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Rivista di Studi Utopici n.1 aprile 2006 117 Temi utopici dell’antichità nelle vie della scoperta d’America di Adriana Beatriz Martino 1. Introduzione L’America aveva una storia anteriore all’anno 1492. Una storia di migliaia d’anni, lungo la quale poi non era ancora l’«America». I popoli che l’abitavano da tempi lontani avevano sviluppato una grande molteplicità e varietà di manifestazioni culturali, economiche, politiche, sociali, che però si trovavano fuori dal «tempo storico dell’Occidente». Il Continente cominciò ad essere «America» a partire da quel momento in cui l’uomo europeo vi collocò le sue inquietudini, le sue ambizioni, i suoi capitali, le sue volontà e i suoi immaginari; nelle terre «americane». Di fronte a questi uomini, «votati al fascino e al pericolo d’America», che vissero tutte le fantasie e realtà possibili – e anche impossibili –; di fronte a questi uomini di «naufragio e immediata sfida», i locali «hanno capito – come pensa Abel Posse – che erano sconfitti prima delle battaglie». Per loro era arrivato il temuto «sole nero», il tempo della chiusura di un ciclo. «Era il tempo sulla terra del toro. I condor si rifugiarono nell’alto. Da cinque secoli immobili guardano la pianura» 1 . Per gli europei, invece, cominciava la proiezione nel reale di certi miti e leggende che dall’antichità popolavano la loro immaginazione e la loro letteratura. Nei loro viaggi il reale e l’immaginario, la geografia e la metafisica si confondevano in un tutto indivisibile. L’«incontro» di terre paradisiache e di luoghi di magica attrazione li affascinava tanto quanto l’oro, le perle e l’avventura in se stessa. Erano anche spinti dal desiderio di trovare un mondo dove valessero altri principi, altre categorie, la possibilità di un accessibile «oltre» con un codice diverso da quello in vigore nella loro terra. Ciò è a dire che, dal momento stesso della presenza dello spagnolo in terra americana, si materializzava «l’incontro» tra due mondi che da lì in poi non sarebbero stati più gli stessi di prima: un concetto che si direbbe dialetticamente inseparabile dall’Invenzione/Creazione perché l’«in-venire» proprio dell’incontro è l’immagine con la quale ciò che è trovato ci appare. L’«Invenzione/Creazione» ci riporta necessariamente al concetto di «utopia» perché è con essa congiunta. È allora – afferma Beatriz Fernandez Herrero – «che la “ri-scoperta” deve intendersi come “u-topia”» 2 . Perché in America si fa realizzabile, in modo effettivo e in un solo momento, un nuovo tempo e un nuovo spazio: il tempo che si apriva verso il Rinascimento e verso una nuova concezione del mondo e dell’uomo; lo spazio che incorporava una «quarta parte» dell’Orbe al mondo «trino» fino a quel tempo conosciuto. Ecco dunque aprirsi una duplice ipotesi di lavoro: 1. Cristoforo Colombo cercò l’«utopia dello spazio» quando andò verso terre sconosciute, contribuendo alla conoscenza geografica del pianeta; e contribuendo insieme allo sviluppo di utopie e racconti fantastici che dall’antichità (soprattutto ellenistica) si annidavano nell’immaginario europeo;

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Rivista di Studi Utopici n.1 aprile 2006

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Temi utopici dell’antichità nelle vie della scoperta d’America di Adriana Beatriz Martino

1. Introduzione

L’America aveva una storia anteriore all’anno 1492. Una storia di migliaia d’anni, lungo la quale poi non era ancora l’«America». I popoli che l’abitavano da tempi lontani avevano sviluppato una grande molteplicità e varietà di manifestazioni culturali, economiche, politiche, sociali, che però si trovavano fuori dal «tempo storico dell’Occidente». Il Continente cominciò ad essere «America» a partire da quel momento in cui l’uomo europeo vi collocò le sue inquietudini, le sue ambizioni, i suoi capitali, le sue volontà e i suoi immaginari; nelle terre «americane». Di fronte a questi uomini, «votati al fascino e al pericolo d’America», che vissero tutte le fantasie e realtà possibili – e anche impossibili –; di fronte a questi uomini di «naufragio e immediata sfida», i locali «hanno capito – come pensa Abel Posse – che erano sconfitti prima delle battaglie». Per loro era arrivato il temuto «sole nero», il tempo della chiusura di un ciclo. «Era il tempo sulla terra del toro. I condor si rifugiarono nell’alto. Da cinque secoli immobili guardano la pianura»1. Per gli europei, invece, cominciava la proiezione nel reale di certi miti e leggende che dall’antichità popolavano la loro immaginazione e la loro letteratura. Nei loro viaggi il reale e l’immaginario, la geografia e la metafisica si confondevano in un tutto indivisibile. L’«incontro» di terre paradisiache e di luoghi di magica attrazione li affascinava tanto quanto l’oro, le perle e l’avventura in se stessa. Erano anche spinti dal desiderio di trovare un mondo dove valessero altri principi, altre categorie, la possibilità di un accessibile «oltre» con un codice diverso da quello in vigore nella loro terra. Ciò è a dire che, dal momento stesso della presenza dello spagnolo in terra americana, si materializzava «l’incontro» tra due mondi che da lì in poi non sarebbero stati più gli stessi di prima: un concetto che si direbbe dialetticamente inseparabile dall’Invenzione/Creazione perché l’«in-venire» proprio dell’incontro è l’immagine con la quale ciò che è trovato ci appare. L’«Invenzione/Creazione» ci riporta necessariamente al concetto di «utopia» perché è con essa congiunta. È allora – afferma Beatriz Fernandez Herrero – «che la “ri-scoperta” deve intendersi come “u-topia”»2. Perché in America si fa realizzabile, in modo effettivo e in un solo momento, un nuovo tempo e un nuovo spazio: il tempo che si apriva verso il Rinascimento e verso una nuova concezione del mondo e dell’uomo; lo spazio che incorporava una «quarta parte» dell’Orbe al mondo «trino» fino a quel tempo conosciuto. Ecco dunque aprirsi una duplice ipotesi di lavoro: 1. Cristoforo Colombo cercò l’«utopia dello spazio» quando andò verso terre sconosciute, contribuendo alla conoscenza geografica del pianeta; e contribuendo insieme allo sviluppo di utopie e racconti fantastici che dall’antichità (soprattutto ellenistica) si annidavano nell’immaginario europeo;

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2. l’America si affermò come l’«invenzione» più spettacolare del Cinquecento europeo-occidentale, e poi come il suo «dubbioso ritratto»3. 2. Le «notizie» degli antichi

L’antichità grecoromana fu particolarmente prolifica nell’accogliere e immaginare l’esistenza di terre non appartenenti al mondo conosciuto; passi in proposito si ritrovano in lavori di grande importanza, come ad esempio quello di Alexander von Humboldt su Cristoforo Colombo e la scoperta d’America (tr. sp., Madrid, 1925-1926), di Jacques de Mahieu su La geografia segreta d’America. Prima di Colombo (tr. sp., Buenos Aires,1978); nei più recenti lavori di Juan Gil, Mitos y utopías del Descubrimiento. I. Colón y su tiempo (Madrid 1989) e di Beatriz Fernandez Herrero, La utopía de la aventura americana (Madrid 1994). Senza dimenticare la menzione di isole paradisiache che la letteratura attica, e soprattutto quella alessandrina, ci hanno lasciato in pittoresche finzioni (il Paese dei Meropi di Teopompo, il Paese degli Iperborei di Ecateo di Abdera, l’ultima Thule di Diogene, l’Isola sacra di Evemero, l’Isola fortunata di Giambulo), ci fermeremo su alcuni pochi frammenti significativi di autori grecoromani. Così i passi famosi di Platone sull’Atlantide, nel Timeo, nel Crizia: «Allora si poteva attraversare quel mare, effettivamente: di fronte allo stretto che voi nel vostro linguaggio chiamate colonne d’Ercole, c’era un’isola. Quell’isola era maggiore della Libia e dell’Asia insieme. I naviganti passavano da quell’isola ad altre e da queste al continente che ha le sue rive in quel mare, veramente degno del suo nome. Perché tutto questo mare, che sta al di qua dello stretto che ho detto, sembra un porto d’angusto ingresso, ma l’altro potresti rettamente chiamarlo un vero mare, e la terra che per intero l’abbraccia, un vero continente. [...] E però, in tempi successivi, sono occorsi intensi terremoti e inondazioni, e in un sol giorno, in una notte fatale, tutti i guerrieri che c’erano nel vostro paese furono inghiottiti dalla terra che si aprì, e l’isola di Atlantide scomparve tra le onde; questo è il motivo per il quale ancor oggi non si può percorrere né esplorare questo mare, perché la navigazione trova un ostacolo nella quantità di limo che l’isola depositò al suo sommergersi» (Timeo, 24e-25d). «Abbiamo detto che quell’isola era maggiore della Libia e dell’Asia, mentre ora, sommersa dai terremoti, non è più che una fanghiglia impenetrabile, la quale costituisce un ostacolo ai naviganti e non permette di attraversare quella parte dei mari» (Crizia, 109a). Il mito di un’isola ad ovest dell’Europa, grande come un continente, era già conosciuto almeno dai tempi di Solone, come si legge in un suo poema scritto tra il 570 e il 560 a.C. Per parte sua Aristotele si riferisce all’esistenza di elefanti sulle coste opposte all’Africa Occidentale, coste perciò dell’India, basandosi sull’unione di queste terre: «È evidente che la Terra non solo è rotonda, ma è anche una sfera piccola, perché altrimenti non si percepirebbero così presto gli effetti della sua traslazione. Ecco perché quelli che opinano che il luogo prossimo alle Colonne d’Ercole sia unito immediatamente alla regione indiana, e in questo modo affermano che c’è un solo mare, non sembrano opinare

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cose inverosimili. Dicono questo portando a testimonianza il caso degli elefanti: poiché nelle due regioni estreme c’è questa specie di animali, pensano che ciò avvenga in quanto i due estremi si toccano» (De coelo, II, 14, 298 a 6-15)

Lo stesso Aristotele riprende in altri scritti l’esistenza di terre situate oltre il nostro mare: «Il linguaggio degli uomini ha diviso la terra abitabile in isole e continenti, ignorando senza dubbio che essa è tutta un’isola circondata dalle acque dell’Atlantico. Ancor più è probabile che ci siano terre molto lontane separate dal mare, di esse alcune maggiori di questa, altre minori, ma delle quali nessuna è possibile vedere; perché queste isole che conosciamo si riferiscono a questi mari, così come questa terra abitata si riferisce al Mare Atlantico, ed altre molte abitabili a tutto il mare. Perché anche queste sono isole circondate da grandi mari» (De mundo, III). «Si dice che nel mare al di là delle Colonne d’Ercole fosse stata scoperta dai cartaginesi un’isola deserta, avente una foresta con ogni genere d’alberi e fiumi navigabili, e mirabile per i diversi frutti, distante alcuni giorni di navigazione. Poiché i cartaginesi la visitavano spesso per la sua prosperità, e alcuni anche l’abitavano, i capi dei cartaginesi proibirono sotto pena di morte che chiunque navigasse a quest’isola, e ne massacrarono tutti gli abitanti, affinché nulla si sapesse; o anche nel timore che un popolo si formasse da essi nell’isola e ne prendesse possesso, strappandola alla loro utilità» (De mirabilibus auscultationibus, 84, 836 b 28-837 a 7).

