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ABITARE Inchiesta sulla casa L’acquisto resta un mirag- gio e l’affitto discrimina pag. 18 MIGRANTI L’“esodo” del 1991 Il filo che lega Albania, Eritrea e Italia pag. 33 ECONOMIE SOLIDALI I grani antichi in Sardegna Le pratiche partecipate che recuperano la tradizione pag. 47 CINEMA La forza del documentario Il coraggio degli autori di un genere esplorativo pag. 66 Una mano di verde La sostenibilità raccontata dalle imprese multinazionali, tra marketing e realtà Mensile di informazione indipendente Numero 184 / Luglio-Agosto 2016 4,00 € Spedizione in a.p. - d.l. 353/2003 Art.1, Comma 1, DCB Milano - Contiene I.C.

Una mano di verde - Altreconomia · 2018. 6. 12. · bilità dei media, dei social network e di tutte quelle persone che, attraverso di essi, hanno alimentato odio e acrimonia: la

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ABITAREInchiesta sulla casa L’acquisto resta un mirag-gio e l’affitto discriminapag. 18

MIGRANTIL’“esodo” del 1991 Il filo che lega Albania, Eritrea e Italiapag. 33

ECONOMIE SOLIDALII grani antichi in Sardegna Le pratiche partecipate che recuperano la tradizione pag. 47

CINEMALa forza del documentario Il coraggio degli autori di un genere esplorativo pag. 66

Una mano di verdeLa sostenibilità raccontata dalle imprese multinazionali, tra marketing e realtà

Mensile di informazione indipendenteNumero 184 / Luglio-Agosto 20164,00 €

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Magari, chi lo sa, è questo che il ventunesimo secolo ha in serbo per noi: lo smantellamento delle Grandi Cose. Grandi bombe, grandi dighe, grandi ideologie, grandi contraddizioni, grandi Paesi, grandi guerre, grandi eroi, grandi sbagli. Magari sarà il secolo delle Piccole Cose

Arundhati RoyArundhati Roy è una scrittrice indiana. Con il suo primo (e finora unico) romanzo, “Il Dio delle piccole Cose” (1996) ha vinto il Premio Booker. Questo brano è tratto dal saggio “La fine delle illusioni” (1999)

PAGINA UNO

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PER INFORMAZIONI:

Progetto Cambiamo registro!www.altreconomia.it/cambiamoregistro—[email protected]—tel. 02-89919890

“Cambiamo registro!” è il progetto di Altreconomia, sostenuto da Fondazione Cariplo, dedicato agli studenti delle scuole superiori lombarde: incontri formativi con i giornalisti della rivista sui temi dell’economia solidale e degli stili di vita sostenibili. L’iniziativa non ha alcun costo per studenti e istituti.

Il 1° maggio Altreconomia ha ricevuto per Cambiamo registro! il premio “Io vivo sostenibile”, promosso dall’Associazione Ambientevivo

Con il contributo di:

Il progetto ha ricevuto il premio “Io vivo sostenibile” 2016

Cambiamo registro!

8 mesi

46 scuole

112 incontri

231 classi

4.000 studenti

Un successo che prosegue

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3 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

Editoriale di Pietro Raitano

dai tratti duri, completamente glabro a eccezione per i baf-fetti hitleriani, Julius Streicher apparve quasi irriconoscibile -emaciato, spettinato- sul banco degli imputati del processo di

Norimberga, che esattamente 70 anni fa si celebrava per punire i “principali criminali di guerra” del Terzo Reich. Fu condannato a morte per “crimini contro l’umanità” benché non fosse un militare (ma fu un dirigente del regime nazista). Sin dal 1923 -dieci anni prima dunque dell’ascesa di Hitler- Streicher era infatti soprattutto l’editore di una pubblicazio-ne violentemente antisemita, Der Stürmer (“L’attaccante”), settimanale illustrato che rag-giunse la tiratura di quasi 500.000 copie. Finì a Norimberga con l’accusa di essere uno dei principali istigatori dell’odio razziale nei confronti della popolazione ebraica e non solo. Il Tribunale internazionale (una realtà fino ad allora inedita nella storia) riconobbe per la prima volta in maniera lampante la responsabilità dell’utilizzo di talune parole -della paro-la in generale- in caso di crimini efferati. Più recentemente, nel 1994, durante i cento gior-ni delle violenze in Rwanda dove morirono un milione di tutsi e hutu moderati, l’emittente radiofonica “Radio Mille Colline” -nota anche come “radio machete”- fu uno dei più “sini-stri esempi di come i media possono favorire lo sterminio di massa” (Fulvio Beltrami). Mandiamo in stampa questo numero della rivista pochi giorno dopo l’assassinio della de-putata laburista Jo Cox -uccisa per le sue posizioni di integrazione e accoglienza- e della strage omofoba di Orlando. Nell’uno e nell’altro caso sono emerse evidenti le responsa-bilità dei media, dei social network e di tutte quelle persone che, attraverso di essi, hanno alimentato odio e acrimonia: la verità è che a furia di inneggiare ai fucili, qualcuno finisce per imbracciarli davvero (soprattutto se si comprano anche al supermercato).A partire dal 1936, la casa editrice Stürmer-Verlag di proprietà di Streicher intraprese an-che la pubblicazione di libri per bambini. Illustrati, contenevano filastrocche inneggianti la supremazia della razza ariana e i pericoli di “contaminazione”. È nelle scuole che inizia il lavoro di responsabilizzazione della parola -insieme, o a volte in contrasto, con le famiglie-. Ecco perché forse non diamo mai abbastanza riconoscimento al ruolo indispensabile di maestri e insegnanti, categoria perlopiù bistrattata: il ruolo di chi contribuisce alla formazione della coscienza critica degli individui. In un Paese di furbi “che cercano sempre di approfittare degli altri” come l’Italia, scriveva Bruno Munari sulla rivista Azione non violenta nel 1998, “se non cambiamo la mentalità dei bambini, se non in-segniamo loro che essere furbi è una scelta arida, non riusciremo ad aprire una via verso la civiltà”. Le scuole sono chiuse e riapriranno a settembre. I bambini, le bambine, i ragaz-zi e le ragazze che vi studiano oggi sono le donne e gli uomini che presto affronteranno le grandi sfide della nostra epoca: il cambiamento climatico, i conflitti, le migrazioni, la di-suguaglianza. Emergenze alle quali noi “adulti” ci siamo addirittura assuefatti, e che non fanno quasi più notizia (ma non vale per tutti: “Non cambiare mai, non rassegnarci, non abituarci all’orrore. Se succedesse a me, l’anestesia del cuore, preferirei morire. Tutta la mia energia è nel fare, nell’agire, perché ho dovere e responsabilità, ma una dose è per di-fendere la mia capacità di piangere, di urlare e quindi di ridere, se arrivano vivi” ha scritto il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini). Le affronteranno meglio di quanto forse abbiamo saputo fare noi.

Per tutti voi che ci leggete, questo è il numero estivo di luglio e agosto. L’appuntamento con la rivista è per settembre, con l’apertura delle scuole. Ma il nostro lavoro non si ferma. Dalla seconda metà di luglio, date un occhio al nostro sito www.altreconomia.it e troverete una grande novità: un portale completamente nuovo, pensato per completare e arricchire il nostro modo di fare giornalismo indipendente e responsabile.

Un uomo A settant’anni dal processo di Norimberga e dal giudizio sull’informazione di regime, la responsabilità dei media nella costruzione dei discorsi d’odio è ancora centrale. Lo dimostrano la strage di Orlando e l’omicidio di Jo Cox, nel Regno Unito

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4 AltreconomiaNumero 184

Direttore responsabile Pietro [email protected]

Redazione Duccio [email protected]

Luca [email protected]

GraficoLaura [email protected]

Hanno scritto in questo numero Elvira CoronaLuigi MontagniniAlessandro LeograndeStefano CaseriniLorenzo GuadagnucciFederica SassoIlaria MadamaChiara SpadaroPierpaolo RomaniMassimo AcanforaMaurizio TorrettiPaolo PileriTomaso MontanariStefano Zoja

Altreconomia, con parole tue

Altreconomia è un mensile d’informazione indipendente:

1. È di proprietà di una cooperativa composta soprattutto da lettori

2. Non riceve finanziamenti pubblici

3. Limita e seleziona con criteri etici le inserzioni pubblicitarie

Se lo acquisti su strada, 3 euro su 4 del prezzo di copertina vanno al rivenditore

Tutti i numeri dal 1999 a oggi sono sul nostro sito. Visita: www.altreconomia.it/archivio

Direzione e redazione tel. 02-89.91.98.90 fax [email protected]

Segreteria e abbonamentiSilvia [email protected]@altreconomia.it

AmministrazioneRoberto [email protected]

Per ogni esigenza, i soci possono scrivere a [email protected]

EditoreAltra Economia società cooperativa, via C. Cattaneo 6, 22063 CantùAltra Economia Soc. Coop. conta oggi 649 soci, 598 persone fisiche e 51 per-sone giuridiche. Il capitale sociale è di 193.100 euro. Le realtà del commercio equo e solidale sono 30.

Registrazione del tribunale di Milano, n. 791, 24.12.1999 Sped. abb. postale 45% art.2, comma 20/B, legge 662/96, Filiale di Milano

Progetto grafico Luca Pitoni e Tomo Tomo

Stampa New Press - ComoStampato su carta riciclata Imbustato in Mater Bi®

Pubblicità Matteo Ippolito [email protected]

Chiuso in redazione il 20 giugno 2016 alle 11.00

Colophon

In copertina Foto shutterstock.com

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5 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

Sommario 184AltreconomiaLuglio/Agosto 2016

Rubriche

OBIETTIVOa cura della redazionepag. 6

MONITORa cura della redazionepag. 8

IL VOLO A PEDALIdi Luigi Montagninipag. 32

BUONE NOTIZIE SUL CLIMAdi Stefano Caserinipag. 36

DISTRATTI DALLA LIBERTÀdi Lorenzo Guadagnuccipag. 40

SOCIAL COHESION DAYSIlaria Madamapag. 46

AVVISO PUBBLICOdi Pierpaolo Romanipag. 50

PIANO TERRAdi Paolo Pileripag. 60

UN VOLTO CHE CI SOMIGLIAdi Tomaso Montanaripag. 65

LA PAGINA DEI LIBRAI a cura di Claudio Moretti pag. 70

AGENDA a cura della redazione pag. 71

IDEE ERETICHEdi Roberto Mancinipag. 72

Terzo tempo

MUSICADaniele Silvestri L’acrobata che immagina il futurodi Luca Martinellipag. 62

CINEMAI racconti e la qualità del documentario italianodi Stefano Zojapag. 66

In copertina

MULTINAZIONALILa sostenibilità, a parole Abbiamo letto i bilanci sociali delle grandi imprese. Ecco quello che non c’è scrittodi Duccio Facchini pag. 10

Primo tempo

DIRITTILe due Italie sulla soglia di casa. Tra sfratti, invenduto e periferie di Luca Martinellipag. 18

LAVOROLa fabbrica Fiat in Serbia e il senso per gli affari di Sergio Marchionnedi Duccio Facchinipag. 22

ARMIViaggio a Domusnovas, la città della fabbrica d’armi volate in Yemendi Elvira Coronapag. 26

RICERCABrevetti e marchi: l’incentivo fiscale che non stimola l’innovazionedi Duccio Facchinipag. 29

IMMIGRAZIONEAlbania, Eritrea, Italia: il 1991 e le radici culturali dell’“esodo”di Alessandro Leograndepag. 33

