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Suggerimenti didattici 1^Unità di Apprendimento 2019.2020
Sorride al vento l’elmo di Ettore
1
ISTITUTO COMPRENSIVO “D’AOSTA” Tutti gli usi della parola a tutti, non perché tutti siano artisti,
ma perché nessuno sia schiavo
Sorride al vento l’elmo di Ettore 1^UdA settembre – ottobre – Novembre - dicembre 2019
Suggerimenti e indicazioni ad uso dei docenti e dei genitori
I PARTE
I figli che cantano dal fogliame e i padri che li aspettano
Educare ad essere figli
Da tanti luoghi vieni, / dall'acqua e
dalla terra, / dal fuoco e dalla neve, /
da così lunghi cammini / verso noi
due, /dall'amore che ci ha incatenati, /
che vogliamo sapere / come sei / che
ci dici, / perché tu sai di più / del
mondo che ti demmo. / Come una
gran tempesta / noi scuotemmo /
l'albero della vita / fino alle più
occulte / fibre delle radici / ed ora
appari / cantando nel fogliame, / sul
più alto ramo / che con te
raggiungemmo.
P. Neruda, Il figlio, da I versi del
capitano ed. Passigli 2002
Quando parliamo di padri e di figli ci vengono in mente più domande che risposte,
perché ciò che ci cala nelle profondità di noi stessi, dove c’è il più vero Io, non ha
certezze ed è all’origine del sentimento del tempo. Ci sentiamo come immersi dal
mistero e dalla sua bellezza. Infatti il mistero dell’amore paterno, possiede una
spontanea bellezza e ci tiene avvinti senza che ci dia risposte sulla sua identità, per cui
nella gioia di questo stato d’animo vorremmo attingere la geometrica conoscenza del
nostro stato, pur sapendo che sarà un’operazione senza risultato.
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Sorride al vento l’elmo di Ettore
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Nella prima UA ci introduciamo in questo contesto segnato da un turbinio di sentimenti,
da pensieri contraddittori, da crisi drammatiche e da esperienze gioiose. Esso è lo
sfondo sul quale andiamo a scrivere i percorsi di conoscenza che condivideremo con i
ragazzi, perché l’apprendimento può avvenire solo quando sappiamo guardare gli alunni
come persone intente a cercare, attraverso la conoscenza, la loro realizzazione, forse la
loro felicità che spesso ci si avvicina come conoscenza e servizio. La splendida
immagine di Pablo Neruda dei figli che “cantano nel fogliame”, soddisfatti della loro
vita, ci rimanda al loro rapporto con noi e alla tenuta di questo rapporto in termini di
futuro. Le nostre ferite o i nostri godimenti derivano dalla prima relazione familiare, da
ciò che abbiamo esperito quando timidi e inconsapevoli ci siamo affacciati al mondo. La
madre, accogliente nel protettivo silenzio del grembo e poi nella gentilezza tenue del
suo abbraccio, fa posto, dopo un po’, all’alba del rapporto con l’altro componente del
suo destino, il padre, prima esperienza di alterità e di comunità, primo scostamento della
tenda della vita. Ci siamo infatti lasciati, l’anno scorso, con l’immagine del bambino
che si affacciava da una finestra una mattina d’estate e quest’anno ricominciamo da
questo punto, che segnala i passi del cammino verso l’autonomia e la stabilità del ruolo
nella storia del mondo.
C’è poi un altro concetto che Neruda dipinge poeticamente e che fa parte dell’intimo
concerto tra figli e genitori e trova nella paternità un’alta espressione metaforica: l’idea
che i figli siano un dono mai fino in fondo conosciuto e che vanno più lontano dei padri,
a tal punto che essi sanno più del mondo che pure i genitori hanno dato.
Il concetto del figlio come mistero viene esplorato da Massimo Recalcati nel libro Il
segreto del figlio. L’autore descrive la parabola del rapporto, individuando nel rispetto
dell’alterità mai conosciuta nella sua completezza e complessità, l’intima saggezza di
questo rapporto: “(…) il riconoscimento che la vita di un figlio è innanzitutto una vita
altra, straniera, distinta, differente, al limite, impossibile da comprendere. Il figlio non
è forse un mistero che resiste ad ogni sforzo di interpretazione? Un figlio non è
precisamente un punto di differenza, di resistenza, di insorgenza incontenibile della
vita? E non è questa la sua bellezza fulgida e insieme minacciosa? Non è, la sua vita,
un segreto indecifrabile che deve essere rispettato come tale?”1 Il pensiero espresso da
Recalcati ritorna in molta letteratura riguardante il tema, non solo quindi in Neruda, ma
anche per esempio nel famoso e per certi aspetti retorico poema di Gibran, in cui
ritroviamo i versi “i figli non sono figli tuoi, ma i figli e le figlie della vita stessa (…)
puoi dare dimora la loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita
nella casa dell’avvenire dove a te non è dato entrare nemmeno con il sogno2”; per non
parlare delle innumerevoli narrazioni di figli non compresi dai padri in cui si fa evidente
che il dolore dell’incomprensione deriva da un’incapacità del padre di riconoscere nel
figlio qualcosa di diverso e forse di più bello di sé. Lo splendido, e per certi versi
straziante, incipit della Lettera al Padre di Franz Kafka ci espone nel profondo questo
1 M. Recalcati, Il segreto del figlio, da Edipo al figlio ritrovato ed. Feltrinelli, Milano 2017, P.17
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concetto. Il figlio ha “paura del padre” e non sa dire il perché, il padre non lo ha mai
compreso veramente:
“Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere
paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio
per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su una quantità
tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente. E se
anche tento di risponderti per iscritto, il mio tentativo sarà necessariamente
assai incompleto, sia perché anche nello scrivere mi sono d'ostacolo la paura
che ho di te e le sue conseguenze, sia perché la vastità del materiale supera di
gran lunga la mia memoria e il mio intelletto”3.
Stesso identico rapporto tormentato, impastato di odio e di amore è quello di Giacomo
Leopardi, testimone altissimo della tragica incomunicabilità con il padre, derivante dal
rifiuto di considerare il figlio una persona altra, distinta, ma non per questo lontana:
“Mio signor Padre, Ella conosce me, e conosce la condotta ch’io ho tenuta fino
ad ora, e forse vedrà che in tutta l’Italia, e sto per dire in tutta l’Europa, non si
troverà altro giovane, che nella mia condizione, in età anche molto minore,
forse anche con doni intellettuali competentemente inferiori ai miei, abbia usato
la metà di quella prudenza, astinenza da ogni piacer giovanile, ubbidienza e
sottomissione ai suoi genitori ch’ho usata io. Per quanto Ella possa aver cattiva
opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha concessi, Ella non potrà negar
fede a quanti uomini stimabili e famosi mi hanno conosciuto ed hanno portato di
me quel giudizio ch’Ella sa, e ch’io non debbo ripetere. Ella non ignora che
quanti hanno avuto notizia di me, hanno giudicato ch’io dovessi riuscir qualche
cosa non affatto ordinaria, se mi si fossero dati quei mezzi che sono
indispensabili per fare riuscire un giovane. Era cosa mirabile come ognuno si
maravigliasse ch’io vivessi tuttavia in questa città, e com’Ella sola fra tutti,
fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente. Ella
tuttavia mi giudicò indegno che un padre dovesse far sacrifizi per me, nè le
parve che il bene della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione al
suo piano di famiglia. I padri sogliono giudicare i loro figli più favorevolmente
degli altri, ma Ella per lo contrario ne giudica più sfavorevolmente d’ogni altra
persona, e quindi non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande:
forse anche non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli,
e colle norme geometriche.”4
Infine possiamo di passaggio citare la più grande delle storie riguardanti questo aspetto,
quella di Giuseppe nel Nuovo Testamento, figura emblematica dell’accettazione del
3 Franz Kafka, Lettera al padre, ed. Einaudi, Torino 2011
4 Cfr Giacomo Leopardi, Carissimo signor padre. Lettera a Monaldo, Edizioni Osanna 1997
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mistero del figlio. Matteo ce lo descrive “mentre sta pensando5” mirabile e sintetica
metafora del dramma di un padre che non riesce a comprendere le vie del figlio.
Perché il nostro discorso sia completo dobbiamo ora soffermarci brevemente su un altro
aspetto della relazione paterna, quella che riguarda il cammino che insieme si svolge e
che sempre conduce ad una nuova figurazione delle persone che entrano in questo
rapporto. La relazione sconvolge e cambia la nostra identità: questo succede anche nella
relazione padri e figli, come sanno tutti i padri di questo mondo. Niente rimane
immobile quando si ama o quando si decide di abitare i territori dell’altro. Un padre
cammina con il figlio e si rende conto dopo un po’ che sta modificando il suo passo e
che la sua stessa personalità è coinvolta in un dinamismo straordinario. Durante il
cammino ci si scopre debitori dei figli, profondamente cambiati nella propria intimità e
quasi figli dei figli stessi, nel senso di essere debitori alla loro esistenza della scoperta di
nuovi modi di essere uomini nel mondo.
Il componimento nerudiano, che abbiamo messo ad esergo del testo, si conclude proprio
con questo canto sul più alto ramo che con te raggiungemmo, che insieme genitori e
figli raggiungono, come una gioia profonda dovuta al fatto che insieme si cammina e al
fatto che il padre, in questa esperienza, ha molto da imparare dal figlio e non solo il
contrario.
La cura della relazione parentale si fonda su questi aspetti; essa non concede nulla al
pressapochismo o al sentimentalismo, ma si apre alla responsabilità di tenere vivo e
virile il rapporto. L’icona di Ettore che tende le braccia al figlio, togliendosi l’elmo che
tanto lo spaventa, richiama non solo alla gioia della paternità, ma anche al dovere di
costruire un rapporto nel che si esprime il compito educativo e quello testimoniale che
ne è la più alta e nobile forma.
La descrizione omerica che sarà l’incipit della Unità di Apprendimento va letta e riletta
con rispetto e nel silenzio attento della classe, che forse per la prima volta sentirà parole
immortali. Tali parole di per se stesse sapranno trovare le strade per commuovere e
muovere la loro coscienza:
“E dicendo così, tese al figlio le braccia Ettore illustre: / ma indietro il
bambino, sul petto della balia bella cintura / si piegò con un grido, atterrito
dall’aspetto del padre, / spaventato dal bronzo e dal cimiero chiomato, / che
vedeva ondeggiare terribile in cima all’elmo. / Sorrise il caro padre e la nobile
madre / e subito Ettore illustre si tolse l’elmo di testa / e lo posò scintillante per
terra; / e poi baciò il caro figlio, lo sollevò tra le braccia / e disse, supplicando a
Zeus e altri Numi: “Zeus, e voi Numi tutti, fate che cresca questo mio figlio, così
come io sono (…) e un giorno dica qualcuno? E’ molto più forte del padre’6
5 Vangelo di Matteo, I, 20
6 Omero, Iliade, Libro VI, 466 – 479, Trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino1990 pp.
221 -222.
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Come abbiamo già visto i versi di Omero accolgono l’idea di una sostanziale tenerezza
paterna che diventa significativa proprio perché inserita in un contesto culturale in cui la
guerra e la violenza, erano ritenuti aspetti consustanziali alla vita ordinaria.
A partire da queste immagini e da questi esempi ci accingiamo a suggerire temi e modi
per entrare in questo immenso contesto di relazioni, nel quale la paternità si svolge
come un rotolo per aiutare i nostri alunni a rendersi conto dei rapporti che li precedono e
li seguono e ancor di più di quelli che sono originati dalla loro presenza. Un
apprendimento significativo si sviluppa come consapevolezza delle relazioni, è motivato
dalla cura della relazione, perché progredire nello studio e nella conoscenza del mondo
è possibile solo in presenza della conoscenza su se stessi e sulla silenziosa certezza di
essere amati.
II PARTE
Per il lavoro in classe sui temi specifici dell’Unità
Attività multidisciplinari con metodo interdisciplinare
Presentiamo alcune attività che possono essere svolte in continuità sia tra discipline
affini sia tra ordini di scuole per le classi ponte, sia ancora a classi aperte. Saranno gli
insegnanti stessi, che in sede di progettazione, troveranno i modi di veicolare le attività,
che si presentano qui, secondo una struttura didattica aperta al contributo del docente e
quindi non chiusa, ma dinamica e sfaccettata.
