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Storia Dell'Architettura Contemporanea II
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Capitolo primo
L’irresistibile mito del Movimento Moderno
Nel 1936 Nikolaus Pevsner pubblica il libro Pioneers of the Modern Movement from
William Morris to Walter Gropius. Nel tentativo di prefigurare in un’entità unica l’intero
Movimento Moderno, egli affianca in modo forzato le figure Di Morris e Gropius, ottenendo
in tal modo un testo dai contenuti piuttosto confusi, tenuti insieme da l’unica costante
dell’elemento industriale. Sarà piuttosto Reyner Banham, il suo allievo migliore, a
dimostrare analiticamente come la vicenda architettonica moderna sia il frutto di una
pluralità di personaggi ed eventi.
Un contributo ulteriore alla creazione del mito del Movimento Moderno è fornito dall’ opera
di Sigfried Giedion, Space, Tima and Architecture, e l’istituzione dei CIAM (Congrès
Internationaux d’Architeture Moderne), identificato in un ristretto gruppo di protagonisti
dell’architettura mondiale.
Fin dal primo Congresso, fa la sua comparsa il valore del terreno, arrivando al punto di
chiedere l’abolizione della rendita del suolo, per permettere all’urbanistica di riuscire nella
sua impresa riformatrice. E non è certo un caso che in questa loro “missione” i CIAM
assumano il volto di Le Corbusier.
Di particolare importanza risulta il tema dell’ VIII Congresso: accordare funzionalità
moderne con la dimensione storica della città. Rogers, all’interno di questo ambito,
assume il ruolo più eccellente tra gli architetti europei di quei tempi, risultando però di una
banalità sconcertante; ciò sta ad indicare il “vuoto intellettuale” ormai dominante nei CIAM
del dopoguerra.
La loro fine non tarda a venire, tra dissidi e incomprensioni interne che tempo prima invece
ne costituivano l’animo vero e proprio.
È tuttavia che, a partire dagli anni sessanta, ha inizio la minuziosa opera di demolizione
del mito del Movimento Moderno.
Nel caso di Banham ciò si traduce nel fondamentale Theory and Design in the First
Machine Age, mentre in quello di Manfredo Tafuri invece, con Progetto e Utopia,
nell’operazione di demistificazione dell’intera vicenda architettonica da metà Ottocento al
1931 (anno di crisi verificabile in tutti i settori).
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Capitolo secondo
Il gioco dell’identità
1959: Frank Lloyd Wright. 1965: Le Corbusier. 1969: Walter Gropius e Ludwig Mies van
der Rohe. Nell’arco di un decennio scompaiono le quattro figure più importanti della fase
moderna dell’architettura. L’analisi dei loro “atti” chiarirà effetti e sviluppi assai diversi,
nonostante il comune denominatore del Movimento Moderno.
Wright può apparire a prima vista il meno problematico e il più lineare, invece la sua
opera è caratterizzata da una continua e instancabile ricerca architettonica .
Con la Unity Church (1945-51), la sede della First Unitarian Society in Winsconsin,
fornisce una radicale versione di come un edificio dovrebbe apparire, se sorgesse
spontaneamente dal terreno (grezzi muraglioni di pietra calcarea).
Proseguendo per la sua strada, Wright inizia a sperimentare l’uso di
forme curvilinee , nell’intenzione di riuscire a superare la tradizionale configurazione
scatolare.
Allo stesso momento vi è in questa scelta, un tentativo si smaterializzare e di far levitare
gli edifici: tali capacità vengono alla luce con straordinaria efficacia nel Country Club
ad Hollywood.
Tali forme tondeggianti confluiranno più tardi in una valenza simbolica, ad identificare la
dinamica, il dinamismo, delle profonde mutazioni avvenute nella società
americana di quegli anni. Da ciò discendono le tavole di The Living City (1958),
dove avanguardia e retroguardia si mescolano in un tutt’uno nel costruire una società
tecnologica a servizio di una comunità bucolica. L’economia pensata da Wright si fonda su
un sistema misto agricolo-industriale e sulla dispersione degli edifici pubblici,
contro ogni loro normale accentramento, mentre le dimensioni delle case sono misurate in
funzione del numero di automobili possedute. Ciò a cui egli tende dunque è
l ’oltrepassamento della normale contrapposizione città -campagna o
più specificatamente tra campagna e tecnologia, nel tentativo ultimo di far “scomparire” la
città, trasformandola in nazione.
Ma su un ben più arduo terreno di scontro dovrà misurarsi l’architettura wrightiana al
culmine della sua evoluzione: Manhattan e le ferree leggi della sua griglia. È nella
metropoli che Wright fa atterrare l ’”astronave” del Guggenheim Museum
(1943-59).
Il progetto muta numerose volte, perfino il verso, concepito dapprima come un Ziggurat,
successivamente si trasforma in “Taruggiz”.
Con tale apparecchiatura a spirale, illuminata zenitalmente da un grande lucernario,
Wright offre una concezione del museo radicalmente nuova : uno spazio
dinamico, dove la visione delle opere avviene a scorrimento. La rigidità che però ne
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consegue, e quindi le difficoltà ad essere accettato, insieme all’innovazione che porta con
sé, formano il suo essere “alieno” (astronave) rispetto a tutto ciò che lo circonda.
L’”attitudine rivoluzionaria” rivendicata da Le Corbusier è alle radici della sua
straordinaria capacità d’innovarsi , dimostrata nel progressivo abbandono di un
vocabolario moderno divenuto patrimonio largamente diffuso. Il cemento armato
intonacato di bianco viene sostituito con pietre lasciate a vista, mentre i solai rettilinei
lasciano il posto a volte a botte ribassate: la rusticità dei materiali risulta in perfetta sintonia
ad un’estetica moderna.
Le Corbusier fa propri i linguaggi spontanei legati soprat tutto alla
cultura mediterranea , e ciò che ne deriva sono esterni dall’aspetto brutale ,
abissalmente distanti dal periodo purista.
Ma la grande lezione plastica e brutalista del nudo cemento mostrato così come esce dalle
casseforme era stata anticipata nell’Unité d’habitation di Marsiglia (1946-
52).
Un edificio comunitario e autosufficiente, progettato per la prima volta sul modello del
Modulor (un sistema proporzionale basato sulle misure del corpo umano), si sintetizza
in un imponente superblocco, fatto galleggiare su pilotis , a immagine di enorme
piroscafo .
Il suo fine ultimo non è, come può sembrare, la modifica dei rapporti sociali (grande
comunità), ma bensì migliorare gli “sti li di vita” dei suoi abitanti.
Di natura politica è invece la complessa vicenda che coinvolge il progetto per il
Palazzo delle Nazioni Unite a New York (1947). Qui Le Corbusier fissa i
caratteri essenziali che rimarranno impressi nei suoi elaborati seguenti: un
frammento di Ville Radieuse che però finisce per passare nelle mani di W. Harrison,
il quale finirà col “manhattanizzarlo”.
Dall’incontro di seduzioni mediterranee e di istinti brutalisti
scaturisce la Cappella di
Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp (1950-55), la quale ha fatto spesso parlare
di abiura dei principi affermati da Le Corbusier. In realtà, tale apparente conversione
sottolinea soprattutto la relatività di quei principi: i muri pieni, inclinati e ripiegati e la
possente ed espressiva copertura in béton brut rappresentano la saldatura di costruzione
e architettura, di “tener su” e di “commuovere”. E non è certo un caso che ciò
avvenga in una chiesa, dove razionalizzazione e standardizzazione non hanno motivo di
esistere.
La figura esteriore, quasi fosse una scultura, e l’illuminazione interna, che le conferisce
l’immagine di chiesa rupestre, non hanno nulla a che vedere con una concezione
architettonica storicistica o rustica: la Chapelle de Ronchamp è i l prodotto di tutta
l ’esperienza lecorbuseriana finora accumulata.
All’unicum di Ronchamp risponde il tipo potenzialmente replicabile del
Convento domenicano di Sainte-Marie-de-la-Tourette presso Lione
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(1952-60) derivante dall’incancellabile impressione suscitata dalla vista della Certosa di
Ema (di Firenze).
L’elemento caratterizzante è la complessità della macchina conventuale,
che si manifesta nel trattamento delle facciate : pan de verre orizzontali
(facciate continue in vetro), modulati da montanti ritmicamente irregolari, compatte distese
di béton brut e griglie regolari di brise-soleil. L’organicità della vita monastica è così
espressa senza simulare presunte “armonie prestabilite”, bensì mostrando l ’ intreccio
dei suoi ambienti .
La medesima capacità “selettiva”, applicata a una scala diversa, guida Le Corbusier
nell’incarico di realizzare la nuova capitale del Punjab, Chandigarh (1951).
In particolare egli si concentra sul settore del “Campidoglio”: qui gli edifici del
Segretariato, del Parlamento, dell’Alta Corte di Giustizia e il Palazzo del Governatore
spiccano come figure isolate, unite soltanto da relazioni virtuali come
bacini d’acqua e altri “congegni” (la Torre delle Ombre, il Monumento dei Martiri, il
Monumento della Mano Aperta, la fossa della Considerazione).
Più che di natura politica, la rappresentazione allestita da Le Corbusier a Chandigarh è di
ordine cosmico ; in questa prospettiva, il Palazzo del Governatore ha la parvenza di
“montagna sacra” e l’immagine del Parlamento” mira a richiamare antichi osservatori
astronomici indiani.
A Chandigarh si chiude un ciclo apertosi cinquant’anni prima: un’avventura intellettuale
che sarebbe limitato classificare sotto categorie di purismo o di razionalismo, dato che in
lui risiede lo spirito del rifondatore di civiltà, illimitatamente fiducioso nei poteri del
logos (parola).
Ben diverso il caso di Gropius . Dopo la caduta in lui di ogni tensione ideologica
(Bauhaus), emergono con piena evidenza i limiti delle sue capacità progettistiche.
La sua chiamata alla Harvard Graduate School of Design , in qualità di
direttore del Dipartimento di Architettura, conferma tuttavia la sua abilità di insegnamento
e organizzazione didattica.
Dopo la rottura con Breuer (1941), Gropius ricorre a una nuova partnership con un’équipe
di giovani architetti, componendo la TAC (The Architects Collaborative); i risultati di
questa collaborazione sono tuttavia deludenti.
Ma la “pietra dello scandalo” legata al nome di Gropius è il grattacielo della Pan
Am a New York: oltre alla somiglianza quasi da plagio col Pirellone di Giò Ponti, è la sua
infelice posizione che rompe la griglia di Manhattan, a destare le critiche più feroci.
Il Nordamerica è per Mies la terra delle “occasioni”, il luogo in cui la sua
architettura può servire il reale.
L’intervento al Campus dell’IIT a Chicago è completato agli inizi degli anni cinquanta
con i due edifici più delicati dal punto di vista simbolico: la Cappella e la Crown
Hall (sede di architettura e design).
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Nel primo caso Mies utilizza estetica e materiali impiegati negli altri edifici
a destinazione profana : l’acciaio, il mattone e il vetro: la forma è quella di un
semplice parallelepipedo.
In questa cappella non c’è nulla di spettacolare; nella sua semplicità non è rozza ma nel
suo piccolo risulta monumentale.
Nel caso della Crown Hall , invece, ogni parvenza modesta è abbandonata; sontuosità
e nobiltà sono ottenute facendo ricorso a materiali che ben si adatterebbero alla
realizzazione di un capannone industriale. Simmetria ed elevazione da terra
(larga rampa di scale) sono gli intramontabili dispositivi di cui Mies si avvale per
conferire un’aura cerimoniale allo spoglio volume. Ben diversa però è la sua
realtà costruttiva: un unico grande ambiente completamente sgombro da ostacoli. Per
ricorro Mies si avvale di un esoscheletro in acciaio, costituito da quattro travature disposte
a ponte che hanno la funzione di tenere sospeso il tetto piano.
Tutto ciò non riuscirebbe comunque a innalzarsi al livello del monumentale in assenza di
una ricercata cura dei particolari , tipica di Mies (lo sfiorarsi dei pilastri d’angolo,
l’opacizzazione dei vetri a livello dei tavoli).
Trionfo del particolare è la Farsnworth House a Plano (1945-51). Nella
riduzione all’essenziale , infatti, si rivela in tutto il suo senso il noto “less is
more”. In essa la condizione dell’abitare è fissata senza nostalgie e illusioni: capanna
primitiva vitruviana cha ha incontrato la Maison Dom-ino di Le Corbusier.
Di una pedana rettangolare , sollevata da terra, circa un terzo è occupato da un
portico coperto, mentre il restante è occupato dal volume interamente vetrato
della casa. Relazioni proporzionali connettono tra loro i pochi elementi della casa,
emancipandoli da qualsiasi rigidità meccanica. Inoltre egli rende l’edificio permeabile
alla natura con l’impiego di materiali assoluti quali appunto il vetro e l’acciaio.
All’inizio degli anni cinquanta Mies si dedica al tema metropolitano degli edifici
residenziali sviluppati in altezza . Con i Lake Shore Drive Apartments a
Chicago (1948-51) sperimenta una struttura a scheletro in acciaio, su due
parallelepipedi perpendicolari di 26 piani.
Il curtain wall regolare delle facciate (non più come i primi grattacieli berlinesi) rende
l’edificio perfettamente uniforme e neutrale, divenendo la nuova unità di
misura dell’universo metropolitano.
Tra tutti i grattacieli realizzati, il più famoso è senza alcun dubbio il Seagram
Building di New York (1954-58). Animato dalla ricerca di alcun “carattere
individuale”, il suo intento è quello di ottenere chiarezza strutturale e costruttiva. Ciò
implica l’accettazione di un’inevitabile ripetitività, senza però perdere identità architettonica
nel suo gioco di specchi.
Tre precisi motivi distinguono il Seagram Building dagli altri grattacieli newyorkesi: la
preziosità dei materiali, l’accuratezza nella sua esecuzione e il
modo in cui l ’edificio è disposto sul sito . Dettagli in apparenza secondari,
come il soffitto sospeso impostato su un modulo quadrato, capace di determinare una
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perfetta uniformità dell’illuminazione, contribuiscono al senso di compostezza che domina
il tutto.
Ma è soprattutto l’arretramento dal fronte della Park Avenue che dà al Seagram una
leggibilità straordinaria: Mies dispone l’edificio su un podio rialzato di pochi gradini e
completamente vuoto per un terzo. Due vasche rettangolari lo delimitano
lateralmente, rivelandone così la natura di palco teatrale: Mies van der Rohe invita a
“riflettere”.
Il tema di un vasto spazio coperto si presenta nella Nationalgalerie di
Berlino (1962-68).
Il progetto è impostato su una pianta quadrata e sulla suddivisione dello spazio espositivo
su due livelli: quello superiore, destinato a ospitare le esposizioni temporanee, e quello
inferiore, le collezioni di arti figurative del XIX e XX secolo.
Un massiccio zoccolo rivestito di pietra fa da basamento al padiglione delle esposizioni:
otto pilastri cruciformi alti più di 8 metri ne sorreggono lo spesso tetto piano aggettante,
rifinito all’interno da una griglia metallica che rievoca un classico soffitto cassettonato.
L’intera struttura in acciaio è verniciata di nero.
Pur concepita tecnicamente, l’architettura di Mies mantiene invece
intatta la sua aura ; ed è anzi proprio la presenza dell’aura che in essa fa la
differenza rispetto all’edilizia corrente, spesso basata sui suoi stessi principi.
Ciò che sorprende, semmai, è che la replica quasi identica della Nationalgalerie verrà
impiegata da Mies per la sede degli Uffici Bacardi: dimostrazione che l ’architettura
abbia poco o nulla a che fare con la ricerca di forme inte ressanti o
con le inclinazioni personali.
Capitolo terzo
Professione eclettismo
Il grattacielo è un’entità in sé eclettica : dalla pura accumulazione di capitali e
di volumetrie, alla loro sublimazione in simboli di potenza, il grattacielo comprende tutto,
assumendo identità costantemente differenti. Ciò lo rende suscettibile a libere
sperimentazioni e rappresentazioni di qualsiasi genere che ne
definiscano il carattere.
Così è per il Chrysler Building (1928-30) di William Van Alen e per l ’Empire
State Building (1929-31) di Shreve, Lamb&Harmon. È significativo però che proprio il
Chrysler e l’Empire concentrino il loro carattere esclusivamente nella zona sommitale.