DIRITTIDopo quindici anni il G8 di Genova è una ferita aperta per l’Italiadi Lorenzo Guadagnuccipag. 37

Secondo tempo

ATTIVISMOIsraele/Palestina: dieci fotografi contro il muerodi Federica Sassopag. 42

ECONOMIE SOLIDALIIl grano della tradizione ritorna nei campi della Sardegna. Ed è “bio”di Chiara Spadaropag. 47

I LIBRI DI ALTRECONOMIA“Contrappunti”, ecco la collana che suona le note della legalitàdi Massimo Acanforapag. 51

AMBIENTEA passeggio nel paesaggio sonoro, sui sentieri del rumore e del silenziodi Maurizio Torrettipag. 52

ECONOMIE SOLIDALICosì il mutualismo solidale sta crescendo tra le vignedi Luca Martinellipag. 56

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Fonte: elaborazione di Altreconomia su dati EPIA/Greenpeace

Fonte: Eurostat, 2016

Fonte: Terna, 2016

1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012 2014 2016 2018 2020

6 AltreconomiaNumero 184

OBIETTIVO

PRODUZIONE DI ENERGIA ELETTRICA DA FONTI RINNOVABILI IN EUROPA NEL 2015

La rivoluzione delle rinnovabiliFoto di Ugo Salvoni/FERA (Fabbrica Energie Rinnovabili Alternative)

Nel 2009 l’Italia decise di tornare al nucleare, con la costruzione di 4 nuove centrali, per una potenza complessiva di 6.400 MW. Nel 2011, quella decisione venne bocciata da un referendum popolare: fermato lo spreco di oltre 20 miliardi di euro. Tra il 2013 e maggio 2016, sono state messe fuori servizio centrali termoelettriche alimentate da gas e carbone per una capacità complessiva di 9.338 MW.

765.489 Solare* + idroelettrico + eolico* 2014

25% del totale dell’energia elettrica prodotta nei 28 Paesi dell’UE

94,2% del totale dell’energia nucleare prodotta nello stesso anno

+25,8%La crescita di eolico e fotovoltaico nei 28 Paesi dell’Ue dal 2013

PRODUZIONE DI ENERGIA ELETTRICA DA FONTI RINNOVABILI IN ITALIA

25,2%

28,1% 43,8%

2009 2011 2014 2009

2014

+ 231,9%Incremento dell’energia eolica prodotta in Italia 2009

2014

+ 3.294,6%Incremento dell’energia solare prodotta in Italia

FOTOVOLTAICO INSTALLATO: LA REALTÀ SUPERA LE PREVISIONI

Dati reali20112008200720062004

400

350

300

250

200

150

100

50

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La crescita della potenza degli impianti fotovoltaici è avvenuta seguendo una “curva inattesa”, con un’impennata che nemmeno le stime più recenti, quelle del 2011, avevano saputo prevedere

in GWh

in GW

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7 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

La Fattoria eolica di Santa Luce, nel

pisano. Dotato di 13 aerogeneratori, è il

più grande parco eolico installato in

Toscana. “Copre” il fabbisogno elettrico

di 22mila nuclei domestici

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8 AltreconomiaNumero 184

Monitor

A mano armata: gli Usa dopo Orlando

Nord America

Il 12 giugno, Omar Mateen ha ucciso 49 persone all’interno della discote-ca “Pulse”, a Orlando, in Florida. Tra le vittime ci sono anche 27 feriti, ricove-rati in ospedale, sei dei quali in gravi condizioni (mentre andiamo in stampa). Il giovane, americano di origine afghana, imbraccia-va un fucile semiautomatico AR-15. Negli Stati Uniti, il tasso di omicidi con armi da fuoco è di 29,7 per milione (di abitanti). In Canada è invece sei volte inferiore (5,1). Negli USA, secondo la ricerca “Small Arms Survey Research Notes”, 89 abitanti su 100 abitanti possiedono un’arma. In Canada, invece, meno del 6 per cento della popolazione è in possesso di una licenza che permette di acquistarne. Quelle in circolazione sono, comples-sivamente, meno di 8 milioni (contro almeno 280 milioni negli Stati Uniti).

Migranti, le “ricollocazioni” sono inesistentiEuropa

Il programma di ricollocazione e rein-sediamento dei migranti dell’Unione europea è fallito. All’inizio del giugno di quest’anno, infatti, le persone “rein-sediate” sono state 7.272, provenienti prevalentemente da Turchia, Libano e Giordania e “accolte” da 19 Paesi. Eppure il 20 luglio 2015 gli Stati dell’Ue avevano deciso di coinvolgerne 22.504.Esito simile per le “ricollocazioni”: il numero di migranti coinvolti entro il 14 giugno è stato pari a 2.280 (1.503 dalla Grecia e 777 dall’Italia). “Nonostante questo dato positivo -ha commentato la Commissione europea- si è ancora molto lontani dall’obiettivo fissato di ricollocare 6.000 persone al mese. Gli Stati membri sono ben lungi dal rispet-tare i propri impegni [...]. Attualmente, la media mensile di ricollocazioni dalla Grecia è di 260-300 persone”.Al 20 giugno 2016, secondo dati UNHCR, sono giunte in Europa dall’ini-zio dell’anno dal Mediterraneo 211.563 persone.

Il Perù non torna al passato. Nicaragua: Ortega è per sempre America Latina

Il ballottaggio del 5 giugno ha decretato la sconfitta di Keiko Fujimori alle elezioni peruviane. La figlia dell’ex presidente Alberto (che attualmente sta scontando una condanna a 25 anni di carcere per vari delitti commessi anche contro i diritti umani), candidata dei conservatori, ha dovuto cedere al candidato Pedro Pablo Kuczynski. Questi, che ha quasi 80 anni, è un economista che ha lavorato in passato per la Banca Mondiale. In Nicaragua, intanto, il presidente in carica Daniel Ortega si candiderà per un terzo mandato consecutivo. Le elezioni si terranno il 6 novembre del 2016 e -come ha spiegato Ortega nel corso del congresso del Fronte sandinista di liberazione nazionale, il suo partito- non vedrà la presenza nel Paese centroamericano di osservatori internazionali chiamati a verificare il regolare svolgimento del voto perchè questo rappresenterebbe un’ingerenza negli affari interni del Nicaragua. Ortega, che ha 71 anni, è stato presidente del Paese per la prima volta nel 1985.

Osservatorio sul mondo

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9 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

La corruzione non è una specie a rischio Africa e Asia

Anche dal recente “World Wildlife Crime Report” cura-to dall’agenzia Onu UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime) emerge un punto chiave per leggere il traffico internazionale delle specie a rischio: i responsabili non sono le po-polazioni indigene delle aree protette ma la corruzione, che dilaga anche tra i guar-diaparco. Interessati soprat-tutto Tanzania, Sudafrica, Kenya, Zimbabwe, Uganda e Indonesia.

Le tensioni nelle acque del mare cinese meridionaleAsia

L’influenza cinese passa dal mare che bagna le coste del Paese a Sud e dalle isole Nansha-Spratly. Sono punti strategici per le risorse di idrocarburi che custodiscono, le rotte commerciali, il controllo militare e l’affermazione tecnologica delle flotte sottomarine. Il primo, il mare cinese meridionale, è conteso con Taiwan, le altre con Vietnam, Filippine, Malesia e Brunei.La proposta di un arbitrato dinanzi al Tribunale internazionale dell’Aja chiamato a dirimere le controversie sui confini è stata inizialmente rigettata dal governo cinese, che ha accusato gli Stati Uniti -alleati dei suoi contenden-ti- di violare sistematicamente i confini della Cina.Secondo alcune stime redatte dall’E-nergy Information Administration statunitense nell’aprile 2013, sotto le acque del mare cinese meridionale si troverebbero 11 miliardi di barili di petrolio e circa il doppio delle riserve di gas naturale che al 2012 erano state censite in tutta la Cina.

Dove l’insicurezza alimentare è una regola Africa

Otto province del Sudafrica hanno dichiarato lo stato d’emergenza per siccità. Circa 500mila capi di bestiame sono morti in Botswana, Swaziland, Sudafrica e Zimbabwe. Secondo le stime della Southern African Development Community (SADC), il 23 per cento della popolazione rurale dei 15 Paesi associati -e cioè 41,4 milioni di persone, su un totale di 181- sono a rischio di insicurezza alimentare. 21 milioni hanno “urgente bisogno di assistenza”, secondo un comunicato diffuso da SADC a metà giugno, che indica anche il numero di bambini che stanno soffrendo una situazione di malnutrizione acuta: sono 2,7 milioni. Tra i Paesi coinvolti ci sono anche la Repubblica democratica del Congo e il Mozambico. “È la peggior siccità degli ultimi 35 anni” ha dichiarato Margaret Nyirenda, direttore per Cibo, agricoltura e risorse naturali della Comunità per lo sviluppo dei Paesi dell’Africa meridionale. Secondo alcune stime, nella stagione 2016-2017 sarà disponibile appena il 72% del fabbisogno di cereali normalmente disponibili nell’area, mentre lo Zambia è l’unico Paese che potrà contare su un surplus della produzione di cereali. In Sudafrica, invece, mancheranno 2,6 milioni di tonnellate di mais. Secondo alcune stime, l’insicurezza alimentare nell’area raggiungerà il suo picco tra l’ottobre del 2016 e il marzo del 2017.

Il 7 ottobre 2001 iniziava la guerra in Afghanistan. Dopo 15 anni, cambiano le regole d’ingaggio per i militari statunitensi di stanza nel Paese. Che potranno colpire e uccidere i combattenti Talebani, come richiesto dagli alleati afghani.

La percentuale dell’acque balneabili di eccellente qualità in Europa: i campione analizzati sono 21mila (eea.europa.eu)

84%

In Swaziland la monocoltura della canna da zucchero consuma oltre 385 miliardi di litri d’acqua http://bit.ly/swaziland-diritti

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10 AltreconomiaNumero 184

IN COPERTINA Multinazionali

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11 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

La sostenibilità, a parole. Abbiamo letto

i bilanci sociali delle grandi imprese.

Ecco quello che non c’è scritto

DA FINMECCANICA A LAVAZZA, COME SI DECLINA LA “RESPONSABILITÀ”

di Duccio Facchini

Palazzo Italia, il padiglione dedicato al nostro Paese all’interno di Expo 2015, rivestito dal “cemento biodinamico” di Italcementi (dreamstime.com)

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12

inmeccanica Spa, la società multi-nazionale che produce armamenti, sistemi di sicurezza ed elettroni-ca per la difesa, non esiste più. Ma non perché sia fallita (il fatturato

al 31 dicembre 2015 ammonta a 12,9 miliardi di euro, più 1,8% rispetto all’anno precedente, men-tre l’organico è diminuito del 13%, da 54.300 a 47.100 lavoratori) o perché abbia cambiato natura dei propri ricavi -a metà giugno, con Fincantieri, si è aggiudicata una commessa del Qatar del valo-re di 2 miliardi di euro per la fornitura di missili, radar e sistemi-: più semplicemente, ha cambiato nome, trasformandosi in “Leonardo”, e sito web (www.leonardocompany.com). “Finmeccanica era un brand noto in tutto il mondo -ha spiegato l’ad del Gruppo, Mauro Moretti, nel marzo di quest’anno- ma non sem-pre con connotazioni positive”. L’ultima “conno-tazione” della società, partecipata dal ministero dell’Economia e delle finanze al 30,2%, l’aveva-no fornita ad aprile i giudici della seconda cor-te d’Appello di Milano, condannando, tra gli altri, anche l’ex amministratore delegato e presidente di Finmeccanica Giuseppe Orsi per corruzione e false fatturazioni legate a presunte tangenti in-torno a una maxi commessa con l’India. L’immagine è tutto per una multinazionale, come

sa Finmeccanica-Leonardo. Lo dimostrano le 164 pagine del “Bilancio di sostenibilità e innovazione 2015” pubblicato in primavera dal Gruppo accan-to alla relazione annuale che dà conto dei risul-tati economici, così com’è prassi di altri colossi. Il primo paragrafo del capitolo “La Conduzione responsabile del business” è proprio “Il contrasto alla corruzione”. Si tratta di uno dei “temi ma-teriali” emersi da un’indagine interna condotta dall’azienda tra i propri portatori d’interesse in aggiunta ad una “media analysis che ha conside-rato circa 18.500 uscite stampa su Finmeccanica Spa e le società controllate”, come si legge nella nota metodologica. Saper comunicare l’anticor-ruzione, si legge, può avere un “impatto esterno” su “consulenti e promotori commerciali”. I fatti di corruzione in sé interessano meno, tant’è che lo stringato box dedicato alle “Indagini giudiziarie e contenziosi” -dove ci si aspetterebbe un’informa-zione trasparente agli azionisti- rinvia “alle note esplicative della Relazione finanziaria annuale al 31 dicembre 2015 (pagg. 133-137)”.