Innanzitutto è auspicabile che i brani già riportati sopra possano essere oggetto di
riflessione o anche solo di lettura, quasi come brevi biglietti di tenerezza didattica che
l’insegnante di qualunque classe e di ogni sezione offre ai suoi ragazzi; anche questa
attività può essere vista come prima cura della relazione.
Il timore che i nostri alunni non apprezzino il tentativo di lettura semplice ad alta voce
nasce dal pregiudizio che siano abituati alle fantasmagorie di internet e degli
smartphone posseduti; invece è vero spesso il contrario: i nostri alunni sono assetati di
sentire parole di senso e sono avidi di silenzio. Forse non lo sanno ancora, ma a questo
serve un docente. Ci vuole il coraggio dell’apprendimento, non l’asservimento alle
mode e niente come la lettura ad alta voce apre gli spazi, certo faticosi ma affascinanti,
di questo nuovo e antico modo di relazionarsi.
I ATTIVITA’
Storia di mio padre da piccolo
Italiano, Storia, Matematica, Tecnologia, Scienza
Finalità. L’attività ha lo scopo di far avvicinare i figli al mondo passato dei padri al fine
di scoprirvi somiglianze e differenze, caratteristiche antropologiche, scientifiche e
storiche.
Destinatari. L’attività è molto semplice e adattabile a tutti i contesti. Nella scuola
dell’infanzia le notizie si possono raccogliere invitando i papà a parlarne e
descrivendone per immagini e foto la storia.
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Svolgimento. Si tratta di raccogliere, come compito domestico, una serie di
informazioni sul papà da piccolo. In classe le informazioni vengono formalizzate
secondo una scheda a più voci (Nome, Cognome, Età, Carattere, Il ricordo più bello, Il
ricordo più brutto, Una prova da superare, In che momento e in che occasione ha capito
di essere diventato grande, Il programma televisivo preferito, Il cantante preferito, Il
lavoro sognato, Gli esiti a scuola, I libri letti). Successivamente i dati vengono
assemblati e aggregati, secondo le regole statistiche, e da essi si ricavano alcuni risultati
che dovrebbero rispondere alle seguenti domande: Qual è il periodo comune all’infanzia
e all’adolescenza dei papà? Quali erano i caratteri sociali del tempo? Qual è il rapporto
con i nonni (papà da figlio)?
L’attività continua andando a ricercare in Internet o in un libro di Storia gli eventi più
importanti di quel periodo, le conquiste scientifiche, mediche, ingegneristiche per
cercare di descrivere le caratteristiche storiche e di vita del tempo.
Metacognizione. Le attività metacognitive sono dedicate agli strumenti usati per la
ricerca e alle modalità di tradurre le descrizioni in dati numerici. La verifica può
consistere in un compito di realtà che organizzi una ricerca su un altro tema: come
svolgeresti una ricerca sulla Chiesa nel 1960 per esempio; da quali dati partiresti, chi
intervisteresti ecc..
II ATTIVITA’
Lo spazio delle mie opinioni
Tutte le discipline, in particolare Educazione Fisica
Finalità. L’attività ha lo scopo di facilitare la comunicazione di sé e il confronto con gli
altri eliminando l’imbarazzo prodotto dal parlare dinanzi agli altri. Si esplora la
relazione in generale e non solo quella con il padre e si permette a ciascuno di riflettere
sulla propria esperienza senza la paura di essere scoperti o di fare brutta figura.
Destinatari. E’ un’attività che va bene per tutti. Il docente dovrà essere attento a come
presenta l’animazione. Con i bambini dell’Infanzia le domande saranno più cocnrete
(cfr sotto). L’animazione a questo livello scolastico è indicata anche per educare alla
lateralizzazione e alle conoscenze topologiche
Svolgimento. Al centro dell’aula si stende una linea (nastro adesivo bianco) che divida
lo spazio disponibile in due parti. Ogni alunno prende una seggiola e si siede il più
vicino possibile a una delle pareti della stanza, avendo dinanzi la linea in posizione
verticale e guardando la parete dall’altra parte. Il docente legge una delle affermazioni
riportate sotto. Segue uno spazio di silenzio e riflessione. Se l’affermazione è percepita
come vera dall’alunno (secondo la sua esperienza di vita, le sue relazioni con gli altri,
ecc.), questi deve attraversare la linea e sedersi nella posizione – rispetto all’altra parete
che rappresenta il massimo del punteggio – che ritiene più giusta (girando la seggiola
nella direzione degli altri, cioè all’interno). Se l’affermazione non è percepita come
vera, il referente si muoverà nella direzione della linea (portando con sé la seggiola e
poi sedendosi, guardando l’altra parete) secondo quanto la ritiene non vera: se poco si
avvicinerà di più alla linea, se molto resterà più vicino alla parete, se del tutto falsa non
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si muoverà affatto e rimarrà al proprio posto. Quando ciascuno ha preso posizione, il
docente cercherà di aiutare a comunicare, domandando a ciascuno perché ha assunto
quella tale posizione, quali fatti o esperienze gli fanno ritenere che le cose stiano così,
ecc. Egli cercherà anche di far interagire i ragazzi, suscitando risposte e considerazioni.
Soprattutto cercherà di sapere dagli altri se quella tale posizione assunta da uno
corrisponde, secondo loro, a verità e alla reale situazione di quella persona, oppure no.
Mentre si svolge il dialogo-confronto, i referenti possono anche cambiare posizione se,
nel frattempo, hanno cambiato idea. Quando il confronto su un’affermazione è
terminato, a giudizio dell’insegnante, tutti si riposizionano come all’inizio della tecnica
e si procede con una nuova affermazione.
Esempi di affermazioni. - In genere, quando parlo, le persone ascoltano quello che ho
da dire. - Ho almeno una persona con la quale posso parlare: mi ascolta con attenzione e
di lui o lei mi fido. – Il papà è quello che comanda in casa. - Ho più di una persona con
la quale posso parlare: mi ascolta con attenzione e di lui o lei mi fido. - Spesso mi capita
di pensare che mi hanno capito e invece non è vero. – Il papà ha sempre difficoltà ad
aprirsi con i figli – C’è un mio amico che desidera dal papà una carezza, ma per lo più
gli arrivano schiaffi, perché un papà deve saper educare - Ho quasi sempre paura di
parlare agli altri, se non li conosco bene. - Non riesco a capire perché alcune persone
sono sempre ascoltate. - In famiglia mi ascoltano. - Gli amici mi ascoltano. (cfr.
http://www.diocesifossano.org/wp-content/uploads/2016/08/Tecniche.pdf)
Esempi di affermazioni per la scuola dell’Infanzia. – Papà accompagna a scuola il
bambino – Papà e Mamma parlano spesso con i bambini – Papà mangia di gusto con i
bambini – Papà guarda la tv con i bambini – Papà gioca – Papà legge
Occorre un ambiente che sia abbastanza grande da consentire il movimento previsto
dalla tecnica; si può utilizzare un’aula grande prenotandola per tempo.
III ATTIVITA’
Dibattiamo sulla famiglia
Primo approccio con la tecnica del debate (dibattito, argomentazione)
Finalità. L’attività ha lo scopo di facilitare la presa di posizione dell’alunno/a,
l’interazione con le opinioni degli altri e il confronto con un diverso punto di vista sulla
questione. Sviluppa la capacità di comunicare e di verbalizzare. L’animazione tende
anche a far emergere pregiudizi di genere e a promuoverne la discussione.
Destinatari. Alunni dalla quarta classe della scuola primaria in poi.
Svolgimento. L’insegnante colloca le seggiole del gruppo in due schieramenti
contrapposti, alla sua destra e alla sua sinistra. Egli stesso alla fine del dibattimento,
cerca di tirare le fila e di fare sintesi
I ragazzi stanno seduti o in piedi, dove vogliono. L’insegnante legge la frase. Es.: A
volte, per dire la verità, bisogna fare la spia! I ragazzi hanno un certo tempo per
decidere se sono d’accordo o meno con la frase. Non si accettano vie di mezzo. Chi è
d’accordo si siederà a destra, chi non è d’accordo a sinistra. Il conduttore dà la parola ai
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ragazzi che vogliono provarsi ad argomentare a favore di una parte o dell’altra, avendo
attenzione a sovrapporre le voci. L’insegnante farà attenzione a stimolare un certo
spirito di “agonismo” nel sostenere le proprie tesi. Alla fine la classe emette una specie
di sentenza, decidendo chi ha ragione e chi ha torto. Il gioco è simile al brainstorming.
Materiale occorrente: fogli e frasi scritte, sedie, un campanello per richiamare
all’attenzione e al silenzio.
Frasi da proporre. - I padri comandano e le mogli obbediscono. - La mamma coccola
il papà discute. - I genitori devono lasciare i figli liberi di vivere le proprie esperienze –
Il papà è amico dei figli – Giocare con il padre non basta – Meglio un papà imperfetto
che un papà disattento – Curare il proprio figlio non vuol dire solo essere attento alla
sua salute. (cfr. http://www.diocesifossano.org/wp-content/uploads/2016/08/Tecniche.pdf)
IV ATTIVITA’
Un cappello supercontento
Applichiamo al contesto scolastico la teoria dei “ruoli fissi” di E. de Bono
Italiano, Arte, Tecnologia, Musica
Collocazione. Tra i libri consigliati per quest’anno scolastico ce n’è uno speciale che
s’intitola Un cappello supercontento, adatto a tutti, dalla scuola dell’infanzia alla scuola
secondaria, scelto apposta per sviluppare il senso del sé e l’esplorazione delle relazioni
con gli altri. Racconta la storia di Giacomo, che per esprimere i suoi stati d’animo, si
calca in testa un cappello: verde quando è di buonumore, nero quando è arrabbiato, lilla
quando ha voglia di stare da solo e così via. Per segnalare ai genitori come sta o che
cosa gli è accaduto si mette un cappello corrispondente. La storia ha un risvolto
spassoso che il lettore leggerà con gusto.
Il testo prende spunto dalla teoria di Edward De Bono, esperto internazionale e
famosissimo di educazione alla creatività, le cui teorie ci hanno fatto compagnia durante
l’anno di riflessione sul pensiero divergente. De Bono sostiene, con una prosa assai
ironica e convincente, che ciascuno di noi interpreta un ruolo dovuto spesso a schemi
indotti dal carattere o dalla posizione sociale o da pensieri negativi. Se riusciamo a
distaccarcene, provando a ragionare secondo altri punti di vista probabilmente
riusciremo a capire meglio gli altri e pensare in maniera produttiva e lontano dai
pregiudizi. I punti di vista sono per l’appunto i cappelli.
Cappello bianco: puri fatti, dati, cifre e informazioni
Cappello rosso: emozioni e sensazioni, ma anche presentimenti e intuizioni
Cappello nero: giudizi negativi, perché una cosa non funzionerà
Cappello giallo: ottimismo, atteggiamento positivo, costruttivo, le opportunità
Cappello verde: creatività, piante che nascono da un seme, movimento, provocazione
Cappello blu: freddezza e controllo, direttore d’orchestra, pensiero sul pensiero,
metacognizione.7
7 E. De Bono, Sei cappelli per pensare, ed. Best Bur2013, pp. 190 -191
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Svolgimento e destinatari 1. La prima attività che si può svolgere è la più semplice,
soprattutto adatta alla scuola dell’infanzia e ai primi anni della scuola primaria; in
questo senso è adatta per la continuità: leggere il libretto ad alta voce; farlo colorare,
costruire cappelli, mimare gli stati d’animo mentre si cambiano i cappelli, inventare
storie con i cappelli ecce.
Svolgimento e destinatari 2. La seconda attività è destinata a chi legge bene o benino.
L’insegnante legge brani classici della letteratura infantile scelti in relazione agli stati
d’animo e chiede ai bambini e ai ragazzi quali cappelli metterebbero ai personaggi.
Svolgimento e destinatari 3. La terza attività è per tutti. Si chiede agli alunni di
inventare delle storie che hanno come protagonisti i genitori e i figli. Successivamente
si costruiscono i cappelli o si portano da casa, etichettandoli con un biglietto su cui è
scritto un colore, e si leggono a turno, chiedendo alla classe di mettersi tutti insieme o di
togliersi tutti insieme il cappello adatto. Questa variante è molto divertente.
