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Tafuri e la crisi

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Manfredo Tafuri oltre la storia

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a cura di

Orlando Di Marino

introduzione di

Benedetto Gravagnuolo

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Indice

7 Decostruire, interpretare, pensareBenedetto Gravagnuolo

19 Tafuri e la crisi, spiegati agli studenti del primo annoMarco Biraghi

27 Il Rinascimento di Tafuri Manuela M. Morresi

55 L’evanescenza della trasgressioneFrancesco Dal Co

69 Quid tum Massimo Cacciari

74 Tafuri e Roberto Pane: colloquio inedito sul destino del lavoro storiograficoGiulio Pane

78 Tafuri e l’architettura del manierismoFrancesco Starace

92 L’indispensabile inutilità della storia Sandro Raffone

96 Storia e architettura Fabrizio Spirito

102 PostfazioneOrlando Di Marino

Inediti106 Autobiografia 109 Lettera di Manfredo Tafuri a Roberto Pane

110 Bibliografia degli scritti di TafuriFederico Rosa

Copyright © 2009 CLEANvia Diodato Lioy 19, 80134 Napolitelefax [email protected]

Tutti i diritti riservatiÈ vietata ogni riproduzione

ISBN 978-888497-149-4

EditingAnna Maria Cafiero Cosenza

GraficaCostanzo Marciano

Referenze fotograficheArchivio Camillo Gubitosi p. 72Elisabetta Catalano copyright © p. 1, copertinaElio Montanari p. 67Paolo Morachiello pp. 52-53Manuela M. Morresi pp. 6, 108Vassiliki Petridou p. 25

in copertinaManfredo Tafuri, 1980(copyright © Elisabetta Catalano)

Si ringrazia la professoressa Manuela M.Morresi per la gentile concessione deltesto dell’autobiografia a pp.106-107 edelle foto a pp. 1, 6, 25, 52-53, 91, 104.

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Decostruire, interpretare, pensareBenedetto Gravagnuolo

Manfredo Tafuri è stato qualcosa di più di uno storico dell’architettura. Al di là deiconfini nazionali, Tafuri è stato un autentico maestro di pensiero che ha dischiusonuovi orizzonti mentali, travalicando i tradizionali confini dell’esegesi storico-criticasulle forme del costruire. Non foss’altro che per la latitudine dei suoi interessi cultu-rali, sarebbe riduttivo incastonare i suoi scritti negli scaffali accademici della conven-zionale specificità della storiografia architettonica. Certo, i suoi libri ed i suoi saggi restano eloquenti esempi di una maniera diversa diintendere le finalità, prima ancora che i metodi dell’ermeneutica delle cose edificate.E sulla portata innovativa del suo “progetto storico”1 sono stati già versati fiumi diinchiostro. Potrebbe, pertanto, apparire superfluo aggiungere una nuova tessera adun puzzle già pazientemente ricomposto2. Eppure, è forse non inutile tornare adinterrogarsi sul senso profondo della sua fatica intellettuale. Questo libro raccoglie le relazioni tenute presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filoso-fici a Napoli da Marco Biraghi, Francesco Dal Co e Manuela M. Morresi - rispettiva-mente il 16 e 25 gennaio e il 13 febbraio 2006 - con l’aggiunta del testo dell’orazio-ne funebre per Manfredo Tafuri tenuta a Venezia da Massimo Cacciari, nel cortile deiTolentini il 25 febbraio 1994, nonché gli apporti dialettici di Giulio Pane, SandroRaffone, Fabrizio Spirito e Francesco Starace. L’inziativa fu promossa dal corso diStoria dell’Architettura nella fase in cui ricoprivo anche il ruolo di Preside dellaFacoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.Se non è andata dispersa l’eco di quei discorsi, si deve, soprattutto, all’impegno diOrlando Di Marino, che ha curato con rigore questo volume, integrandolo con labibliografia redatta da Federico Rosa ed arricchendolo con due inediti, vale a direuna lettera a Roberto Pane ed un breve profilo autobiografico stilato da Manfredo

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Manfredo Tafuri a Palazzo Te, Mantova, ottobre 1989 ( foto Manuela M. Morresi, Venezia)

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fronti: da un lato strappare le maschere dei mistificanti proclami dell’architetturasedicente “progressista”, dall’altro - e con ancor più fermezza - demistificare l’inge-nuità degli stereotipi analitici del gauchisme accademico. La ricerca deliberatamen-te protesa verso un’interpretazione non pregiudiziale degli eventi e dei documenti delpassato, storiograficamente indagati alla luce della ragione induttiva, conduce il pen-siero critico di Manfredo Tafuri se non proprio sul terreno del nichilismo di ascenden-za nietzschiana, di certo ai confini del puro scetticismo logico, scevro dall’ansia dirasserenanti certezze. Ne deriva il peso enorme che assume fin dall’inizio nel pro-getto storico di Manfredo Tafuri la filologia come strumento ermeneutico privilegiato,da intendere nell’accezione etimologica di autentica passione per il logos. Per quan-to possa apparire paradossale, sostenere che l’architettura è - nel migliore dei casi- una “sublime inutilità”, resta, al di là del contesto polemico in cui fu asserita, unachiave di lettura incontrovertibilmente sensata. L’architettura è al di là dell’utile. Solouna piccola parte dell’immensa produzione edilizia può essere riconosciuta cometale, laddove il costruire sublima il mero scopo pratico nella poiesis culturale. Per meglio intendere il senso di questa considerazione, bisogna fare un passo indie-tro. Bisogna risalire al ruolo che la storiografia dell’architettura ha assunto in Italia nelsecondo dopoguerra come disciplina “critica” estesa ad un campo culturale cosìampio da includere nei propri confini alcuni ineludibili fondamenti di filosofia, di este-tica e di politica. Tali consapevoli sconfinamenti muovono dal ruolo pionieristico diopinion-maker di una visione “democratica” dell’architettura giocato da Bruno Zevi5