I bilanci sociali o di sostenibilità, in realtà, do-vrebbero fotografare la responsabilità sociale di un’impresa (o corporate social responsibility, CSR), che la Commissione europea ha definito la “re-sponsabilità delle imprese per il loro impat-to sulla società”, e non costituire soltanto uno strumento di comunicazione o di marketing. Lo prevede anche il Piano d’azione nazionale 2012-2014 sulla CSR, curato dai ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico, ancora in attesa che venga redatto il “2015-2017”.Non che in Italia ci sia il vuoto. Ad esempio, pres-so il ministero dello Sviluppo economico (Mise) esiste uno strumento in grado di verificare l’effet-tiva coerenza della “responsabilità sociale” delle imprese con le “Linee guida OCSE destinate alle multinazionali”, che di fatto sono “raccomanda-zioni” piuttosto morbide in materia di ambien-te, corruzione, diritti umani e fiscalità. Il “Punto di contatto nazionale per la diffusione delle li-nee guida OCSE sulla responsabilità sociale del-le imprese” (http://pcnitalia.sviluppoeconomico.

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“Finmeccanica era un brand noto in tutto il mondo ma non sempre con connotazioni positive” (Mauro Moretti, amministratore delegato di Leonardo)

AltreconomiaNumero 184

IN COPERTINA Multinazionali

IN DETTAGLIO

BILANCIO “NON FINANZIARIO”: DAL 2017 UN OBBLIGO, MA PER POCHIEntro il 6 dicembre, il nostro Paese dovrà recepire la Direttiva europea 2014/95/UE che impone l’obbligo di comunicare le “informazioni di carattere non finanziario” -su ambiente, personale, rispetto dei diritti umani, lotta alla corruzione, ad esempio- alle imprese di grandi dimensioni che costituiscono enti di interesse pubblico e contano oltre 500 dipendenti. Le misure entreranno in vigore dal primo gennaio 2017. Lo scorso 3 giugno, presso il ministero dell’Economia, è terminata la fase di consultazione pubblica per l’attuazione della direttiva, che ha raccolto i contributi di imprese, associazioni di categoria e ong. Tra questi anche quello di Amnesty International, che ha proposto di allargare il numero delle imprese tenute a rispetta-re l’onere di trasparenza e comunicazione. “Secondo le prime stime -si legge infatti nel contributo depositato a giugno-, solo circa 400 imprese italiane sarebbero interessate dall’obbligo di rendicontazione non finanziaria”.

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gov.it/) esiste dal 2002. Lo guida Stefano Firpo, co-fondatore del quotidiano online Linkiesta.it (detiene ancora lo 0,01% di Editoriale Linkiesta.it Spa) e oggi al vertice della Direzione generale per la politica industriale, la competitività e le picco-le e medie imprese del Mise. Chiunque, compre-si i cittadini, può rivolgere un’istanza al Punto di contatto quando “ritiene che un’impresa abbia adottato un comportamento difforme rispetto ai principi e alle raccomandazioni enunciati dalle Linee guida OCSE”. Ma l’unico potere del Punto di contatto è quello di tentare una “composizio-ne degli interessi”, prendendosi almeno 12 mesi per valutare gli atti dell’istruttoria eventualmente avviata. Nell’archivio dei “casi chiusi” online i pre-cedenti sono solo due. Uno, finito con un’archi-viazione per la società interessata perché l’istan-za “non merita di essere approfondita”, ha visto contrapposti un presunto whistleblower di stanza in Brasile ed Eni Spa. Quello della multinazionale degli idrocarburi è un altro caso di scuola in tema di strategia comu-nicativa su sostenibilità e responsabilità sociale

d’impresa. All’inizio di giugno, infatti, il diret-tore della comunicazione di Eni -67 miliardi di euro i ricavi nel 2015, in caduta libera del 27,3% rispetto al 2014, 51 miliardi dei quali dal setto-re “Gas&Power”- ha lanciato il nuovo sito “Eni.com” (“L’energia è un’esperienza da raccontare online”). Un portale teoricamente “aperto”, ha spiegato in conferenza stampa Marco Bardazzi di Eni, “dove venire a incontrare l’azienda, dove non solo cercare informazioni ma chiederle”. Ma a chieder conto alla barra di ricerca “Ask Now” (Domanda adesso) della convocazione in Procura di Milano dell’amministratore Claudio Descalzi del 10 giugno scorso -i pm Fabio De Pasquale, Sergio Spadaro e Isidoro Palma lo accusano di concorso in corruzione internazionale per le tan-genti in Nigeria- si resta delusi: non c’è risposta. E sarà difficile che nel prossimo “Sustainability Report” (quello del 2015 ha 48 pagine e non reca mai un accenno alla “questione nigeriana”) ven-ga dato conto della maxi sanzione da 3,6 milio-ni di euro che la società si è vista irrogare -insie-me ad Acea, Edison, Enel Energia ed Enel Servizio Elettrico- dall’Antitrust a metà giugno 2016

Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

Leonardo è il nuovo brand del gruppo Finmeccanica, che produce ar-mamenti, sistemi di sicurezza ed elettronica per la difesa. Nella foto Mauro Moretti, ad del gruppo

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per “bollette non corrispondenti a consumi effettivi” e “ostacoli frapposti alla restituzione dei rimborsi”.Eni fa scuola perché oltre a costruire un’imma-gine aperta, è stata tra le prime ad esplorare la frontiera del giornalismo aziendale, assumendo professionisti della carta stampata per farsi rac-contare. La piattaforma “basata sullo storytelling” (Bardazzi) si chiama “Eniday”. Tra i responsabili del “magazine online sull’energia” della multina-zionale -che nella confusione di ruoli si ritrova persino “main partner” del Festival internaziona-le del giornalismo di Perugia- c’è Marco Alfieri, responsabile della struttura di “Content Strategy & Newsroom di Eni” e, prima di diventare “cac-ciatore di storie dentro Eni”, già direttore de Linkiesta.it.

Tra gli sponsor del Festival del giornalismo di Perugia, insieme a Twitter, Amazon, Nestlé, Enel e altri, c’è anche Google. La multinazionale del-la Rete prende parte per “contribuire al dibat-tito sul futuro dell’informazione e sostenere il giornalismo di qualità”. Il punto è che la stessa Google che stipula un accordo con la Federazione Italiana Editori Giornali, impegnandosi a versare

in tre anni 12 milioni di euro, continua a muo-versi in Italia attraverso una struttura societaria e fiscale contestata anche dalla Procura di Milano. Prova ne è anche l’ultimo bilancio depositato alla Camera di Commercio dalla Google Italy Srl a metà giugno di quest’anno, dal quale emerge che i ricavi realizzati nel Paese nel 2015 (66,5 milio-ni di euro) sono dipesi quasi interamente dalle commissioni riconosciute dalla Google Ireland Ltd, che invece fattura a Dublino con aliquote ben al di sotto di quelle italiane. Non ci sarebbe nulla di “atipico o inusuale” ha scritto nella rela-zione sulla gestione il presidente del cda Daniel Lawrence Martinelli. Ma è esattamente su questo meccanismo che la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta.

Il racconto della sostenibilità riguarda anche il settore tessile: H&M è uno dei brand più diffu-si a livello mondiale. Nel nostro Paese -dove con-ta 150 punti vendita- è arrivata a dichiararlo nel bilancio chiuso il 30 novembre 2015: “Il gruppo continua -si legge nella nota integrativa dell’i-taliana H&M Hennes&Mauritz Srl, 10mila euro di capitale sociale, sede a Milano, 743,4 milioni di euro di fatturato lo scorso anno e come socio

AltreconomiaNumero 184

IN COPERTINA Multinazionali

Il Mater-Bi di Novamont, main sponsor con Lavazza dell’e-dizione 2016 di “Fa’ la cosa giusta!” Milano. L’azienda è per il 25% collegata a Eni, mentre il 75% è controllato dai 26 soci di Mater Bi Spa. Il più importante è una holding domiciliata in Lussemburgo

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15 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

unico l’olandese H&M Hennes & Mauritz Holding BV- nella sua strategia di promozione di una im-magine giovane ed alla moda, senza trascurare la sostenibilità ambientale ne l’attenzione ai prez-zi”. È in quest’ottica promozionale che va letta la “Conscious Exclusive Collection” presentata a Parigi all’inizio di aprile e, soprattutto, la “World Recycle Week”, la settimana mondiale del rici-clo con l’obiettivo dichiarato di recuperare 1.000 tonnellate di abiti usati attraverso gli oltre 3.600 punti vendita nel mondo. Un’iniziativa che la rappresentanza italiana della “Clean Clothes Campaign” (“Abiti puliti”, http://www.abitipuliti.org/) ha bollato come semplici “chiacchiere”. H&M, infatti, non ha ancora ono-rato l’“Accordo per la prevenzione degli incendi e la sicurezza degli edifici in Bangladesh” sotto-scritto nel 2013, con il quale si era “impegnata a migliorare le condizioni di lavoro nella sua cate-na di fornitura, un’analisi sulle misure correttive messe in campo dall’azienda in alcune fabbriche, suoi fornitori strategici”. Quell’accordo era figlio del tragico crollo in Bangladesh del Rana Plaza, divenuto trappola mortale per 1.138 operai tessili stipati nei laboratori. La settimana del riciclo di H&M cadeva esattamente a cavallo delle comme-morazioni, alla fine di aprile.

Chi invece ha posto la sostenibilità al centro della propria attività è Novamont Spa, leader nel setto-re delle bioplastiche con la “famiglia” delle com-postabili in Mater-Bi. L’ultimo report sulla sostenibilità di Novamont è del 2014, ma quel che è interessante in questo caso è la sua compagine societaria. Che è rilevan-te non tanto perché contraddica la sua vocazio-ne sostenibile, o il suo “modello di bioeconomia intesa come rigenerazione territoriale”, quanto perché permette a un consumatore critico di aver più chiaro il contesto. Novamont -132 milioni di euro di fatturato nel 2014- ha due soci: Versalis Spa (al 25%) e Mater Bi Spa (75%). Versalis ha

La pagina dedi-cata all’educazio-ne finanziaria per bambini di BNL: l’azienda è secon-da nella classifica italiana delle “banche armate”. Sotto, “Eni.com”, il nuovo portale aziendale della multinazionale degli idrocarburi

“Eni.com” ed “Eniday” rappresentano la nuova frontiera del giornalismo aziendale. Eni è main partner del Festival internazionale del giornalismo di Perugia

un azionista, Eni Spa, che infatti a bilancio in-dica Novamont quale “impresa collegata”, men-tre Mater Bi Spa ne ha 26. Il principale -la holding Melville Srl, 34,48% delle quote- è posseduto per quasi il 100% da una società -si chiama NB renais-sance partners holdings Sarl- che è domiciliata in Lussemburgo, Paese a fiscalità agevolata, e da una società di “equity investment” di Intesa Sanpaolo. La seconda banca italiana dopo Unicredit cita l’investimento in Novamont nel proprio report di sostenibilità 2015 quale “sostegno allo sviluppo di tecnologie innovative, responsabili e sosteni-bili nel tempo”.