Svolgimento e destinatari 4. La quarta attività è la più originale e quella che meglio
educa alla consapevolezza di sé e degli altri ed è per tutti dai bambini dell’Infanzia agli
alunni di terza media. L’insegnante espone una situazione contraddittoria o tratta dalle
notizie di cronaca e chiede ad uno o più alunno di commentarla mettendosi un certo
cappello. Chi ha il cappello bianco ne vedrà solo i dati, chi il cappello verde cercherà di
vederne gli aspetti positivi e così via. Una degli aspetti più attraenti di questa attività n.4
consiste nell’interpretare diversi ruoli sullo stesso argomento. L’argomento può essere
scelto anche dalla realtà della classe. Per questo motivo spesso durante i Consigli di
Cooperazione si usa questa tecnica.
III PARTE
Attività per ambiti disciplinari
Presentiamo alcune attività che possono essere svolte per discipline e quindi più
facilmente inseribili nell’ordinario flusso didattico dell’Unità di Apprendimento. Si
tratta di argomenti che si coniugano facilmente con i contenuti statutari di ciascuna
disciplina ed imprimono alla lezione una novità prospettica che permette allo stesso
docente di rinnovare il repertorio delle conoscenze, applicandole a contesti letterari,
storici, scientifici, artistici coerenti.
I ATTIVITA’
Padri e Figli nella letteratura e nell’arte
Finalità. L’attività ha come scopo di avviare gli alunni a comprendere le sfaccettature
di un rapporto parentale. I bambini e i ragazzi devono abituarsi a comprendere come ciò
che li circonda non è amorfo o cristallizzato per sempre, ma si muove, cambia e che
niente è mai uguale a se stesso. Anche la relazione padri – figli presenta un’infinità di
tipologia e la letteratura, l’arte, la musica ce ne danno testimonianza.
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Sorride al vento l’elmo di Ettore
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Destinatari. E’ preferibile che l’attività sia svolta da alunni che sono in grado già di
scrivere e di leggere bene.
Ambiti disciplinari. Italiano, Arte.
Svolgimento. Si danno tanti biglietti su cui sono trascritti brani tratti da novelle e
romanzi e tante immagini tratte da dipinti o da pubblicità. Gli alunni da soli o in gruppo
devono abbinare i testi con le immagini e successivamente descrivere i motivi delle loro
scelte.
L’attività può continuare anche in modo più tradizionale chiedendo agli alunni di
individuare analogie e differenze oppure di confrontare le tipologie letterarie con le
caratteristiche paterne al giorno di oggi.
Testi. Si possono usare i testi già indicati nella prima parte dei Suggerimenti (Kafka,
Leopardi), tranne quello su Ettore a cui è dedicata un’attività a parte. Altri tre sono
riportati di seguito, lasciando alla cura del docente la ricerca di brani letterari che non
farà fatica a trovare. I tre brani sono stati scelti facendo attenzione a mondi diversi, per
certi versi opposti e a dinamiche relazionali che si prestano bene ad un confronto.
1.Padri e Figli di Ivan Turgenev
Nicola Petrovic balzò da sedere e aguzzò gli occhi lontano, in fondo alla strada.
Una carrozza apparve, attaccata a tre cavalli di posta; un berretto orlato da
studente.... un noto e caro profilo.... – Arcadio! figlio mio! – gridò il padre,
correndo ed alzando le mani.... Pochi momenti dopo, le labbra di lui si
attaccavano alla guancia imberbe ed abbronzata del giovane candidato.
– Lascia che mi spolveri, papà, disse Arcadio con voce un po’ rauca ma sonora,
rispondendo alle effusioni paterne, – io t’insudicio tutto. – Niente, niente, –
rispose Nicola Petrovic con un sorriso di tenerezza, e battendo una e due volte
con la mano sul bavero di Arcadio e sul proprio soprabito. – Fatti vedere, fatti
vedere, – soggiunse indietreggiando d’un passo; e subito dopo, entrando
frettoloso nell’osteria, gridò: – Presto, qua, i cavalli, sbrighiamoci! Nicola
Petrovic sembrava molto più agitato del figlio, si scalmanava, perdeva la testa.
Arcadio lo fermò. – Papà, – disse, lascia che ti presenti, il mio buon amico,
Basarow, del quale t’ho scritto tante volte. È così buono che ha consentito di
passar con noi qualche giorno. Nicola Petrovic si voltò in fretta e, accostatosi ad
un uomo di alta statura con un lungo camiciotto a fiocchi, gli strinse forte la
mano grossa e rossa, che quegli non gli porse però a primo tratto. – Lietissimo, –
cominciò, – grato cordialmente alla eccellente intenzione di essere nostro ospite.
Tratto da “Padri e figli” di Ivan Turgenev, scrittore russo vissuto nell’Ottocento
2.Pinocchio di Collodi
E lì si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno gli presero fuoco, e
adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere. E Pinocchio seguitava
a dormire e a russare, come se i suoi piedi fossero quelli d’un altro. Finalmente
sul far del giorno si svegliò, perché qualcuno aveva bussato alla porta. — Chi è?
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Sorride al vento l’elmo di Ettore
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— domandò sbadigliando e stropicciandosi gli occhi. — Sono io! — rispose una
voce. Quella voce era la voce di Geppetto.
Il povero Pinocchio, che aveva sempre gli occhi fra il sonno, non s’era ancora
avvisto dei piedi che gli si erano tutti bruciati: per cui appena sentì la voce di suo
padre, schizzò giù dallo sgabello per correre a tirare il paletto; ma invece, dopo
due o tre traballoni, cadde di picchio tutto lungo disteso sul pavimento. E nel
battere in terra fece lo stesso rumore, che avrebbe fatto un sacco di mestoli,
cascato da un quinto piano. — Aprimi! — intanto gridava Geppetto dalla strada.
— Babbo mio, non posso — rispondeva il burattino piangendo e ruzzolandosi
per terra. — Perché non puoi? — Perché mi hanno mangiato i piedi. — E chi te
li ha mangiati? — Il gatto — disse Pinocchio, vedendo il gatto che colle zampine
davanti si divertiva a far ballare alcuni trucioli di legno. — Aprimi, ti dico! —
ripeté Geppetto — se no, quando vengo in casa, il gatto te lo do io! — Non
posso star ritto, credetelo. — Geppetto, pensò bene di farla finita, e
arrampicatosi su per il muro, entrò in casa dalla finestra. Da principio voleva
dire e voleva fare; ma poi, quando vide il suo Pinocchio sdraiato in terra e
rimasto senza piedi davvero, allora sentì intenerirsi; e presolo subito in collo, si
dètte a baciarlo e a fargli mille carezze e mille moine, e, coi luccioloni che gli
cascavano giù per le gote, gli disse singhiozzando: — Pinocchiuccio mio!
Com’è che ti sei bruciato i piedi? — Non lo so, babbo, ma credetelo che è stata
una nottata d’inferno e me ne ricorderò fin che campo. Tonava, balenava e io
avevo una gran fame, e allora il Grillo-parlante mi disse: «Ti sta bene: sei stato
cattivo, e te lo meriti» e io gli dissi: «Bada, Grillo!...» e lui mi disse (…) E il
povero Pinocchio cominciò a piangere e a berciare così forte, che lo sentivano da
cinque chilometri lontano. Geppetto, che di tutto quel discorso arruffato aveva
capito una sola cosa, cioè che il burattino sentiva morirsi dalla gran fame, tirò
fuori di tasca tre pere, e porgendogliele, disse: — Queste tre pere erano la mia
colazione: ma io te le do volentieri. Mangiale, e buon pro ti faccia. — Se volete
che le mangi, fatemi il piacere di sbucciarle. — Sbucciarle? — replicò Geppetto
meravigliato. — Non avrei mai creduto, ragazzo mio, che tu fossi così
schizzinoso di palato. Male! In questo mondo, fin da bambini, bisogna
avvezzarsi abboccati e a saper mangiar di tutto, perché non si sa mai quel che ci
può capitare. I casi son tanti!... — Voi direte bene — soggiunse Pinocchio — ma
io non mangerò mai una frutta, che non sia sbucciata. Le bucce non le posso
soffrire. —E quel buon uomo di Geppetto, cavato fuori un coltellino, e armatosi
di santa pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le bucce sopra un angolo della
tavola. Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece
l’atto di buttar via il torsolo: ma Geppetto gli trattenne il braccio, dicendogli: —
Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo.
Collodi, le avventure di Pinocchio edizione critica Fondazione Collodi cap. VII
Mastro – don Gesualdo di Giovanni Verga
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Sorride al vento l’elmo di Ettore
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Parve a don Gesualdo d'entrare in un altro mondo, allorché fu in casa della
figliuola. Era un palazzone così vasto che ci si smarriva dentro. Da per tutto
cortinaggi e tappeti che non si sapeva dove mettere i piedi – sin dallo scalone di
marmo – e il portiere, un pezzo grosso addirittura, con tanto di barba e di
soprabitone, vi squadrava dall'alto al basso, accigliato, se per disgrazia avevate
una faccia che non lo persuadesse, e vi gridava dietro dal suo gabbione: ― C'è lo
stoino per pulirsi le scarpe! ― Un esercito di mangiapane, staffieri e camerieri,
che sbadigliavano a bocca chiusa, camminavano in punta di piedi, e vi servivano
senza dire una parola o fare un passo di più, con tanta degnazione da farvene
passar la voglia. Ogni cosa regolata a suon di campanello, con un cerimoniale di
messa cantata – per avere un bicchier d'acqua, o per entrare nelle stanze della
figliuola. Lo stesso duca, all'ora di pranzo, si vestiva come se andasse a nozze.
_____________________________ __ _____________________________
Finalmente si persuase ch'era giunta l'ora, e s'apparecchiò a morire da buon
cristiano. Isabella era venuta subito a tenergli compagnia. Egli fece forza coi
gomiti, e si rizzò a sedere sul letto. ― Senti, ― le disse, ― ascolta... Era turbato
in viso, ma parlava calmo. Teneva gli occhi fissi sulla figliuola, e accennava col
capo. Essa gli prese la mano e scoppiò a singhiozzare. ― Taci, ― riprese, ―
finiscila. Se cominciamo così non si fa nulla. Ansimava perché aveva il fiato
corto, ed anche per l'emozione. Guardava intorno, sospettoso, e seguitava ad
accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato. Ella pure volse verso
l'uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano scarna, e trinciò
una croce in aria, per significare ch'era finita, e perdonava a tutti, prima
d'andarsene. ― Senti... Ho da parlarti... intanto che siamo soli... Ella gli si buttò
addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle mani erranti che
l'accarezzavano. L'accarezzò anche lui sui capelli, lentamente, senza dire una
parola. Di lì a un po' riprese: ― Ti dico di sì. Non sono un ragazzo... Non
perdiamo tempo inutilmente. ― Poi gli venne una tenerezza. ― Ti dispiace,
eh?... ti dispiace a te pure?... La voce gli si era intenerita anch'essa, gli occhi,
tristi, s'erano fatti più dolci, e qualcosa gli tremava sulle labbra. ― Ti ho voluto
bene... anch'io... quanto ho potuto... come ho potuto... Quando uno fa quello che
può... Allora l'attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fissa per vedere
se voleva lei pure, e l'abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei
bei capelli fini. ― Non ti fo male, di'?... come quand'eri bambina?... Gli vennero
insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza e di passione, quei
sospetti odiosi che dei bricconi, nelle questioni d'interessi, avevano cercato di
mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli indietro, e cambiò
discorso. ― Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso...
Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva
che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse
per chiudere gli occhi. ― Ma no, parliamone! ― insisteva lui. ― Sono discorsi
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Sorride al vento l’elmo di Ettore
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serii. Non ho tempo da perdere adesso. ― Il viso gli si andava oscurando, il
rancore antico gli corruscava negli occhi. ― Allora vuol dire che non te ne
importa nulla... come a tuo marito... Vedendola poi rassegnata ad ascoltare,
seduta a capo chino accanto al letto, cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori che
gli avevano dati, lei e suo marito, con tutti quei debiti... Le raccomandava la sua
roba, di proteggerla, di difenderla: ― Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!...
quando tuo marito torna a proporti di firmare delle carte!... Lui non sa cosa vuol
dire! (…) ― Ah, babbo, babbo!... che parole! ― singhiozzò Isabella. (Il padre)
Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se
l'avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva
quel segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere
anche lui quell'altro segreto, quell'altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi
della figliuola. E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel
punto, aprirle il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il
capo, quasi avesse indovinato, tirandosi indietro, chiudendosi in sè, superba, coi
suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare diffidente, ostile, di un'altra
pasta. Allentò le braccia, e non aggiunse altro. ― Ora fammi chiamare un prete,
― terminò con un altro tono di voce. ― Voglio fare i miei conti con Dio.
Giovanni Verga, mastro – don Gesualdo, capitolo V
Aspetto metacognitivo. L’attività non presenta difficoltà organizzative e si svolge
tranquillamente. Per questo motivo è bene chiedere ai ragazzi, alla fine del lavoro, come
sono giunti all’abbinamento e permettere loro di descrivere a quali esperienze si sono
riferiti, a quali ricordi, a quali episodi della loro vita. In questa maniera li indurremo ad
esplorare la coscienza e a porsi domande sulla loro storia.
II ATTIVITA’
Ettore, Ulisse, Enea, Abramo
Sguardo alle icone della paternità nella classicità
Italiano, Storia, Religione
Collocazione e finalità. Si tratta di un’attività legata al mondo classico e adatta alle
classi finali dei cicli (quinte primaria e terze secondaria). Tuttavia con accorgimenti
legati soprattutto alla proposta di approfondimento può essere adattata con esiti assai
positivi anche alle altre classi.
Attraverso la conoscenza e lo studio di quattro tipologie di paternità si analizzano le
caratteristiche del mondo classico, ma anche le caratteristiche dei diversi modelli di
paternità ancora vivissime nel nostro mondo, per molti aspetti significativo perché
debitore al mondo e ai valori delle figure classiche.
Svolgimento. Si spiegano le finalità dell’attività e gli antefatti che precedono gli episodi
riportati. Vengono poi lette ad alta voce, facendole seguire sulle lim i brani famosi
dell’Iliade, dell’Odissea, dell’Eneide e della Genesi, riguardanti i quattro personaggi
indicati nel titolo. Sarebbe bello se anche i ragazzi si esercitassero a leggerli, magari
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Sorride al vento l’elmo di Ettore
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drammatizzando la lettura. Successivamente, per i più grandi, si descrivono le
caratteristiche delle quattro tipologie e si analizzano, applicandole al mondo di oggi e al
rapporto tra padri e figli, ma anche al rapporto tra individuo e storia; per i più piccoli
invece, dopo la lettura, sarebbe importante far esprimere attraverso disegni gli episodi,
chiedere di esprimere ciò che si prova e poi discuterne in classe.
Iliade, libro VI L’incontro tra Ettore e Andromaca alle porte Scee
“E dicendo così, tese al figlio le braccia Ettore illustre: / ma indietro il
bambino, sul petto della balia bella cintura / si piegò con un grido, atterrito
dall’aspetto del padre, / spaventato dal bronzo e dal cimiero chiomato, / che
vedeva ondeggiare terribile in cima all’elmo. / Sorrise il caro padre e la nobile
madre / e subito Ettore illustre si tolse l’elmo di testa / e lo posò scintillante per
terra; / e poi baciò il caro figlio, lo sollevò tra le braccia / e disse, supplicando a
Zeus e altri Numi: “Zeus, e voi Numi tutti, fate che cresca questo mio figlio, così
come io sono (…) e un giorno dica qualcuno? E’ molto più forte del padre’8
Odissea Libro XVI L’incontro con Telemaco
“Ospite, ben diverso m’appari ora da prima: hai altre vesti e non è uguale
l’aspetto. Tu sei un nume, di quelli che il cielo vasto possiedono. Ah, sii a noi
propizio, che ti facciamo offerte gradite e doni d’oro ben lavorato: risparmiaci.
E gli rispose Odisseo costante, glorioso: Non sono un dio, no: perché
m’assomigli agli eterni? Il padre tuo sono, per cui singhiozzando, soffri tanti
dolori per le violenze dei principi. Così dicendo baciò il figlio e per le guance il
pianto a terra scorreva: prima l’aveva frenato. Telemaco – poiché non ancora
credeva che fosse il padre – gli disse di nuovo, rispondendo, parole: No, tu non
sei Odisseo, non sei il padre mio, ma m’incanta un nume perché io soffra e
singhiozzi di più. Mai un mortale poteva far questo con la sua sola mente, a
meno che un dio, senza fatica, a sua voglia venisse a farlo giovane o vecchio; tu
poco fa eri un vecchio e malamente vestivi, e ora somigli agli dèi che il cielo
vasto possiedono.” E ricambiandolo disse l’accorto Odisseo: “Telemaco, non
va bene che tu, avendo qui il caro padre che è tornato, lo guardi stordito, con
troppo stupore. Un altro Odisseo non potrà mai venire, perché son io, proprio
io, che dopo aver tanto errato e sofferto, arrivo dopo vent’anni alla terra dei
padri. E questa è azione d’Atena, che mi fa come vuole, e può farlo, a volte
simile a un mendicante, altre volte a un uomo giovane, con belle vesti sul corpo:
facile ai numi, che il cielo vasto possiedono, fare splendido o miserabile un
uomo mortale. E così detto sedeva: allora Telemaco, stretto al suo nobile padre,
singhiozzava piangendo. A entrambi nacque dentro bisogno di pianto:
piangevano forte, più fitto che uccelli, più che aquile marine: così misero pianto,
8 Omero, Iliade, Libro VI, 466 – 479, Trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino1990 pp.
221 -222.
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Sorride al vento l’elmo di Ettore
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sotto le ciglia versavano. E certo calava il raggio del sole che ancora
piangevano9.
Eneide, parafrasi libro II, vv. 634 - 711
Quando giungo alla soglia dell’antica dimora familiare, mio padre, che volevo
portare per primo in salvo sui monti, rifiuta di vivere ancora dopo la fine di
Troia e soffrire l’esilio. “Voi - mi dice - che avete il sangue giovane e sano, voi
che siete nel pieno delle forze, fuggite... Se gli abitanti del cielo avessero voluto
prolungarmi la vita, avrebbero salvato la patria. Mi è bastato aver visto una
volta la mia città distrutta, la rovina, le stragi. Lasciate che il mio corpo qui
riposi, così: salutatelo e andate! Troverò presto morte per mano del nemico, che
avrà pietà di me e vorrà le mie spoglie. Rinunziare al sepolcro non m’è difficile.
Andate! Da troppi anni prolungo quest’inutile vita, inabile, inviso ai Celesti”
Così diceva, ben fermo nel suo triste proposito. Invano ci sciogliamo in lacrime,
io, Creusa, Ascanio, tutta la casa, perché Anchise desista da questa volontà di
distruggersi, aggravando la sorte che ci minaccia. Egli rifiuta di muoversi.
Allora un’altra volta mi preparo a gettarmi nella mischia, volendo morire. Che
cos’altro mi restava da fare? Che sorte mi si offriva? “Padre, speravi davvero
che io potessi fuggire senza di te? Parole così tremende uscirono dalla tua
bocca? Se i Numi vogliono che non resti più nulla d’una città così grande, se
proprio l’han deciso, e se tu desideri che tutti moriamo, insieme a te, la porta
della morte è spalancata. Allora mi copro nuovamente di ferro, adatto al
braccio lo scudo ed esco dal palazzo. Ma proprio sulla porta mia moglie mi si
getta ai piedi, e me li abbraccia tendendomi Iulo: “Se corri a morire porta con
te anche noi, ovunque: se invece per tua esperienza riponi ancora fiducia nelle
armi che hai preso, anzitutto difendi questa casa. A chi lasci il piccolo Iulo, tuo
padre e me, che pure una volta chiamavi la tua cara consorte?” Creusa
riempiva la casa di gemiti. Quand’ecco nascere all’improvviso un prodigio
incredibile. Mentre piangendo baciamo e accarezziamo Iulo, una lingua leggera
di fuoco parve accendersi in cima alla sua testa: una fiamma impalpabile e
innocua, che lambiva i morbidi capelli del bimbo e gli guizzava tutt’intorno alle
tempie. Atterriti, tremanti di paura, scuotiamo quei capelli infuocati, cercando
di spegnere la fiamma sacra con l’acqua. Ma Anchise sollevò gli occhi alle
stelle, con gioia, e tese al cielo le mani dicendo: “Giove, tu che puoi tutto, se
accetti di lasciarti commuovere dalle preghiere umane, getta uno sguardo su
noi! Solo questo ti chiedo. E se la nostra pietà lo merita, dai un segno, padre
santo, e conferma questo lieto presagio!” Aveva appena parlato che subito da
sinistra rullò il tuono e una stella caduta dal firmamento corse attraverso la
notte tracciando una scia luminosa. Vinto da questo miracolo mio padre si leva
e parla ai Celesti, adorando la sacra stella. “Non più, non più indugi - ci dice: -
9 Odissea Libro XVI vv. 181 – 239 Traduzione Italiana di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1990
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Sorride al vento l’elmo di Ettore
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vi seguirò, dovunque mi portiate. Riconosco l’augurio che mi fate e comprendo
che ancora proteggete Troia. Più non rifiuto di accompagnarti, o figlio!” Già si
sente man mano più netto il crepitìo del fuoco che brucia per tutte le mura: le
fiamme s’avvicinano. “Caro padre, su, sali sulle mie spalle già pronte a
sorreggerti: il peso non mi imbarazzerà. Dove andremo il pericolo sarà comune
e comune sarà la salvezza. Iulo che è piccolo mi accompagni, Creusa mi venga
dietro di lontano.” Ciò detto, disteso sulle spalle un mantello, mi chino a
ricevere il peso del padre. Alla mia destra s’attacca con la manina il piccolo
Iulo, seguendo coi suoi piccoli passi quello lungo del babbo. Dietro viene mia
moglie.”
Genesi 22, vv.1-18
Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose:
«Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, e
offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». Abramo si alzò di buon
mattino, sellò l'asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna
per l'olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. Il
terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo
disse ai suoi servi: «Fermatevi qui con l'asino; io e il ragazzo andremo fin lassù,
ci prostreremo e poi ritorneremo da voi». Abramo prese la legna dell'olocausto
e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il coltello, poi proseguirono tutt'e
due insieme. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: «Padre mio!». Rispose:
«Eccomi, figlio mio». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello
per l'olocausto?». Abramo rispose: «Dio stesso provvederà l'agnello per
l'olocausto, figlio mio!». Proseguirono tutt'e due insieme; così arrivarono al
luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l'altare, collocò la legna,
legò il figlio Isacco e lo depose sull'altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la
mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l'angelo del Signore lo
chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L'angelo
disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so
che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio». Allora
Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio.
Andò a prendere l'ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Poi l'angelo del
Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me
stesso: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico
figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua
discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del
mare. Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra,
perché tu hai obbedito alla mia voce».
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Sorride al vento l’elmo di Ettore
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III ATTIVITA’
Come cambia l’idea di figlio nella Storia
Ricerca documentaria e artistica
Storia ed Arte
Collocazione e finalità. Lo scopo dell’attività che si presenta è di conoscere come
veniva considerato il bambino all’interno del gruppo familiare dal medioevo all’età
moderna. Tale lavoro aiuta l’alunno a svolgere una prima sperimentazione di ricerca e
gli offre alcune informazioni storiche fondamentali per capire come le idee di figlio, di
padre e di famiglia si siano evolute. Infine fornisce un esempio di come la disciplina -
storia possa essere combinata con la disciplina - arte.
Destinatari. L’attività è destinata alle classi della scuola secondaria. Può, tuttavia,
essere adattata ad un lavoro di continuità con la scuola primaria.
Per le classi seconde, terze e quarte della scuola primaria il lavoro esemplificato nella
presente scheda, con gli opportuni adattamenti, può diventare un valido laboratorio di
immagini e brevi concetti combinati insieme a formare una piccola mostra o un giornale
murale.