Noti sono i ragguagli di Strabone, nei quali afferma che nella zona temperata ci possono essere spazi abitati, alludendo così in certo modo all’America e alle isole dei mari del Sud: «Così, se non si opponesse l’immensità del mare Atlantico, potremmo navigare lungo lo stesso parallelo dalla Spagna fino all’India per tutto lo spazio che resta, superando questa distanza, la quale eccede la terza parte di tutto il circolo, quel circolo tirato da Thinas, di cui noi abbiamo misurato gli stadi che ci sono dall’India alla Spagna, e che è minore di 200.000 stadi; [...] e chiamiamo terra abitata quella nella quale abitiamo e che conosciamo. Ma può darsi che nella stessa zona temperata ci siano due terre abitate e ancor di più, lungo il circolo tracciato da Thinas e il Mare Atlantico» (Geografia, I, IV, 6). «Anche Posidonio sospetta che la lunghezza della terra abitata misuri 70.000 stadi, che sarebbero la metà del circolo intero. Così, dice, navigando dall’Occidente, con vento di Levante, troverai altro spazio verso le Indie» (Ivi, II, III, 6). Seneca, infine, plasmerà in Medea la presunzione dell’uomo che arriverà all’America, scrivendo un paragrafo memorabile che serà menzionato numerose volte da Colombo, Angleria, Oviedo e Herrera: «In quest’Orbe accessibile/ niente rimane dov’è stato;/ l’indiano beve dell’acqua del gelido Arasse,/ i persiani quella dell’Elba e del Reno./ Verranno secoli nei quali l’Oceano aprirà le sue barriere/ e appariranno nuove terre;/ Teti scoprirà nuovi mondi,/ e non sarà Thule l’ultima terra» (atto III, 370-379). 3. L’«immaginario classico» di Cristoforo Colombo

Senza entrar nel merito dei viaggi anteriori a quello di Colombo, viaggi che indubbiamente ci furono4, analizzeremo il cumulo di miti, leggende e fantasie utopiche

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generatosi nell’antichità, che costellarono poi la saga colombiana in una misura maggiore di quanto ci saremmo aspettati. I geografi classici avevano situato ai confini della terra, che in quel momento erano India ed Etiopia, tutti i prodigi del mondo. Nella prima abitavano i monopodi o schiàpodi (avevano una sola gamba ma potevano saltare; quando faceva molto caldo si proteggevano dal sole all’ombra del loro immenso piede). Ugualmente, l’India ospitava «popoli senza collo» (con gli occhi sulle spalle), «popoli senza bocca» ( si alimentavano dal naso), i «pandas» (i loro capelli erano bianchi da bambini e neri nella vecchiaia), gli «snasati»», i «grugnosi» (il labbro superiore era così sporgente che gli serviva da parasole), gli «slinguati» ecc.5. Cristoforo Colombo, nel suo Diario, fa menzione di questi e di altri portenti, che analizzeremo per spiegare il suo immaginario e comprendere il suo pensiero «situato». Il Paradiso perduto – Questo mito, cui in certa misura ogni utopia si collega, e che riflette la tensione di sempre dell’uomo, proteso verso la giustizia e la felicità, si evidenziò nel suo pensiero in seguito. Nel 1498, arrivato alla penisola di Paria, nel suo terzo viaggio, non dubitò di aver raggiunto questo Paradiso e scrisse alla regina Isabella: «La navigazione già non trascorre sul piano meramente orizzontale. [...] Stiamo salendo lungo il sentiero del mare. [...] Ho trovato una temperatura soavissima e sulla costa si scorgono alberi verdi e formosi come negli Orti di Valenza. La gente che si vede ha bella statura e sono più bianchi di quelli visti prima [...]. Saliamo perché la Terra non è rotonda [egli pensa che sia piuttosto a forma di pera]. Siamo nell’estremo del mondo, sotto la linea equinoziale; il luogo del pianeta più vicino al cielo» 6. Più avanti descrive i quattro fiumi del Paradiso, che afferma di aver trovato – Gange, Tigri, Eufrate, Nilo – perché «gl’indizi corrispondono molto, e io non ho mai letto né udito che tanta quantità di acqua dolce si trovasse dentro e accanto a quella salata; e in essa contribuisse alla soavissima temperatura»7.

La sua convinzione di essere stato eletto per ritornare nel Paradiso terrestre, proibito dai giorni della «caduta» di Adamo, gli fece dichiarare con assoluta sicurezza di esser di fronte ai «grandi indizi» che gli attestavano trattarsi del Paradiso, perché «il sito è conforme all’opinione dei santi e dei saggi teologi»8. Cinocefali e antropofagi – Il 4 novembre 1492 Colombo scrive nel suo Diario che molto vicino a dove si trovava «c’erano uomini con un solo occhio ed altri con musi di cane che mangiavano gli uomini» (p. 89). Poco dopo, il 23 novembre, riappare l’immagine del Ciclope omerico, mescolata con quella dei «cannibali» antropofagi, «e dei quali gl’indios che andavano con lui mostravano aver paura» (p. 103). Di questa paura degli indios per i mangiauomini si parla anche nel racconto del 26 novembre (pp. 106-107) e del 5 dicembre (p. 117); anche se è possibile notare che Colombo non capiva molto quello che gli volevano dire i nativi; perciò «l’Ammiraglio credeva che essi mentissero, e pensava che quelli che li catturavano dovessero essere della signoria del Gran Can» (p. 107).

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Questi mostri erano molto conosciuti nella mitologia. La loro esistenza era già stata affermata da Claudio Eliano che, basandosi sui racconti indiani di Ctesia, ne dava la seguente descrizione: «Nella stessa zona dell’India dove si allevano gli scarafaggi [purpurei] s’incontrano degli esseri chiamati “cinocefali”, il cui nome deriva dall’aspetto e forma della loro testa; giacché nel resto delle loro membra hanno figura umana. Si coprono con pelli di animali e sono giusti e non offendono nessun uomo. Non parlano, solo emettono suoni gutturali, benché capiscano la lingua indiana. Si alimentano di fiere selvagge, che cacciano con grande facilità perché sono velocissimi, e quando le raggiungono le uccidono. Non cuociono la carne sul fuoco ma al calore del sole, avendola fatta a pezzi. Allevano capre e pecore. Loro cibo è la carne degli animali, loro bevanda il latte del bestiame che allevavano. Ho fatto menzione di essi tra gli esseri che mancano di ragione e non senza motivo, perché non hanno una voce articolata, chiara e umana»9. Lo Pseudo-Callistene 10 (II, 32 e 36) racconta che Alessandro li incontrò e li confinò dentro le porte del Caspio per il loro aspetto e le loro azioni terribili: «Ho trovato lì, verso Aquilone – dice Alessandro – molti popoli che divoraravano carne umana e bevevano come acqua il sangue di animali e fiere; e non seppellivano i loro morti, ma li mangiavano. Io, al contemplare questi popoli perversi, timoroso che sostentandosi così macchiassero la terra con la loro perversa empietà, ho elevato una preghiera a Dio e li ho vinti e ho ucciso con la spada molti di essi, e ho sottoposto a cattività la loro terra» (III, 29). La mala fama dei cinocefali arrivò al medioevo e così a Colombo, che non poteva certo aspettarsi del bene da «uomini tanto malvagi»; i quali giustamente figuravano tra i ventidue popoli che il Macedone dovette confinare a causa delle loro perverse abitudini. Le Amazzoni – Anch’esse compaiono nel Diario dell’Ammiraglio. Dapprima gli giunge notizia che ad Est dell’isola Española c’era un’isola abitata da sole donne (p. 165), alla quale poco dopo dà il nome di Matininó (p. 175). La sua intenzione era di portare ai monarchi spagnoli «cinque o sei di esse. Ma dubitava che gli indios conoscessero bene la rotta, e lui non poteva indugiare oltre» (p. 177). Ciò nonostante il racconto è chiaro: «Era certa la loro esistenza e che, a un dato tempo dell’anno, andavano da esse gli uomini della suddetta isola di Carib [...], e se partorivano un bambino lo inviavano all’isola degli uomini, se una bambina, la tenevano con sé» (p. 177). Questo mito ha probabilmente le sue origini nella figurazione mitologica di lotte costanti tra Europa ed Asia per l’egemonia mondiale; dove per l’Asia combattono anche donne guerriere, che gli ellenici chiamarono «femmine con un sol seno». Erodoto le colloca alle foci del fiume Termodonte, nella Meotide o mare di Azov. Per parte sua, Diodoro Siculo le assegna all’africana Tritonide11. Il pensiero ellenistico le fece comparire nelle campagne di Alessandro Magno, ma intessendo un romanzo tra il conquistatore e la regina Telestride, che avrebbe dovuto condurre al miglioramento della stirpe; l’amazzone gli si avvicina infatti per concepire un figlio con l’eroe12. Con il trascorrer del tempo, il mito si spostò verso oriente, passando i confini dell’India. Questa nuova patria ha portato a raccordare le amazzoni con la tradizione bramanica e il suo ascetismo. Sempre il romanzesco Pseudo-Callistene c’informa sul

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tema: «Gli uomini vivono dal lato dell’Oceano sull’altra riva del fiume Gange [...], mentre le donne abitano dall’altro lato dell’India, su questa riva del fiume. Gli uomini passano con le donne i mesi di luglio e agosto, perché sono questi da loro i mesi più freddi, quando il sole si volge verso di noi e verso Aquilone, e si dice che sono anche i mesi di maggior mitezza del clima ed eccitano così il desiderio. Dopo aver dimorato con le loro spose quaranta giorni, riattraversano il fiume. Quando la donna ha partorito due figli, l’uomo non attraversa più il fiume né si congiunge più con lei» 13.

