosto un processo interattivo

tra i diversi soggetti che vi sono implicati.

Questo determina lo spostamento dell’attenzione e della focalizzazione dalla monade

alla diade o al gruppo interagente nel processo comunicativo, prendendo in esame in

particolar modo la relazione con la consapevolezza che ogni soggetto, a sua volta, fa

parte di un sistema più ampio (famiglia, gruppo di amici, lavoro…).

In altri termini, non è più possibile ignorare che, all’interno di un rapporto

interpersonale, sia esso di coppia, di gruppo o di un’organizzazione, comunque si attua

un agire comunicativo che segna e determina la relazione stessa, in un verso o in un

altro.

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Enunciamo, quindi, alcune proprietà semplici della comunicazione che hanno

fondamentali implicazioni interpersonali, i cosiddetti assiomi della comunicazione che,

dalla pubblicazione del testo che li ha fatti conoscere al pubblico (1967)4, hanno

modificato in modo radicale ed irreversibile il percorso della psicologia contemporanea,

ma soprattutto dovrebbero rappresentare le regole base che ogni buon formatore, quindi

prima di tutto un buon comunicatore, deve portare con sé. Watzlawick5 si dirige verso

un approccio alla comunicazione umana che egli stesso definisce pragmatico, quindi

pratico, comportamentale e relazionale. Quello che noi possiamo sapere di una persona

lo deduciamo dal comportamento. La pragmatica della comunicazione umana, quindi

assume come principio l’osservazione dell’uomo mentre comunica.

1.2.1 - L’impossibilità di non-comunicare

Anzitutto, c’è una proprietà del comportamento che difficilmente potrebbe essere più

fondamentale e proprio perché è troppo ovvia viene spesso trascurata: il comportamento

non ha un suo opposto. In altre parole, non esiste un qualcosa che sia un non-

comportamento o, per dirla anche più semplicemente, non è possibile non avere un

comportamento. Ora, se si accetta che l’intero comportamento in una situazione di

interazione ha un valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che

4 “Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi.” Gli autori sono professori del famoso Istituto per le Ricerche Mentali di Palo Alto. In questo libro la comunicazione è considerata come un rapporto qualitativamente differente dalle proprietà degli individui che l’attuano. Dopo la definizione dei concetti generali gli autori descrivono le caratteristiche fondamentali della comunicazione umana e ne illustrano le manifestazioni e le potenziali deformazioni patologiche. Quindi attraverso un’analisi del “Chi ha paura di Virginia Wolf?” di Albee sono esemplificati gli aspetti sistematici dell’interazione umana che nascono dal modellamento di specifiche caratteristiche della comunicazione. 5 Paul Watzlawick (Villach, Austria, 25 luglio 1921) è uno psicologo austriaco, primo esponente della statunitense Scuola di Palo Alto, in California. Conseguì la laurea in Lingue Moderne e Filosofia all’Università di Venezia per poi proseguire gli studi presso l’Istituto Carl Gustav Jung di Psicologia analitica di Zurigo. Dopo un periodo di insegnamento di Psicoterapia all’Università di El Salvador, dal 1960 ha il ruolo di ricercatore associato al Mental Research Istitute di Palo Alto. Nel 1976 diventa professore associato all’Università di Stanford. È il massimo studioso della pragmatica della comunicazione umana e delle teorie del cambiamento e del costruttivismo radicale. Figura di spicco dell’approccio sistemico e della teoria breve, si deve alle sue opere la diffusione dell’approccio allo studio della comunicazione e dei problemi umani della Scuola di Palo Alto.

49

comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il

silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non

possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro. E

neppure possiamo dire che la comunicazione ha luogo soltanto quando è intenzionale,

conscia, o efficace, cioè quando si ha la comprensione reciproca. Che il messaggio

emesso eguagli o meno il messaggio ricevuto rientra in un ordine di analisi importante

anche se diverso.

1.2.2 - Livelli comunicativi di contenuto e di relazione

Un altro assioma riguarda il fatto che una comunicazione non soltanto trasmette

informazione, ma al tempo stesso impone un comportamento. Si è giunti a considerare

queste due operazioni come l’aspetto di “notizia” e di “comando” di ogni

comunicazione: l’aspetto di “notizia” di un messaggio trasmette informazione ed è

quindi sinonimo nella comunicazione umana del contenuto del messaggio. Questo può

riguardare qualunque cosa comunicabile senza tener conto se l’informazione particolare

sia vera o falsa, valida, non valida, in decidibile. L’aspetto di “comando”, d’altra parte,

si riferisce al tipo di messaggio che deve essere assunto e perciò, in definitiva, alla

relazione tra i comunicanti. Questa può essere definita in modo verbale, oppure non

verbale (ad esempio gridando, sorridendo, ecc.). Il contesto in cui ha luogo la

comunicazione servirà a chiarire ulteriormente la relazione.

È da sottolineare, comunque, che le relazioni soltanto di rado sono definite

deliberatamente o con piena consapevolezza. In realtà, sembra che quanto più una

relazione è spontanea e “sana”, tanto più l’aspetto relazionale della comunicazione

recede sullo sfondo. Viceversa, le relazioni “malate” sono caratterizzate da una lotta

50

costante per definire la natura della relazione, mentre l’aspetto di contenuto della

comunicazione diventa sempre meno importante.

1.2.3 - La punteggiatura della sequenza di eventi

C’è un’altra caratteristica fondamentale della comunicazione che vogliamo subito

esaminare: essa riguarda l’interazione – scambi di messaggi – tra comunicanti. Un

osservatore esterno può considerare una serie di comunicazioni come una sequenza

ininterrotta di scambi. Tuttavia, coloro che partecipano alla interazione introducono

sempre qualcosa di importante. Siano A e B due comunicanti: un dato elemento del

comportamento di A è uno stimolo in quanto è seguito da un elemento fornito da B e

questo da un altro elemento fornito da A. Ma in quanto l’elemento di A è inserito tra

due elementi forniti da B, questo costituisce una risposta. Analogamente, l’elemento di

A è un rinforzo in quanto segue un elemento fornito da B. Il succedersi degli scambi

costituisce una catena di anelli che si sovrappongono dove gli organismi coinvolti

punteggeranno la sequenza in modo che sembrerà che l’uno o l’altro abbia l’iniziativa o

si trovi in posizione di dipendenza.

La comunicazione viene considerata dunque in maniera circolare, dove non è possibile

stabilire cosa viene prima e cosa dopo. Ogni comportamento è, insieme, azione e

risposta ad un altro comportamento.

1.2.4 - Comunicazione numerica e analogica

Nella comunicazione umana si hanno due possibilità del tutto diverse di far riferimento

agli oggetti: o rappresentarli con una immagine (disegnandoli) oppure dar loro un nome.

È possibile sostituire con delle immagini i nomi di una frase scritta; se invece la frase

51

fosse orale, basterebbe indicare con un gesto i protagonisti della frase. Questi due modi

di comunicare - quello mediante l’immagine e quello mediante la parola – sono

rispettivamente equivalenti ai concetti di analogico e digitale (o numerico). Ogni volta

che si usa una parola per nominare una cosa è evidente che il rapporto tra il nome e la

cosa nominata è un rapporto stabilito arbitrariamente. È soltanto una convenzione

semantica e fuori di tale convenzione non esiste nessun’altra correlazione tra una parola

e la cosa che la parola rappresenta.

D’altra parte, nella comunicazione analogica, c’è qualcosa che è specificatamente

“simile alla cosa”, vale a dire ciò che si usa per esprimerla. Nella comunicazione

analogica si può far riferimento con maggior facilità alla cosa che si rappresenta. Di

conseguenza possiamo dire che la comunicazione analogica è praticamente ogni

comunicazione non verbale, non intendendo solo il movimento del corpo, ma anche le

posizioni del corpo, i gesti, l’espressione del viso, le inflessioni della voce, e ogni altra

espressione non verbale di cui l’organismo sia capace.

Sembra lecito dedurre, dunque, che l’aspetto di contenuto ha più probabilità di essere

trasmesso con un modulo numerico, mentre il modulo analogico avrà una netta

predominanza nella trasmissione dell’aspetto di relazione.

1.2.5 - Interazione complementare e simmetrica

Si tratta di due modelli che posso essere descritti parlando di relazione basata sulla

uguaglianza o sulla differenza. Nel primo caso si tenderà a rispecchiare il

comportamento dell’interlocutore (e quindi l’interazione sarà simmetrica). Nel secondo

caso invece il comportamento dell’interlocutore completa il proprio (l’interazione sarà

complementare). In quest’ultima si hanno due diverse posizioni. Un partner assume la

52

posizione che è stata descritta in vario modo come quella superiore, mentre l’altro tiene

la posizione corrispondente, cioè quella inferiore. In questo caso può essere il contesto

sociale e culturale a stabilire relazioni di questo tipo.

53

CAPITOLO 2 - IL GRUPPO

Avendo a che fare con il gruppo, il formatore deve mettere nel suo bagaglio anche tutte

le conoscenze che può apprendere su cos’è il gruppo, e su come lavorare con il gruppo

di formazione.

2.1 - INTRODUZIONE

Nella storia e nello studio dell’organizzazione sociale in senso lato, dello sforzo umano

a non lasciare il governo dei processi adattivi tra uomo e natura al solo codice genetico,

ci si è sempre occupati di gruppi di persone.

Considerazione analoga si può riferire anche al campo educativo ove gruppi di allievi o

di apprendisti, gruppi di reclute, discepoli o novizi, apprendevano per tradizione-

sottomissione a modelli del “sapere” e dell’”essere” precodificati.

Solo a partire però dalla fine della seconda guerra mondiale le scienze umane iniziano a

studiare in modo specifico le situazioni di gruppo.

L’avvio è segnato dall’attenzione portata ai piccoli gruppi di lavoro che si rivelano

come una realtà significativa capace di evidenziare i limiti di una concezione

meccanicistica dell’organizzazione, ove il comportamento lavorativo delle persone era

semplicemente concepito come variabile dipendente rispetto ai processi decisionali e

rispetto alle strutture organizzative razionalmente definite.

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La scoperta delle dimensioni microsociali, quale luogo concreto dell’esperienza

quotidiana (di sé e del mondo); quale luogo concreto di mediazione tra la dimensione

individuale e quella macrosociale isola, entro le scienze umane, un oggetto tutto da

scoprire. Una realtà in cui tra gli individui si sviluppano rapporti di reciproco

influenzamento, comportamenti ripetitivi poco spiegabili razionalmente, meccanismi di

difesa e rappresentazioni collettive spesso inconsapevoli ai membri stessi di un gruppo:

un microcosmo socio-organizzativo, cioè, particolarmente capace di mostrare la

complessità che caratterizza i comportamenti interpersonali e socio-lavorativi nei loro

più diversi aspetti.

Il fatto che tali comportamenti vengano agiti, e quindi possano anche essere letti,

attraverso la “lente del gruppo”, con particolare evidenza, ha ampliato l’orizzonte del

ricercatore all’utilizzo delle situazioni di gruppo negli ambiti formativi.

Inizialmente il gruppo di formazione fu inteso quale luogo di dimostrazione,

sperimentazione, apprendimento dei fenomeni relazionali e sociali. Più recentemente

questo orientamento, fortemente marcato dall’idea di “far fare, fare provare in pratica”,

si è combinato con una concezione della formazione che valorizza la possibilità di

apprendimento dall’esperienza, che privilegia lo sviluppo di capacità mentali di

apprendere più che l’acquisizione di nozioni o l’identificazione mimetica e proiettiva in

modelli comportamentali e che porta attenzione allo sviluppo complessivo dell’identità

adulta nel suo divenire tra consapevolezza di sé e del mondo circostante.

Nelle pagine seguenti mi propongo di sviluppare le matrici teoriche, gli orientamenti

teorico-tecnici che hanno contribuito, a mio avviso, a meglio individuare il “gruppo”

quale strumento di lavoro.

55

Più in particolare, lo scopo che mi prefiggo è quello di mostrare come il gruppo, oggetto

di indagine che merita attenzione per la sua influente presenza nella realtà sociale, possa

diventare strumento professionale di lavoro; come cioè sia possibile, a livello teorico-

tecnico, progettare e istituire gruppi al fine di intervenire nella realtà sociale, in modo

particolare tramite la formazione in aula.

Parlando però del gruppo come “strumento” è utile aver presente da subito che esso non

è uno strumento “forte”, capace di costringere i comportamenti individuali, di trascinarli

nella direzione giusta o desiderata. Il gruppo non può neppure essere concepito come

uno strumento “oggetto”, ben distinto da chi lo utilizza, che è possibile possedere in

esteriorità ed una volta per tutte come un “ferro del mestiere da avere nella propria

cassetta degli attrezzi”.

Vedremo che esso è uno strumento da trattare, anche concettualmente, con sensibilità e

delicatezza a fronte della sua natura di “strumento relazione” che acquista senso

specifico e concreto quando appositamente istituito a fini formativi, di intervento.