Svolgimento. La classe viene divisa in gruppi di lavoro. A ciascun gruppo viene
affidato un documento che riporta le conoscenze sul rapporto tra padri e figli dal
medioevo ad oggi. Il gruppo di alunni legge il documento e ne trae le informazioni
storiche principali. Successivamente la classe in seduta plenaria consulta, anche
mediante l’ausilio della lim, immagini tratte da dipinti e da fotografie dei secoli citati
nel documento e gli alunni dovranno ritrovarvi i segni e le tracce di ciò che hanno letto.
Il momento finale del laboratorio di Storia e di Arte metterà insieme le immagini con
brevi didascalie riportanti le informazioni individuate.
Materiali. Il documento è ripreso da una serie di informazioni ricercate a partire dal
libro di Philippe Aries, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna. Qui si propone
una breve sintesi che può essere fornita ai gruppi. Successivamente si possono
selezionare alcuni dipinti che qui si citano, a solo titolo indicativo.
1° gruppo di alunni. Il medioevo e il bambino. L’idea medievale di bambino, piccolo
adulto senza propria identità è tipica del Medioevo mentre nell’epoca successiva, quella
moderna, il bambino assume una posizione fondamentale nella famiglia. Fino al
medioevo il sentimento dell’infanzia non esisteva. Era diffusa l’indifferenza verso il
bambino, dovuta anche all’alta mortalità, tanto che, nella lingua francese, non c’era un
vocabolo per indicare il bimbo piccolo. L’arte raffigurava il bambino come un adulto
più basso, vestito come i grandi, che praticava gli stessi giochi degli adulti. I bambini
andavano a confondersi con gli adulti appena erano ritenuti capaci di fare a meno delle
madri o delle nutrici, e grosso modo a partire dall’età di sette anni entravano di colpo
nella grande comunità degli uomini, dividevano coi loro amici, giovani o vecchi, i
lavori e le gioie di ogni giorno e il mondo della vita collettiva trascinava nello stesso
flusso età e condizioni, senza lasciar tempo a nessuno per la solitudine o l’intimità.
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Sorride al vento l’elmo di Ettore
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Nel periodo medioevale, l’antica forma patriarcale rimane invariata: il padre continua a
rappresentare il punto di riferimento intorno al quale ruota la famiglia.
Nella vita scolastica del Medioevo esisteva solo l’istruzione impartita dalla Chiesa, poi,
in epoca carolingia, nacque la scuola e in seguito l’università, ma erano riservate a
pochi. Era un’istruzione senza gradualità rispetto all’età degli scolari, l’insegnamento
era simultaneo, con un docente che insegnava più arti a bambini e ragazzi insieme.
Intrinseche al mondo medievale erano anche le differenziate modalità di affidamento e
di offerta dei fanciulli ai monasteri, che prevedevano, a partire almeno dal VI secolo, sia
affidamenti di durata temporanea agli abati, incaricati dalle famiglie di origine
aristocratica di provvedere all’istruzione dei loro figli, sia trasferimenti definitivi e
irrevocabili, effettuati secondo un preciso rituale di oblazione. È solo attraverso
l'educazione che il bambino è entrato nel mondo cambiando la Storia. Il bambino stesso,
apparteneva alla specie, era un fenomeno biologico, una fase della crescita.
Anche per quanto riguarda la differenza di genere nel Medioevo nascere maschio o
nascere femmina era cosa ben diversa. Le madri in attesa auspicavano la nascita di un
figlio maschio per le opportunità maggiori che la vita gli avrebbe offerto. Il figlio
maschio continuava la stirpe, portava avanti il nome della famiglia e aveva diritto di
successione. L’indizio della delusione della famiglia di fronte alla nascita di una
femmina, specie in situazioni di indigenza, risulta dal numero nettamente più alto di
“trovatelle” rispetto ai “trovatelli”. Inoltre, fare adottare un figlio maschio era più facile,
perché offriva alla famiglia la possibilità di un’integrazione patrimoniale, qualora, ad
esempio, egli fosse entrato da apprendista nella bottega di un artigiano. Ad esempio,
nelle famiglie fiorentine più abbienti del tardo Medioevo, l’età dello svezzamento
avveniva più precocemente per le bambine, per non pagare troppo a lungo le balie che le
allattavano.
2° gruppo di alunni. L’età moderna e il bambino. Nel Rinascimento l’arte, le nuove
curiosità intellettuali, la mobilità, l’urbanizzazione, le nascenti attività economiche, il
nascere di una borghesia, creano le premesse per una famiglia di tipo moderno, a capo
di questa entità relativamente nuova sta il padre. Un fenomeno nuovo che incontriamo
nella paternità rinascimentale, per esempio, è che già nel ‘500 si riduce il potere del
padre nel decidere le nozze dei figli, almeno nelle famiglie dei ceti popolari. Iniziano i
giovani a fare questa scelta, anche se devono chiedere il consenso al padre, che di solito
ottengono e la nuova coppia non va ad abitare coi parenti. Non è un cambiamento da
poco, ma esso non riguardava le famiglie più ricche e nobiliari, nelle quali la volontà
paterna continuò a condizionare il sentimento e il volere dei figli. Per queste ultime,
almeno nella Francia del primo Seicento, la decisione paterna comprendeva il diritto, in
certi casi, di infliggere al figlio la morte; addirittura i codici delle leggi enumeravano i
casi in cui il padre era legittimato a uccidere un figlio o una figlia adulti.
Dal ʼ600, il mondo infantile si separò da quello adulto; si sviluppò una nuova
sensibilità; si riconobbe che anche il bambino aveva un’anima immortale, cominciò ad
avere un proprio abbigliamento, i suoi giochi si distinsero da quelli degli adulti, anche
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Sorride al vento l’elmo di Ettore
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per l’azione moralizzatrice della Chiesa che mise al bando la promiscuità. C’era però
ancora l’idea che il bambino fosse un essere irrazionale da fortificare con un’educazione
mirata, tanto che nel ʼ700 nacque una specifica letteratura infantile. In Età Moderna,
cambia anche il modo di concepire la vita scolastica; si impartiva un’educazione più
specifica per età, spesso in collegi che, col tempo, furono frequentati anche dai ceti più
modesti. Una novità evidente già nel Rinascimento è, infatti, l’interesse per
l’educazione degli infanti. I collegi prendono in molti casi il posto della scuola libera
medievale. Da una semplice sala per le lezioni si passa a veri e propri istituti, prima per
l’istruzione dei poveri e poi aperti anche ad altri. Si riduce cosi la mescolanza medievale
tra studenti di età diversa nei pensionati e nelle camere, cosa che esprime un
atteggiamento nuovo che si manifesta davanti all’infanzia e alla gioventù. Compare per
la prima volta la nozione di “classi scolastiche”. Nell’iconografia popolare appaiono
insieme padre, madre e figli: è «la raffigurazione di un sentimento nuovo: il sentimento
della famiglia». Sentimento che «era ignoto al Medioevo» ed è «nato nel Quattro-
Cinquecento per giungere al vigore dell’espressione definitiva nel Seicento»10
3° gruppo di alunni. La vita familiare. Il sentimento familiare riguardante il bambino
si modifica molto nel passaggio dal medioevo all’età moderna. Le immagini (dipinti,
tavole, affreschi) dell’età medievale ci presentano spesso uomini al lavoro e solo in
seguito compaiono le donne e i figli nelle situazioni quotidiane. Si assiste a uno
sviluppo dei ritratti di famiglia, rappresentata soprattutto come nucleare e celebrata
spesso nella Sacra famiglia, ma abbondano anche le scene di vita quotidiana, ad
esempio la madre che allatta il bambino o che lo spidocchia. Nel Medioevo non esisteva
un sentimento familiare, contava solo il lignaggio, l’importanza di discendere da un
capostipite e di mantenere indiviso il patrimonio di famiglia, attraverso il diritto di
primogenitura. Il venir meno dell’indivisibilità del patrimonio contribuì a cambiare i
rapporti fra i membri familiari, così come l’abbandono dell’usanza medievale di
mandare i figli ancora piccoli presso altre famiglie a “fare apprendistato”. Nell’epoca
moderna però i padri devono rispettare il principio di severità, spesso il padre che usa di
tanto in tanto la frusta è proprio quello che ama il figlio. A partire dal ʼ600, tutto ciò
favorì una relazione emotiva che prima non esisteva, ne è testimonianza la
raffigurazione della famiglia raccolta in intimità intorno al focolare. In passato la casa
era il luogo dove si viveva, ma anche quello dove si svolgevano gli affari economici e
politici. La ricerca dell’intimità è testimoniata anche dalla trasformazione della casa, dal
ʼ700 scompaiono le stanze comunicanti tra loro, o in promiscuità con i domestici.
Come è facile vedere dunque il termine “famiglia” non ha sempre avuto lo stesso
significato. Così come noi la intendiamo è stata vista solo nel XIX secolo, quando si
comincia a parlare della famiglia non più come clan, un primitivo nucleo del quale si
entra a far parte con la nascita, ma di struttura che acquista significato sotto il profilo
sociale. La famiglia viene allora identificata con la società, essendo essa stessa società;
10 P. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Bari, Laterza, 2002, p. 413.
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prima forma di associazione a cui l’uomo aderisce per cause naturali. A partire dal
settecento la famiglia comincia ad appartarsi rispetto alla società, respingendola al di là
di una sfera privata sempre più estesa. Si avverte ora il bisogno di intimità e di
corrispondenza tra i membri costituenti uno specifico focolare domestico, rinsaldando
tra loro il legame attraverso abitudini e ideali di vita comuni. Nella famiglia moderna
nasce così un sentimento moderno: adesso la famiglia non è più solamente realtà
sociale, ma è anche realtà sentimentale. La famiglia si scopre comunità che fonda le sue
basi sul matrimonio d’amore. Per la prima volta si parla di amore coniugale, di fedeltà e
sostegno reciproco nella coppia. La famiglia moderna si è profondamente trasformata
quando ha modificato il suo atteggiamento nei riguardi dei figli. Il sentimento
dell’infanzia e quello della famiglia sono ora in relazione. Adesso l’affetto viene
riconosciuto e vissuto dai genitori tra di loro e nel rapporto con i figli. Vengono
formandosi i ruoli; la donna è moglie e madre con l’istinto materno non più soffocato,
ma apertamente espresso all’interno della famiglia. Coinvolto a poco a poco anche il
marito, l’uomo, il padre, che non si sottrae a sua volta a riconoscimenti d’affetto. I figli
diventano d’un tratto il centro della famiglia. È il momento dell’amore, l’inizio della
cosiddetta “morale familiare” nel senso che la famiglia produce gli individui e i loro
sentimenti.
IV ATTIVITA’
Malattie e vita del bambino nelle famiglie medievali
Scienze e Storia
Collocazione e finalità. Lo scopo dell’attività che
Svolgimento. Si tratta di un’attività che contempera lo studio storico e scientifico delle
malattie infantili del Medioevo e dell’epoca contemporanea con la statistica, in maniera
da offrire all’alunno testimonianze e spunti per riflettere sul nostro tempo, in particolare
sulla questione dei vaccini che ha suscitato un dibattito così vasto in Italia e in Europa.
Gli alunni ricercano dati sulle malattie infantili nel Medioevo, nel primo Novecento ed
oggi leggendo testi tratti da libri storici e individuano dalle descrizioni gli elementi
storici e scientifici certi, distinguendoli da altri elementi. Verificano alcuni documenti
storici ed imparano a classificarli. Si informano sulle malattie come: tifo, vaiolo, peste e
ne ricavano schede scientifiche. Successivamente riflettono attraverso un circle time
sulle opinioni più diffuse contro i vaccini.
Materiali di studio. Oltre ai materiali che facilmente si possono trovare su Internet,
proponiamo questi di seguito riportati.
La mortalità infantile nel Medioevo
Le malattie che più violentemente colpirono le popolazioni europee dell’alto Medioevo
non differirono né si modificarono sostanzialmente rispetto al periodo successivo, il
basso Medioevo, fino al XV secolo. Esse furono la lebbra, il vaiolo e la temutissima
peste bubbonica, che da sola falcidiò, già dai secoli dell’antichità, milioni di persone.
Due malattie, ancora a carattere epidemico, furono il “fuoco sacro” e l’influenza,
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apparsa nel 876, una della tante “pesti” mortali anche nei secoli successivi della storia.