Sono le stesse donne guerriere che informano Alessandro: «Viviamo dentro il fiume Amazzonico, ma non sull’altra riva, bensì nel suo centro. Il perimetro della nostra terra ha una circonferenza pari a un anno di cammino, e il fiume è un circolo senza inizio. Abbiamo un solo sbocco, dal quale usciamo. Abitiamo qui nel numero di 270.000 giovani armate, senza che vi sia tra noi nessun maschio. Gli uomini risiedono dall’altro lato del fiume, coltivando la terra, e con il nostro bestiame e i pastori. Ogni anno celebriamo la festa dell’Ipofonia, nella quale sacrifichiamo [cavalli] a Zeus, Posidone, Efesto e Ares durante trenta giorni. E quante di noi vogliono attraversare il fiume e congiungersi con loro, sostano nelle loro case, e le bambine che nascono sono curate dagli uomini e passano da noi al compiersi dei sette anni»14.

Tutte queste fantasie s’intessono poi con l’apocrifa Lettera del Prete Gianni, coi racconti di Marco Polo che seguono tradizioni arabe, con quelli di Niccolò dei Conti, con l’Islario di Alonso de Santa Cruz, con altri15. Gli uomini con la coda – Nell’anno 1493 Colombo affermò che nell’Española gli eran rimaste da esplorare due province, «l’una delle quali chiamano Auán, dove nasce la gente con la coda»16. Anche nel secondo viaggio, durante l’esplorazione di Cuba, e quando si trovava nella provincia di Hornofay, sentì dire che nella provincia del Magón «tutta la gente aveva la coda, e che a causa di questo io li avrei trovati tutti vestiti»17.

La tradizione che collocava nel mare dell’India isole abitate da uomini con la coda proveniva dall’antichità: Tolomeo colloca le tre isole dei Satiri a 171 gradi di longitudine e 2 ½ di latitudine. Plinio li situa nelle montagne dell’India e lo Pseudo-Callistene non manca di farli incontrare con Alessandro18. Marco Polo sapeva della loro esistenza e il mappamondo di Behaim li accolse, per cui non c’è da meravigliarsi che «uno scopritore trovasse tali portenti nel corso dei suoi viaggi»19. Le Sirene – Il 9 gennaio 1493 (pp. 167-168) l’Ammiraglio vide «tre sirene, che uscirono ben alte sul mare, ma non erano così belle come le si dipinge, e in nessun modo avevano forma d’uomo nel viso». In realtà, come i marinai dell’epoca – i portoghesi soprattutto – si confonde con le foche.

L’utopia-distopia dell’oro – Ora, tutto il bestiario che Colombo va descrivendo nel suo percorso, che proviene dall’immaginario dell’antichità, e che si trova in un mappamondo come La catalana del 1573 – e non tanto in Marco Polo – 20, null’altro era se non l’insieme di prodigi che accompagnavano la sua ricerca dell’oro. Effettivamente Colombo

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solca le acque del Mar caraibico durante settimane perché vuol «trovare l’isola di Cipango» (p. 65), nella certezza che «Nostro Signore gli mostri dove nasce l’oro» (p. 133). Perciò è sempre proteso alla scoperta dell’isola aurifera, l’Ofir biblica, che va cambiando di nome a seconda delle infomazioni ricevute dagli indiani: Samaet, Cuba, Baveque (pp. 70 e 71; 77 ss; 96 e 103).

Quando la sua nave si perse nell’Española, nella notte del 25 dicembre 1492, l’Ammiraglio pensò che la sua missione si era conclusa in quanto, miracolosamente, «aveva già trovato quello che cercava» (p. 168); cioè aveva scoperto l’Ofir (identificata con Cipango), isola alla quale lui aveva messo appunto il nome di Española. Un’antica leggenda raccolta da Erodoto21, raccontava che a nord dell’India si stendeva un deserto nel quale le formiche, che là erano più grosse di una volpe, facevano le loro gallerie scavando in sabbie aurifere; all’alba gl’indiani arrivavano con un traino di cammelli per caricare i sacchi di sabbia prima che fossero stati fiutati da quei mostruosi insetti, perché correvano grave pericolo se non riuscivano a fuggire a tempo. Una tradizione simile raccontò Aristea di Proconneso riguardo agli Arimaspi, uomini con un solo occhio, che lottavano coi grifi per il possesso dell’oro22. Quando la leggenda nell’età ellenistica fu conosciuta dagli ebrei, essi localizzarono in questo deserto l’aurea Ofir; però, non tanto persuasi dalle prosaiche formiche – per questa ragione, senza dubbio, Ctesia 23 le aveva sostituite coi grifi – inventarono un essere ibrido, la «formica-leone», parola usata dai Settanta in Giobbe 4, 1124. Questa rettifica passò in Girolamo 25, che situa nell’India «i monti d’oro» custoditi da dragoni, grifi e mostri di dimensione favolosa; da Girolamo copiò la notizia Isidoro di Siviglia, e da Isidoro la presero i mappamondi medievali.

Dovutamente corretta, la leggenda diventò una dottrina canonica dei commentari biblici. Vediamo ciò che dice la Glossa ordinaria 26: Ofir è «il nome di una provincia dell’India, nella quale ci sono monti che hanno caverne d’oro, abitate però da leoni e bestie crudelissime. Per questa ragione, nessuno ha il coraggio di avvicinarsi se non ha la nave vicina alla costa come rifugio. Quindi, indagando l’ora nella quale si ritiravano le suddette bestie, i navigatori uscivano subitamente e buttavano nella nave la sabbia scavata dalle unghie dei leoni, e poi si allontanavano. Questa sabbia, poi, si getta in un forno e tutto ciò che ha d’impurità si consuma per la forza del fuoco, e resta oro puro». Si comprende allora perché Colombo, che registrò puntualmente il passo di Niccolò di Lira nel Libro delle profezie (f. 78r), credeva e faceva dire dagli indios che nell’isola da loro chiamata Baveque «la gente raccoglie l’oro di notte a lume di candela, e poi con il martello, si dice, ne fanno delle verghe» (12 nov., p. 93); o che vicino allEspañola «c’era un’isola tutta d’oro, e altre ove l’oro si trova in tanta quantità, che nulla resta da fare se non raccoglierlo e stacciarlo come con un vaglio, e lo fondono e ne fanno verghe» (18 dic., p. 136); isola che ancora nel Diario del secondo viaggio (nuovo testo, lett. II, p. 206), precisa che si trovava «in questa parte dei cannibali [...] e i tre quarti erano oro». La ricerca clandestina dell’oro sulla costa è una curiosa ripresa della glossa biblica; più conosciuta risulta invece la fusione dell’oro in lingotti. Evidentemente, l’Ammiraglio e i suoi uomini avevano una versione della leggenda che era diventata con il tempo di comune dominio dei marinai. All’isola delle Sette Città,

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secondo quanto si raccontava nel ‘500, era arrivata una nave spinta dalla tempesta; e si diceva che, mentre gli altri marinai della nave, ch’erano stati accolti a tavola dai cattolici che vivevano nell’isola, pregavano contenti nella chiesa, «i mozzi raccolsero certa terra o sabbia per il loro falò, e trovarono che gran parte di essa era oro»27. Questa isola delle Sette Città, che si diceva fosse stata scoperta nel 1497 da marinai di Bristol, è una delle tante varianti di Ofir, che i portoghesi situavano più vicino alla loro costa, nell’Atlantico. Alvise di Ca’ de Mosto sentì parlare di un’isola appena scoperta, che era tutto un giardino e dove «tutto quello che raccoglievano nella suddetta isola era oro»28. Poi la sua localizzazione si spostò nel Pacifico: nel 1520 si diceva che sotto il governo di Pedrarias Dávila si era trovata un’isola così ricca che si sarebbero potute sovraccaricar le navi d’oro 29. Notizie così seducenti passarono presto le frontiere e arrivarono fino agli ultimi angoli dell’Europa. Verso il 1518 Erasmo scriveva a Pedro Barbier, cappellano di Jean Le Sauvage, che aspirava ad un episcopato nelle Indie, un’affettuosa lettera ironizzando sul paese dei sogni del suo amico, dove si diceva che in alcune regioni il suolo era di oro puro e che si poteva ammassarne nella quantità che ognuno volesse, senza aver paura delle formiche mostruose né dei grifi che custodivano il così prezioso tesoro30. Poco dopo, Pietro Martire31 scriveva che le navi di Magellano avevano trovato vicino all’Equatore isole la cui sabbia era oro, Ofir e Tarsi alla cui ricerca partiva Caboto. Ofir in definitiva è un’entelecheia, cifra di tutte le ansie e aspirazioni umane; però di codesta entelecheia sapevano molto gli uomini del Medioevo. Tutti avevano sentito parlare di Ofir e tutti sapevano quello che ci si poteva aspettare da essa: oro e pericoli a iosa. «La nuova terra e il nuovo cielo» – La lettura dei classici diede a Colombo anche il fondamento per convincersi che aveva navigato quasi la metà dell’emisfero ignoto a Tolomeo, cioè 150 gradi terrestri. A questa convinzione corrispose un fatto immaginario giacché, benché affermasse che era arrivato alle antipodi menzionate da Plinio32, in realtà non era in grado di affermare se questo «altro mondo» designava l’altro emisfero terracqueo. Di qui il suo ricercare nell’Antico Testamento i luoghi che potessero dar luce alla sua impresa; dove è il profeta Isaia chi gli offre l’opportunità: «Per l’esecuzione dell’impresa delle Indie non mi giovò ragione né matematica né mappamondi: si è compiuto invece pienamente ciò che disse Isaia» 33.

Orbene, a quale luogo profetico si riferisce Colombo? Molto si è discusso al riguardo, ma è ancora molto ampio il ventaglio delle possibilità ermeneutiche che si presenta, malgrado che l’Ammiraglio sia stato preciso nel segnalare che aveva realizzato «un servizio del quale mai si sentì né si vide», perché Iddio l’aveva fatto messaggero «del nuovo cielo e della nuova terra di cui aveva parlato Nostro Signore per bocca di Giovanni nell’Apocalisse, dopo quanto detto per bocca di Isaia»34.

Riflettiamo sulle due citazioni menzionate. Dice Isaia, nel passo di 65, 17 ss.: «Ecco che io creerò dei cieli nuovi e una nuova terra, e non ci si ricorderà più del passato, che non risalirà più al cuore. [...] Perché farò di Gerusalemme “gioia” e del suo popolo “allegrezza”. [...] Come l’età degli alberi saranno i giorni del mio popolo [...]. Non

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peneranno più invano, non avranno più figli destinati a rovina [...]. Lupo e agnello pascoleranno insieme, il leone mangerà paglia come il bue e il serpente si nutrirà di polvere».

A sua volta Giovanni si esprime nel modo seguente (21, 1 ss.): «E ho visto un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra sono scomparsi, e il mare non esiste più. E ho visto la città santa, la nuova Gerusalemme, che discendeva dal cielo, da presso Dio, bella come una giovane sposa preparata per il suo sposo».

