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- 1 - Ai miei genitori, a mio fratello, al loro paziente rincorrermi attraverso i labirinti dell’esistenza.

tesi Artusiana 2006

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Ai miei genitori, a mio fratello,

al loro paziente rincorrermi attraverso i labirinti

dell’esistenza.

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Il potere di oggi, il potere della civiltà dei consumi riesce ad ottenere perfettamente

questa acculturazione, questa omologazione,

distruggendo le varie realtà particolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini

che l’Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato.

Pier Paolo Pasolini - 1974

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Indice

Introduzione

1. L’età contemporanea. Parte prima.

1.1 Premesse al secolo diciannovesimo.

1.2 Diffusione internazionale dei prodotti e selezione della specie.

1.3 Procedimenti di conservazione e industrializzazione degli

alimenti.

1.4 Calorie e dietetica.

1.5 Adulterazioni alimentari.

1.6 La scienza gastronomica.

2. L’Artusi.

2.1 La cucina borghese italiana.

2.2 Pellegrino Artusi.

2.3 Marketing artusiano.

2.4 Le ragioni del successo.

3. L’eta contemporanea. Parte seconda.

3.1 Perdita e recupero del senso della tradizione.

3.2 Il paradosso della globalizzazione.

3.3 La cucina del territorio come identità culturale.

3.4 Un affresco poco rassicurante.

3.5 Il cibo come cultura.

3.6 La nuova gastronomia.

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4. Artusopoli.

4.1 Una storia di comunicazione.

4.2 La Festa Artusiana.

4.3 Casa Artusi.

Appendice.

Conclusioni & ringraziamenti.

Bibliografia.

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Introduzione

L’argomento di cui tratta la presente tesi, trova fondamenta nel rapporto

che unisce Forlimpopoli ad un suo illustre cittadino: Pellegrino Artusi.

Questo rapporto, sornione e disinteressato per buona parte del secolo

appena trascorso, dal 1997 è celebrato attraverso quell’evento che –

correttamente definito non solo per il termine utilizzato, ma anche per lo

spirito che racchiude – è stato nominato “Festa Artusiana”. Oggetto e fine

ultimo della ricerca è il tentativo d’analisi di come l’amministrazione locale,

proprio attraverso lo strumento della Festa Artusiana, comunica e promuove

il territorio cittadino e circostante.

Attraverso una breve analisi storico-gastronomica del periodo in cui

visse e operò – analisi indispensabile per meglio comprendere i meccanismi

socio-culturali che, attraverso l’Ottocento e per tutto il Novecento, hanno

portato all’odierno dualismo cucina del territorio/cucina globale – si arriverà

ad una panoramica del contemporaneo rapporto tra l’uomo e il suo

nutrimento, il cibo.

Partendo dall’eredità lasciata da Artusi con il suo “La Scienza in cucina

e l’Arte di mangiar bene ”, verranno affrontati i punti cardine del pensiero

artusiano, quei principi sui quali poggia il successo di quest’opera, ormai

indiscusso classico della letteratura italiana.

Abbracciando una chiave di lettura che esalti la riscoperta del valore

culturale dell’alimentazione umana, saranno affrontati vari temi, primo su

tutti la consacrazione del cibo come vera e propria espressione di cultura.

Si analizzerà, in un epoca in cui la spinta omogeneizzante della

globalizzazione sembra far dimenticare l’esistenza di miriadi di realtà

particolari e uniche, come questi eventi abbiano portato ad una generalizzata

perdita e recupero del senso della tradizione, come evidenzia l’Assessore

alla Cultura del Comune di Forlimpopoli, Mauro Grandini:

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Penso che ognuno di noi si renda conto di quanto l’apertura di

frontiere o la velocità dei trasporti ci metta ogni giorno in contatto

con persone provenienti da altri luoghi, altre nazioni, altri continenti.

Viene facile sottolineare quanta ricchezza culturale comporti questo

vortice di contatti, ma, inesorabilmente, ci ritroviamo prima o poi a

fare i conti con la volontà di distinguere le radici, le tradizioni, le

consuetudini. La convivenza dei popoli nasce da un incontro delle

culture, da un volersi avvicinare e intendere, senza necessariamente

fondersi1.

Tratteremo l’argomento gastronomia in sintonia con la duplice linea che

governa l’esperienza della Festa Artusiana e del Premio Artusi: da un lato la

linea della cucina e del cibo come momento di piacere e di godimento,

dall’altro, parallelamente, la linea del cibo come bisogno, come necessità,

come fame.

Infine analizzeremo come l’amministrazione locale organizza l’evento

Festa Artusiana. Focalizzando l’attenzione sul forte aspetto comunicativo

che, sin dai primi passi, ha marcato e contraddistinto la Festa, non mancherà

un’analisi curata riguardo a tutti gli elementi, le azioni, gli obiettivi e i

traguardi che concorrono a formare l’evento. Concludendo, vedremo quali

sono le prospettive future legate all’inaugurazione di Casa Artusi, per un

progetto di sviluppo del territorio mirato a quello che, negli ultimi anni, si è

identificato come vero e proprio trend: il turismo culturale e, in particolar

modo, il turismo legato al cibo.

1 Programma Festa Artusiana 2006, presentazione.

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1. L’epoca contemporanea. Parte prima.

Esiste un’abitudine, quella di riunire il XIX e il XX secolo sotto il

termine di “epoca contemporanea”, caratterizzata da una rivoluzione

industriale (che dall’inizio del XIX alla fine del XX secolo, non ha smesso

di riproporsi), dall’esodo contadino e dall’incredibile espansione delle città,

dal trionfo totale dell’economia di mercato sull’economia di sostentamento

(nelle campagne come nelle città), dal formidabile sviluppo dei trasporti e

del commercio mondiale2.

1.1 Premesse al secolo diciannovesimo.

Se la Rivoluzione Francese, considerata il grande spartiacque della storia

moderna, continua ad ispirare con le sue ideologie e le sue passioni la

politica dell’Ottocento, sotto molti aspetti questo secolo sviluppa tendenze

già presenti nella società settecentesca. Le campagne napoleoniche, animate

da un sogno di potenza non nuovo nella storia europea, creano però negli

Stati occupati strutture amministrative più razionali, bruciando gli ultimi

residui del costume feudale e creando le premesse per un nuovo sviluppo

internazionale di quella borghesia che già in Francia e in Inghilterra aveva

dato nuovo impulso all’attività economica e aveva cominciato a sovvertire

le tradizionali idee d’immutabilità dell’ordine sociale3.

La società dell’Ottocento gode nel complesso di un benessere mai

raggiunto prima. Lo sviluppo demografico (tra il 1800 e il 1900 la

popolazione europea raddoppia) iniziato nel secolo precedente continua,

2 Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari. 3 Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983

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sostenuto da uno sforzo produttivo che consente all’Europa di raggiungere il

culmine della sua potenza, come centro di una rete commerciale che copre

ormai tutti i continenti; mantiene la sua supremazia grazie alla disponibilità

di capitali ingenti e all’applicazione di nuovi procedimenti tecnici che

rivoluzionano gradualmente tutti i campi della produzione e della stessa vita

sociale.

Si perfezionano i metodi di lavorazione dell’acciao; si sviluppa

l’industria elettrica mentre quella chimica, che ha mosso i primi passi

all’inizio del secolo, mette a disposizione del consumatore coloranti,

concimi artificiali, anestetici e disinfettanti.

La rivoluzione industriale incide su molti aspetti della storia

dell’alimentazione, primo dei quali lo sviluppo delle industrie alimentari.

Prodotti intermedi (farina, olio, zucchero, aceto ecc), che una volta erano

preparati artigianalmente, escono dalle grandi fabbriche: industrie molitorie,

oleifici, raffinerie ecc. Con il trascorrere del secolo, altre imprese

prepareranno cibi e condimenti pronti al consumo: alcuni di questi non

esistevano in precedenza, come il cioccolato in tavolette o il latte

condensato o in polvere; altri, invece, erano già prodotti dagli artigiani o dai

contadini – come il burro e il formaggio – e la maggior parte erano preparati

dalla massaia o dal cuoco (marmellate, conserve ecc.).

Altro aspetto fondamentale è il contributo dato alla notevole riduzione

del personale domestico: le popolane hanno preferito sempre di più il lavoro

in fabbrica o negli uffici alla condizione di domestiche. La scomparsa delle

cuoche dalle case borghesi ha trasformato in cuoche le signore; infine una

certa idea di emancipazione femminile ha fatto sì che preferissero un’attività

esterna4. Certo non era una novità, per quanto riguardava le classi popolari

(cioè la maggioranza della popolazione) , il “lavoro femminile”: nell’antica

società le donne lavoravano altrettanto se non più degli uomini. Si trattava 4 Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari

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per lo più di lavori di carattere domiciliare e domestico, il che permetteva

loro di organizzarsi in modo tale da occuparsi sia della casa e dei bambini

sia del lavoro stesso. Ma in seguito alla rivoluzione industriale aumenta il

numero delle donne che lavorano in fabbrica ed è sempre più difficile

combinare le attività professionali con quelle casalinghe. Perciò l’aumento

delle donne impiegate in fabbriche o negli uffici ha contribuito in maniera

determinante allo sviluppo dell’industria alimentare.

In questa ottica è importante considerare la ristorazione e le sue funzioni.

Da un lato una funzione gastronomica. Alcuni ristoranti sono diventati i

templi dell’alta cucina ed è proprio li che officiano sempre più i grandi

cuochi, quelli che un tempo erano al servizio di principi e signori. Questa

trasformazione è stata favorita da un nuovo statuto della gastronomia nella

società borghese. Altrettanto verò è che, la funzione gastronomica

interessava unicamente i ristoranti di lusso: quando non si era abbastanza

ricchi era possibile rivolgersi ad ogni sorta di ristoranti più modesti, in cui si

andava per godere della convivialità e della gola, concedendosi l’illusione di

uscire un po’ dal proprio stato. L’altra, e non meno importante, funzione dei

ristoranti era quella di nutrire una clientela sempre più numerosa di uomini e

donne che non consumano i loro pasti a casa – sia perché non c’è nessuno

per prepararli, sia perché lavorano troppo lontano da casa. In ogni caso

questo esilio di coloro che mangiano rimanda alle trasformazioni

dell’economia, al “lavoro femminile” e all’espansione degli agglomerati

urbani5.

Le applicazioni della macchina a vapore di Watt al campo dei trasporti

portano alla diffusione di piroscafi e ferrovie che dal 1830 cominciano a

sostituire velieri e diligenze. L’incremento e l’accelerazione dei trasporti e

delle comunicazioni (il telegrafo di Morse è del 1844, del 1876

l’apparecchio telefonico di Bell) apre nuove possibilità allo sviluppo del 5 Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari

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commercio, alla facilità di approvvigionamento che rende disponibili agli

europei alimenti provenienti da tutto il mondo.

Anche l’agricoltura trae vantaggio dalle nuove invenzioni: si mettono a

coltura vaste estensioni di terreno un tempo inutilizzate, si accresce la

produttività di quelle già sfruttate con nuovi metodi di drenaggio e aratura

profonda, e si diffonde l’uso delle macchine come la seminatrice, la

trebbiatrice e la mietitrice.

Gli studi chimici e biologici (tra cui emergono Liebig e Pasteur)

contribuiscono a una migliore conoscenza dei processi di nutrizione e

crescita delle piante: si introduce l’uso di fertilizzanti come il guano, mentre

verso la fine del secolo la teoria batterica di Pasteur permetterà di lottare con

successo contro varie malattie e di ottenere sostanziali progressi nel campo

dell’allevamento.

Questa popolazione più numerosa, più mobile, nel complesso meglio

alimentata e padrona di strumenti sconosciuti alle generazioni passate, è

anche agitata da fermenti culturali e politici nuovi: le spinte all’eguaglianza

presenti già nella Rivoluzione Francese continuano ad operare per tutto il

secolo (due esempi rilevanti sono l’abolizione della servitù della gleba in

Russia nel 1861 e la fine della schiavitù dei neri d’America decretata nel

1865). Se la borghesia è in piena ascesa e va creando nell’Europa

occidentale una società a propria misura, il proletariato, le cui condizioni

critiche costringono ancora grandi masse all’emigrazione, comincia a

imporre i suoi problemi all’attenzione dei governi.

Ma la scienza più che l’arte è il grande mito del secolo: le nuove teorie

sulla formazione dell’universo e sull’evoluzione della specie, la

classificazione degli elementi di Mendeleev6 e la legge della conservazione

6 www.wikipedia.org, Dmitrij Ivanovic Mendeleev: Nel 1869 iniziò a scrivere il suo libro, Principi di chimica. Il suo progetto prevedeva la sistematizzazione di tutte le informazioni dei 63 elementi chimici allora noti. Lo scienziato russo preparò 63 carte, una per ciascun elemento, sulle quali dettagliò le caratteristiche di ciascun elemento. Ordinando le carte, secondo il peso atomico crescente, si accorse che le proprietà chimiche degli elementi si

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dell’energia sembrano dare risposte e sistemazioni definitive ad antiche

ricerche, e dalla scienza si attende l’eliminazione dei mali che religione e

filosofia non erano riuscite a lenire.

Anche la vita d’ogni giorno risente di tante innovazioni: i rapporti sociali

divengono meno formali; il teatro e il caffè diventano i luoghi di riunione

preferiti dalla borghesia; la vita familiare si fa meno chiusa, la servitù si

riduce e il lavoro della donna è integrato o alleviato da strumenti nuovi

come la macchina per cucire o i primi alimenti prodotti industrialmente. Si

diffondono tra i ceti medi abitudini come la villeggiatura, i viaggi, la pratica

di sport, che portano anche all’adozione di un abbigliamento e di

atteggiamenti più semplici.

Il secolo si chiude su alcune delle invenzioni che maggiormente

caratterizzano la vita del nostro tempo: l’automobile di Daimler, la prima

pellicola dei fratelli Lumière e il telegrafo senza fili di Marconi.

1.2 Diffusione internazionale dei prodotti e selezione della specie.

La maggiore disponibilità di prodotti, dovuta al miglioramento

quantitativo e qualitativo delle colture, nonché all’ampliarsi dei mercati e

alla rivoluzione dei trasporti, è la caratteristica principale dell’alimentazione

nell’Ottocento.

Durante le guerre napoleoniche e nel periodo 1830-48 vi sono ancora

annate di crisi e cattivi raccolti, ma in seguito le condizioni dell’agricoltura

tenderanno ad un costante miglioramento e quando, nella seconda metà del

ripetevano periodicamente. Sistemò i 63 elementi conosciuti nella sua tavola e lasciò tre spazi vuoti per gli elementi ancora sconosciuti. Il grande scienziato russo non solo previde l'esistenza di altri elementi, ma ne descrisse pure le proprietà. L'importanza della tavola periodica e delle previsioni di Mendeleev furono riconosciute pochi anni dopo, in seguito alla scoperta degli elementi scandio, gallio e germanio, che andarono ad occupare alcuni posti lasciati vuoti nella tavola e possedevano le proprietà fisiche prevista dalla loro posizione in essa.

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secolo, la produzione europea non sarà più sufficiente ai bisogni della

popolazione, verrà integrata da importazioni come il grano americano, la

carne australiana e il riso dall’Asia, oltre a quelle tradizionali di tipici

prodotti coloniali. Non vi sono in questo secolo innovazioni di rilievo per

quanto riguarda le sostanze alimentari conosciute, piuttosto si selezionano le

specie animali e vegetali già note.

Brillat-Savarin affermando che “un pranzo quale si può avere a Parigi è

un tutto cosmopolita a cui ogni parte del mondo contribuisce con i suoi

prodotti”, citava fra questi “il riso dell’India, il sagu, il karrik, la soia, il

caffè, le patate dolci, gli ananas, il cioccolato, la vaniglia, lo zucchero ecc7”.

Alcune piante esotiche giunte in Europa nel Settecento, come il mango e

l’ananas, divengono di uso più comune e fanno la loro comparsa nuovi frutti

tropicali: le arachidi del Gambia, i datteri d’Algeria e le banane importate

dalla Giamaica. Le esigenze del mercato europeo impongono anche

l’estensione di alcune colture coloniali ad esso destinate: ad esempio il

cacao, originario dell’America tropicale, viene introdotto in Costa d’Oro e

Nigeria, mentre la coltivazione del tè dalla Cina si estende in India e a

Ceylon. Due piante, in modo particolare, assumono poi grande importanza

in questo secolo: la patata e la barbabietola da zucchero.

Nel campo dell’agricoltura, se il progresso delle tecniche e dei

rendimenti si è avviato più o meno presto a seconda dei paesi, si è però

dimostrato continuo, cosa che ha permesso non solo di rispondere alla sfida

demografica del XIX secolo ma assieme ha procurato un miglioramento

netto dell’alimentazione europea8.

L’allevamento in genere, come l’agricoltura, beneficia delle nuove

scoperte scientifiche, che permettono di selezionare le razze e di migliorarle

con incroci e con un’alimentazione più razionale. Le grandi città hanno 7 Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983 8 Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari

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mercati generali pubblici, come le Halles di Parigi, dove si trattano verdure,

frutta, salumi giunti per ferrovia dalle zone di produzione, e macelli che

garantiscono un certo controllo sanitario delle carni. In alcuni Paesi, quali

Stati Uniti, Germania e Olanda, il bestiame viene allevato all’aperto e

alimentato, oltre che con foraggio fresco, con scarti di patate e di

lavorazioni industriali come quella della birra e delle barbabietole. Nella

seconda metà del secolo si istituiscono in vari Paesi europei scuole di

agronomia e associazioni patrocinate dai governi per il progresso

dell’agricoltura, e si cominciano a registrare in appositi libri le genealogie

degli animali.

Da sottolineare notevoli progressi in campo veterinario grazie agli studi

di Pasteur9, sull’importanza della sterilizzazione, e del chimico tedesco

Justus von Liebig10, il quale contribuisce in modo determinante a dare

un’impostazione scientifica all’agricoltura dimostrando la possibilità di

migliorare il rendimento delle colture con l’impiego di fertilizzanti

contenenti determinate sostante minerali.

1.3 Procedimenti di conservazione e industrializzazione degli alimenti.

La vera rivoluzione alimentare dei tempi moderni consiste nella scoperta

di vari metodi per la conservazione dei cibi. Già nel 1772 il capitano Cook

aveva sperimentato, durante un suo viaggio, una “minestra portatile” di

carne bollita fino ad assumere una consistenza gelatinosa, ma solo

9 www.wikipedia.org, Louis Pasteur (1822 - 1895) è stato un chimico ed un biologo francese. Grazie alle sue scoperte e alle sue attività scientifiche, viene universalmente considerato come il fondatore della moderna microbiologia. 10 Ibidem, Freiherr Justus von Liebig (1803 - 1873); chimico tedesco che ha dato importanti contributi alla chimica per l'agricoltura e la biologia e alla organizzazione della chimica organica.

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nell’Ottocento si scoprì la possibilità di conservare gli alimenti eliminando i

microbi in essi contenuti11.

Pioniere di questi studi fu il biologo italiano Spallanzani12, che con gli

esperimenti sulla generazione spontanea condotti verso il 1768, aveva

dimostrato che era possibile ottenere la sterilizzazione mediante bollitura in

un recipiente chiuso. Il francese Nicolas Appert (1750-1841) nel 1804 aprì a

Massy un piccolo laboratorio per sperimentare la conservazione dei legumi

e in seguito di altri cibi, che faceva bollire in una rudimentale autoclave

chiusi ermeticamente in vasi di coccio o di vetro. Gli equipaggi delle navi

francesi in guerra furono i primi a verificare la bontà del metodo di Appert,

che nel 1810 pubblicò un’opera intitolata Le livre de Tous les Ménage ou

l’Art de conserver pendant plusieurs années toutes le substances animale et

végétables. Il suo metodo era stato frattanto introdotto in Inghilterra, dove si

cominciarono a usare recipienti di lamiera e di stagno. Verso il 1814 la ditta

Dokin & Hall forniva alla Marina Reale Inglese zuppe di verdura e carni

conservate, e l’esploratore Parry usò alimenti in scatola durante il suo

viaggio al polo nel 1825. Infine verso il 1850, si cominciarono a usare per la

bollitura autoclavi munite di misuratori di pressione e valvole di sicurezza,

che eliminavano il rischio di esplosioni. Il procedimento non dava però

ancora una garanzia assoluta, in quanto esisteva, specie per sostanze

deperibili come la carne, il rischio di avarie: solo quando Pasteur riconobbe

nei batteri gli agenti della putrefazione, si stabilirono i tempi e le

temperature necessarie per sterilizzare i vari alimenti.

L’industria della carne in scatola, sviluppatasi negli Stati Uniti, progredì

anche grazie al perfezionamento dei recipienti usati, che comunque

risultarono completamente sicuri solo dopo il 1900. La salagione e

l’affumicamento erano già praticati da tempo. Altro metodo che permise di

prolungare la durata dei cibi come la carne e il pesce, fu la refrigerazione 11 Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983 12 www.wikipedia.org, Lazzaro Spallanzani (1729 – 1799); biologo.

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che, attorno il 1850, permise di trasportare il latte con maggior sicurezza dai

luoghi di produzione a quelli di consumo, e di conservare in ambiente

freddo prosciutti o pesci meno salati e quindi di sapore più delicato. Il

ghiaccio veniva già impiegato agli inizi dell’Ottocento per conservare il

pesce fresco durante il trasporto sulle navi le quali, grazie al

perfezionamento delle reti a strascio, poterono spingersi in zone più lontane.

Dal 1851 si costruirono industrialmente macchine frigorifere e, dopo

qualche insuccesso, dal 1880 iniziarono trasporti regolari di carne congelata

dagli Stati Uniti oltre che dalla Nuova Zelanda e dall’Australia, verso il

Vecchio Continente.

Un altro alimento importante come il latte beneficiò in vario modo delle

scoperte del secolo: verso il 1850, grazie al veloce progresso dei trasporti, si

cominciarono a chiudere le stalle di città, seminterrati fetidi in cui gli

animali affondavano nel letame ed erano facile preda di malattie, per

sostituirle con allevamenti di campagna e all’aperto. Quando gli studi di

Pasteur fecero comprendere l’importanza della sterilizzazione, si arrivò

verso fine secolo all’introduzione della cosiddetta pastorizzazione,

consistente in un riscaldamento a 60-80° C per alcuni minuti, che

permetteva di eliminare i germi nocivi e di prolungare la durata del

prodotto. Attorno al 1880-90 iniziò la lavorazione industriale del burro, che

permise di ottenere un prodotto di qualità più costante e quindi più

facilmente esportabile. Una nuova sostanza destinata a larga diffusione fu

poi la margarina, dovuta agli esperimenti di Mège-Mouriès, francese che,

incaricato dalla Marina del suo Paese di trovare un succedaneo economico

del burro, aveva intuito la possibilità di estrarre grasso dal corpo degli

animali, facendolo fondere: se ne ricavava un liquido chiamato oleina, ed

una parte solida, chiamata appunto margarina, che con l’aggiunta di latte

risultò di sapore accettabile. Il procedimento, brevettato da Mège-Mouriès,

venne successivamente perfezionato negli Stati Uniti, e dopo il 1890 si

cominciò a usare olio di cocco e di palma insieme al grasso animale. Solo

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dopo il 1900, l’aggiunta di vitamine avrebbe ulteriormente migliorato il

prodotto, rendendolo accettabile anche a quei consumatori che inizialmente

l’avevano disprezzato per il basso costo e l’aspetto poco gradevole.

Una lavorazione basata ancora su metodi antichi, come quella dei

formaggi, fece qualche progresso in seguito agli studi di batteriologia, che

permisero di escludere dal processo di fermentazione i batteri dannosi. Un

altro derivato del latte che cominciò a godere di grande favore fu lo yogurt,

mentre l’industria casearia, sviluppatasi verso la fine del secolo, avrebbe

affiancato alla produzione tradizionale quella di “creme di formaggio”

ottenute dalla cottura di formaggi a pasta dura.

Fra gli altri elementi che, con metodi già usati in ambiente domestico,

cominciarono a essere preparati industrialmente nella seconda metà

dell’Ottocento, sono da ricordare la cioccolata, i biscotti, le confetture di

frutta e varie salse di ogni tipo.

1.4 Calorie e dietetica13.

Lo sviluppo delle conoscenze scientifiche permise di giungere anche a

una classificazione scientifica degli alimenti in base alla loro composizione

e al loro valore energetico.

Già nel 1831 Dalton, uno dei padri della chimica moderna, aveva tentato

di stabilire la quantità e la composizione del cibo necessario ad ogni uomo

registrando le variazioni del proprio peso dopo ogni pasto. Questo tipo di

ricerche venne proseguito da Magendie, fisiologo francese, e da Liebig che

nel 1842 distinse i cibi in sostanze “plastiche” o azotate, che concorrono alla

formazione dei muscoli, e “respiratorie”, cioè idrati di carbonio e grassi, che

generano calore.

13 Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983

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Si cominciò anche ad approfondire la conoscenza dei processi di

digestione e, in seguito a studi del francese Berthelot e dei tedeschi Voit e

Pettenkofer, si fissò una misura precisa del valore energetico dei cibi, che

venne chiamato caloria14. Su questa base fu poi possibile elaborare le prime

tabelle dietetiche per varie categorie di persone.

In questo periodo vennero prodotti anche i primi alimenti per neonati:

dapprima risultavano spesso mortali, per la composizione di acqua, latte e

con aggiunta di fecola, e perché somministrati in bottiglie non sterilizzate;

poi Liebig propose una mistura di farina di frumento, latte e malto, cotta e

successivamente disidratata, che poteva conservarsi più a lungo e dava

maggiori garanzie igieniche.

Alla fine del secolo gli alimenti erano ormai classificati in base alla

composizione in protidi, glicidi e lipidi; si conosceva anche l’esistenza di

sali minerali, e di sostanze accessorie che conferivano particolari aromi, ma

alcuni studiosi avevano il sospetto che esistessero altri elementi presenti in

quantitativi trascurabili e quindi difficili da individuare.

Tra il 1880 e il 1890 un medico olandese, Eijkmann, inviato nelle Indie

Olandesi per ricercare le cause della malattia, chiamata “beri-beri”, che

colpiva quelle popolazioni, scoprì che i polli di cui si serviva per gli

esperimenti, alimentati con riso brillato, manifestavano i sintomi della

malattia: l’attribuì pertanto alla mancanza di una sostanza essenziale che

venne individuata solo nel 1912, e ricevette il significativo nome di

vitamina15.

14 Cfr, da www.wikipedia.org: La caloria (o piccola caloria, simbolo cal) è un'unità di misura dell'energia. In biologia, o nelle scienze dell'alimentazione, la grande caloria (Cal o kcal), equivalente a 1000 cal, indica l'apporto energetico di un alimento. Le determinazione dell'apporto calorico deve essere fatta in riferimento allo zucchero (glucosio), che è l'alimento naturale di più semplice assimilazione. 15 Cfr, da www.wikipedia.org: La scoperta delle vitamine nacque dalla constatazione che una dieta a base di carboidrati, lipidi, proteine e sali minerali non era sufficiente a garantire lo sviluppo e la sopravvivenza degli individui ma che era necessario addizionare anche degli opportuni fattori di crescita. Il primo di questo composti venne isolato nel 1911: per la

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I progressi di dietetica permisero di dare un fondamento scientifico a

tradizioni che risalivano ai tempi più antichi; le diete continuarono a

rispondere a bisogni più frivoli, come quello di sentirsi in linea con le teorie

degli igienisti o di conservare il “vitino di vespa” richieso dalla moda di

allora. Si accrebbe il numero di vegetariani e si cominciarono a

raccomandare diete disintossicanti a base di sola frutta. Verso la fine del

secolo si consigliavano, in opere con pretese scientifiche o in articoli di

riviste femminili, diete dimagranti non troppo dissimili da quelle suggerite

ancor oggi dagli specialisti, basate sul consumo di carne, pesce e verdura e

sull’eliminazione di zucchero e farinacei, bagni caldi e dall’uso di busti o

cinture per contenere le forme.

1.5 Adulterazioni alimentari.

Se la combinazione delle nuove esigenze e delle nuove scoperte nel

campo della tecnologia alimentare aveva in genere migliorato la quantità e

la purezza dei cibi da una parte, dall’altra l’uso della chimica – rivelatosi a

tratti troppo disinvolto - fornì anche nuovi mezzi per alterarne le

caratteristiche originarie ai fini di lucro, generando scandali alimentari,

nuove malattie e impoverimento della nostra dieta per quanto riguarda

elementi nutritivi e gusto. Alcune pubblicazioni scientifiche svelarono i

danni dell'adulterazione dei cibi e stimolarono i governi a emanare le prime

leggi per il loro controllo.

Il problema del resto non era nuovo. Già nel 1820 un libro pubblicato a

Londra col titolo Treatise on the Adulterations of Food and Culinary

Poisons16 aveva suscitato scalpore. Ne era autore un farmacista di origine

sua positività alle reazioni delle ammine, venne denominato ammina della vita (da cui vitamina, il cui nome venne dato dal biochimico di origine polacca Casimir Funk nel 1912). 16 Cfr, da www.gutenberg.org

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- 19 -

tedesca, Friedrich C. Accum (1769-1838), che in precedenza si era

interessato dell’analisi chimica degli alimenti.

Fra le pratiche denunciate da Accum, alcune delle quali di origine antica

e assai comuni a Londra in quel periodo, l’aggiunta di albume al pane, di

solfato ferroso alla birra, e l’uso di coloranti artificiali nei liquori e nel vino,

che veniva a volte ottenuto con sidro guasto; accadeva inoltre che foglie di

prugnolo venissero spacciate per tè e che sostanze tossiche, come sali di

rame e piombo, venissero usate per conferire colori brillanti ai prodotti di

pasticceria. Ma questa denuncia, che non fece altro che suscitare una

campagna di commercianti infuriati tale da costringerlo a tornare in

Germania, non diede però risultati, se ancora nel 1850 altri scritti

riprendevano le sue accuse: l’autorevole rivista medica Lancet17 promosse

un’inchiesta da cui risultarono altre sofisticazioni, come l’aggiunta di farina,

gesso e acqua al latte, la sostituzione di polvere di mattoni al cioccolato e

l’impiego di sostanze velenose come coloranti e conservanti. Si

svilupparono frattanto i primi metodi analitici d’indagine attraverso il

microscopio, e in seguito alle analisi condotte da A.H Hassal il Parlamento

inglese emanò nel 1860 la prima legge sulle adulterazioni alimentari (Food

and Drugs Act18), che limitava o bandiva l’impiego delle sostanze

riconosciute dannose, che cominciò ad essere applicata una decina di anni

più tardi.