2.2 - TRAINING-GROUP

Il punto di partenza è la constatazione che il gruppo è fondamentale per l’esistenza e lo

sviluppo dell’individuo, esso rappresenta il luogo nel quale la persona si forma e

costituisce la sua identità, l’ambiente in cui trova dei termini di riferimento e di

confronto, sviluppa dei valori, mette a punto i propri livelli di aspirazione, sperimenta

limitazioni e resistenze che lo aiutano a determinare il suo spazio di vita. È importante

la realtà che il soggetto riesce a cogliere o quella alla quale si sente legato

affettivamente, dunque è soprattutto il gruppo di non grande dimensione, nel quale

l’interdipendenza è più stretta, che è significativo a questo riguardo. Altro punto

56

importante è la pressione che le consuetudini, la cultura, gli usi sociali, gli standard del

gruppo di appartenenza o di riferimento esercitano nei confronti di particolari

atteggiamenti o comportamenti. Le conseguenze sono che le resistenze o le spinte al

cambiamento non sono mai esclusivamente individuali, ma hanno delle forti

componenti sociali, microsociali e di gruppo che dipendono dal contesto nel quale le

persone sono inserite e del quale sentono di fare parte. Questa attenzione alle norme di

comportamento del gruppo rende ancora più difficile modificare le opinioni ed i

comportamenti. A causa di questi motivi, al fine di influenzare un atteggiamento

individuale e di rendere più duraturo un apprendimento, è più efficace operare in una

situazione di confronto di gruppo, questo perché si avrà un maggior coinvolgimento ed

una migliore chiarificazione delle proprie posizioni e sarà più semplice contattare gli

standard collettivi che si oppongono al mutamento. Per ottenere questi risultati è

necessario operare in fasi successive: 1) disgelo, cioè messa in discussione

dell’atteggiamento in uso e sua revisione critica; 2) trasformazione, cioè introduzione

dei nuovi comportamenti che ci si attende che il gruppo faccia propri e adotti; 3)

consolidamento, la fase più importante, per stabilizzare il mutamento e trasformarlo in

un nuovo standard.

Punto nodale di questo approccio è che il gruppo diventa uno strumento con il quale

sperimentare tecniche di conduzione e di relazione, al fine di verificarne l’efficacia; in

particolare il gruppo diventa uno strumento per favorire l’apprendimento delle persone

coinvolte e per far sì che questo apprendimento provochi, oltre che una

sensibilizzazione su un tema ed un’acquisizione di conoscenze, un vero e proprio

mutamento del comportamento che, in virtù della concezione delle organizzazioni come

totalità dinamiche, dovrebbe interessare non solo il singolo, ma anche trasferirsi al

57

contesto. La tecnica messa a punto per raggiungere il risultato nella maniera più efficace

è il T-group o Training-group, un seminario di durata consistente (anche da 9 a 15

giornate consecutive) e che con le sue caratteristiche mette bene in luce le premesse

teoriche cui questa tecnica si ispira e gli intenti ai quali si rivolge: nel T-group, infatti, la

regola fondamentale è che i partecipanti non si conoscano, che non provengano dalla

medesima organizzazione lavorativa e che la loro attenzione si concentri esclusivamente

su quanto avviene nel corso della loro interazione presente, sospendendo perciò ogni

attività rivolta ad un obiettivo ed ogni riferimento al proprio passato ed ai propri ruoli

sociali ed organizzativi. Queste premesse di strutturazione discendono da precisi

presupposti teorici: attraverso l’eliminazione di ogni riferimento istituzionale e di tutte

le stratificazioni gerarchiche si intende privare l’individuo di quelle che si ritengono le

difese che gli impedirebbero di cogliere il senso reale del proprio comportamento e di

quello altrui.

Le persone coinvolte in queste esperienze, non soltanto dovrebbero apprendere il modo

in cui i gruppi funzionano, ma dovrebbero anche trasferire le loro acquisizioni al

contesto lavorativo o di gruppo del quale fanno parte quotidianamente.

2.3 - STRUMENTO DI FORMAZIONE

L’ampio utilizzo del gruppo quale strumento di formazione degli adulti oggi (un gruppo

da 8 a 15 persone condotto da un animatore che in modo continuativo partecipa al

lavoro del gruppo stesso) rende necessarie alcune riflessioni critiche emerse proprio

dall’analisi delle esperienze citate e dei loro risultati.

La tecnica del T-group si rivela nella sua artificiosità, le esperienze cui conduce sono

gratificanti e liberatorie, quasi catartiche, ma, pure nella loro positività, rimangono

58

staccate dalla realtà lavorativa e di interazione quotidiana, nella quale i rapporti

gerarchici e le variabili storiche rimangono di fondamentale importanza e, non potendo

essere elusi, ostacolano il trasferimento di ciò che si è imparato nel corso del seminario.

In definitiva, la regola della riflessione ristretta all’interazione presente mostra i suoi

limiti, soprattutto persistendo l’identificazione tra gruppo reale di lavoro e gruppo di

formazione, cioè presumendo che essi restino due realtà assimilabili ed intercambiabili.

Questa crisi conduce a mantenere valide le premesse teoriche poste dalla teoria e

ritenere che sia la tecnica a dover essere mutata adeguandola. Di conseguenza, i

problemi stessi intorno ai quali si ricerca si possono analizzare ed affrontare in tutta la

loro densità quanto più il gruppo di formazione è collocato in un definito contesto.

Il gruppo di formazione può allora costituirsi quale luogo dove, sospendendo il fluire

dell’azione quotidiana, è possibile interrogarsi su queste azioni e ricercarne il senso.

Nella teoria del T-group il seminario risultava un contenitore, sempre uguale a se stesso,

dove i partecipanti potevano vivere l’esperienza di un gruppo dalla sua costituzione,

parteciparvi e da essa apprendere. Di qui, dall’idea che sperimentare il lavoro di gruppo

nelle situazioni formative fosse sempre utile, dall’idea quindi che lo strumento si

dovesse adattare agli obiettivi dei processi formativi, nasce l’equivoco per cui oggi i

formatori spesso pensano di parlare sempre dello stesso strumento anche se all’interno

di orientamenti formativi molto diversi tra loro.

2.4 - COS’È IL GRUPPO

Un gruppo può essere identificato riferendosi a tre questioni nodali sul gruppo: la

natura, i confini e gli eventi del gruppo.

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2.4.1 - Questione n°1

Per la prima questione è stata proposta una definizione che distinguesse due soggetti

sociali gruppo e gruppo di lavoro, apparentemente simili ma molto differenziati sul

piano sia della struttura che della dinamica.

Definendo come nucleo fondamentale del dibattito l’ “oggetto” gruppo, l’oggetto del

ragionamento non si identifica nell’individuo in sé e neppure nel sociale indefinito, ma

si riferisce a là dove è il luogo dell’interazione.

Si identificano dunque due poli: la mente, come luogo organizzato di processi cognitivi

e affettivi, in relazione con il sociale, che si esprime in organizzazioni, istituzioni,

valori, ideologie, culture.

Per gli obiettivi del nostro lavoro è così necessario postulare subito le tre accezioni:

- gruppo

- gruppo di lavoro

- lavoro di gruppo

IL GRUPPO. Si identifica il gruppo come una pluralità, in interazione, con un valore di

legame.

Il gruppo è un insieme numericamente ridotto di persone. Ciò permette l’identificazione

del soggetto sociale e garantisce i livelli di interazione e legame. Un numero maggiore o

minore di individui definisce così soggetti diversi.

Per quanto riguarda l’aspetto “interazione”, si identificano tre livelli: il primo è quello

dell’influenzamento reciproco degli individui; il secondo è il fare insieme; il terzo è

quello dell’agire contingente.

60

Si crea un legame in quanto il vincolo che si instaura tra gli individui che compongono

un gruppo definisce i sentimenti di appartenenza che si sviluppano tra chi si trova a

condividere un campo di interazioni. Questo legame è contrassegnato, da una parte,

dalla percezione di appartenere a un insieme, dal provare sentimenti di tipo affiliativi

verso gli altri membri ma, soprattutto, verso un soggetto globale che non è identificabile

con uno o più membri. D’altra parte è caratterizzato dall’attrazione e contrapposizione

tra gli individui, che gli forniscono una particolare coloritura e una resistenza nel tempo.

Il legame conduce il gruppo ad assumere quella configurazione relazionale e affettiva

che ne segna l’interazione.

IL GRUPPO DI LAVORO. Mentre un gruppo è una pluralità in interazione, un gruppo

di lavoro è sì una pluralità, ma in integrazione; una pluralità che, tendendo

progressivamente all’integrazione dei suoi legami psicologici, all’armonizzazione delle

uguaglianze e differenze che si manifestano nel collettivo, attraverso la sua dinamica si

può identificare come un gruppo di lavoro. L’interazione produce un essere dentro alla

situazione del gruppo, un percepire gli altri come amici o come rivali, un avere

coscienza dell’esistenza di un insieme. L’interazione, tuttavia, non è sufficiente a

definire un gruppo di lavoro: nella costruzione di un gruppo di lavoro il passaggio

successivo all’interazione è l’interdipendenza, cioè l’acquisizione della consapevolezza

dei membri di dipendere gli uni dagli altri, con il relativo sviluppo della

rappresentazione della rete di relazione con gli altri, e di un’unità basata sulla

differenza. Nell’interdipendenza comincia così a configurarsi il gruppo di lavoro, con

tutte le sue caratteristiche distintive.

61

In questa fase si sviluppano le molteplici facce della dipendenza: dipendenza dell’uno

dall’altro, dipendenza di tutti dal gruppo e dipendenza del gruppo dall’ambiente.

L’interazione, dunque, si fonda sulla percezione della presenza, mentre

l’interdipendenza si fonda sulla percezione della necessità reciproca.

L’interdipendenza come necessità di legame e opportunità di scambio è il tramite

vincolante per la maturazione del gruppo di lavoro verso lo stato dell’integrazione,

come equilibrio tra la soddisfazione dei bisogni individuali e dei bisogni del gruppo, la

formazione di un soggetto sociale autonomo che si attribuisce significato e che

restituisce energia e risultati all’ambiente nel quale si è costituito: il gruppo di lavoro è,

a questo punto, un soggetto che ha la possibilità reale di emergere e di esprimere nei

risultati la propria esistenza.

L’integrazione sviluppa la collaborazione, che definisce un’area di lavoro comune, di

partecipazione attiva di tutti i membri. La collaborazione si fonda su relazioni di fiducia

tra i membri, sulla negoziazione continua di obiettivi, metodi, ruoli, leadership, e sulla

condivisione della decisioni e degli esiti del lavoro.

Fiducia è la convinzione che nel gruppo di lavoro non sono in conflitto né le idee né

tantomeno gli individui, ma sono in competizione diverse ipotesi in rapporto con un

obiettivo definito congiuntamente, che può essere raggiunto solo attraverso il concorso

di tutti.

La negoziazione è il processo centrale per la collaborazione: si traduce nell’identificare

il proprio punto di vista, nel confrontarlo con gli altri, considerando che quello del

gruppo di lavoro deve essere costruito, e nel coniugare il proprio punto di vista con

quello degli altri.

62

La condivisione è l’esito della negoziazione ed è la condizione che vede l’intero gruppo

impegnato per rendere operative le decisioni prese e per raggiungere gli obiettivi.

IL LAVORO DI GRUPPO. È la scena dell’organizzazione a rappresentare il campo di

azione del gruppo di lavoro, nel senso che la persistenza della dimensione di gruppo pur

all’interno di un contesto organizzativo dichiarato non è di per sé sufficiente a

soddisfare quella potenziale reciprocità dello scambio che è avvicinabile solo dove sia

stata compiutamente realizzata la sua maturazione in gruppo di lavoro. Il lavoro di

gruppo è allora espressione dell’azione complessa propria del gruppo di lavoro.

Il lavoro di gruppo comprende la pianificazione del compito, lo svolgimento del

compito, la gestione delle relazioni: non è la semplice esecuzione del mandato

organizzativo.

Il significato di un lavoro svolto in gruppo anziché individualmente è racchiuso

nell’aspettativa di ottenere un prodotto sostanzialmente diverso da quello che ciascuno

può produrre: ma questa aspettativa, che potrà anche andare delusa dove è presente un

gruppo, rappresenta in realtà per un gruppo di lavoro la sua giustificazione

organizzativa, la garanzia della sua permanenza.

2.4.2 - Questione n°2

I termini identificati per configurare la seconda questione sono relativi agli aspetti di

legame, che richiamano il tema dei bisogni: delle individualità che si incontrano e si

confrontano nel gruppo su un piano, prima di tutto, di relazione emotiva e affettiva.

