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TRIMESTRALE DI AGGIORNAMENTO SCIENTIFICO Anno II - N. 3, 2010 La mallattia di John, Duca di Normandia, tardo XIV sec. Un uomo giace nel letto mentre tre dottori accanto studiano il contenuto di un vaso. Tratta da "Chroniques de France ou de Saint Denis".

TRIMESTRALE DI AGGIORNAMENTO SCIENTIFICO · za, almeno nel campo di uno dei principali fattori di rischio, e ... Fabio Zacà, Dott.ssa Giusy Santese, Dott. Cosimo Stefanio, Dott

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T R I M E S T R A L E D I A G G I O R N A M E N T O S C I E N T I F I C OAnno I I - N. 3, 2010

La mallattia di John, Duca di Normandia, tardo XIV sec.Un uomo giace nel letto mentre tre dottori accanto studiano il contenuto di un vaso.

Tratta da "Chroniques de France ou de Saint Denis".

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Direttore responsabile Mauro Rissa

Direttore scientifico Ettore Ambrosioni

Com itato scientifico Claudio BorghiVittorio CostaAda DormiGuido GrassiGiuseppe ManciaSimone MininniPietro PutignanoEnrico StrocchiStefano TaddeiBruno TrimarcoPaolo VerdecchiaAugusto Zaninelli

Capo redattore Eugenio Roberto Cosentino

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TRIMESTRALEDI AGGIORNAMENTO SCIENTIF ICO

S O M M A R I OIl rischio cardiometabolico: un concetto in evoluzioneProf. Guido Grassi

Up Date sull’antiaggregazioneDott. Fabio Zacà, Dott.ssa Giusy Santese, Dott. Cosim o Stefanio, Dott. Leonardo Fontanesi

Ipertensione e Ipercolesterolemia: un binomio inscindibileDott. Eugenio Roberto Cosentino, Dott. ssa Elisa Rebecca Rinaldi, Federica Cam pom ori, Prof. Claudio Borghi

Terapia di associazione nel trattamento della ipertensione arteriosaProf. Pasquale Perrone Filardi, Carm en D’Am ore, M ilena Cecere, Gianluigi Savarese, Antonio Parente

L’approccio clinico alla prevenzione del rischio dopo lo studio NAVIGATOR: aspettative e prospettiveProf. Claudio Borghi, Enkeleda Kajo

Gestione e trattamento dell’ipertensione nella sindrome metabolicaProf. Massim o Volpe

Telemonitoraggio della pressione arteriosa: quanto siamo lontani?Prof.ssa Maria Lorenza Muiesan

Sale e ipertensioneProf. Diego Vanuzzo

Il diabete tipo 2 nella donnaDr.ssa Cristiana Vitale

Redazione scientifica Daniela Degli EspositiMarco PombeniElisa Rebecca Rinaldi

Segreteria di redazione SINERGIE Edizioni [email protected]

Im paginazione SINERGIE Edizioni ScientificheS.r.l.

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Registrazione presso Tribunale di Milano n. 207 del 28-03-2006

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Copyright ©2010 SINERGIE S.r.l.Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotoco-piata o riprodotta senza l’autorizzazione dell’Editore.

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Il rischio cardiometabolico: un concetto in evoluzioneCome è possibile notare scorrendo l’indice degli articoli pub-blicati in questo numero della Rivista, diversi sono i lavorifocalizzati sul tema ormai emergente della associazione trapatologie cardiovascolari (in particolare l’ipertensione arte-riosa) e dismetabolismo glicolipidico. Molteplici sono le argo-mentazioni su cui si basa questa scelta editoriale. In primoluogo le più recenti Linee Guida nell’ambito della prevenzio-ne e del trattamento delle malattie cardiovascolari sottolinea-no con particolare enfasi il concetto del cosidetto “rischio car-diometabolico globale”, intendendo con tale termine l’impat-to che i diversi fattori di rischio (cardiovascolari, metabolici erenali), le condizioni cliniche riscontrate in un determinatosoggetto e l’eventuale presenza di danno d’organo subclini-co hanno sul rischio di eventi coronarici e cardiovascolari inun intervallo di tempo relativamente breve (5-10 anni) (1-3).L’approccio basato sulla valutazione del rischio cardiometabo-lico rappresenta una priorità della medicina moderna, in consi-derazione dell’evidenza che la correzione (farmacologica o nonfarmacologica) del profilo di rischio può contribuire a ridurre inmodo significativo gli eventi cardiometabolici e le loro recidive.A rendere più complesso ed articolato l’intervento di preven-zione cardiometabolica stanno tuttavia due evidenze. La primaè che molto spesso i diversi fattori di rischio coesistono nellostesso soggetto, rendendo il rischio globale assai più elevatorispetto a quanto ci si potrebbe attendere sommando tra lorogli effetti dei vari parametri di rischio. Ciò implica che quando 2o più fattori di rischio coesistono nello stesso soggetto il loroimpatto sul rischio globale non è additivo ma bensì esponen-ziale, accentuando così l’impatto sfavorevole in termini di even-ti della coesistenza dei singoli fattori di rischio (4). La seconda considerazione è invece legata alla reversibilitàdel rischio. Sappiamo dai risultati di numerosi studi di inter-vento che il rischio cardiometabolico è reversibile in virtùdegli interventi farmacologici o non farmacologici finalizzatia “normalizzare” i singoli fattori di rischio. Vi è tuttavia eviden-za, almeno nel campo di uno dei principali fattori di rischio, ecioè l’ipertensione arteriosa, che vi sia una certa quota di“rischio residuo” che non può essere azzerato, almeno con imezzi terapeutici a nostra disposizione oggigiorno. La stima del rischio cardiometabolico si sta diffondendo sem-pre più anche nel nostro paese, sia nell’ambito della medicinaspecialistica che generalista, come procedura in grado di forni-re informazioni essenziali sul tipo e sulla intensità dell’interven-

to preventivo. Diversi studi epidemiologici e osservazionalihanno cercato in passato di fornire un quadro del profilo dirischio della popolazione italiana. Tra questi è opportuno ricor-dare in questa sede lo studio MONICA, Gubbio e il più recentePAMELA (5-6). Ed è proprio ai risultati di alcuni studi del proget-to PAMELA che emerge l’evidenza che incremento dei valoripressori ed alterazioni metaboliche vanno di pari passo e chegià una condizione clinica come la preipertensione si caratte-rizza per un rischio aumentato di dislipidemia e di diabete (7).Nel complesso panorama del rischio cardiometabolico èopportuno fare una ulteriore considerazione, che riguarda ilfatto che non infrequentemente il rischio metabolico (e dia-betogeno in particolare) del paziente iperteso può essereinfluenzato dal tipo di trattamento. In altre parole, esistonofarmaci antipertensivi che, mediante svariati e complessimeccanismi, possono facilitare lo sviluppo di prediabete oaccelerarne la progressione (8). Farmaci della classe dei cal-cio-antagonicti, ACE-inibitori e, in misura maggiore, bloccan-ti recettoriali dell’angiotensina risultano mertabolicamenteneutri o addirittura con effeti antidiabetogeni. È su questifarmaci, dunque, che si deve guardare in futuro per contra-stare efficacemente il rischio cardiometabolico.

Bibliografia1. Graham I, Atar D, Borch-Johnsen K, et al. European guidelines on cardiovascular diseaseprevention in clinical practice: executive summary. Atherosclerosis 2007;194:1-45.2. Mancia G, De Backer G, Dominiczak A, et al. Management of Arterial Hypertension ofthe European Society of Hypertension; European Society of Cardiology. 2007 Guidelinesfor the Management of Arterial Hypertension: The Task Force for the Management ofArterial Hypertension of the European Society of Hypertension (ESH) and of theEuropean Society of Cardiology (ESC). J Hypertens 2007;25:1105-1187. 3. Mancia G, Laurent S, Agabiti-Rosei E, et al. Reappraisal of European guidelineson hypertension management: a European Society of Hypertension Task Forcedocument. J Hypertens 2009;27:2121-2158.4. Mancia G. Total cardiovascular risk: a new treatment concept. J Hypertens 2006;24:S17-S24.5. Cesana G, De Vito G, Ferrario M, et al. Ambulatory blood pressure normalcy: thePAMELA Study. J Hypertens 1991;9:S17-S23.6. Laurenzi M, Mancini M, Menotti A, et al. Multiple risk factors in hypertension:results from the Gubbio study. J Hypertens 1990;8:S7-S12.7. Mancia G, Facchetti R, Bombelli M, et al. Relationship of office, home, and ambu-latory blood pressure to blood glucose and lipid variables in the PAMELA popu-lation. Hypertension 2005;45:1072-1077.8. Mancia G, Grassi G, Zanchetti A. New onset diabetes and antihypertensivedrugs. J Hypertens 2006;24:3-10.

Prof. Guido GrassiClinica Medica, Dipartim ento di Medicina Clinica e Prevenzione,Università Milano-Bicocca Ospedale S. Gerardo, Monza (Milano)

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Up Date sull’antiaggregazione

È noto il ruolo fondamentale degli antiaggreganti nel tratta-mento delle sindromi coronariche acute e dopo posiziona-mento di Stent coronarico che necessitano poi di doppia tera-pia antiaggregante per lunghi periodi (1-2).Grandi trial, metanalisi e Linee Guida hanno confermato chel’uso concomitante di ASA e Clopidogrel è efficace nel preveni-re morte cardiovascolare, infarto o rivascolarizzazione urgentenei pazienti sottoposti a rivascolarizzazione percutanea senzarischi eccessivi di sanguinamento (3-4-5) (Fig. 1).La resistenza agli antiaggreganti è oggi più che mai di attuali-tà. È dimostrato che vi sono pazienti “resistenti” o “poor respon-ders” ad uno o più antiaggreganti e ciò è rilevante in pazienticon SCA o a maggior ragione sottoposti ad impianto di stent. La resistenza all’ASA, secondo una metanalisi pubblicata sulBMJ, analizzando più di 20 studi molto eterogenei fra loro, è inmedia del 28% (Range: 5,5% - 61%) (8). Valutando i livelli ditrombossano B2 (metabolita stabile del TXA2) la prevalenza diresistenza all’ASA scende all’1-1,7%. I soggetti definiti resisten-ti erano spesso non complianti o assumevano una dose insuf-ficiente di Aspirina (9). Di recente uno studio italo-libaneseapparso su JACC (10), condotto su un piccolo campione di 48pazienti sani, randomizzati all’assunzione di100 mg di ASA al giorno per una fino ad 8 set-timane, ha dimostrato che la resistenza all’ASAspesso è di tipo variabile e transitorio. Più complessa e controversa è invece la resi-stenza al Clopidogrel: polimorfismi genetici acarico del recettore dell’ADP P2Y12, polimorfi-smi a carico dei citocromi epatici (fondamenta-li per la formazione del metabolica attivo), l’in-terazione con vari classi di farmaci e fattori“metabolici” sono i meccanismi implicati (11-12). Certamente il polimorfismo genetico deicitocromi epatici e l’interazione in particolaregli inibitori di pompa protonica (PPI) hannoassunto particolare importanza. I geni che codificano per gli enzimi epaticisono estremamente polimorfi e alcune di talivarianti determinano un calo significativo dellaformazione del metabolica attivo diClopidogrel (13). I PPI impegnano invece gli

stessi sistemi enzimatici deputati all’attivazione di Clopidogrel(In particolare a livello del CYP2C19). Pertanto la co-sommini-strazione dei due farmaci potrebbe alterare la produzione delmetabolica attivo di Clopidogrel riducendone l’attività antiag-gregante. Nel 2008, l’ OCLA study, aveva dimostrato una riduzione dell’ef-ficacia antiaggregante di Clopidogrel quando associato adOmeprazolo, seguito nel 2009 da altre pubblicazioni autorevo-li (14-15-16).Recentemente, analizzando il PRINCIPLE-TIMI 44 Trial e il TRITON-TIMI 38 Trial, Braunwald e Coll. hanno concluso che non vi sonoforti evidenze nel supporre una interazione significativa traClopidogrel e PPI (17) (Fig. 3) I dati preliminari del COGENT Trialnon hanno evidenziato un aumento nell’incidenza nel gruppoClopidogrel e Omeprazolo vs Clopidogrel e Placebo di eventi

Dott. Fabio Zacà, Dott.ssa Giusy Santese, Dott. Cosimo Stefanio, Dott. Leonardo Fontanesi Reparto di Cardiologia, Dipartim ento di Cardiologia m edico-chirurgica e toraco-vascolareHesperia Hospital, Modena

È dimostrato che vi sono pazienti “resistenti” o “poorresponders” ad uno o più antiaggreganti e ciò è rilevantein pazienti con SCA o a maggior ragione sottoposti adimpianto di stent.