Le due citazioni si riferiscono all’avvento dell’era messianica, tradotto da Isaia nella gioia terrena, e da Giovanni nell’apparizione della Gerusalemme celeste dove si adempirà la gioia promessa. Colombo aveva interpretato i due versetti in senso letterale: questo «nuovo cielo» fu visto da lui con i suoi propri occhi; e quella «nuova terra» fu palpata con le sue mani. La sua scoperta segnerebbe l’inizio dell’era messianica – nota Juan Gil –, e con questo tutti i suoi pensieri convergevano in ultima istanza su Gerusalemme. Ad essa arriverebbero «nell’apoteosi finale le navi dalle isole del mare a maggior gloria di Sion»35. La ricostruzione della Casa di Gerusalemme – Sempre è stato presente nell’animo dell’Ammiraglio il desiderio di conquistare Gerusalemme. In diverse occasioni esprime la sua utopia: «E dice che spera in Dio che, al ritorno che intendeva fare dalla Castiglia, avrebbe trovato una botte d’oro con cui avrebbero riscattato quelli che intendeva lasciare lì, e che avrebbero trovato la cava dell’oro e la spezie, e ciò in tanta quantità, che i re prima di tre anni avrebbero intrapreso la conquista della Casa Santa»; «che così ho protestato alle Vostre Altezze, che tutto il guadagno di questa mia impresa si spendesse nella conquista di Gerusalemme, e le Vostre Altezze ne sorrisero e dissero che lo gradivano, e che senz’altro era questo il loro volere» (Doc. II, p. 101).

Con la Lettera I precisa ancor meglio il suo intento e introduce alcune indicazioni confermate dalla lettera inviata nell’anno 1502 ad Alessandro VI: «Concludo qui che [...] da oggi a sette anni io potrò pagare a Vostra Altezza cinquemila cavalli e cinquantamila fanti per la guerra e la conquista di Gerusalemme, poiché con tale proposito si avviò questa impresa; e, tra altri cinque anni, altri cinquemila cavalli e cinquantamila fanti» (Doc. LXI, p. 312). Il 22 febbraio 1496, quando istituisce il maggiorasco, Colombo insiste sulla medesima utopia: «Quando mi mossi per andare alla scoperta delle Indie, fu con l’intenzione di supplicare il re e la regina nostri signori che, dalla rendita che le Loro Altezze avrebbero ricavato dalle Indie, si determinasse quanto si voleva spendere per la conquista di Gerusalemme, e così li ho supplicati» (Doc. XIX, p. 197). Le sue idee, se non soffrono variazioni, vengono a decantarsi con il tempo e con le avversità. Purtroppo il suo Libro delle Profezie è rimasto allo stato di abbozzo, e insieme con i materiali raccolti fu distrutto al tempo di Ambrosio de Morales. La conquista di Gerusalemme si trova sempre in primo luogo nella prospettiva dei tempi estremi. Dice, nel Libro delle Profezie: «L’abate calabrese disse che doveva uscire dalla Spagna chi doveva riedificare la Casa del monte Sion» (Doc. XLV, p. 281). E aggiunge, nella

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relazione del quarto viaggio: «Gerusalemme e il monte Sion dev’esser riedificato per la mano di un cristiano: chi debba essere, Dio per bocca del profeta nel salmo quattordici lo dice. L’abate Gioacchino disse ch’egli doveva uscire dalla Spagna» (Doc. XLVI, p. 327). Ebbene, insieme alla conquista di Gerusalemme – profezia annunziata dallo Pseudo Metodio, letta avidamente da Pietro d’Ailly e annotata da Colombo (Raccolta, I, 2, pp. 108-109) – l’Ammiraglio sembra sognare anche la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, fatto che non fu preconizzato da nessun Padre della Chiesa. Ancor più, questa riedificazione sarebbe in contrasto con tutta la tradizione cristiana, giacché il tempio era stato distrutto come castigo divino36, e così doveva rimanere sino alla fine dei tempi. Negli ultimi giorni il Tempio sarà ricostruito, ma non per mani cristiane – come affermava Colombo – bensì dall’Anticristo. Juan Gil pensa che in questa contraddizione si avverte che Colombo era stato educato nella religione ebraica – essendo egli stesso ebreo –37; e forse così potrebbe spiegarsi il fatto «che nella sua torturata personalità si imbrichino l’uomo d’azione, il mercante (perfino di schiavi) e il visionario; perché, come dice Las Casas, «tutta la sua vita fu un faticoso martirio»38. È anche vero che una certa contraddizione affiora in questa analisi: Colombo mai indicò un suo approssimarsi alla Terra Santa; al contrario, le Indie richiamarono la sua esclusiva attenzione. Tuttavia, a suo giudizio, la terra alla quale era arrivato non era altro che la mitica Tarsi 39, da dove una volta ogni tre anni venivano navi per portare al re Salomone oro, argento, avorio, scimmie e pavoni (I Re, 10, 22; II Cron., 9, 21). Perciò nel Libro delle Profezie riunisce tutte le testimonianze bibliche riferite a Tarsi e a Ofir, situati in quell’«India» che ora si apriva alla storia occidentale. In un nuovo testo – l’ottava lettera ai sovrani (J. Gil, Op. cit., p. 213) – del 3 febbraio 1500, scriveva nuovamente: «Io aspetto la vittoria di quel vero Iddio, il quale è trino e uno, e pieno di carità e di sapienza; così come miracolosamente mi ha dato ogni altra cosa contro l’opinione di tutto il mondo, gli piacerà ora che, come il tempio di Gerusalemme fu edificato con legno e oro di Ofir, così con quello stesso si restauri la Chiesa Santa, e lo si riedifichi più maestoso di quello che era prima».

In apparenza si esprimerebbe qui la fiducia nella riedificazione del Tempio grazie all’oro di Ofir, in una miscela strana di credenze antagonistiche che formano il suo singolare sincretismo religioso. Vediamo ora il vaticinio di Isaia, il profeta che Colombo seguiva con gusto sulla Gerusalemme futura, ma non nella versione della Volgata (60, 1 ss. – Raccolta I, 2, pp. 116-117), bensì nel testo ebraico: «Alzati, risplendi, perché è giunta la luce, e la gloria di Jahvéh s’innalza su di te. [...] Alza intorno i tuoi occhi e guarda: tutti si riuniscono e vengono a te [cioè a Gerusalemme...]. Chi sono coloro che volano come una nuvola e come colombe alle loro colombaie? Sì, per me le navi si raccolgono, con le navi di Tarsi [cioè delle Indie] alla testa, per riportare i tuoi figli da lontano col loro argento e il loro oro, per il nome di Jahvéh il tuo Dio, per il Santo di Israele che ti glorifica. Figli stranieri [cioè i Re Cattolici] ricostruiranno allora le tue mura [quelle di Gerusalemme] e i loro re ti serviranno. Perché nella mia collera io ti ho colpita, ma nella mia benevolenza ho avuto pietà di te».

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Di nuovo Gerusalemme e le Indie. Infatti le profezie di Isaia si compiono per Colombo, ma non in senso cristiano, bensì ebraico, perché Iddio «va inteso alla lettera», come scrive dalla Giamaica (Doc. LXVI, p. 323): il Messia sta per arrivare, e i bastimenti delle Indie, carichi d’oro e argento, devono trasportare prima gli ebrei dispersi verso Gerusalemme, la cui ricostruzione per opera di Isabella e Ferdinando è immediata. E allora, in quel futuro gioioso, non sarà lui, Colombo, lo straniero, ma i monarchi al cui servizio si trova40. Al riguardo, J. Gil va ancor più avanti in queste considerazioni. A suo parere lo stesso Colombo aveva proclamato che gl’indios americani non erano se non i resti delle dieci tribù perdute di Israele: credenza ebraica che, intrecciandosi con quella corrispondente cristiana, ottenne maggior appoggio e autorità41. Alessandro Magno e la porta di ferro – Secondo un’antica tradizione, di probabile origine siriaca, raccolta dallo Pseudo-Callistene 42 e dallo Pseudo-Metodio43, Alessandro Magno, spaventato dalla bellicosità di alcuni popoli che aveva trovato ai confini dell’Asia, avendoli sconfitti e rinchiusi in un circo di montagne, sbarrò l’unico passo, per evitare futuri disordini e violenze, con una porta di ferro dalla quale non potevano uscire, perché il Macedone l’unse con un magico catrame, l’incombustibile «asiceto», resistente anche al filo della spada. Si trattava di 22 popoli, i quali avrebbero distrutto la terra nell’ultima età del mondo, poco prima dell’apparizione dell’Anticristo. Aprivano la sua lista i biblici Gog e Magog, e però ingrossavano il tenebroso esercito i più classici e non meno mostruosi cinocefali, insieme ad altre stirpi dai nomi più consueti, come sarmati e alani. L’apparizione minacciosa dei barbari aveva fatto pensare alla fine del mondo; si arrivò poi a trovare una connessione etimologica tra Gog e goti44; tuttavia nessun testo latino dell’epoca fa menzione della porta di ferro, citata solo alla fine del secolo V e che prima, nell’Impero d’Oriente, era stata evocata in un sermone attribuito a Efrem Siro. La leggenda, appoggiata da una storia e da un vaticinio, i due apocrifi, ha goduto di grande popolarità, al punto che anche Maometto ne parla come del carcere secolare di Gog e Magog, nella sura 18, 83-98 del Corano. La fantasia occidentale immaginò che attraverso quel passaggio si fossero riversati i flagelli che avevano distrutto il suolo europeo, cominciando dagli unni45, seguiti dagli ungari46 e dai tartari; a giudizio tanto dei cristiani, cattolici47 o monofisiti48, quanto degli stessi ebrei49, e infine dei turchi50. Come si può vedere, i popoli della escatologia biblica andarono retrocedendo via via che progredivano le conoscenze geografiche e cambiavano le circostanze politiche. In un primo momento la chiusura di ferro fu situata sul passo di Derbent, alle porte del Caucaso51; poi queste si confusero con le porte del Caspio; finalmente si arrivò fino alla grande muraglia cinese52, che conteneva i tatari i quali in Europa, per il loro lugubre rapporto con il diabolico Tartaro, avevano ricevuto il più appropriato nome di tartari. Con il passar del tempo nella leggenda s’introdusse un’altra variazione fondamentale. Dapprima i popoli racchiusi da Alessandro non avevano nulla a che vedere con gli ebrei; ciononostante in seguito prevalse la tendenza ad assimilare le dieci tribù perdute con quelle orde selvagge trattenute dalla porta del Macedone. La leggenda si diffuse nell’Età Media, passando nel secolo XII a far parte di un manuale di ampia risonanza nella cultura