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Quale sia il “peso” delle eco-cialde di caffè su quelle commercializzate complessivamente da Lavazza -main sponsor insieme a Novamont del-la fiera “Fa’ la cosa giusta!”, tenutasi a Milano nel marzo scorso, con un contributo di 50mila euro- non è dato saperlo. L’azienda si è limitata a far sapere che il caffè delle “compostabili” è certifi-cato nelle sue due miscele dalla ong Rainforest Alliance. Questa ha nel proprio portfolio clienti anche altri grandi gruppi come Unilever (che in Italia, con la Unilever Italia Mkt. Operations Srl, è sotto procedimento dell’Antitrust per un ipo-tizzato “abuso di posizione dominante” nella distribuzione dei gelati), Nespresso, Chiquita o Danone: si comprende la distanza dall’esperienza del commercio equo italiano e dei diversi consor-zi importatori di caffè.

Dal caffè al cemento. A poco più di un anno dal-la presentazione del “cemento biodinamico” del colosso Italcementi utilizzato per ricoprire l’in-tera superficie esterna e parte degli interni di Palazzo Italia durante Expo 2015 -celebrato nel-la Relazione sulla sostenibilità 2014-, nel giugno di quest’anno è uscito un report (“Visible cracks”) a cura di CDP (organizzazione indipendente che detiene il più grande database di informazioni ambientali delle imprese in tutto il mondo, www.cdp.net). È concentrato sugli impatti ambientali

delle principali compagnie cementiere. La berga-masca Italcementi, recentemente acquistata dal-la tedesca HeidelbergCement AG, è la peggiore in classifica per emissioni, gestione di energia e ma-teriali, esposizione alla “bolla del carbonio”, se-guita da un’altra italiana, Cementir Spa (l’azioni-sta principale è il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone con il 65,94%), e sarebbe “decisa-mente fuori strada nel raggiungere il proprio obiettivo di riduzione delle emissioni”, come ha scritto CDP.

La sostenibilità è la chiave per “disegnare il futu-ro” delle imprese, stando al tratteggio del gruppo assicurativo e finanziario Unipol. Per presentare i risultati del 2015 ha organizzato una lectio ma-gistralis sull’“Impresa del 2020, tra sostenibili-tà, engagement e innovazione sociale” a Milano, invitando tra i vari relatori anche Sergio Solero, presidente e amministratore delegato della casa automobilistica BMW in Italia. Lo stesso marchio finito al centro di un report diffuso a inizio giu-gno da “Transport & Environment”, la campa-gna internazionale che ha denunciato per prima il “Dieselgate”, lo scandalo delle emissioni truc-cate a carico di 8,5 milioni di veicoli VolksWagen (vedi Ae 182). Il rapporto guarda alle “30 dirty”, i trenta modelli di auto inquinanti in commer-cio attualmente approvati dalle autorità di sette Paesi dell’Unione europea (tra cui l’Italia), secon-do T&E, nonostante eccessivi livelli di emissio-ni. Nell’elenco dei modelli, oltre alla Fiat 500X, ci sono anche due BMW. Il “Dieselgate” nasce con Volkswagen, gruppo multinazionale che è padrone di Skoda, Porsche e Audi. Quest’ultima -che sulla pagina italiana racconta il proprio “Codice di condotta”- ha collaborato con la te-stata Wired per organizzare l’ultimo Wired Next Fest, “Futuro, innovazione, creatività”, che si svolge tra Milano (si è tenuto a maggio) e Firenze (a settembre). Non è sola dato che ad aprire l’e-lenco dei “Main partners” c’è BNL-Gruppo Bnp Paribas. L’ultimo bilancio di sostenibilità è del 2013, ma nell’area “Responsabilità sociale” del sito -che sta sotto alla “Comunicazione”- è dato ampio spazio al progetto di educazione finan-ziaria “alla portata dei bambini” che si chiama “EduCare Scuola”. Manca, invece, il riferimen-to a quella parte dell’ultima Relazione 2016 del Governo sull’export di armamenti che permet-te di ricostruire le transazioni sui conti correnti degli istituti di credito, chiamati perciò “banche armate”. BNL e Bnp Paribas (339 milioni di euro) vengono subito dopo Deutsche Bank (1 miliardo di euro). Ma comunicarlo non è sostenibile.

16 AltreconomiaNumero 184

IN COPERTINA Multinazionali

150i punti vendita italiani di H&M: hanno parteci-pato alla World Recycle Week, l’i-niziativa lanciata con l’obiettivo di recuperare mille tonnellate di abiti usati

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Primo tempo17—40

DomusnovasLa presenza delle grotte di San Giovanni è ben segnalata già nei cartelli della statale 130, che collega Cagliari al paese, e arriva fino a Iglesias. Dallo scorso ottobre, però, la città è diventata nota per un’altra presenza

dal reportage di Elvira Corona

a pag. 26

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AltreconomiaNumero 18418

PRIMO TEMPO Diritti

Le due Italie sulla soglia di casa. Tra sfratti, invenduto e periferie IL PROGRAMMA NAZIONALE DI SOCIAL HOUSING, PARTITO NEL 2008, HA REALIZZATO MENO DI 3.500 ALLOGGI

Tra il 2007 e il 2015, i prezzi delle case sono diminuiti fino al 60%. Ma per un’ampia fetta della popolazione l’acquisto resta un miraggio. L’unica risposta al bisogno di un milione di famiglie italiane è un aumento dell’offerta di edilizia residenziale pubblica

di Luca Martinelli

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19 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

numero racconta la complessità della questione abitativa in Italia: 618.809. Sono le famiglie che han-no subito un provvedimento di sfratto negli ultimi dieci anni. Rappresenta quasi il 13 per cento

di quanti vivono in affitto. Più di una famiglia su dieci. E per il 90% di questi nuclei, lo sfratto è avvenuto per “morosità”, una parola cui le ana-lisi statistiche e anche gli ultimi provvedimen-ti legislativi associano un aggettivo: incolpevole. Significa che chi perde la casa non ha più potu-to permettersi di pagare l’affitto perché non ha più lavoro, si è visto ridurre l’orario di lavoro, è in cassa integrazione o ha dovuto affrontare una malattia grave o un decesso. Esiste una “soglia di sostenibilità”, calcolata guardando -spiega Luca Dondi, direttore generale della società di ricer-che e consulenze Nomisma- “all’incidenza del canone d’affitto di mercato sulle capacità reddi-tuali: se supera il 30 per cento, si va in difficoltà” continua Dondi, che nei primi mesi del 2016 ha curato per conto di Federcasa -la federazione che dal 1996 associa 114 enti che, in tutta Italia, da quasi un secolo costruiscono e gestiscono abita-zioni sociali- un rapporto dedicato a dimensio-ni e caratteristiche del disagio abitativo in Italia. Risultato: per 1,7 milioni di famiglie che hanno un contratto di affitto, cioè il 41,8% del totale, il canone supera il 30% del reddito familiare, e quindi corrono il rischio di scivolare verso forme di morosità e di possibile marginalizzazione so-ciale. Luca Dondi ne traccia un ritratto: “Si trat-ta di famiglie giovani, che faticano ad entrare nel mercato del lavoro, o ne sono state espulse; vi-vono una condizione di difficoltà anche nuclei con pochi componenti, o single costretti a trova-re una sistemazione dopo una precedente vita co-niugale. Molti sono immigrati extracomunitari. Preoccupa, in particolare, la situazione degli un-der 35, quelli che non possono accedere alla casa se non attraverso la locazione”.

Sono famiglie cui non serve sapere che i prez-zi delle case tra il 2007 e il 2015 sono diminuiti del 29,2 per cento, a Milano, del 40,7 per cento, è il caso di Roma, o del 62 per cento, è successo a Genova, come certifica l’Ufficio Studi del Gruppo Tecnocasa: l’acquisto è fuori dall’orizzonte, un miraggio anche per quelli che hanno un lavoro. Nonostante la crisi abbia in alcuni casi più che dimezzato i prezzi, infatti, le abitazioni costano in termini reali più del doppio rispetto al 1970: sono stati i ricercatori di Banca d’Italia a rappor-tare l’aumento nel prezzo delle case con quello

Un COME CAMBIA LA SPESA PER CHI ABITALe differenze tra chi è proprietario di un immobile e chi è in affitto

Spesa media mensile per l’abitazione (€)

Incidenza sul reddito familiare (%)

ABITAZIONEDI PROPRIETÀ

264 10,2% *

MEDIA ITALIANA

320 13%

ABITAZIONEIN AFFITTO

565

30,2%**

* 17,1% nel caso delle famiglie con componenti stranieri

** 40,4% nel caso delle famiglie con componenti stranieri

Fonte: ISTAT (dato relativo al 2014)

QUANT’È CRESCIUTO IL PREZZO “REALE” DELLE CASEla tendenza registrata a partire dal 1970

1970 1990 2007 2012

Fonte: nostra elaborazione su dati Banca d’Italia (2016)

PROVVEDIMENTI DI SFRATTO EMESSI ED ESEGUITI

Sfratti emessi

Sfratti eseguiti

dati in migliaia

2015 2006-2014

64.676

32.546

618.809*

285.814

* di cui 560.914 per morosità, pari al 90,6% del totale

Fonte: nostra elaborazione su dati del ministero dell’Interno, 2016

GLI SFRATTI EMESSI IN RAPPORTO AL NUMERO DELLE FAMIGLIE IN AFFITTO

1 su 68famiglie

Liguria

Lazio

Toscana

LA REGIONI CHE“SFRATTANO” DI PIÙ

1

2

3

+ 84% + 132%+ 170%

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AltreconomiaNumero 18420

PRIMO TEMPO Diritti

ricercatore della Sapienza al libro “La casa, il be-nessere e le disuguaglianze” (Egea, 2015), dimo-strano, ad esempio, che il numero dalle famiglie povere cambia e anche sensibilimente a seconda delle modalità con cui le spese per l’abitazione vengono “imputate” nel calcolo del reddito im-ponibile e dell’ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente), da cui deriva l’accesso a determinate prestazioni di welfare, o all’assegna-zione di una “casa popolare”. E nemmeno quelle famiglie che vivono in un im-mobile di proprietà, che sono 18,5 milioni, avreb-bero dovuto festeggiare, il 16 giugno, la Festa dell’IMU, convocata per celebrare la scomparsa di un’imposta impopolare, quella patrimoniale sul-la prima casa: l’abolizione dell’IMU “amplifica le disuguaglianze, cristalizza le differenze tra chi è proprietario e chi no” sottolinea Raitano.