- a partire dal suo ritorno dagli Stati Uniti d’America, in aperta antitesi con la tradi-zione tardopositivistica della scuola romana d’ascendenza giovannoniana - prose-guendo non solo sulle tracce del maestro d’elezione Frank Lloyd Wright, ma anchedi Benedetto Croce, Franco Venturi, Carlo Rosselli ed altri. Verso un’architetturaorganica (1945) resta un testo di rottura che prelude alla rilettura “partigiana” dellaStoria dell’Architettura Moderna (1948), inequivocabilmente finalizzata ad orientarele tendenze del gusto contemporanee, come lo stesso autore dichiarerà nel saggioLa storia come metodologia del fare architettura (prolusione dell’anno accademico1963-64 nell’Università di Roma). Sta di fatto che l’interpretazione della vicenda del “Movimento Moderno” - introdot-ta nell’immediato dopoguerra tra epici scontri accademici come questione nodalenon solo nel dibattito culturale, ma anche (benché gradualmente) nei corsi universi-tari - divenne la palestra dialettica per antonomasia di un aspro confronto tra antite-tiche esegesi critiche. È in questa fase che furono tradotte le storie canoniche delmovimento - da Pevsner a Giedion6 - alle quali si aggiungensero, in una vorticosamiscela di pensieri diversi, le prese di posizioni di critici ed architetti militanti, qualiErnesto Nathan Rogers, Giuseppe Samonà e Ludovico Quaroni; le acute incursionidi storici dell’arte, quali Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e Maurizio Calvesi; non-ché le nuove narrazioni scritte da storici dell’architettura, tra i quali, oltre a BrunoZevi, Leonardo Benevolo, Renato De Fusco, Paolo Portoghesi7 ed altri. In tale agone dialettico Manfredo Tafuri si cimentò da par suo in Teorie e storia del-l’architettura, non solo stilando nel primo capitolo una lucida diagnosi su “L’architet-tura moderna e l’eclissi della storia”, quand’anche e soprattutto nel quarto capitolodichiarando il suo netto contrasto verso “La critica operativa”, ovvero mettendo in

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Tafuri a Venezia, nel dicembre 1993, poco prima di spegnersi per una crisi cardiacail 23 febbraio 1994, all’età di 59 anni. Da parte mia provo a ridurre in estrema sintesi alcune personali considerazioni sullastraordinaria valenza metodologica della ricerca storiografica di Manfredo Tafuri - alquale resto legato da sentimenti di profonda stima, benché non ne sia stato un diret-to allievo - rinviando l’approfondimento tematico alla lettura dei più sistematici sag-gi raccolti in questo libro. Ho letto per la prima volta un libro di Tafuri da studente, iscritto al primo anno dellaFacoltà di Architettura nell’ormai lontano 1968, e da allora ho continuato a seguirecon costante interesse l’evoluzione del suo pensiero critico. Ma, non solo per la miagenerazione, Teoria e storia dell’architettura (1968) e Progetto e utopia (1973) resta-no due pietre miliari nel cammino verso un modo inedito di indagare ab imis l’essen-za delle architetture scavando dati latenti sotto la coltre del passato. Riletti a distanza di anni, quei testi mostrano pour cause i tratti distintintivi del roven-te clima culturale in cui furono scritti. D’altronde anche lo storico sta nel tempo, inter-roga il passato a partire dalle domande del presente. Anche se le interpretazioni sto-riografiche, laddove comprovate con rigore analitico, non appartengono ai pregiudi-zi del tempo. Soprattutto le prefazioni rivelano, però, un’enfasi assertoria su questio-ni epistemologicamente complesse, attraversando diagonalmente eterogenei cam-pi disciplinari. Nel crepuscolo di quei giorni eversivi, tali assiomi si stagliano in lonta-nanza come stelle polari per le lunghe rotte esplorative sul ruolo dell’architettura nelcorso dei secoli. Sarebbe tuttavia fuorviante attribuire il notevole (benché controver-so) successo di quei veri e propri cult-books al timbro di manifesti di un punto divista politicamente datato. Si pensi al tono tranchant di alcuni postulati. “Come non è possibile fondare un’E-conomia Politica di classe, ma solo una critica di classe dell’Economia Politica - silegge in Teorie e storia dell’architettura - così non è dato ‘anticipare’ un’architetturadi classe (un’architettura ‘per una società liberata’), ma è solo possibile introdurreuna critica di classe all’architettura”3. Rincarando la dose, in Progetto e utopia Tafu-ri enuncia una ancor più drastica tesi. “Ciò che ci interessa, in questa sede, è preci-sare quali siano i compiti che lo sviluppo capitalistico ha tolto all’architettura: che ècome dire, che esso ha tolto, in generale alle prefigurazioni ideologiche. Con la qualcosa, si è condotti quasi automaticamente a scoprire quello che può apparire il‘dramma’ dell’architettura, oggi: quello, cioè, di vedersi obbligata a tornare puraarchitettura, istanza di forma priva di utopia, nei casi migliore, sublime inutilità.Ma ai mistificanti tentativi di rivestire con panni ideologici l’architettura, preferiremosempre la sincerità di chi ha il coraggio di parlare di quella silenziosa e inattuale‘purezza’. Anche se essa nasconde ancora un afflato ideologico, patetico per il suoanacronismo”4.L’estremismo concettuale non va confuso con un’adesione ortodossa al marxismodi maniera. Anzi. È esplicita la presa di distanza dalla teoretica e non solo dalle tesiallora egemoni nella cultura di sinistra di György Lukács e Galvano Della Volpe, maanche dal dernier cri della “scuola” di Herbert Marcuse (da Mitscherlich ad altri epi-goni), nonché dal sociologismo definito “volgare” di Arnold Hauser. La radicale de-costruzione delle impalcature ideologiche mira a ben riflettere verso due opposti