Dietro la creazione di una silhouette riconoscibile e dal contenuto simbolico, risulta ormai
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chiaro che ciò che conta davvero è la realtà economica e la materialità del
grattacielo .
La medesima complessità , questa volta sul piano organizzativo e gestionale,
si ritrova nel Rockfeller Center , operazione finanziaria ed edilizia di gigantesche
proporzioni che vede impegnati una serie di uomini sotto il nome di Associated Architects
(tra cui Raymond Hood, Harvey Corbett e Wallace Harrison). Il Rockfeller Center
comprenderà un gran numero di edifici di altezze e destinazioni differenti, unite solamente
dal medesimo trattamento delle facciate.
Quanto ne deriva è un eclettismo, non tanto dal punto di vista stilistico,
quanto piuttosto come atteggiamento di aperta disponibilità nei
confronti di una molteplicità di fattori , tutti possibili.
Da qui alle posizioni espresse da Philip Johnson (1906-2005) il passo è breve.
Nell’introdurre i suoi scritti, Peter Eisenman sottolinea come l’inclinazione di questi per
l ’eclettismo sia di natura essenzialmente anti -ideologica ; e come
l’espressione “eclettismo funzionale” sia un tentativo di privare il funzionalismo del carico
di responsabilità etica e sociale che esso porta con sé dall’Europa. Il campo che così si
dischiude è quello di una libertà fatta di infinite possibilità da esplorare.
Uno sguardo più ravvicinato alle sue opere, tuttavia, lascia scorgere non soltanto i limiti
del suo modus operandi, ma anche il voler a tutti i costi mantenersi al tempo con
le “punte” più avanzate dell’architettura.
Nel corso dei viaggi in Europa compiuti dal 1930, Johnson entra in contatto con Oud, ma
soprattutto con Mies van der Rohe. Quest’ultimo segna profondamente la sua vita
professionale: le sue prime architetture sono tutte nel segno della lezione miesiana .
La più famosa e riuscita tra le case di Johnson è la Glass House a New Canaan ,
Connecticut (1946-49). Nonostante prenda a modello il progetto per Casa Farnsworth ne
fornisce però una versione più cauta e tradizionale (pilastri negli angoli, attacco
diretto a terra). Ma se da un punto di vista qualitativo Johnson rimane distante da Mies, il
linguaggio semplificato che utilizza risulta più comprensibile alla società
americana .
L’aggiunta di ulteriori edifici e folies, nell’arco di trent’anni, fa della proprietà di New
Canaan una sorta di trailer della sua carriera.
Salvo la partecipazione per la realizzazione del Seagram Building, l ’ incontro con il
grattacielo si rivela fatale : nel suo spirito eclettico, infatti, l’eclettismo
associato al grattacielo trova il compimento supremo. Nelle sue mani, in tal modo,
il grattacielo può assumere qualsiasi figura.
Nella versione sempre più scatenata degli anni ottanta, “l’eclettismo funzionale ” di
Johnson diviene via via scenografico , addirittura pornografico: come il PPG PLace di
Pittsburgh, sei edifici di vetro specchiante in stile neogotico, o ancora il Lipstick Building,
un piccolo grattacielo travestito da rossetto. Né la furia kitsch si ferma al cospetto del
sacro.
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La deregulation diventa la regola e tuttavia risulta illuminante che Johnson
continui a tessere la fitta trama delle sue conoscenze, al punto di essere insignito, nel
1979, del Pritzker Price.
Promotore di numerose iniziative nel campo della cultura architettonica, e ormai elevato al
rango di “grande vecchio” dell’architettura mondiale, esercita un’influenza e un potere
sempre più vasti.
Ed è così quasi logico che le sue ultime opere facciano proprie le scomposizioni di
Eisenman e le deformazioni di Gehry, i suoi due kids prediletti.
È proprio nel quadro, tendenzialmente povero di sorprese, del professionismo
architettonico statunitense degli anni trenta e cinquanta che si staglia la figura di
Richard Neutra . Pur collocandosi pienamente nell’International Style, ne
approfondisce aspetti in modo del tutto inatteso.
Egli sviluppa sin dai primi anni un complesso progetto urbano all’interno della città
capitalista, attraverso il controllo qualitativo della standardizzazione della
produzione edilizia, integrato con un’efficiente sistema dei trasporti e del traffico.
Rimanendo il suo progetto praticamente lettera morta , Neutra si concentra sulla
messa a punto di soluzioni per la costruzione di edifici residenziali.
Fortemente sperimentali nell’uso di tecniche e materiali innovativi ma al tempo stesso
poco costosi, molto controllate nella forma e nell’organizzazione spaziale, risultano così i
suoi corpi scatolari allungati, spesso incrociati perpendicolarmente da altri corpi minori.
Il punto d’incontro tra le due direzioni di sviluppo genera spazi interni ed esterni allo stesso
tempo.
Proprio per il grande successo che ottiene, però, la sua architettura finirà
per trasformarsi in “maniera” , dove la jet-society angelena trova e celebra la
propria “fiera delle vanità” .
Capitolo quarto
Il colloquio con la tradizione I
L’architettura del secondo dopoguerra in Italia merita una trattazione
corale. Tra molteplici contraddizioni vi è tuttavia una tendenziale unitarietà nell’impegno
per la ricostruzione del paese e successivamente partecipare alla sua vorticosa crescita
economica. Si tratta in sostanza di costruire una società .
Nelle circostanze imposte dalla ricostruzione, la cultura architettonica italiana per un verso
si trova concorde nel dare la propria adesione a criteri costruttivi moderni , per
l’altro non manca di rivolgere lo sguardo all’indietro . Strumenti impiegati
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appunto nell’inserimento di edifici nuovi in tessuti storici oppure nel costruire quartieri di
edilizia economica popolare ai margini dei grandi centri abitati.
Il nesso modernità-tradizione si fonda su una comune aspirazione
all’essenzialità , sia linguistica che materica.
Già prima della guerra, Giuseppe Pagano aveva individuato nell’architettura
rurale italiana una possibile fonte di ispirazione.
Nella versione del dopoguerra, la dialettica Roma-Milano presenta caratteri
differenti , e tuttavia comparabili: se la scuola romana ricerca un
linguaggio popolare, la scuola milanese si mantiene su una linea
aristocratica e intellettuale che tratta la “tradizione in architettura” . E
infatti, a fondamento dell’architettura di personaggi come Ignazio Gardella ,
Mario Asnago e Claudio Vender, Luigi Caccia Dominioni e Vico
Magistretti , oltre alla presenza di sobri richiami alla tradizione, vi sono una razionalità
intesa come volontà di chiarezza, di intelligibilità delle forme e il tentativo di istituire un
rapporto col luogo.
Gli esiti si possono riscontrare negli edifici del Quartiere “Mangiagalli” di Milano
(1950-52), progettati a Albini e Gardella , che pur mantenendo una serialità tipologica
dell’alloggio, rompono la consueta regolarità inflettendo obliquamente le pareti;
ma anche nella Casa per impiegati Borsalino di Alessandria (1948-52),
dove il moto ondulatorio conferisce all’edificio l’aspetto di enorme paravento in laterizio.
Da un razionalismo schematico si discosta anche la Casa al Parco Sempione a
Milano : due sistemi costruttivi diversi per i due ambienti differenti (giorno e notte) su cui
è concepito l’edificio.
Il problema dell’inserimento del nuovo nelle preesistenze trova nella
veneziana Casa alle Zattere (1953-58) sempre di Gardella una delle manifestazioni
più emblematiche. Situata di fronte alla Chiesa del Redentore di Palladio nella versione
definitiva assume una composizione ponderatamente asimmetrica che compie un lavoro di
“assimilazione” dei caratteri di Venezia. Attraverso l’impiego di balconi all’italiana e motivi
decorativi nella muratura si compie una piccola “rivoluzione”: l iberare l’architettura
moderna dalle sue troppo ferree catene .
Interessante è il confronto tra due quartieri costruiti ai margini delle città, pressoché
contemporanei: il QT8 a Milano (1946-50) e il Tiburtino a Roma (1949-
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Il primo, originato dal contributo della Triennale e di Piero Bottoni vede il proprio
tema fondante nella sperimentazione di nuove tipologie basate su una
tecnologia di prefabbricazione ; il secondo, che vede la partecipazione del piano
Ina-Casa e di personaggi come Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi in
primis, si propone invece come sagra di “motivi strapaesani , dai balconi in ferro
battuto, alle coperture tradizionali”.
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Se dunque il QT8 risulta “irreprensibile” da un punto di vista grammaticale e sintattico ma
scarsamente comunicativo , i l Tiburtino si esprime in modo volutamente
sgraziato, ma riesce a entrare in colloquio con i ceti popolari che lo abitano.
In una profonda “venezianità” si radica il lavoro di Carlo Scarpa: non soltanto per
il suo carattere artigianale, ma anche per il particolare rapporto che instaura con
l’elemento dell’acqua e con il lavoro dell’intarsio; le opere di Scarpa si presentano
intimamente composite ma non per questo incoerenti.
Nella Gipsoteca Canoviana a Possagno , come nel Museo di
Castelvecchio a Verona il trait-d’union è lo sforzo di comporre un’infinità di
frammenti di natura, epoche e materiali diversi. L’opera di liberazione delle opere, che
lascia prosperare le contraddizioni anziché soffocarle, ha come propri riferimenti
figurali soprattutto l’architettura di Wright e la cultura tradizionale
del Giappone.
Villa Veritti, Villa Ottolenghi o la monumentale Tomba Brion , parlano un linguaggio
singolare, ricco di dettagli e sfumature difficilmente sintetizzabili in una sola definizione. In
particolare proprio la Tomba Brion più che una semplice sepoltura, rappresenta un
cammino iniziatico che congiunge vita e morte.
Tuttavia, è all’inizio degli anni sessanta, che l’architettura italiana conosce un’involuzione
rilevante. L’attenzione degli architetti italiani si sposta verso quella
“nuova dimensione” della “città territorio” , favorendo in tal modo la nascita
di un nuovo utopismo. È il generale orientamento a favore di un megastrutturalismo di
marca internazionale, che fa delle dimensioni imponenti e dell’uso indiscriminato della
tecnologia, gli strumenti prediletti.
L’ultimo tentativo di controllo della grande dimensione risulta quello formulato da Quaroni
per il Quartiere Cep si San Giuliano a Mestre. Nei quattro edifici a forma di cerchi aperti in
direzione della laguna è leggibile la volontà di identificare lo spazio collettivo, attraverso
una forma archetipa. Se nostalgico, e utopico, può apparire questo tentativo, va
riconosciuto però l’atteggiamento politico di quest’atto.
In quest’ottica, esauritosi il “contagio” megastrutturale , non stupisce che tale
spirito politico permanga , come accade nel complesso residenziale “Monte
Amiata” al Quartiere Gallaretese di Milano ; qui un teatro semicircolare
all’aperto e un sistema di piazze interne con relative passerelle, ne costituiscono il fulcro .
Ciò che più di ogni altra cosa il Gallaratese evoca è la complessità della città
(comunità urbana regolata dalle medesime leggi della città) e nella ricerca di tale
raggiungimento di scopo Aymonino si adopera chiamando Aldo Rossi, il quale
aggiunge all’opera un frammento di teatralità.
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Una comunità possibile è al centro anche dell’”utopia realizzata” di Adriano
Olivetti . Nel creare ex novo la sede dei suoi stabilimenti, economisti, sociologi, scrittori, urbanisti,
architetti (tra i quali Figini e Pollini ), designers, poeti si trovano così a interagire tra
loro, con l’obiettivo della qualità e il mito della interdisciplinarità .
La realizzazione della Fabbrica Olivetti a Pozzuoli da parte di Luigi
Cosenza , ha in più l’obiettivo di riscattare una zona economicamente
depressa .
Ma con gli anni sessanta diversi nodi per l’Olivetti vengono al pettine: la crisi
economica che colpisce l’Italia; il fallimento nel campo dell’elettronica; la morte dello
stesso Adriano nel 1960.
Pressoché nulla si salva dell’ambizioso programma di connettere
sviluppo economico-industriale e benessere umano.
Capitolo quinto
Il recupero della memoria
In uno dei numerosi commenti apparsi all’indomani del completamento della Torre Velasca
(1950-58) del gruppo BBPR , si legge: “Al contrario di gran parte dell’architettura
moderna, la torre milanese dimostra di rispondere alle forme e alle suggestioni
dell’ambiente circostante”. L’episodio della Torre Velasca costituisce un caso di
estremo interesse: un insieme di scelte progettuali razionali e logiche ,
come risposte “tecniche” a problemi concreti, come ad esempio ampliare la parte più alta
per dare più luce agli appartamenti.
A questo punto, la somiglianza formale con una torre medievale sembra quasi frutto di una
semplice casualità.
Rogers tuttavia non nasconde la volontà di accordare la Torre Velasca
con l’ambiente urbano in cui sorge; gli interlocutori privilegiati risultano quindi la
Torre del Filarete del Castello Sforzesco, il Duomo e la Ca’ Granda. Il desiderio è quello di
comprendere ciò che è successo prima di noi (memoria), rivelando la sottile
differenza tra l’”imitare” formalmente e il “desumere” .
Da non confondere però , la vicenda della Torre Velasca, con quella breve ma
significativa della stagione “neoliberty”. Quest’ultima in realtà è il tentativo di
rintracciare vie alternative a un repertorio moderno ormai sempre più congelato in forme
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ripetitive e scontate, in particolare attraverso di alcuni giovani architetti italiani: Roberto
Gabetti e Aimaro Isola, Vittorio Gregotti e Gae Aulenti .
I riferimenti delle architetture neoliberty sembrano essere i raffinati conglomerati di
mattone, legno, ferro e vetro degli edifici di Mackintosh, Berlage, De Klerk e
Wright.
La Bottega d’Erasmo a Torino (1953-56) di Gabetti e Isola, è costituita da una
facciata ritmata attraverso l’inserimento di bow-windows spigoluti e incrostati di materiali
diversi.
Il dibattito sul neoliberty, tuttavia, finirà col spostarsi sul terreno della “sociologia generale”,
cercando di interpretare la “nostalgia delle forme del passato borghese”; a giudizio di
Banham quest’atteggiamento risulta un indizio allarmante della ritirata dell’architettura
italiana dallo spirito del moderno.
Ma la parola decisiva spetta a Tafuri: il neoliberty non si muove in polemica con il
Movimento Moderno; la sua piuttosto è una contestazione di tradizione , con
lo scopo ultimo, attraverso un disinvolto uso di storia e memoria, di far tornare a
parlare l’architettura.
Intorno agli stessi problemi ruota anche l’opera di Louis Kahn .
Il colloquio che egli instaura con la storia ha risvolti particolari: i suoi edifici
arrivano a volte a evocare fonti precise, riconoscibili, senza tuttavia che queste
intrattengano con essi rapporti spiegabili.
Kahn frequenta la scuola di architettura delle University of Pennsylvania, ancora impostata
su rigorosi principi Beaux-Arts; in seguito apre uno studio dove comincia a sviluppare una
spiccata coscienza sociale nell’esercizio della sua professione.
Il suo pensiero comincia così a prefigurarsi intorno ad un’architettura
simbolica , dotata di forme significanti.
La Forma caratterizza un’armonia di spazi adatti ad una certa
attività dell’uomo . Sotto questa luce si intuiscono i motivi che lo spingono ad operare
attraverso una certa monumentalità, ma allo stesso tempo si comprende la relazione con il
passato, inteso come Forma della memoria.
Quest’ultima relazione, tuttavia, non si giustificherebbe al di fuori del compito che tali
forme rivestono: incarnare insitutions . Le istituzioni per Kahn sono quelle “funzioni”
che connotano la comunità umana in quanto tale.
Non è certo un caso che egli desuma il tale concetto dal mondo romano , e che la
stessa architettura romana gli fornisca svariati tipi di Forme.
Non minore influenza esercita su Kahn l ’”architettura delle ombre” dei grandi
visionari francesi della fine del Settecento (Boullée, Ledoux).
Il primo edificio “istituzionale” realizzato nella fase matura della sua carriera è la Yale
University Art Gallery a New Heaven (1951-53). La sua immagine esterna oscilla
ancora tra la trasparenza del curtain wall International Style della facciata verso il giardino,
e la matericità dei muri ciechi di mattoni della facciata verso la strada.