1.6 La scienza gastronomica

Il termine gastronomia deriva dal greco gastèr (genit. gastròs, ventre) e

nomìa (da nòmos, legge)19. Etimologicamente significa “legge del ventre”,

17 www.thelancet.com; www.wikipedia.org 18 Cfr, da www.bartleby.com/65/fo/foodadul.html; www.encyclopedia.org 19 da www.wikipedia.org

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ovvero l’insieme delle regole necessarie per scegliere e consumare vivande

con soddisfazione dello stomaco. Le definizioni successive sono soltanto

parzialmente esaustive, perché ne danno conto come “dell’arte di preparare

e cucinare i cibi”.

La gastronomia ha assunto sin dai suoi esordi una connotazione

fortemente elitaria: erano le classi dominanti che scrivevano per se stesse i

ricettari e le prime opere di critica gastronomica. La cultura dei poveri e dei

contadini non vanta fonti scritte e dai ricettari dei più nobili si può soltanto

intuire che i saperi del contado sono stati espropriati dalle classi dominanti

insieme al diritto al piacere. Eppure, le principali invenzioni della storia

della gastronomia sono nate negli strati più poveri della società per

rispondere a necessità urgenti: la mancanza di cibo, la deperibilità delle

derrate alimentari, l’esigenza di trasportarle o di conservarle e quindi di

minimizzare l’influenza di spazio e tempo sulla nostra alimentazione20. La

storia dell’alimentazione umana è una storia affascinante, ricca di scoperte e

di imprese anonime, ma non per questo meno importanti e meno

appassionanti: ogni episodio della storia della gastronomia è una tappa nella

storia dell’uomo tout-court, un passo avanti nel suo millenario cammino per

elevarsi al di sopra della condizione di bruto21.

Quando la parola ha fatto il suo primo ingresso ufficiale nel dizionario

dell’Académie Francaise nel 1835, si parlò poi di gastronomi come degli

“anfitrioni che sceglievano, ordinavano e offrivano una tavola riccamente

imbandita”22. La figura del gastronomo, figlia della prima borghesia

postrivoluzionarista, ha sempre rispecchiato una tradizione da cucina nobile,

molto ricca, che affonda le sue radici nei ricettari di corte e per questo, per

lungo tempo, ha goduto di una pessima stampa ed è stato identificato – nel

migliore dei casi – come un rubizzo e obeso signore perennemente intento a

20 Buono, pulito e giusto, Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005 21 Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983 22 Buono, pulito e giusto, Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005

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“scalare” montagne di vivande e ad “asciugare” eserciti di bottiglie:

frivolezze23 insomma.

All’inizio dell’Ottocento si cominciò a definire progressivamente la

scienza gastronomica e l’apporto principale fu dato dalla cultura francese.

Dopo la Rivoluzione si instaurò un positivo rapporto tra gastronomi e

cuochi; la società riprende la gioia di vivere e le grandi case riaprono i loro

saloni per ricevimenti e pranzi ufficiali in cui rifulge l’arte dei cuochi,

passati dal servizio delle famiglie nobili dell’ancien régime a quello dei

rappresentanti del nuovo potere borghese. In quegli anni, oltretutto, a Parigi

si stava sviluppando in modo esponenziale la ristorazione moderna, con

incrementi notevoli per quanto riguarda il numero di ristoranti (se ne

contavano già più di duemila nel 1834) presenti nella capitale.

I gastronomi fecero la fortuna e la reputazione degli chef con le loro

guide e con le prime pubblicazioni di critica. Nasceva la letteratura

gastronomica con Jean-Anthelme Brillat-Savarin e con Alexandre-

Balthazar-Laurent Grimod de La Reynière tra gli autori più importanti, veri

padri fondatori della gastronomia moderna. Gli chef stessi consolidarono la

loro popolarità grazie agli scritti di Antoine Beauvilliers, Charles Durand,

Marie-Antoine Careme e Auguste Escoffier.

Ricordiamo brevemente l’importanza due dei personaggi sopra citati.

Brillat-Savarin, con la sua Pysiologie do guot24, promuove l’arte della

tavola a dignità filosifica. La versatilità e il brio del suo carattere danno

un’impronta particolare a quest’opera, in cui, con la misura e la varietà di

una conversazione mondana, discorre di pranzi e di storia della cucina,

23 Physiologie du gout, Jean-Anthelme Brillat-Savarin, Paris 1825; nell’iniziale Dialogo tra l’autore e il suo amico:Autore”…con tutto ciò non pubblicherò il mio libro”; Amico “E perché?”; Autore “Perché dedicandomi, per la mia professione, a studi seri, temo coloro i quali conoscessero il mio libro solo per il titolo, crederebbero ch’io mi occupi soltanto di frivolezze”. 24 Il titolo completo dell’opera è: Physiologie du Goût, ou Méditations de Gastronomie Transcendante; ouvrage théorique, historique et à l'ordre du jour, dédié aux Gastronomes parisiens, par un Professeur, membre de plusieurs sociétés littéraires et savantes.

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rievoca aneddoti personali e classifica gli alimenti in base alla composizione

chimica e agli effetti sulla salute. La gastronomia viene così collegata alle

nuove scoperte scientifiche e alle teorie settecentesche sul gusto, di cui

analizza la meccanica e gli effetti spirituali, esaltandolo come il segno della

superiorità dell’uomo, onnivoro e capace di ricavare sottili piaceri anche

dalle sue attività materiali: “L’animale si nutre” dice “l’uomo mangia, ma

solo l’uomo di spirito sa mangiare”.

Come già detto caratteristica dell’epoca è la grande fortuna dei ristoranti,

che finiscono per sostituirsi alla Corte come centri del culto gastronomico e

iniziano quella contaminazione del gusto che proseguirà nel nostro secolo

con l’affermarsi della cosiddetta “cucina internazionale”. La cucina di

Escoffier, fusione di raffinatezza ed efficienza, abolì definitivamente le

decorazioni architettoniche in materiali non commestibili, semplificò nel

numero e nella preparazione le complesse portate della tradizione di cui era

erede, innovandole con piatti capaci di assecondare il gusto della sua

clientela internazionale25.

25 … di cui facevano parte personaggi come il principe di Galles, nobili russi in vacanza in Costa Azzurra e il Kaiser Guglielmo II, che lo proclamò “imperatore dei cuochi”; da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983

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2. L’Artusi26

2.1 La cucina borghese italiana27.

Fino al Settecento inoltrato la nascita di veri e propri sistemi

gastronomici regionali (e non già la trasmissione di singoli piatti) è resa

impossibile dall’impostazione universalistica e artificiosa della cucina. Con

la rottura dei codici culinari dell’antico regime, ha inizio un processo di

sedimentazione e differenziazione, lungo un secolo abbondante, al termine

del quale l’esistenza delle cucine regionali italiane è cosa del tutto

evidente28.

La cucina italiana, per quanto a volte disprezzata dai buongustai francesi

perché meno elaborata, non è seconda a quella d’Oltralpe per ricchezza e

varietà di preparazioni: la sua caratteristica è anzi la molteplicità di

tradizioni regionali, ciascuna strettamente legata alle produzioni locali, che

garantiscono la genuinità dei piatti tipici. Accanto a questa differenziazione

risalente ai secoli passati, ne troviamo un’altra corrispondente ai vari strati

della società ottocentesca. Gli aristocratici coltivano maniere preziose e un

gusto raffinato, ispirato ai modelli della “grande cucina” francese; i più

poveri, abituati a pasti assai frugali e spesso acquistati sulle bancarelle dei

venditori ambulanti, saziano la loro fame con generose mangiate solo in

occasione delle principali feste religiose o del Carnevale; nell’Ottocento

però si afferma, con caratteri propri accanto a questi due ceti, una borghesia

che si distingue soprattutto per la ricchezza dei suoi pranzi, in cui

26 Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni, Alfredo Panzini, Hoepli, 1963; alla voce Artusi: “Per antonomasia libro di cucina. Che gloria! Il libro che diventa nome! A quanti letterati toccò tale sorte?”. 27 Cfr, da Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983 28 Piero Meldini, tratto da Pellegrino Artusi e la società del suo tempo; atti del convegno Festa Artusiana 1998

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compaiono anche varie specialità regionali, allestite con abbondanza di

mezzi.

Cultori di gastronomia e cuochi di famiglie signorili codificano nelle

loro opere questo patrimonio, con un lessico formale, ancora incerto e in

gran parte ricalcato su quello francese, ma con la consapevolezza di una

tradizione tutt’altro che misera. Le cucine italiane sono, nel loro complesso,

il risultato dello sposalizio fra le cucine popolari delle occasioni solenni e la

nuova gastronomia francese e francesizzante, i piatti che le compongono

sono di varia estrazione – contadina, marinara, urbano-borghese,

aristocratica – e di più o meno lontana origine. Né mancano relitti delle più

sparate “invasioni” e contaminazioni culinarie: araba, ebrea, spagnola,

mitteleuropea29.

Le varie cucine si distinguono per gli ingredienti impiegati: fra i

condimenti il burro è più usato a Nord, mentre al Sud si preferisce l’olio

d’oliva; il riso e la polenta entrano in molte preparazioni settentrionali,

mentre maccheroni, pizze e calzoni caratterizzano la cucina meridionale;

diffuse in ogni regione sono invece minestre e minestroni a base di verdure,

arricchite con riso o pasta, che costituiscono la base del pasto delle famiglie

contadine.

La cucina piemontese, per ragioni storiche e ovvie ragioni geografiche,

risente più delle altre l’influenza francese, soprattutto per quanto riguarda la

pasticceria che è tra le più raffinate d’Italia, ma ha anche i suoi prodotti

tipici: delicate carni bovine, riso, formaggi, selvaggina e, soprattutto, il

tartufo che arricchisce le preparazioni più pregiate. Ricordiamo il Cuoco

piemontese ridotto all’ultimo gusto, pubblicato nel 1829, mentre verso la

metà del secolo Giovanni Vialardi (capocuoco e pasticcere alla Corte di

Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II) descrisse le sue ricette nel Trattato

29 Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari

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di cucina pasticciera (1854), seguito da un manuale di Cucina borghese

semplice ed economica.

In Lombardia si amano pranzi abbondanti ma basati per lo più su

ingredienti semplici ed economici: il risotto allo zafferano, le polpette,

l’osso buco, la “cotoletta”, la verzata e la trippa; il panettone, diffuso anche

all’estero e spesso arricchito da decorazioni fantasiose, è già il tipico dolce

di Natale. Fra i trattati più noti sono il Nuovo cuoco milanese economico

(1829) di Gian Felice Rulaschi, e vari almanacchi o manuali come Il cuoco

di buon gusto (1850).

La cucina veneta, di antica tradizione, offre antipasti come i “bovoletti”

(lumachine), le sardelle e altri pesci; risotti con frutti di mare e seppie,

prodotti tipici come i prosciutti di San Daniele e le luganeghe, la polenta,

preparazioni a base di baccalà, trippa, pollame e selvaggina e pesci come il

“bisato (anguilla) in tecia”.

Più fresca e semplice è la cucina ligure, caratterizzata, oltre che dal

pesce fresco, dall’impiego di verdure e di erbe aromatiche: ricordiamo il

minestrone con il basilico, il pesto, il cappon magro a base di verdure e

pesce, la burrida, la tora Pasqualina, la panissa di ceci, le trenette e i ravioli.

Due manuali, pubblicati verso la metà del secolo, riportano queste ricette

igieniche ed economiche: la Cucineria genovese di G.B e G. Ratto e la Vera

cucineria genovese di E. Rossi.

Anche in Toscana si preferiscono piatti semplici come la costata alla

fiorentina, l’acqua cotta e la pappa di pomodoro, contorni di verdure non

troppo elaborati; fra le paste sono tipiche le pappardelle al sugo di lepre;

Livorno è nota per il caciucco e le triglie alla livornese, mentre in tutta la

regione sono diffusi dolci caratteristici venduti da ambulanti: il

castagnaccio, i bomboloni, oltre al panforte e ai ricciarelli di Siena. Da

ricordare il Cuciniere economico (1870) redatto da F. Grandi, cuoco di una

famiglia principesca di Firenze.

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La cucina emiliana e romagnola era già caratterizzata nell’Ottocento

dalla ricchezza di salumi e formaggi che ancor oggi ne costituiscono il

vanto: il prosciutto, coppa, mortadelle di Bologna, il culatello di Parma, lo

zampone di Modena. Oltre che come piatto a sé, i salumi più pregiati erano

utilizzati per i ripieni di anolini, ravioli, tortellini e cappelletti, confezionati

con sfumature di gusto diverse per ciascuna località.

La costa romagnola e marchigiana era ricca di pesce, che veniva tra

l’altro impiegato per il “brodetto”, mentre la porchetta era tipica

dell’Umbria.

La cucina romana offriva alcuni dei ricchi piatti che la caratterizzano

ancor oggi: fettuccine, gnocchi, spaghetti “alla matriciana”, abbacchio alla

cacciatora o in costolette, saltimbocca; numerosi formaggi tra cui la pregiata

provatura di bufala, il pecorino e la ricotta. Al romano V. Agnoletti si deve

il manuale la Nuova cucina economica edito nel 1819.

Due opere, assai diverse tra loro, dedicate alla gastronomia e agli usi

napoletani, destano particolare interesse: La Cucina teorico-pratica

pubblicata nel 1837 da I. Cavalcanti duca di Buonvicino, e il Ventre di

Napoli (1884) di M. Serao. Fra i piatti più tipici erano: timballi di vermicelli

o maccheroni con sughi di pomodoro o di pesce, dolci come le zeppole o la

pastiera, “nu bellu piattu de trippa”, la pizza, la salsa di pomodoro, la

“mmenestra maritata” e le “cauzuncielle de pasta cresciuta”30.

Le altre cucine meridionali sono caratterizzate da piatti piccanti, spesso a

base di pesce, da formaggi come la ricotta, le provole e il caciocavallo. La

cucina siciliana offre piatti di pasta riccamente conditi: cannelloni, pasta con

le sarde, i “maccheroni con milinsane” ricordati anche dal Cavalcanti. I

pesci, alimento base in tutta l’isola, sono serviti a beccafico, il pesce spada

alla messinese, il nasello alla palermitana, o in minestre elaborate come il 30 Cfr, da Storia della gastronomia, M. L. Migliari e A. Azzola, Edipem, Novara 1983; alla seconda edizione del libro il Cavalcanti aggiunse una vivace appendice in dialetto sulla “vera cucina casareccia”, qui sono presentate, con commenti familiari ed espressioni colorite, alcune fra le più genuine ricette popolari, come le sopra citate.

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“cuscussù” trapanese, di origine araba. Fra i piatti di verdura è famosa la

“caponata” a base di melanzane, mentre ceci, fave e lupini sono spesso

offerti da venditori ambulanti; tutta l’isola è rinomata per la produzione di

dolci tra cui spiccano i cannoli con la ricotta, la cassata, i sorbetti e gelati

vari.

Questo breve elenco, forzatamente incompleto, dà solo un’idea della

varietà del panorama gastronomico italiano. Il processo di diversificazione

occupò l’intero secolo XIX e, paradossalmente, fu accelerato e quasi

favorito dall’unificazione del Paese.

Verso la fine del secolo, e per la precisione nell’anno 1891, fu dato alle

stampe un Manuale pratico per le famiglie il quale autore “… aveva saputo

riallacciarsi ad una tradizione di cuochi letterati e maestri che, dal

Rinascimento in poi, costituì un aspetto per nulla secondario della vita

umanistica delle nostre corti, e rielaborare per una società nuova di

borghesia e di popolo una materia che era stata gelosamente custodita e

trasmessa per principi e re, congiungendola al filone della cucina popolare

e regionale, in una sintesi che, per l’epoca in cui fu fatta, acquista un suo

preciso e importante significato storico31”.

Il libro s’intitolava “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene.

Manuale pratico per le famiglie.” ed autore, all’epoca settantunenne, ne fu

Pellegrino Artusi.

2.2 Pellegrino Artusi.

È comodo abitare luoghi comuni: hanno un nucleo (almeno) di verità e

consentono ipotesi plausibili in situazioni sconosciute.

31 Prefazione di Luigi Volpicelli a “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene”

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C’è un luogo comune in cui convivere confortevolmente con Pellegrino

Artusi: quello del padre fondatore di una cucina nazionale italiana, che tiene

per il manico un melting pot unificato di cucine e di lessici nazionali.

Pellegrino Artusi nacque a Forlimpopoli il 4 agosto 1820, da Teresa

Giunchi e Agostino. Dopo gli studi al Seminario di Bertinoro, comincia ad

occuparsi degli affari paterni. Proprio agli affari e alla vita di bottega, una

drogheria che era in realtà “un guazzabuglio d’ogni cosa un poco”, il padre

di Pellegrino avrebbe voluto avviare il figlio32.

A segnare una svolta nella vita del giovane Pellegrino e della sua

famiglia fu la famosa incursione del Passatore a Forlimpopoli, il 25 gennaio

1851. Nella stessa notte in cui fece irruzione nel teatro cittadino, la banda

del celebre brigante con un sotterfugio, riuscì a entrare nella casa del futuro

gastronomo e fare man bassa di denaro e oggetti preziosi. Il colpo

banditesco, al di là del danno economico, segnò profondamente la famiglia

Artusi: Gertrude, una delle sorelle di Pellegrino, per lo spavento impazzì e

fu internata in manicomio. L'anno successivo la famiglia Artusi lasciò

Forlimpopoli e si trasferì a Firenze, dove il trentaduenne Pellegrino si

dedicò all'attività commerciale, divenendo capofila di un buon commercio

di seta con la Romagna al quale aggiunge, cosa peraltro abbastanza

consueta, l’esercizio di un’attività para-bancaria e infine una propensione

all’investimento finanziario di un certo successo. Artusi continuò a vivere in

Toscana dove morì nel 1911 a 91 anni, ma mantenne sempre vivi i rapporti

con la città natale.

La lunga vita di Pellegrino Artusi si snoda lungo i decenni cruciali di

quella che viene comunemente definita “l’età del progresso”: ebbe la

possibilità di percepire le imponenti trasformazioni di mentalità che

accompagnarono la fine dell’antico regime e il sorgere di una cultura, di un

gusto, di un sistema sociale compiutamente borghesi. Egli stesso,

32 P. Artusi, Autobiografia, a cura di A. Capatti e A. Pollarini, Milano, il Saggiatore

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d’altronde, pur provenendo da un ambiente provinciale, avrebbe dimostrato

una certa abilità nell’intersecare le aspirazioni dell’opinione pubblica, nel

saperne interpretare i desiderata, nel cogliere l’importanza di un medium (il

manuale), che nelle sue caratteristiche fondamentali (concisione e

concretezza, rapidità di consultazione, chiarezza nell’esposizione) sembrava

riassumere i lineamenti stessi della comunicazione “borghese”33.

Pellegrino Artusi, in questo figlio non degenere del suo tempo, aderiva

dal punto di vista intellettuale al moto del progresso quanto a stili di vita

(quegli stili di vita che, a partire dal 1860, debordarono dai centri principali

della penisola anche in periferia: letture, moda, innovazioni tecnologiche,

infrastrutture modernizzanti), ma se ne allontanava bruscamente allorché si

trattava di discutere, anche solo nelle sue distorsioni più evidenti, quello che

possiamo definire il quadro sociale “possidente” in cui era collocata l’Italia

postunitaria34.

Nonostante l’adesione risoluta ai meccanismi del mercato editoriale in

qualche modo connessi all’accelerazione del “tempo dell’acculturazione”

immanente alla vague progressiva, Artusi non fu mai, però, un uomo

d’ideali avanzati. II suo profilo di prudente notabile periferico, anzi, rende

piuttosto incredibile, e forse anche per questo interessante, la disinvoltura

dimostrata nell’assumere i panni, in età non più verde, del nume tutelare di

una “scienza gastronomica” dispensata amabilmente alle signore dell’età

umbertina (e di quelle che sarebbero seguite) nel segno di una koinè se non

33 Cfr., fra i contributi più recenti, A. Pollarini (a cura di), La Cucina Bricconcella.

1891/1991. Pellegrino Artusi e l'arte di mangiar bene cento anni dopo, Bologna, Grafis, 1991. Su Artusi e l’ambiente forlimpopolese cfr., inoltre, i contributi contenuti in "Forum Popili", I (1961) e A. Roncuzzi, Pellegrino Artusi. (Vita, opere, tempi suoi), nuova ed., Forlimpopoli, Ed. dell'Accademia Artusiana, 1990. Ovvio, infine, il riferimento alla magistrale introduzione di P. Camporesi all'edizione einaudiana della Scienza in cucina e l'arte di mangiar bene (Torino, Einaudi, 1970, pp. IX-LXX).

34 Sulle origini di questa mentalità cfr. S. Lanaro, Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia, 1870-1925, Venezia, Marsilio, 1979.

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persuasivamente “nazionale”, per lo meno di ceto, di status35.

La prima edizione (1891, tiratura 1000 copie) de La Scienza in cucina

era composta di sole 475 ricette, dall’Appendice, dal Prefazio e da una

“dedica ai gatti” poi soppressa nelle edizioni successive. Dal 1891 al 1910

Artusi lavorò alacremente all’ampliamento di questo primo corpo di ricette

sino a giungere, nel 1909, alle 790 che costituiscono la versione attuale del

libro. È lo stesso Artusi a raccontare le peripezie della sua celebre opera

nella introduzione che intitolò significativamente “Storia di un libro che

rassomiglia alla storia di Cenerentola”; dal severo giudizio del professor

Trevisan che sentenzia “Questo è un libro che avrà poco esito” all’aneddoto

dei forlimpopolesi che, avendo vinto due copie del libro in una lotteria,

andarono a venderle dal tabaccaio non sapendo che farsene. Ma il successo

alla fine arrivò e fu travolgente: in vent’anni ne furono stampate 14 edizioni

tutte curate dall’autore stesso; nel 1931 le edizioni erano giunte a quota 32 e

“l’Artusi” (ormai veniva chiamato con il nome dell’autore) era uno dei libri

più letti dagli italiani, assieme a “I promessi sposi” di Manzoni e all’opera

di Collodi, “Pinocchio”.

Nell’operazione di Artusi era sottesa un’ambizione non esplicitamente

espressa ma tale da esserne lo snodo: di mettere assieme un qualcosa che

potesse apparire come un codice, o quanto meno una sintesi antologica,

della cucina italiana.

Ancora oggi si contano innumerevoli edizioni, rivisitazioni, traduzioni

(inglese, tedesco, francese, olandese ecc.) e una diffusione internazionale

degna del “valore letterario preminente del libro, della sua appartenenza

alla cultura umanistica più che a quella gastronomica36”.

Ad oltre un secolo di distanza dalla prima edizione del libro, i discorsi e

i dibattiti, sull’attualità o meno del volume, si sprecano. Nella seguente 35 Cfr., più in generale, su questi aspetti, J.-L. Flandrin, M. Montanari (a cura di), Storia

dell'alimentazione, Roma-Bari, Laterza, 1997. 36 Tratto da Artusi 2000, introduzione di Folco Portinari, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2000.

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analisi, ci proponiamo di porre in risalto i punti chiave dell’opera artusiana,

i valori in essa racchiusi e sapientemente custoditi.

Valori – quanto mai attuali – quali l’igiene, l’economia, la stagionalità

dei prodotti e il loro buon gusto, la salute; tutti temi ampiamente rivalutati e

discussi ai giorni nostri. Dall’Artusi ci separano cent’anni di sfrenato

progresso scientifico e tecnico; nell’arco di un secolo l’Italia è passata dalla

fame alle diete, dalla penuria all’opulenza, dal territorialismo al

cosmopolitismo, dalla gioia serena di mangiare, alla paura di nutrirsi troppo

e soprattutto male, cambiando così radicalmente il proprio assetto sociale,

culturale ed economico. Sono cambiati i ritmi, le culture, i linguaggi, le

differenze di classe, gli stili di vita, i mercati, l’immaginario individuale e

collettivo. Ed è cambiata anche la geografia dei consumi alimentari. La

crescita della cultura gastronomica, la raffinatezza del gusto, la possibilità di

poter scegliere i prodotti – e i ristoranti – migliori e più diversi tra loro e una

maggiore disponibilità economica, hanno favorito il diffondersi di un

consumismo diverso.

2.3 Marketing artusiano.

La scienza in cucina rappresenta un caso nella storia editoriale italiana.

Dopo essere stato rifiutato dai più importanti editori dell’epoca e bocciato

dai critici, un secolo dopo, è diventato uno dei libri italiani più venduti in

assoluto. Artusi, romagnolo di Forlimpopoli, letterato senza successo37,

gastronomo dilettante, di professionista banchiere a Firenze, si trasformò in

editore di sé stesso. Dopo aver fatto pubblicare a proprie spese dal tipografo

fiorentino Salvatore Landi le prime mille copie, Artusi non solo applicò una

37 Pubblicò due volumetti di argomento letterario: “Osservazioni in appendice a Trenta Lettere di Giuseppe Giusti”, 1881; “Vita di Ugo Foscolo. Note al Carme dei Sepolcri.”, 1878, presso la Tipografia di G. Barbera, Firenze.

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tecnica di marketing assai sofisticata (la vendita per corrispondenza) e

innovativa per la fine dell’Ottocento, ma addirittura acquistò degli spazi

pubblicitari in alcuni giornali per far conoscere il suo testo. Ma procediamo

con ordine.

Il dibattito sulla sua reale o presunta “attualità gastronomica” trascura il

fatto che l’autore, era a sua volta, più un “adattatore” che un “creatore” di

ricette. Viene quindi messo in secondo piano il suo talento di “divulgatore

di grandissima classe e genio assoluto del marketing gastronomico38”.

Innanzi tutto la sua straordinaria modernità produttiva. Artusi, che è

senz’altro un bon vivant a cui piace il “bello e il buono ovunque si

trovino39” ma che, altrettanto certamente, non è un professionista della

ristorazione è nemmeno un autentico gourmet, un “professionista della

degustazione” come Brillat-Savarin, mette in piedi una “macchina”

organizzativa degna del miglior Escoffier.

In virtù di questa struttura collauda e mette a punto le numerose ricette

che dal 1981 gli pervengono in abbondanza e con regolarità da lettori e

corrispondenti sparsi per tutt’Italia, e che verranno utilizzate per i

progressivi ampliamenti delle edizioni seguenti. Il risultato è un ricettario

che – almeno fino a quando ingredienti e tecnologie sono rimaste in qualche

modo equiparabili a quelle dall’Artusi – qualunque massaia ha potuto

utilizzare a “colpo sicuro”, senza problemi di adattamenti o di

interpretazioni40.

Altro elemento concerne la scoperta dello stile e quindi del target, del

pubblico di riferimento. Artusi intuisce che se vuol vendere un libro di

cucina (che, non va dimenticato, a quel tempo era considerato una sorta di

sottoprodotto culturale) alla nuova classe borghese e alla piccola borghesia

38 La cucina bricconcella, 1897/1991, Pellegrino Artusi e l’arte di mangiar bene cent’anni dopo, a cura di Andrea Pollarini, Grafis Edizioni, 1991 39 Cit. da La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Pellegrino Artusi, 1891 40 La cucina bricconcella, 1897/1991, Pellegrino Artusi e l’arte di mangiar bene cent’anni dopo, a cura di Andrea Pollarini, Grafis Edizioni, 1991

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emergente non può limitarsi ad inserirvi “ricette borghesi41” ma deve

utilizzare una forma espositiva che consenta a questo tipo di pubblico di

“esibire” il manuale senza remore né vergogne.

Artusi non è certo il primo ad applicare “lo stile” come metodo

nell’affermazione di un oggetto estetico, come sistema di rapporti tra un

autore ed il “suo pubblico”, ma è senz’altro il primo – e probabilmente, a

tutt’oggi, anche l’unico – ad applicare coerentemente questo “programma”

ad un manuale di gastronomia42.

La scienza in cucina è un libro che oggi definiremmo market oriented e

“lo stile” è lo strumento di cui Artusi si serve per differenziarsi da altri

ricettari (costruiti, come nota Piero Camporesi, su méditations de

gastronomie trascendante43 e quindi inevitabilmente product oriented), per

penetrare il proprio mercato di riferimento. Lo stile è un’ossessione

sapientemente coltivata e i numerosi quaderni di appunti (in cui sono

diligentemente riportate belle frasi, modi di dire, sentenze ed altro ancora

riprese da testi letterari, commedie, dizionari) rinvenute nell’archivio

artusiano di Forlimpopoli, ne sono la più evidente testimonianza.

In un epoca – come l’Ottocento – popolata di ricettari anonimi o

pseudonimi, di “cuoche risparmiatrici” e di “cuochi di buon gusto”, di

“cuciniere genovesi” e di “cuochi piemontesi perfezionati a Parigi”

(tradizione che permarrà per tutta la prima parte del XX secolo con le varie

Petronille e Zie Caroline), Artusi si afferma non solo come “autore” ma

41 Piero Camporesi, a questo proposito, nota: “… il fascino di un ‘manuale’ appetitoso e stimolante alla portata di tutti, il piacere della tavola reso concreto, coerente, accessibile: la cucina dei ‘signori’ sdivulgata e democratizzata. Perché cibarsi di quei piatti, valeva appropriarsene, possedere, attraverso la fruizione e la digestione di quei cibi, l’illusione di appartenere a un mondo privilegiato: è lo spirito borghese della belle époque che tenta l’arrampicata verso le classi superiori dalla porta della cucina”. Da “Introduzione” a P. Artusi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Einaudi, 1991. 42 La cucina bricconcella, 1897/1991, Pellegrino Artusi e l’arte di mangiar bene cent’anni dopo, a cura di Andrea Pollarini, Grafis Edizioni, 1991 43 Piero Camporesi, “Introduzione”, cit.

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addirittura come griffe, come marchio di qualità di se stesso44. Questa

prerogativa di autore da un lato serve a facilitare quel dialogo con i lettori e

dall’altro diviene il principale claim promozionale del prodotto-libro.

Fa si, inoltre, che ancora oggi, in quella sorta di “mitologia senza eroi”

che è la gastronomia italiana, l’Artusi sia in qualche modo l’unico “eroe”

riconosciuto, l’unico personaggio la cui nomea ha attraversato più di una

generazione, l’unico “marchio di qualità” spendibile45.