Studio CREDOBenefici della doppia antiaggregazionedopo PCI a 12 mesi

15

10

5

0

Inci

denz

a de

ll’en

dpoi

ntco

mbi

nato

(%)

0 963 12 mesi

27% RRRP=0,02

11,5%

8,5%

Placebo + ASAClopidogrel + ASA

IMA, Ictus, o morte

Steinhubl S, JAMA. 2002

Figura 1

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cardiovascolari maggiori (HR: 1,02, IC 95% 0,70-1,51), infarto miocardico (HR: 0,96, IC 95%: 0,59-1,56) o aumento delle rivascolarizzazioni (HR:0,95, IC 95%: 0,59-1,55) (18). Concludendo, l’ipo-tesi che il trattamento con PPI possa ridurre l’ef-ficacia del Clopidogrel nella prevenzione secon-daria di eventi cardiovascolari ha portatoall’alert di EMEA e alla nota informativadell’AIFA: l’associazione deve essere guidata dauna reale necessità clinica (rischio elevato disanguinamento) e non routinariamente. Neipazienti dove tuttavia è assolutamente necessa-ria la terapia di associazione Clopidogrel-PPIpotrebbe essere utile considerare l’uso delPantoprazolo (Come indicato nella nota AIFA),unico PPI che ha sostanzialmente dimostratoscarsa interazione con Clopidogrel nei vari studi. Negli ultimi anni si è assistito ad un proliferare dimetodiche di aggregometria mirate a quantifi-care il grado di antiaggregazione durante tera-pia antiaggregante (19). Se il paziente risulta“resistente” ad uno o più antiaggreganti, qualistrategie di trattamento possiamo adottare? Le linee guida ancora non hanno affrontato ilproblema di quale potrebbe essere una corret-ta strategia terapeutica in caso di resistenzadocumentata ad ASA o Clopidogrel. Le opzioniterapeutiche possibili sono dettate dalla prati-ca clinica e basate su dati di letteratura. Innanzitutto si potrebbe aumentare il dosag-gio dei farmaci antiaggreganti. Se questo puòessere particolarmente vero per Clopidogrel(Dosi di 150 mg/die sono state usate in tutti ipiù recenti trials che lo hanno visto coinvol-to)(20), può non essere così scontato per l’aspi-rina (Ad alti dosaggi può perdere la selettivitàall’enzima COX1, interagendo con l’enzimaCOX2 responsabile della produzione di prosta-ciclina PGI2, potente inibitore dell’aggregazio-ne piastrinica). Pertanto, ad alto dosaggio, ilpotere antiaggregante dell’ASA potrebberisultare inferiore a quanto accade per bassedosi. Tale fenomeno si osserva già a dosi mag-giori di 500 mg complessivi al giorno.

Rischio cumulativo della mortalità per tutte le cause e delle SCAtra i pazienti che assumevano Clopidogrel dopo ospedalizzazione per SCA

ed a cui sono stati prescritti PPI alla dimissione o durante follow up

0 27018090 360 630540450 720 990900810 1080

Giorni dalla dimissione

0,70

0,60

0,50

0,40

0,30

0,20

0,10

0

Prop

orzi

oni d

i ric

orre

nza

di S

CA

Nè Clopidogrel o PPIPPI senza clopidogrelClopidogrel + PPIClopidogrel senza PPI

Ho PM, Maddox TM, Wang L, et al. JAMA. 2009;301(9):937-944

Figura 2

End point primari negli studi PRINCIPLE-TIMI 44 Triale TRITON-TIMI 38 Trial stratificati dall’assunzione di un PPI

14%

12%

10%

8%

6%

4%

2%

0%

Mor

te c

ardi

ovas

cola

re, I

MA

o s

trok

e

Uso di PPI alla randomizzazione (n= 4529)

CLOPIDOGREL PPI vs no PPI: Adj HR 0,94, 95% CI 0,80-1,11

PRASUGREL PPI vs no PPI: Adj HR 1,00, 95% CI 0,84-1,20

0 300200100 400Giorni

ClopidogrelNo PPI

PPI

PrasugrelPPI

No PPI

Figura 3

La resistenza all’ASA, secondo una metanalisi pubblicatasul BMJ, analizzando più di 20 studi molto eterogenei fraloro, è in media del 28%.

La resistenza al clopidogrel è dovuta ai polimorfismigenetici a carico del recettore dell’ADP P2Y12, ai polimor-fismi a carico dei citocromi epatici e per ultimo all’intera-zione con vari classi di farmaci e fattori “metabolici”.

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Ancora si potrebbe aggiungere un terzo farmaco antiaggregan-te. Diversi sono gli studi che hanno confermato come l’aggiun-ta di Cilostazolo, un inibitore della fosfodiesterasi III, potenteantiaggregante piastrinico, determini un’addizionale soppres-sione della Selectina P, marker di attivazione piastrinica. Su que-ste basi sono stati compiuti studi che hannoevidenziato l’impatto della triplice terapiaantiaggregante (ASA, Cilostazolo ed una tieno-piridina) sulla trombosi intrastent. I risultatidimostrano migliori risultati della triplice tera-pia antiaggregante nei confronti della doppiaterapia sulla trombosi intrastent (P: 0.024) senzatuttavia un aumento dell’incidenza di sangui-namenti (P: 0,621). Secondo gli Autori, la tripliceterapia può essere utile in pazienti ad elevatorischio di trombosi intrastent (ad esempoDiabetici, con assetto infiammatorio elevato ocon BMI>25) o con lesioni complesse. (21)anche se una recente metanalisi ha ridimensio-nato tale strategia (22).Si potrebbe poi sostituire il Clopidogrel con altriagenti tienopiridinici recentemente apparsi. Ilprimo ad essere citato è il Prasugrel, approvatodall’FDA per l’uso nei pazienti con angina insta-bile o infarto miocardico avviati a procedura dirivascolarizzazione miocardica percutanea. I duepiù importanti lavori che hanno studiato

Prasugrel sono stati il PRINCIPLE TIMI 44 trial (23)e il TRITON TIMI 38 Trial. (24)Il primo ha dimostrato come Prasugrel siamolto più rapido nella sua azione antiaggre-gante rispetto a Clopidogrel rimanendo piùefficace anche dopo la fase di Crossover, indu-cendo una migliore efficacia antiaggreganterispetto a Clopidogrel. Il TRITON TIMI 38 Trialinvece (24) ha coinvolto 13608 pazienti conSCA avviati all’esecuzione di angioplasticacoronarica a ricevere trattamento conPrasugrel o Clopidogrel. Gli end-point primaridello studio erano morte da causa cardiova-

scolare, infarto miocardico non fatale e stroke non fatale. Il fol-low up è durato oltre un anno. I risultati hanno evidenziato unanetta riduzione degli end-point primari nel gruppo trattatocon Prasugrel (HR Prasugrel vs. Clopidogrel 0,81 con 95% IC: da0,73 a 0,90: P<0.001). Tuttavia si è osservata una più alta inci-denza di sanguinamenti maggiori sia fatali che non fatali nelgruppo Prasugrel rispetto a Clopidogrel (P=0,001) (Fig. 4).

Risultati dello Studio TIMI-38 Trial. Miglioramento dell’end-point primario (End point composito)

a fronte di maggior numero di eventi emorragici

15

10

5

0

Endp

oint

(%)

0 906030Giorni

180 450360270

Morte CV / MI / Stroke

Sanguinamenti(Classificazione TIMI)

Clopidogrel

Clopidogrel

Prasugrel

Prasugrel

138eventi

HR 0,81(0,73−0,90)P=0,0004

NNT = 46

35eventi

HR 1,32(1,03−1,68)

P=0,03

NNT = 167

12,1

9,9

2,41,8

Figura 4

End point primari nello Studio PLATO(composito di morte CV, MI or stroke)

Inci

denz

a C

umul

ativ

a (%

)

Maggior efficacia di Ticagrelor vs Clopidogrel nell’end point composito

13121110

9876543210

0 18012060 240 300 360

Clopidogrel

Ticagrelor

9,8

11,7

HR 0,84 (95% CI 0,77−0,92), p=0,0003

Giorni dopo la randomizzazione

Figura 5

Nei pazienti dove tuttavia è assolutamentenecessaria la terapia di associazioneClopidogrel-PPI potrebbe essere utile con-siderare l’uso del Pantoprazolo, unico PPIche ha sostanzialmente dimostrato scarsainterazione con Clopidogrel nei vari studi.

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Recentissimamente, un altro agente farmacologico, Ticagrelor,è arrivato alla ribalta per la sua grande efficacia; non è un pro-farmaco ed il suo legame con il recettore P2Y12 è reversibile epertanto bastano poche ore per la cessazione dell’azioneantiaggregante (circa 24-36 ore). Lo Studio PLATO (25-26),multicentrico, randomizzato in doppiocieco, eseguito su 18.624 pazienti con follow up a un anno, haconfrontato Ticagrelor e Clopidogrel in pazienti con SCA.Ticagrelor si è rivelato più efficace di Clopidogrel per quantoconcerne gli end point primari (End point composito di morteper cause vascolari, infarto miocardico e stroke) con un altolivello di significatività (9,8% Ticagrelor vs 11,7% Clopidogrel.P<0,001) (Fig. 5). In questo studio non si è assistito ad un ecces-so di sanguinamento nel gruppo Ticagrelor rispetto al gruppoClopidogrel (Rispettivamente 11,6% e 11.2%. P: 0,43), soprat-tutto per quanto riguarda i sanguinamenti nei pazienti avviatia CABG in urgenza. Concludendo, la doppia terapia antiaggregante risulta indi-spensabile nei pazienti con rivascolarizzazione percutanea. Itest di antiaggregazione dovranno entrare nella pratica clinicain particolare per l’impatto che può avere una eventuale resi-stenza sull’outcome dei pazienti. I nuovi antiaggreganti sono risultati clinicamente efficacianche se il problema della resistenza è ancora aperto e soloparzialmente testato.

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L’impatto della triplice terapia antiaggregante (ASA,Cilostazolo ed una tienopiridina) sulla trombosi intra-stent. I risultati dimostrano migliori risultati della tripliceterapia antiaggregante nei confronti della doppia terapiasulla trombosi intrastent senza tuttavia un aumento del-l’incidenza di sanguinamenti.

Lo Studio PLATO ha confrontato Ticagrelor e Clopidogrelin pazienti con SCA. Ticagrelor si è rivelato più efficace diClopidogrel per quanto concerne gli end point primari.

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10

Ipertensione e Ipercolesterolemia:un binomio inscindibile

L’ipercolesterolemia è frequentemente associata alla pre-

senza di ipertensione arteriosa. La presenza di una stretta

correlazione tra tali due determinanti del rischio indipen-

dente da fattori confondenti, è stata sottolineata da

numersoi studi epidemiologici. I dati provenienti da alcuni

studi di intervento in prevenzione primaria sulla popola-

zione ipercolesterolemica hanno chiaramente dimostrato

come una riduzione dei valori di colesterolemia si associ

ad una riduzione significativa della percentuale di sogget-

ti che sviluppa ipertensione arteriosa stabilizzata, dimo-

strando come l’ipercolesterolemia non solo sia in grado di

incrementare l’entità del rischio cardiova-

scolare nella popolazione ipertesa, ma

possa rappresentare, essa stessa, un impor-

tante fattore di rischio per lo sviluppo di

ipertensione arteriosa. Queste implicazioni

cliniche suggeriscono come un trattamento

aggressivo dell’ipercolesterolemia nella

popolazione di pazienti ad elevato profilo

di rischio per lo sviluppo di ipertensione

arteriosa, possa tradursi in una minore inci-

denza di ipertensione stabile nella popola-

zione generale. I dati dello studio NHANES

III dimostrano come l’incidenza di ipercole-

sterolemia nella popolazione ipertesa risul-

ti progressivamente crescente all’aumenta-

re della gravità del quadro ipertensivo e

come la presenza di ipercolesterolemia

caratterizza oltre il 40% dei pazienti con

valori pressori elevati. In termini di eventi

clinici la presenza contemporanea di iper-

tensione e dislipidemia, in particolare iper-

colesterolemia, si traduce in un incremento

significativo delle incidenza di complicanze

cardiovascolari ed in particolare i risultati ottenuti nella

popolazione sottoposta a screening nell’ambito dello stu-

dio MRFIT hanno dimostrato come la incidenza di cardio-

patia ischemica sia maggiore nella popolazione di pazien-

Dott. Eugenio Roberto Cosentino, Dott. ssa Elisa Rebecca Rinaldi, Federica Campomori, Prof. Claudio BorghiAzienda Ospedaliera Universitaria S.Orsola - Malpighi UO Medicina Interna

n = 316.099

142+132-141

125-131118-124

< 118

245+

221-244

203-220

182-202<182

Mo

rti/

10

.00

0 p

azie

nti

-an

no

Effetto additivo del colesterolo e della PA sistolica sul rischio di morte per CHD

34

21

17

13

12

23

12

810

6

18

11

9

6

6

17

88

6

4

14

56

33

Quintile PAS

(mmHg)

Quintile Colesterolo

(mg/dL)

Figura 1

I dati dello studio NHANES III dimostrano come l’incidenza diipercolesterolemia nella popolazione ipertesa risulti progres-sivamente crescente all’aumentare della gravità del quadroipertensivo e come la presenza di ipercolesterolemia caratte-rizza oltre il 40% dei pazienti con valori pressori elevati.