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La suddivisione degli spazi in “servant” e “served” introduce nel corpo
dell’edificio una differenziazione basata sui loro diversi utilizzi. Il cilindro di calcestruzzo
posto al centro, contiene le scale e separa le sale espositive.
Diverso è il trattamento di tali spazi nel Richards Medical Researh Building
della University of Pennsylvania a Philadelphia (1957-65). Qui tale distinzione
entra direttamente nella composizione dell’immagine dell’edificio .
L’idea generatrice è quella della “cittadella della ricerca scientifica” ,
organizzata come una molteplicità di corpi edilizi, differenziati dai materiali e dalle altezze.
In particolare, essendo centri di ricerche mediche, l’attenzione di Kahn si concentra sulla
separazione tra aria da respirare e aria da smaltire.
La sua speranza è infine, quella di dar vita a un luogo di lavoro moderno , ma
al tempo stesso capace di assumere anche un valore comunitario .
Il Salk Biological Research Institute a La Jolla, California, secondo le
intenzioni del suo committente, doveva costituire non soltanto un centro di studi e
sperimentazione, ma anche il luogo di conciliazione tra cultura scientifica e cultura
umanistica.
Gli edifici realizzati esprimono a prima vista una concezione rigida, e mettono in luce una
predilezione per l’assialità che rischia di sconfinare nel formalismo. È tuttavia proprio nello
spazio tra i due corpi di fabbrica che si concentra il senso del Salk
Institute: si tratta di un luogo fatto per tenere insieme, mette in prospettiva lo spazio, ossia
ne raccoglie le pluralità intorno a un’unica idea.
Le torri degli studi prospicienti i laboratori, con le facciate rivolte verso l’oceano, hanno
altrettanto ruolo di quinte sceniche, nel raggiungimento del massimo di artificialità.
A questo riguardo Tafuri e Dal Co , negli anno settanta, hanno sottoposto a critica
la disinvolta ubiquità con cui Kahn impiega il suo linguaggio delle Forme ; esse risultano
come “beni di conforto” elargiti dalla civiltà americana ai paesi in cui si protende la
sua espansione.
A distanza di tempo questa critica appare viziata da un pregiudizio fin troppo ideologico e
risulta applicabile a una ridotta parte dell’”operato estero” kanhiano.
In progetti come l ’Istituto indiano di amministrazione ad Ahmedabad,
India, l’Assemblea nazionale del Bangladesh, a Dacca, e il
progetto per il Centro governativo a Islamabad, Pakistan,
l ’ imputazione di “colonialismo culturale” non risulta appropriata . È
tuttavia innegabile il tentativo di Kahn di sintetizzare un linguaggio apertamente celebrativo
che risulta “indifferente” nei confronti delle specificità locali.
Strumento prediletto in questi progetti è l’immagine della rovina romana , resa
attraverso giochi di archi, che diventano quasi cerchi, e giochi di ombre che ne accentuano
l’effetto.
Ciò che mettono in evidenza gli edifici kanhiani però, è l ’assoluta mancanza di
radicamento nel luogo , di particolare evidenza nell’Assemblea nazionale,
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pericolosamente fuori misura rispetto al tessuto urbano e sociale del Bangladesh, uno dei
paesi più poveri del pianeta.
Simulazioni e travestimenti, al contrario, non appartengono agli
edifici di Kahn . Spazio e luce, piuttosto, sono le “materie” di cui sono
fatti; così come nel Kimbell Art Museum a Fort Worth, Texas (1966-72), la
luce si fa spazio.
Da un fonte luminosa zenitale sono invasi i lunghi e stretti corpi, affiancati gli uni agli altri
come navate di un antico mercato e coperti da volte a botte. Riverberata sulle grigie colte
in cemento, la luce naturale modifica lo spazio in ogni momento, assumendo tonalità e
intensità continuamente variabili.
Insieme alla luce, l ’acqua riveste un ruolo fondamentale nelle opere
kanhiane . Essa, oltre a significati psicologici , rende virtuali le forme, instillando
in esse la potenzialità dell’assenza di forma.
Capitolo sesto
La nostalgia della rivoluzione
Nell’opera di Louis Barragan lo scenario è il Messico , all’indomani del
periodo rivoluzionario che porta il paese a una costituzione (1917) basata sui principi del
capitalismo. Una breve fase razionalista, conseguenza diretta del viaggio
compiuto in Europa nel 1931-32, costituisce la prima parte della sua carriera, a cui farà
seguito l’uso di un linguaggio vernacolare ispanico -messicano.
A seguito di esigenze economiche e professionali, il corpo edilizio, nelle sue mani, si
riduce all’essenzialità di pochi elementi e all’apertura in esso di abbondanti finestrature.
Determinante però risulta il ruolo rivestito dalla natura , che lo porta a realizzare i
famosi Jardines del Pedregal (1945-50); in un ambiente vulcanico, Barragan
aggiunge pochi controllatissimi segni: muri di pietra appena sbozzata, gradini, sentieri,
elementi sculturei, specchi d’acqua e fontane. L’intervento umano cerca così di
completare l’opera della natura.
Ed è in questa prospettiva d’integrazione tra paesaggio e architettura che prende vita la
casa-studio per se stesso a Città del Messico (1947-48). La semplice linearità
della volumetria esterna si sposa perfettamente con la spoglia intimità degli ambienti
interni, costruita attraverso un prosciugamento linguistico e decorativo che,
tuttavia, non arriva mai a identificarsi con il puro funzionalismo; lo dimostra
il gioco perfettamente “fine a se stesso” di muri protesi verso il cielo, colorati con tinte
imprevedibili (lilla, rosso, ocra), che traduce in esperienza spaziale i quadri di Giorgio De
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Chirico o di Salvador Dalì. Barragan vi aggiunge però ulteriori componenti come l’acqua, la
roccia vulcanica e le mexcaleras, i recipienti in terracotta.
Nella sistemazione del Convento delle Madri Cappuccine , a Tlalpan (1952-55),
la principale materia impiegata è la luce , fatta filtrare attraverso griglie vetrate,
oppure fatta vibrare a contatto con corpi diversamente irradianti.
Nella Casa Folke Egestrom (1967-68), e nella Casa Francisco Gilardi a
Città del Messico (1976), un ruolo determinante è rivestito dall’acqua : nel primo essa si
ritrova nell’ampia vasca per i cavalli che fronteggia la scuderia , intorno a
cui ruota un labirinto di muri e portici coloratissimo; nel secondo caso, l’effetto di intenso
spaesamento prodotto dall’acqua, è determinato dal digradare, nel cuore della casa, del
pavimento in una piscina animata da accostamenti cromatici illuminati da
una suggestiva apertura zenitale.
Ancora sospesi in una dimensione al tempo medesimo metafisica e
terrena sono gli interventi di “urbanizzazione” che Barragan compie nelle aree
naturali di Las Arbodelas e di Los Clubes : ancora una volta egli impiega
segni di delimitazione o connessione come il Muro Rosso, la Fontata del Campanile, la
Fontana dell’Abbeveratoio e la Fontana degli Amanti. L’obiettivo è quello di offrire un
“commento” al cielo e agli alberi che li circondano, ma anche un “apparecchio di misura
del tempo” che, soprattutto attraverso i riflessi d’acqua, scandisce il lento scorrere delle
ore e delle stagioni.
Esattamente la stessa connotazione di meridiana possiede la Piazza delle
Torri che fa da ingresso alla Ciudad Satélite, e da isola spartitraffico di una autostrada
alla periferia di Città del Messico; la Piazza è composta da cinque torri piene in cemento a
sezione triangolare, di altezze variabili, che si fanno portatrici della celebrazione del
silenzio .
L’architettura di Barragan aspira all’assoluto, combinandosi però
nella relatività delle cose umane, la loro fragilità . Precisamente, in questa prospettiva, la
nostalgia, come forma di attesa, è coscienza del passato elevata però a potenza poetica.
Capitolo settimo
La generazione degli eredi
Il trasferimento di Mies van der Rohe negli Stati Uniti , nel 1938, e gli edifici da
lui realizzati nel nuovo continente negli anni successivi esercitano un’influenza sulla
cultura architettonica americana di dimensioni difficilmente calcolabili.
Tali opere, insieme alle numerose case californiane di Neutra , sono alla base del
programma di edificazione residenziale promosso nel 1945 da John Entenza .
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L’obiettivo, denominato Case Study Houses (CSH), sta nell’auspicio di ottenere
un “good housing” rimodellando in positivo parte dei modi di vivere e pensare dell’uomo
americano.
I mezzi impiegati sono materiali innovativi e tecniche di prefabbricazione
che consentono di mettere in opera rapidamente e a costi contenuti spazi flessibili e
confortevoli .
Il programma di Entenza permette la realizzazione di una ventina di case , tutte in
California, attraverso la collaborazione di Richard Neutra, Charles
Eames, Eero Saarinen, Raphael Soriano, Craig Ellwood e Pierre
Koenig.
In particolare la CSH n. 22 , di quest’ultimo, dotata di terrazza con piscina
affacciata sulla piana di Los Angeles, rende la perfetta immagine della moderna residenza
californiana.
Nel caso di Craig Ellwood , questa esperienza segna l’avvio di un’intensa attività
progettuale che culmina con l’elaborazione della tipologia dell’edificio
“a ponte” , concretizzata nell’Art Center College of Design di Pasadena (1970-76).
Sulla scia della Farnsworth House, si muovono infatti palesemente tutte la case
unifamiliari di Ellwood degli anni sessanta, così come l’Art College sarà successivamente
debitore della Crown Hall.
Tra i dettami del CSH e il rigore assoluto con cui Mies interpreta schemi analoghi,
sono alla base della case n.8 e n.9 di Charles Eames e Eero
Saarinen , entrambi allievi del grande architetto finlandese Eliel Saarinen.
L’improvviso “cambio di rotta” nella configurazione del suo progetto, porta
Eames a optare per una struttura portante denunciata in facciata, alternata a file di vetri
basculanti e a pannelli di cartongesso di diverse misure e svariati colori, che danno luogo
a un patchwork paragonabile a una “capanna rustica” dell’età della
macchina .
Nela Entenza House, al contrario, Saarinen costruisce un tempo stesso
cartesiano e fluente.
Due personalità a questo punto si contraddistinguono: la propensione per Eames a
trasformare ogni cosa in disegno industriale, compresa l’architettura, e la propensione di
Saarinen a trasformare ogni cosa in architettura, compreso il disegno.
Quest’ultimo, alla morte del padre Eliel, eredita alcuni tra i maggiori
committenti del mondo, tra i quali la General Motors .
A una prima ipotesi di master plan che rivela ancora qualche incertezza, fa seguito una
versione più rigorosa: gli edifici, disposti intorno ad un lago artificiale, sono trattati con la
medesima combinazione di travi d’acciaio a vista e tamponature di mattoni (Mies). Uniche
eccezioni sono la torre dell’acqua e l’auditorium, formati da corpi curvilinei rivesti di un
materiale metallico lucente.
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Nel Massachusetts Institute of Technology , a Cambridge, realizza il
Kresge Auditorium (1950-55), interessante ibridazione tra un anonimo contenitore
curtain wall e una forma plastica , coperta da una vela triangolare in cemento.
La contigua Cappella del MIT si presenta invece come uno spoglio cilindro di
mattoni, rischiarato da un unico oculo aperto verso il cielo , in prossimità
dell’altare, sopra il quale galleggia un’opera di Bertoia, fatta di schegge di luce
corporizzata.
Reciso ormai ogni legame con radici acquisite, parte il progetto per il Terminal TWA ,
dove uno spazio fluido , multidirezionale, è delimitato da un guscio continuo di
materia cementizia, le cui pareti sono sottoposte a curvature e torsioni, e le cui aperture
hanno l’aspetto di cavità naturali. Un’architettura zoomorfa , primo esemplare di
una specie che al principio del XIX secolo, conoscerà una proliferazione incontrollata.
Nel difficile tentativo di “semplificazione” architettonica a gesto sintetico ,
consiste probabilmente l’aspetto più significativo dell’opera di Saarinen, nel tentativo
inoltre di riscattare l’architettura da un destino esclusivamente
commerciale .
Anche il Sud America subisce l’influenza dell’architettura moderna europea. In particolar
modo le attività di Le Corbusier, lo portano a diffondere i principi della Ville
Radieuse attraverso i piani per San Paolo, Rio de Janeiro, Montevideo e Buenos Aires.
Proprio in tale occasione entra in contatto con Lucio Costa , e con il suo
collaboratore Oscar Niemeyer . I due infatti, dopo aver ricevuto l’incarico di
progettare la sede del Ministero dell’Educazione e della Sanità a Rio de Janeiro (1936-43),
decidono di rivolgersi a Le Corbusier per una consulenza. Nasce così la prima
architettura moderna brasiliana , issata su alti pilotis, scandita in facciata da un
fitto brise-soleil e conclusa, al di sopra della copertura piana, da volumi puri curvilinei.
Sempre Le Corbusier però, indirizza i due architetti sull’utilizzo di elementi tradizionali,
come i rivestimenti di ceramica decorata e colorata di blu, chiamati gli azulejo , fornendo
ad essi, in tal modo, la possibilità di caratterizzare le loro opere dotandole di “senso
nazionale” .
Su questi presupposti Niemeyer intraprende la sua carriera, che vede, tra l’altro, la
realizzazione della nuova capitale, Brasilia , e innumerevoli edifici.
In particolare l ’elemento della pensilina , congiunzione di scheletrica verticalità dei
pilotis con la flessuosità delle tettoia, incarna la sensuale architettura di Niemeyer,
perfettamente in sintonia col clima e l’indole brasiliana .
Nella Cappella di San Francesco la sensualità delle forme diviene l’elemento
dominante: scomparsa l’ossatura verticale, cinque volte paraboliche autoportanti generano
una fusione di volumi che sembrano riprodurre i paesaggi naturali del
Brasile .
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Calotte, tende, coppe, iperboloidi, tronchi di cono, archi parabolici, tutti rigorosamente
bianchi, costituiscono gli esemplari di un ricco campionario di soluzioni
escogitate da Niemeyer, il cui obiettivo rimane comunque quello del giungere ad
una sintesi formale , che cerchi di rappresentare l ’essenza dell’edificio .
L’architetto brasiliano dunque individua proprio nella bellezza una “funzione” tra le più
importanti in architettura.
Il manifesto della prima parte del suo lavoro è rappresentato dalla Casa Canoas a Rio
de Janeiro (1953-54), costruita per se stesso.
Disposta su due livelli, la casa utilizza elementi rigorosamente appartenenti al
vocabolario moderno , ma trattati e fatti interagire in modi inusuali . I pilotis in
metallo distribuiti senza ordine apparente, la copertura piana dal contorno curvilineo e le
pareti vetrate, anch’esse morbidamente incurvate: una nuova totalità derivante dalla
totale fusione con la natura , che vi penetra sotto forma di luce, acqua, piante e
rocce.
La ricerca di forme libere conosce un’applicazione a grande scala a Brasilia ,
pianificata sulla base del Piano Pilota (1956-57) di Lucio Costa: un uccello (o un aereo) ad
ali spiegate.
Nella progettazione di numerosi edifici ministeriali e residenziali NIemeyer
adotta una soluzione standard ripetuta serialmente , secondo uno schema
fedele ai dettami della Ville Radieuse. Tuttavia alcuni palazzi del potere e
architetture di rappresentanza di Brasilia stabiliscono tra loro un rapporto comparabile
con quello istituito dagli edifici di Le Corbusier a Chandigarh . La differenza sta nel
fatto che Niemeyer stringe tra queste architetture un legame di parentela, attraverso
l’impiego di pilastri simili, in modo da realizzare una composizione di variazioni
sul tema , piuttosto che una serie di eccezioni lecorbuseriane.
Nelle sedi del Ministero della Giustizia e degli e Esteri , cui si va ad
aggiungere qualche anno più tardi l’edificio per uffici della Mondadori a Segrate , il
leitmotiv è una possente cornice di cemento armato lasciato a vista, retta da un ordine
giganti di pilastri e scandita da archi. Questi ultimi, pur evocando palesemente
l ’architettura romana , non sono riconducibili ad un semplice citazione storica. Nel
Ministero degli Esteri paiono finalizzati a un effetto estetico , in relazione al fatto
che i due elementi che compongono l’edificio (scatola di vetro e cornice di archi) sono
strutturalmente indipendenti.