Sono i dati dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) a spiegarci in modo assai intuitivo che cosa cambia, ogni mese, per queste due italie: i primi, i proprietari, spendono in media per l’abi-tazione 264 euro al mese, pari al 10,2% del pro-prio reddito; i secondi, chi vive in affitto, spen-dono invece 565 euro (sempre in media), cioè il 30,2 per cento del reddito (che diventa il 40 per le famiglie immigrate). Ci sono trecento e uno euro di differenza: oltre 3.600 in un anno. E a “fare la differenza”, per i nuclei familiari che vivono in affitto, è la natura del soggetto proprietario della casa in cui abitano: sono 695mila quelli che vivo-no in un alloggio di edilizia residenziale pubbli-ca (ERP), e di queste il 92,9 per cento pagano un canone mensile inferiore ai 300 euro; sono 4 mi-lioni e 86mila le famiglie che vivono in case loca-te da soggetti privati, e di queste oltre 1,7 milioni vivono come si è visto una condizione di disagio. Secondo lo studio Federcasa e Nomisma, l’unica risposta possibile per “un milione di famiglie non può che venire da un’aumento dell’offerta di edi-lizia residenziale pubblica” spiega Dondi, perché “semplicemente è troppo alta la quota di soggetti che non è in grado di pagare canoni di mercato, e che non sarebbe in grado nemmeno di accedere al

In Italia a gennaio 2016 esisteva uno stock di 90.500 abitazioni nuove e invendute. Un dato in calo del 23,6% rispetto alle 118.400 del gennaio 2014 (Scenari Immobiliari)

LE COMPRAVENDITE IMMOBILIARI IN ITALIA NEL 2015dati in migliaia

ABITAZIONI E PERTINENZE

MUTUIEROGATI

584.822 + 5,7% sul 2014

342.467 +23% sul 2014

Volume totale dei mutui in essere (dicembre 2015)

323,8 miliardi di euro

dell’indice generale dei prezzi, ovvero l’infla-zione, verificando che per quanto riguarda gli im-mobili residenziali il potere d’acquisto di uno sti-pendio del 2012 è pari al 43 per cento di quello del 1970. Secondo i ricercatori di via Nazionale, “in un Paese in cui la proprietà della casa è tan-to diffusa, l’aumento del prezzo delle abitazioni tende ad avere effetti perequativi”, cioè redistri-butivi. Ma -riconoscono- “ciò che si aggrava è il problema abitativo di chi non possiede una casa e ambisce ad acquistarne una”, anche se questo sa-rebbe un problema minore, poiché “riguarda oggi meno del 20 per cento della popolazione”. Cioè chi vive in affitto.

Il Paese è spaccato in due: secondo Michele Raitano, ricercatore in Politica economi-ca alla Facoltà di Economia dell’Università “La Sapienza”, a Roma, dovrebbe essere risolta una questione aperta, rispondendo a questa doman-da: “la casa, l’abitazione di residenza, è da con-siderare un bene di prima necessità?”. È solo da una risposta affermativa che potrebbe discendere una “maggiore attenzione verso i nuclei in diffi-coltà”, spiega il ricercatore della Sapienza. Come? A partire dalle modalità utilizzate per il calcolo del reddito: “Quello ‘disponibile’ potrebbe essere individuato per sottrazione -sottolinea Raitano-, e quindi togliendo dal reddito individuale la spe-sa per l’affitto o quella relativa agli interessi sul mutuo”. In questo modo, oltre a “mostrare la ric-chezza effettivamente a disposizione, per consu-mi, potrebbe garantire l’applicazione di politiche redistribuitive, portando in detrazione le spese imputabili agli affitti”. Secondo alcune analisi empiriche sui dati, pubblicate nel contributo del

Fonte: ISTAT (2016) e Banca d’Italia (2016)

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21 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

cosiddetto mercato ‘agevolato’, il canone concor-dato del social housing, l’edilizia privata sociale”. A sette anni dall’avvio del programma nazionale di social housing, promosso dal Fondo investimen-ti per l’abitare (FIA) di Cassa depositi e prestiti (CDP), e forte di una dotazione di 2,28 miliardi di euro, risorse che per il 56,2% arrivano dalla stes-sa CDP (società del ministero dell’Economia) e dal ministero delle Infrastrutture, Federcasa ne sot-tolinea l’impalpabilità: dal 2008, sono stati rea-lizzati appena 3.480 alloggi, il 21% di quelli pre-visti. Ma anche se fossero stati realizzati tutti, e cioè 16.833 alloggi sociali, il “patrimonio” dell’e-dilizia privata sociale non arriverebbe a rappre-sentare che il 2% delle case gestite dai 114 soci di Federcasa. Sono tre volte tanti, circa 50mila, gli alloggi pubblici sfitti, cioè in larga parte apparta-menti non assegnabili a meno di lavori di ristrut-turazione. “Il FIA è nato con un obiettivo troppo ampio rispetto alle caratteristiche dello strumen-to: c’è senz’altro una fascia di domanda potenzia-le consistente per un prodotto ‘intermedio’, ma l’errore è stato pensare di risolvere il ‘problema casa’ con un intervento di quel tipo. Perché in-tercetta alcuni soggetti, ma non quelli che vivono una condizione di disagio più acuto. È uno stru-mento complementare, ma non sostitutivo” sot-tolinea Luca Dondi. Secondo il direttore generale di Nomisma, per affrontare la questione del dirit-to alla casa il governo dovrebbe risolvere “l’am-biguità nel mandato delle aziende che gestisco-no gli immobili pubblici: da un lato si chiede loro di erogare una prestazione sociale, con canoni in linea alle disponibilità della domanda; dall’altra, essendo in larga parte società per azioni, si chie-de un equilibrio di conto economico: sono input che faticano a stare insieme, e possono portare a compiere errori strategici macroscopici, come l’alienazione di alloggi. In maniera inopinata, si decide così di dismettere un patrimonio prezioso e sottodimensionato, per contenere un fenomeno ampio e in crescita”.

Secondo Federcasa, a 18 anni dal decentramen-to regionale dell’edilizia residenziale pubbli-ca avrebbe senso restituirne la competenza allo Stato. La ricerca suggerisce la previsione di una fiscalità di scopo, per garantire un “flusso co-stante e certo di risorse”. Nel corso degli ultimi anni il governo ha trasferito alle Regioni due ti-pologie di fondo, ma non riguardano le case po-polari: il primo è dedicato al sostegno all’acces-so alle abitazioni in locazione, e in ognuno degli anni 2014 e 2015 è stato dotato di 100 milioni di euro, mentre nel 2016 non è stato finanziato;

il secondo è un sostegno degli inquilini morosi “incolpevoli”, istituito nel 2014: al 30 novembre 2015, il grado di utilizzo delle risorse stanziate per il primo biennio, complessivamente 68,232 milioni di euro, è stato pari a circa 25,5 milioni, per un totale di 2.277 beneficiari (su un totale di 126mila famiglie nei confronti delle quali è stato emesso un provvediento di sfratto per morosità). “La dotazione del Fondo per il 2016 è pari a 59,73 milioni. Il decreto interministeriale di riparto è in registrazione alla Corte dei Conti” come spie-ga il ministero. Aggiungendo che sono stati rivisti i “criteri di utilizzo delle risorse attribuite”, per migliorarne l’efficacia. Il Fondo esisterà almeno fino al 2020.

In attesa della pubblicazione del decreto, il go-verno potrebbe cogliere un altro spunto dell’ana-lisi di Federcasa: “Il problema della casa si può risolvere anche senza fornire l’alloggio ma in-tervenendo sugli altri disagi”. È l’ipotesi su cui si concentra il lavoro dello studio TAMassociati, che su stimolo del ministero dei Beni culturali ha sviluppato una riflessione sulle periferie per il Padiglione Italia della Biennale di Architettura, in corso a Venezia fino al 27 novembre (www.takin-gcare.it): “Periferie in azione” prevede la realiz-zazione attraverso un crowdfunding di una biblio-teca mobile, un ambulatorio mobile, una Unità di monitoraggio ambientale mobile, un Polo mobile antimafia e una palestra mobile, da affidare a 5 associazioni. Perché le periferie, spiega Simone Sfriso di TAMassociati, “non sono solo luoghi fi-sici, ma mentali, i cui caratteri sono il degrado, la marginalità e l’esclusione”.

“Aumentare il numero di alloggi di edilizia residenziale pubblica portandolo ad almeno un 6% del patrimonio residenziale sarebbe la risposta più diretta e immediata al disagio abitativo” (Luca Talluri, presidente di Federcasa)

18,5milioni, le fa-miglie italiane che vivono in un immobile di proprietà

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AltreconomiaNumero 18422

PRIMO TEMPO Lavoro

La fabbrica Fiat in Serbia e il senso per gli affari di Sergio MarchionneNEL 2018 SCADE L’ACCORDO SUGLI “INCENTIVI” TRA IL GRUPPO NATO A TORINO E IL GOVERNO DI BELGRADO

Viaggio a Kragujevac, nello stabilimento della 500L. Avrebbe dovuto produrre 300mila auto, ma nel 2015 dalle linee ne sono uscite meno di 92mila. E intanto l’azienda, che è diventata FCA, ha spostato in Turchia i nuovi modelli, come la Tipo

di Duccio Facchini

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23 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

na Fiat Punto percorre in retro-marcia il ponte che collega la città serba di Kragujevac -170mila abi-tanti, 140 chilometri a Sud della capitale Belgrado-, allo stabili-

mento della “FCA Serbia d.o.o. Kragujevac”. Dal finestrino abbassato spunta un uomo, sorriso di circostanza e polo a marchio Fiat; l’invito è quel-lo di non fare altre fotografie alla facciata dove c’è un’enorme “500L” -la monovolume compatta che la multinazionale dell’auto con la sede cen-trale in Olanda (Fiat Chrysler Automobiles NV) produce qui in Serbia- la cui sagoma è rappre-sentata dalle figure di tanti suoi colleghi. Accanto agli operai verniciati c’è una scritta: “Mi smo ono što stvaramo”, siamo quello che produciamo. L’atteggiamento dell’uomo sul ponte è pras-si quando si guarda alla “FCA Serbia d.o.o. Kragujevac”, controllata al 67% circa dall’italia-na FCA Italy Spa e per il resto dal governo serbo. Da Torino, l’ufficio stampa ha negato la possi-bilità di un sopralluogo in quella che dal 2008 è una zona franca, consegnata senza oneri dal governo guidato all’epoca da Boris Tadic all’al-lora e attuale amministratore delegato di Fiat (poi FCA), Sergio Marchionne. Oltre ad incenti-vi economici per ogni operaio assunto, l’accordo prevedeva l’azzeramento delle imposte o dei dazi doganali fino al 2018. Un trafiletto uscito sul Corriere della Sera nel set-tembre di otto anni fa illustrava le prospettive di partenza: “Nel 2010 dovranno uscire 200mila auto, destinate a diventare 300mila l’anno suc-cessivo”. I modelli sulle linee sarebbero dovuti essere tre: Punto, 500 e una “nuova city car che Fiat sta progettando”. L’entusiasmo aveva conta-giato anche Il Sole 24 Ore, che nel luglio 2010 ti-tolava “Fiat in Serbia: 30mila posti”.

“Come è andata finire?”, è la domanda scon-tata che l’interprete ripropone in serbo a Zoran Markovic, segretario generale del sin-dacato Samostalni nonché vice-segretario del-la Fiom serba. Rispetto all’indotto, e cioè quei 30mila posti promessi dall’Agenzia serba per gli investimenti citata dal Sole, Markovic è sar-castico: “Si tratta di un errore, forse è scap-pato uno zero in più”. Sommando i dipen-denti dei sette fornitori di FCA da queste parti, infatti, si superano di poco le 1.500 unità.