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11

ti che presenta entrambi tali fattori di rischio con un effet-

to progressivamente crescente per ciascun valore di pres-

sione arteriosa o di colesterolemia plasmatica. Neaton et al

hanno quantificato l’entità del fenomeno dimostrando

come, in una popolazione di pazienti giovani,il rischio

aggiustato di morte coronarica sia 10 volte maggiore nei

soggetti che appartangono al quintile più elevato per i

livelli pressori e di colesterolemia (>142 mmHg e >245

mg/dl) rispetto ai soggetti che si collocano nei quintili più

bassi (figura 2). In particolare, lo studio di Gubbio, condot-

to oltre 10 fa in una ampia popolazione italiana, ha eviden-

ziato come la presenza di ipercolesterolemia sia più fre-

quente nella popolazione ipertesa rispetto a quella nor-

motesa e tale osservazione è stata confermata più recente-

mente nella popolazione dello studio di Brisighella. La

importanza del controllo combinato pressorio e lipidico

nel paziente con profilo di rischio cardiovascolare elevato

dimostrano come tale associazione sia proporzionale alla

gravità del quadro ipertensivo osservando-

si un incremento progressivo della preva-

lenza di ipercolesterolemia al crescere dei

valori di pressione arteriosa fino a raggiun-

gere una prevalenza del 50% nei pazienti

affetti da ipertensione di grado severo. Tale

aspetto è stato confermato dello studio

SMOOTH, condotto nella popolazione di S.

Marino, che ha confermato come la preva-

lenza di ipercolesterolemia sia significativa-

mente maggiore nella popolazione ipertesa

rispetto a quella normotesa (figura 3).

Le linee guida ESH-ESC 2007 suggeriscono

come un valutazione combinata del profilo

di rischio globale del paziente debba essere

considerata per un corretto orientamento

dell scelte terapeutiche in ambito di terapia

antipertensiva ed ipolipemizzante.Un aspet-

to interessante è rappresentato dal fatto che

l’azione delle terapia ipolipemizzante con sta-

tine possa risultare sinergica a quella dei far-

maci antipertensivi. Una osservazione in questo senso è

stata ottenuta in uno studio clinico condotto in una popo-

lazione di pazienti ipertesi ed ipercolesterolemici afferenti

al nostro ambulatorio. La riduzione della pressione arteriosa

nella popolazione ipertesa ed ipercolesterolemica che assu-

meva farmaci antipertensivi è risultata, infatti, maggiore in

coloro che assumevano contemporaneamente una statina.

Una osservazione analoga è stata derivata anche dalla ana-

lisi dei dati dello studio di Brisighella nel quale si è osserva-

to come nella popolazione di ipertesi ipercolesterolemici

trattati con farmaci antipertensivi la riduzione della pressio-

ne arteriosa fosse maggiore nei soggetti in trattamento con

statine. La interazione tra i farmaci antiipertensivi e le stati-

ne potrebbe non essere limitata agli aspetti quantitativi, ma

estendersi a comprendere anche quelli di tipo qualitativo

attraverso la possibilità di un sinergismo preferenziale tra

l’impiego di statine e quello di determinate classi di farma-

ci ed in particolare calcio-antagonisti e soprattutto farmaci

Effetti di Telmisartan e Bisoprololo sui livelli plasmatici di TGin una popolazione di pazienti ipertesi e ipercolesterolemici 16

trattati con statine

180

160

140

120

100

80

Varia

zion

e de

i trig

licer

idi (

mg/

dl)

C. Borghi et al. F Clin Pharm. 2009

0 12862

* P<0.01 vs. Simvastatina

Simvastatina Telmi/Biso Wash−out Biso/Telmi

Settimane

Bisoprololo−Telmisartan

Telmisartan−Bisoprololo

Figura 2

Lo studio SMOOTH, condotto nella popolazione di S.Marino ha confermato come la prevalenza di ipercoleste-rolemia sia significativamente maggiore nella popolazio-ne ipertesa rispetto a quella normotesa.

Un aspetto interessante è rappresentato dal fatto chel’azione delle terapia ipolipemizzante con statinepossa risultare sinergica a quella dei farmaci antiper-tensivi.

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che inibiscono il sistema RAS con un ruolo prevalente per i

sartani. La capacità di statine e sartani di esercitare una azio-

ne sinergica deriva dalla capacità di agire contemporanea-

mente sul proprio bersaglio principale e su un obiettivo

comune rappresentato dai recettori della angiotensina II di

tipo AT1. In particolare il blocco di tali recettori ad opera dei

sartani si tradurrebbe in una riduzione della risposta vaso-

costrittiva e pressoria mentre la riduzione della loro densità

operata dalla statine sarebbe in grado di aumentare sia il

rapporto tra recettori AT1 e recettori AT2 con attività vaso-

dilatrice ed antiproliferativa, sia il rapporto tra concentrazio-

ne di sartano e numero di recettori AT1 con i quali interagi-

re potenziando quindi la capacità e persistenza del blocco

ad opera dei sartani stessi. Recenti evidenze suggeriscono

una relazione fra l’espressione genica del recettore AT1

dell’angiotensina I e livelli plasmatici di colesterolo LDL

(LDL-C). Uno studio clinico condotto presso il nostro centro

ha supportato queste evidenze. Lo studio randomizzato, in

singolo cieco, aveva arruolato 16 pazienti ipertesi e iperco-

lesterolemici non trattati. Tutti i pazienti venivano trattati

con simvastatina 20 mg al giorno per 2 settimane e succes-

sivamente assegnati a due gruppi di trattamento, uno con

telmisartan (40-80 mg al giorno) e un altro con bisoprololo

(5-10 mg al giorno). Il gruppo telmisartan-simvastatina, al

termine dello studio, otteneva un miglior controllo dei

valori di pressione arteriosa diastolica e migliorava netta-

mente alcuni parametri vascolari rispetto al gruppo di con-

trollo. Anche dal punto di vista metabolico, il gruppo telmi-

sartan riduceva maggiormente i valori di trigliceridemia

(figura 3). Questi dati preliminari potrebbero tradursi in una

maggiore efficacia in termini non solo di controllo presso-

rio, ma anche di protezione globale attraverso un migliora-

mento della capacità di vasodilatazione endotelio-mediata

ed una riduzione di quelle alterazioni funzionali della pare-

te vascolare di natura chemotattica e infiammatoria che

condizionano lo sviluppo e la progressione della malattia

aterosclerotica. Tutto ciò suggerisce la importanza dell’im-

piego precoce di una strategia di prevenzione ad ampio

spettro nei confronti della malattia aterosclerotica ed il

ruolo primario nella acquisizione dei risultati di tale strate-

gia dell’impiego specifico di una combinazione di statine e

inibitori del sistema RAS (in particolare sartani).

A n n o I I - N . 3 , 2 0 1 0

12

Studio Smooth

G. Mancia, C. Borghi et al., J Hypertens 2006

PA ottimale PA normalePA normale altaPA non trattata

* P < 0,0001 P < 0,0002

**

**

NS

↓ HDL-Ch ↑ UA DM

Fumo ↑ BMI ↑ Ch ↑ TG60

40

20

0

%

15

10

5

0

%6,0 6,3

5,2 5,2

2,43,8

6,35,3 5,1

6,1

13,112,1

8,012,0 12,2 14,3

48,453,4

57,7 60,3

24,5

33,1

43,748,9

30,125,4 26,1

22,2

Figura 3

La capacità di statine e sartani di esercitare una azionesinergica deriva dalla capacità di agire contemporanea-mente sul proprio bersaglio principale e su un obiettivocomune rappresentato dai recettori della angiotensina IIdi tipo AT1.

Recenti evidenze suggeriscono una relazione fra l’espres-sione genica del recettore AT1 dell’angiotensina I e livelliplasmatici di colesterolo LDL (LDL-C).

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13

Terapia di associazione nel trattamento della ipertensione arteriosa

Epidem iologia e controllo

della ipertensione arteriosa

L’ipertensione arteriosa continua a rappresentare un pro-

blema di notevole e crescente rilevanza nei sistemi sani-

tari dei Paesi ad elevato sviluppo socio-economico. Ciò

dipende da una serie di fattori legati alla epidemiologia

ed alla efficacia del trattamento di tale patologia. Infatti,

dati epidemiologici indicano che la prevalenza della iper-

tensione continua a crescere in tutti i Paesi del mondo,

compresi quelli ad elevato sviluppo economico come

l’Italia, ed ancora di più percentualmente in quelli in via

di sviluppo (1). Tale esponenziale incremento si traduce

in un impatto socio-sanitario di enorme portata rappre-

sentato dal 13,5% di mortalità complessiva del pianeta

attribuibile alla ipertensione ed al 6% delle giornate lavo-

rative perdute nel 2001 (1). Il contributo della ipertensio-

ne alla mortalità e morbilità della popolazione è stretta-

mente legato all’elevato numero di soggetti non trattati

ed all’insoddisfacente controllo dei valori pressori nei

pazienti in trattamento, che si osserva in tutti i Paesi e

segnatamente in Europa dove è riportata una prevalenza

del 44% con una percentuale di soggetti trattati del 27%

circa (2). Non sorprendentemente, il controllo della pres-

sione arteriosa è tanto peggiore quanto più elevato è il

rischio cardiovascolare dei pazienti e, conseguentemente

più ambizioso il target pressorio raccomandato dalle

linee guida. Infatti i soggetti a rischio cardiovascolare più

elevato sono generalmente i più anziani e affetti da

comorbilità quali il diabete e l’insufficienza renale croni-

ca nei quali la somministrazione di farmaci antipertensivi

più frequentemente si associa ad effetti collaterali, e che

necessitano di polifarmacoterapia che tende a ridurre la

aderenza al trattamento.

Il costo della non aderenza al trattamento è stato stimato

recentemente negli Stati Uniti con risultati sorprendenti

che devono far riflettere. L’inadeguato trattamento è

responsabile di circa 89.000 decessi prematuri evitabili e

di una spesa sanitaria aggiuntiva di circa 100 miliardi di

dollari per anno legata all’elevato numero di ospedalizza-

zioni che le complicanze della ipertensione non adegua-

tamente trattata determinano (3). Le ragioni della non

aderenza o del mancato raggiungimento degli obiettivi

pressori sono molteplici e le principali sono elencate

nella tabella 1 (4). Tra queste molte appartengono alla

inappropriata gestione della patologia dovuta ad una

inadeguata percezione dei vantaggi della riduzione pres-

soria fino ai livelli raccomandati, all’uso inappropriato

della monoterapia e all’impiego ancora limitato della

Prof. Pasquale Perrone Filardi, Carmen D’Amore, Milena Cecere, Gianluigi Savarese, Antonio ParenteCattedra di Cardiologia, Università Federico II di Napoli

Cause di inadeguato controllo dei valori pressori

Compliance del paziente

Ridotta motivazione (medico e/o paziente) al raggiungimento dei target pressori

Inefficacia della monoterapia

Inadeguato monitoraggio degli effetti della terapia

Comparsa di effetti collaterali all’aumentare della dose di singoli farmaci

Ritardato inizio della terapia di combinazione

Ripetuti aggiustamenti posologici

Tabella 1

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A n n o I I - N . 3 , 2 0 1 0

terapia di associazione così come raccomandato dalla

ultime linee guida (5).

Il razionale della terapia di associazione

La terapia di associazione è basata sulla somministrazio-

ne di due o più farmaci appartenenti a classi diverse che

abbiano meccanismi di azione complementari e sinergi-

ci nel produrre la riduzione di pressione e antagonisti

riguardo alla produzione degli effetti collaterali. Nelle

associazioni precostituite di due farmaci finora immesse

sul mercato i singoli composti sono stati utilizzati a

dosaggi bassi al fine di ridurre gli effetti collaterali

anche se recentemente sono state introdotte associa-

zioni di farmaci (sartani e diuretici tiazidici) entrambi a

dosaggio pieno con risultati favorevoli sul controllo dei

valori pressori e sula incidenza di effetti collaterali. Le

associazioni più comunemente utilizzate sono quelle tra

bloccanti del sistema renina-angiotensina (RAS) e diure-

tici tiazidici nelle quali questi ultimi antagonizzano

l’azione potassio-risparmiatrice dei bloccanti del RAS i

quali a loro volta limitano l’azione iperuricemizzante dei

diuretici; oppure l’associazione tra calcio antagonisti e

bloccanti del RAS, che presto sarà disponibile in Italia in

formulazioni precostituite, nella quale i primi riducono

l’incidenza della tosse e i secondi l’edema malleolare

tipico dei calcio-antagonisti; o infine l’associazione tra

beta-bloccanti e calcio-antagonisti diidropiridinici nella

quale i primi antagonizzano efficacemente gli effetti di

attivazione simpatica riflessa provocati dalla vasodilata-

zione dei calcio-antagonisti. Viceversa, vi sono associa-

zioni che non andrebbero effettuate di primo acchito in

quanto non supportate dal razionale fisiopatologico e

da solide evidenze cliniche. Un classico esempio è l’as-

sociazione tra clonidina (alfa agonista centrale) e gli

alfa1-antagonisti in quanto i meccanismi di azione ten-

derebbero ad annullarsi reciprocamente,

oppure quella tra diuretici e calcio antago-

nisti per l’effetto diuretico di questi ultimi

o, infine, quella tra ACE-inibitori e sartani

che non ha prodotto risultati favorevoli in

trial clinici.

Dal punto di vista della efficacia antiiper-

tensiva è stato ripetutamente dimostrato

che la terapia di associazione a dosaggi

bassi determina riduzioni pressorie signifi-

cativamente maggiori rispetto a quelle

ottenute dai singoli farmaci a dosi piene

con minori effetti collaterali (6).

Altrettanto solide sono le evidenze in ter-

mini di riduzione degli eventi clinici deri-

vanti da studi randomizzati su pazienti

ipertesi ad alto rischio cardiovascolare.