Quindi la questione è inerente al rapporto tra l’individuo e il gruppo, riassunto nel tema

dei bisogni, appunto, nodo cruciale che necessita di un’articolazione ed una lettura a tre

63

differenti livelli: individuo, gruppo e leadership. Il punto di partenza del ragionamento è

il bisogno dei singoli membri e la loro possibilità di soddisfazione attraverso

l’interazione, e nella relazione con altre persone, dentro i gruppi.

Non c’è dubbio infatti che la partecipazione a un gruppo può permettere all’individuo di

soddisfare certi bisogni che esigono la presenza di altre persone. In questa prospettiva, il

gruppo appare allora mezzo piuttosto che fine. Tra questi bisogni si possono ricercare il

bisogno di esercitare potere o di subirlo; le pulsioni aggressive; il desiderio di prestigio

o più semplicemente il desiderio di essere considerato; infine quelli che si possono

chiamare bisogni “catartici”, che vanno dal semplice desiderio di esprimere i propri

sentimenti davanti agli altri, a quello di “raccontarsi”, o a certe forme accentuate di

esibizionismo.

Gli individui si identificano differenziando le loro regioni interne e differenziandosi

dall’ambiente esterno ma, nello stesso tempo, si adattano a esso, conformandosi alla

cultura e al sociale. Il gruppo permette di identificarsi per differenza e per uguaglianza

definendo lo spazio del sé e lo spazio altro da sé.

L’alternarsi del bisogno di esprimersi (essere autonomi, differenziarsi, creare) e di

reprimersi (adattarsi, dipendere, essere parte) tratteggiano la dimensione stessa della

pluralità e dell’appartenenza.

È dunque cruciale la capacità di soddisfare bisogni che il singolo attribuisce al gruppo.

Il legame che gli individui tenderanno a instaurare con gli altri dipenderà dalla

configurazione dei loro bisogni e dall’aspettativa di soddisfazione.

Quando si affronta un gruppo si incontra una nuova realtà, sconosciuta tanto al singolo

quanto agli altri membri: ciò genera ansia circa il mantenimento della propria identità e

la soddisfazione dei bisogni che la colorano.

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Ciascun membro usa il gruppo come oggetto per la soddisfazione dei propri bisogni e

per l’equilibrio delle proprie esigenze, ma i bisogni individuali sono spesso

incompatibili. Di qui il paradosso perché la possibilità di ciascuno di soddisfare i suoi

bisogni deriva dalla capacità di mediare, negoziare con gli altri la soddisfazione dei loro

bisogni.

Se, invece, il gruppo vuole porsi come gruppo di lavoro, anziché come spazio vincolato

a null’altro che al libero gioco dell’interazione, occorre ricercare la realizzazione del

risultato collettivo di tale interazione: muovere dal livello dello scambio a quello

dell’integrazione. Integrazione significa consapevolezza dei bisogni di tutti,

armonizzazione dei bisogni individuali nei bisogni del soggetto gruppo, valorizzazione

delle funzioni e delle capacità di soddisfazione su un piano diverso da quello

individuale.

L’interdipendenza è il legame basato sulla conoscenza e l’accettazione della

configurazione creata dalla relazione con altre persone, che portano bisogni e ne

chiedono la soddisfazione.

Il gruppo, visto come totalità dinamica interdipendente, è quindi influenzato dai bisogni

di ogni membro che, a sua volta, è influenzato dai bisogni del gruppo.

In ultima istanza la differenza tra gruppo e gruppo di lavoro inizia con la differenza tra

gruppo che soddisfa bisogni e gruppo di lavoro che integra i bisogni individuali.

L’analisi di questi bisogni prevede un’articolazione a più livelli.

1- membership: rapporto tra bisogno individuale e ricerca di soddisfazione in

gruppo. Significa “essere membro”, avere, cioè, una rappresentazione mentale

che permetta di identificare il gruppo come opportunità per la soddisfazione di

bisogni. I bisogni individuali che il gruppo ragionevolmente può soddisfare sono

65

quelli connessi alla stima e all’autostima, all’identità, alla sicurezza degli

individui, oltre al loro bisogno di contribuzione. Il bisogno di stima e autostima

è fortemente correlato al bisogno di identità e all’esigenza di vederla

riconosciuta dagli altri. Il bisogno di sicurezza è, certo, il più primitivo dei

bisogni individuali che il gruppo può soddisfare, ma sicuramente è anche quello

che fonda la maggior parte dei gruppi. La soddisfazione del bisogno di

contribuzione richiama e necessita la definizione del proprio confine, il senso di

quello che è interno (“io”) e di quello che è esterno (“gruppo”) e del rapporto

che si instaura (“prodotto”).

2- groupship: i bisogni del gruppo. “L’essere gruppo” è la rappresentazione

mentale dei membri che identificano il gruppo come nuovo soggetto, con

bisogni originali, diversi da quelli dei singoli, con manifestazioni diverse da

quelle di ciascuno: è il noi al quale essi si riferiscono e, soprattutto, del quale

contribuiscono a soddisfare i bisogni. Il bisogno fondamentale che i gruppi

esprimono come unità sovraindividuale, e che i membri soddisfano, è anzitutto

quello di esistere. Questo bisogno primario del gruppo viene soddisfatto dai

membri attraverso la loro appartenenza, attraverso la loro capacità di contenere

la rappresentazione operativa e simbolica del gruppo stesso, mettendosi in

qualche modo al suo “servizio”. Il senso di appartenenza è il sentimento comune

dei membri di un gruppo, che si riconoscono come unità, in norme, valori,

cultura che essi stessi hanno generato, con i processi di comunicazione e le

funzioni di leadership. Il bisogno di esistere di un gruppo, che viene soddisfatto

dagli individui che sentono di appartenervi alimenta la vita interna.

L’appartenenza mette i membri nella condizione di reperire le informazioni

66

necessarie per la sopravvivenza e di soddisfare questo bisogno. La groupship è,

in definitiva, la funzione di soddisfazione dei bisogni del gruppo che i membri

svolgono attraverso la loro appartenenza.

3- leadership: bisogno di equilibrio. È, questa, la funzione che bilancia membership

e groupship. La leadership è la funzione che garantisce e presidia sia la

soddisfazione dei bisogni individuali sia di quelli del gruppo. La leadership è la

funzione che fornisce la risposta capace di integrare il bisogno individuale con il

bisogno del gruppo, presidiando e soddisfacendo i bisogni dell’unità e delle sue

parti. Permette alle forze che spingono alla differenziazione e all’omologazione

di formare un insieme armonico. La leadership costituisce un essere con, che ha

il significato di integrazione tra individuo/gruppo/ambiente. Nell’integrazione la

leadership ha il significato di presidio di tutti i bisogni in gioco.

2.4.3 - Questione n°3

La terza questione è quella relativa al processo dinamico, che si avvia nel momento in

cui più persone insieme svolgono un’attività, condividono scopi, spazi, tempo, valori.

Il processo dinamico colloca i fatti in un contesto concreto, spazio/temporale, consente

di rilevare l’evoluzione, l’involuzione, il cambiamento del gruppo, oltre all’attività in

corso “qui e ora”.

Questo processo viene identificato attraverso un modello di dinamica determinata da

quattro dimensioni: Reale, Rappresentata, Sociale, Interna. Ciascuna dimensione

concorre a investire la dinamica del gruppo con le sue variabili caratteristiche. Ciascuna

dimensione dà conto degli eventi che vi accadono e tutte connotano il complesso

evolvere della vita dei gruppi: il modello quindi tiene conto delle differenti afferenze

67

che contribuiscono a determinarne gli eventi. Queste dimensioni sono a loro volta

l’esito di un processo di sintesi che, a partire dalle immissioni individuali, si distilla e si

compone in contenuti sovraindividuali, descrivendo il tema specifico della dinamica di

ogni gruppo.

Un modello permette di raccogliere e fissare le variabili e le invarianti che si stanno

analizzando, ma anche di proporre una rilettura della realtà tenendo conto tanto della

molteplicità quanto della contemporaneità dei fatti: il modello proposto descrive il

percorso di sviluppo verso il gruppo di lavoro.

La Dimensione Reale, la Dimensione Sociale, la Dimensione Rappresentata e la

Dimensione Interna concorrono insieme a determinare le attività e le vicende della vita

del gruppo secondo modalità differenti in un gruppo e in un gruppo di lavoro.

Ciascuna testimonia e focalizza sistemi diversi, relazioni e fatti psicologici interagenti in

modo continuo all’interno del gruppo.

Un gruppo si caratterizza per avere una configurazione dinamica dominata da una, o da

qualcuna, di queste dimensioni, che prevale sulle altre in relazione ai bisogni degli

individui o del gruppo. Questa prevalenza orienta il comportamento del gruppo.

Miti Fantasmi Emozioni

DIMENSIONE INTERNA

DIMENSIONE RAPPRESENTATA GRUPPO DIMENSIONE Rappresentazioni cognitive REALE Stereotipi Membri Ideali Compiti Risorse

DIMENSIONE SOCIALE Altri gruppi

Ruoli Regole

Figura 36.

6 Tratta da Gruppo di lavoro lavoro di gruppo (1992).

68

Come in Figura 3. :

- Dimensione Reale: può essere vista e raccontata attraverso l’analisi dei

documenti che il gruppo produce, attraverso le azioni che compie e i risultati che

consegue. Queste peculiarità la rendono accessibile e ne fanno la chiave per

l’ingresso e l’utilizzo delle altre dimensioni che, non avendo attività manifeste

proprie, non hanno mezzi di espressione al di fuori della Dimensione Reale.

Questa ha una collocazione precisa in un luogo e in un tempo dato, è costituita

da un certo numero di membri con alcune caratteristiche e che svolgono

un’attività.

- Dimensione Sociale: rappresenta quel complesso sistema di relazioni attraverso

le quali il gruppo è ancorato al sociale generalmente inteso. Ogni gruppo

configura un’appartenenza, che influenza la modalità di relazione e le aspettative

che i membri esprimono verso gli altri gruppi. L’integrazione in un gruppo di

lavoro richiede l’assunzione di ruoli coerenti con le proprie competenze,

l’utilizzo e l’adesione alle regole del gruppo stesso.

- Dimensione Rappresentata: è un insieme di immagini che il gruppo costruisce

attraverso la sua attività e che può essere condiviso nelle caratteristiche

essenziali da tutti i membri del gruppo, più o meno consapevolmente. Le

immagini contengono i significati attribuiti e riconosciuti dal gruppo, e in tal

senso lo rappresentano: esprimono l’identità e le caratteristiche del gruppo

stesso, dei membri e del contesto nel quale agisce.

- Dimensione Interna: alla Dimensione Interna è legato un livello di elaborazione

di affetti e sentimenti che concorrono alla formazione di rappresentazioni.

L’attività del gruppo di lavoro può essere ostacolata, o favorita, dalle fantasie

69

che si fondano sulle emozioni intense e sui sentimenti positivi e negativi che

vengono manifestati.

2.5 - IL GRUPPO DI LAVORO

Il discorso appena concluso introduce e fornisce un quadro di riferimento per le

considerazioni che riguardano più propriamente il gruppo di lavoro.

Un gruppo di lavoro è costituito da un insieme di individui che interagiscono tra loro

con una certa regolarità, nella consapevolezza di dipendere l’uno dall’altro e di

condividere gli stessi obiettivi e gli stessi compiti. Ognuno svolge un ruolo specifico e

riconosciuto, sotto la guida di un leader, basandosi sulla circolarità della

comunicazione, preservando il benessere dei singoli (clima) e mirando parallelamente

allo sviluppo dei singoli componenti e del gruppo stesso, rispettando le regole (metodo).

In questa sede si cercherà di illustrare cosa avviene nel gruppo quando viene praticata

un’attività di formazione. Ci si muove dal presupposto che sia possibile far evolvere un

gruppo in gruppo di lavoro, e che questo sia tanto più necessario se il gruppo è inserito

in un sistema sociale organizzato che gli assegna un compito e si attende dei risultati, in

questo caso l’apprendimento. La relazione tra individui, in presenza di un compito

assegnato in un’organizzazione di lavoro, richiede un soggetto più armonico e meglio

organizzato di quanto sia un gruppo, in grado di contenere e rispondere a esigenze che

provengono da soggetti diversi: gli individui, il gruppo, il formatore. I confini e gli

eventi dinamici che abbiamo evidenziato sono talmente complessi e fortemente correlati

da non lasciare spazio a ipotesi di crescita ed evoluzione spontanea dei gruppi. Abbiamo

70

identificato, quindi, sette variabili, che ne garantiscono lo sviluppo in gruppo di lavoro

se adeguatamente integrate e possono fungere da presupposti per una buona attività di

formazione. Ciascuna variabile viene definita, e ne vengono presentati gli aspetti di

funzionamento nel gruppo oltre il suo grado di influenza sul processo di evoluzione del

gruppo stesso.