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europea come la Storia scolastica di Pietro Comestore53; un secolo dopo fu raccolta nel Poema di Alessandro, che concorse ad ampliare l’Alexandreis di Gualtiero di Châtillon54, accrescendo l’antisemitismo popolare. La stessa leggenda si fece palpitante realtà nel secolo XVI, a causa delle nuove scoperte. In Asia, l’esistenza delle dieci tribù intrigò molto Francesco Saverio, quando sentì dire da un cinese «che nella sua terra c’era molta gente tra le montagne, separata dall’altra gente, la quale non mangia carne di porco e osserva molte feste»55. E però era il Nuovo Mondo, come è logico, la terra che risvegliava più illusioni e aspettative. In conseguenza di tutto questo, la nuova geografia sorta dalle scoperte veniva a intrecciarsi con l’escatologia: se gli ebrei perduti si trovavano in qualche parte del globo terrestre, per forza si dovevano cercare in quelle Indie che a poco a poco andavano svelando i loro segreti millenari. Questa è l’idea che, come si è detto, ha dato impulso a Colombo; tanto più che il Nuovo Mondo si annunziava come Asia, secondo la sua dottrina, la cui certezza era confermata da nuove osservazioni che venivano dal circolo degl’intimi dello scopritore, come dallo stesso Ammiraglio in persona. Cuneo56 annotò che gl’indiani avevano «la testa piatta e il viso mongolico»; e un’identica osservazione si legge negli scritti di Vespucci57: i nativi si caratterizzano per la loro «faccia larga, somigliante a quella dei tartari». Non c’era dubbio che si era arrivati all’estremo d’Oriente, dove si trovava la maggior parte degli ebrei separati dai loro fratelli. Con il passar del tempo, fra Diego Durán dedicò il primo capitolo della sua Historia de las Indias de Nueva España58 a dimostrare che gl’indios erano i resti delle dieci tribù perdute, e alla dimostrazione della stessa teoria consacrò un libro curiosissimo il domenicano Gregorio Garcia59: gli ebrei, provenienti dalla Mongolia o dalla Cina, passarono al Nuovo Mondo per lo stretto di Anian, sicché non fa meraviglia che le caratteristiche degli indiani – «così timidi e paurosi sono, così cerimoniosi, acuti, bugiardi e inclini all’idolatria»60 –, corrispondano a fattezze e abitudini ebraiche. Indubbiamente tutti questi stimoli dovettero operare su Cristoforo Colombo. Poi la stessa essenza del mito, aiutata dalle circostanze, illuminò nuovi e più effimeri derivati in suolo indiano; fu così che, su minor scala e con minore prestigio, si parlò dei «perduti di Ordás» o dei «perduti dello Stretto». La fonte della giovinezza – Orbene, mentre la ricerca di Tarsi e Ofir, con tutto quello che implicava, non poteva scomparire dal pensiero ebraico-cristiano nell’età delle grandi scoperte senza che cadessero allo stesso tempo altri fondamentali pilastri della visione religiosa di allora, altre credenze, al contrario, sono più volatili ma non di minore importanza. Così succede con la ferma convinzione che c’era una fonte della giovinezza, convinzione che pur si riaffaccia in questa età dell’esplorazione dei territori indiani. Come al solito, il prodigio si localizza in un’isola, vicina o identica a Tarsi/Ofir, secondo la nota tendenza ad accumulare e concentrare i portenti in un sol luogo. In definitiva, tale attesa veniva imposta dalla logica: nelle vicinanze del Paradiso Terrestre si troverebbe una fonte che poteva riparare, se non la vita, almeno le inquinate energie degli umani. Tutto era possibile negli arcipelaghi del Nuovo Mondo, le «isole del mare» delle quali tanto avevano parlato i profeti, come allora molti credevano, a cominciare proprio dall’Ammiraglio.

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I problemi che presentò la sistemazione dell’isola Española non permisero dapprima di realizzare nuove conquiste; inoltre, quella era l’isola dove si pensava ci fosse l’oro in quantità, mentre la realtà era in genere un’altra: i minatori si facevano ricchi con la ricerca del metallo attraverso il lavoro degli schiavi e poi quell’oro passava in mano ai mercanti, che ammassavano fortune ingenti con la sola vendita dei loro prodotti ai coloni, a prezzi abusivi. Solo negli ultimi anni del suo governo, quando le condizioni economiche e sociali cominciarono a cambiare, fu Ovando che pensò alla conquista delle isole vicine, come San Juan, la più importante per la sua posizione strategica, per la dimensione, la popolazione non caraibica. Che non mancò di esercitare una seduzione su di un bastardo della casa di Arcos, Juan Ponce de León, «scudiero povero[...], e in Spagna educato da Pedro Nuñez de Guzmán, fratello di Ramiro Nuñez, signore del Toral»61. Installato nell’isola, Juan Ponce, oltre a sfruttare le miniere d’oro, consacrò buona parte dei suoi sforzi in incursioni nelle isole vicine. Sappiamo che da Santa Cruz, nel 1509, portò alcuni cannibali, esito del quale il reggente si sentì molto felice62, in chiara opposizione con la totale ripulsa che mostrò Ferdinando il Cattolico un anno dopo, quando Nicuesa fece la stessa cosa nella medesima isola63. Il 27 maggio del 1513 scopriva la Florida, terra alla quale dedicò i suoi maggiori sforzi per completare la sua impresa e per popolarla.

Nei suoi ritorni in Spagna, soprattutto nell’anno 1514, Juan Ponce disse molte cose meravigliose sulla nuova terra scoperta, tra le quali che in essa c’era una fonte che restituiva la gioventù. Era questo un antico mito, la cui eco si poteva sentire nelle credenze di molti e diversi popoli. Erodoto 64 ci informa che gli etiopi vivevano di norma 120 anni, prendendo come alimento carne cotta e latte; e quando alcuni Ittiofagi, inviati dal re persiano Cambise, si meravigliarono della loro longevità, gli etiopi li condussero a una fonte che rendeva il corpo brillante e impregnato di un profumo come di viola; come se la sua acqua, di minor densità di quella normale, fosse un olio essenziale. Grazie al bagno in questa sorgente, raggiungevano quella età così matura65. Allo stesso modo gli iranici credevano nell’esistenza di una fonte di vita, Adnisur, citata nell’Avesta66.

Questo magico elisire fu posto assai presto in relazione con un’isola. Già nell’antichità greca circolavano vaghe notizie sull’esistenza di isole dalle quali si poteva fermare il passo del tempo: ricordiamo la promessa d’immortalità con la quale Calipso tentava di trattenere a Ulisse nell’isola Ogigia, situata «nell’ombellico del mare»67, cioè nel luogo più sacro del mondo, in modo analogo a Delfi e Gerusalemme; e Calipso non sembra essere se non una replica della mesopotamica Siduri, «la coppiera», anch’essa abitante di un’isola e anch’essa datrice di vita eterna, in quanto indica a Gilgamesh la strada che attraverso le acque della morte lo condurrà fino a Utnapishtim. Questo privilegiato rifugio insulare, protezione e redenzione dal comune destino riservato agli umani, sopravvive e perdura lungo i secoli: nei mappamondi del medioevo compare di quando in quando «un’isola di Giove (insula Iouis) o dell’Immortalità, nella quale non muore nessuno»68.

Il sogno di aver raggiunto il paese dell’eterna giovinezza afferrò l’immaginazione di Cristoforo Colombo quando arrivò all’isola di Guanahaní abitata dai Lucayos. Come scrive nel suo Diario, gli indios che andarono a riceverlo erano molto belli: «Non ne vidi

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nessuno che fosse maggiore di trent’anni»; vale a dire che gli isolani non superavano l’età considerata «perfetta» nelle vecchie concezioni ebraiche, molto presto accolte dal cristianesimo69. Per Colombo, tanto gli uomini quanto le donne si trovavano in una meravigliosa primavera, idea che riappare molte volte nel suo Diario: gli alberi erano verdi e con le foglie, come «nei mesi di aprile e di maggio»70, e c’era «molta acqua».

Si scopre, pertanto, un mondo vergine e come neonato, giacché nell’equinozio di primavera era stato creato l’universo, secondo l’opinione di molti Padri della Chiesa e di non pochi rabbini. In queste isole Colombo non avverte nessuno di quegl’indizi che annunziano decadenza fisica e vecchiaia; al contrario, tutto gli si presenta sorridente e bello, un verde perenne, in perpetua gioventù71. E sembra che risalga proprio all’Ammiraglio l’equiparazione che fece poi Las Casas dei Lucayos con i Seres, quei Seres pieni di giustizia e insediati ai confini del mondo, da dove Colombo aspettava forse la venuta del Messia.

La medesima ossessione perseguitò altri navigatori del suo tempo. In una lettera scritta a Lisbona nel 1502 Vespucci annotò che gli indiani che abitavano la nuova terra scoperta vivevano moltissimi anni, fino a 1700 mesi lunari, «che mi pare siano 132 anni, contando 13 mesi lunari all’anno»72. Accade che il fiorentino, muovendosi nel solco delle idee colombiane, pensasse di aver trovato il Paradiso, perché nessun uomo dell’equipaggio si era ammalato nei dieci mesi che passarono in quella regione.

Non sempre le parole di Juan Ponce furono accettate. Pietro Martire segnala che l’isola chiamata Boyuca o Ananeo (Anagneo) si trovava a 325 leghe a nord dell’Española; e prosegue dicendo che, quantunque non pochi uomini autorevoli, studiosi e possidenti, dessero credito in Spagna alla favola della fonte di giovinezza, lui, scrivendo nel dicembre del 1514, non riteneva che tale prerogativa, propria esclusivamente di Dio, fosse stata concessa alla natura; «a meno che non pensiamo che il mito della Colchide sul ringiovanimento di Giasone fosse solo sulle foglie della Sibilla», questa è la verità.

Né Pietro Martire fu l’unico a non credere alla sorprendente novità che Juan Ponce portava dalle Indie. Si può pensare, e non senza fondamento, che anche Diego Álvarez Chanca, il medico del secondo viaggio colombiano, manifestasse il suo parere contrario a queste dicerie in un libro apparso a Siviglia in quel medesimo anno 1514: il Commentum nouum in parabolis diui Arnaldi de Villanova.

Verso il 1526, Vazquez de Ayllón ottenne un ampio potere di convocazione per formare un’armata che si sarebbe recata in alcune terre situate a 35, 36 e 37 gradi a nord dell’Española (Xapida), terre che nella loro maggioranza erano rette da un cacicco di statura gigantesca; oltre ad essere molto ricche, fertili, pronte per popolarsi. Ma non finivano qui i pregi di quella regione: i nativi vivevano a lungo, raggiungendo una vecchiaia robusta, perché guarivano le loro malattie senza particolari difficoltà, usando erbe salutifere. In terraferma, si battezzò con il nome di Giordano il fiume dove si sistemò una popolazione che si trasferì poi fino al porto di San Miguel73.