Nello studio ASCOT-BPLA (7) circa 20.000

pazienti furono randomizzati a un tratta-

mento di combinazione con amlodipina e

perindopril oppure con atenololo e ben-

droflumetiazide con end-point primario

costituito dalla occorrenza di infarto mio-

cardico non fatale ed eventi cardiovasco-

lari fatali. Lo studio fu prematuramente

interrotto per motivi etici in quanto il

Singolo agente a basso dosaggio

Combinazione di due farmacia basso dosaggio

Se l’obiettivo pressorio non è raggiunto

Agente precedente a dosaggio pieno

Agente differente a basso dosaggio

Aggiungere un terzo farmacoa basso dosaggio

Precedente combinazione

a dosaggio pieno

Se l’obiettivo pressorionon è raggiunto

Combinazione di due-tre farmaci a dosaggio pieno

Monoterapiaa dosaggio pieno

Combinazione di due-tre farmacia dosaggio pieno

Scegliere tra Aumento marcato della PARischio CV alto/molto altoTarget pressorio più basso

Lieve aumento della PARischio CV basso/moderato

Target pressorio convenzionale

Figura 1

Il costo della non aderenza al trattamento è stato stimatorecentemente negli Stati Uniti di circa 100 miliardi di dol-lari per anno.

14

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A n n o I I - N . 3 , 2 0 1 0

15

braccio di pazienti allocato alla terapia con amlodipina

e perindopril dimostrava un significativo effetto favore-

vole sulla mortalità cardiovascolare e su end-point car-

diovascolari maggiori rispetto ai pazienti in terapia con

beta bloccante e diuretico, non completamente attri-

buibile alla maggiore efficacia antiipertensiva. Più

recentemente, nello studio ACCOMPLISH (8) 11.506

pazienti ipertesi ad alto rischio cardiovascolare sono

stati randomizzati ad un trattamento con benazepril ed

amlodipina oppure benazepril ed idroclorotiazide e

seguiti per un periodo medio di 36 mesi con un end

point primario composito costituito da morbidità e

mortalità cardiovascolare. In questo studio, a fronte di

una modesta differenza pressoria tra i due trattamenti a

favore del gruppo con calcio-antagonista, l’end point

primario è stato ridotto del 19,6% nel gruppo ACE-inibi-

tore/amlodipina con una riduzione del 21% per gli

eventi cardiovascolari maggiori (morte, infarto non fata-

le ed ictus). In aggiunta, la terapia di combinazione ha

determinato in entrambi i gruppi una percentuale di

soggetti con pressione a target >70%. I risultati di que-

sti due studi sono stati recentemente confermati da una

metanalisi che ha riportato come regimi terapeutici

composti da due o tre farmaci impiegati alla metà della

dose standard siano molto più favorevoli in termini di

risparmio di eventi in confronto alle dosi standard degli

stessi farmaci utilizzati in momoterapia (6).

I candidati alla terapia di com binazione

La terapia di combinazione è raccomandata sin dall’inizio

del trattamento dalle linee guida ESC (5) nei pazienti ad

elevato rischio cardiovascolare nei quali sia necessario un

abbassamento dei valori pressori da raggiungere in

tempi brevi (figura 1). In particolare, è raccomandato l’uso

di formulazione precostituite a dosi fisse che migliorano

la aderenza al trattamento e riducono la comparsa di

effetti collaterali. I pazienti candidati a tale regime tera-

peutico sono dunque quelli con multipli fattori di rischio

cardiovascolari, con danno d’organo o diabete mellito e

con patologie associate renali o cardiovascolari. Sono

altresì candidati gli ipertesi non complicati e a basso

rischio cardiovascolare qualora la monoterapia non rie-

sca ad ottenere un controllo soddisfacente della pressio-

ne arteriosa.

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La terapia di associazione a dosaggi bassi determinariduzioni pressorie significativamente maggiori rispetto aquelle ottenute dai singoli farmaci a dosi piene conminori effetti collaterali.

La terapia di combinazione è raccomandata sin dall’iniziodel trattamento dalle linee guida ESC (5) nei pazienti adelevato rischio cardiovascolare.

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L’approccio clinico alla prevenzione del rischio dopo lo studio NAVIGATOR:aspettative e prospettive

Le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa dimorte nel nostro paese ed in generale in tutte le nazioni cosid-dette industrializzate (1), in ragione dell’impatto negativo deidiversi fattori di rischio cardiovascolare responsabili della svi-luppo di complicanze cliniche come conseguenza della lorointerazione a livello micro- e macrovascolare (2). Tra i fattori dirischio che rivestono maggiore rilevanza clinica e prognosticavanno certamente considerate le alterazioni del profilo glice-mico (prima di tutte la malattia diabetica, ma non solo) che siassociano ad un incremento del rischio relativo di eventi coro-narici e cerebrovascolari, il quale può essere significativamen-te ridotto controllando adeguatamente i valori glicemici, lapressione arteriosa e le alterazioni del profilo lipidico (3).Nell’ambito complesso del rischio CV associato ad un alteratocontrollo glicemico, negli ultimi anni hanno assunto un rile-vante interesse tutte quelle condizioni di alterato profilo glice-mico non diabetico quali la IFG (glicemia a digiuno 100-126mg/dL) e la IGT (glicemia da carico orale > 149 e < 200 mg/dL)che hanno una prevalenza nella popolazione maggiore deldiabete e sono associate ad un eccesso di rischio di diabeteconclamato e malattie CV rispetto alla popolazione normogli-cemica (4). In questa importante popolazione di pazienti lo svi-luppo di una strategia di prevenzione appare ineludibile sianei confronti della malattia diabetica che delle sue complican-ze. Prima della pubblicazione dello studio NAVIGATOR (5) loscopo poteva essere raggiunto attraverso modificazioni dellostile di vita (dieta, attività fisica, ecc.) e secondariamentemediante l’impiego di alcune classi di farmaci in grado dimigliorare la sensibilità insulinica periferica agendo sul versan-te glicemico (metformina). Le informazioni relative alla effica-cia del blocco RAS, invece, erano limitate ai risultati retrospetti-vi di una ampia meta-analisi condotta soprattutto nella popo-

lazione ipertesa (6) che dimostrava come tale strategia di inter-vento si associava ad una riduzione del rischio relativo dimalattia diabetica rispetto a quanto osservato con le altre clas-si di farmaci. Lo studio NAVIGATOR (5) ha radicalmente modifi-cato lo scenario di intervento dimostrando come, in una popo-lazione di pazienti con intolleranza glucidica associata a 1 o piùfattori di rischio CV (se la età ≥ 55 anni) o alla presenza di pato-logia cardiovascolare pregressa (se età ≥ 50 anni), il trattamen-to con 160 mg/die di valsartan fosse in grado di determinareuna riduzione del 14% (p<0,001) (Figura 1) che si applica adun’ampia popolazione di pazienti e si associa ad un trendverso riduzione dell’incidenza di ictus nonostante la relativabrevità del follow-up, a dimostrazione dell’impatto favorevoledella strategia di intervento con Valsartan nei pazienti a rischiodi malattia diabetica di nuova insorgenza. Ovviamente, ladimostrazione di efficacia osservata nell’ambito dello studioNAVIGATOR ha una serie di potenziali implicazioni cliniche eterapeutiche nell’approccio del paziente a rischio cardiovasco-lare. La prima e ovvia è la possibilità che un impiego sistemati-co di 160 mg/die di valsartan condizioni una riduzione assaisignificativa dell’incidenza di diabete conclamato nei soggetticon alterato profilo glicemico, nei quali oggi le sole strategiepotenzialmente efficaci (dieta e metoformina) implicano unaserie di limitazioni in termini di maneggevolezza (dieta) e pos-sibilità di un impiego sistematico privo di effetti indesiderati(metformina). La realizzazione di tale strategia preventivaimplica necessariamente una identificazione adeguata di talesoggetti attraverso una stima routinaria della presenza di alte-razioni del profilo glicemico soprattutto in quelle popolazionidi pazienti che dimostrano un aumento della suscettibilità allosviluppo di diabete mellito, come i soggetti ipertesi. Tutto ciò

Prof. Claudio Borghi, Enkeleda KajoUniversità degli Studi di Bologna

Tra i fattori di rischio che rivestono maggiore rilevanza clinicae prognostica vanno certamente considerate le alterazionidel profilo glicemico che si associano ad un incremento delrischio relativo di eventi coronarici e cerebrovascolari.

Lo studio NAVIGATOR ha dimostrato come, in una popolazio-ne di pazienti con intolleranza glucidica associata a 1 o piùfattori di rischio CV o alla presenza di patologia cardiovasco-lare pregressa, il trattamento con 160 mg/die di valsartanfosse in grado di determinare una riduzione del 14%.

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implica un impiego prevalente di farmaci che bloccano i recet-tori dell’angiotensina II ed in particolare valsartan, nella pre-venzione del rischio CV in maniera indipendente dall’effettosul controllo pressorio in tutti quei pazienti nei quali le altera-zioni del profilo glicemico possano essere dimostrate conopportune indagini (basta un dosaggio della glicemia a digiu-no!) o presunti sulla base delle caratteristiche individuali (es.sovrappeso ed obesità) e/o del profilo di rischio globale (es.pazienti con sindrome metabolica). In secondo luogo l’acquisi-zione contemporanea di un migliore profilo glicemico e di unmaggiore controllo della pressione sistolica e diastolica osser-vate nei pazienti dello studio NAVIGATOR possono svolgereun’azione sinergica nei confronti della prevenzione del rischioCV attraverso l’acquisizione di due diversi obiettivi con un solofarmaco. Ciò rappresenta uno degli aspetti di maggiore novitàe potenziale applicazione dello studio che per la prima voltaha dimostrato come la verifica di un presupposto fisiopatolo-gico come l’interazione negativa dell’angiotensina II nei con-fronti dei vasi arteriosi e della sensibilità insulinica possa tra-sformarsi in un’indicazione terapeutica specifica per un’ampiafetta di popolazione a rischio che per raggiungere un analogorisultato sarebbe costretta all’impiego di complesse strategiedi associazione (es. dieta + antiipertensivo o metformina +

antiipertensivo). Terzo, ma non meno importante come conse-guenza del punto precedente, l’aspetto economico che il cuivantaggio si esprime su due diversi versanti. Il primo, ovvio,legato alla riduzione dei costi che consegue alla prevenzionedella malattia diabetica che quando si sviluppa implica deicosti progressivamente maggiori sulla base di un crescenteimpegno diagnostico, di monitoraggio clinico e terapeutico siaper il controllo della iperglicemia che delle complicanze car-dio-renali. Il secondo vantaggio economico è conseguente aquanto descritto in precedenza circa la duplicità del beneficio,in quanto i risultati dello studio NAVIGATOR hanno dimostratocome un solo investimento in termini di intervento (l’impiegodi valsartan) possa tradursi in un vantaggio clinico che potreb-be essere acquisito solo a spese dell’integrazione di diversecomponenti di costo e con un minore impatto in termini diaderenza e quindi di rapporto tra costi sostenuti e beneficiacquisiti. Complessivamente lo studio NAVIGATOR relativa-mente all’impatto del trattamento con valsartan, dimostracome sia possibile prevenire o ritardare lo sviluppo di diabetedi tipo II attraverso un intervento basato sull’impiego di un far-maco in grado di svolgere contemporaneamente la funzionedi modulatore cardiovascolare e metabolico. Tutto ciò haimportanti implicazioni di ordine clinico ed economico cui siassocia una ricaduta pratica immediata e conseguente allapossibilità di applicare i vantaggi descritti sulla popolazione dipazienti che, giornalmente, necessita di un’efficacia prevenzio-ne delle malattie cardiovascolari.

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Incidenza di nuovi casi di diabetenello studio NAVIGATOR-Valsartan

50%

40%

30%

20%

10%

0%

Inci

den

za d

i dia

bet

e (%

)

0 54321 6Anni dalla randomizzazione

N. a rischio

Hazard Ratio, 0,86 (95% CI, 0,80-0,92)P < 0,001

Valsartan 4631 3784 3335 2857 2511 2208 1533Placebo 4675 3743 3248 2717 2366 2070 1403

Valsartan

Placebo

Modificato da ref. 5

Placebo 1722 eventi (36,8%)Valsartan 1532 eventi (33,1%)

Figura 1

..... dimostrazione dell’impatto favorevole della strategiadi intervento con Valsartan nei pazienti a rischio dimalattia diabetica di nuova insorgenza.

I risultati dello studio NAVIGATOR hanno dimostrato come unsolo investimento in termini di intervento (l’impiego di valsar-tan) possa tradursi in un vantaggio clinico che potrebbe esse-re acquisito solo a spese dell’integrazione di diverse compo-nenti di costo e con un minore impatto in termini di aderen-za e quindi di rapporto tra costi sostenuti e benefici acquisiti.

Valsartan è in grado di svolgere contemporaneamente lafunzione di modulatore cardiovascolare e metabolico.