Nel Palazzo Mondadori , infine, la sospensione del blocco vetrato degli uffici
all’intelaiatura cementizia mediante cavi travi d’acciaio segna il raggiungimento della
perfetta coincidenza di forma e struttura .
Ma Brasilia è fatta anche di irripetibili singolarità: la sede del Congresso
Nazionale (1958-60): due forme immacolate, geometricamente opposte, dove la
calotta contiene l’aula del Senato, mentre la coppa la Camera dei Deputati. Alle loro spalle
due lastre verticali affiancate accolgono gli uffici amministrativi; ciò che ispirano è un
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senso di profondo straniamento , al pari di una base di atterraggio per dischi
volanti, o della stazione sacrificale di un’antichissima civiltà del passato.
Prorompente e area “eruzione” è l’immagine della Cattedrale Metropolitana
(1959-70), un vastissimo spazio a pianta circolare avvolto da un “tessuto” vetrato sorretto
da un fascio di pilastri ricurvi che verso la sommità si riuniscono evocando la corona
della passione di Cristo . L’accesso alla Cattedrale avviene attraverso un cunicolo
sotterrane che consente di non infrangere la sottile cortina vetrata e di penetrare
nell’immenso tendone invaso di luce . Qui Niemeyer da corpo a un gesto
spirituale e allegorico , che si connota ala tempo stesso in senso moderno e
barocco.
I progetti e le opere da lui realizzati negli ultimi dieci anni, costituiscono semplicemente in
una riflessione ad alta voce del significato di un’architettura che è chiamata a dimostrare
nient’altro che se stessa.
Capitolo ottavo
L’utopia del futuro
La seria utopia della tecnica è riconvertita in utopia ludica , senza
registrare perdite di contenuti.
Chi raccoglie queste sollecitazioni è un gruppo di giovani inglese riuniti sotto la
denominazione di “Archigram”, dal titolo del loro magazine (1961); l’incontro con il
suffisso “gramma” pone l’accento sull’urgenza comunicativa
dell’architettura .
Le influenze della cultura beat e dei modi e linguaggi dell’angry generation anglossassone
sono evidenti nella rivista.
I richiami al funzionalismo non implica una passiva accettazione dell’International Style:
quest’ultimo risulta anzi abissalmente distante in Archigram, in cui invece convergono in
modo disordinato ma preciso risonanze futuriste, espressioniste, fantascientifiche,
fumettistiche, psichedeliche, pop art e altro ancora, che costituiscono la saldatura tra
concezioni a scala urbana e industrial design .
Molti di questi temi compaiono nella mostra “Living City” del 1963: progetti come City
Interchange o Plug-in City, non soltanto sono concepiti a una scala superiore e
sono privi di localizzazione, ma con grande evidenza sono il prodotto di
un’esaltazione tecnologica che tende a risolversi in una serie di immagini
suggestive .
Nel primo caso si tratta di una rete di trasporti interconnessi e multimodale; nel secondo di
un reticolato infrastrutturale entro il quale sono inseriti unità abitative, edifici pubblici, uffici,
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garage-silos, piazze sospese, ciascuno dei quali possiede tempi di “deterioramento”
programmato.
Architettura come “evento”, da consumare e da “gettare” dopo
l’uso; ciò che è più importante è l’allacciarsi e il connettersi (plug -
in) di tutte le parti tra loro (network).
Non a caso suo immediato sviluppo è Computer City (1964), dove il tessuto metropolitano
si riduce a un ingigantito circuito stampato fatto di edifici-transistor.
Sulla trasformabilità e sulla mobilità permanente della città si basa
Walking City, costituita da enormi astronavi poggianti su gambe telescopiche; la “città
che cammina” è adattabile a ogni possibile environment.
A partire dal 1968 Archigram sviluppa Instant City, la cui “esperienza” è
potenzialmente estesa a ogni luogo mediante il trasporto su camion o con dirigibili, sotto
forma di scenografico “circo totale”. Ciò che ne deriva è una sorta di
“accampamento” temporaneo , un Fun Place portatile; Instant City si configura
così come un kit pronto all’uso per una fruizione intensiva di una “cultura dello
spettacolo” (immensa accumulazione di spettacoli).
Il superamento del funzionalismo , anche quando si manifesta in modo
equivoco sotto forma di sua irrisione o trasgressione (esempio di Archigram), non si
l ibera mai davvero dalle leggi dell’economia politica del segno :
questi progetti presuppongono, in realtà, l’avvento della funzionalità come legge morale
universale dell’oggetto, e l’avvento di questo stesso oggetto come separato, autonomo,
costretto alla trasparenza della funzione (tutto ciò che vuole presentarsi come marginale,
anti-design, ubbidisce comunque alla stessa economia del segno, tutto è design).
I rapporti di Koolhaas con i componenti di Archigram sono problematici, mentre è chiara
l’influenza ispiratrice dell’architettura radicale italiana, che pure deve molto al gruppo
britannico.
Il luogo in cui questo movimento radicale si manifesta per la prima volta è la mostra
“Superarchitettura” del 1966, dove si vedono esposte realizzazioni dei gruppi
Archizoom e Superstudio . I linguaggi della pubblicità, della
mercificazione, del consumismo sono riutilizzati in modo caricaturale , per farne la
critica.
Visti con occhi italiani, i presupposti neoavanguardistici anglosassoni, assumono una
connotazione politica , e l’aspetto distruttivo domina su quello costruttivo.
Superstudio e Archizoom negli anni seguenti giungono a focalizzare una strategia di
intensificazione e accelerazione dei processi in atto .
In Monumento Continuo (1969) attraverso uno straniamento visivo compiuto con
l’inserimento di elementi “alieni”, l’intento è quello di fare una critica all’ideologia
del Movimento Moderno.
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Superstudio prende le mosse per un paradossale tentativo di rifondazione
dell’architettura con gli Istogrammi di architettura (1969-71), basati su una fitta
griglia quadrata , risolve ogni problema formale dissolvendolo.
Archizoom aspira invece a liberarsi dell’architettura. In No -Stop
City (1970-72) lo spazio continuo, ripetitivo, modulare, genera una città senza
architettura.
Agli anni della contestazione politica e della “controcultura” fa seguito un generalizzato
riflusso segnato dal ripiegamento su obiettivi più concreti e calcolati.
La fine dell’utopia del futuro è l’inizio della mercificazione del
presente .
Capitolo nono
L’architettura interrotta
Alla mostra internazionale intitolata “Roma interrotta” (1978), gli organizzatori
sollecitano i dodici architetti invitati a rimeditare ciascuno un settore dalla famosa pianta di
Roma del 1748 di Nolli. Tra le altre proposte, quella di Stirling suggerisce di disporre
un considerevole numero di edifici da lui stesso realizzati. A differenza dei suoi
predecessori (che definisce MAF Megalomane Architetto Frustrato), però egli inserisce i
suoi progetti nel tessuto urbano facendoli interagire con esso ;
qualcosa di più prossimo alla Città analoga (1976) di Aldo Rossi. Proprio la tecnica del
collage costituisce il trait-d’union tra i vari edifici che egli realizza durante la sua
professione.
Il collage è un metodo che trae la propria virtù dalla propria ironia
e permette di affrontare l’utopia come immagine, di accettarla in
frammenti anziché in toto.
La questione del contesto risulta, in tale ottica, un nodo problematico: l’architettura di
Stirling esprime la propria autonomia rispetto a esso. Anziché ignorarlo o limitarsi a
“rifletterlo”, esse cerca piuttosto di porsi come punto di riferimento per il
contesto .
La molteplicità, come atto di mettere insieme i pezzi senza necessariamente ricostruire un
intero, si rivela un tema determinante per la comprensione delle opere stirlinghiane.
Stirling si cimenta così nel recupero di spezzoni di linguaggio moderno,
liberati però dalle loro implicazioni originarie ; i frammenti linguistici così
accostati producono un paradossale collage fatto di dissonanze che trovano
modo e ragione per comporsi per la prima volta in questa maniera.
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Soprattutto con i Laboratori della Facoltà di ingegneria dell’Università
di Leicester (1959-63), con la Facoltà di storia, a Cambridge (1964-67), e
con il Florey Building del Queen’s College a Oxford (1966-71), Stirling
assembla complesse “macchine edilizie” per destinazioni universitarie che giustappongono
soluzioni e materiali di provenienze culturali e temporali diverse (mattoni rossi a vista e
ampie pareti vetrate).
A Leicester a tutto ciò si addizionano le gru poste in cima alle torri, adibite alla pulizia delle
vetrate, e la scala a chiocciola racchiusa in un cilindro di vetro trasparente, ingresso rapido
alla sala grande delle conferenze, oltre a vari dettagli navali.
L’operazione compiuta da Stirling cura, inoltre, l’aspetto sostanziale degli edifici; lo sforzo
dell’architetto di Glasgow è quello di far corrispondere i frammenti ai
molteplici usi cui essi possono essere destinati , definiti quest’ultimi dalle
modalità secondo le quali ogni funzione si articola (organizzazione e distribuzione interna).
Nella facoltà di storia di Cambridge , i l grande lucernario che riveste la
sala di lettura della biblioteca, può essere letto come la scenografica e drammatica
evocazione del frantumarsi di una superficie vetrata, Tafuri la definisce come
“cristallizzata nel momento del suo crollo”.
“Il funzionalismo non è abbastanza. L’edificio deve essere anche espressivo. Bisogna
guardarlo e riconoscere le varie parti che lo compongono, diversi luoghi dove le persone
fanno cose differenti.
Nel Florey Building di Oxford l’idea di partenza coincide con un topos modernista:
una stecca vetrata, che però Stirling spezza mediante una quadruplice piegatura
longitudinale, attorno al centro dove si trova la mensa degli studenti; la medesima
piegatura è impressa anche verticalmente.
Ciò che ne deriva è un edificio ad anfiteatro pluriangolato , la cui ragion
d’essere si ritrova nel dare senso alla comunità studentesca .
Inoltre, come già a Leicester e a Cambridge, volti qualitativamente opposti vengono fatti
convivere: quello “aperto”, interamente vetrato, verso l’interno, e quello “chiuso”, rivestito
di mattoni rossi, verso l’esterno.
Il progetto per la sede del Centro di calcolo Siemens a Monaco di Baviera
(1969) segna un significativo punto di svolta. L’ingresso nel suo studio del giovane
Leon Krier in qualità di disegnatore sembra avervi un ruolo determinante: ne risente
infatti non soltanto il tratto grafico, ma anche l’inedito “senso dell’ordine” che
comincia a circolare nei progetti di Stirling . Nella sua proposta, cinque coppie di
volumi cilindrici (uffici) sono allineate lungo un asse fiancheggiato su entrambi i lati da
portici.
Un vero e proprio dialogo con le preesistenze si apre con il progetto per il Centro
civico di Derby (1970). Esplicito infatti è il riferimento alla tradizione dei passages e
delle arcades, che culmina nella citazione della copertura a botte delle gallerie
commerciali. La forma canonica tuttavia è alterata facendola incurvare a ferro di cavallo. In
corrispondenza del centro Stirling progetta di collocare, inclinata di 45 gradi, la facciata
dell’Assembly Hall, unica parte scampata a un incendio di uno storico edificio di Derby
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risalente al XVIII secolo. La tecnica è nuovamente quella del collage o del montaggio:
dove però i frammenti prodotti ex novo sono mescolati ai frammenti
storici originali . Ma non è la loro provenienza che conta: piuttosto la loro disponibilità
a partecipare al medesimo gioco .
Non è un caso che negli anni seguenti Stirling progetti e realizzi in prevalenza musei.
L’idea di centro vuoto è quella intorno a cui ruota l’intero progetto per l’ampliamento
della Staatsgalerie di Stoccarda (1977-84). Elevato su un poderoso basamento
disposto parallelamente a una grande via di scorrimento, il museo si offre alla vista come
un susseguirsi di rampe e terrazze su cui sono poggiati alcuni volumi di disparate
forme geometriche, unificati da un identico rivestimento di pietra.
Ascendendo le rampe si accede subito alla galleria oppure, seguendo una promenade
esterna , ci si addentra in volumi e terrazze a differenti altezze, sottolineando in tal modo
la sua spiccata connotazione urbana nell’offrire un tale eterogeneo paesaggio
ironico (recupero di volumi “nobili” e impiego della pietra per conferirli antichità).
Ancora una volta, l’architettura di Stirling si risolve come un montaggio di
pezzi .
Risultano altresì presenti grossi blocchi di pietra sparpagliati alla rinfusa
sul terreno ; l’ipotesi di incuria è da escludersi, piuttosto alla condizione di rovina che
l’architetto allude.
Il fatto che tali blocchi (riferimento all’architettura classica), possano cadere senza che la
struttura ne risenti, dimostra come inesorabilmente la pietra sia diventata un
materiale unicamente di rivestimento.
Capitolo dodicesimo
L’autonomia dell’architettura
Presentato nel 1969 al MoMA di New York , il lavoro dei Five Architects
suscita immediate reazioni; scartata l’ipotesi che costituiscano un gruppo, visti i differenti
risultati, rimane la ripresa dei l inguaggi puristi europei d’anteguerra a fare da
denominatore comune.
Tale operazione si svolge però nell’artificioso tentativo di svuotare la sintassi modernista,
da tutte le sue componenti ideologiche.
Per Michael Graves, Charles Gwathmey e Richard
Meier , tale riesumazione va letta in chiave strettamente professionale, come brillante
soluzione da offrire alla committenza.
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Nel caso del primo , una più spiccata vena sperimentale lo porta a elaborare
complesse variazioni sul tema del purismo lecorbuseriano : il gioco compositivo
consiste nell’articolare intricate volumetrie in cui pilotis, fenetres en longueur, promenades
architecturales sono infatti oggetto di rivisitazioni estetizzanti . Tuttavia, dietro
questo apparente rigore delle forme puriste, manca del tutto una “volontà di
sistema”.
Ancora più scoperta la vena professionalistica di Charles Gwathmey, che mette in
mostra un utilizzo corretto e sin troppo “gradevole” del vocabolario
geometrico moderno .
La medesima padronanza della forma, associata però a un maggior rigore e coerenza,
caratterizza l’opera di Meier . Una serie di case sono le prime prove di un’ambizione a un
nuovo classicismo, partendo sempre dall’eredità di Le Corbusier .
L’effetto di dejà tuttavia, ne costituisce il limite ma anche il punto di forza; sulla stessa linea
si colloca la rinuncia di Meier a ogni altro colore che non sia il bianco .
Ben diversi problemi pone l’opera dei due restanti Five . Ciò che per entrambi
assume una primaria importanza è il concetto di autonomia dell’architettura .
Ma ancora una volta, nettamente distinti appaiono le finalità e i mezzi con cui i due la
perseguono.
Per John Hejduk il lavoro dell’architetto consiste nel mantenere quanto più alto
possibile alto il livello di astrazione verso la realtà . Nella House 10 (1966),
dall’operazione di scomposizione e assemblaggio cui sottopone lo spazio, quest’ultimo
esce costretto da vincoli che rendono l ’abitare paradossale o impossibile
(percorso lunghissimo collega e divide le stanze poste alle estremità).
Victory Boogie-Woogie di Piet Mondrian è il punto di partenza per la Diamond House
(1967-68), impostata sulla relazione tra il rombo e la sua diagonale: il quadro si fa
architettura.
Pablo Picasso e il Le Corbusier pittore sono invece le fonti d’ispirazione per la Wall
House (1971-72) e la Bye House (1973): qui le tenui tinte che connotano ogni
parte dell’edificio forniscono la conferma della direzione intrapresa da Hejduk. Rompendo i
limiti dell’oggettività e fissità tradizionali, gli edifici diventano così personaggi .
La separazione della forma architettonica dalla dimensione esperienziale umana è invece
centrale per Peter Eisenman ; egli affronta una rilettura dell’intera
architettura moderna sulla base di un’analisi formale . In particolare ,
grande importanza assume per Eisenman l’analisi dell’architettura di Terragni. Ed è
appunto attraverso l ’analisi della Casa del Fascio di Como e di Casa
Giuliani-Frigerio che egli giunge alla nozione di “testo critico” come centro focale del
discorso formale.