Altre malattie turbarono gli uomini del tempo, impotenti di fronte a esse: la malaria, la
tubercolosi, la diarrea, lo scorbuto, il rachitismo, la “febbre cerebrale”, il morbillo, il
tifo, il tetano. La scarsa nutrizione e le condizioni di indigenza erano gli elementi che
rendevano mortali queste patologie, ora rare o irrilevanti. Nei ceti poveri il tasso di
mortalità era molto più elevato che tra i ricchi; e l’età dei bambini, fragile di natura, era
tristemente privilegiata (alcuni storici della demografia hanno azzardato per il periodo
medievale una vita media tra i venti e i trent’anni). I medici del tempo, non meno degli
autori di opere di carattere morale, si prodigavano in consigli, quanto meno quando si
rivolgevano ai ceti più elevati che avevano materialmente la possibilità di mettere in
pratica ciò che si suggeriva loro. In tempo di epidemia di peste Giovanni di Pagolo
Morelli, nei suoi Ricordi (sull’esempio dell’opera Consiglio contro la pestilenza del
medico Tommaso del Garbo), così istruiva il padre di famiglia benestante: “E togli casa
agiata pella tua famiglia, e non punto istretta, ma camere d’avanzo. E nella istate usa
cose fresche: buoni vini e piccoli (leggeri), de’ polli e de’ cavretti e de’ ventri o peducci
di castrone coll’aceto o lattuga, o de’ gamberi, se ne puoi avere. Istatti il dì di meriggio
al fresco: non dormire se puoi farlo, o tu dormi così a sedere. Usa d’un lattovaro
(composto farmaceutico somministrato per bocca) che fanno fare i medici di ribarbero:
danne a’ fanciulli, ché uccide i vermini. Mangia alcuna volta la mattina un’oncia di
cassia, così ne’ bucciuoli, e danne a’ fanciulli: fa d’averne in casa, e fresca, e del
zucchero e dell’acquarosa e del giulebbo (sciroppo denso di zucchero) …”. La carestia,
da sola, faceva stragi. La morte per fame colpiva i miserabili ma anche i più deboli
fisicamente: gli anziani, le donne, e i bambini.
1° Documento storico: la mortalità alla nascita. Il mercante fiorentino Gregorio Dati,
autore di un “libro di famiglia”, in cui alterna pagine di “ricordanze” familiari a conti
riguardanti spese e profitti della sua attività dell’arte della seta, è un esempio
eccezionale della testimonianza sull’alta mortalità infantile. Gregorio si sposò quattro
volte, e in ogni matrimonio generò dei figli, molti dei quali morirono. Vediamo qui
sotto il prospetto della famiglia al terzo matrimonio del mercante: Terzo matrimonio,
con Ginevra Brancacci (di anni 21, vedova, dopo quattro anni dal precedente
matrimonio, con un figlio di otto mesi), 28 maggio 1403 Figli avuti Manetto, 27 aprile
1404 (muore nel gennaio 1418) (Una bambina nata prematura), 18 marzo 1405 (muore
il 22 marzo 1405, non battezzata) Elisabetta, 8 giugno 1406 (muore il 21 febbraio
1413). Antonia, 4 giugno 1407 (muore di peste il 5 luglio 1420) Alessandra, 13 agosto
1408 (muore di peste il 1 luglio 1420) Niccolò, 31 luglio 1411 (muore il 22 ottobre
1411) Gerolamo, 1 ottobre 1412 Jacopo, 1 maggio 1415 (muore il 2 agosto 1419) Ghita,
24 aprile 1416 Betta, 11 gennaio 1417 Liza, 17 luglio 1419 (muore il 19 luglio 1419)
La terza moglie Ginevra muore il 7 settembre 1419, per le conseguenze dell’ultimo
parto
2° documento: le malattie portate dalla fame. È quanto si può leggere in una cronaca
tardo-medievale di Bologna: “I contadini si spostarono nelle città e per la fame
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cascavano per le contrade… et ogni giorno venia in ghiexia (chiesa) grande molte
famiglie de poveri per aver l’elemosina, ché continuo ne davano ogni giorno; fra quali
poveri vedevi morire molti giovani e puti (bambini) che morivano de fame in braze (in
braccio) alle madre loro, e una grande schiuma li vegnia (veniva) a la bocha (bocca)”.
Un’altra testimonianza così recita: “La vittuaglia venia mancando (dentro alla città di
Pistoia assediata dal nemico fiorentino) …e per fame che v’era dentro ventarono sì
spietati tra loro che lo padre cacciava li figliuoli e le figliuole, e lo figliuolo lo padre, e
l’marito la moglie; e molti v’ebbe che vollero morire prima di fame che venire a mano
di quelli dell’oste”. All’interno della città assediata l’esasperazione per la mancanza di
cibo era tale che non si guardava in faccia nessuno, neppure i parenti più stretti e la
fame oscurava gli affetti familiari, anche quelli più solidi tra genitori e figli.
(Fonte: file:///C:/Users/qwerty/Desktop/MedicoeBambino_0502_126%20(2).pdf)
La mortalità infantile tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento
Nell’Ottocento si verifica un generale aumento della popolazione italiana, dovuto
soprattutto al calo della mortalità, nonostante questa si mantenga ancora molto elevata
soprattutto per la forte incidenza delle malattie infettive e parassitarie, come morbillo e
scarlattina, e del sistema respiratorio e digerente. Si passa dai 25.017.000 abitanti al
momento dell’unificazione nazionale ai 34.671.000 nel 1911, con un incremento annuo
oscillante tra lo 0.6 e lo 0.8. Le malattie infettive, nell’ultimo ventennio del XIX secolo,
provocano da un terzo ad un quinto delle morti. Molto alti sono inoltre i costi in termini
di vite umane della tubercolosi, che provoca numerosi decessi ancora ai primi del
Novecento.
Maggiori cause di decessi sono comunque le malattie bronco- polmonari e gastro-
enteriche. Si intende che vi è una notevole differenza tra il nord e il sud del Paese, per
cui il picco di mortalità raggiunge punte massime nell’Italia settentrionale nel periodo
invernale, a causa di malattie alle vie respiratorie, nell’Italia meridionale in estate,
quando le temperature elevate provocano un più rapido deterioramento del cibo e quindi
maggiore incidenza di malattie dell’apparato digerente. Se la mortalità si mantiene,
però, molto elevata fino ai primi anni Ottanta dell’Ottocento, comincia poi a decrescere,
attestandosi al di sotto del 30% e intorno al 20% ai primi del Novecento.
Dal 1861 al 1870 per ogni mille bambini nati vivi se ne hanno ben 224 morti entro il
primo anno di vita, scesi a 214 nel periodo 1871- 1880. Il rischio di morte è quindi
altissimo nel primo anno di vita. Dopo il parto il periodo più pericoloso sembrerebbe
essere quello tra il quarto e il nono mese, momento in cui, per la crescita di un bambino,
subentrano fattori importanti come le condizioni igieniche e l’allattamento.
Entro il mese di vita, principali cause di morte sono l’atrofia infantile, l’anemia o
problemi nella crescita del neonato, mentre fino a due anni sono soprattutto le malattie
gastro- enteriche e quelle bronco- polmonari ancora una volta a mietere vittime.
Man mano che i piccoli crescono, dopo il secondo anno di vita, incidono fortemente le
malattie infettive: vaiolo, morbillo, scarlattina, difterite sono spesso mortali.
Molti studiosi hanno cercato di trovare un collegamento tra abitudini di allattamento e
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mortalità infantile. È opinione diffusa che i bambini non allattati siano più esposti a
causa di morte. Dati statistici rivelano come l’allattamento sia più frequente, a fine
Ottocento, nelle regioni meridionali e nei comuni rurali più che in quelli urbani.
Magari questo può avere un collegamento con la minore incidenza della mortalità
infantile proprio nel sud.
Nell’ultimo decennio del 1800, il quoziente di mortalità nel primo anno aveva quasi
raggiunto i livelli più bassi che si riscontravano all’epoca in Francia e in Inghilterra
(168 per mille contro 155 e 158 rispettivamente). In compenso, la mortalità post
infantile, ossia la probabilità di morire tra 1 e 5 anni, raggiungeva nel nostro Paese quasi
il doppio di quella di quei Paesi (144 per mille contro 88 in Inghilterra e 70 in Francia).
Il processo d’industrializzazione e il conseguente aumento dell’occupazione femminile
nel settore, non faceva che incrementare i livelli di mortalità infantile poiché, a causa
dei ritmi estenuanti di lavoro e la mancanza di tutele, molte donne erano costrette ad
abbandonare i neonati nei brefotrofi – dove la mortalità toccava livelli molto alti – o a
interrompere troppo precocemente l’allattamento al seno, fattori che aumentavano la
vulnerabilità della salute dei neonati. Anche la pratica diffusa del baliatico (dare a balia
il bambino per l’allattamento) metteva a rischio la vita dei bambini, specie quando essi
venivano allontanati dalle mura domestiche e dunque dalla protezione della famiglia. A
Milano, alle soglie dell’Unità, quasi un terzo di tutti i neonati era affidato al brefotrofio
che ospitava i bambini abbandonati. A Torino e a Napoli, alla vigilia della presa di
Roma, i bambini abbandonati erano oltre duemila. Di questo esercito di piccoli
diseredati, oltre il 60% non sopravviveva.
Il Novecento. In Italia agli inizi del Novecento il tasso di mortalità passa da circa 400
decessi sotto i 5 anni di vita ogni mille nati vivi a 4. Tuttavia si registrano picchi di
mortalità nei due periodi bellici, nei quali si assiste a un generale peggioramento delle
condizioni di vita, igieniche e sanitarie che colpiscono in maniera particolare le fasce
più vulnerabili della popolazione. Da sempre la guerra è nemica dell'infanzia, poiché
con il suo carico di lutti e distruzioni interrompe tragicamente l'età in cui ogni essere
umano ha bisogno assoluto di protezione e di cure. Anche quando i bambini non sono
direttamente coinvolti nei conflitti, perché precocemente arruolati, ne sono le prime
vittime indirette. Nel 1918-19 il picco assomma anche la mortalità dovuta all’epidemia
di influenza spagnola.
Ad un rapido confronto con i tassi di mortalità al 2009 di alcuni Paesi africani o asiatici,
sconcerta vedere che Ciad, Repubblica Democratica del Congo e Afghanistan, ad
esempio, presentano livelli di mortalità registrati in Italia negli anni Venti del
Novecento.
Alle soglie degli anni Venti del secolo scorso alcune malattie come la pellagra, il vaiolo
e il colera – che invece ancora oggi in molti Paesi in via di sviluppo provoca la morte di
migliaia di bambini soprattutto nelle situazioni di emergenza – stavano iniziando a
scomparire e contestualmente stavano lentamente migliorando le condizioni
gastroenteriche della popolazione italiana. Il lento ma crescente processo di
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modernizzazione allargava gradualmente le maglie del benessere rendendo più incisivi
gli interventi tecnico - scientifici di controllo sociale della malattia e della morte. Il
tasso di mortalità complessivo si dimezza nel periodo tra le due guerre, nel 1931 era di
170 per mille nati vivi mentre scende sotto il 50 negli anni Sessanta fino a raggiungere
ai giorni nostri il 4 per mille. Alla riduzione della mortalità nel tempo si va
progressivamente accompagnando un’evoluzione del quadro della mortalità, che vede la
progressiva scomparsa delle malattie infettive e l’emergere in termini relativi del peso
delle altre cause di morte, gruppo che passa dal 27% nel 1895 al 55% nel 1961 al 92%
nel 2008. Questo grande gruppo oggi include prevalentemente le malformazioni
congenite e le condizioni di origine perinatale.
Attualmente il 40% dei bambini che muoiono ogni anno, perde la vita per varie
complicazioni neonatali, mentre le principali cause “dirette” di morte dei bambini nei
primi 5 anni di vita sono: polmonite e altre infezioni respiratorie acute (18%); diarrea
(15%); malaria (7%); morbillo (4%); incidenti e ferite (4%); AiDs (2%), oltre a diverse
altre cause (10%). Per non parlare della malnutrizione, concausa della mortalità
infantile, un fenomeno che ha interessato, specie nel dopoguerra, tanti bambini italiani.