Il percorso che vede l’evoluzione di un gruppo in un gruppo di lavoro è un processo di

team building: un’attività concreta e una modalità di intervento, che il gruppo stesso

adotta per costruirsi e per porsi come soggetto sociale tra gli altri soggetti organizzativi.

Ciò che qui interessa è, per l’appunto, affrontare le questioni che vertono attorno

all’intervento possibile per favorire il processo di sviluppo di un gruppo in gruppo di

lavoro e da qui avviare l’attività di formazione.

2.5.1 - Obiettivo

Sapendo a priori che l’obiettivo generale di un’attività di formazione è la creazione di

nuove opportunità di sviluppo individuale, chiarezza e condivisione dell’obiettivo

diventano la condizione necessaria per il conseguimento di risultati. In questa linea si

può definire l’obiettivo come l’espressione del risultato atteso dal gruppo di lavoro,

coerente con i risultati attesi dal formatore. L’obiettivo, e il risultato che descrive,

contengono in forma sintetica lo scopo che si vuole perseguire e, in definitiva, le ragioni

che hanno condotto alla formazione del gruppo.

Saranno indispensabili, nella fase di costituzione del gruppo, due condizioni

fondamentali che permetteranno al gruppo di essere efficace nel lavoro: la prima è che

ciascun componente del gruppo conosca con precisione quali obiettivi esso deve

raggiungere; la seconda è che sia possibile una forma di identificazione dei membri con

71

l’obiettivo comune, che permetta a ciascuno di appropriarsene e di inserirlo nel contesto

delle mete individuali da perseguire e dei bisogni da soddisfare.

Per raggiungere queste condizioni è necessario che il gruppo dedichi, nella sua fase di

costituzione, una parte del tempo alla chiarificazione e condivisione dell’obiettivo e che

svolga delle attività specifiche finalizzate alla loro conoscenza e alla discussione, fino a

ottenere la loro condivisione da parte di tutti i componenti.

L’obiettivo, come si è detto, è la definizione del risultato atteso, quindi, per essere

chiaro e condiviso dai membri deve descrivere il punto di arrivo concreto e misurabile

al quale il gruppo tende e per il quale si impegna a lavorare.

Se si riflette sul fatto che ciascun membro è anche un “osservatore”, si deve considerare

che, come tale, ciascuno ha una particolare visione dell’obiettivo del gruppo, che deriva

da valide e documentate ragioni di carattere professionale, come l’esperienza e le

conoscenze, e da ragioni personali, quali le aspettative e i bisogni. Il problema della

chiarezza si pone nei termini della determinazione di un solo significato, di

un’interpretazione della fattibilità e delle azioni correlate al suo raggiungimento, che sia

uguale per tutti. Occorre, quindi, articolare i diversi punti di vista per costruire una

prospettiva più ampia di quella proposta da ciascuno, riconosciuta da tutti.

Condividere l’obiettivo significa impegnare il proprio sistema di competenze per

raggiungerlo e per far funzionare al meglio il gruppo, accettando i vincoli imposti dalla

presenza e dai bisogni degli altri membri.

In definitiva l’obiettivo di un gruppo di lavoro efficace deve rispondere alle seguenti

caratteristiche:

definito in termini di risultato: descrivere accuratamente il prodotto finale che il gruppo

vuole ottenere;

72

costruito sui fatti, sui dati osservabili e le risorse disponibili: la condizione di partenza

per costruire un obiettivo è determinare cosa si vuol fare, con quali risorse e con quali

vincoli;

finalizzato in modo esplicito: al gruppo di lavoro deve essere chiara la finalità

organizzativa cui tende l’obiettivo;

chiarito e articolato in compiti: è necessario che si proceda alla determinazione dei

compiti e delle fasi di lavoro che il gruppo deve affrontare per raggiungerlo;

perseguibile: utilizzando tutte le risorse umane e tecniche disponibili;

valutato: se è stato definito in termini di risultato, l’obiettivo del gruppo ha le

caratteristiche che lo rendono misurabile e sottoponibile a valutazione sia da parte del

gruppo che da parte dell’organizzazione.

L’obiettivo deve essere presentato al gruppo in forma concreta, evidenziando il più

possibile ciò che si vuole ottenere, le priorità, i tempi, le condizioni di qualità. Ad

esempio, tempo: si svolge un corso di tre lezioni divise però come un giorno alla

settimana per tre settimane, di cinque ore per giorno; condizione: ciò che viene spiegato

in una lezione verrà valutato la lezione dopo; priorità: i concetti che si vogliono far

apprendere di volta in volta, per comprendere quelli della lezione successiva.

Il risultato che il formatore si prefigge dal compito assegnato deve essere descrivibile,

alla fine del lavori, da tutti i componenti del gruppo di lavoro negli stessi termini, così

da poter essere confrontato punto per punto con gli obiettivi individuali e diventare

effettivamente un elemento comune e condiviso al suo interno.

La chiarezza sulle finalità dell’obiettivo assegnato conquista pertanto una duplice serie

di conseguenze: da un lato, infatti, l’avere una comune finalità facilita l’unità tra gli

73

individui del gruppo, contemporaneamente, fa in modo che l’obiettivo dell’attività di

formazione venga raggiunto. Per esempio se l’obiettivo organizzativo è quello di

migliorare il clima sul lavoro, l’obiettivo del formatore sarà quello di far interagire i

partecipanti alla formazione spiegando perché si vuole far migliorare il clima tra i

lavoratori: quali sono i vantaggi per l’organizzazione, ma soprattutto i vantaggi per i

singoli partecipanti.

Cosa fare, dunque, per avere obiettivi chiari e condivisi?

Per la definizione dell’obiettivo occorre che il gruppo di lavoro acquisisca conoscenza

riguardo agli individui (motivazioni, competenze, ruoli, valori) e alla situazione

(problema, compito, risorse, vincoli). In tal senso è il passato degli individui che deve

essere contenuto nel presente e traguardato al futuro del gruppo.

Il confronto è il momento nel quale tutti gli elementi di conoscenza vengono riletti e

valutati per costruire il quadro di lavoro del gruppo in relazione al problema da

affrontare e all’obiettivo da perseguire. Attraverso il confronto dovrà emergere quella

“comunità di pensieri” che permetterà di delineare la posizione di partenza del gruppo.

La negoziazione è il momento conclusivo di questo processo, che deve consentire di

rappresentare il futuro del gruppo ovvero di esprimere la sua capacità progettuale.

È operazione di selezione, integrazione e finalizzazione. Il gruppo dovrà: selezionare le

capacità e le risorse che gli servono, integrare i punti di vista dei membri e

dell’organizzazione, finalizzarli nell’obiettivo del gruppo di lavoro.

La definizione dell’obiettivo è direttamente e strettamente correlata con almeno due

aspetti chiave dello sviluppo del gruppo in gruppo di lavoro: la dinamica bisogno-

74

aspettative-motivazione dei membri, il formarsi del sentimento di appartenenza nel

gruppo.

Come abbiamo già ricordato in precedenza, nel gruppo di lavoro si intersecano e spesso

si scontrano diversi livelli di bisogno: i bisogni dell’individuo (stima, autostima,

identità, sicurezza, contribuzione), i bisogni del gruppo (mantenere e raggiungere

obiettivi, mantenere e aumentare il senso di appartenenza).

L’obiettivo si inserisce, quindi, in questo quadro come il fattore che è in grado di

spingere la motivazione dei singoli al lavoro di gruppo e contemporaneamente soddisfa

il bisogno del gruppo di lavoro di possedere e perseguire una meta, di esistere.

L’obiettivo di un gruppo di lavoro deve tendere alla massima integrazione possibile dei

due livelli di bisogno, ma lavorerà nel verso dell’integrazione, se riuscirà a distillare

nell’obiettivo del gruppo anche parte dei bisogni e delle aspettative individuali, oltre

alle attese del formatore, ugualmente importanti.

Accanto al bisogno il senso di appartenenza è elemento intimamente legato alla

dinamica dell’obiettivo del gruppo. Appartenere a un gruppo significa contrarre

obblighi, assumersi responsabilità e avanzare diritti, definire la propria posizione,

scegliere di farne parte piuttosto che starne fuori; le implicazioni sono evidenti: un

individuo perderà parte della sua unicità e l’originalità dei suoi obiettivi per acquisire

nuove conoscenze su di sé, nuovi metodi di lavoro, nuova professionalità, nuovi

obiettivi.

Definire un obiettivo di gruppo significa inserire in esso parte degli obiettivi individuali

e percepire come proprio quello del gruppo; quanto più i membri condivideranno

l’obiettivo del gruppo tanto più sentiranno di appartenervi.

75

Il senso di appartenenza sviluppa il sentimento dell’essere con altri, che significa poter

contare sulle capacità e risorse messe a disposizione dagli altri, sulla condivisione dei

rischi, sullo sforzo comune per superare gli ostacoli.

2.5.2 - Metodo

Si può rintracciare nel metodo una duplicità di accezioni fondamentali: da un lato, i

principi e i criteri che orientano, informano, guidano l’attività del gruppo; dall’altro, i

modi ovvero le modalità che strutturano, organizzano, articolano l’attività stessa.

Da un lato il metodo è, così, una specificazione delle norme che governano la vita di un

gruppo. Più in particolare, il metodo ha come riferimento le norme operative; è la regola

del lavoro e dell’interazione professionale nei gruppi: istituisce e ordina il lavoro del

gruppo, prevede il rispetto di procedure e una sequenza di comportamenti

predeterminati, di azioni definite. È possibile definire il sistema di norme che regola il

gruppo come un insieme di caratteristiche ricorrenti: il modo di pensare assunto dagli

individui coinvolti, l’insieme delle regolarità riscontrabili nel comportamento dei

membri, oltre alle aspettative condivise di funzionamento.

Se si guarda al risultato di un gruppo, non si può non riconoscere la sua elevata

dipendenza dall’efficacia e dall’efficienza del suo metodo di lavoro.

Ed è su questo aspetto che si innesta il secondo versante di lettura del metodo, che lo

identifica come una serie di azioni, operazioni, modalità che permettono di procedere

con efficacia, mantenendo in evidenza, da un lato, il percorso di lavoro che il gruppo sta

sviluppando, dall’altro ottimizzando le risorse dei singoli componenti.

Si prevedono cinque attività:

76

analisi delle risorse e dei vincoli: per risorse intendiamo tutto ciò di cui il gruppo

realisticamente dispone per svolgere il suo lavoro: i membri, ossia conoscenze già in

loro possesso o meno, il tempo, materiali messi a disposizione dal formatore. Questo

comporta il saper osservare le differenze di capacità, di professionalità che emergono,

come contributi che arricchiscono il gruppo e non come vincoli che impediscono la

realizzazione degli obiettivi.

Discussione: dialogo e confronto presiedono il procedere del gruppo di lavoro: la

discussione è la regola. La discussione può richiedere metodo, affinché sia finalizzata a

ottenere la più ampia partecipazione attiva dei membri del gruppo in modo che le

informazioni, le opinioni, le conoscenze e i dubbi possano essere espressi e confrontati

con tutti. Il formatore assume un ruolo essenziale: quello di coordinatore dei turni di

parola, piuttosto che di colui che pone determinate domande/affermazioni per stimolare

i partecipanti alla riflessione (metodo maieutico).

Decisione: diversi metodi: decisione a maggioranza, decisione a imbuto, matrice a

scelte pesate…

Pianificazione dell’uso del tempo: l’uso del tempo mette in luce anzitutto le difese, le

resistenze al compito che si frappongono al raggiungimento dell’obiettivo.

Il tempo è, in realtà, l’unica risorsa che, una volta utilizzata, non è reintegrabile. È

necessario, quindi, che il gruppo stabilisca una scaletta per ciascun argomento di

discussione che scandisca l’uso del tempo a disposizione.

In linea più generale la pianificazione dell’uso del tempo si traduce nella costruzione

dell’agenda di lavoro.

Si tratterà di collocare nel tempo gli obiettivi con le loro priorità e stabilire le scadenze

per le diverse unità di lavoro coinvolte.

77

Uso degli strumenti di problem solving: la logica di problem solving, come già detto,

implica il superamento dell’atteggiamento che porta a cercare il colpevole, a superare il

“chi è stato?”, per orientarsi alla ricerca del problema, quindi del “perché succede?”.

Questi strumenti e la logica che li regge consentono ai gruppi di lavoro di produrre

risultati, riducendo contemporaneamente l’ansia indotta dal compito che è stato

assegnato.

Se per affrontare e risolvere un problema occorre definire il metodo con il quale

pervenire a un risultato, di necessità emergeranno tanti modi quanti sono i membri,

ciascuno con la sua logica, ciascuno con le sue ragioni, nella maggior parte dei casi con

evidenti divergenze e contraddizioni. Il problema del metodo, quindi, è prima di tutto un

problema di approccio logico e, successivamente, di negoziazione di una logica

comune. Trovare il metodo di lavoro significa produrre pensiero di gruppo.