In parallelo al riconoscimento dell’autonomia del linguaggio compositivo in Terragni,
Eisenman si misura con l’ideazione di un’architettura come “gioco di segni”
25
perfettamente tautologico , interamente astraibile dalle consuete nozioni di tempo,
contesto, funzione.
Il ciclo eisemaniano delle Houses I-X , tra il 1967 e il 1976, è frutto di un’ars
combinatoria di elementi semplici e lineari, che arriva a toccare livelli di grande
complessità.
Si tratta di un’architettura che parla di se stessa, concettuale, che
non rinuncia a priori alla sua realizzazione .
Nella House II, un cubo è suddiviso in 9 cubi, a loro volta frazionati, generando
un’intenzionale ridondanza di pilastri e cornici, la cui funzione è quella di significare la
propria mancanza di funzione.
Nella House IV , il tentativo perseguito è quello di concatenare tra loro le progressive
variazioni in modo tale che la casa arrivi ad “autoprogettarsi” .
Nella House X la struttura è concepita come accostamento di quattro cubi , di
diversi materiali e colori, che negano l’esistenza di un centro e danno luogo allo
stesso momento a una decomposizione dell’edificio. Un oggetto praticamente
impossibile , sottolineato dal fatto che si tratta di un’illusione ottica, percepibile corretta
da un solo punto di vista prospettico.
Quello di Eisenman è un processo di corrosione, di esaurimento, non di
purificazione.
Il rapporto con l’Italia risulterà decisivo nel successivo orientamento della sua
ricerca.
Sotto l’influsso di Rossi e Tafuri, Eisenman comincia ad ampliare gli “orizzonti” della
sua architettura, facendola interagire con il luogo in cui sorge e con l’ambito
storico in cui è situato. E tuttavia non certo per far emergere presunte continuità, piuttosto
per inserirvi dei vuoti , come i progetti futuri testimonieranno.
Capitolo tredicesimo
Le ragioni della forma
A partire dal concetto di “architettura autonoma”, Aldo Rossi elabora l’idea di
autonomia dell’architettura . Essa riguarda specificatamente la sfera
disciplinare , e il suo contributo nella costruzione della città. Autonomia non come
libertà dell’architettura da ogni vincolo, ma “liberazione della città
dall’architettura” (egli vede nei rapporti urbani tra i diversi edifici un fondamento del
significato di architettura).
26
Nel radicare la propria opera all’interno di una tradizione storica , la
memoria del classico , e quindi il suo recupero, nelle forme primarie, nei volumi puri,
nel ritmo di pieni e vuoti, sarà il presupposto per l’architettura di Rossi.
L’elementarità appartiene dunque tanto a ciò che precede ogni esperienza, quanto a
ciò ch’è stato lentamente conformato, “levigato” dall’uso .
Il luogo è il terreno di sedimentazione della memoria collettiva, là dove agiscono le
permanenze e dove si materializzano i monumenti.
Questi elementi compongono la “teoria dei fatti urbani” che è al centro de libro
L’architettura della città. In base a tale teoria, il fatto urbano è quel manufatto
concreto sul quale la città si struttura , il punto d’incontro di vita
individuale e collettiva ; la forma, e non la funzione, ne costituisce l’elemento reale
di continuità e importanza.
Nelle sue prime opere il ricorso alla geometria elementare è palesemente teso a
dimostrare l’importanza della memoria al processo di formazione di un’architettura
intesa come monumento . Proprio le fonti a cui Rossi si riferisce rivelano però
l’assoluta soggettività di tale memoria ( a volte sono immagini
autobiografiche).
Alla Biennale di Venezia del 1976 Rossi presenta un grande collage dal titolo La
città analoga; essa non finge un’impossibile “città ideale”, quanto piuttosto cerca di
tracciare una fra le possibili stratigrafie della memoria .
L’effetto di sospensione che generano gli interventi in tre scuole, si ritrova anche nel
silenzio e nella fermezza che contraddistinguono l’Unità abitativa al Quartiere Gallaratese
di Carlo Aymonino.
Se il Cimitero di Modena esprime per lui “la liquidazione della giovinezza e dell’interesse
per la morte”, il progetto per la Casa dello studente di Chieti (1976) si fonda
ancora una volta sulla memoria : le case-capanne per studenti, dipinte a tinte
sgargianti, sono disposte in lunghe file orizzontali attorno a una corte come fossero
cabine da spiaggia (archetipo del progetto) su un litorale marino.
È attraverso il disegno però, inteso come realtà parallela, che l’architettura di Rossi
mostra lo scarto rispetto ai presupposti della scuola da cui pure deriva, e manifesta la sua
poetica fatta di nostalgia, malinconia e senso di perdita .
È così che in L’architecture assassinée (1974), polemicamente dedicato a
Manfredo Tafuri, agli immutabili oggetti delle periferie milanesi, fissati per la prima volta dai
quadri di Sironi, Rossi sovrappone i propri edifici ridotti in frantumi ,
letteralmente crepati: destino comune delle cose del mondo, e loro destino
tragico.
Non deve sfuggire però il carattere essenzialmente teatrale di questo come di
altri disegni rossiani. Il teatro per Rossi è il mondo della finzione, e solo la finzione
teatrale consente di comprendere la realtà . L’architettura diventa
27
così una macchina scenografica , il luogo di innumerevoli ripetizioni della stessa
azione, ma ogni volta leggermente variato.
Un elementare parallelepipedo di legno sormontato da un tamburo ottagonale con la palla
e la bandierina in cima costituisce il Teatro del Mondo (1979), una costruzione
provvisoria flottante sull’acqua realizzata per la Biennale di Venezia del 1980.
Rossi qui dà vita a un’architettura intrisa di memoria storica che entra in
perfetta risonanza con la città di Venezia.
Il vasto riconoscimento internazionale e l’apertura di nuovi
orizzonti , all’inizio degli anni ottanta, offrono alle architetture di Rossi nuove prospettive
che ne arricchiscono il lessico.
Negli edifici residenziali sulla Friedrichstrasse a Berlino (1981-88) egli dà vita a
edifici a una prima apparenza spaesati, incapaci di comunicare le proprie regioni. Tuttavia,
allo stesso modo dell’albergo e ristorante “Il Palazzo” a Fukuoka ed altre
realizzazioni estere, il “demone dell’analogia” è in azione, dove sottili relazioni legano
l’opera all’artista, e al mondo fisico che la circonda. Analogia e autobiografia, dunque,
ancora una volta.
Di certo, la sua aspirazione ora è assai meno quella di creare dei “fatti urbani” che non
quella di realizzare set cinematografici di cui egli stesso è il regista .
Nonostante la trasognata “proiezione” filmica, tuttavia, l’architettura rossiana dell’ultimo
periodo perde inesorabilmente d’intensità, volgendosi verso un “tardoclassicismo” che è
tuttavia rivendicato come punto d’arrivo necessario.
Capitolo quattordicesimo
La narrazione postmoderna
Nel 1980, nell’ambito della I Mostra Internazionale di Architettura alla
Biennale di Venezia , diretta da Paolo Portoghesi , si è inaugurata la Strada
Novissima , episodio clou della sezione intitolata La presenza del passato. Venti
architetti sono invitati a disegnare ciascuno la facciata di un ipotetico edificio posto lungo
un altrettanto ipotetica via. Tra essi, Frank O. Gehry, Charles Moore, e Robert Venturi.
Quello che ne scaturisce è la perfetta immagine dell’architettura del decennio che in quel
momento si stava inaugurando: i l gioco sull’esile filo della maschera e
della provvisorietà .
Nei rarissimi casi in cui assurge alla scala urbana, l’architettura post-modern si dimostra
fallimentare.
In realtà è già a partire dagli anni Cinquanta che ha luogo l’”abbandono dell’ortodossia
modernista” e il “riciclaggio di forme e sistemi compositivi tradizionali”.
28
Il postmoderno, in altre parole, è un’opposizione frontale al
moderno , quest’ultimo definito sulla base del mito della ragione; tuttavia all’interno dello
stesso movimento moderno, la condizione che si presenta è quella tragica e lacerante di
un’impossibilità a superare i propri momenti di crisi.
A fronte di tutto ciò, il postmoderno si propone come pluralista e difensore
delle diversità, della frammentarietà, dell’ambiguità e della
dispersione .
Due mentalità contrapposte ma nello stesso tempo conviventi; difatti si può parlare di
condizione postmoderna e non un vero e proprio periodo.
A fronte dell’enorme moltiplicazione e specializzazione dei saperi, non si può che ricorrere
a giochi linguistici dove regole e soluzioni diverse si alternano e
coesistono liberamente.
È su tali basi che nasce Complexity and Contradiction in Architecture
(1966) di Robert Venturi . Da diversi esempi architettonici, sia storici che
moderni, ma anche da contesti urbani “spontanei”, egli intende dimostrare l’inerenza della
complessità e della contraddizione, ovvero la presenza in essi di uno schema
inclusivo “e-e”, piuttosto che uno esclusivo “o-o”. Le basi per il superamento delle
parole d’ordine moderne (purezza, semplicità, funzionalità) sono gettate, pur quanto
soggettive poi saranno le sue interpretazioni.
Ma è soprattutto con Learning from Las Vegas (1972) che Venturi coglie
l ’essenza post-modern come manifestazione diretta e reale della cultura
contemporanea americana: Las Vegas, la città sorta dal nulla nel deserto del Nevada, la
città dei casinò e dei divertimenti, della minima consistenza dell’architettura e
della massima consistenza dei segni , diviene il “testo” su cui misurare ed
esercitare una serissima analisi e da cui far discendere una prassi progettuale.
Imparare da Las Vegas significa accettare di collocare l’architettura sul piano
su cui si dispongono linguaggi massmediatici contemporanei : vuol
dire dunque ricercare la sua ragione d’essere attraverso il consenso più ampio possibile,
dipendere quindi dai meccanismi dell’audience.
L’ironia , come codice di manifestazione, è quello che trova maggior spazio
nell’architettura di Venturi: a partire dalla Guild House a Philadelphia (1960-66),
dove l’edificio è reso riconoscibile dalla main street mediante l’apposizione di una scritta
vistosa che ne declina le “generalità”, e segnato dalla colonna
sovradimensionata situata proprio davanti all’ingresso e dall’arco-finestra termale
che ne chiude la sommità (metafore, per il loro autore, di un palazzo rinascimentale). Il
segno con cui Venturi corona la sommità della Guild House è una sorta di antenna
televisiva simbolica : ironico emblema di un edificio destinato a fare da “casa”
per anziani .
Nella casa per la madre Vanna a Chesnut Hill , Philadelphia (1959-64) i richiami alla
tradizione valgono come superamento del moderno: il tetto a falde sezionato nel punto di
29
colmo, il camino che diviene il principale protagonista, le finestre tutte differenti, l’esile
architetto di legno sopra la funzione d’ingresso. In tal modo la storia diviene
null’altro che un tra le tante “icone del consumo” di un’epoca che con le
proprie leggi regolative impone un costante consumo di icone. E come icona
consumata viene offerte la colonna ionica nell’ampliamento dell’Allen
Memorial Art Museum a Oberlin, Ohio (1973-77): per Venturi le volute ioniche
valgono quanto le orecchie di Mickey Mouse, entrambe star del firmamento nel business
d’immagini.
Ma è ancora una volta dalla “lezione” di Las Vegas che discende una delle più
brillanti intuizioni progettuali di Venturi: la pratica del decorated shed (capannone
decorato) che egli contrappone a quella del cosiddetto edificio duck (anatra).
Nel primo caso si tratta di applicare simboli ad un edificio di per sé convenzionale: un
indifferente parallelepipedo è sovrastato da un enorme cartello che recita “I AM A
MONUMENT” (i l monumento è il messaggio ).
Nel valutare tali progetti va ricordato che il profondo senso di straniamento che
a prima vista li caratterizza si accompagna a un altrettanto profonda americanità , e
che essi negli Stati Uniti d’America sono collocati nel loro contesto.
Il Team Disney Building a Burbank , California (1985-90) di Michael
Graves fa meditare sulla messa in crisi dei consueti parametri di
valutazione dei l inguaggi progettuali : se per un verso l’impiego dei sette nani
a sostegno di un classico frontone parrebbe una soluzione “volgare”, per un altro, la
“correzione” da ordine gigante a ordine nano , visto il contesto , finisce col
risultare pertinente se non addirittura brillante .
Questi sono gli attributi di un’architettura preoccupata più di “colpire” che non di servire.
Il caso del Portland Public Services Building (1979-82) risulta emblematico al
riguardo: qui Graves fa tesoro dell’insegnamento raccolto da Venturi a Las Vegas
sull’edificio concepito come decorated shed. Il grande cubo massiccio è infatti
tutto risolto nel rivestimento delle facciate , prive di connessioni apparenti
con l’interno: superficiali contrasti, così vanno interpretate le pseudo-lesene giganti
scanalate, sormontate da capitelli aggettanti e un frammento di architrave, o le enormi
coccarde di due prospetti.
Ma che cosa muove allora l ’architettura di Graves Forse la furbesca intenzione di
“fare molto rumore per nulla” , e in questo modo di lasciare tutto come prima.
Di tutta questa vicenda, Philip Johnson rappresenta senz’ombra di dubbio la
figura centrale. Postmoderno è il suo attraversare le epoche, le mode,
gli stili, mutando ogni volta per rimanere se stesso. Con lui l’incoerenza
si trasforma in una qualità positiva, a partire dalla costruzione della sede dell’ AT&T a
30
New York (1979-84). Con questo edificio il grattacielo torna ad avere una
sua identità grazie all’immagine di cui è portatore. Ma per avere efficacia è costretto
ad affondare le proprie radici negli archetipi dell’immaginario collettivo
americano . Con la sua affettata eleganza, con il suo prezioso rivestimento di granito,
l’AT&T si candida al ruolo di taste maker (creatore di gusto) .
La “rimessa in scena” della storia se trova una collocazione nelle eternamente
“new” towns americane, non hanno però possibilità di risultare credibili allorchè vengano
inseriti all’interno di tessuti urbani antichi o storicizzati. L’architettura
postmoderna europea si dedica piuttosto all’esercizio della
memoria.
Fra gli architetti italiani, Paolo Portoghesi ha saputo rileggere produttivamente
la grande lezione del Barocco r icavandone suggestioni spaziali , e non
solo decorative o formali.
A partire da Casa Baldi (1959-61), per arrivare alla Moschea di Roma (1974-95)
dove i riferimenti al l inguaggio islamico si mescolano a intrecci e annodamenti dei
pilastri e degli archi nelle cupole; un effetto che ha la sua origine in Guarino Guarini ,
ma che finisce col generare un inedito spazio fluttuante .
Negli anni seguenti, la sua architettura evolve in direzione di un’esuberanza
formale che nel Teatro Nuovo Politeama a Catanzaro (1988-2002) trova uno dei suoi
esiti più felici. Come un novello Borromini, Portoghesi attinge ora dal libro della
natura non meno che da quello della storia.
Difficile ascrivere tutto questo a un’effimera moda post-modern; piuttosto a una più
complessa teoria che affonda le proprie radici in una cultura
composita .
Capitolo quindicesimo
L’architettura della seconda età della macchina
Il Centre Georges Pompidou (1971-77) di Richard Rogers e
Renzo Piano , centro d’arte e cultura, museo, biblioteca, fa della polivalenza
la propria arma strategia.
Rispetto alla machine à habiter di Le Corbusier, ancora prigioniera del mito della
razionalità, la machine à exposer del Pompidou mette in mostra e spettacolarizza
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innanzitutto se stessa. L’intrico di elementi tecnologici si giustifica con le esigenze di un
contenitore adeguato ai tempi e alla polivalenza.
La “macchina Beaubourg” produce in tal modo un “effetto” derivante dalle
contraddizioni da cui è generata, contraddizioni che essa rimette
in circolazione a sua volta.
Un interno contratto sui vecchi valori, simulacro di valori culturali, viene fortunatamente
demolito in anticipo dall’architettura esterna. Essa infatti, proclama apertamente
che il nostro tempo non sarà mai più quello della durata , che la nostra
temporalità e quella del circuito e del transito di fluidi. Questo, il Beaubourg-Museo (interni)
vuole nasconderlo, ma il Beaubourg-carcassa (esterno) lo proclama. Ed è ciò che
produce, in effetti, la bellezza della carcassa e il fallimento degli spazi
interni.