Ancora oggi, nel mondo in via di sviluppo, la malnutrizione contribuisce per un terzo
alle morti dei bambini sotto i 5 anni.
Fonte: https://www.unicef.it/Allegati/Rapporto%20UNICEF_ISTAT.pdf
V ATTIVITA’
Musiche dedicate ai figli e ai padri
Musica
Collocazione e finalità. Lo scopo dell’attività è di rendere consapevoli gli alunni
dell’importanza della musica per lo sviluppo infantile. Il primo veicolo per creare
relazioni nel bambino è la musica e la sonorità in generale. L’apprendimento infatti si
avvia ancor prima della nascita ed è concentrato tutto sull’aspetto sonoro ed uditivo. Già
a partire dal quarto mese di gestazione l’orecchio è formato e il feto ascolta la voce della
madre e le vibrazioni musicali.
Successivamente alla nascita, poi, la cognitività infantile comincia ad aprirsi al mondo
attraverso la musica e le sonorità; basti ricordare a questo proposito le “scatole dei
rumori” o la “serie di campanelli” ideati da Maria Montessori. Come ha poi dimostrato
Edwin E. Gordon il potenziale sonoro dei bambini a tre anni, se viene stimolato in
maniera costante, sviluppa nel bambino una maggiore elasticità mentale. La teoria di
Gordon si chiama Music Learning e propone una serie di materiale didattico rispondente
a tre criteri: varietà, complessità e ripetizione.
L’attività che si propone nasce dunque da questi contesti e intende sviluppare tale
aspetto apprenditivo.
Destinatari. Tutte le sezioni e tutte le classi.
Svolgimento. Riportiamo alcune attività che hanno in comune lo stesso ambito
concettuale dell’apprendimento musicale.
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Musica per i piccoli e musica per i grandi. Si ascoltano vari brani musicali in
sequenza non ordinata, in particolare brani nati come ninne nanne o come interludi per
bambini e successivamente brani giocosi e orecchiabili non creati per bambini. Si
chiede agli alunni quali di essi ritengono sia musica per bambini e quale per adulti,
inducendoli a descriverne le caratteristiche.
Che tipo di musica è? Successivamente si faranno ascoltare musiche di compositori
classici non scritte per bambini, ma che sembrano avere caratteristiche simili (si pensi
alle overtures di Rossini) e si chiederà se tali musiche possono essere ascritte alle
musiche infantili. E’ probabile che gli alunni, si lasceranno guidare dal pregiudizio e
indicheranno come musiche per l’infanzia, brani non scritti per l’infanzia. In questa
maniera comprenderanno che le caratteristiche musicali sono legate all’ascolto e allo
stato d’animo più che alle classificazioni formali.
Il dialogo padre figlio/a. Un’altra attività da poter proporre è un dialogo tra padre e
figlio/a rispetto ad alcuni contesti: il parco (cfr. il libro Chiedimi cosa mi piace), la
notte, il mare, la campagna, i monti, la festa. La musica può esprimere tale dialogo?
Gli alunni avranno a disposizione vari brani musicali e singolarmente o divisi per gruppi
devono abbinare i brani ai contesti e spiegare i motivi alla base della loro scelta: questa
musica mi sembra un dialogo nel parco perché … Alla fine i gruppi o gli alunni singoli
condivideranno in plenaria con i compagni le loro scelte e le descriveranno facendo
ascoltare i brani musicali e indicandone i contesti.
Una variante adatta ai più piccoli consiste nel fare ascoltare prima la musica e poi
chiedere a quali contesti vorrebbero abbinarla.
Questa musica assomiglia al mio papà. L’ultima attività proposta è molto divertente e
consiste nel chiedere agli alunni di individuare brani musicali, sulla base delle proprio
conoscenze (i più grandi) o sulla base degli esempi portati dall’insegnante (i più piccoli)
che descrivono il loro papà.
VI ATTIVITA’
Affetti e conflitti tra figli e padri
Ricerca documentaria e artistica
Italiano e Religione
Collocazione e finalità. La letteratura religiosa è adatta ad approfondire le relazioni di
parentela e in particolare quelle tra padri e figli, anche in relazione alla tradizione
cristiana che vede in Dio un padre.
Svolgimento. Si tratta di un’attività che attraverso brani letterari e religiosi sollecita gli
alunni a descrivere i conflitti che possono capitare tra padri e figli. Il docente propone
brani tratti dalla Bibbia, li contestualizza e chiede, alla fine della lettura e della
riflessione, di risolvere alcuni casi tipici attraverso le categorie descritte nei brani.
1° Brano: La parabola del figlio cambiato (cfr internet)
2° Brano: Paolo, Efesini 5, 22 – 33. “Figli, ubbidite nel Signore ai vostri genitori,
perché ciò è giusto. Onora tuo padre e tua madre affinché tu sia felice e abbia lunga
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vita sulla terra. E voi, padri, non irritate i vostri figli, ma allevateli nella disciplina e
nell’istruzione del Signore.”
3° brano: Paolo, Colossesi 3, 18 – 21. “Figli, ubbidite ai vostri genitori in ogni cosa,
poiché questo è gradito al Signore. Padri, non irritate i vostri figli, affinché non si
scoraggino”.
4° brano: Matteo 21,28-32. «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al
primo disse: Figlio, va' oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non
andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma
poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono:
«L'ultimo». E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano
avanti nel regno di Dio. È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete
creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur
avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli.
5° brano. Libro di Tobia, 4, 1-1-9. In quel giorno Tobi chiamò il figlio e gli disse:
«Qualora io muoia, dammi una sepoltura decorosa; onora tua madre e non abbandonarla
per tutti i giorni della sua vita; fà ciò che è di suo gradimento e non procurarle nessun
motivo di tristezza. Ricordati, figlio, che ha corso tanti pericoli per te, quando eri nel
suo seno. Quando morirà, dalle sepoltura presso di me in una medesima tomba. Ogni
giorno, o figlio, ricordati del Signore; non peccare né trasgredire i suoi comandi. Compi
opere buone in tutti i giorni della tua vita e non metterti per la strada dell'ingiustizia. Se
agirai con rettitudine, riusciranno le tue azioni, come quelle di chiunque pratichi la
giustizia. Dei tuoi beni fà elemosina. Non distogliere mai lo sguardo dal povero, così
non si leverà da te lo sguardo di Dio. La tua elemosina sia proporzionata ai beni che
possiedi: se hai molto, dà molto; se poco, non esitare a dare secondo quel poco. Così ti
preparerai un bel tesoro per il giorno del bisogno, poiché l'elemosina libera dalla morte
e salva dall'andare tra le tenebre. Per tutti quelli che la compiono, l'elemosina è un dono
prezioso davanti all'Altissimo. Guardati, o figlio, da ogni sorta di fornicazione. Ama, o
figlio, i tuoi fratelli; nel tuo cuore non concepire disprezzo per i tuoi fratelli, figli e figlie
del tuo popolo, e tra di loro scegliti la moglie. L'orgoglio infatti è causa di rovina e di
grande inquietudine. Nella pigrizia vi è povertà e miseria, perché l'ignavia è madre della
fame. Non rimandare la paga di chi lavora per te, ma a lui consegnala subito; se così
avrai servito Dio, ti sarà data la ricompensa. Poni attenzione, o figlio, in quanto fai e sii
ben educato in ogni tuo comportamento. Non fare a nessuno ciò che non piace a te. Non
bere vino fino all'ebbrezza e non avere per compagna del tuo viaggio l'ubriachezza. Dà
il tuo pane a chi ha fame e fà parte dei tuoi vestiti agli ignudi. Dà in elemosina quanto ti
sopravanza e il tuo occhio non guardi con malevolenza, quando fai l'elemosina. Versa il
tuo vino e deponi il tuo pane sulla tomba dei giusti, non darne invece ai
peccatori. Chiedi il parere ad ogni persona che sia saggia e non disprezzare nessun buon
consiglio. In ogni circostanza benedici il Signore e domanda che ti sia guida nelle tue
vie e che i tuoi sentieri e i tuoi desideri giungano a buon fine, poiché nessun popolo
possiede la saggezza, ma è il Signore che elargisce ogni bene. Il Signore esalta o umilia
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chi vuole fino nella regione sotterranea. Infine, o figlio, conserva nella mente questi
comandamenti, non lasciare che si cancellino dal tuo cuore.
Casi tipici. Il padre ubriaco picchia ogni sera il figlio. / Per un’eredità i fratelli sono uno
contro l’altro / Il figlio stima poco il padre perché ha un lavoro umile e non può
vantarsene. / Il padre non può mantenere agli studi universitari il figlio e per questo è
umiliato continuamente. / Il padre è deluso dal figlio che ha scelto un lavoro e un modo
di vita considerati poco dignitosi. / Il figlio frequenta amici poco stimati dal padre e
riceve continui rifiuti di uscire.
VII ATTIVITA’
Come le lingue esprimono i rapporti tra padri e figli
Italiano, Storia, Lingue Comunitarie
Collocazione e finalità. Lo scopo dell’attività è di svolgere un viaggio nelle parole alla
ricerca della comune tradizione linguistica occidentale e dare dignità alle lingue come
patrimonio non solo lessicale, ma storico e antropologico.
Destinatari. Gli alunni della scuola media e degli ultimi due anni delle classi primarie.
Se adattate, tuttavia, le attività e semplificati i percorsi possono tranquillamente essere
proposte alle sezioni Alice e Momo della scuola dell’infanzia.
Svolgimento. L’attività può aprirsi con una semplice occhiata ai vocabolari multilingue
alla ricerca delle analogie e delle differenze riguardanti il lessico parentale, attività che
in una certa misura già si svolge regolarmente, e continuare con un percorso di
approfondimento multilinguistico che potrebbe farsi anche a classi aperte: inglese,
francese, spagnolo.
Non bisogna pensare che la ricerca del significato delle parole e della loro origine siano
fuori della portata degli alunni e poco attraenti. Spesso dimentichiamo che i bambini e i
ragazzi non hanno ancora i fondamenti linguistici per poter comprendere da dove
vengono le parole che usano. Per questo sarebbe bello iniziare uno studio etimologico a
partire dalla parola padre.
Si offre in lettura il documento n. 1 oppure l’insegnante lo riassume e a partire da quella
piccola ed emblematica storia si cercano insieme le origini di altre parole attinenti a
quelli di padre: mamma, figlio, paternità, maternità. Spesso queste parole conducono i
ragazzi a viaggiare in mondi che conoscono poco. Per esempio paternelle, maternelle in
Francia, in Belgio e nei paesi anglofoni non sta solo a significare maternità o paternità,
ma anche particolari servizi o politiche sociali, utilissimi da conoscere per i nostri
giovani europei. Qui si parla non di una semplice traduzione, ma di un lavoro di ricerca
che spesso manca nella scuola in quanto ritenuto difficile.
Più originale è invece cercare di individuare brani, anche con poche frasi, che ci parlino
di come sono vissuti i rapporti all’interno della famiglia nei paesi comunitari, attraverso
brani tratti da romanzi o novelle. Anche qui un esempio potrebbe essere la lettura, svolta
in italiano e poi commentata del libro: “Nove braccia spalancate”, già adottato da alcune
classi, che ci dice molto dei costumi nordici.
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Si può partire dal brano denominato Documento 1 che sviluppa una lunga ed
interessante riflessione sul termine “padre” e continuare con il Documento 2 per avviare
una conversazione con gli alunni circa l’europeizzazione delle famiglie. A seguire altri
documenti utili al lavoro.
Documento 1. I nomi del padre Accanto a padre, voce solo denotativa che indica "uomo che ha generato un
figlio, considerato rispetto a quest'ultimo" , l'italiano comune attuale dispone di
due forme familiari affettive usate soprattutto come allocutivi: babbo e papà.
Le due voci si sono affermate in epoche diverse e con percorsi differenti,
"affrancandosi" dal panorama delle varietà locali sottostanti in cui ancora nella
prima metà del secolo scorso dominavano, sia al nord che al sud, derivati dal
latino patrem contrastati da babbo diffuso in Sardegna, Toscana, Romagna,
Umbria, Marche e Lazio settentrionale, oltre che da tata, in Lazio, Abruzzo,
Puglia settentrionale e Campania, e atta in Puglia, Basilicata e Campania
meridionale. Anche papà, benché a fianco di altri termini, era già diffuso in
Piemonte, lungo la valle del Po, in Veneto, a Roma, in Umbria e nelle Marche.