Occorre quindi dedicare, nella fase iniziale di “consegna del compito”, tempo e

attenzione alla definizione di un metodo e degli strumenti che permettano di procedere

con efficacia, mantenendo in evidenza il percorso di lavoro che si dovrà sviluppare per

orientare l’impegno e il contributo individuale, ottimizzando le risorse dei singoli

componenti.

In linea generale occorre semplicemente aggiungere che, per dotare un gruppo di lavoro

di un metodo efficace, la prima condizione è che nella stessa fase di “consegna del

compito”, e poi durante ogni fase significativa di lavoro, venga dedicato alla definizione

del metodo un momento di discussione e di negoziazione che porti alla condivisione

delle modalità prescelte. È necessario accordarsi prima di entrare nel merito del

problema sul tipo di approccio e di strumenti da utilizzare per affrontarlo.

78

2.5.3 - Ruoli

È certo che una delle caratteristiche di un gruppo efficace coincide con la capacità di

utilizzare e valorizzare al meglio le differenze rappresentate dai suoi membri: differenze

di esperienze, di competenze, di approcci.

Un dato di fatto è, tuttavia, che ogni gruppo ha necessità di tradurre in qualche modo

queste differenze anche in un dato di struttura e di articolazione nonché in regole di

funzionamento. A ciò corrisponde l’idea del ruolo o del sistema di ruoli.

I ruoli rappresentano pertanto all’interno di un gruppo di lavoro le parti assegnate a

ciascuno in funzione del riconoscimento più o meno esplicito delle specificità e in vista

dell’ottimizzazione più o meno decisiva delle differenze.

Un primo approccio alle questioni legate al fattore “ruolo” nel gruppo di lavoro ci

conduce così a definirlo come l’insieme dei comportamenti che ci si aspetta da chi

occupa una posizione all’interno del gruppo stesso.

In questa prospettiva le aspettative degli altri membri e del gruppo stesso costituiscono

l’insieme delle prescrizioni per il ruolo.

Dunque, essi dipendono contemporaneamente dalle attività perseguite e dai

comportamenti dei diversi membri, con riferimento, secondo i casi, a individui o a

sottogruppi destinati ad una stessa funzione. Questa differenziazione funzionale

presenta un aspetto orizzontale (lavoro a catena in una equipe, giro di tavolo in una

discussione) e un aspetto verticale, ovunque vi sia gerarchia di fatto o di diritto.

Nei gruppi in attività di formazione, appaiono dei processi di differenziazione e di

adattamento, che corrispondono all’emergere progressivo di un sistema di ruoli, più o

meno nettamente definiti e articolati in base al compito assegnato e alle competenze già

in possesso di ognuno.

79

È specialmente in occasione di discussioni libere, prive di strutture e di programmi

preliminari, che è possibile sia un’osservazione obbiettiva e sistematica di tali processi,

sia ancora una diretta sperimentazione di questi, vivendoli dall’interno, nel quadro di

certe situazioni di formazione.

Lo studio dei gruppi ha rivelato che ciascun membro esercita un’influenza differente sia

in intensità che in qualità, sul comportamento del gruppo, qualunque cosa questo faccia

o non faccia. Sembra anche che nessuna operazione di produzione possa effettuarsi

senza che emerga una figura di capo o di conduttore del gruppo. La sua relazione con

gli altri membri deve essere però considerata in una prospettiva di complementarietà,

poiché essa non dipende dal comportamento del capo soltanto, ma anche dalle esigenze

variabili della situazione totale (scopo collettivo, aspettative e bisogni dei membri ecc.).

Secondo lo stile che ha adottato il leader può sia riversarsi il potere di decisione, sia

porsi solamente in un ruolo di “catalizzatore”, mirante a facilitare delle prese di

decisione collettive. Così la leadership si concentra interamente nella persona di un

capo, o si diffonde in qualche modo all’interno del gruppo.

I membri imparano durante il lavoro, e attraverso la relazione con gli altri, quali siano i

comportamenti richiesti per il ruolo che ricoprono. È un apprendimento che avviene, il

più delle volte, per approssimazioni successive.

La complicazione deriva dal fatto che non esistono comportamenti richiesti e

comportamenti proibiti standard, codificati e validi per tutti i gruppi: alcuni

comportamenti desiderati in alcuni gruppi sono rifiutati in altri. Non è possibile quindi

prevedere, in linea generale e in astratto, quali saranno i comportamenti richiesti, e

quindi efficaci, per far funzionare meglio il gruppo.

80

Il modo di ricoprire il ruolo è influenzato da molti fattori: dalla conoscenza che

l’individuo ha del ruolo, dalla motivazione a ricoprirlo, dalla consapevolezza che

possiede in merito al suo sistema di competenze, dalle modalità di relazione con le altre

persone.

Il gruppo prescrive i comportamenti richiesti in relazione alle sue aspettative su quel

ruolo, i singoli accettano il ruolo in relazione alle loro motivazioni e competenze ed

esprimono la loro discrezionalità nella gestione del ruolo.

La qualità dei ruoli in gruppo di lavoro è correlata ad alcuni importanti fattori:

identificato in relazione con le aree chiave. Alcune aree di un gruppo di lavoro devono

essere presidiate da ruoli precisi, con i relativi compiti e responsabilità. Le aree chiave

da presidiare sono sostanzialmente quattro e sono relative: al lavoro, alle relazioni, al

risultato, alla qualità.

- Il presidio del risultato è necessario per garantire il raggiungimento degli

obiettivi per i quali il gruppo è stato costituito.

- Il presidio del lavoro permette al gruppo di aumentare i livelli di coesione

perché fornisce la base necessaria per la condivisione della responsabilità e per

l’assunzione dei rischi.

- Il presidio delle relazioni. Si tratta di garantire al gruppo un livello di scambio e

un clima che offrano ai membri ampie possibilità di esprimere le loro

competenze e di aumentare i livelli di soddisfazione.

- Il presidio della qualità è fondamentale perché il gruppo possa fornire quei

risultati che rendano effettivamente conto di uno sforzo collettivo, che siano

orientati al miglioramento e all’innovazione.

81

Assegnato in relazione al sistema di competenze dei membri. I ruoli devono essere

assegnati in modo esplicito e trasparente, e altrettanto chiaramente vanno definiti i

compiti e le responsabilità correlate; va sempre verificata la percezione del ruolo di chi

lo ricopre e degli altri membri del gruppo.

Finalizzato alla valorizzazione del sistema di competenze dei membri. Ciascun membro

del gruppo di lavoro possiede un proprio sistema di competenze. È necessario far

riferimento a un sistema di competenze maggiormente complesso, che comprenda ad

esempio differenti aree di capacità professionali, ovvero di abilità connesse con lo

svolgimento dell’attività di lavoro, e di qualità personali, di caratteristiche individuali.

L’attesa è piuttosto quella che a livello di gruppo si realizzi la completezza del sistema

di competenze e che esso sappia esprimere efficacemente e valorizzare le competenze

dei singoli membri, traducendole in modo adeguato nel sistema dei ruoli.

In un gruppo è importante che i membri posseggano sistemi di competenze caratterizzati

da capacità diverse, ma che riconoscano nella differenze una risorsa e non

esclusivamente un vincolo.

È auspicabile, infine, che si arrivi a una rotazione, a una intercambiabilità dei ruoli, che

testimoni della maggiore flessibilità dei sistemi personali, dell’apprendimento

individuale e di gruppo e delle possibilità di comunicazione e di scambio.

In conclusione i vantaggi che derivano da una chiara definizione dei ruoli sono

riassumibili in: maggiore valorizzazione del sistema di competenze degli individui,

sviluppo del sistema di competenze, migliore gestione dei conflitti, soddisfazione che

deriva dal riconoscimento sociale, migliore qualità dei risultati.

82

Tutti obiettivi essenziali in un’attività di formazione, in quanto questa mira proprio alla

crescita personale e professionale.

2.5.4 - Leadership

Per quanto già detto nella prima parte di questa sezione, la leadership di un gruppo di

lavoro va intesa come funzione di equilibrio tra membership e groupship, in tal senso il

leader è anzitutto un professionista di relazioni.

Va sottolineata la convinzione che l’esigenza di leadership nei gruppi si origina prima di

tutto da esigenze di sviluppo del gruppo stesso e non da una qualunque necessità degli

individui di essere guidati.

I ruoli di leadership sono molteplici, e differenti individui possono trovarsi a provvedere

a una o più funzioni richieste per lo sviluppo del gruppo.

Vale dunque per la leadership il ragionamento seguito per l’analisi del ruolo: essa si

esprime a un primo livello come insieme di comportamenti attesi rispetto ad alcune

specifiche funzioni.

La leadership efficace in un gruppo è dunque l’esito dell’incontro tra le aspettative del

gruppo stesso per ciò che concerne i comportamenti di leadership, i ruoli che vengono

assegnati, le capacità di leadership degli individui che contribuiscono a esprimere uno

stile adeguato alle aspettative.

Se la funzione è coperta con ruoli definiti e chiari, da persone capaci, il gruppo sarà

nella situazione ideale per svolgere il suo lavoro: viceversa incontrerà numerosi

ostacoli.

L’ottica che si propone è che il gruppo produce il suo stile di leadership e il suo leader,

o meglio i suoi leader, attraverso una negoziazione continua di ruoli e funzioni.

83

Una leadership negozia un ruolo chiaro, orientato a stimolare le capacità di tutti,

l’esposizione di tutti e il massimo della condivisione possibile dei rischi e del successo:

di conseguenza vuole eliminare le ambiguità sull’attribuzione dei risultati. Il leader in

questo caso lavora con il gruppo, non per o sul gruppo: non si sostituisce a esso né nelle

decisioni né nel superamento delle difficoltà. La sua finalità è l’ottimizzazione delle

risorse disponibili all’interno del gruppo sia in termini operativi che relazionali. Ha

funzione più di fluidificazione del lavoro che di produttore di risposte, attiva più che

essere attivo, tende al successo del gruppo più che all’espressione delle sue potenzialità.

La leadership fa emergere gli altri leader e favorisce l’apprendimento di un nuovo

modello di utilizzo delle capacità individuali, perché lavora per la crescita dell’unità

sovraindividuale più che per la disarmonica e conflittuale espressione di capacità

personali. La leadership deve essere:

- situazionale: deve essere coerente con gli obiettivi del gruppo, con le

caratteristiche professionali e personali dei membri, con la storia e la cultura del

gruppo e dell’organizzazione.

- trasparente. I ruoli devono essere chiariti e definiti nella fase di costituzione del

gruppo.

- flessibile. Una leadership efficace sarà orientata a coordinare le capacità e i

contributi dei membri del gruppo più che a ribadire quelle del leader. Nelle

decisioni, nel metodo di lavoro, porterà ad adottare le soluzioni costruite dal

gruppo e con il gruppo, piuttosto che quelle preconfezionate dal leader.

- pragmatica. Una leadership efficace è ancorata ai fatti e ai dati provenienti dalla

realtà e dall’ambiente.

84

- orientata al compito. Indirizzata al presidio dell’obiettivo: definizione,

chiarimento, implementazione.

- orientata alle relazioni. Garantisce il riconoscimento dei bisogni individuali e

delle capacità per sviluppare cultura e valori condivisi all’interno del gruppo,

assicura un’elevata qualità dei rapporti interpersonali, che consenta una forte

identificazione con il gruppo e un’alta motivazione al lavoro e alla

responsabilità.

Le funzioni indispensabili per la sopravvivenza, la crescita e l’autoaccudimento del

gruppo di lavoro si individuano nei tre vertici:

- della competenza: funzione che presidia la capacità del gruppo di fornire

soluzioni innovative, globali e realizzabili.

- dell’appartenenza: funzione che presidia la possibilità e il mantenimento delle

relazioni tra i membri, e il clima affettivo del gruppo.

- della comunicazione: funzione che garantisce la crescita del gruppo; crea canali,

reti e sinergie. Permette al gruppo di articolarsi e di costruire un codice

condiviso, di articolare il linguaggio del lavoro con quello delle emozioni.

Garantisce, inoltre, il canale di comunicazione con l’esterno.

È dall’incontro tra le aspettative del gruppo e la disponibilità degli individui che

scaturiranno queste tre figure di leader.

Possiamo affermare che il ruolo del leader può essere assunto dal formatore stesso

oppure al formatore può essere lasciato l’unico compito di osservare il lavoro svolto dal

gruppo di formazione e intervenire solo se questo si porta al di fuori dell’area di lavoro.

85

2.5.5 - Comunicazione

La comunicazione è variabile di processo per eccellenza: è attiva sin dal primo incontro

del gruppo, all’atto della sua costituzione, rende operante il suo percorso evolutivo, ne

istruisce le relazioni con i gruppi esterni. Di più: ne decide il destino, “fa” il gruppo.