Per quanto riguarda il sistema di diffusione del libro, l’autore diviene

egli stesso industria culturale costituendo un meccanismo di “direct

marketing46”: affermatosi rapidamente come “marchio di qualità di se

stesso”, Pellegrino Artusi, piazza d’Azeglio 25, Firenze, è un’indicazione

univoca, un marchio di fabbrica. Forte del successo del volume, avvia un

dialogo coi lettori che non solo gli chiedono copie del libro (che lui stampa

e distribuisce in esclusiva) ma gli chiedono, o gli offrono, indicazioni e

suggerimenti. Artusi mantiene fino all’ultimo il controllo dell’intero

processo di produzione-vendita del libro: negozia con il tipografo Salvatore

Landi ogni più piccolo dettaglio relativo all’edizione del volume;

distribuisce con oculatezza e senza concedere sconti o dilazioni il volume

alle principali librerie; cura personalmente la distribuzione delle singole

copie del manuale ai lettori che ne fanno richiesta; rifiuta fino all’ultimo

qualsiasi ipotesi di cessione dei diritti o di condizione.

Sostiene l’affermazione del libro con piccole ma costanti azioni

promozionali: inserzioni, richieste di recensioni, omaggi a circoli femminili

ed enogastronomici. Sottopone il libro ad una costante azione di restyling.

Quattordici nuove, ed ampliate, edizioni in meno di vent’anni si giustificano

certo col desiderio di ospitare le scoperte ed i suggerimenti che continuano a

pervenirgli, ma sono anche un modo di rendere obsoleto il manuale – e 44 La cucina bricconcella, 1897/1991, Pellegrino Artusi e l’arte di mangiar bene cent’anni dopo, a cura di Andrea Pollarini, Grafis Edizioni, 1991 45 Ibidem 46 Ibidem

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quindi imporre il riacquisto agli affezionati lettori – in pratica ogni anno e

mezzo47.

2.4 Le ragioni del successo.

Quali sono, quindi, le ragioni del successo così travolgente nel tempo di

questo libro di cucina? Forse una prima motivazione venne individuata

dall’Artusi stesso, che scrisse nella prefazione alla quattordicesima edizione

al suo editore poco fiducioso sul futuro del libro:

Sappia però, e lo dico a malincuore, che con le tendenze del

secolo al materialismo e ai godimenti della vita, verrà giorno, e non

lontano, che saranno maggiormente ricercati e letti gli scritti di

questa specie: cioè quelli che recano diletto alla mente e danno

pascolo al corpo, a preferenza delle opere, molto più utili all’umanità,

dei grandi scienziati. Cieco chi non vede! Stanno per finire i tempi

delle seducenti e lusinghiere ideali illusioni.

L’altra ragione è che La scienza non è un semplice ricettario scritto in

maniera asettica con puro linguaggio tecnico-professionale, ma il tentativo

di mostrare l’unità d’Italia del gusto.

In quei tempi in cui i mass media erano ancora ben lontani dal far sentire

la loro irresistibile azione, l’Artusi ebbe il civilissimo compito di unire e

amalgamare, in cucina prima e poi, a livello d’inconscio collettivo, nelle

pieghe insondate della coscienza popolare, l’eterogenea accozzaglia delle

genti, che solo formalmente si dichiaravano italiane48. Le cucine regionali,

avendo in esso un accorto dosaggio, godettero di un rilancio su scala

47 Ibidem 48 Cit. da “Introduzione” di Piero Camporesi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Einaudi, 1991.

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nazionale: non fu estratto da esse il meglio, ma quanto poteva essere

confezionato per il gusto comune senza eccessive ripugnanze

campanilistiche; quanto poteva arrivare alla tavola dell’italiano medio. La

diffusione fu soprattutto fra la borghesia, anzi il manuale fu soprattutto

borghese e il successo, si potrebbe dire classista.

I contadini e le classi meno agiate continuarono a sfamarsi con i cibi di

sempre, senza accorgersi che sulle altre tavole italiane le cose stavano

cambiando. In seguito, a mano a mano che il potere d’acquisto della società

nazionale aumentava, la fetta della torta venne spartita fra un numero

sempre crescente di italiani. Piero Camporesi, nella sua “Introduzione” alla

Scienza in cucina, fa notare che sarebbe inutile, se non futile e antistorico,

accusare Pellegrino Artusi di riformismo borghese: non avrebbe potuto

dare a tutti un piatto di minestra; la sua non era una cucina per mandarini,

ma per la classe media: perciò, considerati i tempi, fu sufficientemente

innovatore e rivoluzionario.

Diede all’Italia un codice alimentare borghese, divenendo pioniere,

senza saperlo, del livellamento borghese della tavola. Ma Artusi non poteva

prevedere che l’industrializzazione del paese, le emigrazioni interne,

l’invasione turistica, i mutati rapporti fra le classi avrebbero portato alla

pianificazione delle abitudini alimentari e di gusto degli italiani.

Probabilmente il primo a non accettare la pianificazione sarebbe stato con

ogni probabilità lui stesso. Soprattutto oggi, nell’epoca in cui

l’alimentazione da arte sta scadendo ad ancella della tecnica, e la chimica

sta soppiantando la semplice igiene49, nell’epoca in cui il progresso

tecnologico avanza, non curante delle conseguenze, il consumatore ha perso

il senso delle “quattro stagioni”, delle millenarie leggi del sole e dei cicli

stagionali. Il “surgelato” offre in qualsiasi momento, qualsivoglia prodotto,

49 Cit. da “Introduzione” di Piero Camporesi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Einaudi, 1991.

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da qualsiasi parte del globo; oggi, il precetto che più caratterizza l’opera,

l’elemento che più si scontra con le moderne leggi di mercato, è proprio il

rispetto della stagionalità. Artusi, filosofo della tavola, credeva fermamente

nel rapporto inscindibile uomo-natura, uomo-stagioni; rinverdisce questa

tradizione, ormai spenta, in un ultimo, estremo tentativo di ancorare la

cucina dell’uomo al ciclo dei giorni e dei mesi. Ma probabilmente egli

resterà l’ultimo philosophe de table a credere ancora nella natura: dopo di

lui la cucina non conosce più il tempo e le sue scansioni.

Citando Camporesi diciamo che l’importanza di Artusi è notevolissima

perché i gustemi artusiani sono riusciti a creare un codice di identificazione

nazionale là dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani.

Ricco di consigli di economia, di igiene, di temperanza, nel manuale

emerge frequentemente il sottofondo educativo, tanto da farne un classico

del ménage familiare in tempi in cui l’economia e il risparmio erano miti

necessariamente validi e attivi. Si tenga presente che Artusi, di estrazione

borghese-mercantile, travasava nella Scienza in cucina tutta la sua morale di

classe, riuscendo a costruire - ed allo stesso tempo esprimendo – un rituale

gastronomico in cui la classe media del tempo riconosceva e identificava la

propria coscienza collettiva; è da questa identificazione che nasce il valore

socio-educativo del libro.

Il conservatorismo cucinario di Artusi è perfettamente coerente con una

tradizione vecchia di secoli che riserva fagiani e beccafichi ai ricchi e rape

e fagioli ai poveri50; accetta e conosce le disuguaglianze ma lui, comunque,

scrive per i benestanti e non lo preoccupa il problema dell’alimentazione

delle classi popolari: “S’intende bene che io in questo scritto – egli confessa

– parlo alle classi agiate, che i diseredati dalla fortuna sono costretti, loro

malgrado, fare di necessità virtù e consolarsi riflettendo che la vita attiva e

frugale contribuisce alla robustezza del corpo e alla conservazione della 50 Cit. da “Introduzione” di Piero Camporesi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Einaudi, 1991.

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salute”. In nessuna delle successive edizioni, cambierà il suo punto di vista,

restando coerente, sempre, con quella sua morale borghese, nutrita di buon

gusto e parsimonia, ma chiusa in se stessa, sorda e un poco gretta51. Ma

anche questo aspetto ha contribuito al successo del manuale che,

espressione della borghesia della belle époque, è incredibilmente diventato

un libro popolare in seguito alle trasformazioni sociali ed economiche

avvenute nel corso degli anni. Scritto, appunto, per borghesi, nel tempo

viene utilizzato anche dalle classi popolari: contadine e operaie. È diventato

negli anni un libro interclassista a differenza degli altri ricettari o manuali

che erano rivolti esclusivamente – o quasi - alle corporazioni professionali.

Artusi si fa promotore di un sistema cucinario che si raccomanda per il

temperato buon gusto, il fondamentale principio di non mangiare oltre il

bisogno e che non conosce sprechi, splendori insoliti e stravaganze. Una

filosofia gastronomica che in nome dell’igiene, della fisiologia e della

buona salute combatte gli eccessi e il principio del piacere su cui si fondava

la cucina dei secoli precedenti. Una professione di fede cucinaria piuttosto

dimessa e pedestre, se non fosse per l’arguto dettato e il tono scanzonato e

ambiguamente parodistico a darle un piacevole sapore. L’unica vibrazione

si avverte nella difesa moralistica della propria sobrietà, nella

preoccupazione che la sua impeccabile immagine borghese possa essere

fraintesa52.

La scienza in cucina, infatti, contiene un tentativo di saldatura tra la

cucina dei signori, eredi della tradizione gastronomica rinascimentale,

cortigiana e curiale, realizzata con opulenza, scenografia, ottenuta con un

utilizzo smodato di carni, selvaggina, salse, spezie rare, e la cucina dei

poveri fondata su un’alimentazione di pura sopravvivenza fatta di pane e

51 Ibidem 52 “Non vorrei però che per essermi occupato di culinaria mi gabellaste per un ghiottone o per un gran pappatore: protesto, se mai, contro questa taccia poco onorevole, perché non sono né l’una né l’altra cosa” . P. Artusi, La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Einaudi.

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polenta. Una filosofia della cucina, dunque, ridotta all’ordine fisiologico da

una parte, e all’ordine economico dall’altra, secondo un ideale che Artusi

traduce in un sistema di ricette rispecchiante un sistema politico-economico,

la struttura della società del suo tempo e il mito dell’ordine borghese.

Come già accennato in precedenza, nella cucina borghese italiana si

profila evidente la differenza tra la cucina del nord, ricca di burro, grasso e

strutto, e quella del sud nella quale primeggiano l’olio e l’aceto. Due mondi

gastronomici, toscano e padano, che trovano nel manuale l’arte di fondersi.

Pellegrino Artusi, romagnolo e quindi parzialmente padano (il “ruvido

estremo sud-est non più padano, dell’Italia settentrionale” di cui scrive

Gianfranco Contini53), da lungo tempo integrato nel mondo fiorentino,

opera una felice mediazione-contaminazione fra due stili cucinari diversi:

quello romagnolo-bolognese e quello toscano-fiorentino. Ecco quali sono i

due assi sui quali s’inseriscono le altre derivate regionali, le componenti

minori ma necessarie per portare La Scienza a livello nazionale.

Questa dualità del “grave” (padano) e del “leggero” (toscano) – dualità e

non dualismo perché le due categorie s’integrano e si miscelano nel

panorama omogeneo del codice artusiano – presuppone una tradizione

culinaria diversa, non parallela, su cui il fattore climatico gioca un ruolo non

secondario: “per digerirla – la minestra di tagliatelle – ci vuole un’aria

come quella di Romagna54”. La diversità è particolarmente percepibile nel

settore delle minestre (e anche qui si ripropone una dicotomia fra la “zuppa”

toscana e la “minestra” romagnolo-padana), dove le minestre padane

costituiscono la piattaforma del sistema-minestra: Bologna coi tortellini, gli

stracchetti, Parma con gli anolini, l’area lombardo-milanese con gli

agnellotti ecc. Certamente non mancano apporti da altre cucine regionali: il

Veneto con i suoi risi, la Sicilia (e Napoli) con i maccheroni con le sarde,

53 Cit, da “Introduzione” di Piero Camporesi a La scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene di P. Artusi. 54 Cit. ricetta n. 71 Tagliatelle all’uso di Romagna.

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Roma con gli gnocchi alla romana, Genova con i ravioli alla genovese e poi

ancora Milano col risotto, Arezzo con le pappardelle all’aretina ecc. Ma è

indubbiamente la Romagna a fornire il più cospicuo contributo; non per

niente Artusi era nato in una terra in cui aveva valore rituale e quasi

religioso la credenza popolare che “la mnestra l’è la bieva dl’òman55”.

Prendendo spunto da quest’ultimo detto, non possiamo far meno di

notare che, altra chiave del successo de La Scienza, è sicuramente il modo

di esprimersi: lo stile. Il manuale artusiano, gremito di aneddoti, bozzetti,

considerazioni stravaganti, ritratti di persone, storielle, avvenimenti è,

citando Camporesi, un romanzo della cucina, un serbatoio di notizie e

osservazioni naturalistiche, scientifiche, dietetiche, igieniche, per cui

quando la massaia o il cuoco lo aprono, si trasformano in curiosi lettori. La

maniera vivace, divertente e gioiosa con cui parla di gastronomia conquista

facilmente il lettore anche perché, a differenza degli altri autori

(contemporanei e non), non usa un gergo pedante, noioso, imperativo e

didattico. A questo irto e ibrido frasario degli altri manuali, Artusi

sostituisce una terminologia rigidamente italiana attingendo al toscano:

terminologia forse troppo fiorentineggiante, ma che ebbe il grande merito di

uniformare il lessico cucinario, rendendolo ben chiaro, univoco e generale.

Nell’Artusi c’è un anima, quella del gastronomo, che cerca di trovare

un punto di equilibrio tra il piacere e la salute: non possiede la disinvolta

superiorità del gentiluomo francese ma la cordiale bonomia del borghese

italiano e l’incorreggibile vizio (o virtù) della didattica spicciola,

dell’insegnamento a tutti i livelli e in tutte le occasioni. È un manuale in un

tosco-fiorentino già ai suoi tempi passato di moda e perciò leggermente

55 Cit, da “Introduzione” di Piero Camporesi; “La minestra è la biada dell’uomo”, detto romagnolo.

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irreale, e, talvolta preso dalla verve didascalica, dimentica persino le ricette,

come nel caso del “Pavone56”.

Oppure, nel momento di dare la ricetta della “Lingua alla scarlatta”,

“dovendovi parlar di lingua – dice Artusi – mi son venuti alla memoria certi

versi del Leopardi57”; fra gli italiani è l’unico classico moderno della tavola

capace di citare Confucio e Beniamino Franklin, Macchiavelli e

Matusalemme, Linneo e Caterina de’ Medici58. Tutto ciò spiega la capacità

di unificare i pubblici più eterogenei.

La cucina per l’autore romagnolo è una passione poetica. I piatti, di

volta in volta, acquistano una personalità, hanno una storia, non sono

semplici combinazioni di materie prime. Per queste motivazioni l’Artusi è

ancora attuale a dispetto di tanto ostracismo e indifferenza da parte degli

chef e dei critici gastrofori che si limitano a giudicare la tecnica di un piatto.

La Scienza in cucina parla direttamente alle famiglie, alle casalinghe (le

uniche incontrastate regine della casa e della cucina), a coloro che non

hanno istruzione elevata sorvolando la mediazione o l’interpretazione di

chef ed esperti.

56 Ricetta n. 550: “Ora che nella serie degli arrosti vi ho nominati alcuni volatili di origine esotica, mi accorgo di non avervi parlato del pavone, Pavo cristatus, che mi lasciò ricordo di carne eccellente per individui di giovane età. Il più splendido, per lo sfarzo dei colori, fra gli uccelli dell'ordine dei gallinacei, il pavone abita le foreste delle Indie orientali e trovasi in stato selvatico a Guzerate nell'Indostan, a Cambogia sulle coste del Malabar, nel regno di Siam e nell'isola di Giava. Quando Alessandro il Macedone, invasa l'Asia minore, vide questi uccelli la prima volta dicesi rimanesse così colpito dalla loro bellezza da interdire con severe pene di ucciderli. Fu quel monarca che li introdusse in Grecia ove furono oggetto di tale curiosità che tutti correvano a vederli; ma poscia, trasportati a Roma sulla decadenza della repubblica, il primo a cibarsene fu Quinto Ortensio l'oratore, emulo di Cicerone e, piaciuti assai, montarono in grande stima dopo che Aufidio Lurcone insegnò la maniera d'ingrassarli, tenendone un pollaio dal quale traeva una rendita di millecinquecento scudi la qual cosa non è lontana dal vero se si vendevano a ragguaglio di cinque scudi l'uno”. 57 “Il cor di tutte cose alfin sente sazietà, del sonno, della danza, del canto e dell’amore, piacer più cari che il parlar di lingua, ma sazietà di lingua il core non sente”, Giacomo Leopardi. 58 Da “Introduzione” di Piero Camporesi.

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3. L’età contemporanea. Parte seconda.

“Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”. “L’uomo è ciò che mangia”.

Dietro l’apparente ovvietà di queste due celeberrime frasi di Brillat-Savarin

e di Ludwig Feuerbach59 da un lato si nasconde l’infinita complessità che si

deve prendere in considerazione per dimostrarne le ragioni, dall’altro

rivendica un ruolo (oggi perduto?) di assoluta centralità del cibo se si

vogliono leggere e influenzare le dinamiche sottese alla nostra società-

mondo.

3.1 Perdita e recupero del senso della tradizione.

All’inizio del XX secolo, la prospettiva di un’alimentazione in pillole60,

totalmente ed esclusivamente funzionale, non sembrava allora suscitare

alcun timore, bensì al contrario, si manifestava una fiducia profonda nelle

promesse della tecnologia, garante del progresso. Cinquant’anni dopo,

dall’altra parte dell’Atlantico, questa prospettiva era avvertita come

un’eventualità angosciosa61.

Nel corso del secolo due preoccupazioni sono succedute a quelle della

pillola, con più o meno forza a seconda del paese interessato: la salute e

l’identità.

59 Da www.wikpedia.org; Ludwig Andreas Feuerbach (1804 - 1872), filosofo tedesco tra i più influenti critici della religione ed esponente della sinistra hegeliana. 60 W. Parker Chase, The wonder city (1932), New York, cit. in Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari: “Nel 1932, un autore newyorkese immaginava come sarebbe stata la sua città cinquant’anni dopo, nel 1982: New York avrebbe avuto 50 milioni di abitanti, l’Hudson e l’East River sarebbero stati riempiti, la circolazione si sarebbe svolta silenziosamente su strade sospese ai fianchi di immensi grattacieli e ‘gli abitanti si sarebbero nutriti di pillole concentrate’.”. 61 cit. in Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari

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Una prima preoccupazione, la salute, riguarda soprattutto paesi quali

Gran Bretagna, i paesi scandinavi e del Nord Europa e gli Stati Uniti. Le

condizioni di vita in Occidente sono migliorate a vista d’occhio, a partire

dall’allungamento della vita media per arrivare alle condizioni igieniche che

tanto condizionavano la vita dei popoli. Malgrado questi segnali di

miglioramento della salute pubblica, una generale inquietudine, sia da parte

dei medici che dei profani, ha contagiato gran parte della popolazione, ed è

prima di tutto l’alimentazione ad essere sotto accusa. Varie malattie, dai

numerosi tipi di cancro alle patologie cardiovascolari, sono state etichettate

come “malattie da progresso”.

In Francia, in Italia, in Spagna, come pure in altre regioni di tradizione

cattoliche, si nutrono timori anche per l’identità culturale. Si teme che il

rapporto privilegiato intrattenuto col cibo quotidiano, come piacere, atto di

sciabilità e di comunicazione, venga lentamente eroso, penetrato e

disgregato da un inesorabile processo che viene chiamato

“americanizzazione” e il cui vettore non è più la fantomatica pillola, ma

l’onnipresente hamburger62.

Industrializzazione, razionalizzazione e funzionalizzazione: dalla fine

del XIX secolo, questa triplice dimensione appare in maniera lampante nelle

modificazioni che hanno sconvolto la nostra alimentazione.

Ad avere un ruolo fondamentale in questo contesto di sviluppo, oltre alle

varie scoperte tecnologiche già citate precedentemente, è soprattutto la

grande distribuzione moderna di massa, sviluppatasi attorno al 1930 negli

Stati Uniti.

Dopo la guerra la cucina europea era praticamente distrutta: poco cibo

disponibile, per di più razionato, non consentiva di fare grandi cose tra i

fornelli e la ripresa gastronomica dovette aspettare la metà degli anni

Cinquanta per riscoprire un forte dinamismo. 62 cfr. in Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari.

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Nell’Europa occidentale, è soprattutto a partire dagli anni Sessanta che

si diffondono i supermercati, contemporaneamente, in particolare,

all’automobile, alla televisione, agli svaghi e al miglioramento del livello di

vita e d’istruzione. Questa rivoluzione della distribuzione di massa ha

conseguenze almeno altrettanto importanti dell’industrializzazione della

produzione agroalimentare (la quale a partire dalla seconda metà del XX

secolo continua a concentrarsi ed a intensificarsi, passando dalla policoltura

alla monocoltura su vaste superfici) che del resto ne è fortemente

influenzata. L’alimentazione diventa un mercato di consumo di massa: si

tratta ormai di prodotti altamente trasformati, con procedimenti industriali

avanzati, concepiti e commercializzati con l’aiuto delle più recenti tecniche

del marketing, del pakaging e della pubblicità63.

In due o tre decenni, una crescente parte del lavoro culinario, in casa

come al ristorante, si è spostata dalla cucina alla fabbrica: gli alimenti

diventano, una volta trasformati dall’industria, “alimenti-servizio64”.

Mentre l’alimentazione diventa un mercato di consumo di massa, la

ristorazione subisce un’evoluzione in parte simile. Storicamente la casa è

sempre stata assimilata al focolare, cioè alla cucina, ma con l’avvicinarsi del

terzo millennio, l’alimentazione si identifica sempre meno necessariamente

con l’universo domestico. Gli stili di vita sono stati profondamente

modificati dall’urbanizzazione, dall’industrializzazione degli anni

Cinquanta e Sessanta, dalla professionalizzazione delle donne,

dall’innalzamento del livello di vita e d’istruzione, dal generalizzarsi

dell’automobile, dal più ampio accesso della popolazione agli svaghi, alle

vacanze e ai viaggi.

La ristorazione si sviluppa nell’impresa, a scuola, nella collettività: a

partire dagli anni Cinquanta in Europa (negli Stati Uniti il primo fast-food è

del 1937) appaiono diverse formule di self-service e, successivamente solo 63 Ibidem. 64 B. Sylvander, l’Alimentation-service. Resultats d’enquetes, Toulouse 1988.

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verso la fine degli anni Settanta, appare il fast-food d’ispirazione americana:

la perfetta applicazione alla ristorazione del taylorismo, della divisione e

della razionalizzazione del lavoro65. Negli anni a seguire, dopo essersi

affermato già solidamente negli Stati-Uniti, il fast-food, di cui McDonald’s

ne è solo il più lampante e celebre degli esempi, cominciò ad espandersi nel

mondo, inizialmente con alterne fortune, incontrando ostacoli ideologici in

quasi tutti i paesi del vecchio continente. Ciò perché McDonald’s incarna

più di ogni altro “l’imperialismo americano” che, agli occhi di molti

europei, in particolare del Sud (Spagna, Italia, Francia), minaccia le

tradizioni culinarie, a cui si è tanto più attaccati in quanto il cambiamento di

civiltà le fa evolvere a gran velocità66.

Nonostante l’estrema diffidenza delle loro culture, tutti i paesi del

mondo hanno adottato la Coca Cola ormai da lungo tempo e i fast-food

americani, con in testa l’onnipotente McDonald’s, ormai da trent’anni

stanno raggiungendo la stessa espansione.

La planetarizzazione del settore agroalimentare e la grande distribuzione

introducono una sorta di sincretismo culinario generalizzato. L’agro-

business non distrugge puramente e semplicemente le particolarità culinarie

locali: esso disintegra e integra insieme, produce una sorta di mosaico

sincretico universale o opera, per usare l’espressione che il sociologo Edgar

Morin applica alla cultura di massa, “un vero e proprio cracking analitico

che trasforma i prodotti naturali in prodotti culturali omogeneizzati per il

consumo di massa67”. Il mercato agroalimentare planetario attinge alle

65 … Come osserva Harvey Levenstein nelle sue due opere sulla storia dell’alimentazione nell’America del Nord (Paradox of Plenty), in quale altro paese qualcuno avrebbe potuto tentare, come fa Burger King, di servire “un pasto completo in quindici secondi”?; cit da Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari. 66 Ibidem. 67 Edgar Morin, L’Espirit du temps, Paris 1975.

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tradizioni culinarie locali che ha contribuito a disintegrare, per meglio

diffonderne in tutto il mondo delle versioni omogeneizzate o edulcorate68.

Ma sarebbe sbagliato credere che l’industrializzazione

dell’alimentazione, il progresso dei trasporti e l’avvento della distribuzione

di massa non possano far altro che disgregare e livellare le particolarità

locali e regionali.

Proprio in contrapposizione al diffondersi del fast food e dei cibi

confezionati, molto sentita in ampi strati della popolazione (italiana ma non

solo) è l'esigenza di ricercare sapori antichi, prodotti genuini, cibi semplici

che si rifanno - magari arricchiti - alla cucina povera e alla cucina contadina

d'altri tempi. Una cucina spesso di "recupero" che viene impreziosita da

nuovi apporti e dalla maggiore possibilità di consumi.

Tutto ciò mostra che la “normalizzazione” dei comportamenti alimentari

non ha ancora superato il punto di non ritorno: se i modelli di consumo

tendono a rassomigliarsi sempre di più, la loro omogeneità rimane assai

relativa e più apparente che reale, poiché gli elementi che hanno in comune

sono in effetti interpretati secondo la cultura propria a ciascun popolo e a

ciascun paese: la tendenza ad una maggiore omogeneità dei comportamenti

provoca, per reazione, un forte attaccamento alla propria identità69.

Sul piano dell’alimentazione e della gastronomia, la “riscoperta” della

cucina del territorio e delle tradizioni gastronomiche locali è andata di pari

passo con la negazione dei loro diritti da parte dell’industria alimentare.

L’industria alimentare d’oggi ha permesso di realizzare antichi desideri70

dal momento che ha offerto a tutti, in maniera democratica anche se non

68 cit da Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari. 69 Ibidem. 70 “Solo l’uomo comune si accontenta dei cibi che può offrire il paese” scriveva Cassiodoro per conto del suo sovrano Teodorico, nell’Italia gota del VI secolo; un millennio più tardi il cuoco di casa Gonzaga, Bartolomeo Stefani, nel suo trattato di cucina spiega che il signore non si deve preoccupare del carattere stagionale dei cibi né dei limiti imposti dal territorio, perché con “buona borsa” e “buon destriero” si può avere di tutto

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- 47 -

disinteressata, la possibilità di consumare ogni cosa e di annullare le

differenze regionali. Ma ciò ha scatenato per reazione una ricerca affannosa

e spesso disordinata delle tradizioni locali. La stessa industria alimentare

non ha tardato a impossessarsi di questa nuova esigenza recuperando sul

piano dell’immaginario i valori “poveri” del passato.

Oggi la cucina del territorio e il carattere stagionale degli alimenti sono

diventati valori alti, obiettivi prestigiosi e di primaria importanza: risultato

solo, in apparenza paradossale, di una trasformazione dei processi produttivi

che sembravano dover condurre a un esito esattamente opposto.

3.2 Il paradosso della globalizzazione.

Affrontando il rapporto fra cucina del territorio (tradizioni locali) e

cucina globale (modelli proposti dalle multinazionali del cibo e della

ristorazione), che è uno dei temi scottanti della cultura alimentare

contemporanea, non possiamo prescindere dal fatto che questi due modi di

intendere la gastronomia sono il frutto di una serie di modificazioni che

sono avvenute in Italia e nel mondo, in questi ultimi decenni; sono

modificazioni che investono la struttura produttiva, le abitudini, il costume.

La società italiana è stata per moltissimi secoli profondamente radicata

nei ritmi agricoli. Lo stesso Artusi, seppur vivendo in un secolo in cui il

progresso – allora – raccoglieva fiducia profonda nelle promesse della

tecnologia71, era cresciuto in una terra (quella di Romagna) in cui la vita dei

più, era legata inscindibilmente alle stagioni ed ai suoi ritmi. Anche nel

periodo fiorentino, l’influsso di quella terra antica e dei suoi insegnamenti

in ogni momento dell’anno; Cit. da Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari. 71 cit. in Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari, Editori Laterza, 1996, Roma-Bari

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- 48 -

non venne a mancare, anzi, si ripercuoterà poi anni dopo nel manuale,

tramandando a nuove generazioni quelle briciole di sapere d’una volta.

Oggi invece abbiamo una situazione mutata. Questo è dovuto

fondamentalmente alle modificazioni della struttura produttiva italiana,

all’ampliamento notevole del terziario e anche a una dominazione delle

grandi concentrazioni produttive. A questo si somma una modificazione

delle abitudini, basti pensare (per esempio) all’introduzione del tempo pieno

nelle scuole, all’utilizzo di ticket per i buoni pasto: questi cambiamenti

hanno portato ad un aumento della ristorazione veloce, ad un utilizzo del

piatto unico durante le pause per il pranzo e, più in generale, hanno

contribuito alla diffusione del cosiddetto cibo globale.

Indubbiamente questa globalizzazione è anche dovuta al fatto che c’è

una tendenza a voler consumare i cibi lontano dal luogo di produzione e

lontano dalla stagione in cui sono prodotti. È stato calcolato attraverso

alcuni studi e alcune ricerche, che la stragrande maggioranza dei cibi che

noi consumiamo sono stati trasformati, anche in minima parte,

dall’industria72.

Nella storia della cucina si parla molto e giustamente di tradizione, ma

non bisogna dimenticare il fortissimo elemento di innovazione che

continuamente lavora all’interno della tradizione stessa, perché ogni cucina,

come ogni lingua, si arricchisce di continuo di apporti esterni. I sistemi

alimentari si rimodellano, cambiano nel tempo, accolgono le novità sempre

con cautela ma con curiosità e capacità di rigenerazione, magari riadattando

le novità alla propria storia, al proprio passato.

La cucina del territorio oggi ha raggiunto uno statuto culturale forte,

passando attraverso una vicenda come quella della globalizzazione

alimentare, che sembrava condurre a esiti opposti. È questo il paradosso: in

un mondo effettivamente frazionato come quello antico e medioevale, 72 Franco Mambelli, Festa Artusiana 28 giugno 1998, Atti del convegno studi “cucina globale e cucina del territorio”.

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l’aspirazione era quella di costruire un modello di consumo universale in cui

tutti (quelli che potevano permetterselo) si potessero riconoscere. Nel

villaggio globale della nostra epoca, al contrario, si affermano i valori dello

specifico locale.