“Ipermercato della cultura”, attraverso di esso si fornisce alla massa “un oggetto da
consumare, una cultura da divorare, un edificio da manipolare”: i l massimo del suo
successo coincide infatti con la massima trasformazione dei suoi
contenuti . La metafora della macchina non cessa di valere con questo; semplicemente
si adegua a una nuova logica produttiva: dall’idea di creazione ex novo, di “fabbrica”, si
passa a quella di riconversione.
Capitolo sedicesimo
La cerimonia dell’architettura
Una sempre più consistente tensione tra spirito della tradizione e modernizzazione agisce
in Giappone allorchè, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento , esso si apre
ai contatti con l’Occidente .
A fronte di una formidabile spinta verso l’ industrializzazione , l’architettura del
paese inevitabilmente ne risente, rivelando contraddizioni che appaiono
ineliminabili .
E tuttavia, per converso, proprio la “scoperta” dell’architettura tradizionale
giapponese condiziona fortemente la nascita e lo sviluppo dell’architettura moderna
occidentale nei primi decenni del XX secolo (Wright).
La tendenza all’orizzontalità della costruzione, la ricorrente e cosciente asimmetria
dell’impianto, la semplicità lineare delle strutture a telaio, la sottigliezza di travi e pilastri, la
continuità tra esterno ed interno, la modularità e la standardizzazione della costruzione.
L’arrivo nel 1933 di Bruno Taut in Giappone , porta a una progressiva riscoperta
dell’architettura tradizionale da parte degli stessi architetti giapponesi.
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L’interpretazione che Tange darà di Katsura (Villa imperiale presso Kyoto )
dimostra come in essa convivano due principi contrapposti: quello di ordine spaziale
“yayoi” e quello di spontaneo senso volumetrico “ jomon”. La combinazione di
questi due principi determina secondo Tange una dialettica fra tradizione e creazione.
Nella definizione della sua architettura, un ruolo fondamentale è rivestito dall’opera di Le
Corbusier , in particolare il progetto per il Palazzo dei Soviet (l ibertà dagli schemi
precostituiti).
Con il passare del tempo, tuttavia, l’architettura di Tange si evolve (da
un’impostazione yayoi) sempre più in direzione di un’energica espressività, materica e
volumetrica, corrispondente al principio jomon .
I suoi edifici subiscono inarcamenti o torsioni che in taluni casi producono un
violento contrasto con la robustezza delle membrature e dei cornicioni (Tange stringe
rapporti con Saarinen).
Rispetto alle opere degli anni cinquanta, quelle del decennio successivo rinunciano
dunque ai riferimenti espliciti agli aspetti più colti della tradizione giapponese, senza con
ciò eliminarli.
A partire dalla fine degli anni sessanta, l’architettura di Tange
perde la sua autonomia per immergersi nella corrente anonima
dell’architettura internazionale (spettacolarizzazione del capitalismo mondiale).
Uno dei frutti più interessanti del suo lavoro, specialmente in campo teorico, è il
tentativo di fusione di architettura e urbanistica .
Il progetto del gruppo Tange per l ’ampliamento della città di Tokyo , sia basa,
per quanto riguarda la parte residenziale, sull’impiego di megastrutture
galleggianti sull’acqua a forma di diga; perpendicolarmente a questo sciame di blocchi
abitativi, è collocato l’asse civico.
La grande dimensione, coadiuvata dalle nuove tecnologie , s’impone
agli occhi di Tange come una risposta obbligata alle necessità del futuro. Tale
orientamento si fonda, non su l’onnipotenza della “ragione calcolante”, bensì su un
processo organico , biologico: l’immagine della quale si serve è quella del ciclo vitale
che lega il tronco di un albero alle sue foglie .
Il gruppo Metabolism , alimentato dalle intuizioni di Tange, tuttavia prosegue su una
strada differente: nessun “organicismo” in senso biomorfico trova comunque spazio nelle
visioni metaboliste.
I loro progetti adottano nella gran parte dei casi il modello della torre in cemento
alla quale sono agganciate cellule abitative cui viene data la
denominazione di “capsule” .
La capsula è un’architettura cyborg. L’uomo, la macchina e lo spazio costruiscono un
nuovo corpo organico che trascende ogni confronto.
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L’architettura d’ora in avanti assumerà in maniera crescente il carattere di
apparecchiatura .
Isozaki pone a contatto culture e tempi diversi, in apparenza non conciliabili:
ipertecnologiche strutture “a giunto centrale”, sovrapposte e compenetrate alle rovine
monumentali di un tempio greco.
Che ciò abbia parecchio a che fare con le distruzioni di Hiroshima e Nagasaki risulta
palese; meno prevedibile è la presenza di una vena ironica . È proprio l’ironia,
infatti, in quanto forma di disincantato distacco , il medium che rende possibile
ritornare a costruire .
La duplice idea di autonomia delle forme e di autonomia dal contesto rappresenta la
“maniera” di Isozaki: nel rimandare esclusivamente a se stessa e
nel rifiutare ogni legame col luogo, la sua architettura si propone
come possibilità alternativa .
Un’onnivora accumulazione di fonti diverse, secondo una modalità di appropriazione e di
contaminazione tipica della cultura giapponese contemporanea. Come moltissime altre
merci, anche l’architettura in Giappone va soggetta a imitazioni e riproduzioni, come si può
verificare in una città come Tokyo, dove esistono repliche più o meno fedeli della Tour
Eiffel, della Statua della Libertà. In tutto ciò si nasconde la volontà di dare
consistenza a un vuoto . Vuoto che Isozaki cerca di riempire attraverso i successivi
progetti.
La “distrazione” dal puramente funzionale e l ’ introduzione in una dimensione
cerimoniale di forme e materiali originariamente finalizzati ad altri scopi riguarda
anche le architetture di Tadao Ando . Il tema continuamente ripetuto è quello del
volume in cemento armato quasi ermeticamente chiuso . Nessuna
“dimora” offrono queste case, nessun ricovero che non somigli spaventosamente a un
rifugio atomico .
Diverso discorso meritano gli edifici collettivi : in essi la relazione con
l ’ambiente si fa determinante; indicatore formale ne sono la frequente commistione
della curva e della retta e l’intersezione di promenades
architecturales.
Nella Chiesa di Ibraki la luce penetra all’interno dalla buia boîte cementizia
attraverso una croce incisa nel muro sul retro dell’altare. Per Ando non si tratta di
fare “dialogare” architettura e natura, quanto piuttosto di comporre
le loro differenze . “ Non credo che l’architettura debba comunicare in maniera
eccessiva”.
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La stessa nuda elementarità degli interni , rischiarati esclusivamente da rari
tagli di luce, cui si abbina un’espressiva volumetria esterna, caratterizza la White U
House di Tokyo (1975-76), uno dei primi e più significativi lavori di Toyo Ito .
La sua ricerca si muove tra sfruttamento delle più avanzate risorse tecnologiche e
la loro applicazione ad antichi miti di aggregazione comunitaria:
Crystal Ballpark di Seoul (1997).
La cupola dell’edificio garantisce il controllo elettronico della luce naturale
mediante brise-soleil regolati da computer e aspira a divenire “il Crystal Palace del
nuovo secolo”.
Nell’opera più riuscita di Ito, la Mediateca di Sendai (1995-2000), la pressochè completa
eliminazione dei muri, sostituiti dalla trasparenza del vetro, mette in evidenza la
connessione tra tutti i livell i (piani), mediante ritorti pilastri tubolari di diverse
dimensioni, ma anche il necessario mantenimento del “vincolo” dei pavimenti, che
determina una sconnessione dei piani (diverse illuminazione e arredo).
Capitolo diciassettesimo
L’arte della sottrazione
Nel proliferare sempre più copioso di –ismi che caratterizza il panorama della critica d’arte
e d’architettura almeno fino agli anni novanta, uno di quelli più fastidiosi è quello di
“minimalismo” nella sua versione più superficiale e commerciale.
Nella sua versione più seria , tale è uno specifico movimento artistico nato
intorno alla metà degli anni sessanta e sviluppatosi negli anni settanta negli Stati Uniti, le
cui opere sono caratterizzate dal massimo prosciugamento delle componenti espressive,
al limite del mutismo. Alla minimal art corrispondono una tendenziale riduzione semantica,
un impoverimento dei materiali, la ricerca di un’essenzialità da intendersi
anche come aspirazione etica , se non addirittura “ascetica”.
È proprio a partire dalla minimal art che il termine “minimalismo” conosce la
sua diffusione in ambiti a esso estranei in origine: l ’architettura e il design ,
ma anche la grafica, la musica e il cinema.
Non vi è dubbio infatti che quello della “spogliazione” del corpo architettonico sia una
pratica che attraversa una parte consistente dell’architettura contemporanea. Forse,
piuttosto che classificarne gli effetti, bisognerebbe provare a ricercarne le cause.
È nel superamento dell’ideologia dell’abitare ottocentesca che esse vanno cercate; il XIX
secolo è stato come nessuno morbosamente legato alla casa. Il XX secolo, di contro, con
la sua porosità, la sua trasparenza e la sua inclinazione alla luce e all’aria la fa finita con
l’abitare nel vecchio senso della parola. “Costruire a partire dal Poco” in tal
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modo la “regola” per coloro che, nelle condizioni specifiche dettate dall’epoca, accettano di
fare “piazza pulita”
Ed è su questa via di pensiero che si farà strada la tendenza all’astrazione , come
sembrano evidenziare le prime opere degli svizzeri Jacques Herzog e
Pierre de Meuron : un processo attrattivo che si combina però con una grande
attenzione per la materia .
Laddove per l’architettura moderna ortodossa la facciata costituisce un elemento di
mediazione, per Herzog e de Meuron tale elemento acquisisce una nuova importanza,
connotandosi come “pelle” dell’edificio . Oltre a proteggerne il contenuto, sua
peculiarità è di occultare le “ossa” dello scheletro strutturale , ma anche di
esporsi come superficie dotata di un’estetica autonoma, indirizzata verso una
propria spazialità e non un semplice rivestimento.
Con il Deposito Ricola a Laufen , in Svizzera (1986-87), i due architetti rendono la
“pelle” un fatto espressivo dal sapore al tempo stesso odierno e atavico , la cui
qualità è tattile . Se da un lato l’accostamento di lastre orizzontali di eternit produce
un effetto “vibrante” e compatto nello stesso momento, dall’atro la facciata che guarda la
retrostante cava di pietra calcarea la fronteggia in maniera muta, come se fosse una
formazione geologica di differente natura.
La ricerca quasi ossessiva della “monolicità” espressiva del corpo edilizio sembra
interrompersi in due delle opere più felici di Herzog e de Meuron: la Galleria Goetz
a Monaco di Baviera (1989-92) e la Tate Modern di Londra (1995-
2000). La prima consiste in un sandwich di piccole dimensioni composto da due strati
di vetro traslucido con una “fetta” di cemento nel mezzo: involucro che fa dell’opacità
concettuale (l’ostentato rifiuto a farsi attraversare da qualsiasi contenuto) una
qualità estetica fondamentale .
La seconda consiste invece nella trasformazione in museo d’arte contemporanea nella
Bankside Power Station, ormai in disuso. In questo caso il lavoro dei due architetti
consiste piuttosto in un “togliere” . In particolare, l’immensa sala delle turbine,
destinata alle esposizioni temporanee, viene svuotata e reinterpretata come uno
spazio di libera circolazione ; gli unici elementi architettonici aggiunti sono grandi
ed eteree scatole luminose di vetro opalescente.
Nel Museo Kolumba a Colonia (1997-2002), nella Cappella di Bruder Klaus a Merchenich
(1998-2007), per fare degli esempi, la filosofia progettuale di Peter Zumthor , pur
nella varietà di forme, è rimasta sempre la stessa. Costante la sua fedeltà alla
concretezza del fatto costruttivo e all’adeguatezza della
costruzione al luogo ; costante il suo rifiuto di ogni irrigidimento stilistico.
Non è un caso, in tal senso, che negli edifici di Zumthor risuonino echi lontani di
lavorazioni locali , benché a ben guardare non vi sia nulla in essi di direttamente
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riutilizzato o citato. È sempre la materia , comunque, a risultare determinante per le sue
architetture: come la Cappella di Sogn Benedetg (1988-89), o le terme di
Vals (1986-96).
“Atmosfera” è una parola che spesso ricorre negli scritti di Zumthor: “La magia del
reale è per me quell’alchimia che trasforma le sostanze materiali in sensazioni umane”.
Per cercare di renderne conto si dovrebbe ricorrere all’enunciazione di
procedure . Illuminante in tal senso è quella adottata per realizzate la già citata
Cappella di Bruder Klaus : attraverso una porta triangolare si accede allo scuro
spazio interno. Per ottenere la sua forma inflessa sono stati impiegati tronchi d’albero
scortecciati e appuntiti, disposti in circolo (come un teepee) aperto alla sommità. Intorno
a questa cassaforma è stato gettato il calcestruzzo, infine l’eliminazione dei tronchi è
avvenuta facendoli ardere. Le tracce della combustione sono rimaste impresse
sulla superficie, lasciando così una memoria visiva della sua genesi .
Come un alchimista del mondo contemporaneo, Zumthor non crea ma
trasforma .
Agli antipodi geografici e culturali di Peter Zumthor, la giapponese Kazuyo
Sejima realizza i suoi “piccoli artifici” con pari intensità. Dalle sue opere si evince una
tendenza alla leggerezza , che ha luogo nella “smaterializzazione” del corpo
degli edifici : intorno alle strutture portanti, prive di qualsiasi enfasi, Sejima colloca
lastre a tutta altezza di vetro, metallo e policarbonato corrugato. Ne sortiscono scatole
elementari per la gran parte senza finestre ma avviluppate entro traslucidi involucri .
Nonostante l’adozione di materiali tecnologicamente evoluti come i vetri
“intelligenti” (variazione trasparenza), o i panneggi di schermatura in pannelli acrilici,
l’estetica dell’architettura di Sejima nella sostanza non muta: ed è anzi in direzione di
un’ulteriore elementarizzazione geometrica, ma non per questo
regolare e simmetrica , che si muovono le sue ultime opere.
Capitolo diciottesimo
Il disordine del discorso
Nel 1988 il MoMA di New York organizza la mostra Deconstructivist
Architecture , curata da Philip Johnson e Mark Wigley.
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Per quest’ultimo l’architettura decostruttivista non rappresenta soltanto una distorsione
formale, quanto piuttosto “un’interrogazione” della forma , compiuta disponendo
i volumi puri della tradizione architettonica moderna sul lettino dello
psicoanalista .
Lo strumento impiegato per fare ciò deriva dalle modalità del costruttivismo
russo , proseguendo, di quest’ultimo, la ferita aperta decenni prima.
Peter Eisenman, Frank O. Gehry, Zaha Hadid, Coop Himmelblau,
Rem Koolhaas, Daniel Libeskind e Bernard Tschumi : il senso della
decostruzione si impone a partire dalla constatazione dell’impossibilità di
interpretare in modo univoco un testo . Nel medesimo testo possono
emergere strati di significato molteplici, anche in contraddizione tra loro.
Le tradizionali contrapposizioni logiche del discorso (vero/falso) sono
superate a favore dell’investigazione dello spazio intermedio tra le diverse categorie,
alla ricerca delle singolarità .
I primi contatti espliciti tra decostruzione, e architettura sono stabiliti da Bernard Tschumi e
da Peter Eisenman; decostruzione e decostruttivismo, nonostante la differenza di
significato, hanno il proprio comun denominatore nel ricorso a una geometria
frastagliata, irregolare, che mette in crisi la coesione e la
congruenza dell’edificio .
A partire dagli anni ottanta le speculazioni concettuali condotte da
Eisenman nel corso dei vent’anni precedenti sui linguaggi del primo modernismo
vengono fatte interagire con altre “griglie” teoriche e materiali.
Nel Wexner Center for the Visual Arts , all’interno del campus dell’università di
Columbus, Ohio (1983-89), il tridimensionale reticolo metallico connette i vari volumi
costruiti, formando una sorta di galleria coperta/aperta, mettendo in luce la sua particolare
differenza dalle griglie moderniste . La sconnessione profonda che
Eisenman impone alle forme viene ulteriormente evidenziato dalla frammentazione
dell’elemento storico del bastione della vecchia armeria.
L’evoluzione di questa linea di ricerca , grazie anche ai media digitali, porta
Eisenman ad adottare il procedimento del folding : processo di ripiegatura
delle superfici architettoniche .