La comunicazione è dunque la variabile che sorregge e governa l’intero processo

evolutivo da gruppo a gruppo di lavoro, e guida il percorso dall’interazione

all’integrazione.

La comunicazione nei gruppi di lavoro si presenta come un processo interattivo,

informativo e trasformativo, che è inserito in uno specifico contesto interno ed esterno,

governato da regole, e si rivolge con particolari caratteristiche temporali.

Il carattere interattivo del processo di comunicazione è legato alle reciproche posizioni

dei membri del gruppo ed è vincolato ai rispettivi ruoli. La comunicazione come

scambio di contenuti operativi è al tempo stesso veicolo di significati molteplici che

hanno per oggetto primario la relazione ovvero la struttura relazionale del gruppo.

A livello informativo il processo di comunicazione rinvia al vertice dei materiali di

conoscenza riferiti sia al lavoro sia alle relazioni.

Il carattere trasformativo del processo di comunicazione lega lo scambio al sapere nella

direzione del cambiamento. In questa prospettiva la comunicazione, oltre a essere il

terreno dello scambio e il luogo dell’elaborazione di conoscenze, sarà anche il momento

di verifica continua del linguaggio che il gruppo si dà e utilizza. Il carattere

trasformativo della comunicazione va dunque ricercato nella sua dimensione

“linguistica”. Ma non solo: per cambiamento possiamo anche intendere crescita,

apprendimento.

86

La questione che ci si pone attiene così a un ragionamento sull’efficacia del processo di

comunicazione, processo certamente stressato dal compito che il gruppo svolge e

condizionato dalla fitta rete di rapporti con l’organizzazione.

Di conseguenza, la comunicazione efficace dovrà rispondere ad alcune specifiche

caratteristiche, per le quali spetterà primariamente al leader fornire un valido contributo,

caratteristiche individuabili nelle seguenti:

finalizzata: comunicazione come attività riferita alla presa di decisioni, allo sviluppo di

ipotesi di soluzione dei problemi, alla gestione delle relazioni. Occorre dunque

mantenere costantemente il contenuto della comunicazione coerente con l’obiettivo da

raggiungere e funzionale al compito.

pragmatica: privilegia la raccolta e l’analisi di dati e fatti, e vengono utilizzate tutte le

differenti interpretazioni per capire il problema.

trasparente: è completa, ciascuno fornisce al gruppo tutte le informazioni delle quali

dispone e non vengono utilizzate difese come strumento di potere.

situazionale: è coerente con il momento e con la fase di lavoro del gruppo, il linguaggio

e il modo sono adeguati ai membri, ogni membro fa uno sforzo di adattamento alle

esigenze e alla cultura professionale degli altri.

Nel momento della costituzione del gruppo di formazione è assai probabile che il

processo di comunicazione risulti ampiamente disfunzionale: i membri del gruppo non

si sono reciprocamente scelti né hanno scelto gli obiettivi che sono all’origine delle

richieste e delle attese del formatore.

87

È dunque indispensabile che il processo di team building sia avviato proprio a partire

dai fatti di comunicazione e possa come tale circoscrivere il gruppo di lavoro nella sua

completa totalità.

Componenti principali del processo:

- confronto e scambio. Una comunicazione efficace richiede che tra i membri del

gruppo avvenga un reale incontro delle diverse informazioni possedute, dei dati,

e un’integrazione delle differenze esistenti. Il confronto nel gruppo avviene,

come più volte si è detto, sia a livello di contenuto sia a livello di relazione.

- ascolto. L’ascolto diventa un’opportunità per conoscere e conoscersi e per far

evolvere e arricchire la propria soggettività, nonché capire il punto di vista degli

altri e integrarli con il proprio. L’ascolto non è funzione passiva nei processi di

comunicazione. Occorre, nell’ascoltare gli altri, una reale volontà di capire

quello che dicono, di mettersi dal loro punto di osservazione della realtà. Il

problema per cui molto spesso non si ascolta è perché si ha il timore di perdere il

proprio punto di vista, assumendo quello di un altro; il lavoro di gruppo è utile

per apprendere a tenere conto di più punti di vista diversi, differenziati, e crearne

uno nuovo originale che esprima il meglio, che abbia caratteristiche di

complessità e completezza, che contengano le diversità, le articolino e le

superino.

- esposizione. L’esporre, inteso come attività del “parlante”, implica, come per

l’ascolto, processi complessi. Nell’esporre è necessario che si sappia misurare il

valore delle proprie conoscenze e informazioni e delle proprie capacità di

comunicazione, il proprio stile. Il valore e la significatività dei contenuti da

88

comunicare determinano in modo decisivo l’esposizione. Un’esposizione

efficace presuppone che chi parla sviluppi interesse, curiosità, coinvolgimento.

- feedback. Saper rispondere è ciò che identifica un’efficace azione di feedback.

La forza del gruppo sta proprio nella possibilità di vedere molti punti di vista

contemporaneamente. Una ricca comunicazione permette a tutti di esprimersi e

attribuire dignità e valore a tutte le opinioni espresse. Cruciale, per realizzarla, è

la capacità di dare e accettare feedback.

Ovviamente sarà compito del formatore grazie agli assiomi della comunicazione, se ben

appresi, capire lo stato interiore dei partecipanti, nonché di aiutarli a esprimere i loro

pensieri e opinioni, a contribuire al raggiungimento degli obiettivi favorendo proprio la

comunicazione.

2.5.6 - Clima

Per clima intendiamo un insieme di elementi, opinioni, sentimenti, percezioni dei

membri, che colgono la qualità dell’ambiente del gruppo, la sua “atmosfera”.

Il clima del gruppo è l’insieme delle percezioni, dei vissuti, dei sentimenti dei membri,

quindi di attribuzioni soggettive che possono certamente essere rivolte alla dimensione

collettiva del gruppo, ma che non cessano di possedere valenze sostanzialmente

individuali. Questa atmosfera opera a livello individuale, nel senso dell’influenzamento

dei comportamenti e della connotazione emotiva delle relazioni.

Il clima è anche l’insieme delle qualità dell’ambiente relazionale percepite dai membri.

Questo suo aspetto di “qualità” del gruppo ne giustifica la variabilità in relazione a tutti

i cambiamenti cui il gruppo stesso è sottoposto e alle variazioni del clima dell’ambiente

89

esterno. Su questa percezione delle qualità influiscono in modo evidente il tempo, lo

spazio e la scala di valutazione individuale.

Inoltre, il clima è certamente correlato alla cultura che il gruppo sviluppa durante la sua

attività nel senso degli orientamenti dei membri condivisi dalla maggioranza e

consolidati in principi aggreganti. La cultura di un gruppo permette di sviluppare norme

e valori, stili di pensiero e comportamenti propri, ma l’adesione dei membri a queste

caratteristiche e il loro cambiamento sono fortemente influenzati dal clima del gruppo

stesso.

Elenchiamo alcuni indicatori che sono capaci di esprimere questa variabile:

sostegno: raccoglie le percezioni circa la fiducia di ricevere aiuto concreto in caso di

bisogno e la rappresentazione di una cultura che condivide e partecipa agli sforzi che si

stanno facendo. Ma anche percezione dell’attenzione del leader verso i bisogni

individuali e verso il contributo individuale alla risoluzione dei problemi.

calore: descrive la qualità della relazione e la distanza interpersonale tra i membri del

gruppo. Esprime la percezione di un’atmosfera amichevole nella quale è possibile per il

gruppo mantenere contemporaneamente l’attenzione sul compito e sulle relazioni.

Testimonia della sintonia tra il leader i membri, e si traduce nella percezione di essere

insieme sul problema e di lavorare insieme per risolvere senza il timore di veder

scaricare gli uni sugli altri la responsabilità e le colpe.

riconoscimento dei ruoli: segnala il livello di percezione e accettazione delle differenze

individuali. Il loro riconoscimento è, per ciascun membro, la conferma della sua identità

nel gruppo e impegna ciascuno a rendersi disponibile per gli altri.

90

apertura e feedback: l’apertura è la percezione e il vissuto relativo alla possibilità di

esprimere nel gruppo le proprie idee, i dubbi, e i sentimenti senza censura e senza il

timore di essere fraintesi. Il feedback è la percezione dei membri circa le informazioni

di ritorno e il livello di ascolto per le opinioni espresse dagli altri.

Ovviamente, tutte le altre variabili considerate nel modello di team building qui

proposto andranno considerate come altrettanti fattori principali di orientamento e

influenzamento del clima.

Certamente, la leadership e l’obiettivo sono, tra questi fattori, quelli che più possono

interferire con le condizioni climatiche.

Quanto alla leadership, bisogna riconoscere che lo stile partecipativo assunto dal leader,

ma anche da parte dei partecipanti a mio avviso, è il miglior presidio della qualità del

clima in quanto favorisce scambio e comunicazione. Inoltre bisogna aggiungere che è

soprattutto sul leader che grava, nel momento di avvio e costituzione del gruppo, la

responsabilità tanto di monitoraggio degli indicatori quanto di attenzione alla loro

configurazione.

Quanto al fattore dell’obiettivo, anch’esso contribuisce al clima in modo determinante.

Se il gruppo valuta che il compito è impossibile o, parimenti, troppo facile, il clima che

si instaura è connotato dal disinteresse e dal basso investimento. Il compito innalza la

motivazione e migliora il clima se il gruppo valuta di potercela fare a portarlo a termine,

se ritiene di avere le risorse necessarie e l’appoggio dell’organizzazione. Si è detto “se

ritiene” perché spesso la valutazione del compito non viene fatta sulla base di criteri di

realtà, ma attraverso interpretazioni del tutto soggettive. Questo è il punto che fissa il

legame tra obiettivo e clima.

91

Se leadership e obiettivi sono fattori decisivi di orientamento di clima, occorre pur

sempre considerare che tutte le variabili comprese nel modello sono in gioco, e dunque

anche per esse è utile svolgere qualche ulteriore considerazione.

Così, il metodo influenza il clima anzitutto perché impone livelli di formalizzazione che

innalzano la dipendenza reciproca tra i membri. Ovviamente se tutti i partecipanti sono

d’accordo sul metodo di lavoro da assumere, il clima sarà sicuramente molto più

rilassato rispetto alla situazione contraria.

La variabile ruoli interviene per riportare verso un clima più vivace di coinvolgimento,

perché richiede a ciascuno d attivare, esprimere le proprie capacità e sottintende

sentimenti di attesa relativi al loro riconoscimento da parte del gruppo.

La comunicazione è in stretta relazione causa/effetto con il clima. In un clima caldo,

coerente con i sentimenti e gli avvenimenti, la comunicazione è aperta e franca, i

processi di integrazione vengono attivati attraverso il confronto e la negoziazione delle

differenze. In un clima freddo, formale e difensivo la comunicazione è povera di

contenuti, c’è conflittualità, le relazioni e gli scambi sono ridotti allo stretto necessario.

Al di là dell’intreccio tra le variabili del modello il “fattore in più” che decide

ovviamente del clima non può che essere rappresentato dal collettivo. In un gruppo ogni

membro influenza il clima in senso sia positivo che negativo: ciascuno immette nel

gruppo tensioni, ostilità, soddisfazione, fiducia che derivano dai bisogni individuali e,

spesso, sono l’esito dello stesso bisogno che motiva all’appartenenza al gruppo.

Sarà compito del formatore, e del leader se persona diversa, fare in modo che il clima

soddisfi pienamente gli indicatori sopraccitati e mettere i partecipanti in condizione di

favorire anche loro questi requisiti.

92

2.5.7 - Sviluppo

Focalizzato sul gruppo di lavoro, lo sviluppo identifica la costruzione del sistema di

competenze del gruppo di lavoro e la parallela crescita del sistema di competenze

individuali.

Il processo di sviluppo del sistema di competenze del gruppo è autonomo e

complementare, è la testimonianza della formazione e della trasformazione in qualcosa

di diverso dalla somma degli individui che vi fanno parte.

L’analisi di questa variabile richiede dunque un’articolazione a due livelli:

- il sistema di competenze dell’individuo che opera e che partecipa al gruppo e

all’attività di team building. Dal risultato dei processi di differenziazione e

integrazione dipende, in buona sostanza, la possibilità per l’individuo di

sviluppare il proprio sistema di competenze in un gruppo di lavoro. Il percorso

che si può ricostruire inizia, così, con l’ingresso dell’individuo, “dotato” del suo

sistema di competenze, all’interno del gruppo. Il primo problema che si presenta

è allora quello relativo alla consapevolezza circa il profilo di competenze

professionali posseduto. Normalmente gli attori percepiscono infatti il loro

sistema di competenze come limitato alle conoscenze strettamente correlate al

proprio lavoro, al ruolo ricoperto, ai compiti svolti. Il passo successivo nel

percorso di sviluppo dipende, dunque, dal riconoscimento della necessità del

possesso di un sistema di competenze più ampio di quanto i membri non

avessero previsto inizialmente. In un momento ancora successivo, lo sviluppo

riguarderà la possibile acquisizione da parte degli individui di capacità e qualità

possedute prima da altri nonché del tutto nuove e dalla flessibilità

nell’assunzione di ruoli, compreso quello di leader, all’interno del gruppo. Il

93

risultato finale dello sviluppo dovrebbe veder arricchito quindi il sistema di

competenze individuale sia sul versante delle capacità relazionali sia sul versante

delle capacità gestionali.