L’elogio della diversità, che normalmente si accompagna alla

promozione della cultura gastronomica, non è nostalgia del passato, ma

guarda soprattutto al presente e al futuro.

Se la cucina di territorio è essenzialmente un’invenzione moderna, la

cucina internazionale ha invece (contrariamente a quanto si potrebbe

pensare) radici antiche. Quella romana “mediterranea”, quella medievale

“europea” erano cucine universali, aperte all’intero mondo conosciuto e

frequentato. La loro differenza rispetto ai modelli attuali stava non tanto nel

tasso di “internazionalità” (che, allora come oggi tendeva ad essere globale)

quanto all’ampiezza del corpo sociale coinvolto: un tempo esso era

limitatissimo, circoscritto a una quota minima della popolazione; oggi, pur

non coinvolgendo affatto l’intera società, interessa una percentuale assai più

alta di consumatori. Come dire: le cucine “internazionali” del passato

conoscevano infinite differenze locali73.

Nell’ultimo secolo la tendenza all’uniformità dei consumi – che però

non è una novità – si fa via via più forte, più visibile, sia per il moltiplicarsi

degli scambi interni, sia soprattutto – come già detto – per opera

dell’industria alimentare, cioè di quelle che poi diventano le multinazionali

che controllano i mercati mondiali. È come se l’industria alimentare avesse

creato un nuovo universalismo, questa volta non elitario come quello

medievale, ma di massa: un globalismo di massa74. La tendenza alla

globalizzazione dei consumi, che un tempo coinvolgeva uno strato

sottilissimo della popolazione (le aristocrazie delle corti, le borghesie

73 Cit. da “Il cibo come cultura”, di Massimo Montanari, Editori Laterza, 2004. 74 Cit da, Massimo Montanari, “La cucina del territorio è antica”, Forlimpopoli, Festa Artusiana 28 giugno 1998, Atti del convegno studi “cucina globale e cucina del territorio”.

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cittadine), a poco a poco si è allargata a fasce più ampie: la piccola

borghesia nel corso dell’Ottocento, l’intera popolazione nel corso del

Novecento. Questa espansione sociale della globalizzazione non deve farci

dimenticare la sua antichità come modello culturale.

Nonostante questa ondata di globalismo, le diversità regionali, locali

non sembrano destinate a scomparire, ma semmai ad essere accentuate dalla

tendenza al consumo universale che si è sviluppato; proprio la tendenza alla

maggiore omogeneità dei comportamenti provoca infatti, per reazione, un

forte attaccamento alla propria identità alimentare e un caso tipico è proprio

quello delle cucine regionali che sono il punto di forza della gastronomia

contemporanea.

Noi pensiamo spesso alla regionalità come ad un fatto antico, ma in

realtà, nella cultura alimentare veramente antica, cioè romana, greca,

medievale, rinascimentale, i valori forti, i valori apprezzati non sono quelli

della regionalità, non sono quelli del territorio, bensì quelli del superamento

della regionalità e del territorio, della costruzione di identità comuni legate

alla possibilità di avere dappertutto le stesse cose75.

Quello che accade oggi è il contrario, e cioè che un ristorante di

tendenza, un ristorante apprezzato e qualificato ripropone, magari in

maniera sua, in maniera creativa e innovata, quella che normalmente

chiamiamo la cucina del territorio, che solo oggi è diventata un valore forte,

invertendo il segno debole che la connotava un tempo. Le cucine regionali

oggi fanno parte di un patrimonio comune, del quale si ha molta più

conoscenza che in passato.

La cucina “globale” e quella “locale” possono coesistere, anzi l’una in

qualche modo ha prodotto l’altra, dando origine a un inedito modello di

consumo che alcuni sociologi (Roland Robertson in particolare) hanno

proposto di chiamare “glo-cale”; ovvero l’integrazione tra globale e locale.

75 Ibidem.

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- 51 -

3.3 La cucina del territorio come identità culturale.

Nelle società tradizionali esisteva un forte legame tra territorio e cultura

alimentare, luoghi produttivi, spazi abitativi e cucina. Un prodotto o un

piatto presentato come tradizionale e antico spesso ha un'origine recente, è

un'invenzione dei giorni nostri. Locale talvolta indica dei prodotti arrivati o

che continuano ad arrivare da lontano. Tipico indica un prodotto presente in

diverse aree geografiche. E la freschezza, considerata una delle

caratteristiche delle cucine tradizionali, era impossibile in passato, ed è una

conquista delle moderne tecniche di conservazione. Le stesse combinazioni

di alimenti, sapori, odori e colori riportati a un'antica tradizione sono

possibili soltanto oggi grazie a una maggiore disponibilità. E non bisogna

mitizzare o enfatizzare la fantasia culinaria di un tempo, contrapponendola

all'omologazione odierna. In passato la fantasia nasceva dalla necessità di

rendere tutto “buono da mangiare”, di non sprecare nulla; soltanto oggi,

nonostante il rischio dell'omologazione, è possibile fare scelte culinarie.

La cucina del territorio e il rapporto che si stabilisce tra alimentazione e

cultura non si basano, allora, necessariamente sulla presenza di prodotti

autoctoni o antichi. Come non è la provenienza, ma la diffusione a rendere

popolare un testo di traduzione orale76 così per l’affermarsi della cucina del

territorio sono decisive l’accettazione e la lavorazione di nuovi prodotti, la

loro assimilazione alle precedenti tecniche di preparazione, consumo e

conservazione. Nell’affermarsi di una cucina del territorio entrano in gioco,

dunque, in tempi a volta lunghi a volte brevi, fattori geografici, climatici,

storici, culturali.

La cucina del territorio non si caratterizza soltanto per la presenza di

questo o quel prodotto: è frutto dell’incontro e della combinazione degli

alimenti; appare strettamente legata a credenze, rituali, cerimoniali; è legata 76 Cit da, Vito Teti, “Territorio e identità culturale”, Forlimpopoli, Festa Artusiana 28 giugno 1998, Atti del convegno studi “cucina globale e cucina del territorio”.

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a concezioni dietetiche e mediche; riflette e racconta un più generale stile di

vita delle popolazioni. Molti degli alimenti e piatti locali, noti anche fuori

dalle zone di produzione a partire dalla prima metà dell’Ottocento, sono il

risultato di una lunga, lenta, peculiare specializzazione, in cui entrano in

gioco fattori economici, alimentari, sociali e culturali.

Lo stesso Artusi nell’intento di creare un codice culinario italiano, non

poté inserire nel manuale qualsiasi ricetta a lui pervenuta, dovette prima

eseguire un’operazione di selezione, all’interno della quale, ovviamente,

ebbero un peso rilevante i fattori socio-culturali, economici, di gusto, che

influenzarono la lunga vita dell’autore.

I tratti che caratterizzano le cucine del territorio sono, infatti, la

socializzazione, l’unione, la comunione, la dimensione conviviale che si

stabilisce tra le persone. Il ritorno alla cucina locale non è soltanto un fatto

di piacere alimentare e di gusto, di conservatorismo culturale e culinario: è

una questione di riconoscimento e di appaesamento; ha a che fare con i

modi di percepirsi, di rappresentarsi, di sentirsi al mondo.

Oggi tutto è cambiato: disponibilità e consumi, spazi e tempi, ritualità e

sacralità nel mangiare. Sono cambiati i tradizionali equilibri fra il campo e

l’orto, il mercato e la cucina domestica. Sono profondamente mutati gli

equilibri, reali o comunque desiderati, tra terra, produzione, consumi e

culture alimentari. Il “modello equilibrato”, che in passato veniva eroso

quando i consumi scendevano al di sotto dei bisogni nutritivi, si è rotto nei

paesi industrializzati avanzati per una serie di ragioni economiche, sociali,

culturali. Si è sempre più affermato anche nel mondo mediterraneo il mito

di una dietetica generalizzata, del fast-food, della solitudine alimentare ed

esistenziale, della fretta, dell’esorcismo della morte che sottrae senso alla

vita. Tale mutazione, la scomparsa del tradizionale equilibrio, l’abbandono

di un antico stile di vita hanno contribuito a creare situazioni di difficoltà

metaboliche dell’organismo dell’uomo mediterraneo. I consumi disponibili

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- 53 -

e reali dell’uomo tecnologico modificano non solo la cultura e lo stile di

vita, ma anche la biologia delle popolazioni77.

È fondamentale affermare pertanto la necessità di un “villaggio

alimentare” per non perdersi nel villaggio globale e per non smarrirsi in una

cultura omologante e massificata. Il “villaggio globale” - scrive Vito Teti -

la modernizzazione con cui dobbiamo fare i conti non può passare attraverso

il tentativo di eliminare e cancellare le “patrie”, i luoghi, le appartenenze. La

consapevolezza di una “patria alimentare” da cui partire consente sia di

riconoscere il valore delle bio-diversità, sia di scongiurare il rischio di

cadere in un modello unico ed esclusivo, omologante. L’ideologia del fast-

food non viene negata in quanto modello moderno o esterno, ma perché non

si colloca all’interno di un particolare stile alimentare con radici antiche e

con una storia fatta di continue, equilibrate e compatibili evoluzioni, perché

non è legato ad un luogo in particolare, ma a tutti i luoghi e, pertanto, a

nessun luogo, al nonluogo, inteso come “spazio che non può definirsi né

identitario né relazionale né storico78” e che non integra in se i luoghi

antichi.

Nel secolo dell’insicurezza alimentare, nell’era degli alimenti

transgenici, nell’epoca della globalizzazione, il cibo non omologato non può

rimanere muto e incapace di comunicare, né può essere messo in un angolo,

al contrario dovrà diventare protagonista economico e mediatico79.

Per effetto della globalizzazione sono oggi in atto due mutamenti

fondamentali: nei Paesi occidentali non solo le istituzioni pubbliche

ma anche la vita quotidiana si stanno liberando del peso della

tradizione, e altre società nel mondo rimaste più tradizionali stanno

77 Cit da, Vito Teti, “Territorio e identità culturale”, Forlimpopoli, Festa Artusiana 28 giugno 1998, Atti del convegno studi “cucina globale e cucina del territorio”. 78 Augé, M. 1993, Notiluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera. 79 Cit da Davide Paolini “I luoghi del gusto”, Baldini & Castoldi, Milano 2000.

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rapidamente perdendo questa loro caratteristica. È questo secondo

me il nocciolo della società cosmopolita globale che sta emergendo.

La nostra è una società che vive dopo la fine della natura: in altre

parole, sono ben pochi gli aspetti del mondo fisico rimasti del tutto

naturali, non condizionati dall’intervento umano. È una società che

vive dopo la fine della tradizione. Ancora una volta ciò non significa

che la tradizione stia scomparendo, come volevano i pensatori

illuministi; al contrario, in versioni diverse, essa continua a fiorire

ovunque. Ma sempre meno si tratta di una tradizione vissuta (se mi è

concessa la formula) in maniera tradizionale, cioè difendendo le

attività tradizionali attraverso riti e simboli specifici, e la tradizione

stessa attraverso il suo richiamo interno alla verità80.

La risposta più efficace alla globalizzazione non è la guerriglia ai

prodotti che omologano il gusto, è molto più efficace, in questo caso, che

una “controriforma” dia voce e forma a quei prodotti che sono da sempre in

minoranza per la dimensione economica dei loro produttori-artigiani e per la

difficoltà di arrivare ai mercati e quindi essere conosciuti.

Nel nuovo scenario emergente il cibo trascende la gola e il palato; la

riscoperta delle radici, l’interesse per la zona di provenienza, la sensibilità

per gli aspetti antropologici, il desiderio di conoscere la storia, la

dimensione estetico-sensoriale si sommano e vanno a interferire con la

gratificazione orale nell’apprezzamento di molto prodotti o di diversi piatti.

È errato scorgere nella tipicità soltanto un “impoverimento” delle culture

locali, una modernizzazione degradante. Se è vero che la tipicità è in un

certo senso una caricatura, un’estremizzazione, comporta un certo grado di

simulazione e d’invenzione di nuove tradizioni, è innegabile che essa

consente incontri e aperture, in quanto eccezionale zona di traduzione da

80 Antony Giddens, Il mondo che cambia, Il Mulino – Intersezioni, 2000.

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una cultura all’altra81. La ricerca della tipicità ha a che fare con la ricerca del

luogo e un nuovo bisogno di appaesamento. Le cucine del territorio vanno

presentate con riferimento a un più ampio contesto, alla propria storia e

dignità.

3.4 Un affresco poco rassicurante.

La lunga onda del processo di industrializzazione, che ha investito il

mondo negli ultimi duecento anni, ha portato con se evidenti effetti

collaterali.

Esso ha dapprima migliorato la qualità della vita di milioni di persone –

quasi tutte residenti in quello che si definisce Nord del mondo – generando

il cosiddetto “sviluppo”. Ad esempio in molte aree del pianeta la

malnutrizione o la difficoltà di reperire cibo sono diventati ricordi lontani;

tutto questo “sviluppo” non ha però tardato a palesare enormi limiti, creando

una serie di situazioni che in epoca di globalizzazione, ossia nel

postindustriale, appaiono difficilmente tollerabili ancora a lungo dal

sistema-mondo; un una parola, sono insostenibili. Sempre più insieme al

processo di industrializzazione, in poco più di un secolo si è

progressivamente instaurata una sorta di dittatura della tecnologia, in cui il

profitto prevale sulla politica, l’economia sulla cultura e la quantità è il

principale, se non l’unico, metro di giudizio per le attività umane.

Si tratta di ciò che Edgar Morin, filosofo e sociologo francese,

teorizzatore della complessità, definisce il “quadrimotore” che spinge il

“vascello spaziale Terra”: scienza, tecnica, industria ed economia

capitalista82. È un quadrimotore invasivo e pervasivo, perché il processo di

industrializzazione non si è fermato ai manufatti e ai beni di consumo, ma è 81 La Cecla, F. 1997, Il malinteso. Antropologia dell'incontro, Bari, Laterza. 82 E. Morin, Il metodo, vol V, L’identità umana, Milano 2002.

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- 56 -

entrato come fattore culturale nella vita quotidiana degli uomini,

condizionandone ogni attività.

Il quadrimotore ha imposto una specie di regime totalitario dove la

tecnica e l’economia prendono il sopravvento; in cui diventano cioè l’unico

fine, piuttosto che il mezzo per servire agli obiettivi e ai valori della

collettività. È una predominanza assoluta che si alimenta e si diffonde con la

globalizzazione, diventando a sua volta il principale fattore omologante per

l’intero pianeta.

La dittatura tecnocratica genera così una nuova ideologia, che nega e

occulta la complessità del mondo, delle relazioni e delle interdipendenze che

lo caratterizzano, nonché il loro valore, facendoci cadere nella tentazione di

analizzarlo in maniera lineare quando in realtà non è possibile83.

Oltretutto, valori “lineari” come progresso, controllo sulla natura e

razionalità quantificatrice cancellano le differenze una volta definite “di

classe”, mentre al contempo amplificano il divario tra civiltà: tra un

Occidente che si è “sviluppato” su tali valori e il resto del mondo che invece

sembra soltanto subirne i principi dominanti, trovandosi di fronte dilemma

tra il rifiuto e l’accettazione per potersi in qualche modo “allineare”. Ma si

tratta di una scelta importante solo in senso relativo, perché fino a oggi ha

sempre condotto a forme più o meno palesi di quella che è stata definita una

nuova forma di colonizzazione.

Il rapporto tra uomo e natura condiziona tutte le attività umane: attività

produttive complesse, condizionate da secoli di cultura e savoir faire, che

sono rappresentazioni di diversità ed identità, figlie delle relazioni e delle

interdipendenze sociali, specchio della complessità del mondo. Questo

legame indissolubile è mutato in modo radicale con l’ascesa del capitalismo

industriale84.

83 Cfr, “Buono, pulito e giusto: principi di nuova gastronomia”, di Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 84 Ibidem.

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La natura è diventata un oggetto di dominio e ne possiamo vedere gli

effetti se analizziamo nei particolari che cosa sia stato fatto nell’ambito

dell’agricoltura e della produzione del cibo, che a partire dal dopoguerra,

per rispondere all’urgenza di un mondo affamato, è stato trasformato

aderendo subito all’ideologia tecnocratica. L’agricoltura si è trasformata in

ciò che si definisce comunemente agro-industria. Oggi stiamo continuando a

pagare lo scotto di questa ed altre trasformazioni epocali, a costi

insostenibili per il pianeta. Le teorie economiche hanno cercato di introdurre

il concetto di esternalità negative85, per quantificare in qualche modo i danni

collaterali che il quadrimotore ha arrecato alla società: inquinamento, morte

dei suoli, sfregio dei paesaggi, riduzione delle fonti di energia, perdita della

diversità biologica e culturale. Ma è comunque difficile ridurre al calcolo

lineare problematiche così complesse, quantificarne tutti i possibili costi

ambientali, sociali e culturali (e il fatto che si chiamino esternalità la dice

lunga su come non siano mai stati presi in considerazione, se non come un

fenomeno per l’appunto esterno ai processi industriali)86.

Non è un segreto o una monotona rivendicazione degli ambientalisti più

radicali: consumiamo più di quello che il pianeta può offrire senza alterare il

proprio equilibrio.

Negli ultimi venticinque anni abbiamo visto scomparire una foresta di

mangrovie su tre e una barriera corallina su cinque; due ecosistemi su tre

mostrano segni di declino; il 25 per cento dei mammiferi, il 12 per cento

degli uccelli e il 32 per cento degli anfibi sono a rischio di estinzione87.

Nel dare la notizia della pubblicazione del Millennium Ecosystem

Assessment – il rapporto di valutazione dell’ecosistema voluto nel 2000 dal

segretario dell’Onu Kofi Annan e diffuso dopo quattro anni di lavoro di 85 Concetto di economia politica: le esternalità di produzione si hanno quando la produzione di un agente influisce direttamente sulla produzione di un altro agente. Possiamo avere esternalità positive e negative. 86 Cfr, “Buono, pulito e giusto: principi di nuova gastronomia”, di Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 87 Antonio Cianciullo, Ambiente a rischio bancarotta, in “La Repubblica” 31 marzo 2005.

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1360 esperti della Fao e del Wwf nel marzo 2005 – è stata utilizzata una

metafora molto calzante, quella appunto della bancarotta ecologica.

Il quadro è davvero drammatico e il rapporto ha spinto il direttore

generale della Fao, Jacques Diouf, a parlare di “ipoteca sul futuro” e di

“soglie di estinzione di massa”:

Negli ultimi cinquant’anni gli uomini hanno cambiato gli

ecosistemi più velocemente ed estensivamente che in ogni periodo

comparabile della storia dell’umanità, soprattutto per andare

incontro alla rapida crescita della domanda di cibo, acqua, legname,

fibre e carburante. Ciò ha provocato una sostanziale e largamente

irreversibile perdita in diversità della vita sulla terra88.

Quella che comunemente si definisce biodiversità, ovvero, secondo la

definizione data nella conferenza sull’ambiente di Rio de Janeiro del 1992:

… la variabilità fra tutti gli organismi viventi, inclusi ovviamente

quelli del sottosuolo, dell’aria, gli ecosistemi acquatici e terrestri,

marini e i complessi ecologici dei quali loro sono parte; questa

include la diversità all’interno di specie, tra specie ed ecosistemi.

La situazione è dovuta principalmente alla massiccia conversione a uso

agricolo della terra: dal 1945 ad oggi ci sono state più occupazioni dei suoli

che nei due secoli precedenti e oggi i coltivi occupano un quarto della

superficie terrestre. Il prelievo dell’acqua rispetto al 1960 è raddoppiato e il

70 per cento del suo uso è destinato all’agricoltura. Sempre dal 1960

l’immissione di nitrati negli ecosistemi è raddoppiata, quella dei fosfato

triplicata. Dopo il 1985 è stata utilizzata più della metà dei fertilizzanti

chimici mai prodotti nella storia dell’uomo; vale a dire a partire dalla loro 88 Cfr. Millennium Ecosystem Assessment: Synthesis Report, marzo 2005, www.millenniumassessment.org.

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invenzione a cavallo del XIX e XX secolo. Dal 1750 la concentrazione

nell’atmosfera di diossido di carbonio è aumentata del 32 per cento,

soprattutto a causa dell’utilizzo di combustibili fossili e dei cambiamenti di

destinazione d’uso della terra (per esempio la deforestazione).

Approssimativamente il 60 per cento di questo aumento ha avuto luogo a

partire dal 1959.

Un tale livello di ingerenza sugli equilibri naturali ha ridotto

notevolmente la diversità biologica sul pianeta: negli ultimi cento anni il

coefficiente di estinzione delle specie è aumentato di mille volte rispetto alla

media registrata nella storia del pianeta. La diversità ha subito un declino

globale, soprattutto per quanto riguarda le specie coltivate.

Sempre secondo il Millennium Ecosystem Assessment Report questi

cambiamenti dell’ecosistema

…hanno contribuito a netti e sostanziali guadagni in termini di

benessere e sviluppo economico, ma questi guadagni hanno prodotto

un incremento dei costi in termini di degradazione dei servizi naturali

che questi ecosistemi fornivano, aumentando il rischio di cambiamenti

non lineari e la crescita della povertà per alcuni gruppi di persone.

Questi problemi, senza indirizzo e controllo, diminuiranno i benefici

che le future generazioni potranno ottenere dagli ecosistemi.

Uno dei benefici che si ottengono dagli ecosistemi, il più importante e

insostituibile è la nutrizione. I cambiamenti più rilevanti sono avvenuti per

andare incontro ai crescenti bisogni di cibo e acqua: agricoltura, pesca e

raccolta sono state le fasi principali in tutte le strategie di “sviluppo”. Dal

1960 al 2000 la popolazione mondiale è raddoppiata mentre la produzione

alimentare è cresciuta di due volte e mezzo. Oggi nel mondo siamo sei

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miliardi e, sempre secondo la Fao89, la produzione del cibo sarebbe

sufficiente per dodici miliardi di persone.

In realtà, questa quantità di cibo prodotta “per dodici miliardi di

persone“ non è sufficiente per i sei miliardi che siamo. Questo sforzo

produttivo, che non ha saputo raggiungere i suoi scopi, ha stressato la Terra

a tal punto che i suoli o subiscono una desertificazione o muoiono per

l’esagerato impiego di prodotti chimici; le risorse idriche scarseggiano, la

biodiversità diminuisce a vista d’occhio, soprattutto l’agro-biodiversità, con

una sistematica riduzione delle razze animali e varietà vegetali che per

secoli avevano contribuito al sostentamento di interi territori in un connubio

uomo/natura perfettamente sostenibile. Analizzandola in un’ottica di lungo

periodo, la sete di produzione ha prodotto più danni che benefici.

La contraddizione in termini di agro-industria ci ha dato l’illusione che i

problemi alimentari dell’umanità potessero essere risolti. Questa enorme

produzione di cibo si è configurata sia come carnefice sia come vittima nel

contesto degli ultimi cinquant’anni90.

Carnefice perché i metodi insostenibili dell’agroindustria hanno

decretato la scomparsa di moltissime colture produttive sostenibili, fattori

identitari per le comunità che le praticavano. Vittima perché gli stessi

metodi insostenibili, in origine indispensabili per sfamare un maggior

numero di persone hanno poi ridotto il comparto agroalimentare a settore

misconosciuto, completamente staccato dalla realtà di miliardi di persone,

come se procurarsi il cibo fosse diventata una cosa scontata e non

comportasse nessun tipo di fatica; la politica non se ne occupa e il

consumatore medio, o non si chiede che cosa stia mangiando, oppure fa una

fatica titanica a reperire le informazioni in grado di spiegarglielo91.

89 www.fao.org 90 Cfr, “Buono, pulito e giusto: principi di nuova gastronomia”, di Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 91 Ibidem.

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Il cibo e la sua produzione devono riottenere la giusta centralità tra le

attività umane e i criteri che guidano le nostre azioni vanno ridiscussi: non è

più la quantità di cibo prodotto, bensì la qualità complessa, che va dal gusto

alla varietà, dal rispetto per l’ambiente, gli ecosistemi e i ritmi della natura

in generale, a quello per la dignità umana.

Citiamo, concludendo, Eduardo Galeano che in un intervista, in

occasione della consegna del Premio Artusi92 2005, disse:

Questa civiltà che confonde la quantità con la qualità, che

confonde l’obesità con la buona alimentazione, in cui trionfa la

spazzatura travestita da cibo, in cui l’industria sta colonizzando i

palati del mondo e sta distruggendo le tradizioni della cucina locale e

le abitudini della buona cucina che vengono da lontano e che, in

alcuni paesi, hanno alle spalle millenni di raffinamento e diversità,

sono un patrimonio collettivo e si trovano nelle case di tutti e non solo

sulla tavola dei ricchi. Queste tradizioni, questi segni di identità

culturale, queste feste della vita vengono schiacciate in modo

fulmineo dalle imposizioni del sapore chimico e unico. La

globalizzazione viola con successo il diritto alla autodeterminazione

della cucina, sacro diritto perché la bocca è una delle porte

dell’anima.

3.5 Il cibo come cultura.

Il cibo è il principale fattore di definizione dell’identità umana, poiché

ciò che mangiamo è sempre un prodotto culturale. Se accettiamo una

contrapposizione concettuale tra Natura e Cultura (come tra ciò che è

naturale e ciò che è artificiale), il cibo è la risultante di una serie di processi

92 Premio che la città di Forlimpopoli, in onore del concittadino Pellegrino Artusi ed in concomitanza con l’annuale Festa Artusiana, attribuisce ogni anno dal 1997.

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(culturali, nel senso che introducono elementi artificiali nella naturalità

delle cose) che lo trasformano da base completamente naturale (la materia

prima) a prodotto di una cultura (ciò che si mangia)93.

Nell’esperienza umana i valori portanti del sistema alimentare non si

definiscono in termini di “naturalità” bensì come esito e rappresentazione di

processi culturali che prevedono l’addomesticamento, la trasformazione, la

reinterpretazione della Natura. Medici e filosofi definirono il cibo res non

naturalis, includendolo fra i fattori della vita che non appartengono

all’ordine “naturale” bensì a quello “artificiale” delle cose94. Ovvero alla

cultura che l’uomo costruisce e gestisce.

L’uomo compie una serie di azioni, raccoglie, coltiva, addomestica,

sfrutta, trasforma, reinterpreta la Natura ogni volta che si nutre. Quando

produce, mette mano ai processi naturali, li influenza per creare il proprio

cibo: il passaggio dalle economie di raccolta a quelle agricole è la storia

dell’uomo che si insedia, coltiva, alleva, manipola la natura spinto dai suoi

bisogni. Quando l’uomo prepara i suoi pasti poi, a differenza degli animali,

mette in atto tecnologie più o meno sofisticate che trasformano la materia; il

fuoco, la fermentazione, la conservazione, la cucina. Quando consuma,

infine, sceglie più o meno accuratamente come, cosa, dove e quanto

mangiare.

Il cibo è cultura quando si produce, perché l’uomo non utilizza solo ciò

che trova in natura (come fanno le altre specie animali) ma ambisce a

creare il proprio cibo, sovrapponendo l’attività di produzione a quella di

predazione. Il cibo è cultura quando si prepara, perché una volta acquisiti i

prodotti-base della sua alimentazione, l’uomo li trasforma mediante l’uso

del fuoco e un’elaborata tecnologia che si esprime nelle pratiche di cucina.

Il cibo è cultura quando si consuma, perché l’uomo, pur potendo mangiare

93 Cfr, Buono, pulito e giusto: principi di nuova gastronomia, di Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 94 Cfr, da Il cibo come cultura, di Massimo Montanari, Editori Laterza, 2004.

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di tutto, o forse proprio per questo, in realtà non mangia di tutto bensì

sceglie il proprio cibo, con criteri legati sia alle dimensione economica e

nutrizionale del gesto, sia a valori simbolici di cui il cibo stesso è

investito95. L’insieme di questi processi, letti in una prospettiva storica, ci

parla di una complessità titanica, di un’identità umana fortemente instabile e

in continua ridefinizione, influenzata da scambi, incontri, innovazioni,

contaminazioni, alleanze e conflitti.

Apriamo una parentesi che risulterà semplificare la comprensione del

discorso generale: i conflitti.

La storia dell’umanità è fatta di uomini, che vivono (o hanno vissuto) in

società più o meno complesse, all’interno delle quali gli scontri di potere e i

conflitti per il controllo delle risorse sono una realtà permanente. In questa

luce osserviamo, in linea generale, che i conflitti assumono caratteri diversi

a seconda che si svolgano all’interno di comunità socialmente e

culturalmente coese, o coinvolgono rapporti di varia natura fra comunità e

culture diverse.

Nelle società più semplici, la contrapposizione è quella fra classi

dominanti e classi subalterne entro singole comunità e territori (per esempio

la società feudale del Medioevo). Più complessi sono i conflitti “trasversali”

che si verificano non all’interno di una singola aggregazione sociale e

politica, ma tra una società e un’altra. Nell’epoca dello sviluppo degli stati

nazionali o, comunque, di sistemi politici più complessi, il rapporto

dominante/dominato si applica anche su scala maggiore. Ad iniziare dal

XVI secolo i meccanismi di controllo dello spazio alimentare si erano

allargati su scala mondiale, con l’affermarsi del dominio europeo (Stati e

compagnie private di sfruttamento) nel continente asiatico e, dopo la

“scoperta” colombiana, in quello americano. A tutte le latitudini gli equilibri

economici di tutte le strutture produttive del “nuovo continente” furono

95 Ibidem.

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stravolte a uso dei dominatori europei, che utilizzarono i territori conquistati

come spazi produttori di cibo, esportando oltremare tutti i prodotti

fondamentali della dieta europea, piante e animali: grano, vite, ulivo, buoi,

cavalli, maiali; caffé e canna da zucchero (prodotti di origine medio-

orientale che gli arabi e i turchi avevano fatto conoscere all’Occidente, e che

gli occidentali non tardarono a trapiantare nelle colonie americane). Lo

scontro fra paesi ricchi e paesi poveri, che, nonostante la buona volontà di

pochi e l’ambiguo paternalismo di molti, sempre più chiaramente rivela il

gigantesco conflitto di interessi contrapposti che caratterizza la società

attuale, è quasi la versione allargata – frutto dell’economia-mondo- degli

scontri per il controllo e l’uso delle risorse alimentari che da sempre hanno

accompagnato la storia degli uomini96.

In qualche modo, pur nel contesto estremamente mutato, tutto ciò

ripropone il tema della lotta di classe di quello che McLuhan definì il

“villaggio globale”.