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Gestione e trattamento dell’ipertensione nella sindrome metabolica

La definizione di sindrome metabolica si applica oggi adun quadro clinico molto frequente e complesso, in quan-to risultante dal contributo integrato di diverse alterazio-ni antropometriche, metaboliche ed emodinamiche.Diversi gruppi di esperti ed organismi scientifici hannotentato di fornire criteri obiettivi per formulare la diagno-si di sindrome metabolica nella pratica clinica. Ad oggi, la definizione più oggettiva, semplice e pratica-bile resta quella sviluppata dall’Adult Treatment Panel IIIof the National Cholesterol Education Program (NCEP-

ATP III) (1) nel 2001 (Tabella 1). Le caratteristiche comunia tutte le definizioni sono comunque un’alterazione deilivelli glicemici o della tolleranza glucidica, la presenza diobesità addominale, una dislipidemia aterogena e livellitendenzialmente o francamente elevati di pressione arte-riosa.Alla base di questa “costellazione” di alterazioni, vi è unmeccanismo patogenetico comune che è stato a lungoidentificato con la presenza di insulino-resistenza (obassa sensibilità insulinica), con accumulo di grasso

Prof. Massimo Volpe Cattedra e Struttura Com plessa di Cardiologia, II Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi di Rom a “La Sapienza”, Azienda Ospedaliera Sant’Andrea, Rom a

Definizione

Obesità

Lipidi

Glucosio

Pressione arteriosa

Altro

IGT, IFG, diabete tipo 2 o bassa sensibilità insulinica e > 2 dei seguenti fattori di rischio:

BMI > 30 e/o rapporto vita/fianchi > 0,9 (uomini), > 0,85 (donne)

Trigliceridi > 150 mg/dl e/o HDL < 35 mg/dl (uomini); < 39 mg/dl (donne)

IGT, IFG, o diabete di tipo 2

> 140/90 mmHg

Microalbuminuria

Insulinemia a digiuno > 75° percentile e > 2 dei seguenti fattori di rischio:

Circonferenza addome > 94 cm (uomini); > 80 cm (donne)

Trigliceridi > 180 mg/dl e/o HDL < 39 mg/dl

IGT o IFG

> 140/90 mmHg o trattamento anti-ipertensivo

WHO (1998) EGIR (1999)

> 3 dei seguenti fattori di rischio:

Circonferenza addome > 102 cm (uomini); > 88 cm (donne)

Trigliceridi > 150 mg/dl e HDL < 40 mg/dl (uomini); < 50 mg/dl (donne)

> 100 mg/dl

> 130/85 mmHg

NCEP (2001)

Circonferenza addome:> 94 cm (uomini), > 80 cm (donne)e > 2 dei seguenti fattori di rischio:

Trigliceridi > 150 mg/dl o trattamento ipolipemizzante e HDL < 40 mg/dl (uomini); < 50 mg/dl (donne) o trattamento anti-dislipidemico

> 100 mg/dl

Pressione sistolica > 130 mmHg o diastolica > 85 mmHg o trattamento anti-ipertensivo

IDF (2005)

Sindrome Metabolica. Definizioni internazionali

Tabella 1

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viscerale e disordini funzionali del tessuto adiposo e dellaregolazione vascolare.Sebbene l’esistenza di un quadro patologico univocoriconducibile alla sindrome metabolica sia stato lunga-mente dibattuto e contestato, l’utilità clinica di questadefinizione appare fuori discussione.Infatti, la presenza di sindrome metabolica consente dipredire un aumento del rischio cardiovascolare di 1,5-2,5volte rispetto alla popolazione di controllo e ancora mag-giore del rischio di sviluppare diabete mellito (2). Inoltre,la diagnosi è raggiungibile in modo semplice e pococostoso, essendo difatti necessari un metro da sarto perla misura della circonferenza addominale, la determina-zione della pressione arteriosa ed un prelievo ematicoper ottenere parametri ematochimici routinari come gli-cemia, colesterolemia HDL e trigliceridemia. Questo semplice e poco costoso approccio può consenti-re di intercettare pazienti a rischio prima che si sviluppi-no livelli di rischio molto alti, danno d’organo e soprattut-to eventi cardiovascolari. Conseguentemente, l’inseri-mento della diagnosi di sindrome metabolica negli algo-

ritmi clinici di stima del rischio e soprattutto di preven-zione cardiovascolare, non soltanto si è progressivamen-te affermato nella pratica quotidiana, ma è ormai semprepiù impiegato o comunque valutato nelle carte e neglistrumenti per la stima del rischio cardiovascolare globalee per l’applicazione delle conseguenti strategie terapeu-tiche. Tra l’altro, come indicato nella Tabella 2, molte altrealterazioni o condizioni cliniche si associano alla sindro-me metabolica e ne possono far sospettare la presenza.Un’ultima importante considerazione, peraltro nonsecondaria, che deve far riflettere sull’importanza e sulruolo della diagnosi di sindrome metabolica nelle stra-tegie cliniche, si può ricavare dall’elevato impatto epi-demiologico che questa condizione ha anche nel nostroPaese. Infatti, prendendo in considerazione alcuniimportanti studi epidemiologici degli ultimi anni, lamedia stimata di prevalenza della sindrome metabolicain Italia oscilla fra il 15% e il 24% per i maschi e fra 18%-27% per le femmine, considerando soltanto la popola-zione adulta (3,4).Se poi si considera che la presenza di elevati valori presso-ri (> 140/90 mmHg), costituisce la componente di granlunga più frequente, fra quelle che costituiscono il popolodella sindrome metabolica e che comunque l’eccesso dirischio cardiovascolare collegato alla sindrome metabolicaè attribuibile in modo preponderante alla presenza divalori pressori tendenzialmente elevati (> 130/85 mmHg),si intuisce quanto sia importante l’accurata misurazionedella pressione arteriosa e l’eventuale diagnosi di iperten-sione in tutti i pazienti con sindrome metabolica. In prati-ca, persino il semplice ed isolato rilievo di un’obesità addo-minale devono spingere il medico ad accertare con accu-ratezza i livelli pressori del soggetto, per mettere in attotempestivamente eventuali modifiche dello stile di vita omisure terapeutiche farmacologiche che possano ricon-durre alla normalità i valori pressori.Le recenti linee guida europee per la gestione dell’iper-tensione arteriosa hanno attribuito un grande valorealla presenza di sindrome metabolica nella stratifica-zione del rischio del paziente iperteso (come illustratoin Figura 1) e pertanto la ricerca della presenza di sin-drome metabolica nel paziente iperteso è a sua voltaun elemento di grande importanza per definire la con-

Altri parametri clinici e biochimiciche sonoassociati con la Sindrome Metabolica,ma non utilizzatiper la sua definizione

Alterata distribuzione corporea del grasso

Adipochine: elevati livelli di leptina e bassi livelli di adiponectina

Steatosi epatica

Infiltrazione di grasso nel tessuto muscolare scheletrico

Dislipidemia aterogena: elevati livelli di Apolipoproteina B e di particelle LDL piccole e dense

Elevati livelli di acidi grassi liberi

Disfunzione endoteliale

Microalbuminuria

Iperuricemia

Stato proinfiammatorio: elevati livelli di proteina C reattiva, interleuchina-6 e della conta leucocitaria, riduzione della albuminemia

Stato protrombotico: elevati livelli dell’inibitore dell’attivatore del plasminogeno (PAI-1) e del fibrinogeno; indici aumentati di stress ossidativo ed attivazione piastrinica

Sindrome dell’ovaio policistico

Acantosis Nigricans

Psoriasi ed artrite psoriasica

Tabella 2

Le recenti linee guida europee hanno attribuito un gran-de valore alla presenza di sindrome metabolica nella stra-tificazione del rischio del paziente iperteso.

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dotta clinica e soprattutto la tempistica e le scelte tera-peutiche.L’obiettivo terapeutico pressorio nel paziente iperteso,naturalmente accanto al controllo dei vari fattori dirischio e quindi del livello di rischio globale stimato, con-siste nell’ottenere valori inferiori a 130/80 mmHg, natu-ralmente in modo compatibile con l’età e con la presenzadi comorbidità. A questo scopo occorre peraltro sottoli-neare che oltre all’irrinunciabile ed obbligatorio inter-vento sulle abitudini voluttuarie e sullo stile di vita delpaziente, vi sono alcuni aspetti terapeutici ed alcuniinterventi specifici che meritano di essere analizzati.Come appena specificato, tutti i pazienti con sindromemetabolica indistintamente dovranno adottare misureterapeutiche di natura non farmacologica: dovrannodiminuire l’introito calorico nella dieta, aumentando laquota di alimenti ricchi in fibre vegetali a scapito di quel-li ricchi in grassi saturi (meno del 7% delle calorie giorna-liere totali), dovranno poi incrementare l’attività fisicaquotidiana camminando spesso, dedicandosi ad attivitàche comportino movimento come il giardinaggio, o altro,in modo da diminuire il peso corporeo e dovranno ridur-re la quantità dietetica di sodio a favore di quella dipotassio. Se attuate correttamente, tali misure permetto-no di ridurre il peso corporeo, e quindi la pressione arte-riosa, anche di diversi mmHg (5).

Vi sono poi delle categorie di individui che alle misurenon farmacologiche devono necessariamente associareanche un’adeguata terapia anti-ipertensiva. Tali pazien-ti sono: 1) Pazienti con sindrome metabolica e pressio-ne arteriosa sistolica > 140 mmHg o diastolica > 90mmHg; 2) Pazienti con sindrome metabolica, diabetemellito e valori pressori nella zona normale-alta (130-139/85-89 mmHg) e 3) Pazienti con sindrome metaboli-ca e microalbuminuria, senza storia di malattia corona-rica, indipendentemente dai valori pressori. Sulla basedi queste considerazioni è importante incoraggiareanche l’automisurazione domiciliare della pressionearteriosa nel paziente con sindrome metabolica edeffettuare, quando indicato, il monitoraggio ambulato-riale della pressione arteriosa. In questi casi, è general-mente opportuno iniziare la terapia con ACE-inibitori osartani, sia per la capacità che essi hanno di prevenirel’insorgenza di diabete conclamato, sia per il loro effet-to antiproteinurico, sia per la capacità di opporsi allaprogressione dell’ipertrofia ventricolare sinistra, segnodi danno d’organo molto frequente nella sindromemetabolica, riscontrato anche in assenza di ipertensio-ne arteriosa. Tra l’altro, sia i sartani che gli ACE-inibitorisono stati spesso associati ad una ridotta insorgenza dinuovo diabete. Al riguardo, del tutto recentemente,l’impiego del bloccante recettoriale dell’angiotensina

Nessun fattore di rischio aggiunto

1-2 fattori di rischio

≥3 fattori di rischio,SM o danno d’organo

Diabete

Malattia CV o renale

NormalePAS 120-129o PAD 80-84

Pressione arteriosa (mmHg)

Normale altaPAS 130-139o PAD 85-89

Grado 1 PAS 140-159o PAD 90-99

Grado 2PAS 160-179

o PAD 100-109

Grado 3PAS ≥180

o PAD ≥110

Nessun interventoantipertensivo

Altri fattori di rischio,danno d’organo e riscontrodi patologia concomitante

Nessun interventoantipertensivo

Modifichedello stile di vita

Modifichedello stile di vita

Modifichedello stile di vita

Modifichedello stile di vita

Modifiche dello stile di vita+

Trattamentofarmacologico immediato

Modifiche dello stile di vita+

Trattamentofarmacologico immediato

Modifiche dello stile di vita+

Trattamentofarmacologico immediato

Modifiche dello stile di vita+

Trattamentofarmacologico immediato

Modifiche dello stile di vita+

Trattamentofarmacologico immediato

Modifichedello stile di vita

+Trattamento

farmacologicoimmediato

Modifiche dello stile di vita+

Trattamentofarmacologico immediato

Modifiche dello stile di vita+

Trattamentofarmacologico immediato

Modifiche dello stile di vita; prendere inconsiderazione la

terapia farmacologica

Modifichedello stile di vita

+Terapia farmacologica

Modifiche dello stile di vitaper diversi mesi poi

terapia farmacologica sevalori pressori non controllati

Modifiche dello stile di vitaper diversi mesi poi

terapia farmacologica sevalori pressori non controllati

Modifichedello stile di vita

+Terapia

farmacologica

Modifichedello stile di vita

+Terapia

farmacologica

Modifiche dello stile di vitaper diversi mesi poi

terapia farmacologica sevalori pressori non controllati

Modifiche dello stile di vitaper diversi mesi poi

terapia farmacologica sevalori pressori non controllati

Stratificazione del rischio cardiovascolare nell’ipertensione e strategie terapeutiche9