- Il sistema di competenze del gruppo di lavoro, inteso come unità dinamica

sovraindividuale. Le conoscenze di un gruppo di lavoro rappresentano il sapere

che un gruppo possiede, o che deve acquisire, per poter lavorare in modo

efficace. Si configura come aspetto proprio di quella che più autorevolmente si

definisce come cultura del gruppo. Le capacità di un gruppo di lavoro fanno

riferimento all’identificazione del gruppo come soggetto organizzativo,

all’implementazione delle funzioni e delle caratteristiche indispensabili a un

sistema aperto, alle abilità connesse allo svolgimento di un compito assegnato e

al presidio dei processi relazionali e dinamici.

È importante sottolineare che è il ricorso alla variabile sviluppo a differenziare

nettamente tra gruppo e gruppo di lavoro: il gruppo utilizza più o meno efficacemente il

sistema di competenze dei singoli, il gruppo di lavoro si fonda su un sistema di

competenze autonomo, è un soggetto che agisce come se fosse un “uno”, rispondendo in

modo sinergico alle richieste dei membri.

Un gruppo che non evolve in gruppo di lavoro non può che registrare una perdita. Per

gli individui è la perdita di un’opportunità di successo e di apprendimento: diventa una

nuova occasione per alimentare la propria insoddisfazione.

94

2.6 - RICERCHE SPERIMENTALI SUI GRUPPI DI LAVORO7

Non essendo possibile analizzare in queste pagine i contributi di tanti esperimenti, può

essere utile avere presente su quali fenomenologie di gruppo insiste prevalentemente

l’attenzione del ricercatore, sintetizzando in un breve elenco gli indici più

frequentemente utilizzati per indagare le dinamiche di gruppo.

1) Partecipazione. La partecipazione verbale è un indicatore della implicazione

personale. È importante identificare le differenze di livello di partecipazione dei

membri di un gruppo.

2) Influenza. Influenza e partecipazione non sono la stessa cosa. Alcuni possono

parlare molto poco e tuttavia catturare l’attenzione di tutti. Altri possono parlare

molto e non trovar ascolto.

3) Leadership. La leadership può assumere diverse forme. Può risultare produttiva

o meno rispetto al gruppo e al suo lavoro. Un membro influente può aumentare

l’appoggio o la collaborazione degli altri come può alienarseli. Il modo secondo

il quale una persona cercherà di influenzare gli altri determinerà sostanzialmente

il livello di accettazione della leadership.

4) Metodi di presa di decisione. Numerosi gruppi prendono ogni sorta di decisioni

senza soffermarsi sugli effetti di queste stesse decisioni sui membri. Alcune

persone cercano di imporre le loro decisioni agli altri, mentre altre cercano di

sviluppare processi decisionali più collettivi.

5) Funzioni di produzione. Queste funzioni mettono in luce i comportamenti delle

persone che vogliono che il lavoro sia fatto, che vogliono realizzare lo scopo che

il gruppo ha in quel momento.

7 Ricerche tratte da La dinamica di gruppo (2004).

95

6) Funzioni di sostegno o di manutenzione. Queste funzioni giocano un ruolo

importante al livello del morale del gruppo in quanto influenzano le condizioni

(favorevoli o sfavorevoli) per la produzione. Esse mantengono relazioni di

lavoro compatibili e creano un clima di gruppo che aiuta ogni membro a

partecipare al meglio.

7) Il clima di gruppo. Il metodo di lavoro di un gruppo e le “valenze” personali

creano un clima nel gruppo. È possibile comprendere il clima che regna in un

gruppo utilizzando le impressioni generali dei membri del gruppo.

8) Appartenenza. Una delle principali preoccupazioni dei membri del gruppo è

spesso il loro grado di appartenenza al gruppo stesso. Diversi tipi di interazione

possono manifestarsi nel gruppo e offrire indicazioni di gradimento e del tipo di

appartenenza: ad esempio, il formarsi di sottogruppi, l’esclusione di un membro,

movimenti di ritiro…

9) Sentimenti. Durante tutte le discussioni o le attività di un gruppo sono le

interazioni tra i membri a mobilitare i sentimenti. Di questi sentimenti si parla

però raramente. Chi osserva li desume facendosi aiutare dal tono della voce,

dalle espressioni del volto, dai gesti e da altri messaggi non verbali.

10) Norme. Le norme o le regole fondamentali di controllo del comportamento dei

membri di un gruppo e di pressione al conformismo possono essere più o meno

manifeste. Le norme esprimono solitamente le convinzioni o i desideri della

maggioranza dei membri del gruppo riguardanti i comportamenti accettabili o

non accettabili in gruppo. Queste norme possono essere esplicite e chiare per

tutti i membri del gruppo, conosciute o sentite da qualcuno solamente (implicite)

96

o del tutto inconsapevoli. Alcune norme facilitano, altre ostacolano il lavoro di

gruppo.

2.6.1 - Ricerca n°1

Benché, in un certo senso, tutti gli studi riguardanti i processi di gruppo apportino un

parziale contributo al problema della coesione, un certo numero tra questi lo affronta più

direttamente e si segnala per il rigore del piano sperimentale seguito.

Si tratta soprattutto di esperienze di laboratorio compiute da alcuni lewiniani8. Questi

ricercatori hanno convertito il concetto di coesione in “indici operativi”, suscettibili di

misurazione. Si tratta sia di modalità di comportamento registrabili (gradi di

partecipazione ed un compito, di performance, di interazione con i compagni), sia di

indici psicologici più indiretti (livelli di soddisfazione espressi in risposta ad un

questionario, numero e ripartizione di scelte preferenziali, ecc.).

In questa prima sperimentazione viene esaminata la dinamica di gruppo

contemporaneamente nei suoi aspetti interni e sotto la forma di conflitti collettivi, con i

significati culturali che questi hanno.

Allo scopo di eliminare il più possibile l’influenza di fattori estrinseci, anteriori alla

costituzione dei gruppi, viene costituita una piccola colonia di 24 ragazzi di status

sociali molto omogenei, completamente sconosciuti gli uni agli altri, e che non

presentano turbe caratteriali.

8 Lewin è uno dei più importanti ricercatori, se non il più importante, sulle dinamiche di gruppo.

97

In una prima fase di tre giorni, in cui tutti i ragazzi sono riuniti in uno stesso campo, gli

sperimentatori lasciano che si sviluppi una prima rete di affinità, che viene rilevata con

l’aiuto di strumenti socio-metrici.

In una seconda fase i ragazzi vengono divisi in due gruppi, rompendo sistematicamente

tutte le coppie, al fine di eliminare le iniziali attrazioni dai processi che si osserveranno

in seguito. Ogni gruppo vive ormai nel proprio campo, sviluppando delle attività

collettive autonome. I soggetti hanno così l’occasione di conoscersi meglio, di adattarsi

gli uni agli altri, di ripartirsi i ruoli e di attribuirsi gli status: tutti fenomeni che fanno

capo alla costituzione di gruppi veri e propri, con le loro strutture socio-operative e

socio-affettive, e il loro sentimento vissuto di un “noi” collettivo.

In questo periodo, di fatto, in ciascun gruppo appaiono molti segni di coesione: grido di

adunata, canto tribale, attribuzione spontanea di un nome comune. Ma il sintomo più

significativo è il rovesciamento delle scelte preferenziali, in un nuovo sociodramma in

cui esse sono quasi esclusivamente dirette verso i membri del proprio gruppo, a spese

delle preferenze espresse la prima volta. A questa endofilia dell’ingroup si aggiunge

una tendenza al confronto di stile competitivo: i ragazzi oppongono “noi” a “loro” e

sollecitano delle sfide sportive tra i due gruppi.

Una terza fase (cinque giorni più tardi) si ha quando già questo desiderio di

competizione ha trovato soddisfazione. Si assiste allora all’apparizione di un clima di

tensione, e al verificarsi di comportamenti aggressivi di ogni sorta tra i due gruppi:

lazzi, ingiurie, provocazioni, angherie collettive.

Si producono delle distorsioni percettive molto rilevanti, specialmente nel gruppo che è

stato vinto nella competizione: esso percepisce l’altro gruppo come continuamente e

ingiustamente avvantaggiato, e se stesso come oggetto di imbrogli e truffe; razionalizza

98

la sua sconfitta e manifesta la sua frustrazione attraverso disegni e soprannomi ostili.

Si generano così taluni stereotipi, attraverso i quali ogni membro dell’altro gruppo

sarà ormai catalogato.

Questi atteggiamenti diventano ben presto così profondamente radicati, che risulta

molto difficile estirparli o anche attenuarli.

È appunto alla risoluzione di queste difficoltà che gli sperimentatori si dedicano nel

corso di nuove esperienze. Sono stati successivamente sperimentati tre metodi, atti a

ridurre le tensioni fra i gruppi e ad eliminare gli stereotipi aggressivi. Il primo metodo

consiste nel provocare l’unione degli sforzi di tutti contro un terzo gruppo preso come

avversario comune: espediente che può avere una provvisoria efficacia, ma non fa,

comunque, che allargare il problema delle tensioni fra i gruppi. Un secondo metodo

consiste nel provocare dei contatti tra i due gruppi in situazioni per se stesse piacevoli

(sedute ricreative, merende comuni, ecc): i risultati sono però nulli perché i membri dei

due gruppi prendono posto separatamente nei locali comuni, e cercano solamente di

scambiarsi invettive o azzuffarsi. La sola situazione che può giocare un ruolo decisivo,

consiste nel suscitare un’interazione tra i gruppi con l’occasione di un compito urgente,

che vada al di là delle risorse dei gruppi presi isolatamente. Si assiste allora ad

un’evoluzione dei comportamenti e al ristabilirsi progressivo della comunicazione e

della cooperazione tra i gruppi.

Questa evoluzione è confermata dai risultati di un nuovo test, che si basa sull’insieme

della colonia e che rivela una proporzione apprezzabile di scelta verso i membri

dell’outgroup, mentre gli atti aggressivi e gli stereotipi tendono ad attenuarsi molto

notevolmente.

99

Queste esperienze presentano un triplice interesse:

- rilevano anzitutto l’influenza considerevole della situazione gruppale sulle

selezioni interpersonali e l’importanza del fenomeno collettivo di endofilia.

- Permettono di rilevare che quando due gruppi coesi sono mantenuti in uno stato

di segregazione e contemporaneamente di vicinanza, tendono a sviluppare delle

relazioni di ostilità crescente, apparentemente sotto l’influenza di modelli

culturali di stile concorrenziale e competitivo. Questo rilievo è molto

importante, perché mette in luce, da una parte, la persistenza dei modelli propri

della macrosocietà, anche al livello di piccoli gruppi di formazione recente;

dall’altra, permette di osservare che tutto avviene come se il rafforzarsi della

coesione interna al gruppo si accompagnasse ad un rischio crescente di tensione

fra gruppi.

- L’ultima parte di questa esperienza suggerisce tuttavia una linea d’intervento che

permette di sfuggire a questa sorta di fatalità psicosociale: solo l’emergere di

scopi e di preoccupazioni comuni agli avversari che si vuole conciliare può

riuscire efficace. Ma oltre al fatto che non è sempre possibile creare tali

situazioni, non si elimina con questo il pericolo di un risorgere di modelli

competitivi. Si può pensare che questi non sono che rinviati ad un’altra

occasione e su più vasta scala, allorché la comunità rincontrerà qualche nuovo

gruppo estraneo.

2.6.2 - Ricerca n°2

Certe abitudini circa il consumo della carne si erano rivelate negative dl punto di vista

economico, dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1943: si trattava quindi di

100

indurre gli americani a consumare maggiormente le frattaglie – cibo assai spregiato e

di difficile conservazione – per evitare il razionamento degli altri “tagli”.

Sollecitato dai servizi ufficiali, Lewin ebbe l’idea di mettere a confronto due modalità di

intervento in favore del consumo delle frattaglie, nell’ambito dei club femminili, dove si

riunivano regolarmente le massaie di piccole città: da una parte, si avevano delle

conferenze, che vertevano sui meriti nutritizi delle frattaglie e sui mezzi culinari che

permettevano di migliorarne la preparazione e la presentazione: dall’altra delle

esposizioni – discussioni in cui, dopo un’informazione più breve, le donne erano

invitate a porre delle domande e a discutere tra loro, sotto la guida di un animatore.

Si constatò che gli effetti sull’aumento del consumo erano dieci volte superiori con il

secondo metodo (3% contro 30%).