Tornando al discorso sul cibo come simbolo culturale, trovo molto

calzante la metafora sulle radici della nostra identità utilizzata da M.

Montanari per far comprendere la portata di tale complessità sopra citata.

Un’idea, quella delle radici, spesso chiamata in causa in maniera

strumentale, per parlare di fissità, per sottolineare e giustificare differenze

tra popoli, o peggio, tra “razze”. Ogni cultura, ogni tradizione, ogni identità

è un prodotto della storia, dinamico e instabile, generato da complessi

fenomeni di scambio, di incrocio, di contaminazione. I modelli e le pratiche

alimentari sono il punto di incontro fra culture diverse, frutto della

circolazione di uomini, merci, tecniche, gusti da una parte all’altra del

mondo.

96 Cfr, da “Il cibo come cultura”, di Massimo Montanari, Editori Laterza, 2004.

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La ricerca delle radici non giunge mai a definire un punto da cui

siamo partiti bensì, al contrario, un intreccio di fili sempre più ampio e

complicato mano a mano che ci allontaniamo da noi. In questo

intricato sistema di apporti e di rapporti non le radici, ma noi siamo il

punto fisso: l’identità non esiste all’origine, bensì al termine del

percorso. Se proprio di radici vogliamo parlare, usiamo fino in fondo la

metafora e raffiguriamoci la storia della nostra cultura alimentare

come una pianta che si allarga e mano a mano affonda nel terreno… Il

prodotto è alla superficie, visibile, chiaro, definito: siamo noi. Le radici

sono sotto, ampie, numerose, diffuse: è la storia che ci ha costruiti97.

Carichiamo questa metafora di un ulteriore significato, che serve a

restituire la giusta importanza al cibo, e la giusta dimensione di ciò che

rappresenta.

Sotto la spinta frenetica del pensiero tecnocratico e riduzionista siamo

caduti nella tentazione di tralasciare l’insieme dei processi e delle

interrelazioni che ci consentono di mangiare tutti i giorni, considerandone

solo la risultante, ovvero il cibo che ingurgitiamo. Queste “radici” sono

determinanti e devono ridiventare argomento centrale di riflessione98.

Il cibo è il prodotto di un territorio e delle sue vicissitudini, dell’umanità

che lo popola, della sua storia e delle relazioni che ha instaurato. Si può

parlare di ogni luogo del mondo parlando del cibo che vi si produce e vi si

consuma. Raccontando storie di cibo si raccontano storie di agricoltura, di

ristoranti, di commerci, di economie locali e globali, di gusti e di fame.

Il cibo, e uno studio attento di come è prodotto, commercializzato e

consumato, è un elemento in grado di aprirci gli occhi su ciò che siamo

diventati e su dove stiamo andando. Ci permette di abbozzare

97 Ibidem. 98 Cfr, “Buono, pulito e giusto: principi di nuova gastronomia”, di Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005.

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l’interpretazione dei complessi sistemi che governano il mondo e le nostre

vite e ci lascia la possibilità di ricostruire le basi per un futuro sostenibile99.

Lo studio di questi input e output esige oggi una scienza che se ne

occupi in maniera organica e che tenga conto della multidisciplinarità che

chiama in causa.

3.6 La nuova gastronomia100.

Avendo, nei precedenti capitoli, già accennato riguardo a Brillat-Savarin

e alla sua Fisiologia del gusto – importante riferimento per la nascita della

gastronomia moderna – non rimane che chiarirne il motivo: nel libro erano

chiari e sapientemente definiti, già all’epoca, tutti gli elementi da cui,

ripartire per fondare oggi una nuova scienza gastronomica101. Scrive

Brillat-Savarin:

La gastronomia è la conoscenza ragionata di tutto ciò che si

riferisce all’uomo in quanto egli si nutre… Così è proprio essa che fa

muovere i coltivatori, i vignaioli, i pescatori e la numerosa famiglia

dei cuochi, quale che sia il titolo o la qualifica sotto cui essi

mascherano il loro occuparsi della preparazione degli alimenti. La

gastronomia appartiene: alla storia naturale, per la classificazione

che fa delle sostanze alimentari; alla fisica, per le diverse analisi e

scomposizioni che fa loro subire; alla cucina, per l’arte di preparare i

cibi e di renderli piacevoli al gusto; al commercio, per la ricerca del

mezzo di comprare al miglior prezzo possibile ciò che essa consuma e

di smerciare più convenientemente ciò che pone in vendita;

99 Cit, da “Buono, pulito e giusto: principi di nuova gastronomia” di Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 100 Vedi Appendice per approfondimenti. 101 Cit, ibidem.

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all’economia politica, per le risorse che essa offre al fisco e per i

mezzi di scambio che stabilisce tra le nazioni102.

Bene è ricordare l’anno di pubblicazione del libro, 1825, per apprezzarne

la lungimiranza; sono già presenti tutti gli elementi complessi che

descrivono la gastronomia come una scienza multidisciplinare, mettendo in

conto i processi agricoli, economici, scientifici, tecnici, sociali e culturali.

Una visione fatta di buon senso e di capacità di cogliere la complessità delle

cose di sconcertante modernità.

Nel libro “Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia.” Carlo

Pettini, fondatore del movimento Slow Food103, appoggiandosi alle

considerazioni di Brillat-Savarin, formula una definizione di nuova

gastronomia. Definizione necessaria per meglio comprendere l’utilità e

l’importanza odierna di una scienza così complessa.

La gastronomia appartiene:

102 Cit, da “Physiologie du gout”, Jean-Anthelme Brillat-Savarin. 103 Carlo Petrini è il fondatore e l’attuale presidente del movimento Slow Food. Iniziata nel 1986 sotto il nome di Arcigola, la storia del movimento vede l’ufficializzazione internazionale nel 9 dicembre 1989. Slow Food è un’associazione internazionale non profit nata in Italia nel 1986: oggi coinvolge 40.000 persone in Italia e più di 80.000 nel mondo, in 130 Paesi dei cinque continenti. Le condotte e i convivium (350 in Italia e oltre 400 all’estero) sono il punto di riferimento del Movimento sul territorio e organizzano iniziative per gli associati. Slow Food promuove il diritto al piacere, a tavola e non solo. Nata come risposta al dilagare del fast food e alla frenesia della fast life, Slow Food studia, difende e divulga le tradizioni agricole ed enogastronomiche di ogni angolo del mondo, per consegnare il piacere di oggi alle generazioni future.Slow Food rieduca i sensi assopiti, insegna a gustare e a degustare. Allenare il palato a riconoscere le differenze rende l’amore per il cibo un’esperienza universale. E permette a consumatori “educati” di indirizzare verso la qualità – gastronomica, ambientale e sociale – le scelte produttive. Slow Food, attraverso progetti (Presìdi), pubblicazioni (Slow Food Editore), eventi (Terra Madre) e manifestazioni (Salone del Gusto, Cheese, Slow Fish) difende la biodiversità, i diritti dei popoli alla sovranità alimentare e si batte contro l’omologazione dei sapori, l’agricoltura massiva, le manipolazioni genetiche. È una rete di persone che si incontrano, che si scambiano conoscenze ed esperienze. Un’associazione che ha fatto del godimento gastronomico un atto politico, perché dietro a un buon piatto ci sono scelte operate nei campi, sulle barche, nelle vigne, nelle scuole, nei governi. E ogni scelta ha un sapore diverso. Da www.slowfood.com

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• alla botanica, alla genetica e alle altre scienze naturali, per la

classificazione che fa delle sostanze alimentari, consentendone la

salvaguardia;

• alla fisica e alla chimica, per la selezione dei prodotti migliori e lo

studio di come si trasformano;

• all’agricoltura, alla zootecnica e all’agronomia, per la produzione di

buone e varie materie prime;

• all’ecologia, perché l’uomo per produrre, distribuire e consumare

cibo interferisce con la natura e la trasforma a suo vantaggio;

• all’antropologia, perché consente lo studio della storia dell’uomo e

delle sue identità culturali;

• alla sociologia, che offre gli strumenti per lo studi ei comportamenti

sociali dell’uomo;

• alla geopolitica, perché i popoli si alleano o combattono anche e

soprattutto per sfruttare le risorse della terra;

• all’economia politica, per le risorse che offre, per i mezzi di scambio

che stabilisce tra le nazioni;

• al commercio, per la ricerca del modo di comprare al minor prezzo

possibile ciò che consuma (utilizza) e di smerciare più

convenientemente ciò che pone in vendita (produce);

• alla tecnica, all’industria e al savoir faire degli uomini per la ricerca

di nuovi modi di trasformare e conservare il cibo in maniera

conveniente;

• alla cucina, per l’arte di preparare i cibi e di renderli piaceveoli al

gusto;

• alla fisiologia, per la capacità di sviluppare le sensorialità atte a

riconoscere il buono;

• alla medicina, per lo studio di quale modo di nutrirsi è più saltare;

• all’epistemologia, perché, attraverso una necessaria riconsiderazione

del metodo scientifico e dei criteri di conoscenza che ci permettono

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di analizzare il percorso che un cibo fa dal campo alla tavola e

viceversa, ci aiuta a interpretare meglio la realtà di questo mondo

globalizzato e complesso. Ovvero a scegliere.

La multidisciplinarità della nuova gastronomia permette di analizzare

l’elemento cibo, partendo dall’insieme di tutti le varie materie che la

compongono, seppur ognuna di esse – presa da se - affronti l’argomento

sotto un particolare punto di vista. La gastronomia è una scienza che studia

la felicità. Tramite il cibo, linguaggio universale e immediato, elemento

identitario e oggetto di scambio, essa si configura come una delle più

potenti forme di diplomazia della pace.

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4. Artusopoli.

La storia decennale che accompagna la nascita e l’evoluzione della Festa

Artusiana, e della prossima inaugurazione di Casa Artusi, possiamo

sicuramente definirla “storia di una comunicazione”. Quello che segue altro

non è che il racconto104 di questa storia, delle motivazioni e delle scelte, che

hanno spinto l’amministrazione comunale di Forlimpopoli alla decisione di

comunicare e promuovere il proprio territorio – quello romagnolo, e tutti i

territori in generale – sotto il nome e l’effigie di Pellegrino Artusi.

4.1 Una storia di comunicazione.

Cose, fatti, episodi, non avvengono mai per caso. C’è una mutazione

degli avvenimenti, dei tempi, delle sensibilità umane, ed in particolare ci

sono eventi, iniziative oppure scelte di vario ordine – politico, sociale,

culturale – che acquistano un loro valore ed una loro capacità

indipendentemente dalle ragioni e dalle motivazioni – spesso contingenti, e

spesso anche poco nobili - che li hanno generati.

Pensiamo, ad esempio, ad uno scritto poetico, ad un brano musicale, ad

un dipinto: l’autore dell’opera agisce con l’intenzione – a volte – precisa di

darle un significato proprio. Ma chi, in seguito, fruisce l’opera non è detto

che scorga lo stesso significato originario dato dall’autore; ed ecco allora

che quel poema, quel brano, quel dipinto, acquistano una vita loro, diversa e

parallela. Anche gli avvenimenti possono subire questo tipo di lettura.

È questo il caso della Festa Artusiana, nata come strumento, come

mezzo per creare un’attesa ed aprire gli spazi per l’avventura di Casa Artusi.

104 Tratto da un’intervista (a cura dell’autore della medesima relazione, effettuta in data 17/11/2006) al Sindaco del periodo (1995) Maurizio Castagnoli.

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L’obiettivo originario era arrivare a Casa Artusi. Ma procediamo con

ordine.

La prima domanda che viene spontaneo porsi è: perché Casa Artusi?

Perché un’amministrazione pubblica sceglie di effettuare un investimento

ingente, come quello di ristrutturare un convento del XVII secolo e di dargli

una destinazione gastronomica?

I motivi furono essenzialmente due, e portano all’affermazione di ciò

che si è detto in precedenza, e cioè che i fatti non avvengono per caso – e

quando avvengono acquistano una loro vita autonoma rispetto a quella a cui

si era pensato – e sono figli del loro tempo.

Motivazione prima.

All’inizio degli anni Novanta – ma il movimento era già partito una

decina d’anni prima, all’inizio degli anni Ottanta – in Italia era in atto una

seria, forte, profonda discussione sul tema del cibo. Dell’avvento dei fast-

food, del cibo omologato, di scarsa qualità e di basso prezzo abbiamo già

trattato nei precedenti capitoli. Era esplosa, in quegli anni in particolare, la

cosiddetta nouvelle cousine105, e cioè la creatività in cucina sull’onda della

cucina francese (considerata la tipica cucina internazionale); una cucina

fantasiosa, creativa, in cui si alleggeriscono le portate per far fronte ai nuovi

stili di vita, ma soprattutto si aggiungono nuovi piatti come innovazione alla

cucina internazionale, usa nuovi prodotti e nuove tecnologie, sfruttando un 105 Nel 1972 i due giornalisti Henry Gault e Christian Millau fissarono le dieci caratteristiche fondamentali di quel movimento culinario chiamato novelle cuisine: 1. Rifiuto delle complicazioni inutili e riscoperta della bellezza della semplicità; 2. Applicazione della regola della cucina del mercato e cioè di non essere schiavi di un menù immutabile, ma cucinare ogni giorno soltanto ciò che di meglio è possibile acquistare; 3. Riduzione dei tempi di cottura; 4. Conseguente riduzione del numero dei piatti inseriti nella lista delle vivande; 5. Abbandono delle lunghe marinature e delle frollature ad oltranza; 6. Abbandono delle salse troppo grasse e pesanti, sostituite da salse più leggere e digeribili; 7. Ricerca di una cucina dietetica, povera di grassi, in armonia con i tempi moderni; 8. Fantasia nell’invenzione di nuove ricette, di nuovi accostamenti di sapore e studio e ricerca per riproporre, aggiornati, antichi piatti dimenticati; 9. Ritorno alla cucina regionale, con la riscoperta dei piatti borghesi e contadini; 10. Ricerca di nuovi metodi di cottura che meglio rispettino l’integrità dei cibi; regola non citata ma praticata è il servizio effettuato direttamente sul piatto (di grande formato) del cliente, in modo che le vivande possano arrivare al tavolo ancora calde e perfette da un punto di vista della preparazione.

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criterio tipico della società avanzata di massa: l’immagine. Questo pendolo

sociale, che ha posto l’accento sull’innovamento sino alla prima metà degli

anni Ottanta, non ha tardato, poi, a far nascere movimenti culturali che

teorizzavano il recupero e la salvaguardia di tradizioni e vecchie culture

gastronomiche. Il movimento più importante è certamente, il già citato,

Slow Food106.

Questo era il flusso culturale entro il quale il paese Italia si stava

trovando: recupero della tradizione del territorio, dei cibi tipici, che

sommato al nascente interesse verso un turismo di tipo culturale, che si

discosta dal cosiddetto turismo di massa, omologato, decretò in seguito il

successo di molte realtà, tra le quali la Festa Artusiana non è che un caso più

unico che raro.

Siamo a metà degli anni Novanta e sta nascendo tale fenomeno, ossia il

turismo culturale, in cui elementi come – per esempio – le ricchezze

archeologiche, i paesaggi e il cibo locale, concorrono a formare

l’omogeneità dell’offerta. Questo trend culturale e turistico godrà di forte

ascesa per tutto il periodo a seguire; ascesa che non sembra fermarsi, dato

106 … la battaglia deve essere combattuta sullo stesso terreno e con le stesse armi, quelle della mondializzazione e della globalizzazione, facendole proprie e invertendone il senso. Se il fasto food significa uniformità, Slow Food propone di salvaguardare e rilanciare i singoli patrimoni gastronomici; se la velocità minaccia la fruizione del tranquillo piacere sensoriale, la lentezza può diventare un antidoto all’impazienza, alla voracità ossessiva; se i nuovi modelli alimentari propongono stereotipi che calpestano le culture locali, Slow Food invita a recuperare la memoria dei codici gastronomici regionali; se gli hamburger appiattiscono i consumi e stimolano ripetitivamente gli organi sensoriali soprattutto delle nuove generazioni, si deve promuovere una campagna di educazione permanente delle papille; se i luoghi della ristorazione veloce propongono ambienti asettici e senza identità, si riscoprano il calore delle osterie tradizionali, il fascino dei caffè storici, la vivacità dei laboratori artigianali; se la catena di trasmissione dei saperi della cultura materiale rischia di essere interrotta da stili di vita e di alimentazione che hanno sposato logiche industriali, una nuova Internazionale divulghi sicure conoscenze e buoni indirizzi; se un’alimentazione dissennata e i ricorrenti casi di sofisticazione minacciano la nostra salute, si riscopra il benessere di un cibo sano; se l’invadenza dei prodotti chimici in agricoltura e una scriteriata gestione del territorio minacciano l’ambiente, Slow Food promuove coltivazioni capaci di rispettare la natura; se l’informazione omologata cancella le differenze, la costruzione di un movimento internazionale favorisce lo scambio di documenti, di analisi, di ricerche storiche e di tecniche produttive. Tratto da: Slow Food, le ragioni del gusto. Carlo Petrini, Editori Laterza, 2001.

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che concorre nel determinare – come sottolinea l’ex Sindaco M. Castagnoli

- la cosiddetta identità (occidentale).

Motivazione seconda.

Nel periodo in questione si discuteva, come oggi, della possibilità di

semplificare la vita politica. Una domanda, tra le tante, era ricorrente, e

rende più chiaro il tema di tale ricerca: hanno senso i piccoli comuni?

Qual’è il ruolo dei comuni in generale, e dei piccoli comuni in particolare?

Un primo tipo di risposta chiamava in causa un’esigenza razionalistica:

semplificare molto. Nello specifico caso di Forlimpopoli, si pensava di unire

il comune stesso – come altri piccoli comuni della zona, del resto – al

comune di Forlì. In tale maniera sarebbe stato possibile applicare una

politica territoriale razionale, omogenea, decisa con senso e, soprattutto,

sopperire la carenza – per non dire mancanza, in certi casi – di servizi, con

cui i cittadini dei piccoli comuni erano obbligati a convivere. Ecco perché

l’idea del grande comune di Forlì.

Molti non lo dicevano apertamente, ma tutti pensavano che Forlimpopoli

nell’arco di un ventennio, sarebbe divenuta uno degli ultimi quartieri di

Forlì.

L’esigenza politica che si poneva al Sindaco era: ha ancora senso essere

sindaci di Forlimpopoli? E se sì, occorre trovare una connotazione

identitaria dei forlimpopolesi, diversa e che ne giustifichi la propria

esistenza.

“L’aumento, e la garanzia, dei servizi alla comunità (servizi scolastici,

ristrutturazione urbanistica, progettazione di un parco pubblico con

annesso la piscina comunale ecc.) di per sè – dice Castagnoli – non

bastano: occorre che riusciamo a riscoprire il nostro sentirci comunità”, e

proprio questa era l’altra questione in causa: riscoprire il perché

Forlimpopoli possa e debba sentirsi una comunità.

Per dovere di cronaca cito due precisazioni fatte dall’ex Sindaco:

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La comunità non può essere una comunità chiusa, piccola,

ristretta, il borgo antico, il villaggio. Non è questo il senso di identità

che interessava allora. Voglio precisare che quando dico identità, lo

dico in maniera completamente a-razziale. È vero che tutti devono

avere gli stessi diritti, ed è altrettanto vero che siamo diversi.

Solamente essendo coscienti della propria diversità, delle proprie

radici e quindi della propria identità, siamo in grado di non essere

travolti dall’omologazione globalizzata dei nostri tempi, oppure da

chi ha un tipo di identità molto più forte della nostra. Per poter

confrontare cultura con cultura, da pari a pari, occorre avere ben

presente – da entrambe le parti – le proprie caratteristiche identitarie,

le proprie radici, la propria storia.

La nostra civiltà occidentale sta destrutturando in maniera molto

violenta quei sistemi107 su cui si reggeva la società e su cui si era retta

per centinaia, se non migliaia, di anni. … Questa serie di

cambiamenti in atto ha determinato una sensazione di isolamento e

solitudine, accentuata dal forte carattere individualistico dei nostri

valori. La scelta individuale pone l’accento sul grado di libertà che un

cittadino vuole esercitare. Tutto ciò, di conseguenza, lascia scoperto il

lato della sicurezza. La solitudine è il prezzo. Viviamo in una società

avanzata, votata al progresso, ricca e la solitudine ed il senso di

nostalgia che emerge (basti pensare alla perdita dei dialetti) sono le

spie di un bisogno, di un senso personale di comunità molto diverso,

di tipo moderno, che non rinuncia alle proprie scelte individuali, ma

che – allo stesso tempo – non può, non vuole e non deve sentirsi solo.

A metà anni Novanta sia le fazioni politiche di estrema destra, che quelle

di estrema sinistra, accusavano Forlimpopoli di essere una città dormitorio.

107 Pensiamo alla famiglia. L’impostazione patriarcale della famiglia, solo negli anni Cinquanta di questo secolo, ha conosciuto i primi sintomi di sgretolamento, sintomi che si sono poi accentuati e fatti più seri dopo il ’68 ed hanno avuto sfocio finale nel 1974 con la legge sul divorzio.

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Forlimpopoli non ha particolari bellezze: è sempre stata una cittadina di

mercanti, attraverso la quale scorre la Via Emilia, situata in una zona di

pianura tra le città di Cesena e Forlì. La Rocca, il Museo archeologico, le

varie Chiese, non attribuiscono particolare valore, o meglio, non la

differenziano troppo dalle altre cittadine presenti nel territorio. Ma di una

cosa, Forlimpopoli, sfoggia vanto a livello nazionale: è il paese natale di

Pellegrino Artusi. Ed è proprio questo il motivo che porta l’amministrazione

comunale alla decisione di puntare sulla figura di Artusi per caratterizzare il

proprio essere comunità: comunità che ha obiettivi, alcuni dei quali di tipo

pratico, altri, invece, sono motivazioni ideali, quali l’orgoglio e il recupero

della propria tradizione archeologica e storica, e la costruzione nel nome di

Pellegrino Artusi, di un modello di cittadina in cui si vive bene, e la cui

presenza è la testimonianza del buon mangiare e di buona gastronomia.

Ecco come nacque l’idea di un progetto chiamato inizialmente “città

artusiana”, e cioè un progetto di recupero, una caratterizzazione mettendo in

risalto il fine Ottocento, l’epoca di Artusi: le piazze, le strade, il colore delle

case, dal punto di vista urbanistico l’amministrazione comunale voleva che,

soprattutto la zona del centro storico, si caratterizzasse come città dei tempi

di Artusi, e cercò di agevolare questo sviluppo dando contributi ai privati

poiché le ristrutturazioni – delle case in particolare - fossero effettuate

seguendo certi criteri. All’interno di questa città artusiana, doveva esserci,

anche, un nucleo chiamato “centro artusiano”, che avrebbe dovuto essere il

centro della gastronomia, si pensava allora di valore nazionale.

L’amministrazione approvò il progetto e si cominciò nella realizzazione

del centro artusiano, nominando una commissione di esperti tra i quali

Alberto Capatti108, Massimo Montanari109, Folco Portinari110, Carlo

Petrini111 ecc.

108 Docente alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pavia, massimo esperto italiano di cultura artusiana e di gastronomia contemporanea, direttore della rivista “Slow”.

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Questo centro artusiano subì sin dal principio un forte cambiamento, non

nella sostanza, bensì nella forma: il nome cambiò da centro artusiano a

Casa Artusi. Questo cambiamento non è dovuto al caso o ad un semplice

capriccio stilistico. È nato in seguito ad un ragionamento che chiama in

causa l’Artusi stesso e la sua opera.

Quali sono i precetti forti che l’Artusi esalta e persegue ne La Scienza in

cucina? Tra tutti: cucina del territorio e cucina di stagione; cucina sana,

leggera e rispetto dei prodotti tipici. Quanto mai profetico l’Artusi,

oggigiorno, racchiude nella sua opera tutta quella serie di valori nuovi, di

cui il movimento Slow Food si fa portabandiera: recupero della tradizioni

della terra, della cultura gastronomica e rivalutazione del prodotto tipico

locale. Se questa è la forza trainante, il centro artusiano deve riscoprire

questi valori. E questi sono valori che si riscoprono, e soprattutto si trovano,

all’interno della casa.

“La cucina italiana – ricorda M. Castagnoli – è una cucina che ha due

caratteristiche fondamentali: è buona, semplice e poco costosa, a differenza

di quella francese che spesso è complicata (l’elaborazione finale dei piatti

deve essere completamente differente dal prodotto primo), costosa e molte

volte pretenziosa. La seconda caratteristica è quella di essere una cucina

molto varia. Sarà per la morfologia del paese, sarà per la miriade di

diverse tradizioni che anche l’Artusi stesso, riconosce alla cucina italiana

una varietà senza confronti, ed è proprio la medesima varietà a formarne

l’inestimabile ricchezza”.

La Scienza in cucina si contrappone ai modelli francesi su un altro punto

fondamentale: riconduce in seno alla famiglia e alla casa i valori del gusto,

subordinando ad essa la ristorazione. Inoltre denuncia l’influenza del

109 Docente alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, massimo esperto italiano di storia dell’alimentazione. 110 Giornalista e scrittore, esperto di cultura gastronomica. 111 Fondatore ed attuale presidente dell’associaizone Slow Food, giornalista e gourmet di professione.

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turismo sui livelli di qualità: ha ormai avvertito una “modificazione

(negativa) del vitto112”, in particolare nelle grandi città dove più intenso è il

passaggio, e ribadisce l’importanza di conservare formule e tradizioni.

Artusi, conservatore illuminato, con le sue parole tocca il punto debole

della modernità: l’omologazione dell’offerta di cibo e l’uniformità del

gusto, al quale fenomeno degenerativo il turista non è estraneo113.

Questa teoria si riconduce ad una forte critica che Carlo Petrini fa nei

confronti della Romagna: nel dopoguerra l’Emilia e la Romagna davano

lezioni di cucina. Petrini afferma che il fenomeno del turismo di massa, che

negli anni ’50-60-70 ha stravolto l’economia del dopoguerra, ha portato con

se la massificazione della gastronomia, ha portato alla sua fast-

fooddizzazione, alla sua trasformazione in banalità culinaria, senza più cura,

intelligenza e cultura del prodotto. Dice Petrini che in Romagna vi è la

peggior ristorazione media d’Italia, perché si è proceduto al passo

dell’ingente affluenza di turismo di massa, ignorante, incolto che pretende

di trovare ovunque vada le stesse tagliatelle alla bolognese, come si trattasse

di un prodotto standardizzato nell’immaginario culinario regionale. Quindi

la Romagna deve fare uno sforzo doppio per recuperare la sua dignità

artusiana, rispetto ad altre parti del Paese in cui l’influenza dell’economia

legata al turismo, essendo meno opprimente, permetteva un più coerente

sviluppo ed affermazione della cultura tradizionale.

Altro aspetto a cui dare la giusta importanza, è quello del divario tra le

generazioni: nell’arco di un paio di generazioni, molte usanze, molte

tradizioni, molti segreti114, molti saperi andranno persi. Oggi nemmeno la

112 Cit. da La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. 113 Alberto Capatti, Lingua, regioni e gastronomia dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Storia d’Italia, Annuali XIII, Einaudi, 1998. 114 Pellegrino Artusi sarà anche l’ultimo trattatista di cucina a menzionare i segreti, cioè quegli esperimenti e rimedi escogitati dagli alchimisti-scienziati medievali, rinascimentali e barocchi (…) per curare le più svariate infermità e indisposizioni degli uomini, degli animali e delle piante e per dare tutte le spicciole indicazioni della piccola alchimia domestica nella preparazione, per esempio, di carni, verdure, conserve, sciroppi, gelatine e

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donna ha quasi più tempo da dedicare alla cucina, e quando le generazioni

più anziane avranno lasciato spazio a quelle più giovani, se non sarà stato

fatto qualcosa, un patrimonio di cultura millenaria rischia di andare

definitivamente perso. Partendo da queste critiche di Petrini, che non erano

critiche verso i prodotti bensì verso la ristorazione, l’amministrazione

comunale si è data il compito, nel nome dell’Artusi, di recuperare questo

patrimonio di saperi legato alla nostra terra e a tutte le terre in generale.

Ecco il ragionamento e le motivazioni che hanno portato dal centro

artusiano a Casa Artusi: un centro di cultura gastronomica (con biblioteca,

ristorante, scuola e corsi di formazione alla cucina e uno spazio – la Chiesa

dei Servi – in cui concentrare mostre, presentazioni, eventi, concerti) in cui

si organizzano eventi tesi a promuovere la gastronomia romagnola, la

gastronomia tipica e territoriale italiana in generale; in cui vi sarà la

presentazione di nuovi prodotti del territorio; l’organizzazione di serate di

spettacolo e di convegni di vario tipo legati al cibo e alla cultura in generale,

ed infine, sarà un centro dedito alla formazione gastronomica a tutti i livelli.

L’inaugurazione di Casa Artusi avrà luogo in occasione dell’undicesima

edizione della Festa Artusiana, prevista per giugno 2007, dopo quasi un

decennio di interminabili lavori. In realtà l’amministrazione comunale non

aveva stimato un così lungo periodo di gestazione; si pensava, infatti, ad un

lasso di tempo non più lungo di cinque anni. Ma come detto all’inizio, le

cose non avvengono mai per caso e, probabilmente, questa attesa più lunga

del previsto avrà modo di far cogliere frutti più maturi di quelli sperati.

Comunque, qualunque fosse stata l’attesa, Forlimpopoli necessitava sin

da subito una forte caratterizzazione, una forte promozione e comunicazione

nel nome di Artusi; l’amministrazione comunale non avrebbe potuto

permettersi di partire da zero con l’apertura di Casa Artusi, dati gli ingenti

costi di sviluppo che richiedeva il progetto. Un primo segno furono le pozioni varie. Tratto da “Introduzione” di Piero Camporesi a La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Pellegrino Artusi, Einaudi, 1970.

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imminenti ristrutturazioni di Piazza Pompilio, Via Saffi e di Piazza

Garibaldi. Occorreva che i forlimpopolesi – ed i cittadini della Romagna –

cominciassero ad individuare Forlimpopoli come città artusiana, come il

luogo in cui buon cibo e buona gastronomia, pur non avendo né un

ristorante di fama né un prodotto tipico e caratteristico, fossero valori

condivisi. Fu in quel momento che l’Assessore alla Cultura (1995), Franco

Mambelli, partorì l’idea della Festa Artusiana. La Festa doveva essere il

momento in cui cominciare a creare l’immagine dell’Artusi collegata a

Forlimpopoli. Questa scelta avvenne, è bene ricordarlo, nel pieno sviluppo

di quel periodo di cambiamenti culturali volti alla ricerca delle tradizione,

con conseguente aumento di domanda turistica legata all’enogastronomia.