Figura 1

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Valsartan, ha ridotto in modo significativo la nuovainsorgenza di diabete nei pazienti dismetabolici conintolleranza glucidica nello studio NAVIGATOR(Nateglinide and Valsartan in Impaired GlucoseTolerance Outcomes Research) (6). Al contrario, l’usodei β-bloccanti e dei diuretici tiazidici va evitato il piùpossibile, in quanto hanno effetti sfavorevoli sul meta-bolismo lipidico e glucidico, già di per sé compromes-so, favorendo l’insorgenza o il peggioramento del dia-bete: iβ-bloccanti hanno poi effetti sfavorevoli anchesul peso corporeo. L’impiego di queste due classi è per-tanto indicato solo se inizialmente non si è raggiuntoun soddisfacente controllo pressorio con gli inibitoridel sistema renina-angiotensina e, in ogni caso, i tiazidi-ci devono essere sempre impiegati a basse dosi perchéi loro effetti sul metabolismo sono dose-dipendenti.Anche i calcio-antagonisti diidropiridinici, possono essereutilizzati nel trattamento dell’ipertensione nella sindromemetabolica, da soli o in associazione agli ACE-inibitori:nello studio ACCOMPLISH (Avoiding Cardiovascular Eventsthrough Combination Therapy in Patients Living withSystolic Hypertension) (7), l’associazione benazepril-amlo-dipina nei pazienti ipertesi ad alto rischio cardiovascolareè risultata più efficace nel ridurre gli eventi avversi rispettoall’associazione benazepril-idroclorotiazide.Nel sottogruppo di pazienti con sindrome metabolica evalori pressori situati nell’intervallo normale-alto, almomento non vi sono studi clinici che dimostrino l’ef-fetto protettivo degli anti-ipertensivi, sebbene nellostudio TROPHY (Trial of Preventing Hypertension) (8), incui erano stati inclusi molti pazienti con pressione nor-male-alta e sindrome metabolica, il trattamento con sar-tani ha ridotto l’incidenza della comparsa di ipertensio-ne conclamata al follow-up. Sempre riguardo a questacoorte di pazienti, anche le linee guida ESH-ESC 2007 (9)indicano, nei pazienti con pressione normale-alta ealmeno tre fattori di rischio cardiovascolare, sindromemetabolica o danno d’organo, di prendere in considera-zione l’uso dei farmaci anti-ipertensivi fin dall’inizio deltrattamento.Per concludere, i farmaci da impiegare nel trattamentodell’ipertensione nella sindrome metabolica devonoessere in prima istanza i sartani e gli ACE-inibitori, quin-

di i calcio-antagonisti diidropiridinici, nel caso non siraggiunga un adeguato controllo pressorio. Anche l’usodi associazioni di inibitori del sistema renina-angioten-sina e calcio-antagonisti ha trovato supporto in alcunistudi basati su popolazioni rappresentative della sin-drome metabolica, come ad esempio nello studioACCOMPLISH e ne è quindi consigliabile l’impiego cometrattamento di seconda linea, dopo la monoterapia.L’impiego delle associazioni precostituite a dosaggiofisso di sartani o ACE-inibitori con diuretici tiazidici abasso dosaggio può essere dettata da esigenze di con-trollo pressorio e di realizzazione di una migliore com-pliance al trattamento.

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i farmaci da impiegare nel trattamento dell’ipertensionenella sindrome metabolica devono essere in prima istan-za i sartani e gli ACE-inibitori.

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Telemonitoraggio della pressionearteriosa: quanto siamo lontani?

Numerosi studi hanno dimostrato come il trattamento antii-pertensivo sia efficace nel ridurre il rischio cardiovascolareed oggi sono disponibili numerose e valide terapie antiiper-tensive; tuttavia, non più del 30% degli ipertesi ha la pressio-ne ben controllata dalla terapia, anche nel nostro Paese(1,2). Tra le cause dell’insufficiente controllo della pressionearteriosa, riveste un ruolo particolarmente importante lascarsa o assoluta mancanza di aderenza alla terapia, checomprende, oltre alla regolare assunzione dei farmaci,anche un’ampia serie di cambiamenti di comportamento edi stile di vita (es. la dieta, l’attività fisica, il controllo dellostress) (3,4) particolarmente rilevanti nei pazienti ipertesicon associati altri fattori di rischio.I fattori responsabili della scarsa compliance al trattamentosono numerosi (3,4), così come diverse sono le modalità diespressione (scarsa osservanza delle visite in ambulatorio,mancata esecuzione dei test di monitoraggio, rifiuto omodifica delle modalità di assunzione dei farmaci prescritti,precoce interruzione dello schema terapeutico, o adozionedi comportamenti a rischio per la salute) (4-6). Il significativoimpatto sul sistema sanitario è sottolineato dalla associazio-ne tra scarsa compliance e aumento dell’incidenza di eventicardio e cerebrovascolari (6).Tra le diverse soluzioni ad un problema così ampio e com-plesso vi è l’utilizzo di una nuova organizzazione dellagestione della malattia, basata su nuove tecnologie di moni-toraggio dell’efficacia della terapia, tra cui l’automisurazionedomiciliare mediante strumenti elettronici automatici (7,8).Essa rappresenta una valida alternativa alla misurazionedella pressione nell’ambulatorio medico, è riproducibile,attendibile, e con un significato prognostico ripetutamente

dimostrato (8), che può trovare applicazione anche nellatelemedicina.Studi recenti hanno proposto l’uso della telemedicina perfavorire lo scambio di informazioni e la comunicazione tramedici di medicina generale e specialisti, oltre che per la tra-smissione di dati relativi a parametri dei pazienti (9-12). “Tele”è un prefisso greco che significa "distante“, rappresenta laradice di tutti i termini oggi utilizzati nella trasmissione adistanza di dati relativi allo stato di salute di pazienti e impli-ca il movimento di informazioni relative alla salute dei pazien-ti e non dei pazienti. La trasmissione dei valori pressori (comedi altri parametri vitali) può avvenire mediante metodichediverse, con il semplice invio dei valori registrati per postaelettronica ma soprattutto con la trasmissione diretta dall’apparecchio per la rilevazione della pressione arteriosa pervia telefonica o tramite telefono cellulare con connessionebluetooth ad un server centrale per essere memorizzati edanalizzati, e rimanere disponibili alla valutazione del medico. I dati sinora ottenuti evidenziano che mediante la trasmis-sione telematica dei valori pressori, spesso in associazionecon la assistenza di personale infermieristico dedicato, èpossibile migliorare il controllo dei valori pressori neipazienti ipertesi (Tabella 1).Rogers et al (13) hanno incluso 121 ipertesi non controllati icui valori pressori ottenuti con automisurazione a domiciliovenivano memorizzati, analizzati ed inviati con frequenzasettimanale al paziente stesso ed al suo medico per almeno2 mesi. I pazienti che avevano seguito il programma di tele-monitoraggio ottenevano una riduzione dei valori di pres-sione arteriosa media, misurata mediante monitoraggio 24ore, pari a 3 mmHg rispetto ad un gruppo di pazienti di con-

Prof.ssa Maria Lorenza MuiesanClinica Medica, Università di Brescia

Tra le cause dell’insufficiente controllo della pressionearteriosa, riveste un ruolo particolarmente importante lascarsa o assoluta mancanza di aderenza alla terapia.

Il significativo impatto sul sistema sanitario è sottolinea-to dalla associazione tra scarsa compliance e aumentodell’incidenza di eventi cardio e cerebrovascolari.

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trollo, seguiti secondo le abituali indicazioni, in cui al contra-rio si osservava un aumento di 1,8 mmHg. In uno studio successivo (14), che ha incluso 236 pazientiipertesi non controllati, la teletrasmissione dei valori presso-ri ad un server che consentiva l’accesso sia al medico che alpaziente (i quali potevano poi consultarsi mediante postaelettronica) è stata paragonata al trattamento abituale.Dopo 6 mesi la percentuale di pazienti che ha raggiunto unottimale controllo dei valori pressori è risultata maggiorenel gruppo randomizzato al programma di telemonitorag-gio (68 % vs 49%, χ2 P= 0,05). Infine sono stati pubblicati recentemente i risultati dello stu-dio italiano TeleBPcare, a cui hanno partecipato 329 pazien-ti affetti da ipertensione lieve-moderata (80% già in terapia,54% uomini), randomizzati al telemonitoraggio della pres-sione arteriosa o al trattamento abituale. Al termine di 6mesi di follow-up i pazienti seguiti con telemonitoraggioevidenziavano un migliore controllo pressorio (PA mediadiurna <130/80 mm Hg), e tendevano a modificare menol’uso di farmaci antiipertensivi (15).Simili risultati sono stati ottenuti anche dal nostro gruppo,in collaborazione con la Fondazione Maugeri, mediantel’uso di un apparecchio automatico in grado di trasmetterei valori pressori, tramite connessione bluetooth, ad unCentro Servizi di Telemedicina (16).

L’impatto dell’automisurazione con telemonitoraggio inrelazione allo sviluppo di danno d’organo è stato l’obiettivodi uno studio statunitense (braccio telemedicina dello stu-dio Informatics for Diabetes Education and TelemedicineStudy), che ha valutato circa 400 pazienti con diabete melli-to senza macroalbuminuria in condizioni basali; i valori dipressione differenziale ottenuti con l’automisurazione e tra-smissione telematica sono risultati correlati ad un più eleva-to valore di rapporto albumina:creatinina misurato al fol-low-up (P = 0,001) (17). In Italia, ulteriori informazioni in pro-posito saranno presto disponibili: lo studio multicentricoTELEBPMET prevede di verificare l’effetto del controllo pres-sorio ottenuto con un programma di telemonitoraggio sullemodificazioni della pressione arteriosa ma anche del dannod’organo cardiaco, vascolare e renale in 250 pazienti iperte-si con sindrome metabolica.Mcmanus et al hanno recentemente valutato l’entità delcontrollo pressorio a 6 e 12 mesi in circa 530 pazienti noncontrollati, che sono stati randomizzati all’uso del tele moni-toraggio, con aggiustamento del dosaggio dei farmaci antii-pertensivi (secondo uno schema precedentemente concor-dato con il medico di famiglia), o al percorso terapeutico abi-tuale (18). I risultati dello studio TASMINH2 hanno dimostra-

Friedman 1996 *

Mehos 2000

Roth 1999

Bondmass 2001

Artinian 2001*

Rogers 2001

Madsen2008

Parati2009

267 ipertesi non controllati

36 ipertesi

10 normotesi & 20 ipertesi

33 afroamericani Ipertesi non controllati

26 afroamericani Ipertesi

121 ipertesi non controllati

236 ipertesi non controllati

329 ipertesi lieve -moderata

6 mesi

6 mesi

2-4 mesi

1-3 mesi

3 mesi

2 mesi

6 mesi

6 mesi

Pazienti DurataStudio

Automatico settimanale

Automatico con intervento farmacista

Automatico

Automatico

Automatico

Automatico 3/settimana

Automatico

Automatico + ABPM

Apparecchio/sistema misurazioni PA

Migliore controllo PA

Migliore compliance

Diagnosi di ICI

Aumento controllo PA 60%

Studio Pilota

Migliore controllo PA

Migliore controllo PA

Migliore controllo PA 24 ore

Obiettivo primario

Studi che hanno utilizzato il telemonitoraggio della automisurazione domiciliare

Tabella 1

Studi recenti hanno proposto l’uso della telemedicina perfavorire lo scambio di informazioni e la comunicazione tramedici di medicina generale e specialisti, oltre che per latrasmissione di dati relativi a parametri dei pazienti.

Lo studio multicentrico TELEBPMET prevede di verificarel’effetto del controllo pressorio ottenuto con un pro-gramma di telemonitoraggio sulle modificazioni dellapressione arteriosa ma anche del danno d’organo cardia-co, vascolare e renale in 250 pazienti ipertesi con sindro-me metabolica.

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to che il telemonitoraggio della pressione arteriosa, in com-binazione con l’ autodosaggio del trattamento antipertensi-vo consente di ottenere una maggiore riduzione della pres-sione arteriosa sistolica e diastolica, statisticamente signifi-cativa rispetto al trattamento convenzionale, nel contestodella Medicina Generale. Nel loro insieme i dati sono a favore di una maggiore applica-bilità del telemonitoraggio della pressione arteriosa, sebbeneancora limitata da problemi di tipo tecnologico con la tra-smissione dei dati. Inoltre rimane ancora da chiarire, la dura-ta ottimale di un eventuale periodo di telemonitoraggio, e ladefinizione di criteri precisi di scelta dei pazienti che megliopotranno usufruire di questa nuova procedura di trattamen-to. A tale proposito un altro importante requisito delle meto-dica è la accettabilità; la capacità di utilizzo delle nuove tec-nologie da parte di pazienti ed operatori sanitari ovviamenteimplica la necessità di formazione e assistenza per consentireun ottimale utilizzo dei servizi di telemonitoraggio.Infine, per quanto riguarda il rapporto costo efficacia, non èpossibile stabilire ancora se l’uso del tele monitoraggiopossa consentire una definitiva riduzione della spesa sanita-ria. Alcuni studi hanno dimostrato che il telemonitoraggiomigliora il controllo pressorio, riducendo in misura significa-tiva il numero delle visite mediche (sia eliminando visite nonnecessarie quando la pressione è ben controllata sia for-nendo il supporto a distanza per cambiamenti nella terapia)con una riduzione dei costi della gestione del paziente. Èverosimile che in un prossimo futuro, con la maggiore diffu-sione del processo tecnologico nell’ ambito delle telecomu-nicazioni, anche i costi delle apparecchiature e della manu-tenzione potranno ridursi, rendendo più economico l’usodei servizi di telemedicina (16). Senz’altro è importante con-siderare che il telemonitoraggio, riducendo la necessità ditrasporto dei pazienti, potrebbe contribuire a ridurre l’emis-sione di anidride carbonica e l’inquinamento atmosferico(19). In conclusione, il telemonitoraggio della pressione arte-riosa offre indubbi vantaggi nella gestione del pazienteiperteso, con il coinvolgimento attivo del paziente nellagestione della prevenzione del rischio cardiovascolare.

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I risultati dello studio TASMINH2 hanno dimostrato che iltelemonitoraggio della pressione arteriosa, in combina-zione con l’ autodosaggio del trattamento antipertensivoconsente di ottenere una maggiore riduzione della pres-sione arteriosa sistolica e diastolica, statisticamente signi-ficativa rispetto al trattamento convenzionale, nel conte-sto della Medicina Generale.