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guaggio architettonico e le attese rappresentative, tra gli indirizzi teologici epocali ele più pragmatiche ragioni sottese dall’economia politica della committenza papale.Il “caso” dello studio sul frammento di Via Giulia, analizzato per così dire al micro-scopio, può valere come esemplificazione del metodo ermeneutico di ManfredoTafuri che mira a coniugare, in una circolarità interpretativa a doppio senso, la disa-mina del dettaglio minimo alla ricognizione critica sui massimi sistemi delle diversementalità epocali. Senza una visione storiografica di ampio respiro sarebbe difficilecomprendere il senso dei particolari; e viceversa. Non foss’altro che per questaopzione di principio, nel lavoro di filologia critica Manfredo Tafuri persegue finalità edadotta strumenti consapevolmente diversi e ben più complessi di quelli collaudatidalla filologia positivistica di Leopold von Ranke13 che ambiva a limitare l’esegesi sto-riografica solo ai fatti ed ai documenti comprovati, analizzando “le cose che sono,come sono”. Come acutamente sottolinea Manuela M. Morresi nel saggio pubblica-to in questo stesso volume, l’analisi critica di Tafuri è protesa “oltre il documento”,indicando come compito ineludibile dello storico il porsi domande sul senso del pas-sato mettendo in relazione dialettica i fatti con le idee, strappando il velo di velleitànascoste o sottaciute, sapendo che finanche i documenti possono tacere o ingan-nare. “Vorremmo sapere - annota Tafuri in Venezia e il Rinascimento (1985) - ciò chenessun documento potrà riferirci. Quale sarà stata la reazione di Sansovino alla noti-zia che il suo amico Vergerio, vescovo di Capodistria, era passato nelle file dei pro-testanti? E quale la ripercussione interiore, nello stesso Jacopo o in Tiziano, alla con-statazione che l’Indice di Paolo IV (1599) aveva condannato in blocco l’opera delsodale Pietro Aretino?”14. Questo brano comprova indirettamente un altro criterio metodologico basilare, valea dire il principio di non confondere la “contemporaneità” della ricerca storiograficacon l’equivoco della “attualizzazione” del passato. Se è vero che il passato è immu-tabile, resta altresì innegabile che l’interpretazione di ciò che è accaduto è intermi-nabile. Tant’è che le letture storiografiche mutano nel corso del tempo in relazione almutare degli interrogativi che lo storico di volta in volta si pone, muovendo da crite-ri metodologici adottati in relazione ai fondamenti epistemologici della propria epo-ca, dai quali consegue la stessa “selezione” dei dati da analizzare. Il che tuttavia nonpuò giustificare il vezzo diffuso dalla “critica operativa” di “attualizzare” il passatoadottando terminologie à la page, tanto seduttive quanto inesatte. L’interpretazioneha dei limiti. Le ipotesi cognitive vanno comprovate attenendosi meticolosamentealle coordinate storiche nelle quali gli eventi documentati si sono manifestati. E leparole dell’esegesi vanno scritte con la stessa precisione con la quale il matematicoadopera i numeri. Fin qui un accenno a questioni di metodologia storiografica. Pur avendo consegui-to in età giovanile la cattedra di Storia dell’Architettura presso l’IUAV di Venezia nel1966, Manfredo Tafuri aveva seguito un percorso formativo per vari versi anomalo.Ancor prima di laurearsi aveva partecipato a dispute culturali rivelando una notevo-le autorevolezza critica. “Da studente - si legge nel profilo autobiografico - aveva fat-to parte di gruppi radicali di protesta contro l’arretratezza e la pessima qualità delladidattica, promuovendo occupazioni da registrare tra le prime nelle Università italia-ne del dopoguerra. Polemicamente, egli presentava alla Commissione di laurea, for-

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guardia non solo gli architetti dall’uso ingenuo della “storia sul tavolo da disegno”,ma, soprattutto, gli storici dalla tentazione di deformare l’interpretazione del passa-to per orientare le poetiche del presente.“Ciò che comunemente si intende - puntualizza Tafuri - per critica operativa è un’a-nalisi dell’architettura (o delle arti in generale), che abbia come suo obiettivo non unastratto rilevamento, bensì la “progettazione” di un preciso indirizzo poetico, antici-pato nelle sue strutture, e fatto scaturire da analisi storiche programmaticamentefinalizzate e deformate. In tale accezione la critica operativa rappresenta il punto diincontro fra la storia e la progettazione. Anzi, si può ben dire che la critica operativaprogetta la storia passata proiettandola nel futuro”8. Questo enunciato di metodo ha il valore di un postulato teoretico basilare, concet-tualmente esteso alla storiografia di ogni tempo e di ogni cultura e, in quanto tale,non limitato alla demistificazione del racconto eroico del “movimento moderno” - daPevsner a Zevi - che verrà liquidato come una “favola” consolatoria nel successivoe poderoso volume sulla Architettura contemporanea, redatto in collaborazione conFrancesco Dal Co9. Per altri versi, Teorie e storia racchiude in nuce un lungimirante programma di ricer-ca, pazientemente declinato nel corso dei saggi succesivi, attraverso approfondi-menti specifici, puntuali verifiche microtematiche e talvolta ripensamenti interpretati-vi conseguenziali ad inediti dati indagati.Tutt’altro che scontata resta la tesi che indica le profonde e latenti radici dell’antisto-ricismo delle avanguardie novecentesche nel gesto simbolico di “de-storicizzazione”varato da Brunelleschi, rompendo gli schemi costruttivi della tradizione gotica pergettare un ponte soprastorico con il passato mitico dell’antichità. “La storia non èquindi rappresentabile - chiosa Tafuri - in tale concezione, secondo una linea conti-nua. Essa è piuttosto una spezzata, determinata da un criterio di scelta arbitrarioche ne fonda, volta per volta, valori e disvalori. Su tale ‘eroica’ cesura compiuta neltempo storico, si basano quattro secoli circa di ricerche architettoniche: ed in buo-na parte le attuali esperienze ne vengono condizionate”10. Da tale assunto discen-dono come corollari i lunghi anni di studi dedicati agli eventi ed ai protagonisti diquell’avvincente avventura intellettuale; studi costantemente oscillanti - fino alle ulti-me fatiche della sua laboriosa esistenza - tra i poli storici apparentemente incompa-rabili delle avanguardie e dell’umanesimo, ovvero tra La sfera e il labirinto (1980) e laRicerca del Rinascimento (1992), come suonano i titoli di due dei suoi più celebrilibri11. In questo cerchio di gesso, tracciato con nitore sulla lavagna teoretica, siinscrivono le variegate ed apparentemente eterogenee indagini12 su “casi” e “temi”distinti e distanti nello spazio e nel tempo. Basti pensare che nello stesso 1973,anno nel quale viene data alle stampe la densa sintesi sull’ampio arco storico di Pro-getto e utopia - dirompente dissertazione tesa a stigmatizzare l’architettura e l’urba-nistica contemporanee come derivazioni ideologiche dello sviluppo capitalistico - lostesso autore punta la lente dell’ingrandimento filologico su Via Giulia, assumendoquel segmento della renovatio urbis della Roma del Cinquecento come elemento daanalizzare - con la distaccata freddezza di un chimico nel laboratorio storiografico,peraltro condiviso con studiosi di diversa provenienza disciplinare quali Salerno eSpezzafierro - al fine di dipanare l’intreccio complesso, ma rintracciabile, tra il lin-