Nella scelta di comunicare la propria identità artusiana,

l’amministrazione comunale ha, come prima cosa, deciso di differenziare

l’evento Festa Artusiana dalle comuni feste di paese, dalle classiche sagre

che – se non fosse per la diversità dei prodotti - molte volte

rassomiglierebbero l’una alla copia dell’altra. Si è cercato sin dal principio

un target alto - ma non forzatamente elitario, un vasto pubblico

gastronauta, che sapesse apprezzare il cibo di qualità proveniente da diverse

zone, sia della regione che del territorio nazionale, ma anche cibo

internazionale, nella cornice forlimpopolese, ridipinta per l’occasione.

L’amministrazione ha puntato ad un registro alto riguardo tutto quello

che interessa l’evento Festa: nei Convegni di discussione, che nel corso

degli anni hanno toccato svariate tematiche legate al cibo e all’Artusi e,

soprattutto, nella scelta dell’assegnazione del Premio Artusi. Ed è stata

proprio la scelta dei personaggi da premiare il vero valore aggiunto alla

Festa: “Si è cercato di scegliere personaggi, non necessariamente famosi,

ma che potessero avere un certo appeal comunicativo; – ricorda M.

Castagnoli – da qui la scelta di premiare, sotto la doppia effige del Premio

Artusi, un grande chef ed un personaggio socialmente impegnato nella lotta

contro la fame. Come dire: i due aspetti della gastronomia, la fame e

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l’abbondanza115; la cultura e la tradizione gastronomia elevata al recupero

delle tradizione, e lotta contro la fame e la povertà, la lotta per la

sopravvivenza.”

Oltre alla celebrazione di un grande chef a livello internazionale,

Forlimpopoli sceglie di aiutare chi aiuta gli altri a non soffrire la fame.

L’esempio più fresco è sicuramente quello del Premio Nobel 2006 per la

Pace Muhammad Yunus, economista del Bangladesh, premiato nel 2001

con una targa onoraria e cinquemila euro da destinare alla sua “Grameen

Bank” (fondata dallo stesso Yunus nel 1976), la banca rurale che concede

prestiti e supporti agli esclusi dal sistema di credito tradizionale, in pratica

ai poveri, per favorire lo sviluppo e la lotta contro la povertà.

Le scelte del periodo dell’anno e della durata complessiva della festa,

sono state dettate più dall’esigenza che dalla volontarietà. Innanzi tutto il

periodo in cui svolgere la Festa, occorreva fosse un periodo che permettesse

di fruire la città nei suoi spazi (le piazze, i vicoli storici, la Rocca) all’aperto

durante le ore serali: per una serie di fattori ( per esempio, temperatura

gradevole anche la notte, la non-presenza di festività o di altri eventi

particolari che potessero concorrere con la Festa ecc) fu individuata la

decade tra la fine di giugno e l’inizio di luglio: precisamente il penultimo

weekend di giugno. La scelta della durata totale fu, anch’essa, dettata da

esigenze di carattere pratico: il comune, che all’epoca non poteva

permettersi di pagare la completa ristorazione della festa, decise quindi di

dare in gestione a privati i vari spazi in cui veniva servito e distribuito il

cibo. I privati da parte loro, necessitavano di un numero cospicuo di

giornate per poter esercitare il loro lavoro di ristorazione e non rischiare una

perdita. Si decise quindi di impegnare due fine settimana e le giornate nel

mezzo: nove giorni in totale. Questa durata spropositata, fu l’elemento

vincente della Festa, e permise ai privati che gestivano i vari stand di poter

115 Cit dell’omonimo libro di Massimo Montanari “La fame e l’abbondanza”.

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finanziare le loro operazioni. Alcuni di questi gestori erano le varie

Associazioni Culturali presenti nel territorio cittadino, talune più datate,

altre create ex-novo proprio in virtù della partecipazione alla Festa.

Il principio base da cui partiva l’amministrazione comunale era questo:

erano i forlimpopolesi che dovevano far diventare la Festa Artusiana una

festa forlimpopolese. Occorreva far si che lo spirito della comunità,

dell’identità comunale emergesse al di sopra dell’evento in se. Decisero

allora di puntare sul lavoro volontario, da parte delle associazioni, lavoro

che non avrebbe gravato sulle spese a carico del comune e che avrebbe

portato beneficio e finanziato le associazioni stesse, culturali e sociali volte

al bene della comunità. “La chiave del successo sono stati i cittadini – dice

M. Castagnoli – che se ne sono appropriati e che lavorano per la Festa,

obbedendo solo ad alcuni principi generali posti dall’amministrazione

comunale: cibo di qualità e del territorio, spettacoli (musica acustica e

popolare, danza, teatro ecc), tutto nell’intorno della cucina e del concetto di

gastronomia in generale. Tutta Forlimpopoli ha partecipato a questo

progetto ed ognuno ha contribuito attraverso il proprio modo di essere.”

Alcuni significati esempi sono state le varie iniziative volte alle cucine

etniche quali ebraica, musulmana, africana, argentina, indiana, grazie al

contributo delle varie comunità straniere presenti nel territorio. Citiamo

questo tipo di iniziative perché sono tutte volte all’integrazione, al dialogo,

al rispetto reciproco e alla fraterna convivenza tra i popoli.

Con il passare degli anni, la Festa ha guadagnato spazi all’interno della

città, arrivando ad occupare tutta l’area del centro storico, ed è stato un

successo di pubblico tale per cui ha assunto il ruolo di festa del paese,

soppiantando nell’immaginario cittadino la pluriennale Segavecchia.

Concludendo, chiamiamo in causa ancora una volta Artusi che, nel

codificare la cucina italiana, effettua una codifica in maniera indiretta: la

cucina di Artusi è una cucina culturale, storica, che raccoglie i frutti culinari

del percorso storico che il nostro Paese ha compiuto dal Medioevo in poi.

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L’elaborazione dei piatti da parte di Artusi segue un percorso di rispetto

della cultura, delle tradizioni, delle stagioni e della materia prima, ossia del

cibo: la cucina italiana è una cucina con mille anni di tradizione alle spalle,

ed è proprio il risultato dell’incrocio tra culture contadine e culture nobili

che genera i vari piatti caratteristici regionali, più o meno complessi che

siano. La cucina italiana dell’Artusi è una cucina di ricette regionali e

tipiche. Nella sua opera non codifica, per esempio, un unico piatto di

tagliatelle, ma afferma che vi è una diversità effettiva di piatti e ricette, e

che questa diversità è il vero reale valore della cucina italiana. Volendo

recuperare con Casa Artusi il valore della cucina domestica tipica,

moltiplichiamo questa diversità.

Come già detto, non avendo Forlimpopoli – o il territorio circostante –

un prodotto tipico di forte appeal ed unico, Casa Artusi si porrà come

catalizzatore della territorialità nazionale. Il progetto ha sin da subito

riscontrato pareri positivi, sia da parte di esperti che da parte della comunità

forlimpopolese, perché essendo Forlimpopoli terra di commercianti con uno

spiccato senso creativo e d’immagine, permetterà a Casa Artusi di essere il

luogo adatto in cui tutti, nel nome dell’Artusi stesso, potranno pubblicizzare

e rendere noti i loro prodotti tipici. “Quando parliamo di prodotto tipico,

poniamo l’accento sul prodotto di stampo artigianale, contadino, senza

però voler demonizzare o discreditare il prodotto industriale di qualità (si

pensi alla Barilla, per esempio)”, sottolinea l’ex-Sindaco Castagnoli. Anzi,

se un prodotto ottiene poi il marchio, il timbro adottato da Casa Artusi,

questo sigillo non può essere altro che un valore aggiunto per il prodotto

stesso, un segno distintivo, un di più, una griffe.

“Questo è l’ultimo gradino che abbiamo pensato. Sarà il successo della

Festa Artusiana e di Casa Artusi, se sapranno diventare ancora più

importanti di quello che di per sé già sono, a determinare l’importanza

della griffe, del marchio Casa Artusi”.

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4.2 La Festa Artusiana.

La prima edizione della Festa Artusiana risale all’anno 1997.

“La cosa paradossale è che non siamo partiti, come sarebbe stato

normale, con un progetto di marketing. – ricorda Laila Tentoni,

responsabile dell’ufficio Cultura di Forlimpopoli – Siamo partiti in maniera

molto empirica, convinti, sicuri che la strada fosse già assegnata e che un

progetto di consulenza esterno non potesse darci tanto di più di quello che

già avevamo in mente116”.

Sostanzialmente il comune si trovava ad avere tra le mani un grande

nome (quello dell’Artusi), il cui libro, tradotto in svariate lingue, era stato

best seller ed aveva ricevuto riconoscimenti importanti in diversi paesi

europei (Olanda, Germania ecc), Stati Uniti ed altri paesi dell’America

Latina. Occorreva valutare come spendere questo nome.

Un primo passo, come già accennato in precedenza, è stato riunire quelli

che, secondo l’amministrazione, erano i massimi esperti in materia di

cultura del cibo (Montanari, Portinari, Capatti ecc) e studiosi dell’opera

artusiana. Da questa riunione di cervelli emersero alcune direttive che

sarebbero poi state le basi portanti su cui fondare tutto il progetto Festa

Artusiana e, successivamente Casa Artusi. Non essendo interessati a fare

della filologia artusiana (non si poteva pretendere di proporre l’Artusi in

quanto attualità delle sue ricette, datate 1891), l’amministrazione intendeva

recuperare i principi che fanno dell’Autore un vero e proprio profeta: cucina

di stagione, cucina del territorio e qualità dei prodotti.

116 Tratto da un’intervista (a cura dell’autore della medesima relazione, effettuata in data 20/11/2006) al responsabile dell’ufficio Cultura del Comune di Forlimpopoli, Laila Tentoni.

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“Tutte le situazioni legate alla Festa Artusiana non sono luoghi di

culto dell’Artusi, persino Casa Artusi non sarà un luogo di culto,

bensì un luogo di cultura117.”

In quanto luoghi di cultura l’amministrazione decise di adottare un

doppio punto di vista parlando di cibo – come detto in precedenza –, un

doppio binario costituito da gastronomia e da solidarietà; massima

espressione di questa filosofia è il Premio Artusi.

La città di Forlimpopoli, in onore del concittadino Pellegrino Artusi,

attribuisce ogni anno dal 1997 due Premi Artusi118, consistenti nella somma

di Euro cinquemila:

• un premio ad un personaggio che a qualsiasi titolo si sia distinto

per l’originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra

uomo e cibo, privilegiando coloro che hanno fatto della lotta alla

povertà ed alla denutrizione una ragione di impegno quotidiano;

• un premio ad un grande cuoco di fama internazionale che abbia

come finalità la valorizzazione della cucina di qualità e del

territorio.

La giuria è composta da esperti di chiara fama: Adriano Agnati, Alberto

Capatti, Franco Iseppi, Franco Mambelli, Massimo Montanari, Carlo

Petrini, Folco Portinari119.

L’amministrazione ha cercato di mantenere sempre un doppio livello: da

una parte esperti e grandi nomi che seguissero la parte prettamente culturale,

quale i Premi, l’assegnazione degli stessi e i Convegni, che di rito, aprono

l’evento ; dall’altra ha sempre cercato di mantenere un livello assolutamente

117 Ibidem. 118 Per approfondimenti vedi Appendice, tratto dal sito www.pellegrinoartusi.it 119 Cit, da Festa Artusiana, programma 2006.

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popolare (senza, citando M. Castagnoli, dover per forza organizzare la

sagra di paese), per coloro che intendevano fruire gli spazi della Festa, gli

spettacoli, la musica, le degustazioni, senza voler approfondire,

necessariamente, l’aspetto della cultura alimentare.

Questa dicotomia cervello-stomaco, ovvero cibo come cultura e come

nutrimento materiale, è una delle formule chiave del pensiero che

accompagna la Festa Artusiana.

Il Premio Artusi, il Convegno (oltre ad iniziative e laboratori del gusto)

sono sempre stati i punti fermi, irremovibile, che sin dal principio hanno

caratterizzato questa manifestazione. Una cosa che – in maniera se vogliamo

naturale – mancava nei primi anni di svolgimento, era l’adesione di tutte

quelle associazioni che ora costituiscono la vera e propria forza e risorsa.

Racconta L. Tentoni: “… Era fuori da ogni discussione che il primo

fattore di sviluppo su cui puntare fossero le associazioni presenti nel

territorio forlimpopolese. Questa operazione di coinvolgimento è stata

perseguita in maniera leggera ma costante, nel corso di dieci anni,

cercando di ascoltare anche – e soprattutto – le critiche che venivano

mosse: ad esempio, a livello amministrativo, nei primi anni, la Festa era

partita con il voto da parte della maggioranza e con tutte le minoranze a

sfavore. Nel tempo, cercando di ascoltare le critiche, abbiamo smussato gli

angoli di scontro, corretto un poco le cose, ed oggi la Festa Artusiana è una

di quelle iniziative votate all’unanimità dal consiglio comunale. In sostanza

ci siamo portati dietro il paese, ed abbiamo cercato di far sentire promotori

della Festa120, non solamente il comune di Forlimpopoli, ma anche tutti

quegli enti ed associazioni – cittadine e non – che da tempo fanno

operazioni di salvaguardia dei prodotti del territorio, operazioni di cultura

gastronomica ed interventi importanti sulla salvaguardia della

biodiversità.” 120 Da notare che nell’opuscolo esplicativo del programma della Festa Artusiana, sotto la voce Organizzazione della Festa Artusiana v’è accreditata la Città di Forlimpopoli.

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L’amministrazione ha quindi cercato di abbinare all’Artusi, come

garanzia di prodotto di qualità, tutte quelle associazioni121, enti, consorzi

che in quella precisa direttiva, di salvaguardia e recupero, si muovono.

L’ultimo successo in ordine temporale, rispetto al nome Artusi che

diventa un marchio, è stata la presentazione di Casa Artusi al Salone del

Gusto 2006 di Torino (26/30 Ottobre)122, e l’organizzazione da parte delle

Regione Emilia-Romagna di un’iniziativa unicamente incentrata, sera dopo

sera, su menù e prodotti di qualità (aceto balsamico, formaggio di fossa,

prosciutto di Parma …) con testimonial, per l’appunto, Pellegrino Artusi.

La presentazione da parte dell’assessore regionale all’Agricoltura

Tiberio Rabboni ha assicurato che Casa Artusi è uno dei progetti prioritari

regionali, in quanto il lavoro svolto per il progetto stesso ed il lavoro svolto

con l’organizzazione della Festa Artusiana, godono della piena adesione e

fiducia della Regione, in quanto è stata riconosciuta la bontà delle azioni

perseguite da Forlimpopoli, con una direttorio iniziale che è risultata quella

corretta, ed in piena sintonia con il pensiero ed il movimento Slow Food.

Ritornando al discorso delle associazioni che collaborano

all’organizzazione della festa, è bene ricordare che ognuna di esse, di anno

in anno, ha elaborato proposte in piena sintonia con il progetto generale;

molti ristoranti creati ex-novo per la Festa sono gestiti da associazioni di

volontariato, e quindi da persone facenti parte di tali associazioni, che

propongono cucina locale e del territorio, sera dopo sera, anno dopo anno,

migliorando sempre più la qualità culinaria dei loro prodotti.

“In questo senso abbiamo fatto una scommessa – dice L. Tentoni –

perché ricordando che l’Artusi non scriveva per i ristoranti, bensì per le

case (e le casalinghe), abbiamo cercato di rispettare il verbo artusiano

facendo capire che nelle nostre case si mangia bene e che si è così bravi da

poter allargare questa ospitalità anche all’interno della Festa stessa. È 121 Per elenco degli altri soggetti coinvolti nel progetto Festa Artusiana, vedi Appendice. 122 Per approfondimenti sulle altre Azioni Programmate vedi Appendice.

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vero, alcune situazioni sono gestite da professionisti, ma molte di quelle

presenti sono completamente in mano ad appassionati, a buongustai per

vocazione, ed il risultato è che la qualità della gastronomia è più che

buona, basti pensare al tutto esaurito che i ristoranti si trovano ad

affrontare sera dopo sera!”.

Chiamiamo nuovamente in causa la mission di Casa Artusi, primo centro

gastronomico dedicato alla cucina domestica, alla cucina di casa, per

collegarci a quella figura, Marietta Sabatini (fiorentina), che nella lunga vita

dell’autore ricoprì un ruolo a dir poco essenziale: insieme al cuoco

Francesco Ruffilli (forlimpopolese) era l’indiscussa regina della cucina.

Proprio a lei, Forlimpopoli dedica un altro premio: ogni anno nel corso della

Festa Artusiana viene assegnato il Premio Marietta123, un premio

internazionale intitolato alla collaboratrice di Pellegrino Artusi, assegnato

ad una donna o ad un uomo di casa, abile artefice – nello spirito di

Pellegrino e Marietta – di ghiottonerie domestiche. Il Premio è organizzato

in collaborazione con Bennet. I cinque finalisti selezionati dalla giuria

procedono alla esecuzione del piatto e a tutti vengono assegnati 15 kg di

pasta Bennet ed al vincitore la somma di Euro mille124.

“Il Premio Marietta – sottolinea Laila Tentoni, responsabile dell’ufficio

Cultura – è in un certo senso una scelta strategica da parte

dell’organizzazione. Artusi scriveva per le casalinghe (borghesi

dell’Ottocento) ed abbiamo deciso di puntare sulla figura di Marietta,

proprio come figura emblematica, che dedica tempo alla cucina per il bene

dei familiari, che esprime il proprio affetto, anche, attraverso il cibo. Da

qui la decisione di dedicarle un Premio, e dall’edizione 2005 abbiamo

istituito un Premio Marietta ad honorem, premiando chi in qualche modo

123 Per approfondimenti vedi Appendice, tratto dal sito www.pellegrinoartusi.it 124 Cit, da Festa Artusiana, programma 2006.

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ha valorizzato la cucina di casa, o con un lavoro di studio, oppure

mantenendo aperta una tradizione importante.”

Sicuramente Premio Artusi e Premio Marietta, sono elementi che

possono indurre curiosità ed interesse da parte dei turisti.

La voce turismo nel bilancio di Forlimpopoli non era mai apparsa prima

di un paio di anni fa; è un fatto molto recente legato soprattutto al grande

traino della Festa Artusiana. Forlimpopoli, come già detto in precedenza,

non possiede particolari attrattive, non è un paese a vocazione turistica.

Il riscontro del successo dell’ultima edizione della Festa è verificabile

attraverso i seguenti dati125:

• numero delle presenze nei nove giorni della Festa: da 60.000 a

80.000 circa;

• numerose visite ai beni artistici e architettonici, quali museo e

Chiesa dei Servi, complessivamente n. 800 ca, per i quali si è

provveduto all’aumento della apertura al pubblico di tre ore per

tutte le giornate della Festa, compresa l’apertura dell’ufficio

turistico;

• pernottamenti e n. pasti realizzati dai ristoratori ed albergatori

della città che hanno dichiarato soddisfazione e verificato

l’incremento delle presenze grazie all’indotto della Festa stessa:

n. 110 pernottamenti e n. pasti 1800 ca. in più della situazione

ordinaria;

• dall’interesse della stampa e delle tv sia locali che nazionali126.

Il successo ottenuto non nasconde un dato: l’affluenza di pubblico è

composta dai forlimpopolesi stessi (non è una dato scontato perché i 125 Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli. 126 Per approfondimenti vedi Appendice.

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cittadini di Forlimpopoli si sono sempre dimostrati abbastanza restii nel

partecipare ad iniziative promosse dal comune) che hanno preso l’abitudine

di frequentare il centro storico durante le nove sere di Festa; altri utenti

(pochi in realtà) sono costituiti dai turisti residenti nelle zone turistiche

marittime; un numero decisamente più cospicuo ed importante è costituito

dai cittadini dei comuni romagnoli – più o meno vicini – che decidono di

visitare l’evento. Comunque sia possiamo dire che la Festa Artusiana gode

di un bacino di utenza sicuramente più che regionale.

Per quanto riguarda il fattore età, sino ad un paio di anni addietro il

pubblico era composto per lo più da famiglie con bambini, adulti ed anziani;

il pubblico giovane è un target nuovo, che l’amministrazione è riuscita a

coinvolgere (dal 2005 e nel 2006 in particolare) grazie ad alcune correzioni

svolte con iniziative più particolari, giovanili, quali la “Birreria –

stuzzicheria – wine bar” (gestita dall’Associazione Protezione Civile),

“L’Osteria d’E Goz” (dove rivive la vecchia osteria romagnola tra insulti e

goliardate, a cura dell’Associazione E Goz) e la “Freschineria” (a cura del

Comitato Valorizzazione del Centro Storico127).

La mancanza di una politica turistica non ha compromesso né

l’andamento né il successo della Festa. Da notare comunque il tentativo del

comune, in collaborazione con altri comuni della zona, di creare pacchetti

turistici che intrecciassero le varie realtà presenti nel territorio,

dall’enogastronomia la benessere, dallo sport alla culture, al tempo libero,

con punto fermo di ogni itinerario la visita serale alla Festa Artusiana.

“Nonostante lo sforzo da parte di vari comuni, i risultati sono stati molto

modesti, costruiti con una piccola forza. Le motivazioni sono varie, per

esempio la Festa Artusiana cade in un periodo in cui l’anno scolastico è

appena terminato, in cui l’affluenza di turismo nella Romagna in generale è

ancora abbastanza limitato (fine giugno); altro fattore da non dimenticare è

127 Meglio conosciuti come quelli del Bar Sport!

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che seppur la durata di nove giornate (dalle h. 20 alle 24) sia una durata

ampia, che permette lo sviluppo di diversi eventi e scenari all’interno della

Festa, risulta essere ben poco tempo per poter organizzare pacchetti

turistici per i più svariati gusti”, sottolinea Mauro Grandini assessore alla

Cultura di Forlimpopoli, aggiungendo che il territorio riesce a dare risposte

per il 17-18% della domanda complessiva128.

Tutt’altro scenario si prospetterà con l’inaugurazione di Casa Artusi: la

Festa è nata proprio come apripista, come momento di attesa per far capire

le potenzialità della città di Forlimpopoli, in relazione al cibo e alla

gastronomia, che ha catalizzato attorno a se una serie di collaborazioni

importanti ed interessanti. Tutto questo lavoro di comunicazione e di

promozione dovrà confluire in maniera sistematica, e non solo per nove

giorni l’anno, a Casa Artusi e, grazie alla medesima, sarà poi rilanciato e

ridistribuito su tutto il territorio regionale.

“Per il progetto Casa Artusi abbiamo coinvolto la provincia - che

rappresenta tutti i comuni - e la regione - che rappresenta tutte le province -

ed effettivamente vi è la consapevolezza che tramite l’Artusi, ciascuno di

questi comuni potrà godere di quel valore aggiunto, nella costruzione e

nella programmazione di pacchetti turistici territoriali” dice L. Tentoni ed

aggiunge: “Casa Artusi non vuole essere un centro autoreferenziale, vuol

essere un centro in cui i turisti possono trovare tutte le informazioni

necessarie su un territorio ampio; ricordiamo che Casa Artusi fa parte di

quello che si chiama ‘Patto d’area’, un progetto di finanziamento da parte

della regione, che riguarda il sostegno ad aree cui non sono stati elargiti

alti finanziamenti. Questo ‘Patto’ ha ricevuto l’adesione di tutti i comuni

del territorio, i quali hanno condiviso che la nascita di Casa Artusi a

Forlimpopoli, possa costituire interesse concreto per la provincia di Forlì-

Cesena, e la stessa regione Emilia-Romanga”. 128 Tratto da un’intervista (a cura dell’autore della medesima relazione, effettuata in data 9/10/2006) all’assessore alla Cultura del Comune di Forlimpopoli, Mauro Grandini.

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Elenchiamo alcune proposte di possibili pacchetti turistici nel territorio

romagnolo durante la Festa Artusiana129:

• Pacchetto benessere: con l’apertura nella prossima primavera

delle terme della Fratta e la presenza delle terme di Castrocaro

sarà possibile abbinare pacchetti benessere e relax con

degustazioni a Casa Artusi e visite serali alla Festa Artusiana;

• Pacchetto Palmezzano: ripercorrendo gli itinerari studiati per la

mostra inaugurale del San Domenico si propongono visite

guidati ai luoghi del Palmezzano (Forlì, Forlimpopoli,

Castrocaro, Brisighella);

• Pacchetto Silvestro Lega: un fine settimana alla riscoperta della

terra che fu di Silvestro Lega e dei luoghi che lo ispirarono,

rivisitato dalla mostra a lui dedicata al San Domenico la

prossima primavera;

• A tutta festa: si vive di notte nella tradizione romagnola! Visite

alla Festa Artusiana a Forlimpopoli, alla festa di San Giovanni a

Cesena e alle feste medioevali di Brisighella. Durante il giorno

alla scoperta dei paesi che ospitano le feste e alla sera

passeggiate negli stessi luoghi animati dalle più belle feste della

Romagna;

• Pedalar gustando: si propongono itinerari in bicicletta con

partenza e arrivo a Forlimpopoli alla scoperta dei luoghi e dei

sapori del territorio. Ogni percorso, di differente difficoltà,

prevede delle gustose tappe nelle più rinomate aziende agricole e

vitivinicole del territorio dove sarà possibile assaggiare i cibi e i

vini della tradizione romagnola;

129 Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli.

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- 92 -

• Dal mare alla montagna: Forlimpopoli è a mezza via tra gli

Appennini e l’Adriatico, per chi non vuol farsi mancare nulla un

fine settimana alla scoperta delle attrazioni della costa romagnola

e della tranquillità del Parco Nazionale delle Foreste

Cesenatinesi, con tappa serale per rifocillarsi e rilassarsi in

allegria a Casa Artusi e alla Festa Artusiana.

Gli obiettivi a finalità turistiche che il comune persegue sono130:

• Promozione dell’enogastronomia dei prodotti tipici, delle

tradizioni alimentari che, grazie al valore aggiunto offerto dal

nome dell’Artusi, vengono proposti, in piena collaborazione con

i Consorzi di tutela, Associazioni di categoria, Comuni, dalla

Città di Forlimpopoli per valorizzare l’intero territorio

romagnolo ed attirare un numero crescente di turisti attratti dalla

cultura e dai percorsi di qualità;

• L’enogastronomia quindi può essere considerata come cultura

del territorio che deve diventare un prodotto turistico sempre più

specifico e di qualità. Per raggiungere tali finalità si lavorerà

anche in sinergia con Club di Prodotto, Strada dei vini e dei

sapori dei colli di Forlì-Cesena;

• Conoscenza del territorio dal punto di vista culturale-artistico

con organizzazione di visite guidate da personale specializzato.

Questo progetto si propone di integrare e di dare evidenza delle

eccellenze turistiche del territorio e dei prodotti enogastronomici locali in

linea con quanto riportato nel programma d’area “Parco nazionale delle

Foreste Cesenatinesi, Valle del Bidente e Forlimpopoli” in direzione della

130 Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli.

Page 93: tesi Artusiana 2006

- 93 -

realizzazione di Casa Artusi, che dal giorno dell’apertura sarà il punto di

riferimento stabile della cultura enogastronomica del territorio. In base a

questo programma d’area si lavora maggiormente sul comparto “Appennino

e verde” per la condivisione di finalità e risorse in quanto progetto

finalizzato ad attrarre l’interesse di un turismo rurale, enogastronomico e

delle tradizioni, tramite la valorizzazione dei prodotti tipici e

l’organizzazione di eventi di richiamo131.

Ridefinendo, durante il periodo della Festa, la toponomastica del centro

storico in base al nome ed al manuale dell’Artusi, la città trova una sorta di

reificazione de La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, assume

connotati diversi: il manuale diventa strada e si fa proposta132.

Piazza Garibaldi, ospitando “I Tesori del Territorio ” e “Le Città dei

Sapori” diventa, “Piazza Pellegrino Artusi”, sinonimo qualità:

• I Tesori del Territorio: quella artusiana vuole essere una festa

militante a difesa e tutela dei prodotti di qualità: trovano

ospitalità in Piazza Pellegrino Artusi i prodotti a marchio,

tradizionali, tipici, ovvero quelli che rappresentano la massima

garanzia di genuinità, legame col territorio, all’interno di una

produzione agro-alimentare rispettosa dell’ambiente naturale e

culturale d’origine. Ogni sera un prodotto, discusso e degustato

trova ospitalità in questa vetrina della produzione d’eccellenza

della nostra Regione.

• Le Città dei Sapori: sempre in Piazza Pellegrino Artusi le città

ospiti, amiche di Forlimpopoli e dell’Artusi, presentano sapori di

lunga tradizione. Delle città si raccontano i profumi, gli aromi, i

prodotti che appartengono a tradizioni lontane, ottenuti nel tempo 131 Cit. Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli. 132 Per approfondimenti riguardo la mappa 2006 della Festa vedi Appendice.

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dal lavoro quotidiano di uomini e donne. La saggezza della

cultura materiale ha costruito sapori importanti, taluni semplici e

raffinati, altri forti e pungenti, comunque autentici perché

disegnano l’arte e l’architettura della cultura gastronomica133.

Piazzale Paolucci (la piazza delle Poste) si trasforma in “Piazza del

Biologico”: uno spazio dedicato al modo del biologico, ovvero la nuova

frontiera nella difesa di un’alimentazione sana. Rispettosa del territorio e

delle sue tradizioni, con l’obiettivo di creare un forte richiamo a livello

nazionale, che coinvolga qualificate aziende locali e non, allo scopo di

aprire una finestra sul biologico italiano per evidenziarne, oltre alle note

caratteristiche ecologiche e salutistiche, anche la forte attenzione verso la

qualità, la tipicità e l’eticità del prodotto134.

Le strade e le piazze del centro storico assumeranno connotati del

manuale artusiano: Piazza Pompilio sarà “Piazza della Marietta”, dedicata

alla tipica cucina di casa; Via Veneto diventerà “Via degli Erbaggi”,

caratterizzata dagli stand assegnati ai produttori di ortofrutta; proseguendo

verso Via Sendi, che sarà titolata “Via di tutte le Salse”, arriveremo a Via A.