Per quanto riguarda il rapporto costo efficacia, non è pos-sibile stabilire ancora se l’uso del tele monitoraggio possaconsentire una definitiva riduzione della spesa sanitaria.

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Sale e ipertensione

Il rapporto tra sale e ipertensione è mediato sia dal sodioche dal cloro (1) pertanto in questo articolo parleremo sem-pre di sale, intendendo il comune cloruro di sodio, anche sespesso in letteratura si parla solo di sodio. È facile comun-que ottenere dal sodio l’equivalente in sale: per le proprietàste-chiometriche si moltiplica la quantità di sodio per 2,5.Più complesso e meno rilevante per la pratica medica ilruolo del sodio contenuto anche in altri composti alimenta-ri, come il glutammato di sodio, considerato il loro apportopercentuale all’ingestione di sodio anche in popolazioni chene fanno molto uso (2).

Sale e pressione arteriosa: i risultati degli studi epidem iologiciDiversi studi epidemiologici hanno dimostrato che un ele-vato consumo di sale è associato a un aumentato rischio diipertensione arteriosa (3-6). In uno studio osservazionale(INTERSALT) è stata studiata la relazione tra escrezione uri-naria di sodio e pressione arteriosa in più di 10.000 personeprovenienti da 52 comunità di 32 paesi (3); nelle 4 comunitàcon un basso consumo di sale (< 3 grammi al giorno) non èstata rilevata alcuna relazione tra sodio e pressione arterio-sa, mentre nelle restanti 48 comunità (nelle quali il consumodi sale variava tra 6 e 12 grammi al giorno) la pressione arte-riosa era tanto più alta quanto maggiore era il consumo disale. Questa relazione si è mostrata più evidente con l’avan-zare dell’età. Questi dati sono stati confermati da studi piùrecenti come l’INTERMAP [International Study onMicronutrient and Blood Pressure] (che ha dimostrato chemeno sale ed un minor rapporto sodio/potassio si traduco-no in valori pressori minori a livello di popolazione) (4),l’EPIC-Norfolk (5) ed il WHO-CARDIAC [World HealthOrganization Cardiovascular Diseases and AlimentaryComparison] condotto in donne post-menopausa di età 48-56 anni in 17 paesi (6).

Sale e pressione arteriosa: i risultati degli studi di interventoVari studi di intervento e meta-analisi (7-10) hanno dimo-

strato in modo convincente che assumere meno sale conl’alimentazione può determinare una riduzione significati-va della pressione arteriosa.In generale, gli effetti sulla pressione di una diminuzionedel sale assunto sono maggiori negli ipertesi, ma si osser-vano anche nei normotesi (7-10). Il più ampio studio ran-domizzato disponibile è il DASH-sodium, realizzato negli

Prof. Diego Vanuzzo Centro di Prevenzione Cardiovascolare, ASS 4 “Medio Friuli”, Udine

Effetto della dieta DASH -Dietary Approachesto Stop Hypertension- a basso contenuto di sale

Pres

sio

ne

sist

olic

a m

edia

(mm

Hg

)

Da 13, modificato

Pres

sio

ne

sist

olic

a m

edia

(mm

Hg

)

Contenuto di sale alimentare

Età (anni)

Elevato(9 gr /die)

Intermedio(6 gr /die)

Basso(3 gr /die)

DASH-basso sale verso controllo elevato sale - 15

23-41 55-7648-5442-47

145

140

135

130

125

120

1150

145

140

135

130

125

0

Dieta tipicacon sale elevato

Dieta DASHa basso sale

Dieta DASH

Dieta dicontrollo

-2,1 (-0,1 to -4,0)

-6,0 (-4,0 to -7,9)

-6,7 (-3,5 to -9,8)

-7,5 (-4,2 to -10,8)

-8,0 (-4,9 to -11,1)

-1,6 (-0,6 to -3,8)

-5,1 (-3,0 to -7,3)

Figura 1

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Stati Uniti, che ha coinvolto 412 persone (7). Sono stateconfrontate diete ad alto, medio e basso contenuto disodio (rispettivamente 3,5-2,3-1,2 grammi/die, pari a circa9-6-3 grammi di sale): nelle persone che assumevanomeno sale si aveva una riduzione della pressione sistolicamedia di 8 mm Hg negli ipertesi e di 6 mmHg nei non iper-tesi. La pressione diastolica si riduceva invece di 4 mmHgnegli ipertesi e di 3 nei non ipertesi. L’effetto della dietaiposodica era più accentuato con il progredire dell’età (8)(Fig. 1). Una recente meta-analisi ha sintetizzato i dati di 13studi per un totale di quasi 180.000 pazienti (10).L’assunzione di circa 5 grammi in meno di sale al giorno èassociata a una riduzione degli ictus di circa un quarto e aquella degli infarti di circa un sesto. Questo significa che inItalia si potrebbero evitare fino a 12.000 infarti e fino a14.000 ictus se tutti riducessimo della metà il sale assuntocon il cibo (11).

Sale e ipertensione, consigli praticiÈ stato stimato che il corpo umano ha mediamente biso-gno di circa 1 grammo di sale al giorno e gli italiani neintroducono in media 10 volte tanto (12). Per un effettosignificativo sulla pressione arteriosa è importante ridurreil sale alimentare a 5 grammi al giorno (che corrispondonoa 2 grammi di sodio) (11-12). Secondo l’Istituto Nazionaledi Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione -INRAN-, le fontidi sale nell'alimentazione sono di varia natura:• il sale contenuto allo stato naturale negli alimenti (acqua,frutta, verdura, carne, ecc.), in genere il 10%;

• il sale aggiunto nella cucina casalinga o a tavola, circa il36% (un cucchiaino = 6 grammi);• il sale contenuto nei prodotti trasformati (artigianali eindustriali) nonché nei consumi fuori casa che è il 54%.Tra i prodotti trasformati, la principale fonte di sale nellanostra alimentazione abituale è rappresentata dal pane edai prodotti da forno: li consumiamo tutti i giorni e inquantità più elevate rispetto ad alimenti più ricchi di salecome gli insaccati (salumi!), i formaggi, le conserve dipesce o le patatine fritte. Anche molti condimenti conten-gono sale o sodio. Di qui i consigli riportati nel box. Infineva ricordato che la terapia dietetica dell’ipertensionerichiede anche un’alimentazione ricca di frutta, verdura,latticini magri, pesce, poco alcool ed ipocalorica se il sog-getto è in sovrappeso (13).

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Qualche trucco per ridurre (e non usare) il sale

Usare pane “sciapo” o toscano, confezionato senza sale

Ridurre o evitare cibi ricchi di sale come salumi, formaggi stagionati, scatolame

Ridurre progressivamente il sale in cucina, è dimostrato che il palato si abitua

Utilizzare al posto del sale erbe aromatiche (salvia, rosmarino, prezzemolo, maggiorana etc.), peperoncino o spezie (cannella, noce moscata, chiodi di garofano etc), zenzero fresco

Esaltare il naturale sapore dei cibi, specie le verdure, procurandosele freschissime

Utilizzare piccole quantità di limone o di aceto di vino o balsamico che renderanno più gradita un’insalata, la verdura lessata o la carne ai ferri

Esistono “sali iposodici” generalmente con cloruro di sodio + cloruro di potassio: se si vogliono usare ricordare di aggiungerne pochissimo ai cibi in tavola (non durante la cottura)

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Il diabete tipo 2 nella donna

Il diabete di tipo 2 (DM2) è una patologia in continua cresci-ta, il cui incremento esponenziale è stato definito dall’OMSuna vera e propria “epidemia” (Tabella 1). Sebbene la prevalenza del DM2 aumenti progressivamentecon l’aumentare dell’età in entrambi i sessi, nella donna laprevalenza del diabete è favorita dall’insorgenza dellamenopausa e, nel periodo fertile, dalla presenza della sin-drome dell’ovaio policistico e dalla comparsa della gravi-danza (Tabella 2). Il DM2 si associa ad un aumento del rischio di morbilità emortalità cardiovascolare in entrambi i sessi, e oltre il 50%delle cause di morte di questi pazienti è dovuto ad unamalattia cardiovascolare. Tuttavia, nella donna il DM2 svolge

Dr.ssa Cristiana VitaleMD, PhD, IRCCS San Raffaele Pisana - Rom a

I “numeri” del diabete

Stime e proiezioni sul periodo 1994-2010 indicano che a livello mondiale i casi di DM2 si sono triplicati

In Italia la prevalenza del DM2 è aumentata dal 2,5% (negli anni ’70) all’attuale 4,8% (5% delle donne e 4,6% degli uomini), pari a circa 2.900.000 persone

La prevalenza del DM2 aumenta con l’età fino ad arrivare al 18,9% nelle persone con età uguale o superiore ai 75 anni

La prevalenza è più alta nel Sud Italia e nelle Isole, con un valore del 5,5%. Seguono il Centro con il 4,9% e il Nord con il 4,2%

Tabella 1

Le “età” del diabete tipo 2

Diabete nelle donne in età fertile

1. Diabete e sindrome dell’ovaio policisticoLa sindrome dell'ovaio policistico (PCOS), colpisce il 5-10% delle donne in età riproduttiva, ed è caratterizzata da irregolarità mestruali, iperandrogenismo e dal riscontro ultrasonografico di ovaio policistico. Numerosi studi hanno dimostrato che nella maggior parte delle donne con PCOS, obese ma anche in quelle di peso normale, è possibile riscontrare molteplici alterazioni metaboliche, quali insulino-resistenza (a livello muscolare e del tessuto adiposo), iperinsulinemia, ridotta tolleranza glucidica, dislipidemia e ipertensione arteriosa. L’insieme di queste alterazioni metaboliche espone le donne con PCOS ad un rischio maggiore di sviluppare DM2, spesso ad insorgenza più precoce rispetto alla popolazione generale (terza-quarta decade di vita). Si stima che la prevalenza del DM2 nelle donne in età riproduttiva con PCOS sia del 10%, mentre quella della ridotta tolleranza glucidica arrivi sino al 30%.

2. Diabete e gravidanzaSi stima che in Italia il 4-7% delle gravide abbia il diabete: nel 90% dei casi il diabete insorge per la prima volta in gravidanza (diabete gestazionale: DG), mentre nel restante 10 % è pre-esistente alla gravidanza (diabete pregravidico). L’età superiore a 35 anni, la familiarità per diabete, la presenza di sovrappeso/obesità (BMI>28) e un eccessivo incremento ponderale nel corso della gravidanza sono alcuni dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di DG. A sua volta Il DG è un importante fattore di rischio per lo sviluppo futuro di DM2. Recentemente una meta-analisi su 675,455 donne ha evidenziato che le donne che hanno avuto una gravidanza complicata da DG hanno un rischio aumentato di 7.5 volte di sviluppare DM2 nel futuro, rispetto alle donne che sono rimaste normoglicemiche nel corso della gravidanza (1). Oltre al DM2, le donne con storia di GD hanno un rischio maggiore di avere associati altri fattori di rischio cardiovascolari (obesità, ipertensione, dislipidemia, sindrome metabolica), presentano una precoce disfunzione endoteliale, hanno un’aumentata rigidità vascolare, ed hanno, quindi, un rischio aumentato di sviluppare nel futuro una malattia cardiovascolare.

Diabete nelle donne in menopausa

La menopausa non sembra aumentare la glicemia di per sé; tuttavia, con il venir meno della funzione ovarica la donna va incontro ad una serie di modificazioni che favoriscono la comparsa di DM2. La progressiva riduzione della secrezione di insulina mediata dal glucosio (inizialmente compensata da una ridotta eliminazione periferica dell’insulina) e il progressivo aumento dell’insulino-resistenza, conseguente sia all’aumento del grasso a livello addominale sia all’iperattivazione del sistema simpatico, favoriscono la comparsa del DM2. Nelle donne le modificazioni del peso corporeo hanno un ruolo prioritario sul rischio di comparsa del diabete. Infatti, è stato dimostrato che il sovrappeso aumenta il rischio di 3 volte mentre l’obesità di 9 volte. Il diabete nella donna in menopausa si presenta, a causa delle modificazioni in senso pro-aterosclerotico dei fattori di rischio, conseguenti alla cessazione della funzione ovarica, per lo più associato ad un cluster di fattori di rischio (obesità, insulino-resistenza, ipertensione arteriosa, dislipidemia) che configura il quadro della sindrome metabolica. La menopausa si associa, infatti, ad un aumento del rischio di sviluppare sindrome metabolica del 60%.

Tabella 2

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un ruolo più aggressivo nell’aumentare il rischio cardiova-scolare rispetto all’uomo e rappresenta l’unico, fra i comunifattori di rischio, in grado di annullare il vantaggio che ilsesso femminile ha rispetto all’uomo nella comparsa dellemalattie cardiovascolari. È noto, infatti, che le donne fertilihanno un minor rischio di sviluppare malattie cardiovasco-lari, e che queste compaiono in media dieci anni più tardirispetto agli uomini. Tale vantaggio legato al sesso è correla-to all’azione protettiva degli ormoni sessuali femminili(estrogeni) a livello del sistema cardiovascolare e viene,quindi, perso con la cessazione della funzione ovarica asso-ciata alla menopausa. La presenza di DM2 nelle donne ferti-le è in grado di annullare la protezione degli ormoni sessua-li sul sistema cardiovascolare, aumentando il rischio di even-ti anche prima della comparsa della menopausa.