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mato da Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Toni Negri (allontanatosi dopo il primonumero), Massimo Cacciari e Francesco Dal Co (suo primo allievo e nel 1976 coau-tore della già citata storia della Architettura Contemporanea). La meta verso cui ten-deva la rivista, il cui primo numero fu pubblicato nel luglio 1968, era una rivisitazio-ne critica del marxismo, aggiornandolo alla luce delle successive acquisizioni filoso-fiche, economiche e scientifiche, nonché confrontandolo dialetticamente con pen-sieri “diversi” e non di rado “antitetici”. Manfredo Tafuri - già appassionato alle tema-tiche culturali di ampio respiro agitate in quegli anni da Alberto Asor Rosa, FrancoFortini, Enzo Paci, Michelangelo Antonioni ed altri alfieri dell’innovazione noetica -aderì con entusiasmo al programma teoretico di quel laboratorio politico. Per unacritica dell’ideologia architettonica fu il saggio pubblicato a mo’ di postulato nel 1969su “Contropiano”, in seguito rielaborato e notevolmente ampliato nella versione dataalle stampe per i tipi della Laterza con il titolo arganiano Progetto e utopia. Seguiro-no sulla stessa rivista, con una concatenata sequenza logica, le trattazioni su Lavo-ro intellettuale e sviluppo capitalistico (1970, n.2); Socialdemocrazia e città nellaRepubblica di Weimar (1971, n.1) e Austromarxismo e città. “Das rote Wien” (1971,n.2), saggi a tesi rivelatisi a loro volta semiconcettuali di successivi volumi. Un paral-lelo laboratorio di ricerca fu da lui stesso allestito presso l’Istituto di Storia dell’IUAV,nel Seminario di studi i cui esiti furono raccolti nel volume di autori vari Socialismo,città, architettura. URSS 1917-1937 (Officina, 1971). Lo scandaglio su La città ame-ricana dalla guerra civile al “New Deal” (Laterza, 1973) - elaborato in un coeso grup-po di studio con Mario Manieri Elia, Francesco Dal Co e Giorgio Ciucci - aggiunseun’ulteriore tessera al puzzle esplorativo sulle complesse e contraddittorie interrela-zioni tra architettura, pianificazione, economia e politica, mirando lo sguardo criticosulla terra dei grattacieli, là dove il capitalismo aveva raggiunto le più elevate vettedello sviluppo nell’età contemporanea. La questione metodologicamente fondamentale resta però la “critica dell’ideologiaarchitettonica”, eletta a principio-guida per l’indagine storiografica non solo dell’etàcontemporanea, ma di ogni epoca.“Preferiamo piuttosto chiarire - si legge nell’Avvertenza alla seconda edizione di Teo-rie e storia dell’architettura - una volta per tutte, la corretta chiave interpretativa concui seguire le articolazioni del nostro discorso, e avvertire che consideriamo questolibro solo una primissima tappa di avvicinamento ad una lettura rigorosa della storiadell’architettura che coinvolga quest’ultima per intero, in tutto il suo carattere ideo-logico. (Non è forse superfluo ribadire che il termine ideologia è da noi usato nel suosignificato specifico: come struttura, quindi, della falsa coscienza offerta dagli intel-lettuali ai sistemi dominanti). Architettura come ideologia, come istituzione che “rea-lizza” l’ideologia, come disciplina messa in crisi dalle nuove tecniche dell’universodella produzione e di pianificazione anticiclica…”20. Risuona in queste asserzioni l’eco delle tesi di Karl Marx formulate in Die deutscheIdeologie (Bruxelles 1846, ed. postuma Mosca 1932) e Zur Kritik der PolitischenOekonomie, Berlino 1859). Si badi però: l’eredità marxiana viene decantata dalleistanze utopiche per ricondurla al lucido realismo diagnostico del “materialismoscientifico”. Nell’esegesi di Tafuri sembra insomma riaffiorare il gramsciano pessimi-smo dell’intelligenza, predominando però sull’ottimismo della volontà. Rinviando