Questi risultati sono stati confermati da altri studi, riguardanti, questa volta, il

confronto tra l’efficacia di istruzioni dietetiche date dai medici individualmente e

l’efficacia di prese di decisione effettuate da piccoli gruppi, sotto la guida dei medici

stessi: si trattava di indurre le giovani partorienti di un ospedale rurale a

somministrare precocemente al loro bimbo dell’olio di fegato di merluzzo e dei succhi

di frutta, invece di mantenerlo a lungo ad un regime esclusivamente latteo. I controlli

ulteriori rivelarono che le madri che si erano decise ad adottare questo nuovo regime

dopo una discussione, lo praticavano effettivamente in un proporzione dall’85% al

100%, mentre quelle che avevano ricevuto delle istruzioni individuali, lo praticavano

solo in una proporzione dal 40 al 50%.

Come spiegare questo vantaggio incontestabile della discussione di gruppo e delle

decisioni collettive?

101

Anzitutto, il grado di implicazione, di impegno delle persone invitate ad una

discussione, è più intenso di quando esse si limitano a leggere un opuscolo o ad

ascoltare una conferenza; i membri di un gruppo di discussione sono più attivi, si

sentono più direttamente coinvolti e soprattutto più profondamente impegnati quando

prendono una decisione collettiva. Inoltre, dal momento che essi possono esprimersi più

liberamente, più spontaneamente, l’animatore coglie meglio le riserve, gli ostacoli, le

diverse difficoltà che sorgono di fronte alle sue proposte o alle sue informazioni, e gli è

possibile tenerne conto. Mentre il colloquio individuale o la propaganda di massa

lasciano l’individuo solo di fronte alle sue esitazioni e alle sue velleità, la discussione è

in grado di suscitare un movimento collettivo di evoluzione degli atteggiamenti. Le

donne, massaie o giovani mamme, hanno posto le domande nella loro propria

prospettiva, in funzione delle loro preoccupazioni e nel loro linguaggio; in seguito,

almeno una minoranza delle massaie si è dichiarata favorevole a fare una prova in

favore delle frattaglie, e a decidervisi insieme; quanto alle giovani madri, è

generalmente all’unanimità che esse si mostravano preoccupate di migliorare la

crescita del loro bimbo con un regime più eclettico.

Interpretazione teorica. – È a questo livello di analisi che Lewin coglie il nocciolo del

problema: una delle principali sorgenti della resistenza al cambiamento, è la paura di

allontanarsi dalle norme del gruppo. Ecco perché, conclude Lewin, è più facile

modificare le abitudini di un gruppo che quelle di un individuo preso isolatamente,

anche quando non si tratta di una decisione circa un fine comune, ma di una decisione a

riguardo di comportamenti individuali in un contesto sociale (per quello che ci

102

riguarda, possiamo parlare di apprendimento di nuovi atteggiamenti, comportamenti,

conoscenze).

Lewin trae, da questo insieme di ricerche, un’interessante teoria sugli equilibri sociali e

le loro trasformazioni. Che si tratti di abitudini alimentari o professionali, di modalità di

comando, di clima sociale o di livello di produttività, ci si trova – tranne che nei periodi

di brusche crisi – in presenza di equilibri quasi stazionari. Se si vuole introdurre un

cambiamento, bisogna riuscire a modificare questo equilibrio in un senso deliberato.

Se si hanno a disposizione allora due metodi: aumentare le pressioni nel senso del

cambiamento, oppure diminuire le resistenze che si oppongono a questo cambiamento

stesso. Praticare esclusivamente il primo metodo, porta quasi sempre a tensioni e

conflitti più o meno rilevanti.

Bisogna dunque associarvi il secondo metodo.

Dal momento che sappiamo che una delle principali fonti della resistenza al

cambiamento è la paura di scostarsi dalle norme tradizionali, se i membri dei gruppi

sono indotti ad accettare “insieme” la messa in discussione di queste norme, il processo

di evoluzione è avviato.

Lewin completa la sua teoria sottolineando che questi fenomeni di resistenza o di

evoluzione, devono essere considerati nel contesto sociale in cui si manifestano. Ciò

richiede un’analisi accurata delle situazioni concrete nelle quali si desidera praticare un

intervento. È importante, specialmente, determinare i diversi gruppi che sono implicati,

in modo diretto o indiretto, nel caso di questo o quel cambiamento, e lo status e il ruolo

delle differenti persone all’interno di questi gruppi. Ogni processo sociale suppone una

rete di comunicazioni e una serie di operazioni; certe regioni di questa rete giocano un

ruolo particolarmente importante: Lewin propone di chiamarle “porte”. È al livello di

103

queste porte e dei loro “portieri” che si operano le scelte decisive, dopo momenti di

esitazione – o talvolta di conflitto – e di esperienze concrete (ad esempio il leader può

essere considerato una “porta”).

2.6.3 - Ricerca n°3

Ricerche sul cambiamento dei metodi di lavoro. - Prenderemo come esempio uno studio

realizzato nell’ambito di un’industria, da due ricercatori della corrente lewiniana, poiché

esso presenta un duplice interesse, positivo e critico: mitologicamente esso costituisce,

grazie al suo schema rigoroso, una specie di esperienza sul campo, in cui si manipolano

delle variabili ben definite, invece di limitarsi, come in molte inchieste, a isolare delle

correlazioni fra taluni fattori; quanto alla sua portata però, esso può dare adito a qualche

critica di ordine sociologico, e induce a porre in modo più esauriente il problema della

partecipazione al cambiamento.

L’obiettivo dello studio è di rilevare l’importanza dei fattori psicosociali durante

l’introduzione progressiva di nuove macchine in una officina tessile.

Lo schema sperimentale comporta tre gruppi di lavoro, produttivi in eguale misura

prima del cambiamento di macchine.

- nel gruppo G0, detto di controllo, si procede come al solito: cioè, arrivato il

giorno, ci si limita a spiegare agli operai l’uso delle macchine, esortandoli a

fare del loro meglio, e annunciando loro soltanto che le nuove norme di lavoro

saranno stabilite dai servizi competenti.

104

- Nel gruppo sperimentale G1, dopo aver esposto le ragioni del cambiamento

tecnico, si invitano i lavoratori a designare dei delegati che collaboreranno con

il Servizio Metodi nello stabilire le norme dopo una fase di collaudo.

- Nel gruppo G2, è l’intero gruppo che è invitato a collaborare nello stabilire le

norme.

Ne conseguono dunque tre livelli di partecipazione al cambiamento: nullo, indiretto,

diretto. Si osserva ciò che avviene nei giorni successivi all’introduzione delle nuove

macchine, e specialmente il grado di diminuzione temporanea della produzione e i

processi di recupero.

- quanto al rendimento, si constata dapprima un brusco abbassamento in tutti i

gruppi durante i primi giorni: ma solo il gruppo G0, dove non c’è nessuna

partecipazione, non recupera neppure in seguito il livello di produzione

precedente, mentre gli altri due gruppi (soprattutto G2) recuperano e superano

presto questo livello.

- Quanto al morale, si constata nel gruppo di controllo un vivo malcontento, che

si traduce nell’abbandono del lavoro da parte di due operai e in numerosi

reclami. Nel gruppo sperimentale G1 il morale è abbastanza soddisfacente,

malgrado certe inquietudini e discussioni.

Nel gruppo G2 il morale è eccellente e non si presenta alcun problema.

Si può dunque concludere che sono proprio i metodi di introduzione del cambiamento

(informazione e partecipazione offerte o assenti) che provocano una differenza

significativa negli atteggiamenti e nelle condotte professionali.

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PARTE TERZA

Due epoche a confronto

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CAPITOLO 1 - RIASSUMENDO

SOCRATE

TECNICHE OGGI

- il dialogo interpersonale

- martellare di domande

- la maieutica

- il formatore ha il compito di guidare

la discussione

- stimolazione degli scambi tra i

partecipanti

- proporre questioni relative al

problema analizzato

- facilitare la partecipazione di

ciascuno

- riformulare, riassumere certi

interventi

- mettere a confronto, ricollegare gli

apporti tra loro

- fornire suggerimenti e orientamenti

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TECNICHE OGGI

Provvisorietà delle conclusioni

apertura mentale

- mettersi in discussione

- partecipare a più sessioni di

formazione

Sapere di non-sapere

il dubbio

Per apprendere bisogna essere consapevoli

di non sapere tutto

Stile modulato sull’interlocutore

Una metodologia pertinente non si esaurisce

nell’uso di qualche tecnica-chiave, ma

consiste nell’adeguamento delle formule di

formazione agli obiettivi perseguiti ed alle

situazioni specifiche

Sapere utile a tutte le attività umane Presupposto dei gruppi di formazione

psicosociale

PLATONE

TECNICHE OGGI

Scrittura: i miti

- diffondere la giustizia comunicando

in maniera accessibile

- parlare di cose altrimenti

inspiegabili

- l’uso delle favole per apprendere la

morale

- il metodo dei casi nelle dinamiche

di gruppo

- l’uso di esempi durante la

spiegazione di un argomento

Porre il sapere a disposizione della

comunità

Ruolo del formatore

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TECNICHE OGGI

Metodo maieutico: condurre il discepolo a

trovare da solo la soluzione

Tecnica attuale nella risoluzione dei casi

Soltanto cimentandosi nel mondo umano,

l’uomo avrà compiuto la sua educazione e

sarà veramente filosofo

Soltanto con la pratica si può dire di saper

fare veramente qualcosa

ARISTOTELE

TECNICHE OGGI

Insegnare passeggiando per trasmettere

l’amore per tutto ciò che è il mondo e per

far assorbire l’essenza della natura

- Outdoor development

- Outward bound

- TM

Il Liceo come primo esempio di istituto

scientifico nel senso moderno del termine

Attuale

Chi non è capace di insegnare non può

asserire di conoscere

Chi non è preparato professionalmente e

personalmente non può improvvisarsi

formatore

L’individuo non può da solo provvedere ai

suoi bisogni

È il principio che sta alla base della

formazione di gruppo

109

CONCLUSIONI

Come abbiamo visto, il campo della formazione è in continua evoluzione, ma le

tecniche introdotte da tre grandi maestri quali Socrate, Platone e Aristotele rimangono

ancora attuali.

Tecniche come il dialogo socratico, il mito platonico e i concetti innovativi di Aristotele

vengono soprattutto applicati nella formazione in aula.

Possiamo notare come queste tecniche risultino vincenti nel dibattito sui metodi

descritto in precedenza. Riprendiamo i concetti più importanti:

ATTIVISMO

Coinvolgimento diretto dell’allievo tramite il dialogo, la discussione, esempi,

casi pratici

Imparare facendo esercizi la pratica prima di tutto

Discussione e confronto la maieutica

PROCESSI

Modalità di apprendimento centrata sull’elaborazione più personale l’allievo

al centro del processo formativo, presupposto anche di Socrate, Platone e

Aristotele

DESTRUTTURAZIONE

Costruzione momento per momento del percorso formativo adeguamento del

percorso all’allievo.

Alla luce di queste considerazioni la mia opinione è che questi grandi maestri hanno

creato le basi che hanno permesso a una materia come quella della formazione di

crescere e diventare così importante come lo è oggi.

110

Ma soprattutto sostengo che essi rappresentano i “pilastri” a cui far riferimento quando

si vuole studiare, approfondire e anche esercitare la professione del formatore. Infatti,

ritengo si tratti di tre figure fondamentali non solo per la filosofia ma anche per la

formazione.

In conclusione, il fatto che le loro tecniche siano ancora oggi così presenti è l’ulteriore

dimostrazione che ciò che è stato da loro introdotto in materia di formazione non può

che costituire la base delle conoscenze che ogni buon formatore dovrebbe possedere.

FINE

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Bibliografia GEYMONAT, L., L’Antichità il Medioevo, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Vol.1, Aldo Garzanti Editore, Milano 1997. KANEKLIN, C., Il gruppo in teoria e in pratica, Edizioni Libreria Cortina, Milano 1993. MAISONNEUVE, J., La dinamica di gruppo, Celuc Libri, Milano 2004 (Presses Universitaires de France, Paris 1973). MASSARO, D., FORNERO, G., Fare filosofia, Paravia, Torino 1998. QUAGLINO, G. P., Fare formazione, Il Mulino, Bologna 1985. QUAGLINO, G. P., CASAGRANDE, S., CASTELLANO, A., Gruppo di lavoro Lavoro di gruppo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992. WATZLAWICK, P., BEAVIN, J. H., JACKSON, D. D., Pragmatica della comunicazione umana, Casa Editrice Astrolabio, Roma 1997 (W. W. Horton&Co, New York 1967). Immagini

Pag. 5. Platone e Aristotele.

Pag. 9. Socrate.

Pag. 15. Platone

Pag. 20. Aristotele.

Tratte da

http://www.filosofico.net

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