Numerosi studi hanno dimostrato che nelle donne diabe-tiche il rischio di eventi cardiovascolari è maggiore siarispetto alle donne senza diabete sia agli uomini con dia-bete, anche dopo correzione per gli altri fattori di rischioassociati al DM2 (ipertensione arteriosa, dislipidemia,obesità, etc). In particolare, una recente meta-analisi di 102 studi su698.782 individui, di cui il 43% erano donne, ha evidenziatoche il DM2 raddoppia il rischio di avere una malattia vasco-lare, che il rischio è maggiore nelle donne rispetto agli uomi-ni, e che la fascia di età a maggior rischio è quella compresafra 40-59 anni (2, Figura 1). Nelle donne il DM2 si associa anche ad una prognosi peg-giore rispetto agli uomini e il rischio di morte dopo sindro-me coronarica acuta è di 7-10 volte maggiore rispetto alle

Rischio di eventi nei diabetici rispetto ai non diabetici in una recente meta-analisi di 102 studi prospettici pubblicata su Lancet 2010

Coronary heart disease*

Coronary death

Non-fatal myocardial infarction

Stroke subtypes*

Ischaemic stroke

Haemorrhagic stroke

Unclassified stroke

Other vascular deaths

26505

11556

174741

3799

1183

4973

3826

2,00 (1,83-2,19)

2,31 (2,05-2,60)

1,82 (1,64-2,03)

2,27 (1,95-2,65)

1,56 (1,19-2,05)

1,84 (1,59-2,13)

1,73 (1,51-1,98)

64 (54-71)

41 (24-54)

37 (19-51)

1 (0-20)

0 (0-26)

33 (12-48)

0 (0-26)

Numberof cases

HR (95% Cl) I* (95% Cl) Rischio di eventivascolari nei diabetici

rispetto ai nondiabetici:

- il diabete raddoppia il rischio di avere una malattia vascolare

- il rischio maggiore nelle donne

- la fascia di et! di 40-59 anni quella a maggior rischio1 2 4

A Coronary heart disease

Number of partici-pants

Number of cases

HR (95% Cl) Interactionp value

B Ischaemic stroke

Number of partici-pants

Number of cases

HR (95% Cl) Interactionp value

SexMaleFemaleAge at survey40-59 years60-69 years≥ 70 years

306533223550

4108337578543465

202186287

1768650453774

1,89 (1,73-2,06)2,59 (2,29-2,93)

2,51 (2,25-2,80)2,01 (1,80-2,26)1,78 (1,54-2,05)

< 0,0001

< 0,0001

168191125571

2342633814021359

21931606

17291134

936

2,16 (1,84-2,52)2,83 (2,35-3,40)

3,74 (3,06-4,58)2,06 (1,64-2,58)1,80 (1,42-2,27)

0,0089

0,0001

Figura 1

Nella donna la prevalenza del diabete è favorita dall’in-sorgenza della menopausa e, nel periodo fertile, dallapresenza della sindrome dell’ovaio policistico e dallacomparsa della gravidanza.

Si stima che in Italia il 4-7% delle gravide abbia il diabete:nel 90% dei casi il diabete insorge per la prima volta in gra-vidanza (diabete gestazionale: DG), mentre nel restante 10% è pre-esistente alla gravidanza (diabete pregravidico).

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donne non diabetiche e di 2-3 volte maggiore rispetto aimaschi diabetici. La maggiore durata del diabete sembra, inoltre, influire nega-tivamente sulla prognosi nella donna ma non nell’uomo. L’aumento del rischio cardiovascolare associato al DM2 èattribuibile non solo agli effetti negativi diretti dell’ipergli-cemia, a livello sistemico ed a livello del sistema cardiova-scolare, ma anche alla capacità del diabete di esaltare l’effet-to dannoso di altri fattori di rischio (dislipidemia, ipertensio-ne arteriosa, etc), che spesso si presentano associati, deline-ando il quadro clinico della sindrome metabolica. Sono stateformulate numerose ipotesi per spiegare le differenze digenere alla base del maggior impatto negativo del DM2 sulprocesso aterosclerotico e sugli eventi cardiovascolari nelladonna, di qualsiasi età, rispetto all’uomo ma ancora ogginon si è arrivati ad un consenso unanime (Tabella 3). La presenza di una maggiore alterazione della funzioneendoteliale nella donna diabetica rispetto agli uomini dia-betici, il maggior impatto negativo che i fattori di rischio car-diovascolare hanno nella donna, tanto più se associati nelcluster della sindrome metabolica, e la minore attenzioneche la donna riceve, sia in termini di prevenzione cardiova-scolare che di trattamento, sembrano essere i principali fat-tori alla base delle differenze di genere. Il diabete determina nella donna un’alterazione precoce e

più severa della funzione endoteliale, che come è noto èuno dei principali fattori di regolazione del processo atero-sclerotico, inducendo una minore produzione e/o un’au-mentata distruzione di ossido nitrico (NO), ed andando adantagonizzare la produzione di NO mediata dagli estrogeni. Le donne con DM2 presentano un profilo lipidico più atero-geno rispetto ai maschi, caratterizzato da ipertrigliceride-mia, bassi livelli di HDL-colesterolo, e presenza di LDL-cole-sterolo piccole e dense. In particolare, i livelli di HDL-coleste-rolo non solo sono più bassi nelle donne diabetiche rispettoagli uomini diabetici, ma nella donna il potere predittivo deibassi valori di HDL-colesterolo è più rilevante rispetto agliuomini. Infatti, ogni aumento di 1 mg/dl di HDL-colesterolodiminuisce il rischio cardiovascolare del 2% nell’uomo e del3% nella donna. Inoltre, sebbene i livelli di LDL-colesterolonon differiscano significativamente rispetto ai non diabetici,nelle donne con diabete vi è una maggiore proporzione diLDL-colesterolo piccole e dense, che essendo a maggior

Disfunzione endoteliale

Rischio di sviluppare CAD

Prognosi post - IMA

Rischio di morte in assenza di CAD documentata

Riduzione della mortalità per CAD negli anni

Rischio di sviluppare scompenso cardiaco dopo un infarto del miocardio

Rischio di depressione associata

Caratteristiche di dislipidemia

Rischio di disabilità

Fattori di rischio cardiovascolari

Interventi di prevenzione (Iria e IIria) e/o terapia

Più precoce

4-6 volte 1.8 volte tra 65-74 anni

Peggiore (> rischio di mortalità)

2 volte maggiore rispetto alle donne non diabetiche

Minore

4 volte maggiore rispetto alle donne non diabetichesoprattutto di tipo diastolico

Maggiore

<livelli di HDL-c, piccole e dense LDL, >livelli di Trigliceridi

Maggiore 2 volte maggiore rispetto alle donne non diabetiche

Più aggressivi

Meno numerosi e meno aggressivi

Donne diabetiche

2-3 volte

Assimilabile agli uomini non diabetici

Maggiore

2 volte maggiore rispetto agli uomini non diabetici

Minore

Uomini diabetici

Differenze di genere nel diabete

Tabella 2

Il diabete nella donna in menopausa si presenta, a causadelle modificazioni in senso pro-aterosclerotico dei fatto-ri di rischio, conseguenti alla cessazione della funzioneovarica, per lo più associato ad un cluster di fattori dirischio che configura il quadro della sindrome metabolica.

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rischio di glicosilazione ed ossidazione, si associano ad unaumento del rischio cardiovascolare. Inoltre, le donne con DM2 presentano valori di pressionesistolica e diastolica più elevati rispetto ai maschi diabetici ecome è noto, l’ipertensione arteriosa aumenta la vulnerabi-lità alle malattie cardiovascolari, soprattutto se in associazio-ne al diabete in maniera più rilevante nella donna rispettoall’uomo. Infatti, l’aumento di 10 mmHg di pressione arterio-sa sistolica si associa ad un aumento del rischio cardiovasco-lare del 30% nelle donne rispetto ad un aumento del 14%osservato nei maschi.Alterazioni della funzione piastrinica (aumentata adesioneed aggregazione piastrinica), aumento della coagulazione(aumento di fattore di Von Willebrand, FVIII, FII fibrinogeno,riduzione di PC, PS, ATIII) e riduzione dell’attività fibrinolitica(aumento del PAI-1) , aumento della rigidità vascolare (mag-giore nella donna rispetto all’uomo), aumento dello stressossidativo (aumentata produzione di radicali dell’ossigeno eriduzione dei sistemi antiossidanti) sono solo alcuni tra inumerosi meccanismi proposti per spiegare le differenze digenere associate al diabete. L’altro fattore chiave che influenza la prognosi, a svantaggiodelle donne, è il riscontro di una disparità legata al sessorelativamente non solo ai piani di prevenzione ma ancheall’accesso alle cure che le donne con diabete, anche in pre-senza di malattia coronarica e/o scompenso cardiaco, hannorispetto agli uomini. L’analisi comparata del rischio di morta-lità per tutte le cause nelle tre corti del National Health andNutrition Examination Survey [(NHANES I (1971-1975), II(1976-1980), e III (1988-1994)] ha evidenziato che, in unperiodo di tempo di tre decadi, le morti cardiovascolari sonodeclinate negli uomini, sia diabetici che non diabetici, enelle donne non diabetiche, mentre nelle donne diabeticheil rischio di morte è rimasto sostanzialmente immutato econ un trend in lieve in crescita (3). Sebbene tali differenzedi genere nel rischio di mortalità non siano state conferma-te da una recente analisi effettuata sulla coorte dello studioFramingham, che ha confrontato il periodo 1950-1975 equello 1976-2001, in questo studio è emerso che la mortali-

tà nel gruppo dei diabetici risultata ancora doppia rispetto aquella dei non diabetici (4).Nonostante i fattori di rischio cardiovascolari siano piùaggressivi nella donna diabetica rispetto all’uomo, le donnericevono meno frequentemente i trattamenti guideline-based, e raggiungendo, quindi, più raramente i goal tera-peutici del diabete (HbA1c <7 mg/dl), dislipidemia, pressio-ne arteriosa, sono esposte ad un maggior rischio di eventicardiovascolari e ad una maggiore mortalità.Infine, è importante ricordare che il diabete rappresentasolo la punta di un iceberg, e che anche le alterazioni delmetabolismo glucidico (iperglicemia a digiuno, ridotta tolle-ranza glucidica, insulino-resistenza), in assenza di una dia-gnosi clinica di diabete, si associano in entrambi i sessi, etanto più nella donna, ad un aumento del rischio cardiova-scolare. Quindi, l’identificazione precoce non solo del DM2,ma anche delle alterazioni del metabolismo degli zuccheri èdi primaria importanza, soprattutto nelle donne a rischioaumentato, che con maggior frequenza rispetto agli uominipresentano alterazioni precoci della glicemia post-prandialerispetto a quella a digiuno, non solo per una corretta valuta-zione del rischio cardiovascolare globale ma anche e soprat-tutto per la possibilità di interferire e/o prevenire, mediantemodificazioni dello stile di vita (corretta alimentazione edadeguata attività fisica) e/o terapia farmacologica, la com-parsa del diabete. Una dieta controllata ed un’attività fisicaregolare possono, infatti, ridurre fino 60% la comparsa didiabete in donne con pre-diabete. Le alterazioni del meta-bolismo degli zuccheri ed il DM2 rappresentano quindi unaseria minaccia per la salute della donna soprattutto, in asso-ciazione all’ipertensione arteriosa, anche perché spessosono dei killer invisibili la cui presenza può esser miscono-sciuta se non viene ricercata con attenzione.

Bibliografia1. Bellamy L, Casas JP, Hingorani A, Williams D.: Type 2 diabetes mellitus aftergestational diabetes: a systematic review and meta-analysis. Lancet 2009;373,1773–1779 (2009).2. The Emerging Risk Factors Collaboration‡,* Diabetes mellitus, fasting bloodglucose concentration, and risk of vascular disease: a collaborative meta-analy-sis of 102 prospective studies. Lancet. 2010; 375: 2215-2222.3. Gregg EW, Gu Q, Cheng YJ, Venkat Narayan KM, Cowie CC, Mortality Trends inMen and Women with Diabetes, 1971 to 2000. Ann Intern Med. 2007;147:149-155.4. Rosner Preis S, Hwang S-J, Coady S, Pencina MJ, D'Agostino RB, Savane PJ,Levy D, Fox CS. Trends in All-Cause and Cardiovascular Disease Mortality amongWomen and Men with and without Diabetes in the Framingham Heart Study,1950-2005 Circulation. 2009; 119: 1728-1735.

Le donne con DM2 presentano un profilo lipidico più ate-rogeno rispetto ai maschi, caratterizzato da ipertrigliceri-demia, bassi livelli di HDL-colesterolo, e presenza di LDL-colesterolo piccole e dense.

Il diabete determina nella donna un’alterazione precoce epiù severa della funzione endoteliale.

Tuttavia, nella donna il DM2 svolge un ruolo più aggressivonell’aumentare il rischio cardiovascolare rispetto all’uomo erappresenta l’unico, fra i comuni fattori di rischio, in grado diannullare il vantaggio che il sesso femminile ha rispettoall’uomo nella comparsa delle malattie cardiovascolari.

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