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mata ancora da vecchi accademici a suo tempo compromessi con il regime fasci-sta, una tesi di Storia dell’Architettura, e non, come era prassi comune, un elabora-to progettuale”15. La tesi, incentrata sull’architettura di età sveva in Sicilia, fu poi pub-blicata nei “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura” di Roma con il titolo Pro-blemi di critica e problemi di datazione in due monumenti taorminesi: il Palazzo deiDuchi di S. Stefano e la Badia Vecchia16. Dunque, fin dall’esordio la perizia nello scavo critico-archivistico su puntuali temi di“microstoria” si coniugò con un appassionato impegno politico. Questa apparentedualità rappresenterà a ben vedere il tratto distintivo dell’intera sua opera. Fondato-re dell’Associazione Studenti e Architetti (ASEA), membro dell’INU e di Italia Nostra,opinionista di “Paese Sera”, Tafuri partecipò nei primi anni Sessanta con notevole vispolemica al dibattito sulle trasformazione urbane di Roma e di altre città italiane17.Tra i maestri prescelti nella fase formativa si stagliano Giulio Carlo Argan, che lo intro-dusse alla lettura della storia dell’arte come storia della cultura in senso lato; Erne-sto Nathan Rogers, che gli aprì le porte di quella sorta di scuola di pensiero criticoche è stata la redazione di “Casabella-Continuità”; e, non ultimo, Ludovico Quaroni,straordinario caposcuola del dubbio socratico, al quale dedicò la metonimica mono-grafia data alle stampe nel 1964 per le olivettiane “Edizioni di Comunità”, con il tito-lo Ludovico Quaroni e la cultura architettonica italiana. In quello stesso anno pub-blicò il saggio su L’architettura moderna in Giappone, estendendo lo sguardo criti-co sulle tendenze contemporanee ben oltre i confini nazionali. Non meno variegatefurono le esperienze didattiche percorse attraversando diagonalmente anche il cam-po disciplinare delle Teorie della Progettazione, dapprima come assistente ordinariodi Quaroni a Roma nel 1965, poi, come supplente di Rogers a Milano nel 1966, edancora, coprendo il ruolo di professore incaricato a Palermo come libero docente diUrbanistica. Non deve sorprendere se il definitivo conseguimento della cattedra di Storia dell’ar-chitettura, nel concorso del 1966, sia dovuto anche (e forse soprattutto) all’appog-gio convinto di Bruno Zevi, dal quale, come si è accennato, Manfredo Tafuri presedi lì a poco distanze metodologiche siderali sulla questione della “critica operativa”.Tafuri aveva in quella fase pubblicato un’originale ricognizione su L’architettura delManierismo nel Cinquecento europeo, nonché gettato alcuni illuminanti squarci diluce su Michelangelo, Borromini ed altri dirompenti protagonisti dell’avventura anti-classica tra XVI e XVII secolo. L’affinità elettiva va stanata, tuttavia, non tanto sulletematiche affrontate, quand’anche e soprattutto sulla statura critica che Zevi seppericonoscere nell’allora giovane studioso, potenziale antagonista dialettico, ma acco-munato dalla visione non convenzionale della ricerca storiografica. Una data spartiacque nella biografia di Tafuri resta per altri aspetti il 1968, anno incui fu chiamato a Venezia a coprire la Cattedra di Storia presso l’IUAV e contestual-mente venne eletto a dirigere l’Istituto (poi ridenominato Dipartimento) di Storia del-l’Architettura (fino al 1980)18. Non è una mera coincidenza se l’anno successivo pub-blicherà il saggio su Jacopo Sansovino e l’architettura del ‘500 a Venezia. Roma e Venezia rappresenteranno non solo due campi prevalenti di reiterate ricer-che storiografiche, ma anche due metaforiche città-patrie. Decisivo fu l’incontro aVenezia con il nucleo di intellettuali raccolto intorno alla rivista “Contropiano”19, for-

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ricerca del Rinascimento - e non sul Rinascimento - non può avere termine, né pro-ve documentali incontrovertibili, restando, se non proprio una beffa o una finzione,di fatto nella verifica del redde rationem la meta lontana di un’immaginazione miticaepocale che ha orientato pensieri e prassi del costruire con esiti eterogenei. Tant’èche, nonostante la dichiarata stima per Rudolf Wittkower, la rilettura dell’opera diLeon Battista Alberti lascia trasparire in controluce un profilo culturale antitetico aquello dell’apostolo della harmonia mundi forgiato negli Architectural Principles inthe Age of Humanism (1949)23. L’inedita esegesi critica del Momus - commedia letteraria composta fra il 1443 e il1450, scavata tra le carte dimenticate e posta accanto al De re aedificatoria - strap-pa a Leon Battista Alberti la maschera apollinea dell’ortodosso teologo della instau-ratio dell’antichità nella Roma di Nicolò V, rivelando l’inganno come tecnica di resi-stenza cortigiana nei confronti del potere. “Momo - rimarca Manfredo Tafuri - portaal limite temi propri della cultura di Leon Battista. Il suo scetticismo, il suo vagabon-daggio, il suo opporsi alla tirannia, la sua stessa arte della simulazione, sembranorappresentare, per l’autore, autoironiche estremizzazioni delle proprie idee”.È solo un esempio per comprovare il ricorso tutt’altro che ingenuo alla filologia, ado-perata anzi come un tagliente bisturi critico. Così come l’immagine dello “occhio ala-to” prescelta come copertina del volume - raffigurata nella medaglia bronzea esegui-ta da Matteo de’ Pasti come un’icona racchiusa nel cerchio allegorico di una ghir-landa d’alloro e sospesa sopra il lapidario enigma “QUID TUM” - può suggerire l’ele-gante supposizione che l’eresia panteista di Leon Battista Alberti - metaforicamen-te stanata nell’avventura umana (troppo umana) del dionisiaco dio etrusco - vadaanalogicamente associata alla speculare Ricerca introspettiva e ascetica dello stes-so Manfredo Tafuri. Il che è indimostrabile.

1. Il progetto storico di Manfredo Tafuri è il titolo del fascicolo monografico della rivista “Casabel-la”, nn. 619-620, gennaio-febbraio 1995, dedicato ad una ricognizione delle sue ricerche, conscritti di Vittorio Gregotti, Giorgio Ciucci, Alberto Asor Rosa, Françoise Very, Jean-Louis Cohen,Joan Ockman, Hélène Lipstadt, Harvey Mendelsohn, Richard Ingersoll, Francesco Paolo Fio-re, Howard Burns, Andrea Guerra, Cristiano Tessari, José Rafael Moneo, Piero Corsi, oltre adocumenti di Yve-Alain Bois, Joseph Connors, James S. Ackerman, Massimo Cacciari e unaprima bibliografia a cura di Anna Bendon, Guido Beltramini e Pierre-Alain Croset.

2. Si veda inoltre, Marco Biraghi, Progetto di crisi. Manfredo Tafuri e l’architettura contemporanea,Christian Marinotti Edizioni, Milano 2005.