Quello che si deve notare qui è l’abilità con la quale Ayllón incantò l’uditorio della Corte, accompagnando la sua parola con la presenza di un indiano – Francesco – di grandi doti istrioniche nell’esaltare le meraviglie della sua terra. Anche il mito aiuta Ayllón: il fiume di San Giovanni Battista diventa il rio Jordán, con un passaggio non privo di logica,

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ma con una carica concettuale maggiore. Non è questa la prima volta che un fiume delle Indie riceverà questo nome di risonanza incalcolabile. Vespucci aveva usato questa denominazione in uno dei suoi viaggi, secondo L. Hugues74, per aver scoperto la corrente fluviale che così chiamò il 13 gennaio 1501, giorno del battesimo di Gesù; ma Levillier75, che identifica, con la maggioranza degli storiografi76, questo Giordano con il Rio de La Plata, pensa che Vespucci l’avvistò «tra la seconda e la terza settimana del marzo 1502», né si arrischia a dare una spiegazione dell’idronimo. Orbene, il fiume Giordano simboleggia il battesimo, cioè rappresenta un rinascere; e questa rinascita spirituale facilmente si collega, nella mentalità popolare, con la rinascita del corpo, e pertanto con l’eterna giovinezza.

Già al tempo di Gregorio di Tours77, il bagno nel Giordano comporta non solo un rinnovamento spirituale, ma anche una rigenerazione corporea: nel luogo dove fu battezzato il Cristo si guarivano i lebbrosi dalla loro infermità, e nel giorno dell’Epifania tutti si bagnavano nel fiume «per lavare tanto le ferite del corpo quanto le cicatrici dell’anima». Nella fonte del Giordano si cala precisamente ogni sette anni, ogni settimana cosmica, il mitico personaggio ebraico Giovanni d’Espera in Dio, per conservare sempre la stessa età78, quella che nel Crotalón è considerata l’età perfetta, i 33 anni, l’età nella quale morì il Cristo e ha da resuscitare l’uomo. Per questo motivo nessuno disdegna di accorrere alle rive del Giordano, nelle cui acque ci si può liberare dalla vecchiaia.

Ciò premesso, nella navigazione del 1515 non si era scoperto nessun Giordano. Alla terra, sì, era stato dato il nome di Florida, sia perché era stata scoperta nel tempo di Pasqua, sia per il suo colore verde; un altro fiume fu chiamato della Croce, indubbiamente perché sulle sue rive si piantò una colonna cruciforme. In seguito si affermò – così fece lo stesso Hernando de Escalante Fontaneda79 – che Juan Ponce in Florida era andato alla ricerca del fiume Giordano che rendeva giovani i vecchi; si tratta, come si vede, di una favola molto posteriore alla visita di Ayllón, nella quale tanto si parlò delle portentose qualità del fiume.

In effetti, Escalante, che era stato prigioniero tra gli indios della Florida dai 13 ai 30 anni, perché nel 1551 il galeone su cui suo padre lo inviava da Cartagena era naufragato, scriveva dopo il 157480. L’autorità della leggenda lo spinse a bagnarsi in molti fiumi senza riuscire a imbattersi nel Giordano; che era cosa da burla, o forse un fatto di «brucon» – di «devozione», come diceva Escalante nel suo pittoresco spagnolo – degli indios di Cuba, che furono così tanti a passare in Florida per «adempiere la legge», che il padre del cacicco Carlo poté riunirli in un pueblo. Così si razionalizzò il mito, attribuendo a una superstizione indigena quella che era stata una ferma credenza dei cristiani. Dalla Florida, concludeva l’antico prigioniero, l’unica cosa che si poteva sperare erano le perle, soprattutto tra Abalachi e Oleogle, nel fiume chiamato «Guasaca esguique», cioè «fiume di canne».

Al fiume Giordano arrivarono poi gli spagnoli una prima e una seconda volta; tra essi il pilota Gonzalo Gayón, che fece diversi viaggi di esplorazione tra le coste della Florida; prima con il capitano Juan de Rentería, verso il 1558, un anno dopo con Don Tristán de Arellano e infine con Hernando Manrique de Rojas nel 156481. Molte dicerie correvano sulle qualità miracolose di questo fiume. Raccontava Castro che il padre di un

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Lucayo educato da lui, Andrés el Barbado, era andato, molto abbattuto per la sua età e acciaccoso, alla sorgente della Florida; dopo essersi lavato e aver bevuto di quest’acqua, ritornò alla sua isola con forza e vigore talmente rinnovati che si sposò un’altra volta ed ebbe figli.

Pietro Martire, affascinato da questi racconti, finì con l’appoggiare anch’egli la possibilità del ringiovanimento del corpo, pur sapendo che la sua opinione contrastava con quella dei flosofi e dei medici, i quali affermavano che non si poteva restaurare la perdita dell’umore dell’acqua, e dell’aria nella natura umana; ma, non si rinnova l’aquila? non cambia il serpente la pelle? non ringiovinisce il cervo quando prende il veleno dell’aspide? Se la provvidenza si era mostrata così splendida e liberale con gli animali, non era strano che facesse mostra della stessa generosità con l’uomo, grazie a questa fonte che temperava la secchezza terrestre e restituiva l’umore perduto dell’aria e dell’acqua al corpo già secco e freddo per la vecchiaia. Si percepisce in Pietro Martire un chiaro desiderio di lasciare una porta aperta alla speranza, la sua inclusa; ma anche così, la sua acuta intelligenza lo fece avvertito che questa fonte, se esisteva, non era vicina a tutti gli uomini ma solo ad alcuni di essi, i quali mai sarebbero riusciti a ottenere l’immortalità82. Peraltro, aggiunge, affinché l’acqua miracolosa facesse effetto, l’uomo doveva passare per una serie di sacrifici, che ricordano in forma molto chiara le aspre cerimonie di un rito iniziatico, allo stesso modo che il «palo santo» (un’erba) guariva le ferite solo dopo un digiuno di trenta giorni. Purtroppo Pietro Martire, pauroso forse di essere vittima in Italia di spietate burle, non specificò quali fossero queste prove e questi bagni, e queste «medicine stabilite dagl’incaricati dei bagni», che senza dubbio allietarono le sue lunghe conversazioni; per questo italiano, la fonte della giovinezza diventa una specie di stabilimento balneare dove si va da molto lontano e nel quale si esige un duro regime non solo dietetico, il cui ultimo significato gli si sfugge. Non è meno importante, parimenti, che gli esempi presi dalla zoologia provengano non dall’antichità, bensì dall’Età Media. Infatti, che i cervi recuperino la salute con il veleno dei serpenti è una tradizione che risale a Isidoro83; e già nel Fisiologo s’incontra una relazione molto curiosa sulla maniera in cui l’aquila recupera la vista e la giovinezza84. In ogni caso, il mito della perenne giovinezza, di questa perpetua primavera nella quale si estasiava Colombo, morì molto presto, con la terza generazione dei coloni. Mai più s’intraprese una spedizione per la Florida con l’intento di ritornare giovani alle sorgenti del Giordano; lo tentarono, sì, alcuni uomini isolati (come Escalante, che è stato per lunghi anni prigioniero degli apache). Era logico che così succedesse: l’immortalità era già promessa ai cristiani, ma non in questo mondo bensì nell’altro, dove ai giusti spetta la ricompensa del Paradiso e ai cattivi il castigo eterno. La ricerca di questa fontana della giovinezza era contraria in definitiva all’essenza stessa della religione cristiana, che non ammetteva altra fonte se non quella battesimale; per questo il suo contenuto si faceva tenue, con sottili sfumature. Col passar del tempo non fu dimenticata, e però cadde in discredito fino al ridicolo l’idea di ringiovanire con la semplice immersione in acque miracolose; e così G. Fernández de Oviedo, scrivendo a pochi anni da questi avvenimenti, considerò la «favola» una credenza degli indios più che degli spagnoli; ai quali indios si attribuivano tutti gli spropositi del mondo: e «fu un’enorme burla che gl’indios lo

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dicessero, e più gran pazzia che i cristiani lo credessero»85. E così scomparì questo mito antichissimo, inaugurato dall’epopea di Gilgamesh, la cui ricerca dell’immortalità era piaciuta all’immaginazione dei sumeri. A mo’ di conclusione – Potremmo dire allora che la scoperta dell’America (il Nuovo Mondo) fu per l’uomo europeo una scoperta geografica in cui, lungo il cammino di esplorazione e sistemazione, personificò antichi miti, e dove credette d’incontrare l’utopia, in questa terra appena trovata, sfruttando il suo oro e le sue ricchezze. In realtà, volendo interpretare questo fatto, l’America fu inventata con la pretesa di creare un nuovo spazio vitale per progettarvi gli ideali dell’Occidente e la sua nascente modernità. L’impresa di Cristoforo Colombo fu il culmine di un processo di venti secoli. E se oggi taluni discutono l’originalità del suo operato86, indiscutibile fu la via senza ritorno nel riconoscimento che il mondo fece di se stesso. Da qui in poi, nell’apertura del «mondo moderno», cominciò «l’invenzione» di un’America che costruiva il suo dubbioso «racconto» a partire dai racconti utopici che la disegnavano a immagine e somiglianza dell’Europa 87.

Note

1 A. POSSE, El alucinante viaje del doble descubrimiento, in A. COLOMBRE (ed.), Los 500 años del choque de dos mundos, Buenos Aires 1989, pp. 205-206.

2 La utopia de la aventura americana, Madrid 1994, p. 12 ss.: «Il concetto di utopia può avere due accezioni: ou-topia, in nessun luogo (dal greco ou = nessuno); eu-topia, il paese dove tutto sta bene (dal greco eu = bene), lo Stato Perfetto.

Il termine fu coniato da More, e nel suo pensiero le due nozioni di irrealtà e di perfezione erano unite: effettivamente, mentre scriveva il suo racconto, gli mise, nelle sue conversazioni con Erasmo, il titolo familiare di «Nostra nusquama», «Nostra isola del mai». Tuttavia, una volta conclusa, il suo titolo sarà De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia. Perciò, e con l’affezione ai giochi di parole che dimostrò, More non chiamò la sua isola Outopia ma Utopia, lasciando al termine un senso sufficientemente ambiguo, affinché potessimo capire che la sua intenzione nello scrivere quest’opera era eminentemente eutopica; utopia è la migliore delle Repubbliche.

Consideriamo, ciononostante, la possibilità del doppio significato di questa parola. La prima accezione, quella di «in nessun luogo», situa l’utopia nello spazio denominato «utopico», uno spazio che non esiste, o almeno sconosciuto fino a questo momento. È da qui che proviene la dimensione mitica e storica dell’utopia. Tuttavia, malgrado questa accezione, in tutta la formulazione utopica si può individuare un desiderio che lo stato ideale si faccia effettivo, cioè l’idea che la realtà sociale è un fattore trasformabile e migliorabile. Perciò si può dire che l’utopia ha anche una dimensione storica e temporale. Coniugando le due dimensioni, possiamo dire con L.L. Abellán che «l’utopia appartiene tanto al pensiero razionalista quanto al pensiero mitico».