Costa nominata “Via dei Gelati, Liquori e Siroppi135”, dove sono collocate

le proposte gastronomiche di ambulantato in sintonia con il nome della

strada. Via Saffi e la parallela Via Oberdan ospiteranno il circuito di “Via

delle Cose Diverse”, che ripropone il classico mercato alimentare, con

bancarelle di prodotti tipici provenienti da altre regioni, e dove trova

collocazione Cucina dal mondo, uno spazio interamente dedicato alle varie

etnie presenti nella città di Forlimpopoli, dove ogni sera vengono proposti

133 Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli. 134 Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli. 135 Siroppi e non sciroppi, proprio come è scrive Artusi nel libro.

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- 95 -

cibi tipici stranieri in sintonia con lo spirito di integrazione e solidarietà

presente in tutta l’idea della Festa Artusiana.

“La vera sfida che l’amministrazione si è posta è l’integrazione,

cercare di integrare sviluppo del territorio, iniziative culturali,

iniziative gastronomiche e patrimonio storico-archeologico, integrare

tutte queste realtà in un unico progetto di città che trova il suo fulcro

nella figura dell’Artusi. È un fattore di conoscenza rispetto alla

cultura dei popoli. Il cibo è un bisogno primario nell’uomo.

Forlimpopoli non fa altro che stimolare, ridare vita al processo di

conoscenza nei confronti del cibo e della cultura legata al cibo, che

nell’ultimo ventennio è andata – in parte – perduta a causa

dell’influsso delle multinazionali che governano il sistema alimentare;

d’altra parte tante persone e tanto gruppi organizzati stanno

scontrandosi contro questa folle realtà, promuovendo iniziative e

prodotti, sani e unici136”.

4.3 Casa Artusi.

Casa Artusi si inserisce in un progetto culturale-economico-urbanistico

più generale, denominato “Città Artusiana” in base al quale Forlimpopoli da

alcuni anni ha deciso di ridefinire la propria identità culturale mettendo a

frutto la principale risorsa potenziale di cui la città gode, ovvero essere il

luogo natale di Pellegrino Artusi, padre riconosciuto della cucina italiana.

Se le varie iniziative già intraprese, come la Festa Artusiana, il Premio

Artusi, il gemellaggio con la città francese di Villeneuve-Loubet, città natale

del grande chef creatore della gastronomia francese Auguste Escoffier,

hanno richiamato l’attenzione di numerosi appassionati e cultori, con Casa

136 Cit. Mauro Grandini, assessore alla Cultura.

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- 96 -

Artusi si intende costituire un centro di aggregazione permanente ed

attribuire a Forlimpopoli in maniera inequivocabile l’immagine di città

vocata alle tematiche della cultura gastronomica.

Casa Artusi verrà realizzata all’interno dell’isolato della chiesa dei Servi

nel centro storico di Forlimpopoli. L’intero isolato (anticamente un

convento con annessa la chiesa) ha una lunga storia che inizia nel

Medioevo. Le varie costruzioni che oggi lo compongono sono il risultato di

una serie di trasformazioni, spesso modeste, ma a volte consistenti, che

hanno cambiato ripetutamente l’aspetto dell’isolato stesso nel corso dei

secoli, prima con progressivi ampliamenti, poi con interventi radicali che

hanno modificato le strutture del convento sino alla seconda metà

dell’Ottocento. Tale complesso, che riveste particolare importanza storica e

simbolica per Forlimpopoli, si presta in modo del tutto appropriato ad

ospitare la sede. Dal punto di vista dello spazio e dell’architettura più in

generale, il complesso, pur essendo vincolato e quindi non suscettibile di

radicali trasformazioni, è idoneo, con i suoi oltre 2.000 mq di area, oltre la

corte e la bella chiesa dei Servi, alla funzione cui dovrà essere adibito137.

Casa Artusi è il primo centro di cultura gastronomica dedicato alla

cucina domestica italiana, con funzione di documentazione antica (fondi

gastronomici dell’800 e ‘900) e contemporanea (sito internet), di

divulgazione (corsi, conferenze) e di sperimentazione (piatti e ricette delle

regioni e località italiane eseguiti nel laboratorio, serviti nella sala da

pranzo). Non si pone in concorrenza con altre sedi e iniziative dedicate alla

cucina italiana da un punto di vista professionale, data la sua natura

eminentemente storico-culturale e la sua specializzazione – in linea con la

tradizione artusiana – nell’area delle pratiche domestiche, un patrimonio

culturale di cui è evidente l’importanza ai fini non solo conservativi ma

educativi e didattici. 137 Casa Artusi, linee progettuali definite dal Comitato Scientifico e approvate dalla Giunta Municipale con atto n. 211 del 13/9/03.

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Sarà un centro polifunzionale strutturato come una grande abitazione in

cui sono presenti una cucina (laboratorio), una sala da pranzo, una biblioteca

(fondo artusiano e civica), un salotto e sale per incontri e mostre tematiche.

La chiesa adiacente è parte integrante del progetto e potrà ospitare mostre,

concerti e altre manifestazioni.

Casa Artusi avrà anche un’impronta moderna e tecnologica: discoteca,

cineteca, biblioteca (cartacea e informatica), iconoteca riprodurranno tutto il

materiale disponibile, opportunamente selezionato in virtù della missione

del Centro. Un sito internet informerà i lettori sull’opera di Pellegrino Artusi

mettendo in consultazione tutte le edizioni (la prima del 1891 e le

successive tredici) della Scienza in cucina. Il sito avvierà, in tempi

ravvicinati, una posta con lettrici e lettori in cui risponderà a quesiti

gastronomici, richieste di ricette, informazioni sulla cucina di casa,

riproducendo, con le moderne tecnologie elettroniche, la stessa metodologia

di scambio epistolare di cui si servì Artusi per la compilazione e

l’arricchimento del suo ricettario. Si costituirà in tal modo una banca dati

delle ricette domestiche italiane, che le lettrici e i lettori contribuiranno ad

alimentare dietro precisa sollecitazione (“inviateci le ricette di casa

vostra!”).

Non si tratterà quindi di un museo statico, bensì dinamico, con una

identità culturale forte, in piena integrazione con il territorio e i suoi

prodotti. Non si vuole “imbalsamare” l’Artusi, ma renderlo vivo e vegeto

nel contesto attuale. Saranno presenti alcuni “cimeli” e tracce della memoria

biografica del personaggio, ma inserite in un percorso di diffusione a tutti i

livelli (didattici, di larga divulgazione, di pratica, di esercizio, di

ristorazione, di formazione, di produzione di oggetti e di eventi) della

cultura e della pratica gastronomica italiana, in cui tutti i sensi potranno

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- 98 -

essere esercitati, compreso un “sesto senso”, l’intuizione, che nella

preparazione e nel consumo del cibo non è forse meno necessario138.

L’eredità di Pellegrino Artusi – appassionato di buone letture, filantropo,

grande sperimentatore delle buone pratiche di cucina domestica, famoso in

tutto il mondo per aver scritto un libro (o meglio 14 versioni dello stesso

libro, che quasi si identifica con lo stesso nome dell’autore: “l’Artusi”,

presente, unto e bisunto, forse in quasi tutte le case degli italiani) – viene in

tal modo investita dalla sua città natale in un progetto polifunzionale vivo ed

attivo.

Non senza tener conto della forte crisi della cucina domestica, esso

ripropone come modello la cucina di casa, fatta non di regole e codici

immutabili, bensì di sperimentazione, di insegnamenti e di pratica concreta,

che si reinventano e si riscrivono quotidianamente. Con questo si ricorda

anche la fedele cuoca Marietta, figura centrale nell’opera e fortuna

dell’Artusi, a cui Forlimpopoli dedica da anni un Premio nazionale riservato

ai non professionisti.

Al tempo stesso ripropone l’idea del libro – un libro in cucina – come

tramite essenziale per la trasmissione anche della tradizione orale facendosi

promotrice di un progetto culturale assolutamente originale. Al suo interno,

la Cucina e la Biblioteca sono i due luoghi simbolici che, rincorrendosi e

interagendo l’uno con l’altro, danno senso e unità al tutto.

Pertanto Casa Artusi è aperta a tutti coloro che , appassionati e curiosi,

casalinghe e “cuciniere”, professionisti e cultori, studiosi e ricercatori

vogliano approfondire la cultura e la pratica della cucina domestica139.

Gli spazi di Casa Artusi, usufruibili anche disgiuntamente,

rappresentano un continuum ideale e materiale, attraverso un percorso

coerente legato al cibo.

138 Casa Artusi, linee progettuali definite dal Comitato Scientifico e approvate dalla Giunta Municipale con atto n. 211 del 13/9/03. 139 Ibidem.

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La Biblioteca Artusiana140:

La biblioteca civica esistente a Forlimpopoli porta il nome dello stesso

Artusi perché nata in virtù di una clausola del suo testamento, ove si

stabiliva che tutti i volumi lasciati in eredità al Comune avrebbero dovuto

servire quale “fondamento e principio alla formazione di una pubblica

biblioteca da istituirsi a Forlimpopoli”. Essa sta già potenziando la sezione

eno-gastronomica e troverà adeguata sistemazione nei locali dell’isolato

della chiesa dei Servi. Nella biblioteca di Casa Artusi, oltre a quella civica

troveranno ospitalità:

Collezione Artusiana:

• “l’archivio Pellegrino Artusi” che consiste di: carteggio (oltre

450 documenti di corrispondenza con amici, colleghi, lettori,

editori); carte patrimoniali; autografi delle opere “Appunti

preparatori per la ‘Vita di Ugo Foscolo’”, “vita di Ugo Foscolo.

Nota al carme dei sepolcri”, e documenti diversi; la produzione

video sulla vita dell’Artusi e altri materiali realizzati nel 1991, in

occasione del centenario del libro, con la mostra “La cucina

bricconcella”.

• la libreria di Artusi (“Fondo Pellegrino Artusi”), ovvero i 400

volumi lasciati al Comune quale fondamento della Biblioteca;

• tutte le edizioni, in originale o in riproduzione, della Scienza in

cucina, e tutte le traduzioni in lingua straniera;

• tutti gli studi e la letteratura sull’Artusi e dintorni

Raccolta di gastronomia italiana:

• una collezione “storica”, retrospettiva e corrente, di libri coerenti

e/o contestuali con l’idea diffusa dall’Artusi (la cucina di casa, 140 Casa Artusi, linee progettuali definite dal Comitato Scientifico e approvate dalla Giunta Municipale con atto n. 211 del 13/9/03.

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“borghese”, familiare, economica): trattati, ricettari, libri di casa

ma anche saggi storici, antropologici, sociali sull’argomento

specifico e su quelli correlati.

• Una collezione di riviste: le poche “storiche” e retrospettive e le

principali e più importanti fra le correnti, garantendo tutti i livelli

di trattazione e lettura, da quello della buona divulgazione a

quelle legate alle organizzazioni “classiche” (Gambero Rosso,

SlowFood, Accademia Italiana della Cucina) a quelle

professionali e di categoria, specie se legate alle attività culturali

e formative di Casa Artusi;

• Una collezione di documenti multimediali rispondente alle

medesime caratteristiche: videocassette e dvd (film di soggetto

gastronomico e a carattere documentario); cd-rom (banche date e

bibliografiche, cataloghi di biblioteche specializzate,

enciclopedie, dizionari e altri cd-rom di divulgazione);

• Un allestimento di postazioni internet organizzato e predisposto

per facilitare il collegamento e l’accesso ai siti, divulgativi e di

ricerca, alle banche dati specializzate, a istituzioni, associazioni

professionali, facoltà e istituti universitari, a disposizione sia di

studiosi e ricercatori, sia di semplici cultori, appassionati, curiosi.

Sarà operativo, in collaborazione con l’Istituto per i Beni

artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, il

Portale “Le chiavi di casa Artusi”, porta d’ingresso di risorse

web sulla cucina di casa, che offre funzioni di ricerca, di

informazione ed altro.

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Ristorante Artusiano141:

La linea gastronomica, fedele ai concetti espressi dall’Artusi e

coerentemente alla missione del centro, non può che privilegiare la cucina

tradizionale domestica, cercando quotidianamente un rapporto coerente e

corretto con il nostro territorio, dove una buona scelta dei prodotti

rappresenta il presupposto fondamentale. Non solo prodotti di qualità,

quindi, ma anche prodotti freschi, stagionali e territoriali. Si propone la

cucina di casa che, in riferimento alla costante mancanza di tempo e

all’assenza di figure anziane di riferimento, sembra condannata all’oblio.

Le ricette quindi derivano dal recupero della cucina di casa e dalle

tradizioni gastronomiche popolari, che , nel nostro territorio, costituiscono

un patrimonio straordinario ricordando anche la ritualità affascinante del

mondo contadino, come la raccolta dell’uva e la produzione di saba e savor,

l’uccisione del maiale, etc.

A sostegno della linea gastronomica, si va alla costituzione della

Cooperativa della Mariette, che, in omaggio alla fedele cuoca di Artusi, avrà

il compito di promuovere la cultura alimentare della tradizione ed avviare

un lavoro di ricerca e recupero dell’azdora di casa. Naturalmente la pasta

fresca, cioè la sfoglia tirata con il matterello, sarà protagonista della

ristorazione di Casa Artusi, così come le ricette tradizionali romagnole,

privilegiando la semplicità e la genuinità delle proposte.

Scuola di cucina142:

La scuola, coerentemente alla ragione sociale di Casa Artusi, è

finalizzata: alla conoscenza del patrimonio eno-gastronomico nazionale; alla 141 Casa Artusi, linee progettuali definite dal Comitato Scientifico e approvate dalla Giunta Municipale con atto n. 211 del 13/9/03. 142 Casa Artusi, linee progettuali definite dal Comitato Scientifico e approvate dalla Giunta Municipale con atto n. 211 del 13/9/03.

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conoscenza delle diverse tradizioni e cucine locali, che nell’insieme

costituiscono il patrimonio nazionale; alla valorizzazione dei prodotti del

territorio e della piccola produzione agroambientale; alla conoscenza dei

comportamenti, dei riti, delle tecniche di preparazione di ciascun territorio.

Seguendo questa direttiva si possono realizzare in via permanente

progetti di educazione che prevedono l’uso della cucina: corsi di formazione

e specializzazione con dimostrazioni per un pubblico di appassionati e

cultori; master di cucina con un insegnamento eminentemente pratico; corsi

di formazione per operatori del settore; iniziative di educazione al gusto,

rivolte agli studenti di ogni ordine e grado; formazione professionale per

docenti. Ed inoltre corsi in cui, in modo univoco ed esclusivo in rapporto

all’Artusi, si impara a mangiare il “vero Artusi”, rigorosamente ricostruito

sulla base del suo ricettario.

Sale, salotti, cantine:

“Una discussione sul cucinare l’anguilla, vale una dissertazione

sul sorriso di Beatrice” (Olindo Guerrini).

Se in un locale saranno conservati – in maniera funzionale all’uso più

generale – i pochi cimeli artusiani, costituiti dal salotto dell’Artusi e qualche

quadro, nel resto degli spazi saranno organizzati, in maniera dinamica e

all’interno di un approccio storico, scientifico e didattico, incontri, seminari

e mostre legati al centro tematico di Casa Artusi ovvero la cultura del cibo,

ma più specificatamente la cucina italiana familiare e locale del XX secolo.

Le mostre potranno quindi documentare, nella loro evoluzione, gli

ambienti (cucina, sala da pranzo, dispensa, cantina); gli oggetti (utensili,

servizi da tavola, oggetti d’arredo); la struttura del pranzo, i modi

d’apparecchiare e la presentazione dei piatti; le tecniche di cucina.

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I temi, anche se tutti legati al cibo, potranno essere i più vari: dagli

oggetti d’arte e d’antiquariato agli oggetti di design, dalle opere di artisti

contemporanei ai libri, dalla fotografia alla pubblicità, dai prodotti

alimentari ai vini. Si organizzeranno conferenze, seminari, presentazioni di

libri, ed il cibo sarà protagonista anche tramite le varie discipline artistiche

(teatro, cinema, pittura, musica).

Pertanto Casa Artusi è aperta a tutti coloro che, appassionati e curiosi,

donne e uomini di casa, professionisti e cultori, studiosi e ricercatori

vogliano approfondire la cultura e la pratica della cucina domestica.

Il buon cibo è qualità della vita.

“La memoria conta veramente – per gli individui, le

collettività, le civiltà – solo se si tiene insieme l’impronta del

passato e il progetto del futuro, se permette di fare senza

dimenticare quel che si voleva fare, di diventare senza smettere

di essere, di essere senza smettere di diventare.”

(Italo Calvino)

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Appendice.

Nel terzo capitolo abbiamo trattato sulla nuova gastronomia definendola

una scienza multidisciplinare, la quale racchiude al suo interno una vasta

serie di altre materie, diverse e complementari tra loro, le quali concorrono a

meglio definire e comprendere tutto ciò che riguarda l’elemento cibo.

Riporteremo in seguito alcuni esempi di questa multidisciplinarità con

scopo di ampliare, analizzandolo, il discorso inerente alla nuova

gastronomia.

Come già detto nel IV capitolo, durante la Festa Artusiana viene

assegnato un duplice Premio Artusi: un premio ad uno cuoco di fama

internazionale che abbia come finalità la valorizzazione della cucina di

qualità e del territorio, ed un premio ad un personaggio che a qualsiasi titolo

si sia distinto per l’originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra

uomo e cibo, privilegiando coloro che hanno fatto della lotta alla povertà ed

alla denutrizione una ragione di impegno quotidiano.

Riguardo questo secondo aspetto, ed in relazione alle tematiche

concernenti la nuova gastronomia, analizzeremo meglio tre aspetti: la

biodiversità e i semi; sostenibilità/insostenibilità; la globalizzazione.

I. Della botanica, le scienze naturali e la genetica ovvero Della

biodiversità e dei semi.143

Il problema della catalogazione delle varietà di frutta e verdura è di

strettissima attualità e di una certa urgenza.

La forte spinta al produttivismo agricolo su base sostanzialmente

industriale ha dato origine a una veloce selezione – non solo naturale, ma 143 Cfr, Buono, Pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia, Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005.

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anche tramite l’ibridazione, fino alla vera e propria ‘creazione’ attuata

attraverso gli Organismi geneticamente modificati – di varietà vegetali e

razze animali studiate per venire incontro ai nuovi processi di produzione. I

peperoni quadrati d’Asti e molte varità di mais latinoamericane per

esempio, hanno dovuto far posto a ibridi o comunque a varietà più

produttive. Lo stesso Millennium Ecosystem Assessment Report, e il più

recente Living Planet Report 2006144, dà conto della massiccia riduzione di

biodiversità sul pianeta, che si è già verificata e che continua a un ritmo

esponenziale. Tra le cause principali indicate nel rapporto ci sono proprio i

moderni sistemi agricoli.

Nel libro miscellaneo Fatal Harvest145 si riportano alcuni dati nei soli

Stati Uniti: l’80,6 per cento delle varietà di pomodori si è estinto dal 1903 al

1983; e così il 92,8 per cento delle varietà di insalata, l’86,2 per cento delle

varietà di mele e, sempre nello stesso periodo, il 90,8 per cento di mais e il

96,1 per cento di mais dolce. Delle oltre 5000 varietà esistenti di patate,

soltanto quattro costituiscono la stragrande maggioranza di quelle coltivate

a fini commerciali negli Stati Uniti; due tipi di piselli occupano il 96 per

cento delle coltivazioni americane e sei tipi di mais il 71 per cento del totale.

144 Il Living Planet Report del 2006 è il frutto di un lavoro di durato due anni durante i quali sono stati compilati due indicatori dello Stato di salute del pianeta. Il primo indicatore, l’Indice del Pianeta Vivente (Living Planet Index) si basa sui trend di oltre 3.600 distinte popolazioni di 1.300 specie di vertebrati in tutto il mondo. In tutto sono stati analizzate 695 specie terrestri, 344 di acqua dolce e 274 specie marine. Negli oltre trent’anni presi in considerazione le specie terrestri si sono ridotte del 31%, quelle di acqua dolce del 28% e quelle marine del 27%. Il secondo indice, l’impronta ecologica, misura la domanda in termini di consumo di risorse naturali da parte dell’umanità. Il ‘peso’ dell’impatto-umano sulla Terra è più che triplicato nel periodo tra il 1961 e il 2003. Questo rapporto mostra che la nostra impronta ha già superato nel 2003 del 25% la capacità bioproduttiva dei sistemi naturali da noi utilizzati per il nostro sostentamento. Nel rapporto precedente (quello pubblicato nel 2004 e basato sui dati del 2001) era del 21%. In particolare, l’Impronta relativa alla CO2, derivante dall’uso di combustibili fossili, è stata quella con il maggiore ritmo di crescita dell’intera Impronta globale: il nostro ‘contributo’ di CO2 in atmosfera è cresciuto di nove volte dal 1961 al 2003. Da www.wwf.it 145 Andrew Kikbrell, Fatal Harvest. The Tragedy of Industrial Agricolture, Island Press, Washington, 2002.

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Le multinazionali delle sementi cercano di imporre i loro semi sul

mercato in tutti i modi: la selezione naturale operata dai contadini, che si

praticava tradizionalmente dopo ogni raccolto, mettendo da parte i semi

delle piante che avevano le caratteristiche migliori, non si pratica quasi più

se non in zone dove si continuano a utilizzare metodi agricoli ritenuti

“arretrati”. I semi oggi si comprano di anno in anno da chi ha sviluppato le

varietà che danno un raccolto più abbondante: quantità a tutti i costi,

resistenza agli erbicidi che spesso sono prodotti dalle stesse industrie

cementiere. Fino ad arrivare agli Ogm, la summa massima di questa

evoluzione dai caratteri “innaturali”: dodicimila anni di lenta selezione

effettuata dai contadini sono stati cancellati in soli cinquant’anni per

inseguire fini commerciali.

Questo mercato dei semi dà origine a storie veramente assurde. Nello

Saskatchewan in Canada, il contadino Percy Schmeiser ha sostenuto negli

ultimi dieci anni una lunga ed estenuante battaglia legale contro la

multinazionale Monsanto perché accusato di essersi appropriato

indebitamente di alcuni semi geneticamente modificati. Fu accusato di

violazione del brevetto che la multinazionale americana detiene su un tipo di

colza transgenica, ma lui ha sempre sostenuto che il suo campo è stato

contaminato dalla coltivazione del vicino146.

Altro esempio è la vicenda della regione del Karnataka, in India, dove

più di seicento contadini all’anno si suicidano (in tutta l’India sono migliaia

i casi) perché non possono più far fronte ai debiti cui devono ricorrere per

comprare ogni anno i semi e i prodotti chimici che li completano. O il

Messico, dove girando per le zone rurali più remote – la culla della

biodiversità in fatto di mais – la campagna rigogliosa, quasi selvaggia, è

interrotta e punteggiata ovunque di cartelloni pubblicitari. Si tratta o della

Coca-Cola, oppure delle multinazionali dei semi, che pubblicizzano varietà

146 Percy Schmeiser, Davide vs Golia, in Il cibo e l’impegno 2, I quaderni di Micromega.

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- 107 -

‘miracolose’ di mais (il fatto che si pubblicizza il mais è già di per se una

cosa piuttosto straniante, in certe zone del Messico).

Quello dei semi è evidentemente il business su cui maggiormente

puntano le multinazionali dell’agricoltura per controllare il mercato. In

questo senso, a prescindere da ogni valutazione etica, salutistica o ecologica

in merito agli Ogm, va detto che sono l’arma più subdola e potente di una

strategia commerciale che vuole appropriarsi di tutta la filiera produttiva, a

cominciale dal primissimo fattore della vita stessa: i semi per l’appunto.

Gli agricoltori che acquistano sementi geneticamente modificate dalle

aziende dedite alla “scienza della vita” al momento dell’acquisto devono

firmare un contratto in cui si impegnano a non conservare i semi dei loro

raccolti. Se violano l’accordo e li ripiantano l’azienda ha il diritto di

distruggere la loro produzione147. In pratica le piante geneticamente

modificate trasferiscono alle grandi corporations il controllo sulla

produzione alimentare; allo stesso tempo, scompare la tradizione di

conservare e spartire i semi e l’agricoltore perde il controllo sui propri

mezzi di sussistenza. Le piante geneticamente modificate non possono

essere destinate alle piccole fattorie familiari integrate. Il grano e la soia

della Monsanto sono modificati in modo da resistere all’impiego dell

erbicida dell’azienda, e dunque gli agricoltori possono trattare tutti i loro

campi uccidendo le erbacce e risparmiando le messi. Ma questa tecnica di

controllo delle erbacce per i piccoli agricoltori è molto meno utile che per

gli “agrobusiness” con i loro immensi campi coltivati e la grande dotazione

di macchinari.

Altro mito da demolire è che gli Ogm sono necessari a causa

dell’insufficienza della produzione alimentare mondiale: non c’è alcuna

scarsità di cibo, quanto un sistema distributivo che crea eccedenze nei paesi

147 Nancy Freeman, Ricordare Seattle, Slow, n°17, 2000.

Page 108: tesi Artusiana 2006

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ricchi e scarsità in quelli poveri148. Gli effetti dei brevetti sulle forme di vita,

nei paesi del Terzo Mondo, risultano ancora peggiori perché in quei luoghi

conservare e spartire i semi è ancora più importante per la sopravvivenza

che nel mondo sviluppato.

Un fatto ancora più tragico per gli agricoltori di quei paesi è la corsa

delle grandi società a scoprire e brevettare nuove varietà genetiche

commerciabili. Da un giorno all’altro, messi coltivate per secoli in

Tailandia, India e Perù sono diventate proprietà intellettuale di società

transnazionali che hanno sede negli Stati Uniti e in Europa.

L’ingegneria genetica presenta il rischio di una nuova forma di

inquinamento o “contaminazione”, che in certi casi può incidere sulla salute

e sull’ambiente e creare rischi biologici. L’introduzione di nuove specie

negli ecosistemi ha determinato il fenomeno della bioinvasione, ossia una

forma di rischio biologico; l’introduzione di geni estranei nelle piante può

produrre un impatto biologico imprevedibile. Alcuni organismi possono

essere portati all’estinzione da colture che liberano tossine, altri possono

diventare specie invasive che dominano certi ecosistemi e si sostituiscono

alla biodiversità autoctona. I rischi che comporta l’ingegneria genetica sono

rischi biologici e, a differenza di quelli tossici, non sono revocabili.

Gli Ogm accresceranno in vari modi la vulnerabilità ecologica

dell’agricoltura. In primo luogo, le colture manipolatte geneticamente

aumenteranno anziché ridurre l’uso di prodotti chimici149.

Gli Ogm aumenteranno la fame nel mondo perchè introdurranno

un’agricoltura monoculturale ad alta intensità di capitale e di prodotti

chimici, scalzando le piccole fattorie e i piccoli agricoltori che usano la

biodiversità per nutrire sé stessi e le loro famiglie. Le piccole fattorie

policolturali sono più produttive delle monocolture industriali. In genere le

rese si riferiscono alla produzione per unità di superficie di un’unica coltura, 148 Nancy Freeman, Ricordare Seattle, Slow, n°17, 2000. 149 Vandana Shiva, Un miracolo?, Slow, n°17, 2000.

Page 109: tesi Artusiana 2006

- 109 -

e ovviamente piantare una sola varietà in tutto il campo aumenterà la resa,

mentre piantare più varietà insieme determinerà sì una resa minore delle

singole varietà, ma frutterà un’elevata produzione totale di cibo. Nell’ottica

della biodiversità, una produttività fondata sulla molteplicità di colture è

maggiore di quella monoculturale150. Le ricerche svolte dalla Fao hanno

rilevato che le piccole fattorie che si basano sulla biodiversità possono

produrre migliaia di volte più cibo delle grandi monocolture industriali.

L’ipotesi di un rapporto inversamente proporzionale tra biodiversità e

produttività, che ha guidato tutto il cambiamento tecnologico in campo

agricolo e ha distrutto la biodiversità, non regge, quando si tiene conto della

diversità delle colture e della loro diversa resa151.

Al totalitarimo alimentare delle multinazionali ci si può opporre, perché

la biodiversità ha già tutte le risposte che l’agricoltura industriale promette

di dare. È già in grado di soddisfare i nostri bisogni alimentari e di evitare

nel contempo i rischi dell’inquinamento genetico. Al totalitarismo delle

multinazionali si può contrapporre una democrazia alimentare basata sulla

cooperazione e sull’aiuto reciproco, in cui tutte le specie abbiano la loro

quota di cibo, incluse le generazioni future152.

Le scienze naturali e la genetica assumono un’estrema rilevanza anche

dal punto di vista gastronomico; il contributo che possono dare, tramite la

creazione di banche del germoplasma, lo studio e la catalogazione delle

varietà esistenti, indirizzando la ricerca in una direzione diversa da quella

tesa al produttivismo esasperato. Se difficilmente sarà il settore privato a

muoversi in questo senso, tocca senz’altro a chi stanzia fondi pubblici per la

ricerca fare il primo passo, magari mettendo in atto forme di ricerca

partecipata insieme ai contadini stessi, esperimentando un nuovo modo di

150 Vandana Shiva, Biodiversity Based Productivity, RFSTE, New Delhi, 1996. 151 Vandana Shiva, Un miracolo?, Slow, n°17, 2000. 152 Cit, Giovanna Ricoveri, da “Introduzione”, Stolen Harevst. The Hijacking of the Global Food Supply, di Vandana Shiva, RFSTE, New Delhi,1999.

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agire che faccia dialogare la scienza cosiddetta “ufficiale” e il mondo dei

saperi tradizionali153.

II. Dell’agricoltura e dell’ecologia ovvero Delle tecniche per produrre

cibo sostenibile154.

Sostenibile: adatto a garantire la nostra salute, quella dell’ambiente che ci

circonda e nel contempo lo sviluppo sociale ed economico nostro e delle

generazioni che ci seguiranno155.

L’agricoltura negli ultimi cinquant’anni si è progressivamente

industrializzata, l’introduzione di elementi esterni al sistema naturale in cui

essa viene praticata, come i pesticidi e i fertilizzanti chimici, ha rapidamente

compromesso la salubrità dei cibi e dell’ambiente. I danni provocati

dall’uomo alla terra sono in gran parte imputabili ai moderni sistemi di

produzione del cibo.

Brillat-Savarin inseriva l’agricoltura tra le materie che compongono la

gastronomia; ma poi, con il dilagare dei metodi industriali le due discipline

sono state separate, allontanando tra loro i momenti della raccolta, della

trasformazione e del consumo del cibo. Si è in pratica reciso quel legame

che fino al secondo dopoguerra legava gli uomini alla terra in fatto di cibo.

Chi stava in campagna, ma anche chi si era trasferito in città, aveva sempre

potuto vedere da dove proveniva il proprio nutrimento. Le conoscenze

gastronomiche si trasmettevano in maniera pressoché automatica di

generazione in generazione. Mai come adesso produzione e consumo sono

vissuti come due momenti lontani, che pagano rispettivamente un profondo

gap di conoscenze.