Sia papà che babbo (come anche il meridionale tata e mamma o mammà) sono
forme tipiche del primissimo linguaggio infantile, costituite dalla ripetizione di
una sillaba, perlopiù formata dalla vocale a e da una consonante bilabiale
(p, b, m), i suoni più facili da produrre per i bambini. Mentre babbo è una forma
"autoctona", papà è effettivamente un francesismo, benché di "vecchia data",
tanto che se ne trova testimonianza già nel XVIII secolo per il veneziano e, nella
variante pappà, appare già usato nel XVI secolo da un autore toscano, Pietro
Aretino, in un dialogo dei suoi Ragionamenti, in libera alternanza con babbo:
"Chi è la vostra figlia? Pappà, babbino, babbetto, non sono io il vostro cucco?".
La storia del progressivo affermarsi delle due forme può essere letta attraverso le
testimonianze lessicografiche. Babbo compare sostanzialmente invariato dalla
prima fino alla quarta edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca,
dove si chiarisce che “dicesi solo da' piccoli fanciulli, e ancora balbuzienti” e si
citano il volgarizzamento Libro della sanità del corpo di Aldobrandino da Siena
(“Sì come è a dire, mamma, pappo, babbo, bombo”) che rimanda al linguaggio
infantile, e il XXXIII canto dell'Inferno (“Che non è impresa da pigliare a gabbo
Descriver fondo a tutto l'Universo, Né da lingua, che chiami mamma, o babbo”).
La "V Crusca" è più esplicita: “è voce, per lo più, de' fanciulli e, scrivendo, dello
stile familiare e giocoso. Raddoppiamento della sillaba ba ch'è uno de' primi
suoni che con facilità articoli il fanciullo, e che ha analogia in quasi tutte le
lingue”.
Non tutti però la pensavano allo stesso modo: nella "nuova edizione con duemila
aggiunte per cura di Giuseppe Frizzi" del Vocabolario dei sinonimi della lingua
italiana di Pietro Fanfani (1865), al paragrafo intitolato BABBO, PADRE,
PAPÀ si legge:
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Padre è la voce vera e nobile, la quale si riferisce a tutti i padri in generale; e si
trasporta a significare paternità spirituale, e comecchessia Colui che primo ha
dato origine a una cosa. – Babbo è voce da fanciulli, ed è usata anche dagli
adulti a significazione di affetto, e suol dirsi parlando del proprio padre o del
padre di colui a cui parliamo. – La voce Papà è una leziosaggine francese che
suona nelle bocche di quegli sciocchi, i quali si pensano di mostrarsi più compiti
scimmiottando gli stranieri.
All'inizio del '900, per quanto ancora avversato da alcuni – nel Vocabolario
italiano della lingua parlata di Giuseppe Rigutini e Pietro Fanfani alla sua terza
edizione (1903) si nota che babbo è la voce dei bambini e "s'intende di quelli del
popolo, ché per quelli de' signori c'è la voce Papà", trasferendo la questione sul
piano sociale come già aveva fatto Arlìa – papà è accolto e sostenuto da Alfredo
Panzini nel suo Dizionario moderno (1905):
mammà e papà Non piacciono ad alcuni puristi, e sono ritenuti per gallicismi.
Storicamente ciò è sicuro; ma queste voci hanno anche tal valore onomatopeico
da diventare accettabili ovunque. Il Pascoli in una sua nota in Fior da fiore,
scrive: "Papà: si vuole che non sia italiano papà! Vorrà dire che i bimbi coi loro
labbruzzi fanno, senza che nessuno abbia loro insegnato, dei gallicismi! E si dice
altrettanto di mammà. O bambini: dite papà e mammà quanto vi pare e piace:
sono parole della lingua universale".
Nella seconda metà del Novecento Aldo Gabrielli, nel Dizionario linguistico
moderno: guida pratica per scrivere e parlar bene (1956), alla
voce babbo rimanda per la trattazione a papà, dove si legge:
è comunemente considerato francesismo, come derivato cioè dal
francese papa (che si lègge appunto "papà"); ma è piuttòsto vóce onomatopèica
infantile, che ripète il balbettìo puro e sémplice dei bimbi di tutto il móndo. I
puristi sostèngono che si dèbba dir babbo (usato peraltro sólo in alcune regióni),
la quale è pur éssa vóce onomatopèica infantile: óra nói pensiamo che non ci sia
da segnar barrière nella vóce istintiva dei bimbi, sia éssa pa-pa o ba-ba, e non
prometteremo "belle nerbate" [...] a coloro che dicono papà invece di bab
http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-
linguistica/domande-risposte/nomi-padrebo. Fonte:
Documento 2. Rintracciare un’etimologia per la radice della parola padre che si
ritrova in quasi tutte le lingue indoeuropee non è semplice e a tutt’oggi ci sono
solo numerose ipotesi. Il termine “padre” sta ad indicare l’uomo che ha generato
rispetto alla prole e anche all’ambito familiare. Padre deriva dal latino pater, per
indicare il nome del capofamiglia, che, a sua volta, contiene la radice
“pa” di pascere (nutrire, proteggere). Si ritiene che la radice della parola derivi
da po(i), col significato di proteggere ed escludono che il significato
di pater possa ricondursi alla funzione procreativa: è molto probabile che in
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origine questa parola non avesse nulla a che fare con il ruolo biologico del padre
dal momento che, per lungo tempo dopo la comparsa dell’uomo, si ignorò il
rapporto tra unione sessuale, gravidanza e parto e si attribuiva la fecondazione
della donna a elementi naturali, come la luna, un fiore, un frutto, una stella, la
pioggia, il vento escludendo qualsiasi forma di partenogenesi.
Secondo diversi studi storici sulle culture primitive è durante il Neolitico che
avviene la scoperta, da parte dei nostri progenitori, della connessione tra il
concepimento e la procreazione e quindi, della presenza dell’elemento maschile
nell’evento della nascita. Il concetto di paternità fisiologica nasce a causa dei
cambiamenti di abitudini delle popolazioni primitive e dell’intensificarsi
dell’attività dell’allevamento, che permise l’osservazione diretta dei
comportamenti degli animali in cattività.
L’etimologia viene in aiuto a delimitare un’area di significato e di senso che
acquista particolare valore anche in relazione alle trasformazioni storiche e
culturali dello stesso concetto di padre. Infatti, nel corso della storia, questi
significati hanno avuto un valore d’uso e quindi accezioni molto diverse che
spesso si sono riflesse all’interno delle concezioni giuridiche, dei codici. Quella
del padre è comunque una figura dalle mille sfaccettature, spesso conflittuali,
difficili da identificare nel suo ruolo e nella sua funzione. Un aspetto però, si è
perpetuato nel tempo, fino a qualche anno fa: il padre come gestore dell’autorità
e del potere. Egli incarnava l’autorità, nel bene e nel male, in molteplici modi,
tenendo in alcuni casi soggiogati a sé la moglie e i figli anche fino a tarda età e
difficilmente lasciava la leva del comando, controllando la vita dell’intera
famiglia. Fonte: https://massimilianostocchi.it/2018/03/11/la-paternita-nella-
storia/#Etimologia_della_parola_padre
Documento n. 3. Bastiaan e Meike sono due cittadini olandesi, di Amsterdam e
di Rotterdam. Durante la loro vita universitaria hanno aderito al programma
ERASMUS, studiando a Milano l’uno filologia romanza, l’altra economia.
Conosciutisi in Italia, hanno intrapreso una relazione che è poi divenuta una
convivenza. Per motivi di lavoro, si sono entrambi trasferiti a Bruxelles nel
2011; nel 2012 nasce loro figlia, Kristine; nel settembre 2016 si sposano a
Rotterdam, optando per il regime di comunione legale dei beni, per poi
continuare la loro vita familiare a Bruxelles. Il 31.12.2017 Bastiaan vince un
concorso universitario in Polonia, e si trasferisce a Varsavia, dove i coniugi
acquistano una casa; pochi mesi dopo, Meike viene nominata Amministratore
delegato di società francese, e il 30.03.2018 si trasferisce a Parigi con Kristine,
in casa acquistata sempre da entrambi i coniugi. 11
11 Cfr http://www.rivistafamilia.it/2019/09/05/le-famiglie-transnazionali-nellunione-
europea/
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Documento. 4 In Europa, la casa, i figli, le pulizie e la spesa sono ancora
un affaire molto femminile. A dirlo è uno studio della Commissione
europea secondo cui, in Europa, gli uomini lavorano in media per 39 ore la
settimana, mentre le donne 33. Allo stesso tempo però le donne spendono ben 22
ore non retribuite in attività di cura e lavori domestici, mentre il monte orario
della controparte maschile si ferma a 10. Una situazione dettata sicuramente da
stigmi culturali ma anche da una politica del lavoro che non è più al passo con i
tempi. Da qui la necessità di un cambio di prospettiva, per uscire dallo schema
dualistico uomo-donna e iniziare a pensare partendo dal concetto più fluido
di work-life balance, ovvero di equilibrio tra lavoro e vita privata. Un
ragionamento ancora più urgente nel momento in cui in famiglia entra in gioco
uno o più figli.
Documento 5. Mamma e papà suonano allo stesso modo in tutte le lingue del
mondo. Perché? Una teoria era che essendo le lingue del continente europeo
quasi tutto del medesimo ceppo indoeuropeo i due termini hanno una comune
origine dalla quale si sono distanziati ben poco: così in francese "maman" e
"papa", in inglese "mom" e "dad" in cui la fonetica è simile alla "p" o alla "b" (di
babbo, per esempio). "Mamma" e "papa" si dice in norvegese, che è una lingua
germanica quindi, alla sommità dell'albero genealogico, indoeuropea. In hindi si
dice "man", e anche qui le teorie ipotizzavano una parentela linguistica
ancestrale con gli idiomi europei. A intuire la chiave interpretativa
dell'universalità dei termini "mamma" e "papà" (mai modificati nel tempo come
avviene alle parole) è stato il linguista Roman Jakobson che nel '59 ebbe l'idea di
associarli alle prime articolazioni fonetiche dei neonati che cominciano a fare le
"prove" di parlato. Così il suono "aah" esce per primo, il più facile da
pronunciare: basta aprire la bocca e fiatare, e le pause sono indicate (come
accade agli adulti) da "mm". Il ripetitivo ma-ma viene interpretato da chi
accudisce il baby - a quest'età la madre - come una parola: "mamma". È l'adulto
a dare il valore semantico, restituendo ai piccoli una parola caricata con un
significato. L'evoluzione del piccolo lo porta in un secondo momento a emettere
un nuovo suono partendo da quello ormai acquisito a labbra chiuse (il fonema
"mm") col soffio che le apre dando vita alla "p" (o "b") e alla coppia "d" e "t" se
la lingua occlude sul palato. Perché questo suono viene associato al padre?
Perché è la seconda persona immediatamente vicina dopo la madre, anche se in
realtà i bimbi stanno solo giocando con la bocca per sentire i suoni che riescono
a fare. La linguista Johanna Nichols ha esteso questo modello ai pronomi "me" e
"te/tu". Il fonema associato è comune a molte lingue, dal francese ("moi" e "toi")
al russo che ha "menja" e "tebja". In inglese "you" e lo stesso suono, e per di più
nella lingua shakespeariana si scriveva "thou". Quindi la Nichols ipotizza che lo
schema del suono "m" associato alla prossimità si utilizza per indicare il me
medesimo (il neonato non si sente ancora pienamente differenziato dalla madre)
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e il fonema "t" si aggancia all'altro da me, ma il più vicino di tutti (il padre). Già
nel passaggio successivo dell'idioma, il pronome appunto, comincia però ad
agire la differenziazione linguistica: non c'è la stessa uniformità di "mama" e
"papa" in tutte le lingue del mondo. In cinese per esempio i pronomi sono "wo" e
"ni", in indonesiano "saya" e "anda". È il primo passo della Babele. Fonte:
https://www.gqitalia.it/news/2015/10/16/perche-si-dice-mamma-e-papa-quasi-
ogni-lingua