3 Il termine «invenzione d’America» fu impiegato per prima volta nella Historia de la invención de las Indias, verso il 1528, da Hernán Pérez de Oliva, riferendosi all’inizio della costruzione mentale del nuovo continente. «E questo fu, a nostro giudizio, quello che fece lo

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spagnolo quando arrivò: includerlo nella Storia. Da una parte, America è la coscienza che hanno di essa quelli che fanno parte del Continente – gli indios – e, dall’altra, quella che hanno coloro che la vedono da altre parti del mondo. La prima di queste visioni – quella dell’indio americano – non esisteva, giacché i nativi non avevano coscienza di essere, cioè non avevano coscienza storica. Perciò il Nuovo Mondo non esiste come tale fino a che, all’arrivo dell’europeo, entrano in contatto le due concezioni della vita» (cfr. B. FERNÁNDEZ HERRERO, Op. cit., pp. 43-44).

4 Anche se si ebbe coscienza dell’essere dell’America solo a partire da Americo Vespucci, pare provato che prima di Colombo abbiano toccato le terre americane altri popoli arrivati dal Vecchio Mondo. Secondo Ernesto Morales, «tra questo e il Nuovo ci sono troppe coincidenze per poter negare un contatto preistorico tra le due culture. Il mondo di Colombo era già stato scoperto, sebbene se ne fosse persa la rotta; ma tutto evidenzia che l’ultimo contatto si ebbe nel periodo neolitico europeo» (Leyendas de Indias, Buenos Aires 1928, Introduzione). Ma mentre questi contatti preistorici, quelli coi cinesi ad esempio, si riducono a supposizioni senza che ci siano documenti e neppure una tradizione orale, le saghe scandinave riferiscono la spedizione che Thorwald realizzò alle coste orientali nordamericane nel secolo XI della nostra era. Il suo compendio dice così: «L’anno 1005, Thorwald, figlio di Eric il Rosso, si vide trascinato dai venti dell’Est e dalle correnti marine, che incagliarono la loro nave sulle coste di una terra sconosciuta, situata a sud-ovest di Terranova, che Leif chiamò Hellu-Land, mentre al promontorio al cui riparo accostò la chiglia della sua nave mise nome Kjalarness, perché era di forma somigliante alla prua della sua imbarcazione. Due anni dopo ritornò Thorwald con un’altra spedizione, con l’intento di esplorare il Vinland, il paese che così chiamò perché produceva uve in abbondanza, situato più a sud del suo primo approccio. E trovandosi vicino al luogo che gli indigeni chiamavano Nauset, gli si avvicinarono fiduciosamente tre carabi equipaggiati con nove indigeni, che però essi catturarono e sgozzarono senza motivo alcuno, eccetto uno che riuscì a scappare nuotando. Poco ore dopo, uno stormo di carabi circondò le navi e attaccò gli assassini, portando così a morte diversi di essi, e anche Thorwald; le cui salme i sopravvissuti seppellirono sul vicino promontorio che chiamarono Krossaness, per le croci che piantarono per segnalare le loro tombe» (F. DE BASALDÚA, Prehistoria e historia de la civilización indígena de América, Buenos Aires 1925, pp. 104 e 105; cfr. B. FERNÁNDEZ HERRERO, Op.cit., p. 49).

5 Plinio, Storia naturale, VII, 21 ss. L’immaginazione cristiana durante l’Età Media seguì dando il suo apporto. Mentre l’Irlanda evocava le scorrerie di San Brandano – l’Ulisse cristiano del secolo V –, il Portogallo cercò l’Antillia, l’«isola delle Sette Città», fondata – secondo la leggenda – dall’Arcivescovo di Oporto mentre fuggiva dagli arabi nel secolo XVI, o si dirigeva in Africa cercando le mitiche «terre del Prete Gianni». I cartografi mescolavano nelle loro mappe regioni reali e favolose, e però tutte diedero forza all’indicazione della rotta.

6 Relación del tercer viaje (1498-1500), in Los quatros viajes. Testamento, Madrid 1986, pp. 239-240.

7 Ivi, p. 242. 8 Ibidem. 9 Claudio Eliano, Storia degli animali, IV, 46; Ctesia, Sull’India, 22-23. 10 Vida y hazaña de Alejandro de Macedonia, tr. sp., Madrid 1988 (cfr. nota 42). 11 Erodoto, Storie, IV, 110; Diodoro Siculo, XVII, 77. 12 Quinto Curzio, Storia di Alessandro Magno, VI, 5, 24 ss.; Diodoro Siculo, XVII, 77. 13 Op. cit., III, 9. 14 Ivi, III, 25. 15 J. GIL, Op. cit., p. 137. 16 Carta a Luis de Santangel (15/2/1493), Textos y documentos, Madrid 1982, V, p. 143.

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17 Ivi, IV, p. 133. 18 Plinio, Storia naturale, VII, 24 e 30; Pseudo-Callistene, II, 41 (cfr. nota 42); Tolomeo,

Geografia, VII, 2, 30. 19 Ivi, III, 25. 20 Cfr. J. Gil, Op. cit., p. 43. 21 Erodoto, III, 102-105; Plinio, XI, 111. 22 Erodoto, III, 116; IV, 27; Plinio, XXXIII, 66; Pausania, 124, 6. 23 Ctesia, 12. 24 Cfr. L. Gil, Nombres de insectos en greco antico, Madrid 1959, p. 56 ss. 25 San Girolamo, Lettere, 125, 3. 26 Glossa ordinaria, II Re, 9, 25-28, Ed. Basilea, II, p. 146, marg. sin., . 27 B. DE LAS CASAS, Storia delle Indie, I, 13, Mexico 1965. 28 As viajems de Luis Cadamosto, Ed. Peres, Lisboa 1948, p. 11. 29 Cfr. J. GIL, Op. cit., p. 55. 30 Epistola 794, ed. Allen, III, lin. 23-24. Cfr. M. BATAILLON, Erasmo y España, Mexico-

Buenos Aires 1966, p. 83. 31 Décades, VII, 6. 32 Op. cit., II, 65. 33 Textos y documentos, XLV, cit., p. 280. 34 Ivi, XLI, p. 264. 35 Op. cit., p. 198 ss. L’«altro mondo» era per Colombo il mondo delle antipodi perché si

sapeva che nelle antiterre brillavano le stelle, splendeva cioè, in verità, un altro cielo. Nel 1498 erano già molti anni che i portoghesi avevano attraversato l’equatore e scoperto che, al di là di quella linea, non si vedeva la stella Polare ma invece la Croce del Sud. Era logica quella gioia messianica degli ebrei, pensa J. Gil, che vedevano iniziarsi il compimento del vaticinio d’Isaia, nel momento in cui si scopriva realmente un nuovo cielo e una nuova terra.

36 Egesippo, Storia, V, 2, ed. Ussani, pp. 296-297 . 37 Op. cit., p. 209 (note 40 e 42). 38 Storia delle Indie, I, 146, cit., pag. 391b. 39 J. GIL, Op. cit., p. 212. Cfr. la raccolta di documenti pubblicati dalla Reale Commissione

Colombiana nel Quarto Centenario della Scoperta dell’America, Roma, Minist. Pubbl. Istruz., 1892, I, 2, pp. 164, 24; 387.

40 J. GIL, Op. cit,. p. 214. 41 Ivi, p. 217 ss. 42 Op. cit., III, 29, 211 (cfr. nota 10). 43 Cfr. Sibyllinische Texte und Forschungen, ed. Sackur, Halle a. S., 1898, p. 72 ss. (sulla

leggenda p. 33 ss.); cfr. L. VÁZQUEZ DE PARGA, Algunas notas sobre el Pseudo-Metodio y España, «Habis», 2, 1971, p. 147 ss.

44 Cfr. Sant’Ambrogio, Sulla fede, II, 16, 138; San Girolamo, Questioni sulla genesi, X, 2; Commento a Ezechiele 34, prologo.

45 Paolo Orosio, VII, 33, 10; Jordanes, Getica, 123 ss; Isidoro, Etimologie, IX, 2, 66. 46 Liutprando, Antapodosis, I, 5 – PL 136c, 793a. 47 Così l’abate di Marienberg (cfr. la nota all’edizione dei Cronica maiora di Matteo

Parisiense in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, XXVIII, p. 209, 14 ss.) o Riquerio (Gesta Senonensis ecclesiae, Ivi, XXV, p. 310, 33 ss.). Questa tradizione fu raccolta ancora da Pietro d’Ailly nel suo Tractatus de legibus et sectis, c. IV, annotato da Colombo nella sua postilla c546 (cfr. c389) e da Benedetto Dei nella sua Cronaca, ed. Barducci, Firenze, 1984, p. 111.

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48 P.E. Abulfaragio (cfr J.S. ASSEMANUS, Bibliotheca Orientalis Clementino-Vaticana, Roma

1728, III, 2, p. CCCCLXXVIII). 49 Così dalla lettera raccolta da Matteo Parisiense nei suoi Cronica, cit., p. 218, 5 ss). 50 Secondo Enea Silvio Piccolomini (Historia rerum ubique gestarum, cap. XXVIIII), come

annota Colombo a margine del suo esemplare (B 314; cfr. B 369). 51 Così le descrive Plinio (VI, 30): «Poi ci sono le porte del Caucaso, chiamate da molti e

molto equivocamente porte del Caspio (cfr.VI, 40), lavoro immenso della natura per aver tagliato di colpo la cordigliera, cui si aggiunse un portone di travi ricoperto di ferro, mentre nel mezzo scorre un fiume di odore ripugnante sulla cui riva di qua si fortificò sulla roccia un castello [...] per impedire il passaggio di popoli innumerevoli». Con i grandi viaggi di mercanti e commercianti la tradizione mutò alquanto. Marco Polo (I, 14) diede una spiegazione razionale al mito, situandolo in Georgia. Cercarono invano le porte del Caspio, in parte per interesse escatologico, in parte per curiosità turistica, i frati dominicani che risiedevano nel Tiflis durante sette anni, e che interrogarono su questo georgiani, persiani ed ebrei, secondo quanto racconta Vincenzo di Beauvais (Speculum historiale, XXIX, 89 – f. 393 v). Gugliemo de Rubruquis, al suo ritorno della corte del Gran Kan, arrivò a Derbent, poi alla città di Samaron e il giorno seguente attraversò «una valle nella quale si vedevano i resti di una muraglia dall’uno all’altro monte, senza un passaggio in cima alla cordigliera; questa doveva essere la porta di Alessandro che tratteneva i popoli feroci, cioè i pastori del deserto, affinché non potessero entrare nelle terre coltivate e nelle città. C’è un’altra porta dietro la quale si trovano gli ebrei, della quale non potei sapere nulla con certezza, e dato che in tutte le città di Persia ci sono molti ebrei» (37, 20 – van Wybgaert, Sinica Franciscana, I, p. 319). Questa curiosa distinzione fu molto in voga in tutto il sec. XIV, giacché l’armeno Haitón annota che la città di Mirali «si chiama porta di ferro, che alzò il re Alessandro a causa di alcuni popoli vari e diversi, che vivevano nel cuore dell’Asia, e che egli non voleva avessero accesso all’Asia Maggiore senza il suo permesso; questa città si trova in una zona del Caspio, e tocca il gran monte del Caucaso» (De Tartaris, IX; cfr. XLVII). Nell’ambasciata a Tamerlano del Re González de Clavijo (pp. 145-146) si fa riferimento tanto alle porte del Caucaso quanto alle porte del Caspio, situate a 1500 leghe le une dalle altre. Il Libro della conoscenza di tutti i regni e le terre (ed. Jiménez de la Espada, Madrid 1877, p. 108) localizza tra Derbent e Caraol «il porto che chiamano januas ferri», senza rendersi conto chiaramente del significato, perché in un altro passo (p. 83 ss., 80) descrive i castelli di Gog e Magog, formato quest’ultimo «tutto di pietra ferrea [...], che lo fece in questa maniera la natura e confina con le nuvole»; tra le quali distese Alessandro «le porte di ferro».