3. Manfredo Tafuri, Avvertenza alla seconda edizione, in Teorie e storia dell’architettura, LaterzaRoma-Bari, 1970, p. 3 (prima edizione 1968).

4. Manfredo Tafuri, Premessa, in Progetto e utopia, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 3 (saggio riedi-to con un’acuta introduzione di Franco Purini nel 2007).

5. Sulla consapevolezza del ruolo “politico-filosofico” della storiografia architettonica si veda Bru-no Zevi, Zevi su Zevi, Magda editrice, Milano 1977.

6. Nicolaus Pevsner, Pioneers of the Modern Movement from William Morris to Walter Gropius,London 1936, trad. it. I pionieri del Movimento Moderno, da William Morris a Walter Gropius,Rosa e Ballo, Milano 1945; Siegfried Giedion, Space, Time and Architecture, New York 1941,trad. it. Spazio, tempo e architettura, Hoepli, Milano 1954. Per un inquadramento critico sulsenso del plot concepito per narrare la vicenda del “movimento moderno”, si veda Maria Lui-sa Scalvini, Maria Grazia Sandri, L’immagine storiografica dell’architettura contemporanea daPlatz a Giedion, Officina, Roma 1984.

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all’agire politico la (futura quanto improbabile) palingenesi rivoluzionaria, ManfredoTafuri limita rigorosamente il logos storiografico all’analisi delle “realtà illusorie” delleimpalcature ideologiche erette dagli architetti nel corso del tempo come “sovrastrut-ture culturali” fondate sulla più solida struttura economico-sociale dei rapporti di pro-duzione. Ne deriva la necessità di indagare a fondo sulla volontà di forma dei com-mittenti, che giocano - anche nei programmi iconici - un ruolo tutt’altro che margi-nale. Il sistema sovrastrutturale della rappresentazione architettonica non viene dun-que liquidato come irrilevante mistificazione, ma valutato nella sua ineludile dialetti-ca con la struttura sociale, capovolgendone, tuttavia, la bilancia dei pesi, per svela-re i moventi ideologici intrinseci delle scelte formali nascosti dietro paraventi tatuati. Nell’alveo di tale rivisitazione del ruolo dell’ideologia confluiscono e si diluiscono inun’inedita miscela i torrenti teoretici di molti altri autori (sia postmarxiani che anti-marxiani) attentamente riletti da Tafuri nel disincanto accentuato dalla frequentazio-ne dell’eresia di “Contropiano”: da Friederich Nietzsche, a Walter Benjamin, EdmundHusserl…fino a Roland Barthes, Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault ed altri maî-tres à penser contemporanei.Va da sé che in tale rinnovato “progetto teoretico” l’immersione nelle ideologie archi-tettoniche del passato dischiuda una visione antitetica a quella delle grandi narrazio-ni Otto-Novecentesche sulla “storia degli stili”. Alla ricerca dei significati latenti rac-chiusi nelle radici delle forme, Manfredo Tafuri - senza ricalcare pedissequamente leorme delle analisi “iconologiche” di Cassirer, Panofsky e Wittkover - si inoltra lungoun sentiero ermeneutico inesplorato, intersecando non irrilevanti punti di tangenzacon la foucaultiana demistificazione dei “regimi di verità”. Il passato ci ha trasmessonotizie filtrate dai dispositivi di potere, pietre e parole selezionate con cura e trasmes-se con sagacia a futura memoria; insomma dati manipolati che, in quanto tali, van-no verificati con razionale scetticismo. In tale ottica la filologia assume a maggiorragione un senso radicalmente diverso dalla mera ricerca della certezza del docu-mento. Menomata dall’interpretazione critica delle ideologie architettoniche la filolo-gia resterebbe zoppa, riducendosi nel migliore dei casi alla ricognizione descrittiva oalla periodizzazione cronologica della narrative history. Non era questa l’ambizionegnoseologica che ha sotteso l’incessante ricerca di Manfredo Tafuri, ritmata da inter-rogativi tesi ad oltrepassare la fenomenologia della res aedificata per carpire, trami-te l’indagine storica sull’architettura, le mitologie epocali. Ancor più delle ultime grandi mostre monografiche sui linguaggi, le mentalità ed icommittenti di Giulio Romano (1989) e Francesco di Giorgio (1993)21, il testamentospirituale del razionale nihilismus metodologico di Manfredo Tafuri - scevro da para-digmi pregiudiziali - resta il monumentale volume einaudiano: Ricerca del Rinasci-mento. Principi, città, architetti 22, dato alle stampe nel 1992. Con un andamentolabirintico, il filo discorsivo inizia a Firenze con la “Novella del Grasso legnaiolo” - valea dire con la beffa architettata da Filippo Brunelleschi, intorno al 1409, ai danni del-l’intarsiatore Matteo Ammannantini - e si conclude nell’Epilogo lagunare di JacopoSansovino a Venezia, passando attraverso la Roma di Nicolò V e Leon BattistaAlberti, il Mito e architettura nell’età di Leone X, il Sacco del 1527 e la Granda di Car-lo V. Deliberatamente l’autore non scioglie didascalicamente i dubbi che assalgonoil lettore sospinto in una foresta di dilemmi. Anche se è ragionevole desumere che la

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7. Bruno Zevi, Storia dell’architettura moderna, Einaudi, Torino 1950; Leonardo Benevolo, Storiadell’architettura moderna, Laterza, Roma-Bari 1960; Renato De Fusco, Storia dell’architetturacontemporanea, Laterza, Roma-Bari 1974; Paolo Portoghesi, Le inibizioni dell’architetturamoderna, Laterza, Roma Bari 1976, Id. Dopo l’architettura moderna, Laterza, Roma Bari 1980.