Il sindacato di Markovic è il più rappresentati-vo nello stabilimento di FCA, con 1.850 iscrit-ti su 3.200 lavoratori. “È in base a questa forza che abbiamo firmato il contratto collettivo con la

U Fiat e conduciamo tutte le trattative nell’interes-se degli operai”, spiega intorno al tavolo di una sala del Samostalni -la porta d’ingresso è fode-rata e un calendario è fermo al 2004-, nella vec-chia palazzina cadente, tinteggiata all’esterno d’azzurro, dove un tempo batteva il cuore della contrattazione della Zastava, la storica fabbrica di automobili e armamenti di Kragujevac, bom-bardata dalla NATO neanche vent’anni fa, du-rante la guerra. Qui, oggi, salvo la branca della Zastava Kamioni e altre filiere minori, non si produce più nulla. Il polo industriale adiacente alla ferrovia, che corre senza barriere, è diventato un grande parcheggio a pagamento a pochi passi dalle vetrine del cen-tro, tra aiuole abbandonate, immensi spazi co-perti lasciati al degrado, scritte e due cannoni incrostati che vegliano un ingresso buio. Anche Markovic ha la polo d’ordinanza, ma lo spirito aziendalista si è affievolito rispetto a qualche anno fa. Precisamente da tre anni, da quando cioè i salari sono stati congelati. Lo san-no bene i rappresentanti dell’associazione italia-na “Mir Sada” di Lecco, che ogni anno, da quin-dici anni, tornano da queste parti in giugno e in ottobre per consegnare oltre 70 adozioni ad al-trettante famiglie in condizioni di necessità. Siedo con loro mentre il sindacalista ordina le tessere dell’attuale mosaico: “Dal luglio 2012, Fiat produce qui la 500L nelle sue tre versioni: classic, living e trekking. Lavoriamo su tre turni, dalle 6 alle 14, dalle 14 alle 22, dalle 22 alle 6, per cinque giorni alla settimana esclusi saba-to e domenica”. I numeri del 2008 sono lontani. Le 300mila auto prodotte promesse per il 2011 sono state in realtà 91.769 nel 2015. “A causa della richiesta diminuita nel mercato europeo e mondiale lo scorso anno abbiamo avuto 85 gior-ni non lavorativi e quest’anno se ne prevedono oltre 100” spiega Markovic. E quando gli operai vanno in cassa integrazione il salario percepi-to è il 65% di quello base, che a seconda del

Al Salone di Ginevra del 2012 Sergio Marchionne stringe la mano a Boris Tadic: guidava la Serbia quando, nel 2008, venne stretto l’accordo per riportare Fiat nel Paese balcanico

Il sindacalista Zoran Markovic: “Lo scorso anno abbiamo avuto 85 giorni non lavorativi”. In cassa integrazione il salario è il 65% di quello base, tra i 270 e i 320 euro

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AltreconomiaNumero 18424

PRIMO TEMPO Lavoro

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mansionario è compreso tra i 270 e i 320 euro al mese.

Il livello dei salari -che non è al di sotto della media nazionale serba- spiega perché non sia af-fatto semplice incontrare una 500L per le stra-de di Kragujevac, a parte nella versione taxi, fucsia. “Il potere d’acquisto è così basso -pro-segue Markovic- che il prezzo attuale in dinari del modello con motore a benzina, pur con tutte le sovvenzioni, non scende sotto ai 10mila euro. Quindi per un cittadino serbo è del tutto inim-maginabile acquistarlo”. Immaginabile, invece, che i salari restino inchiodati. Nella relazione al bilancio 2015 di FCA Italy Spa -la controllante principale della succursale serba- c’è un paragrafo dedicato alla “Contrattazione collettiva”. “In Serbia -si legge-, è stata raggiun-ta un’intesa che riconosce la mancanza degli ele-menti di contesto e aziendali per procedere ad

aumenti collettivi dei salari mentre è stata defi-nita l’entità del ‘Premio di Natale’, il cui impor-to è stato riconosciuto in funzione dell’effettiva prestazione lavorativa dei dipendenti interes-sati”. Markovic ascolta la traduzione guardan-do l’interprete -Rajka Veljovic, il punto di riferi-mento del Samostalni per tutte le associazioni di volontariato che fanno adozioni a distanza-, poi torna a sorridere e si limita a un’annotazione: “Il ‘Premio di Natale’ è la vostra tredicesima”. Gli “elementi di contesto” non sono altro che i 100 giorni non lavorativi messi in conto quest’an-no. “Eravamo a un bivio -racconta Markovic-: accettare i licenziamenti oppure mantenere gli operai, rinunciando però agli aumenti”. Il compromesso al ribasso (per i lavoratori) ha retto, contrariamente a quanto era accaduto nel-lo stabilimento nel maggio di tre anni fa. Allora diversi veicoli uscirono dalle linee con una scrit-ta incisa con dei cacciavite in cui si “invitava” l’ex

Lo stabilimento di FCA Serbia a Kragujevac impiega 3.200 lavoratori. “Mi smo ono što st-varamo” significa “siamo quello che produciamo”

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25 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

capo reparto italiano ad andarsene a casa. I lavo-ratori lamentavano turni massacranti. Rimosso il capo reparto sono stati deposti i cacciavite.Nonostante i risultati sotto le attese, però, la fi-liale serba di FCA -o meglio, una delle sette so-cietà che la multinazionale ha domiciliato nel Paese- è stata nominata nel 2015 “Azienda so-cialmente responsabile dell’anno” dalla “Serbian association of managers”. Un riconoscimen-to gradito per l’azienda, che qui lo scorso anno ha registrato un fatturato netto di 1,15 miliardi di euro e utili per 19,6 milioni (-3% rispetto al 2014), ma mai quanto il finanziamento pubblico di 500 milioni di euro della Banca europea de-gli investimenti (BEI) -di cui la multinazionale ha dato conto nell’ultimo “annual report” del Gruppo-. Maturerà nel 2021 e dovrà contribuire alla “modernizzazione ed espansione” dello sta-bilimento di Kragujevac.

Non è dato sapere se FCA abbia realmente inten-zione di portare a Kragujevac la produzione di un nuovo modello -a precisa domanda il Gruppo ha risposto infatti “no comment”-, che pure era stato previsto nell’accordo, secondo Markovic. “Il contratto originario stipulato nel 2008 pre-vedeva che già nel 2014 dovesse partire la produ-zione di un nuovo modello -spiega il segretario del sindacato-, che invece non mai è stato rea-lizzato”. Quella del nuovo modello non è l’unica clausola mancata, come dimostra l’elenco sche-matico formulato dal sindacalista: “La Fiat dove-va produrre il 5% dei pezzi di ricambio qui, e non è successo. La Serbia doveva terminare l’auto-strada E75, che non è stata realizzata. La Serbia doveva rafforzare la ferrovia, non è stato fatto. La Serbia doveva fare la circonvallazione, non è stata fatta”. È stato fatto un asilo, questo sì, all’interno dello stabilimento, dove la retta non è azzerata ma scontata di un quinto rispetto alla città; sono state organizzate partite di pallone, realizzato un rondò all’ingresso della città dove sorge un enorme ovale deformato e lo stemma Fiat -è il secondo entrando a Kragujevac, dopo

quello con la grande croce ortodossa- e un quiz tra gli operai: “Il vincitore andrà a Rio per le Olimpiadi”, racconta Markovic, alzando gli occhi verso il cielo.Invece la “Nuova Tipo”, la berlina compatta a tre volumi annunciata nel maggio 2015 da Sergio Marchionne, è già andata in Turchia -uno dei 28 Paesi al mondo in cui FCA ha spostato la produ-zione, dal Venezuela alla Corea del Sud-. Da set-tembre scorso viene prodotta nello stabilimen-to Tofas di Bursa, che è in capo alla società Tùrk Otomobil Fabrikasi A.S., di cui FCA Italy Spa de-tiene il 37,8% in joint venture con il Gruppo Koc. Lì, FCA produce anche Fiat Linea, Fiat Fiorino, Fiat Qubo, RAM Promaster City e Fiat Doblò (ol-tre a Peugeot Bipper, Citroen Nemo e, per con-to di Opel, Vauxhall Combo). Poteva essere la Nuova Tipo il modello promesso alla Serbia? “Lo Stato turco ha investito 1 miliardo di dollari e per questo la Fiat ha deciso di portare lì la Tipo, una berlina che nasce sulla stessa piattaforma della 500L -replica Markovic, a differenza di FCA che anche su questo punto non ha voluto risponde-re-. La politica del nostro datore di lavoro, per quanto ne possa capire da sindacalista, e quella di andare laddove le sovvenzioni siano più alte. Qualche tempo fa fu lo stesso Marchionne ad an-nunciare due nuovi modelli sulla piattaforma di 500L. Disse che c’erano due ‘capacità’, in Polonia (a Tychy FCA ha prodotto nel 2015 303mila vei-coli tra Fiat 500, Lancia Ypsilon e Ford Ka, nda) e in Serbia. Era il suo segnale al miglior offerente”.

Tra due anni scadrà il contratto decennale tra FCA e la Serbia. Markovic e il suo sindacato non possono partecipare ad alcuna trattativa. “Nella commissione chiamata a decidere le nuo-ve condizioni siedono cinque italiani e due ser-bi. Speriamo di riuscire ad esercitare una qual-che pressione indiretta”. L’obiettivo principale è il salario.

A Kragujevac nessun operaio può permettersi una 500L, che costa l’equivalente di 10mila euro. Le uniche in giro, di colore fucsia, sono dei tassisti

La Banca europea degli investimenti ha garantito a FCA un finanziamento di 500 milioni di euro. Per la “modernizzazione ed espansione” dello stabilimento serbo, a 140 chilometri da Belgrado

28i Paesi nel mondo in cui sono distribuiti gli stabilimenti di produzione che fanno capo a Fiat Chrysler Automobiles NV, con sede in Olanda

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AltreconomiaNumero 18426

PRIMO TEMPO Armi

Viaggio a Domusnovas, la città della fabbrica d’armi volate in YemenA MARZO 2016 SONO PARTITE DA CAGLIARI NUOVE ESPORTAZIONI BELLICHE PER 5 MILIONI DI EURO