Nella piegatura l’uno diventa molteplice. Il molteplice non è soltanto ciò che ha molte parti,
ma ciò che è piegato in molti modi.
Ciò che Eisenman propone in sostituzione delle “simulazioni” del classico, la realizzazione
di un’architettura come discorso indipendente, libero da valori esterni: un’architettura
non-classica . Un’architettura autogenerata a partire da elementi
rintracciati direttamente sul sito . Ma è appunto quest’arbitrarietà ad assurgere
a nuovo fondamento: la realtà del disordine si fa così specchio visibile di un ordine
soltanto possibile.
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Il tema dell’assenza riscontrabile nei progetti della fine degli anni settanta, si salda così
con il passaggio dal segnico al tattile e al sensibile degli ultimi progetti. È qui che la
decostruzione esplosiva della fase precedente lascia il posto a una
decostruzione implosiva , intesa come scavo, come sistema di faglie e di rilievi che
cercano di costruire la spontaneità della natura.
Dal problema dell’irappresentabilità dell’evento storico della Shoah e dalla necessità di
tradurlo in esperienza vissuta attraverso lo spazio, nasce anche il Museo Ebraico di
Berlino (1989-99) di Daniel Libeskind .
L’interazione tra una l inea frastagliata , saettante, e una linea diritta,
frammentata in diversi spezzoni, genera una sequenza di spazi destinati
all’esposizione, mentre l ’ i l luminazione proviene da feritoie che tagliano in
diagonale i muri perimetrali. All’esterno il rivestimento in lamiere zincate conferisce
all’edificio l ’aspetto di un lager .
Tale approccio risulta ben intonato al carattere intellettualistico con cui è affrontato il
soggetto dell’edificio: materializzazione dell’orrore che la coscienza dello
sterminio di 6 milioni di ebrei inevitabilmente porta con sé. Ciò che tuttavia pone in una
luce sospetta il lavoro di Libeskind è il fatto che nelle opere successive lo
stesso linguaggio possa venire indifferentemente utilizzato per edifici
dalle destinazioni tanto disparate .
Il dubbio è che tale linguaggio abbia finito col diventare un abile passe-partout
capace di fruttare la vittoria di numerosi concorsi.
Anche per Bernard Tschumi , architetto svizzero-francese, l ’architettura
ha una spiccata matrice concettuale e letteraria ; egli ipotizza una
fondamentale disgiunzione tra forma, spazio, uso, evento e significato .
Tra essi non vi è un rapporto di causa-effetto, bensì soltanto una programmatica
incertezza, una positiva instabilità. Il suo sforzo diventa così quello di accogliere
nell’ambito dell’architettura il disordine, le collisioni e
l’imprevedibile.
La traduzione in azione di questi concetti avviene con l’affermazione del progetto di
Tschumi nel concorso internazionale per un “parco del XX secolo” alla
Villette, Parigi (1982-97). Il suo programma prevede la sovrapposizione di tre
sistemi indipendenti tra loro: i “punti” (padiglioni di forma cubica); le
“linee” (sistema di percorsi); le “superfici” (zone di differente utilizzo).
Il Parc de la Villette si configura così come un “teatro di eventi”.
“Se il mondo attuale impone la dissociazione e distrugge l’unità, l’architettura,
inevitabilmente, non può che riflettere questi fenomeni”. Se per Tschumi ha senso parlare
di decostruttivismo architettonico è soltanto perché l ’architettura intesa come
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evento la comprende dall’interno, e può contribuire a spezzare la presunta
saldezza su cui le istituzioni sociali, politiche, economiche e culturali si reggono.
Unica donna architetto presente alla mostra del MoMA, Zaha Hadid , irachena di
nascita ma formatasi all’Architectural Association School di Londra, manifesta il proprio
precoce interesse per la lezione delle avanguardie artistiche .
Dalla combinazione di prospettive forzate fin oltre i limiti di una percezione corretta,
e di proiezioni in cui le linee orizzontali e verticali subiscono un inverosimile
inarcamento , scaturisce la modalità progettuale caratteristica di Hadid: modalità che
sembra piuttosto derivare da una rappresentazione artistica bidimensionale, che non
essere frutto di una ricerca spaziale pienamente consapevole.
La Vitra Fire Station a Weil am Rhein (1990-94) è un tour de force della
diagonale . Zaha Hadid a proposito della stazione dei vigili del fuoco parla di
“movimento congelato” . Ed è proprio in direzione di un più marcato dinamismo che
si spinge infatti il lavoro dagli anni novanta a oggi. L’immagine dei “flussi” e dei
“fluidi” fa ingresso nella sua pratica progettuale e nel suo vocabolario.
Lo spazio liscio trova così la sua concreta edificazione nelle gettate di
cemento che Hadid utilizza: materia liquida, prima ancora che solida, e dunque materia
“liscia” per eccellenza, perfettamente disponibile a lasciarsi colare in
qualsiasi forma .
La finalità è quella di fornire spazi pubblici potenzialmente in grado di dare piacere,
attraverso un aspetto “naturalistico” che privilegi gli effetti di superficie, sacrificando
però l’aspetto concettuale della loro architettura .
Nell’architettura di Steven Holl si ritrovano consistenti frammenti dell’esperienza
delle avanguardie storiche del Novecento, deprivata tuttavia dell’originario rigore e
reinterpretata invece in chiave sensoriale .
Secondo uno schema ricorrente, egli esordisce con alcuni progetti “concettuali”. Il principio
a cui essi si attengono è quello dell’assunzione di tipologie intese però come modelli
universali destoricizzati.
Emerge tuttavia fin da subito anche il forte radicamento del lavoro di Holl nell’uso di
fattori corporei dell’architettura , quali luce, materia, e colore , il cui
risultato porta a promanare sensazioni di freddezza , di mancanza di vita. E in
effetti, negli anni novanta Holl sembra avvertire il vuoto culturale che rischia di
avvolgere l’opera architettonica allorchè questa sia concepita in senso esclusivamente
estetico.
A differenza di Eisenman, però, i dispositivi concettuali risultano inesorabilmente più deboli
e meno essenziali della stessa architettura.
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Nella Residenza universitaria Simmons Hal al MIT di Cambridge ,
Massachusetts (1999-2002), i principi evocato sono quelli della porosità e della
permeabilità ; la metafora è quella della spugna .
Detto altrimenti: soltanto allorchè si fa architettura, la spugna può aspirare a
divenirne anche metafora . E ciò non può accadere che a posteriori.
Capitolo diciannovesimo
Il dominio della distorsione
Una stagione straordinariamente feconda per quanto riguarda l ’espressività delle
strutture caratterizza l’Italia tra gli anni cinquanta e sessanta .
Va rilevato a tal proposito che le condizioni generali per la realizzazione di complesse
strutture in cemento armato si presentano paradossalmente più favorevoli in paesi come
l’Italia appunto, ma anche la Spagna e l’America Latina; ciò è semplicemente spiegato dal
fatto che la manodopera di quegli anni risulta a costi decisamente
contenuti.
Il più noto e significativo caso italiano d’interazione tra ingegneri strutturali e architetti
rimane comunque il Grattacielo Pirelli (1955-59), realizzato da Gio Ponti e
Pier Luigi Nervi . L’impresa di risultare snello e “leggero”, e addirittura affilato come una
lama , è determinata dalla doppia coppia di pilastri cavi a sezione triangolare posta alle
due estremità.
Le opere di Pier Luigi Nervi negli anni seguenti coniugano una grande capacità
inventiva a una chiarezza espressiva , manifestata dall’utilizzo delle nervature
irradiate secondo le linee isostatiche .
Allo sviluppo di spettacolari coperture a conchiglia costituite da sottili gusci di calcestruzzo
è legata la fame dei maggiori rappresentanti della scuola di ingegneria strutturale
spagnola, Eduardo Torroja , in particolare con la tettoia a sbalzo dell’Ippodromo
Zarzuela di Madrid (1935).
Santiago Calatrava si propone come erede della tradizione ingegneristica
spagnola.
In lui, a partire dalla Stazione Stadelhofen di Zurigo (1983-90), l’accento viene
posto sulle nervature a comporre uno “scheletro”: immagine da intendere in senso
strettamente biologico.
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L’evoluzione che ne consegue porta i suoi edifici a rivelare l’aspirazione a divenire
sculture . In quanto sculture, possono essere concepiti come oggetti del tutto emancipati
da qualsiasi discorso storico (Palau de les Arts, Valencia).
Soltanto in poche circostanze la ricerca di Calatrava incrocia un l inguaggio
architettonico codificato , e non è certo casuale che si tratti del gotico : le
archeggia ture ogivali e le copiose ramificazioni sono da lui impiegate come strumento per
un’identificazione collettiva, popolare .
Tuttavia quello che le sue architetture affermano attraverso l’espediente retorico del
biomorfismo è la mancanza di contraddizioni .
Ragioni statiche ed estetiche: il ponte così concepito, come una perfetta unità strutturale
e semantica, diviene un macro-oggetto di design , pronto per essere “immerso sul
mercato” ed esportato indifferentemente in qualsiasi parte del mondo.
Il rapporto con la scultura, la propensione per le forme organiche e dinamiche, l’impiego di
curve complesse, sono tutti elementi che rendono potenzialmente assimilabili i lavori di
Calatrava e di Frank Gehry. Al di là di ciò, tuttavia, vi è una sostanziale
incomparabilità.
Le prime prove significative di Gehry sono ancora oscillanti tra l’esplorazione
della moderna tradizione losangelina (Neutra, Wright) e il recupero del
cosiddetto Spanish Colonial , caratterizzato da muri bianchi coperti di stucco,
depurato da ogni elemento decorativo.
L’opportunità di utilizzare un’estetica più informale, e l’impiego di materiali poveri, viene
offerta a Gehry da committenti appartenenti al mondo dell’arte
(anticonformisti). Tra i primi esiti ci è la Casa-studio per l’artista Ron Davis a
Malibu (1968-72), caratterizzata da un marcato senso dell’instabilità .
Dall’operazione compiuta da Gehry sulla propria casa a Santa Monica tra il
1977 e il ’78, e poi ancora tra il 1991 e il ’94 , traspare una radicale
destrutturazione della sua regolarità : pareti di lamiera ondulata e legno
compensato, squarciate da finestre disassate; al suo interno aperture di bucature irregolari
e pareti letteralmente scorticate; in cucina l’impianto consueto è sostituito da una
straniante pavimentazione d’asfalto. Ciò che si verifica in tal modo è un paradossale
rovesciamento del dentro fuori , come l’impiego di barriere di rete
metallica rivela uno “sfruttamento dei ruvidi ambienti urbani”: linguaggio da guerriglia.
Recuperi di marca più pop sono presenti nella Norton House a Venice (1982-
84), dove, in cima a un pilastro isolato, di fronte al corso principale della casa, si erge uno
studiolo di legno che richiama esplicitamente le torrette d’avvistamento dei
guardiaspiaggia (tema del rustico).
A Casa Schnabel a Brentwood (1986-89), la frammentazione dell’unità è compiuta
operando disassamenti e slittamenti dei volumi , come se una scossa tellurica
avesse fatto tremare l’edificio. L’evento di un tale “terremoto architettonico” si
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addiziona in tal modo alle pratiche già sperimentate da Gehry in precedenza:
l ’architettura come scultura, l’architettura come gioco.
Opera limite di questa fase dell’architettura gehryiana è la sede amministrativa del Team
Disneyland ad Anaheim (1987-96) con i suoi due volti assolutamente
differenti e inconciliabili: quello rivolto verso la cittadella dei divertimenti ,
caratterizzato da pareti sghembe, dalla consistenza fluida, gommosa, come si conviene a
una costruzione appartenente al mondo dei cartoons ; e quello rivolto verso
l’esterno, prospiciente una highway a scorrimento veloce, costituito da una
rigida stecca ricoperta di scaglie metalliche, completamente uniforme e regolare, non
fosse per l’oggetto posato ai suoi piedi: un pettine . Per quanto in apparente
contraddizione tra loro, questi due volti rispondono a tono alle aspettative
della ricezione potenziale cui sono destinati : ai visitatori di Disneyland, in
architettura di fantasia; ai viaggiatori sull’autostrada, in architettura che cerca di catturare
la loro attenzione distratta.
A partire dalla seconda metà degli anni ottanta Frank Gehry ha sempre più
occasioni per costruire all’estero .
Forme quali quelle del pesce e del serpente diventano protagoniste assolute nel
Fishdance Restaurant di Kobe, in Giappone: provocazione
incondizionata, completamente priva di motivazioni e di relazioni .
Nel Vitra Museum a Weil-am-Rhein, in Germania, questa si offre sotto forma di
meditazione ultima sul purismo modernista , in cui tuttavia solo il candore
delle superfici rimane della purezza dei volumi, costretti a inclinazioni, deformazioni,
avvitamenti.
Un complesso intreccio di serietà e gioco , di finanza e spettacolo , è alla
base di due opere che rappresentano il Gehry maturo : la Walt Disney Concert
Hall di Los Angeles (1989-2003) e il Guggenheim Museum di Bilbao (1991-
97). In quest’ultimo si parla di “effetto Bilbao” , un tentativo di catturare il commercio
globale, in un ambiente in cui si chiama l’architettura a svolgere un ruolo-chiave nella
difficile sfida di riqualificare e rilanciare l’economia della città. Ciò che ne scaturisce è un
museo che mostra se stesso , piuttosto che le opere esposte al suo interno.
Nella Walt Disney Concert Hall di Los Angeles è all’opera invece un innaturale
processo di scollamento tra carne e pelle ; infatti la grande sala per concerti
richiede, per ragioni di acustica, una struttura rigorosamente simmetrica, in totale antitesi
con la sua immagine esterna.
Ed è proprio sulla palese contraddizione tra condizioni interne e
aspetto esteriore che Gehry sviluppa d’ora in avanti la sua
architettura . Ciò è riscontrabile nella Sede degli uffici della Nationale-
Nederlanden a Praga (1992-96), dove un edificio dall’univoca destinazione è
artatamente separato in due entità, l’una dal carattere maschile e l’altra
femminile (Ginger e Fred) danzanti sul lungofiume.
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Come nell’Experience Music Project di Seattle (1996-2000) (ispirato a Jimi
Hendrix), dall’informale si fa largo la forma, nello spremere la carta si cerca la
figura dell’edificio : mescolanza tra struttura e involucro . Gli edifici
conclusi assumono le sembianze di “schizzi”.
Nel gesto con cui egli accartoccia la facciata del plastico di un edificio fino a farle
assumere l’aspetto desiderato è sintetizzato tutto il percorso compiuto da Gehry:
assimilare l’architettura alla scultura, anche dal punto di vista
procedurale .
A questo esito estremo egli giunge grazie all’eccezionale organizzazione produttiva del
suo studio e all’uso altamente sofisticato del computer da parte del suo
staff.
Lo “stile” di Gehry si espone d'altronde a molteplici equivoci, ama anche a critiche indebiti,
che non tengono conto delle ramificate radici di cui esso è il prodotto, e delle profonde
trasformazioni che, piaccia o meno, esso produce.
Capitolo ventesimo
Le strategie della realtà
“Inutile piangere su un dato di fatto: l’ideologia si è mutata in realtà, anche se il sogno
romantico di intellettuali che si proponevano di guidare il destino dell’universo produttivo è
rimasto, logicamente, nella sfera sovrastrutturale dell’utopia”. Così Manfredo Tafuri
diagnostica la fine di ogni il lus ione: “il dramma dell’architettura, oggi, obbligata
a tornare pura architettura, istanza di forma priva di utopia, nei casi migliori, sublime
inutilità”.
È piuttosto a partire da un deciso oltrepassamento di una concezione moderna
ponendo a proprio fondamento tale crisi, ovvero agendo non “contro” bensì
all’interno di essa , con essa, che si muove quello che può essere considerato
all’odierno il massimo interprete in ambito architettonico: l’olandese Rem
Koolhaas .
Una prima considerazione a suo riguardo è che, se mai è possibile individuare un’eredità
spirituale tafuriana, proprio Koolhaas sembra averla raccolta: il rifiuto di qualsiasi
atteggiamento “nostalgico” nei confronti dei processi di trasformazione in atto, e la
capacità di affrontare l’aporeticità del reale , e anzi di operare in seno a esso
mediante lo strumento della contraddizione ; ma con un’importante
avvertenza: nell’effettuare le sue analisi, Koolhaas prende le mosse là dove Tafuri si
arresta. Il che introduce a una seconda notazione: il punto di vista di Tafuri è
inequivocabilmente moderno, quello di Koolhaas si connota invece come
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inevitabilmente postmoderno, senza però alcuna caratterizzazione
stilistica .