8. Manfredo Tafuri, Teorie e storia..., cit., p. 165. 9. Manfredo Tafuri, Francesco Dal Co, Architettura contemporanea, Electa, Milano 1976. 10. Manfredo Tafuri, Teorie e storie…, cit., p. 26. 11. Manfredo Tafuri, La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni ’70,

Einaudi, Torino 1980; Id., Ricerca del Rinascimento, Einaudi, Torino 1992. 12. Per le referenze bibliografiche dell’ampia produzione saggistica di Manfredo Tafuri, che sareb-

be lungo elencare nei limiti di questa nota, rinviamo il lettore alla Bibliografia allegata al presen-te volume, a cura di Federico Rosa.

13. In antitesi con l’allora predominante teoria “teleologica” hegheliana della “filosofia della storia”,Leopold von Ranke - ispirandosi al principio di aderenza alla nuda verità sostenuto da Tomma-so D’Aquino nel “manifestare ea quae sunt sicut sunt” (mostrare le cose che sono come sono)- In Epochen der neueren Geschichte (Lipsia, 1888) sostenne che il passato andava semplice-mente descritto “wie es eigenthlich Gewesen ist” (così come veramente è).

14. Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura, Einaudi, Torino1985, p. 113.

15. Manfredo Tafuri, Profilo autobiografico, in appendice al presente volume. 16. Manfredo Tafuri, Problemi di critica e problemi di datazione in due monumenti taorminesi: il

Palazzo dei Duchi di S. Stefano e la” Badia Vecchia”, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Ar-chitettura” di Roma, n. 51, 1962.

17. Cfr. Giorgio Ciucci, Gli anni della formazione, in “Casabella”, nn. 619-620, pp. 12 sgg. 18. Sulla direzione di lavoro data da Manfredo Tafuri alla formazione di quella sorta di “scuola di

Venezia” che è stato l’Istituto di Storia dell’IUAV si veda Jean-Louis Cohen, Ceci n’est pas unehistoire, in “Casabella”, nn. 619-620, pp. 48 sgg.

19. Cfr. Alberto Asor Rosa, Critica dell’ideologia ed esercizio storico, in “Casabella”, nn. 619-620,pp. 28 sgg.

20. Manfredo Tafuri, op.cit., pp. 4-5. 21. Per l’approfondimento di tale tematica si vedano gli acuti saggi di Francesco Paolo Fiore, Auto-

nomia della storia, e Howard Burns, Tafuri e il Rinascimento in “Casabella”, nn. 619-620. 22. Manfredo Tafuri, Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti, Einaudi Torino 1992; volu-

me tradotto in varie lingue, dedicato a Manuela M. Morresi e da lei stessa commentato con arti-colate e profonde riflessioni nel saggio pubblicato in questo stesso libro.

23. Rudolf Wittkower, Architectural Principles in the Age of Humanism, London,1949; trad. it. Prin-cipi architettonici nell’età dell’umanesimo, Einaudi, Torino 1964.

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Tafuri e la crisi, spiegati agli studentidel primo annoMarco BiraghiIl Rinascimento di Tafuri Manuela M. Morresi L’evanescenza della trasgressione Francesco Dal Co Quid tumMassimo Cacciari

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Manfredo Tafuri, pur non essendo un filosofo, ha molto a che vedere con la filoso-fia, non intesa come “teoria del pensiero”, quanto piuttosto come agire del pensie-ro. Attraverso di lui la storia dell’architettura è diventata, o ha ribadito ulteriormentedi essere, un’attività del pensiero, e non semplicemente il riflesso naturale di unaserie di avvenimenti.Si potrebbe partire proprio da qui: dall’idea che la storia non è semplicemente ilrispecchiamento di eventi accaduti, che un qualche oggettivo “apparecchio” storicopuò registrare e raccontare, traducendo automaticamente gli avvenimenti in parole.Al contrario, il passaggio dall’avvenimento alla parola è sempre un passaggio alta-mente critico. Passare dalla “realtà” dei fatti alla loro storicizzazione è un passaggio stretto, diffici-le e pericoloso; pericoloso perché non essendovi possibilità di rispecchiamento dipresunte “verità”, o di presunte “realtà”, si va sempre soggetti al rischio d’invenzio-ne, o di deformazione. Un passaggio che spinge a compiere delle operazioni delica-te, difficili: operazioni che Tafuri denomina infatti “progettuali”. La storia, in questo senso, non si “ricostruisce”: non è un puzzle di cui si posseggo-no i pezzi e che pazientemente si ricompone. La storia ha un carattere progettuale:l’evento storico, cioè, viene costruito.Lo storico ha il suo materiale, i suoi “pezzi”, a disposizione: gli eventi, i documenti e,nel caso dello storico dell’architettura, i progetti e gli edifici. Ma tutto questo, di persé, non costituisce ancora una trama sufficientemente stretta, e non solo perchéalcuni pezzi mancano sempre, ma anche perché - come afferma Tafuri, riprenden-do una linea di pensiero che da Nietzsche passa attraverso Benjamin - un simile