Dalla fine dello scorso anno, dai cancelli dell’azienda “Rwm Spa” sono uscite le bombe destinate all’Arabia Saudita per il conflitto yemenita. Lo stabilimento occupa 74 persone in un territorio dove la disoccupazione giovanile è al 60%

di Elvira Corona

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27 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

ino a qualche mese fa Domusnovas -piccolo centro sardo di 6.300 abi-tanti in provincia di Carbonia-Iglesias- era conosciuto solo da qualche turista per le sue bellissime

grotte carsiche. La presenza delle grotte di San Giovanni è ben segnalata già nei cartelli della statale 130, che collega Cagliari al paese, e ar-riva fino a Iglesias. Dallo scorso ottobre, però, Domusnovas è diventata nota per un’altra pre-senza: quella della fabbrica di armi della società Rwm Spa. Nessun cartello sulla 130 la segnala nonostante anch’essa si trovi a pochi chilometri dal centro. Per trovarla è necessario chiedere a qualche passante, che appena sente il nome del-la fabbrica cambia espressione, salvo poi indica-re la via dellocalità Matt’è Conti. Attraversando le campagne sulcitane si raggiunge un parcheggio antistante il caseggiato; se non fosse per le sbarre su tutte le finestre che si affacciano sul piazzale -e il filo spinato sopra ai muri- sembrerebbe uno stabilimento qualsiasi. E invece dai cancelli della Rwm Spa sono parti-ti razzi, siluri e bombe verso varie destinazioni, tra le quali figura anche l’Arabia Saudita, come si legge nella “Relazione sulle operazioni autoriz-zate di controllo materiale di armamento 2015” del governo. La fabbrica ha iniziato a compari-re sulle cronache quando il deputato Muro Pili, il 29 ottobre 2015, ha pubblicato video e fotogra-fie che davano conto del carico di missili in par-tenza dallo scalo civile di Elmas, denunciando il mancato adempimento delle norme di sicurezza che regolano il trasporto delle armi. Il carico era pronto all’imbarco poco lontano dalla pista di de-collo degli aerei di linea. Amnesty International, la Rete Disarmo e l’Os-servatorio Permanente sulle Armi Leggere di Brescia (OPAL) hanno chiesto conto al governo, mentre alcuni deputati e senatori appartenenti a vari schieramenti hanno presentato interroga-zioni, soprattutto per quanto riguarda l’invio del materiale bellico a Paesi in guerra, in palese vio-lazione della legge 185/90. A tentare di fugare i dubbi sulla sicurezza dell’esportazione è interve-nuto l’Ente nazionale aviazione civile, cui ha fat-to seguito -a proposito della legalità dell’opera-zione- la ministra della Difesa, Roberta Pinotti. Secondo il governo, la Germania sarebbe stata la responsabile ultima della decisione, vista l’ap-partenenza di Rwm Italia a un gruppo tedesco.Tesi che è stata però smentita dalle risposte uf-ficiali di Berlino. “È chiaro che si tratta di una questione tutta italiana -ha spiegato a Francesco Vignarca, coordinatore della Rete italiana per il

disarmo, Jan van Aken, deputato della Linke al Parlamento tedesco- perché Rwm già produceva queste bombe prima dell’acquisizione da parte di Rheinmetall. E una richiesta formale di autoriz-zazione alla Germania deve essere fatta solo se c’è trasferimento di know-how. Nonostante ciò, dopo aver letto le notizie che rimbalzavano anche qui dalla Sardegna, abbiamo voluto una confer-ma ufficiale. E la risposta è stata chiara”. Spiega Vignarca: “Il governo Merkel ha infatti risposto all’interpellanza di Van Anken dichiarando che ‘nessuna competente autorizzazione’ era stata emessa da Berlino per componenti riguardanti gli ordigni prodotti a Domusnovas”.Le esportazioni, in ogni caso, sono andate avanti. Ancora nel marzo 2016, OPAL ha dato conto di nuove partenze di bombe da Cagliari verso l’Ara-bia Saudita per 5 milioni di euro.

Qui a Domusnovas, però, la questione più rile-vante è quella occupazionale. La Rwm Spa con sede legale a Ghedi (BS) ha un capitale sociale di 2 milioni di euro interamente detenuto dalla Rheinmetall waffe munition Gmbh (Rheinmetall Defence), occupa in Sardegna 74 addetti, e nel 2015 ha fatturato 54,5 milioni di euro. Lo sta-bilimento sorge negli stessi spazi dove nel 1933 nacque la Società Esplosivi Industriali Spa (SEI) per fare fronte alle richieste dell’industria mine-raria, allora settore trainante del Sulcis. Ora non produce più esplosivi per miniere e il gruppo cui fa riferimento, Rheinmetall Defence, è un colosso da 25mila dipendenti e un fatturato consolidato che nel 2015 ha superato i 5 miliardi di euro. L’attenzione mediatica da queste parti non è af-fatto gradita. Le persone che accettano di parla-re pretendono i microfoni spenti. I dipendenti, poi, potrebbero incorrere nelle sanzioni del “co-dice etico” aziendale, che all’articolo 22 prevede il licenziamento per la diffusione di informazioni riservate. Chi spera di trovare lavoro nella fab-brica, invece, preferisce evitare i giornalisti. Qui tutti contano un parente o un conoscente impie-gato alla Rwm e la preoccupazione è che anche questa fabbrica possa chiudere o decidere di de-localizzare la produzione. Dal punto di vista occupazionale questo è un ter-ritorio già molto provato dalla dismissione del-le miniere e dalle vertenze Carbosulcis, Alcoa, Euroallumina e Portovesme Srl per le quali an-cora si sta cercando una soluzione alternativa al licenziamento. La chiusura dell’ennesimo stabili-mento sarebbe un’altro duro colpo all’economia della zona. Gli ultimi dati Istat dicono che qui la disoccupazione è al 17% con quella giovanile

F In apertura la manifestazione del comitato “No bombe” tenutasi il 10 maggio scorso fuori dai cancelli della Rwm Spa di Domusnovas, in provincia di Carbonia Iglesias

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PRIMO TEMPO Armi

che supera il 60%, e se nel 2014 il Pil procapite del Sud Italia era di 16.761 euro -circa la metà ri-spetto a quello del Nord- nel Sulcis è di soli 8.800 euro. I giovani rappresentano il 30% della popo-lazione e questa, insieme a quella di Oristano, è la zona che ha perso più abitanti nell’ultimo anno, per lo più giovani e qualificati, alla ricer-ca di qualche opportunità, soprattutto all’estero. Anche perché alla riconversione non crede più nessuno. Alcuni qui a Domusnovas si dichiarano sì contro le guerre, ma sono anche convinti che se chiudessero la Rwm le armi continuerebbero ad essere prodotte da qualche altra parte, mentre certamente loro perderebbero il lavoro.La questione più controversa però rimane quel-la etica. Da ottobre scorso ad oggi ci sono state tre manifestazioni davanti alla fabbrica, sempre per chiederne la chiusura e lo smantellamento. All’ultima, nel maggio scorso, hanno partecipato un centinaio di persone. Il comitato “No bombe” parla di ricatto occupazionale: “Sappiamo per-fettamente che le multinazionali fanno i migliori investimenti nei Paesi con più difficoltà econo-miche, non per ultimo in Sardegna, dove il lavo-ro non è mai stato un’opportunità bensì un ricat-to. La possibilità di perdere alcuni posti di lavoro

in un territorio devastato economicamente e so-cialmente crea ansia, lo possiamo capire, ma non per questo accettare”. Quello stesso giorno, grup-pi antimilitaristi tedeschi hanno manifestato a Berlino durante l’assemblea generale degli azio-nisti della Rheinmetall Defence. Franco Uda è il coordinatore della Tavola della Pace Sarda, una rete di 30 associazioni. È con-vinto che sviluppare un conflitto tra lavora-tori sia inutile. Insieme alla Rete italiana per il Disarmo la Tavola inviato a 10 Procure di tutta Italia, comprese Cagliari e Brescia, un esposto contro il governo italiano per la violazione della legge 185/90 che è quella che regola l’export di armi. “Nel passato questa norme veniva aggira-ta attraverso le triangolazioni -ricorda Uda-, per cui l’Italia vendeva armi all’Egitto e l’Egitto poi le vendeva all’Arabia Saudita che era in guerra con-tro lo Yemen. Mentre ora, anche questo elemen-to di pudore viene completamente saltato. Oggi l’Italia vende direttamente all’Arabia Saudita che è in guerra con lo Yemen”. Per Salvatore Drago, dell’Unione sindacale di base, l’unica soluzione è dare alternative -come la riconversione della fab-brica-, anche se è convinto che spetti ai lavoratori assumersi delle responsabilità.

8.800euro, il Pil pro-capite nel Sulcis, in Sardegna. È la metà rispetto a quello relativo al Sud Italia

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29 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

Ricerca

Brevetti e marchi: l’incentivo fiscale che non stimola l’innovazioneLO “SCONTO” STIMATO È DI 590 MILIONI DI EURO A FRONTE DI 4.500 ISTANZE PRESENTATE

Secondo l’OCSE, questo tipo di agevolazione -definito Patent box- dovrebbe riguardare le invenzioni. Nell’ordinamento italiano, però, viene applicata in maniera meno restrittiva, riservando vantaggi alle grandi imprese

di Duccio Facchini

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AltreconomiaNumero 18430

PRIMO TEMPO Ricerca

tratta della più importante age-volazione fiscale degli ultimi anni che richiede una tempestiva valu-tazione ed analisi al fine di poterne sfruttare sin da subito i benefici”.

Ernst & Young non è l’unica multinazionale della consulenza operante in Italia ad aver dedicato nel 2015 un flyer pubblicitario ad hoc al “patent box”, misura introdotta dal governo di Matteo Renzi con la Legge di Stabilità 2015 (dicembre 2014). Si è mossa anche PriceWaterhouseCoopers (PWC) -l’opuscolo è intitolato “Il regime Patent Box in Italia: un vantaggio competitivo”-, promettendo ai clienti italiani “assistenza completa”. Il “patent box” non è altro che un’agevolazione fiscale rico-nosciuta a chi ricava reddito attraverso l’utilizzo di un bene di proprietà intellettuale, come i bre-vetti, ad esempio. La ragione dovrebbe esser quel-la di sostenere la ricerca e lo sviluppo delle impre-se, specie delle più piccole e “smart”.

Averlo introdotto non è stata una scelta atipi-ca del nostro Paese rispetto al resto dell’Europa, o in contraddizione con i principi di contrasto all’elusione fiscale messi a punto dai Paesi stret-ti intorno all’Organizzazione per la cooperazio-ne e lo sviluppo economico (OCSE), e contenuti nel documento “Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting” (BEPS). Il punto però è che a un anno dalla sua sostanziale regolamentazione (con decreto congiunto del ministero dello Sviluppo economico e di quello dell’Economia del 30 lu-glio dello scorso anno), la promessa di incentivare ricerca e sviluppo delle piccole e medie imprese attraverso gli sconti fiscali del “patent box” pare largamente disattesa. Nonostante il presidente del Consiglio l’abbia ri-badita anche dinanzi ai “giovani” industriali di Confindustria all’assemblea di Santa Margherita ligure del giugno di quest’anno. Se è vero che non si tratta genericamente di un “regalo alle multi-nazionali” -com’è stato anche scritto da alcuni

quotidiani nazionali- è vero anche che “il siste-ma del Patent -ragiona Roberto Tiezzi, capo del Servizio valorizzazione ricerca, Head, Technology Transfer Office del Politecnico di Milano-, per la sua complessità e per i suoi costi è risultato de-cisamente fuori fuoco rispetto alle piccole realtà imprenditoriali”.