In occasione di un’esercitazione scolastica consistente nell’analizzare, ridisegnare e
presentare un edificio storico esistente, egli sceglie il muro di Berlino : questo viene
preso in esame fotograficamente e interpretato come un “macroggetto” capace di
creare un’ampia serie di situazioni sociali e psicologiche , e un’altrettanto
variegata gamma di “opportunità” architettoniche e urbane . Agli occhi di
Koolhaas questo suggeriva che la bellezza dell’architettura era direttamente proporzionale
al suo orrore.
L’impiego in positivo delle istanze rinvenute a Berlino trovano compimento nel suo primo
progetto, Exodus, or the Voluntary Prisoners of Architecture (1972).
Questa volta è il centro di Londra a essere attraversato da un muro ,
spogliato però della drammatica valenza di delimitazione politico-militare: si tratta invece di
una mégastructure trouvée o di un monumento continuo (Superstudio) . Due
lunghissimi muri paralleli racchiudono una fascia di territorio urbano suddivisa in dieci
settori quadrati , corrispondenti ad altrettanti “scenari”. Edonismo,
lusso e benessere sono i criteri che guidano la loro scelta: un “flusso inarrestabile”
(esodo) di cittadini verso l’enclave separata da resto della città da checkpoints trasformati
in receptions (prigionieri volontari).
Il tentativo di risvegliare interesse nei confronti della città e
dell’architettura . È precisamente in questa chiave che va letta la sua riabilitazione
del “fenomeno” grattacielo , e Manhattan quale luogo di sua massima
proliferazione. Pubblicato nel 1978, Delirious New York , ambisce a essere
“manifesto retroattivo” di una teoria architettonica mai esplicitamente formulata dai
costruttori dei grattacieli degli anni venti e trenta, teoria che Koolhaas battezza con il nome
di Manhattanismo .
Il grattacielo per lui è un “universo autosufficiente” , la cui onnivora tendenza alla
totalità è alimentata da un’ampia dotazione di Tecnologia del Fantastico
(impiantistica) e ha come vincoli la separazione tra involucro esterno e volumi interni
(Lobotomia architettonica ) e la sconnessione tra i diversi piani (Scisma
Verticale): paradigmi di un’architettura frutto di ben precisi
“programmi” .
Proprio dalla lezione “programmatica” dei grattacieli newyorkesi, Koolhaas ricava
l’importante concetto della “Cultura della congestione” , e lo impiega nei progetti
del suo studio, appena aperto: OMA (Office for Metropolitan Architecture).
L’accumulo e la densità che ne deriva costituiscono la condizione
metropolitana per eccellenza. Koolhaas, anziché dissolverla (come fa Le Corbusier
con la Ville Radieuse), elabora possibili strategie per una sua intensificazione e
util izzazione . Già nell’ironico progetto The City of Captive Globe (1972)
aveva trasformato i blocchi regolari della griglia di Manhattan in altrettanti basamenti
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marmorei predisposti per ospitare alla sommità la paradossale parade rievocativa
dei momenti più o meno noti dell’esperienza moderna .
Ma si tratta soltanto di un’anticipazione teorica delle potenzialità della griglia.
Il progetto per il Parc de la Villette a Parigi (1982-83) prevede una
complessa articolazione di attività da distribuire sulla superficie del parco.
La sovrapposizione e l’intreccio dei diversi livelli determina zone estremamente assortite, e
al tempo stesso una sorta di svolgimento sul piano dello Scisma Verticale
caratteristico del grattacielo.
L’idea del catalogo (ovvero di un certo numero di elementi dati, interagenti con la
realtà in modo tale da apportarvi modifiche che risultano tanto più felici quanto più sono
imprevedibili) costituisce una componente importante della cultura di Koolhaas. “puro
programma e quasi nulla forma” .
In una sempre più marcata forma di “cannibalismo architettonico” e teorico in cui arriva a
impossessarsi si temi, tecniche e immagini altrui riadattandoli ai
propri fini , Koolhaas elabora il progetto di concorso per la Ville Nouvelle
a Melun-Sénart (1987): qui il rapporto figura-sfondo genera la figura astratta di un
“ideogramma cinese” , dove la necessaria densità dei pieni si contrappone la
conservazione di fasce intrecciate di vuoti .
La richiesta del bando d’integrare cinque biblioteche in un unico complesso, e di
riservare più di metà dello spazio totale ai depositi , porta Koolhaas a
ragionare nuovamente sul tema della sconnessione , estesa però all’intero
volume. L’edificio viene così concepito come un cubo per la gran parte occupato dal
pieno dei magazzini, entro i quali si aprono alcuni vuoti isolati
occupati dalle sale lettura .
Ulteriore livello al quale Koolhaas concepisce la congestione e la bigness è il
libro che pubblica nel 1995 con OMA: S, M, L, XL . In senso stretto si tratta di un
catalogo delle sue opere, cui si addizionano alcuni testi teorici scritti ne corso del tempo, il
tutto ordinato per “taglia” , anziché per data. S, M, L, XL si candida a divenire il
punto di riferimento di una modalità completamente nuova e diversa d’intendere la
monografia di una architetto.
Nella sezione Small compare Villa Dall’Ava a St. Cloud , vicino Parigi (1985-
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“I clienti volevano un capolavoro”. ”Lui voleva una casa di vetro. Lei voleva
una piscina sul tetto”.
La relazione che la casa intrattiene con la Ville Savoye di Le Corbusier attesta infatti
l’effettiva aspirazione a prendere le mosse da un capolavoro per produrre un
capolavoro , nella volontà di rappresentare una “seconda chance” per
l’architettura moderna : la cui logica interna è ridotta in frantumi ,
sostituita da giunzioni impreviste, da un’estetica apparentemente “precaria”. Il linguaggio
moderno può sopravvivere esclusivamente nella contraddizione , pena la perdita
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dalla propria coerenza. Si spiega così la pratica surrealista del cadavre exquis (montaggio
di parti completamente diverse) su cui è costruita la casa .
La stessa sensazione di squilibrio, con i piani inclinati e precorsi
disassati , promana dalla Kunsthal di Rotterdam (1987-92). Impostato su una
regolare pianta quadrata, l’edificio risolve la coesistenza di tre sale espositive, un
auditorium e un ristorante mediante un intelligente montaggio intorno a una rampa
elicoidale pedonale che attraversa l’edificio: ne deriva un’apparecchiatura
spaziale complessa , che pur partendo dalla Nationalgalerie di
Berlino di Mies , sembra volersi affrancare dal rigore modernista senza sfociare
tuttavia in una “libertà” priva di vincoli. Ancora una volta, la forma pare definirsi in
base al programma.
Il Koolhaas degli anni novanta con sempre maggior frequenza affronta problemi
costruttivi e questioni spaziali , abbandonando progressivamente un approccio
concettuale-metaforico all’architettura. Egli la spoglia su una scala più ampia, come
predizione di fenomeni di trasformazione urbana o come un’interpretazione sociologica di
mutazioni antropologiche (Junkspace).
In Villa Lemoîne a Floriac , Bordeaux (1994-98), la struttura staccata dal terreno
della miesiana Farnsworth House e il plan libre lecorbuseriano sono i
topoi con cui essa di confronta. Ciò sortisce il doppio tour de prestidigitation della
sospensione di un blocco cavo di cemento armato al di sopra di
una scatola di vetro , e della trasformazione in uno spazio continuo in
senso verticale , grazie alla piattaforma mossa da un pistone idraulico che connette i
tre livelli della casa, resa necessaria dall’impossibil ità di deambulazione del
padrone di casa . La libertà della pianta si tramuta così in un vero e proprio spazio
vitale.
Nella Seattle Public Library (1999-2004) programma e materia trovano un
felice momento di sintesi: il programma (diagramma) consiste nell’impilare l’una
sull’altra le diverse funzioni, secondo la familiare immagine di una “torre di libri” .
Parcheggio, spazio pubblico, locali riservati allo staff, sale riunioni, sale computer,
deposito dei libri, sale di lettura, amministrazione sono i “volumi” che compongono l’edificio
reale: la forma segue un processo. ”È possibile progettare un
edificio serio nell’epoca dell’immagine?” Alla domanda che egli stesso si
pone, Koolhaas cerca di dare una risposta con la Casa da Musica a Porto . Un
bianco e irregolare masso erratico, palesemente estraneo al contesto, si propone però
come un gigantesco “visore” : l’interno comunica con la città circostante.
Gli studi avviati sull’evoluzione degli spazi commerciali e sui suoi
meccanismi regolativi (scala mobile, aria condizionata) lo porta a tale affermazione: “Non
soltanto lo shopping è mescolato a ogni cosa, ma ogni cosa è
mescolata allo shopping” . Il suo controllo è nei nostri spazi, nei nostri edifici, nelle
nostre città, nelle nostre attività e nelle nostre vite.
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Ben lungi dall’essere un sostenitore della commercializzazione di ogni settore della vita
sociale, inclusa l’architettura, Koolhaas l’analizza con lucidità .
Analizzarla, criticarla, comporta partire dall’accettazione della sua
realtà . Per Koolhaas, la realtà è ciò che esiste. La metropoli contemporanea esiste.
Nelle metropoli contemporanee contraddizione e crisi agiscono. Ed è appunto dentro tale
realtà e su di essa che egli opera. Questa singolare capacità d’introiettare e di
metabolizzare il reale fa di lui un architetti assolutamente sui generis, un architetto di
genere mutante.
Capitolo ventiduesimo
Lo schermo del mondo
La realtà ormai si conforma intorno alla logica del videogame . Nel mondo
virtuale è l ’ immag ine a dominare : essa rappresenta qualcosa che la realtà non può
essere.
Come ha reagito a tal proposito la cultura architettonica? Va innanzitutto notato
come le modalità di rappresentazione hanno partecipato e partecipano tuttora
alla rivoluzione informat ica dell’architettura .
Tuttavia, al di là di una certa fascinazione esercitata da disegno digitale e dall’estetica che
ne deriva, vi sono comunque in tali tecniche aspetti e risultati davvero innovativi, come le
ispezioni interne multi prospettiche e l’interattività con spazi tridimensionali virtuali.
Ma vi sono ulteriori livell i a cui il fondamento tra finzione e realtà
si manifesta nell’architettura recente . Loro scopo non è quello di creare
mondi alternativi a quello vigente; piuttosto, l’effetto è quello di una momentanea
interruzione della “programmazione” consueta , l’inserimento in essa di
un’altra realtà con modalità e regole proprie: inventare situazioni.
Il percorso seguito da Jean Nouvel risulta in questo senso esemplare.
L’Institut du Monde Arabe a Parigi (1981-87) segna al contempo il suo debutto
sulla scena: un centro culturale, la cui progettazione Nouvel affronta avendo ben chiari gli
obiettivi della funzionalità, della razionalità distributiva e
dell’inserimento nel contesto, ma a cui riferisce tuttavia un
ulteriore programma . La divisione degli spazi in due corpi affiancati intorno a una
corte quadrata, diventa occasione per un raffronto percettivo, sensoriale, tra
mondo arabo e mondo occidentale . Alla variegata trasparenza del secondo
volume, fa da contrappunto, sulla superficie del primo, l ’uso di cellule
fotoelettriche che, come veri e propri diaframmi fotografici, si aprono e si chiudono a
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seconda dell’intensità luminosa: patterns geometrici che richiamano le
decorazioni islamiche . Nulla qui corrisponde esattamente a quanto ci si potrebbe
aspettare: la qualità spaziale è il risultato della proiezione di elementi
superficiali; mentre l’ornamentale discende direttamente dal
funzionale (regolazione intensità luminosa).
Nella Fondation Cartier d i Parigi (1991-95) il vetro diviene protagonista
assoluto della scena, giungendo a cancellare percettivamente quella struttura in acciaio su
cui si regge. Le pareti di vetro non si limitano a definire i contorni esterni della
scatola edilizia, ma la eccedono addirittura, prolungandosi come schermi tesi nel vuoto;
inoltre le diverse “densità” di tali pannelli permettono a seconda dei casi una totale
trasparenza o una totale rifrazione della luce.
Già da queste prime visioni si rende palese la stretta relazione che Nouvel istituisce tra
project e projection, tra architettura e cinema : entrambi “macchine” per raccontare
storie, ma anche entrambi complessi congegni per incantare l’occhio: caleidoscopi
d’immagini sottoposte a un sapiente “montaggio”.
Il “film” di Nouvel si dipana così in una serie di episodi
- Soho Hotel , NY “L’edificio cambia con le ore: da oggetto massiccio giunge alla
smaterializzazione:
- Polo Tecnologico di Brembo , Bergamo. Velocità, corse automobilistiche,
inseguimenti, rosso Ferrari. The Red Mile;
Ciò che accomuna questi e altri episodi è di essere realizzati nella “magia del
rendering”.
Nella sua dimensione, l ’ immagine supera la realtà, se non arriva
addirittura a sostituirla . A ulteriore conferma è l’assenza completa dell’indicazione
di spazi precisi, di attività svolte, di funzioni risolte; e ancora di più, l ’assenza
completa di piante (ma non gli alberi!): il tutto finalizzato alla seduzione immediata.
Ma vi è ancora un aspetto nell’opera di Nuovel: per lui i l prospetto è già
scomparso per fare posto alla trasmissione di un’immagine
animata la cui funzione d’interfaccia non è più quella degli ordini architettonici, bensì
quella del disordine semantico del messaggio computerizzato. Jean Nouvel ha
anticipato di quasi vent’anni il Media Building, edifici alti la cui funzione
consiste soprattutto nella messa a disposizione delle informazioni economiche o politiche,
la cui vendibilità è rapidamente assicurata.
Accanto all’opera di Nouvel, vi è tuttavia un altro modo d’intendere e di praticare il rapporto
tra architettura e fiction. La migliore esemplificazione è fornita dal lavoro di
Massimiliano Fuksas . In esso la gerarchia tra realtà virtuale e
realtà reale è del tutto sovvertita .
In Fuksas il virtuale sconfina direttamente nell’impossibile divenendo
un’irrealtà delirante .
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Tale distacco tra virtuale e possibile si sconta nella differenza spesso abissale che corre
tra progetto ed edificio costruito.
Ma in senso ancora più radicale, è nella pura dimensione della fiction che si
verifica il gap sopra indicato: così, nel Centro Congressi Italia all’Eur , come
nell’Agenzia Spaziale Italiana (2000), entrambi a Roma, il fulcro dell’intervento
proposto coincide con un risultato paradossale , surreale, improbabilmente attuabile
nella forma del rendering.
L’interesse di Fuksas per culture lontane , che non hanno nulla a che fare con
l’architettura, e l ’utilizzo di materiali inaspettati, immaginati, come la
materia “acquosa” , traslucida, portano all’ottenimento del massimo di astrazione
rispetto non soltanto al reale ma a suo stesso superamento. L’immagine
prospettata è semplicemente irrealizzabile, ma non per questo
irrappresentabile . La rappresentabilità diviene il solo criterio che
l ’architettura è chiamata a rispettare , benché ciò spesso comporti trascurare
le più elementari leggi della statica; in ciò si può leggere il significato ultimo
dell’architettura di Fuksas: indecifrabile blob .
Il polo dell’Ente Fiera di Milano a Rho-Pero (2002-2005) è la sintesi di tutte le
immagini, di tutte le forme, di tutti i messaggi.
L’obiettivo, palesemente sempre al di là del reale, rimane infatti in che modo trasformare
un’esperienza concreta come la visita a una Fiera in una grande
avventura : “messa in scena” di una vita compiutamente felice. Di tale metafisica
“felicità” la sua architettura non vuol essere né la promessa né il compimento; semmai
la semplice illusione ottica .
Ciò nondimeno, vi è qualcosa di apocalittico in queste visioni. La fine del mondo
oggi equivale alla sua completa falsificazione. Le architetture, le città
intere sempre più si lasciano osservare dalla “finestra” dei rendering.
Capitolo ventitreesimo
Nuovi miti, nuovi riti
A mio parere, da leggere.