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accennava poc’anzi; la crisi storica, piuttosto, potrebbe essere legata all’evento (oall’avvento) di un’opera: qualunque opera di architettura crea una differenza. Lo spa-zio fisico che fino a quel momento era connotato in un certo modo, differisce dallostato precedente in seguito all’evenire di un nuovo edificio. E ancor di più, la grande opera architettonica, il grande “capolavoro”, se si vuol dir-lo in termini idealistici, è proprio quell’evento che mette in crisi l’ordine precedente,e che ha addirittura la capacità di ribaltarlo, di scombussolare quell’ordine che sem-brava costituito. Questa, a ben vedere, è la caratteristica dei grandi eventi architet-tonici: non quella di occupare tranquillamente un centro che lasciano assolutamen-te immutato, a “riposo”, bensì la capacità di rompere quegli equilibri che sembrava-no costituiti, e che proprio con quell’evento straordinario si rimettono in gioco.Tutti i grandi capolavori della storia dell’architettura hanno esattamente questo trattocomune, e in questo senso si potrebbe recuperare la nozione idealistica di “capola-voro” dando ad esso invece una connotazione molto concreta. Il capolavoro non èquell’opera che sta in una sorta di sovrano isolamento, perfetta nella propria purez-za, ma è invece qualcosa che si sporca e che sporca, che mette in crisi l’ambientein cui sorge. Quindi, quanto più un’opera riesce a disordinare - in senso profondo, enon superficialmente - il modo di pensare l’architettura di una certa epoca, e tantopiù potrebbe essere valutata come “capolavoro”. (Non è Tafuri stesso a formularequesto concetto. E tuttavia, il suo pensiero sulla crisi in qualche modo lo presuppo-ne. La produttività di un pensiero, d’altra parte, si misura - oltreché sulla propriacapacità d’interpretare qualcosa - su quella di provocare “conseguenze” ulteriori).La crisi è dunque quel momento in cui le cose precipitano; e in quel precipitare lostorico inizia a indagare per mettere insieme i frammenti, che per Tafuri semprerimangono tali, non riuscendo mai a ricostituire un intero; frammenti che però van-no anche misurati nelle loro differenze, nella loro distanza, nel differire dei loro lin-guaggi.Un problema metodologico sul quale Tafuri ritorna continuamente è proprio quellodel differire del linguaggio, ovvero della specificità del linguaggio storico, che è unlinguaggio critico. Il termine “critico” deriva in linea diretta dal termine “crisi”: la criti-ca è ciò che mette in azione una crisi, è una crisi in azione. Esiste una profonda dif-ferenza tra il linguaggio dell’architettura che è fatto di segni e di oggetti, e il linguag-gio della critica architettonica che è fatto di parole. Come conciliare questi due diver-si universi? Questi temi occupano molte pagine tafuriane, da Teorie e storia dell’architettura, aProgetto e utopia e La sfera e il labirinto, dove si cerca di mettere a fuoco il compi-to dello storico che, a suo avviso, non è quello di rispecchiare presunte verità pree-sistenti, ma di cercare di costruire dei percorsi analitici che pur avendo per forza dicose carattere incerto e provvisorio, operano tuttavia delle “sezioni” nel corpo delpassato, con il preciso fine di farne “esplodere” le contraddizioni, di metterne in cri-si la presunta stabilità e continuità. Correndo però il costante pericolo di fare di talianalisi dei “monumenti impenetrabili”, anziché di rompere le “parole eternizzate edure come sassi” (per usare l’espressione di Nietzsche ripresa da Tafuri) che lo stes-so linguaggio storico-critico impiega. È questo il demone dello storico, il quale deve continuamente confrontarsi con tale

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rispecchiamento tra realtà degli eventi e loro storicizzazione non è possibile comun-que. La difficoltà, o addirittura l’impossibilità di questo passaggio, è di natura con-cettuale, non pratico, e dunque prescinde del tutto dalla completezza della docu-mentazione in possesso dello storico. Si tratta di un limite trascendentale, di un limi-te a-priori della storia.“La storia è progetto”, afferma Tafuri nelle pagine dell’introduzione a uno dei suoi libripiù importanti, La sfera e il labirinto, intitolata appunto “Il progetto storico”: la storiaè un progetto, e il progetto storico ha una sua specificità accanto al progetto archi-tettonico o a qualunque altra attività progettuale. Facendo attenzione naturalmentea non fare confusioni: il progetto storico di Tafuri non ha nulla a che fare con la “sto-ria operativa”, così come la intendeva Zevi; il progetto storico di Tafuri è il tentativodi conferire un’autonomia alla storia, al pari di quella che possiede l’architettura, nondi attuare indebite invasioni di campo nella disciplina progettuale, “facendo architet-tura” attraverso le analisi storiche.Ma non soltanto la storia è un progetto: ancor di più, per Tafuri essa è un progettodi crisi. Porre la storia sotto la tonalità della crisi rischia di generare un equivoco:quella di Tafuri potrebbe infatti essere scambiata per una visione “negativa” della sto-ria, o per una sorta di “fatalismo storico”. E invece non è il modo comune di inten-dere la crisi quello a cui egli si riferisce. La crisi tafuriana è piuttosto una necessitàdella storia, un ulteriore a-priori di quest’ultima, o meglio ancora, una necessità di unordine più vasto del pensiero di cui a tutti gli effetti fa parte anche la storia. Crisi dal punto di vista etimologico viene dal greco krínein, che vuol dire “separare”,“distinguere”, “discernere”. La crisi dunque parla dello spezzarsi di qualcosa: anchenell’accezione più comune, la crisi fa riferimento a qualcosa che non funziona piùcome prima, qualcosa che si è “rotto”. Quando comunemente diciamo che “siamoin crisi” o che “c’è una crisi in corso”, significa che vi è stata una rottura. Il momen-to di rottura è sempre un momento di svolta: in quel momento qualcosa finisce maproprio perciò qualcosa d’altro incomincia ad essere. Quello della crisi è sempre unmomento decisivo.La storia, secondo Tafuri, è fatta di questi momenti decisivi: momenti in cui le coseprecipitano, per ricostruirsi secondo un ordine differente. Differenza e crisi: la diffe-renza è una sospensione della continuità, ovvero esattamente il contrario dell’accet-tazione della crisi come condizione “normale”. Nettamente distinta da quest’ultimamaniera d’intendere la crisi è quella concepita da Tafuri. L’accettazione della “nor-malità” della crisi corrisponde a una posizione pessimista; nel pensiero della crisi diTafuri, al contrario, non vi è alcun banale pessimismo. Al modo d’intendere la crisicome qualcosa in cui si è immersi, rispetto alla quale non vi è mai “soluzione dellacontinuità” e che quindi finisce col divenire normale, Tafuri contrappone un concet-to di crisi come rottura della normalità. È l’evento, l’avvenire di qualcosa; e l’evento,in quanto tale, nella sua accezione etimologica, è qualche cosa che e-viene, è unavvenimento che tiene dentro di sé un futuro che diviene presente. Che cos’è l’avvenimento nell’ambito storico? Nella storia dell’architettura, ad esem-pio, gli “avvenimenti” sono gli edifici; potremmo intendere così anche la crisi, per cer-care di dare consistenza a questo concetto che altrimenti potrebbe risultare oscuroe sfuggente. Il precipitare della crisi non ha per forza quel carattere negativo a cui si

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