52 IBN BATUTA, A través del Islam, Madrid 1981, p. 727. 53 Libro di Ester – PL 198, 1498). 54 Madrid 1980, 210 ss. 55 Cartas y escritos de San Francisco Javier, Madrid BAC 1979, doc 55, 15, p. 196. 56 Cartas de particulares a Colón y Relationes coetáneas, ed. J. Gil, C. Varela, Madrid 1984,

p. 249. 57 Lettera a Soderini, ed. Formisano, V, p. 40, 16 – BAE-Biblioteca de autores españoles, 76,

p. 132. 58 II, p. 1 ss., México 1961. Per forzare il parallelismo tra gli ebrei e gli indiani si dissero

allora molte cose inesatte. 59 Origines de los indios del Nuevo Mundo e Indias Occidentales, Madrid 1729, soprattutto p.

79 ss. 60 Ivi, p. 85. 61 Così dice G. Fernández de Oviedo nella Historia de las Indias, XVI, 2 – BAE 118, 91a.

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62 Lettera del re a Miguel de Pasamonte da Vallalodid, 14/8/1509 – Archivio generale delle

Indie, Sevilla, Indif. 418, vol. II, f. 40r. 63 Lettera all’ammiraglio D. Diego da Madrid, 28/2/1510 – Ivi, Indif. 418, vol. II, f. 111r (gli

comunica che suo zio D. Diego aveva scritto agli ufficiali della Casa di contrattazione per informarli che Nicuesa aveva preso nella suddetta isola 150 indios, provocando grande scandalo); lettera di Miguel de Pasamonte, alla stessa data, dove ordina che gl’indios fossero restituiti a Santa Cruz – Ivi, f. 112y.

64 III, 23. Come si ricorderà, i Seres prolungavano la loro vita mangiando foglie degli alberi. I sacerdoti che, secondo lo Pseudo-Callistene, curavano il culto degli alberi del Sole e della Luna, giungevano a un’età molto matura perché ne mangiavano i frutti (questa tradizione è presente ancora nella Historia eclesiástica di Pietro Comestore [Liber Genesis, XXIV – PL 198, 1075; Liber Esther, IV, additio 2 – PL 1498]. In epoca ellenistica, la curiosità filologica si preoccupò molto della longevità non solo degli uomini, ma anche degli animali. Si scrissero allora trattati la cui essenza resta raccolta oggi in libri come i Macrobii di Luciano. Anche Valerio Massimo, nei suoi Fatti e detti memorabili (VIII, 13), fece raccolta di esempi di lunga vita.

65 A questi Etiopi «dalla lunga vita», che vivono all’estremità del mondo, attribuisce Erodoto ogni sorta di meraviglie, che altri autori riferiscono ad altri popoli ugualmente favolosi: è molto raro tra loro l’uso del bronzo, per cui le catene per i prigionieri si fanno con l’oro; le loro tombe sono di cristallo.

66 Sul simbolismo acquatico cfr. M. Eliade, Tratado de historia de las religiones, tr. sp., Madrid 1954, p. 185 ss.; sopratt. pp. 189-190 per «l’acqua della vita». Sulla fonte della giovinezza cfr. A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del medio evo, rist. Pordenone 1993, p. 42.

67 Odissea, I, 50. 68 Cfr. la mappa di Walsperger, Zeitz e Bell in Monumenta cartographica Medii Aeui I, 52,

11. 69 Girolamo, Lettere, 108, 25. Cfr Cartas de particulares a Colón etc., cit., 108, 25, dove un

commento a Paolo, Ef.,4, 13, che l’uomo deve risorgere come «maschio perfetto», ossia nell’età «nella quale gli ebrei pensano che è stato creato Adamo e risuscitato Cristo»

70 Diario, 11-14 ottobre. 71 Op. cit., II, 43 – BAE 96, 107b; II, 31 – 223b. 72 Cartas familiares, III, p. 23 e 25. 73 Poiché il terreno non risultò buono, si avanzò di 200 leghe verso il ponte di San Miguel. Ma

queste speranze svanirono quando morì Ayllon a San Miguel de Guadalupe (J. Gil, Op. cit., p. 277, spec. nota 83).

74 Raccolta colombiana, cit., V, 2, p. 123. 75 R LEVILLER, America la bien llamada, Buenos Aires 1948, II, p. 14. 76 Per esempio F. J. POBIL, Américo Vespucio, piloto mayor, Buenos Aires 1947, p. 162; G.

ARANIEZAR, Amerigo y el Nuevo Mundo, México-Buenos Aires 1955, p. 249. 77 Liber in gloria martyrum, 16 e 87 – Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum

Merowingicarum, ed. Krusch, 12 e 87, pp. 49 e 96. Non è l’acqua del Giordano l’unico ricostituente miracoloso della Giudea. Gli itinerari medievali di Terra Santa registrano che, a undici miglia dalla città di Clisma, c’era una piccola isola in pietra viva, che produceva una specie di unguento (chiamato precisamente oleum petrinum, olio di pietra), grazie al quale recuperavano la salute i malati, specialmente gl’indemoniati; la commercializzazione di questo portentoso unguento si faceva a Clisma, adulterandolo con olio (Itinerarium Antonini, 42, in Habeas Christianorum, CLXXV, p. 151)

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78 C.F.M. BATAILLON, Varia lección de clásicos españoles, Madrid 1964, pp. 111 e 119, e

nota 51; così come il commento di F. Rodríguez Marín al licenziato Vidriera (Clásicos Castellanos 36, p. 67, 18). Nel secolo XVII una buona quantità di testimonianze viene a indicare la virtù miracolosa che si attribuiva al fiume di Giudea. Per esempio, Rodrigo de Carvajal y Robles (Fiestas de Lima, Madrid 1950, p. 83): D. Bernardo de Añasco «tanto nella carriera si immerge come se fosse il Giordano». Maestro Valdivieso (La amistad en el peligro – BAE 58, p. 234 a): «Sali come cristallo puro da dentro il cristallo del Giordano. Come aquila ti ringiovanisci dentro l’argentea schiuma». Lode rappresentata da Antonio de Prado (NBAE 18, p. 516a): «Giordano sono, amici miei. Nessuno tema, dovunque io stessi, commedia vecchia». Luis Quiñónes de Benavente (La puerta segoviana – NBAE 18, p. 533b): «Il Giordano sono, miracoloso, che giovinezza sparge». Intermezzo cantato dalle padrone (Ivi, p. 567a): «Questa notte è il Giordano, e in lui ringiovanirete». Las burlas de Isabel (Ivi, p. 612b): «Il Giordano è dei vecchi il denaro».

79 Archivo general de Indias, cit., Patron 18, 5 . 80 Lo data con piena ragione verso il 1576 E. Schafer (Indice de la Colleción de documentos

inéditos de Indias, Madrid 1947, I, p. 437, n. 3149; cfr. C.D.I.A., V, p. 532 ss.; X, p. 66). Delle conoscenze storiche di Escalante danno idea le sviste commesse in alcuni appunti per la storia della Florida (A.G.I., Patron, 19, 32); lì si assicura molto seriamente che «Colombo scoprì l’isola dei Lucayos e Achiti (Haiti), e parte della Florida e altre cose presso San Domingo» (cfr, J. Gil, Op.cit., p. 279).

81 Al suo ritorno stese una relazione sui suoi servizi, il 13 luglio 1564 (A.G.I., S.Dom., 11, 2, n. 50).

82 Decades, VII, 7, f. 97v ss. 83 Etimologie, XII 1, 18. Tace su questo Plinio (XII, 118); la storia pare essere una cattiva

interpretazione di altre leggende raccolte da Plinio (VIII 97 e 101). Il Fisiologo dice che il cervo «corre alle fonti d’acqua, e se non la trova nello spazio di tre ore, muore; se la trova, vive altri cinquant’anni» (PG 43, 521C). Questa tradizione è quella che più si assomiglia agli effetti che produce la famosa fonte di Polimba nella quale si bagnava Mandevilla.

84 «All’invecchiare s’incurva il suo becco e i suoi occhi soffrono di miopia al punto di non vedere, e così non può mangiare. Ma sale molto in alto e si lancia su di una rocca tagliente, affilandola con il becco; poi si bagna in una laguna fredda e si posa al caldo del sole. Allora cadono le squame dai suoi occhi e un’altra volta inizia ad annoverarsi tra i giovani» (PG 43, 524). Brunetto Latini (Li livres dou tresor, I, 144, ed. Carmody, University of Calif. Press, p. 136 I) raccoglie una tradizione simile: l’aquila vola così alta verso il sole che le sue piume ardono e si toglie tutta l’oscurità dai suoi occhi; allora si bagna tre volte in una fonte e diventa giovane come appena nata (cfr. J. Gil, Op. cit., p. 282) .

85 Historia general de las Indias, XVI, 11 (BAE 118, p. 102b); a XVI, 13 (p. 105b) insiste sulla «vanità» di coloro che diedero credito a tale sproposito.

86 È possibile che normanni o portoghesi avessero toccato la terra americana prima di Colombo, ma in nessun caso si ebbe coscienza della scoperta e della sua importanza.

87 Cfr. I. SANTA CRUZ, A. MARTINO, América, lugar de encuentro y desencuentro de utopías, Buenos Aires 1992.

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Rivista di Studi Utopici n.1 aprile 2006

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