153 Cfr, Buono, Pulito e giusto. Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 154 Cfr, Buono, Pulito e giusto. Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005. 155 Carla Barzanò, Un convegno in Germania, Slow, n° gen-feb 2004.

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L’interesse per il mondo agricolo, per le sue evoluzioni e i suoi

cambiamenti, conoscere ciò che si mangia (provenienza, processi subiti,

umanità coinvolta), dovrebbe essere tra le priorità di chiunque si nutre:

“Mangiare è un atto agricolo”, ha magistralmente sintetizzato Wendell

Berry, contadino, poeta e saggista del Kentucky156.

Accumuniamo agricoltura ed ecologia in un’unica disciplina, perché le

ritengo inscindibili: chi coltiva e alleva lavora con la natura e non può

sfruttarla e ucciderla. Il mondo ambientalista non può non capire che la

gastronomia è l’arte di produrre cibo in armonia con l’ambiente circostante;

che le monocolture biologiche, ad esempio, non sono sostenibili: anche se

non si usano prodotti chimici, si può distruggere l’ambiente eliminando la

biodiversità (i boschetti, le piante…) a scapito di una sola varietà prodotta in

grandi quantità. Lo stesso avviene se si introducono varietà estranee

all’ecosistema esistente e, inoltre, non si deve dimenticare il gusto: se un

prodotto non è buono ed è estraneo alla cultura locale, potrà rispondere ad

un’emergenza, ma non risolverà per sempre il problema della fame o di certi

inquinamenti.

In realtà stiamo parlando di una scienza che già esiste, che è stata definita

e che, molti, ritengono la vera via del futuro sostenibile: l’agroecologia.

L’agroecologia è una scienza giovane che parte dal presupposto che gli

ecosistemi, così come sono, hanno tutti i mezzi interni per autoregolarsi.

Coltivare e allevare richiede di manipolare con gentilezza l’ambiente, nel

rispetto della biodiversità locale, della cultura tradizionale e dei ritmi della

natura.

Miguel Altieri, professore di agroecologia all’Università di Berkley dice:

L’agroecologia cerca una matrice di dialogo tra regni diversi, tra

questi saperi tradizionali e la scienza di stampo occidentale,

156 Wendell Berry, The pleasure of eating, North Point Press.

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mettendoli sullo stesso livello. L’agroecologia non formula ricette

valide per tutti, ma incoraggia a scegliere le tecnologie utili in base

alle esigenze dettate dal contesto, senza che vengano imposte da

nessuno. Non è tanto importante la tecnica, ripeto, è il principio:

l’idea in questo caso è che la diversità che si utilizza genera processi

ecologici nel sistema, i quali permettono al sistema stesso di

autoregolarsi e di realizzare automaticamente operazioni come il

riciclaggio dei nutrienti e la lotta agli insetti dannosi e alle

malattie157.

Operare in modo sostenibile presuppone un adeguato bagaglio di

conoscenza. Se si vuole giudicare la sostenibilità dei prodotti alimentari,

bisogna conoscere le conseguenze ecologiche della produzione dal campo

fino alla tavola. Bisogna chiedersi se un alimento è sano e sicuro, se la sua

produzione e trasformazione assicurano posti di lavoro e mezzi di

sostentamento. E si deve tenere conto anche del destino dei paesi poveri –

quasi la metà della popolazione mondiale vive con meno di due dollari al

giorno158. La sostenibilità quindi richiede da parte dei paesi ricchi un

confronto con i propri stili di vita. È un processo di ricerca, di

apprendimento e di ponderazione.

Secondo il rapporto Brundtland159 è sostenibile uno “sviluppo” che

soddisfi le esigenze del presente senza rischiare che le generazioni

successive non possano soddisfare le loro.

Il concetto di sostenibilità nel 1992 ispira il vertice mondiale di Rio

(Agenda 21). I delegati di 178 paesi si riuniscono alla conferenza Onu

sull’ambiente e lo sviluppo e decidono di risolvere gli impellenti problemi

mondiali, combattere la povertà e assicurare la salute delle persone, fornire

157 Carlo Pettini, Dialogo sulla terra, in “La Stampa”, 3 giugno 2004. 158 Gerlinde Geffers, Breve storia di un concetto, Slow, n°gen-feb 2004. 159 “Il nostro futuro comune”, 1987, rapporto della commissione Onu guidata da Gro Harem Brundtland.

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acqua dolce a sufficienza, proteggere il clima, conservare le foreste, la flora

e la fauna a rischio di estinzione e bloccare la desertificazione160.

Allora Rio era stata osannata come pietra miliare, come svolta. Oggi i

risultati sono deludenti. Il mondo non è diventato più giusto né l’ambiente

più sano. L’umanità continua a eccedere del 30-50 per cento nell’uso della

biosfera. Il clima continua a riscaldarsi, perché viene emessa nell’aria troppa

anidride carbonica dannosa. E permane la situazione secondo cui il 20 per

cento della popolazione mondiale consuma l’80 per cento delle risorse

mondiali.

La motivazione che alla visione di Rio siano seguite così poche azioni

concrete è la seguente: l’Agenda21 è un orientamento per lo sviluppo della

terra. Nient’altro. Ciò ha il vantaggio che praticamente nessuno può essere

contrario alla sostenibilità, ma lo svantaggio che finora ciascuno ha potuto

definire sostenibile lo sviluppo che preferiva. Soprattutto si discute

volentieri su come si possano conciliare la tutela dell’ambiente con la

giustizia sociale e la fattibilità economica. I tre pilastri della sostenibilità in

realtà dovrebbero avere tutti lo stesso peso. Se però i posti di lavoro sono a

rischio, l’economia ristagna e le casse dello Stato sono vuote, l’ambiente e

l’equilibrio sociale ne escono rapidamente perdenti.

Ma il messaggio di Rio non è svanito del tutto.

In Germania nel 1996 un’indagine dal titolo “Zukunftsfahiges

Deutschland161”, presenta cifre e obiettivi relativi al consumo ambientale e

formula modelli che si discostano dal nostro modo di vivere, imperniato sul

concetto del sempre più in fretta e sempre di più. “Think global, act local” è

il motto. Il governo federale tedesco ha presentato una strategia nazionale

della sostenibilità con quattro modelli di riferimento. In quel documento

formula il proposito di non lasciare alle generazioni future una montagna di

debiti, ma una sanità e una previdenza per la vecchiaia sostenibile. Il 160 Gerlinde Geffers, Breve storia di un concetto, Slow, n°gen-feb 2004. 161 Trad: “Una Germania adatta al futuro”.

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governo vuole impegnarsi per la qualità della vita, che va dall’ambiente

incontaminato a un lavoro soddisfacente e comprende buone scuole. Il

ministero per la tutela del consumatore ha dato, per esempio, il suo

contributo aggiungendo come punto focale “produrre e nutrire in modo

sano”. Con uno stanziamento di 35 milioni di euro, attualmente il ministero

finanzia 18 regioni che fanno esperimenti su come orientarsi verso

un’agricoltura sostenibile e redditizia. Le regioni analizzano come

commercializzare meglio i loro prodotti, continuano a sviluppare le loro

specialità regionali, riformulano le regole per la protezione della natura,

migliorano i loro progetti per un turismo rurale “soft” e organizzano corsi di

insegnamento “verde” nelle fattorie162.

Sono tutti passi in direzione di uno sviluppo sostenibile.

III. Della geopolitica, dell’economia politica e del commercio ovvero

Della globalizzazione163.

Geopolitica ed economia politica devono essere parte integrante del

sapere gastronomico. In un epoca definita della globalizzazione, gli scambi

si moltiplicano in ogni direzione, la complessità aumenta e i modi di nutrirsi

ne sono fortemente influenzati. Il commercio sembra essere diventato la

nuova divinità in cui credere: alla convenienza di consumare un cibo

piuttosto che un altro, storicamente legata a fattori geoclimatici ed

economici, si sono sostituite via via le regole di mercato. I modelli di cucina

tradizionale si dovevano scontrare/armonizzare con i limiti fisici dei territori

e con i rapporti che si costruivano tra le varie società, oggi quasi spariscono

per l’emergere di un modello in cui, in seguito alla massiccia

162 Cit. da Gerlinde Geffers, Breve storia di un concetto, Slow, n°gen-feb 2004. 163 Cfr, Buono, Pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia, Carlo Pettini, Einaudi, Torino, 2005.

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industrializzazione e alla mondializzazione dei commerci, prevale il

consumismo e un distacco dal mondo agricolo.

Non è un caso che il movimento No-Global si sia fortemente sviluppato

intorno a tematiche riguardanti l’agricoltura e l’alimentazione, salendo per

la prima volta agli onori delle cronache in occasione della protesta di Seattle

nel 1999 durante una riunione del Wto.

Nel mondo la metà delle persone è dedita all’agricoltura e le leggi del

commercio globale stanno mettendo a dura prova molte economie dei paesi

più poveri. L’ingerenza su quelle culture delle multinazionali delle sementi

è sempre più forte e devastante, supportata da strategie commerciali molto

aggressive e da un sistema di dazi e sussidi alla produzione che creano un

grave squilibrio planetario.

L’Occidente produce troppo e a prezzi troppo alti: per difendersi dalla

concorrenza dei più poveri pone barriere commerciali invalicabili che

impongono prezzi artificiosi. La politica occidentale dei sussidi alle quantità

prodotto ha da un lato messo in ginocchio le economie più povere e

dall’altro ha di fatto finanziato la distruzione del pianeta. I sussidi (ancora

molto influenti negli Stati Uniti, mentre in Europa una recente revisione

della politica agricola comunitaria sta rendendo meno forti le distorsioni di

questo sistema) servono ai contadini dell’Occidente ricco, che praticano

un’agricoltura di stampo industriale, a reggere la concorrenza dei prezzi dei

paesi più poveri in grado di produrre a minor costo.

Per anni il risultato è stato quello di finanziare una produzione di bassa

qualità che doveva costare il meno possibile senza riguardo per la bontà del

prodotto. Il modello agricolo industriale è stato strenuamente difeso

nonostante si fosse rivelato da tempo insostenibile, si sono indotti i paesi più

poveri ad inseguire irrealisticamente lo stesso modello di sviluppo con danni

ingenti alla biodiversità e alle culture tradizionali. Tali paesi restano così

vittime del dumping, ovvero dell’invasione delle eccedenze di produzione

dei paesi ricchi sussidiate in patria e svendute a prezzi irrisori, quando non

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addirittura regalate in forma di aiuti umanitari. Il fatto che gli Stati Uniti

inviino Ogm rimasti invenduti a causa della moratoria imposta dall’Europa

su tali prodotti o che, sempre gli Stati Uniti, inviino grano, mais e altri semi

con i chicchi spezzati e non utilizzabili per la semina, la dice lunga sulle

reali intenzioni filantropiche dei donatori. E il fatto che alcuni paesi africani

incomincino a rifiutare questi aiuti conferma la loro relativa inutilità e la

loro negatività sullo sviluppo agricolo locale. Le priorità commerciali hanno

preso il sopravvento.

Geopolitica ed economia consentono dunque di leggere le dinamiche

complesse che stanno sotto l’attuale sistema-mondo e di farne emergere

tutte le ingiustizie, le contraddizioni, i paradossi. Il commercio, che secondo

Brillat-Savarin è “la ricerca del mezzo di comprare al miglior prezzo

possibile ciò che essa (la gastronomia) consuma e di smerciare più

convenientemente ciò che pone in vendita”, è oggi diventato più uno

strumento di dominazione, un’arma di scontro nel contesto di un mondo

globalizzato. Lo studio di queste dinamiche è gastronomia; la loro

comprensione pone le basi per riuscire a definire la sostenibilità sociale dei

modelli produttivi e commerciali, nonché le condizioni per la sua

realizzazione.

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Albo d’oro Premio Artusi: 1997 – Ermanno Olmi; Juan Marì Arzak (gastronomia) 1998 – Cardinale Ersilio Tonini; Gualtiero Marchesi (g) 1999 – Padri Comboniani della Missione di Agangrial; Jacques Chibois (g) 2000 – Miloud Oukily; Alice Waters (g) 2001 – Muhammad Yunus; Renato Gualandi (g) 2002 – Alberto Cairo; Eckart Witzigmann (g) 2003 – Vandana Shiva; Fabio Picchi (g) 2004 – Riccardo Putrella; Unione Ristoranti del Buon Ricordo (g) 2005 – Eduardo Galeano; Pietro Leemann (g) 2006 – Julitte Diane Cisse; Moshe Basson (g)

Albo d’oro Premio Marietta: 1997 – Caterina Valbonesi (con il Coniglio Saporito) 2000 – Denio Derni (con Fusilli “Carpe Diem”) 2001 – Anna Tellarini (con Pasta ai Ranocchi) 2002 – Antonella Liberatori (con Sellerini pajata e mammole) 2003 – Giovanni Fancello (con Ditalini con pesce spada, seppie cozze in zuppa di fagioli “Brenti Niedda”) 2004 – Maria Rita Vivi (con Maccheroni al piccione) 2005 – Gail O’Hern Rizzo (con Caponata maritata rivisitata); Premio Marietta ad honorem 2005 a Graziano Pozzetto e Renato Dominaci 2006 – Premio Marietta ad honorem a Leda Vigliardi Paravia e Vittorio Tonelli

Convegni Artusiani:

1997 - Pellegrino Artusi e la società del suo tempo. 1998 - Cucina globale e cucina del territorio. 1999 - Cucina di Italia - Cucina di Francia Scambi, influenze e differenze. 2000 - Mangiare in viaggio. 2001 - Casa Artusi: verso un museo della cultura gastronomica italiana. 2002 - La cucina di casa Italia, dal medioevo ad oggi. 2003 - Alla ricerca del prodotto tipico. 2004 - Cibo d'autore. 2005 - Artusi, pellegrino nel mondo. 2006 - La cucina italiana all'estero.

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Elenco degli Altri soggetti coinvolti nel progetto Festa Artusiana164: Comune di Cervia; Comune di Sogliano sul Rubicone; Città di

Montelabbate; Città di Sant.Angelo in Zizzola; Ist. Alberghiero di Forlimpopoli; Consorzi di tutela quali: Consorzio dell’Aceto Balsamico tradizionale di Spilamerto, Consorzio del prosciutto di Parma, Consorzio di tutela del formaggio di fossa e le teglie di Montetiffi; Comunità Montana Forlivese; Comunità Montana dell’Acquacheta; Comunità Montana dell’Appennino Cesenate; Comunità Montana Fiorentina; Parco Nazionale Foreste Cesenatinesi; U.B. (Unione Interprofessionale Operatori del Biologico); Strada dei vivi e dei sapori di Forlì-Cesena; Coop.Agri 2000; Gal Altra Romagna; Osservatorio Agro-Ambientale; Slow Food; Confesercenti; C.N.A; C.I.A; Col diretti; Confartigianato; Unione Europea Gourmets; A.I.S. Sezione Romagna; Gruppo Culturale Civiltà Salinara; Il Cenacolo degli Sparecchiatori di Firenze; Associazione Fameja de Bgonz; Pro Loco Forlimpopoli; Comune di Villeneuve-Loubet gemellato con Forlimpopoli; tutte le associazioni del territorio forlimpopolese.

Associazioni del territorio forlimpopolese: Ass. Barcobaleno Musica&Cultura; Condotta Artusiana; Ass. Volare;

Funghi&Flora; Auser; Ass. Amici dell’Arte; Ass. ArtEmozioni; Ass. Nazionale Alpini – Gruppo di Forlimpopoli; Ass. Internazionale di Menù Storici; Cooperativa Amphora; Gestione Cinema-Teatro Verdi; Ass. Parco dei ragazzi (Forlì); Ass. La Lòza; Comunità Monastica Agostiniana; Ass. Scuola di Musica Popolare; Ass. Romagna Centro; La Consulta degli Stranieri di Forlimpopoli, in collaborazione con l’Assessorato ai Servizi Sociali; Ass. Protezione Civile; Ass. Il Vento; Comitato valorizzazione Centro Storico; Ass. Centro Giovanile; Ass. E Goz; Ass. Acqua.

Azioni Programmate (con relative tempistiche):

Finalità: Realizzazione della Festa Artusiana - 16/24 Giugno 2007 - tesa alla valorizzazione turistica locale e di promozione del territorio, in nome dell’eno-gastronomia e della cultura del cibo. Azioni: - Stesura del programma (entro dicembre 2006)

164 Tratto da: L.R. N. 7/98 – Programma Turistico di Promozione Locale 2007; Progetto di Valorizzazione Turistica Locale Integrata e di Promozione dei Territori e delle Destinazioni; Forlimpopoli.

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- Piano di sensibilizzazione a decorrere da febbraio 2007 tramite comunicati stampa a riviste specializzate estere e nazionali, contatto con i media per evidenziare decennale della manifestazione ed eventi in essa previsti; - Presenza al Salone del Gusto di Torino (25/30 ottobre) - Presenza su “I Diari dei venerdì” di Repubblica (aprile 2007) - Presenza su “Guida a sagre e feste della Romagna 2007” (febbraio 2007) - Elaborazione di pacchetti turistici per la primavera 2007 (febbraio 2007) - Miglioramento e potenziamento delle comunicazioni web (marzo 2007) - Realizzazione materiale pubblicitario (entro 10 maggio 2007) - Diffusione del materiale pubblicitario (entro maggio 2007)

I ristoranti allestiti in occasione della Festa: Ristorante Casa Artusi; Locanda Anna; Birreria Stuzzicherai Wine-bar

della Piazza; Hostaria del Pellegrino; Risorantino “E Cantunzin”; Ustarì di Purét; La Freschineria; “Il Bello e il Buono”; Ristorante “La Madia – I Mangè d’una volta”; Le Osterie di Slow Food; Ristorantino “MagnaSsò”; Osteria “E Gòz”; Osteria “dl’ost cativ”; Trattoria “Dalla Ode”.

Rassegna Stampa a cura di Agenzia PrimaPagina (Cesena). Hanno

parlato della Festa Artusiana 2006 le seguenti testate: Nazionali Agenzie di stampa: Ansa; Asa Press. Quotidiani nazionali e regionali: Die Zeit (quotidiano tedesco);

Avvenire; Il Giornale; Il Giorno; Il Manifesto; Il Messaggero (Pesaro); Il Resto del Carlino; Il Secolo XIX; L’Unità; La Gazzetta del Mezzogiorno; La Nuova Ferrara; La Nazione; La Repubblica; La Stampa.

Settimanali nazionali: Donna Moderna; Film Tv; Gente; Intimità; La Stampa – Specchio; Left – Avvenimenti; News; Viaggi di Repubblica (Diario di Primavera).

Mensili nazionali: Agricoltura; Bar Giornale; Bell’Italia; Campagna Amica; Cucina e Vini; Degusta; Famiglia Romagnola a Roma; Nuovo Dossier; Panorama Travel; Partiamo; Pasticceria Internazionale; Qui Touring; Saler & Pepe; Star Bene; Terre del Vino; Turismo all’Aria Aperta; Vie del Gusto; Ville & Casali; Vogue Italia; Voyager; Week End Viaggi.

Regionali – Locali

Quotidiani locali: Corriere Romagna; Il Resto del Carlino; La Voce di

Romagna.

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Settimanali regionali – locali: Corriere Cesenate; Forlì&Forlì; Il Momento (Forlì); Il Piccolo (Faenza); Qui Magazine (Ravenna); Quindi (Ravenna); Risveglio 2000 (Ravenna).

Mensili regionali – locali: Ars Amandi; C’è – Appennino e Verde; Calendario Eventi (provincia FC); Emilia Romagna Eventi; Fly Forlì; Il Notiziari dell’Imprenditore; Informatore Artigiano; Mare & Monti; Periodico.

Tv

Rai 2 – Eat Parade; Rai Sat – Il Gambero Rosso; Alice; Video Regione;

Teleromagna.

Radio

Radio Bruno; Radio Emilia Romagna; Radio Gamma, Radio Icaro, Radio Studio Delta.

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Mappa Festa Artusiana 2006

Page 122: tesi Artusiana 2006

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Festa Artusiana 2006, rassegna fotografica a cura di Enrico Filippi (Camerachiara)

Piazza Pellegrino Artusi

Page 123: tesi Artusiana 2006

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Piazza della Marietta

Via delle cose diverse

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Il museo archeologico T. Aldini

Page 125: tesi Artusiana 2006

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Osteria E Goz

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La chiesa dei Servi

Page 127: tesi Artusiana 2006

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Pellegrino Artusi

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- 128 -

Conclusioni & ringraziamenti.

L’AUTORE A CHI LEGGE165

Eccovi – finalmente - alla fine della tesi!

Mi auguro di aver suscitato interesse in voi… almeno un poco

incuriositi… magari coinvolti!

Questo lavoro mi è costato impegno e dedizione.

Dopo diverse concause mi sono trovato ad affrontare un argomento

vasto, molto vasto, in piena e continua evoluzione, tante sono le materie che

compongono il suo insieme. Ho cercato di trattare di gastronomia, con

l’inesperienza e l’impreparazione specifica di un bambino davanti alla sua

prima bicicletta. Potevo solo trarne insegnamento!

Ho individuato il nocciolo della questione, ovvero come la città di

Forlimpopoli ha cercato di promuovere e comunicare la propria immagine

attraverso quella di Artusi.

Ho cercato di capire chi fosse - e per quale motivo – Pellegrino Artusi,

dopo un secolo quasi dalla sua morte, meritasse e ricevesse tale

riconoscimento.

Per chi avesse tentato di barare, magari saltando qualche parte dello

scritto, faccio notare che i due punti sopra citati sono riconducibili

rispettivamente al capitolo quarto ed al capitolo secondo!

I rimanenti due capitoli, ovvero il capitolo primo ed il capitolo terzo,

cercano di fare un - per forza di cose - rapido, fugace, quadro generale

dell’epoca in cui – rispettivamente – visse l’Artusi e di quella in cui

Forlimpopoli decide di sposarsi con l’Artusi.

165 Per coloro i quali non avessero colto il senso di questa nota, si tratta di una citazione da La Scienza in cucina e L’Arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie compilato da Pellegrino Artusi.

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- 129 -

Altro non ho fatto che assemblare il tutto traendo ispirazione da

numerosi testi di autorevoli esperti, da documenti e progetti, da interviste

(alcune svolte personalmente, altre prese in prestito da riviste specializzate)

a chi di dovere.

Ma non voglio annoiarvi oltre, ho già detto abbastanza.

Siate così gentili da concedermi le ultime righe di questo ultimo, insolito

capitolo.

Ho lavorato sodo e mi par giusto, dato che ciò che state leggendo non

durerà più d’una manciata di pagine ancora, scivolare in considerazioni del

tutto mie.

E concedetemi, inoltre, di parafrasare l’Artusi che scriveva per gli

stomachi deboli. Ebbene chiedo a chi si reputasse di essere tale stomaco

debole, di non proseguire oltre, perché rischierebbe di considerarmi un

blasfemo che tenta di fare letteratura.

Con questo lo saluto e lo ringrazio,qui.

… E vissero tutti laureati e (s)contenti.

Per chi decidesse di continuare, sottolineo e promuovo la facoltà del

libero arbitrio, e declino da ogni responsabilità me stesso per il trauma che

potrete subire.

Siete sempre in tempo, ricordate!

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- 130 -

Che conclusioni volete che tragga? Non saprei, ad ognuno la sua.

Volete che vi racconti per quale motivo ho scelto di affrontare tale

argomento? …Ne siete proprio sicuri?

Badate bene che la verità - a volte - può essere fastidiosa tanto quanto un

calcio nelle palle! Oh per Dio! Non scandalizziamoci, non esageriamo in

moralistiche scenate! Io vi avevo avvertiti. E poi, scusate, ma la parte

dedicata alle cosiddette conclusioni non è quella parte in cui l’Autore può –

finalmente – mettere in risalto le proprie opinioni?

Questo è ciò che penso, queste sono le mie conclusioni.

Chi avrà la pazienza (e la voglia) di leggere oltre, capirà che non sono né

un presuntuoso, né uno scostumato, che esprime le proprie considerazioni,

che trae le proprie conclusioni, in momento ed in luogo del tutto

inappropriati!

Ricordando ciò che mi disse l’ex-Sindaco Maurizio Castagnoli – e cioè

che le cose non avvengono mai per caso – vi confesso, che la scelta

dell’argomento trattato in questa relazione, è stata una scelta del tutto

inaspettata. Dopo mesi di rifiuti, indecisioni ed incomprensioni, dopo mesi

in cui la mia unica domanda era: “Se nessun professore mi accetta, io come

faccio a laurearmi?”, Fortuna volle che proponendo tale argomento al – più

che gentile - Prof. Alessandro Sistri, egli acconsentisse, incuriosito,

nell’accompagnarmi in questo lavoro di tesi.

La prima cosa che ho imparato – sembra assurdo, ma è così – nello

svolgere questa tesi, è proprio come fare una tesi. Devo essermela persa,

quella lezione in cui qualcuno spiegava il come farlo! Che sbadato!

La seconda (la terza, la quarta, la quinta…) cosa, riguarda ciò che ho

trattato, tutti gli argomenti svolti in questa relazione. Ho imparato tanto nei

mesi passati sopra i libri e davanti allo schermo, a leggere e a battere, a

sottolineare, a riscrivere, a correggere, a imprecare perché quel diavolaccio

del computer sembrava volermi abbandonare proprio sul più bello!

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Sapete qual è stata la mia fortuna? È stata quella di aver svolto un lavoro

che mi ha appassionato e coinvolto dal primo all’ultimo giorno. Ho cercato

di fare del mio meglio, non mi importa se non verrà apprezzato (e magari

nemmeno letto!), io ne vado soddisfatto.

Non è questo ciò che conta alla fine?

Ho capito un’enormità di cose, cose dannatamente attuali ed importanti.

Ho capito che la fiducia nel cieco progresso dei giorni nostri - o meglio

in quel cieco progresso che ha portato la situazione a divenire quella

presente – altro non può fare che condurci tutti quanti ad un tempo (non

troppo futuro), in cui rimpiangeremo i bei vecchi tempi.

Quando l’acqua e l’aria saranno troppo inquinate, quando gli ecosistemi

saranno solo un ricordo digitale, quando ciò che mangeremo sarà solamente

una pillola fabbricata in laboratorio, cosa rimarrà?

Tanti morti.

Tanti poveri.

Pochi ricchi sempre più ricchi.

E Dio?

Dio, ce lo siamo giocati nel momento in cui l’abbiamo sfidato.

Diciamoci la verità, qui non si tratta né di comunicare, né di

promuovere.

Si tratta di cercare di costruire un futuro migliore per tutti, in armonia

con quello che l’Uomo (in quanto essere umano) è stato per secoli, in

armonia con, l’ancora unica, Terra in cui viviamo (che vadano loro a

colonizzare l’universo, io di qui non mi muovo!), in armonia con quelle

scoperte che hanno fatto dell’Uomo la massima espressione del Creato. In

armonia con tutto ciò che ci circonda, Lui compreso.

Due sono le funzioni principali della vita: la nutrizione e la

propagazione della specie; a coloro quindi che, rivolgendo la mente a

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questi due bisogni dell’esistenza, li studiano e suggeriscono norme

onde vengano soddisfatti nel miglior modo possibile, per rendere

meno triste la vita stessa, e per giovare all’umanità, sia lecito sperare

che questa, pur se non apprezza le loro fatiche, sia almeno prodiga di

un benigno compatimento166.

Diceva bene Pellegrino Artusi, lume di questa mia ricerca.

Azzardo un paragone ed auguro a Casa Artusi ed alla Festa Artusiana,

di nutrirsi e di riprodursi in mille e mille altre simili realtà, votate al

recupero ed al mantenimento di quelle tradizioni e culture, che hanno

accompagnato l’Uomo, in questo lungo, faticoso, a volte insensato cammino

verso, la tanto anelata, modernità.

Consapevole, che queste mie conclusioni desteranno un tale stupore da

rischiare lo scandalo mediatico, lasciatemi ringraziare tutti (quanti?) coloro

che sono arrivati a leggere quest’ultima riga, e concludere:

ma che m’importa, ormai son laureato!

166 Tratto da. La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. L’Autore a chi legge; di Pellegrino Artusi.

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Grazie:

A tutti coloro che mi sono dimenticato di citare;

Al Prof. Alessandro Sistri, per avere permesso la mia laurea;

A tutti quei Professori che, rifiutandomi, hanno permesso che mi

laureassi con il Prof. Sistri;

A Mauro Grandini, Laila Tentoni, Maurizio Castagnoli, Federica

Bianchi & Caterina Molari (Agenzia PrimaPagina), che subendo le mie

interminabili ore di interrogatori, hanno permesso la realizzazione di

questa tesi!

A Luisa e Alberto della biblioteca di Forlimpopoli, per aver riso e

scherzato assieme delle mie sventure!

A Marco, Claudia ed Enrico, inseparabili compagni di questi anni!

Page 134: tesi Artusiana 2006

- 134 -

Bibliografia

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- Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia. Carlo Pettini, Einaudi,

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- Il metodo, vol V, L’identità umana, E. Morin, Milano 2002.

- Il mondo che cambia, Antony Giddens, Il Mulino, Intersezioni, 2000.

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- La Cucina Bricconcella. 1891/1991. Andrea Pollarini (a cura di), Bologna,

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1970.

- La globalizzazione del nulla, Gorge Ritzer, Slow Food Editore, 2005.

Page 135: tesi Artusiana 2006

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- La tipicità come prodotto culturale, Massimo Montanari, Atti del convegno studi

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- L’Alimentation-service. Resultats d’enquetes, B. Sylvander, Toulouse 1988.

- L’Espirit du temps, Edgar Morin, Paris 1975.

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- Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia, 1870-1925, S. Lanaro,

Venezia, Marsilio, 1979.

- Pellegrino Artusi e la società del suo tempo; Piero Meloni, atti del convegno

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- Physiologie du gout, Jean-Anthelme Brillat-Savarin, Paris 1825.

- Slow Food. Le ragioni del gusto, Carlo Petrini, Editori Laterza, 2001.

- Storia dell’alimentazione, a cura di Jean-Louis Flandrin e Massimo Montanari,

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- Stolen Harevst. The Hijacking of the Global Food Supply, di Vandana Shiva,

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www.pellegrinoartusi.it

www.taccuinistorici.it

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www.slowfood.com

www.wikipedia.org

www.wwf.it/livingplanetreport2006