Per capire perché agli annunci non siano segui-ti vantaggi tangibili è necessario fare un passo indietro. “L’obiettivo dichiarato dal legislatore -sintetizza Roberto Casati, managing partner di Quantimethod Srl- è quello di garantire un regi-me di tassazione agevolata su quei redditi deri-vanti dall’utilizzo, diretto o indiretto, di beni di proprietà intellettuale da parte di un’impresa”. All’interno del contenitore dei “beni agevolabili” dal “patent box”, il Governo non ha inserito sol-tanto i brevetti ma anche i marchi depositati, il software protetto da copyright, i disegni, i model-li e i segreti industriali “giuridicamente tutelabi-li” (detti anche know-how). E già con questa scel-ta l’Italia si è distinta, creando quello che Tiezzi definisce un “modello ibrido”: “L’inclusione dei marchi tra i beni agevolabili è una caratteristi-ca peculiare del Patent box italiano -prosegue Casati- che non è quasi mai presente negli ana-loghi regimi degli altri Paesi”. La differenza tra brevetti e marchi è sostanziale: mentre i brevetti sono il frutto di un’attività di ricerca e sviluppo vera e propria e hanno lo scopo di tutelare giuri-dicamente l’invenzione, i marchi non derivano da un’attività di ricerca e sviluppo ma assolvono al solo scopo di garantire giuridicamente il diritto di contraddistinguere in modo esclusivo i propri prodotti con un segno distintivo (il marchio, ap-punto). Generando valore commerciale. Fatto sta che contrariamente a quanto indicato dall’OCSE, l’Italia ha allargato ai marchi e al know-how la tas-sazione agevolata, senza prevedere trattamenti diversi.L’agevolazione del “patent box” dura cinque anni, è irrevocabile, ed è molto allettante per le impre-se. Quando entrerà a pieno a regime, a partire dal 2017, potrà determinare infatti “una tassazione ai fini IRES (l’imposta sul reddito delle società, ndr) del reddito derivante dal bene immateriale con aliquota [...] pari al 12%”. Oggi è al 31%. Il virgo-lettato è dell’Agenzia delle entrate, l’ente chiama-to per legge a ricevere le istanze presentate dalle imprese e quantificare insieme a loro -in contrad-dittorio- il reddito interessato dallo “sconto” del patent box. Tenendo conto anche delle spese di “ricerca e sviluppo” effettivamente sostenute.Ad oggi non esiste ancora un precedente, dato che

“Si

Nel modello italiano il regime di tassazione agevolata del patent box riguarda anche marchi, software protetto da copyright, disegni, modelli e segreti industriali “giuridicamente tutelabili”

5anni: tanto dura, in Italia, l’age-volazione del “patent box”. È irrevocabile

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31 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

le aziende hanno avuto tempo fino al 31 maggio di quest’anno per presentare tutta la documen-tazione all’Agenzia. A sua volta, l’istituto diretto da Rossella Orlandi ha il diritto di prendersi 180 giorni di tempo per valutare i plichi e convocare i diretti interessati, che nel 2015 sono stati circa 4.500. Il tutto caso per caso, senza mai entrare nel merito del “valore” scientifico o di ricerca del brevetto (tralasciando il marchio) in questione. Tradotto: l’Agenzia delle entrate non discute se un brevetto sia effettivamente innovativo. Non ne ha né le competenze né l’interesse. “La concessione del brevetto, in Italia, è frutto di un mero accerta-mento di requisiti formali della domanda presen-tata ad esempio all’Ufficio italiano brevetti e mar-chi (UIBM), incardinato presso il ministero dello Sviluppo economico -spiega Tiezzi-. Da qualche anno, va detto, è stata introdotta una innovazio-ne importante, che coincide con un rapporto di ricerca curato dall’European Patent Office (EPO). Non si tratta ancora di un esame approfondito e completo ma è comunque un bel passo avanti”. Nel caso dei brevetti, la società interessata al “pa-tent box” può presentare all’Agenzia anche la semplice domanda depositata presso l’UIBM. Nel caso del know-how, è sufficiente una semplice au-todichiarazione del legale rappresentante, che si assume la responsabilità penale in caso di falsità. Del resto, spiega Casati, quando ci si riferisce a questa categoria “si tratta di un concetto effimero, coperto per sua natura da un alone di segretezza”. A queste maglie larghe in ingresso si aggiungono i dati diffusi a febbraio dall’Agenzia delle entra-te, che confermano in pieno le previsioni fatte da Casati e Tiezzi. Delle 4.498 istanze presentate nel 2015, oltre il 55% facevano riferimento a società con classi di fatturato che andavano da 10 milioni a oltre 300 milioni di euro. Più di una domanda su tre riguardava i marchi (36%), poi know-how (22%), brevetti (18%), disegni e modelli (14%) e software (10%). Vuol dire che quasi sei domande

su dieci finalizzate a trarre beneficio dal meccani-smo del “patent box” sono nate da beni immate-riali non considerati meritevoli dall’OCSE.In tema di quantificazione dello “sconto”, Casati, in un articolo pubblicato sul Notiziario dell’Ordi-ne dei consulenti in proprietà industriale, ha fatto un passo in più: ha provato cioè a stimare i bene-fici fiscali, seppur al ribasso. Incrociando i diversi coefficienti, è giunto a ipotizzare i risparmi a se-conda delle classi di fatturato. Quello che emer-ge è che una piccola impresa da 1 milione di euro di ricavi potrebbe ambire a risparmiare il primo anno del patent circa 4mila euro, 28mila euro su tutti e cinque gli anni successivi.La sola consulenza per metter a punto la “doman-da” all’Agenzia -quel lavoro svolto ad esempio dagli omologhi di EY o PWC, che si promuovono alle aziende- può arrivare a costare tra i 40mila e 150mila euro. Quindi ai “piccoli” non conviene affatto. Sono tagliati fuori, a differenza dei colossi dai fatturati più elevati. Ma la corsa al brevetto, o meglio, al patent “ibri-do” che contiene anche e soprattutto i marchi, ri-schia di aprire un problema per la finanza pub-blica. L’esecutivo, infatti, avrebbe previsto uno stanziamento su base triennale di 620 milioni di euro, poco più di 200 milioni all’anno. Roberto Casati è prudente, anche se basta un calcolo gros-solano per aver contezza del rischio. Stimando al massimo ribasso i benefici, le sole istanze relative al 2015 dovrebbe portare lo Stato a “scontare” ai grandi (gruppi con fatturati tra i 10 milioni e gli oltre 300 milioni di euro) qualcosa come 590 mi-lioni di euro. Il triplo di quanto messo a bilancio.

La confusione del “patent box” italiano fa eco a un “working paper” del 2015 a cura del set-tore “Taxation and Customs Union” della Commissione europea. Oggetto della ricerca di Alstadsæter, Barrios, Nicodeme, Skonieczna e dell’italiano Antonio Vezzani erano le ricadute dei meccanismi come il patent box sulla ricerca e sviluppo (R&D) a livello locale. Dopo una venti-na di pagine, nelle conclusioni, il giudizio è sen-za appello. “Dai nostri risultati -scrivono gli au-tori del report- emerge che nella maggioranza dei casi l’esistenza di un regime di ‘patent box’ incentiva le multinazionali a spostare la sede dei loro brevetti senza che corrisponda contestual-mente alcun aumento degli inventori o nell’at-tività di ricerca. Abbiamo rilevato che la misu-ra dei vantaggi fiscali è negativamente correlata alla ricerca e sviluppo prodotti a livello locale. Ciò suggerisce che gli effetti del ‘patent box’ siano perlopiù di natura fiscale”.

“Nella maggioranza dei casi l’esistenza di un regime di ‘patent box’ incentiva le multinazionali a spostare la sede dei loro brevetti senza alcun aumento nell’attività di ricerca” (da un paper della Commissione europea)

58%la percentuale delle istanze di “patent box” relative a marchi e know-how tra quelle presentate in Italia

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AltreconomiaNumero 184

Luigi Montagnini è un medico anestesista-rianimatore. Dopo aver vissuto a Varese e Londra, oggi è a Genova, dove lavora presso l’Istituto Gaslini. Da diversi anni collabora con Medici Senza Frontiere.

di Luigi Montagnini

Sto sorvolando il Mediterraneo. Grazie alle due gemelle low cost, nell’ultima settimana ho attraversato l’Europa due vol-te: da Londra, dove ho partecipato a un congresso medico, a Bari, base di partenza per una breve escursione tra i Sassi di Matera. Per noi europei gli spostamenti in aereo, per motivi professionali o per divertimento, sono un’opzione scontata. Quando m’invitano a qualche evento pubblico per testimo-niare il mio operato di medico all’interno di una grande ong, cito spesso la nube di polvere provocata dall’Eyjafjallajökull: era la primavera del 2010, e le due compagnie rivali nel pie-no del loro picco di crescita di passeggeri. Rimanemmo tutti spiazzati da questo vulcano islandese dal nome impronun-ciabile che mise in scacco la nostra Europa senza confini frenando, solo per poche settimane, i nostri spostamenti di liberi cittadini. Nelle mie presentazioni, confronto l’ansia collettiva generata da questo evento naturale alla rassegna-zione di Abu Abad, il nostro autista a Gaza, quando ci salu-tammo. Ero al termine della mia missione in soccorso alla popolazione civile pesantemente colpita da Israele nell’ope-razione Piombo Fuso. Abu Abad mi lasciò a qualche centina-io di metri dal terminal di Erez, dove due blocchi di cemento sbarravano la strada. In lontananza il muro della vergogna che trasforma Gaza in una prigione a cielo aperto. Sul terre-no le impronte lasciate dai cingolati israeliani durante l’at-tacco. Scesi dall’auto, mi caricai sulle spalle il mio zaino e ab-bracciai Abu Abad. “Spero di rivederti da qualche parte nel mondo”, gli dissi. “No Luigi, non avrò mai un passaporto e non mi faranno mai uscire. È la mia terra, morirò qui, ma credimi, farei qualsiasi cosa per consentire ai miei figli di at-traversare quel muro e studiare all’università”. Invece Saeed, il mio piccolo fratello, come ama definirsi, era orgoglioso di poter crescere i suoi figli nella sua amata pa-tria, la Siria. Ad Aleppo c’era l’Università e lui stesso vi in-segnava infermieristica, prima della guerra. Poi si dedicò completamente alla cura dei suoi concittadini nella sala ope-ratoria di un ospedale di MSF. Non avrebbe mai immaginato di dover lasciare il suo Paese, ma dopo cinque terribili anni di bombardamenti e dopo aver visto il padre morire schiac-ciato sotto le macerie della sua casa, è stato costretto a farlo.

è il numero di passeggeri che hanno viaggiato in aereo nell’Unione europea nel 2014 (Eurostat)

879 milioni

Mi ha contattato via Facebook qualche settimana fa. “Ciao dottor Luigi. Sono scappato in Turchia. Vorrei raggiungere l’Europa attraverso il mare. Che ne pensi?”.Nel 2015, MSF Italia ha lanciato una campagna di sensibi-lizzazione, #milionidipassi, per raccontare le storie del-le persone che nel mondo (59,5 milioni nel 2014 secondo l’UNHCR) abbandonano tutto ciò che di più caro possiedono per la speranza di sopravvivenza. Cerchiamo di denuncia-re quello che in tanti hanno finto di non poter prevedere. Siamo in molti dei luoghi da cui i milioni di Saeed fuggono disperati. Li incontriamo lungo le rotte di migrazione, dove cerchiamo di offrire loro riparo dalle torture, dagli stupri e dalle umiliazioni che devono subire. Siamo nei Paesi in cui approdano per chiedere rifugio, dove documentiamo le feri-te che mesi di spostamenti hanno provocato nei loro corpi e nelle loro menti e dove cerchiamo di restituire loro dignità. Lo scorso anno sono arrivati in Europa un milione e poco più di immigrati: il 70% fuggiva dalla Siria e dall’Afghanistan. Ho visto entrambe queste guerre. Capisco perché fuggono. Lo farei anche io.

Il volo a pedali Popolazioni in fuga. Mentre noi prendiamo un aereo anche solo per divertimento, ogni anno milioni di persone sono costrette a rincorrere la speranza di sopravvivere via mare

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33 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

Immigrazione

Albania, Eritrea, Italia: il 1991 e le radici culturali dell’“esodo”L’8 AGOSTO MIGLIAIA DI ALBANESI SBARCARONO A BARI. VENNERO RINCHIUSI NEL VECCHIO STADIO

È passato un quarto di secolo da un anno-chiave delle nostra contemporaneità. Dall’estate in cui assistemmo all’arrivo in Puglia dei primi boat people e dalla indipendenza dell’ex colonia del Corno d’Africa, da cui scappano i profughi del 2016

di Alessandro Leogrande*

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AltreconomiaNumero 18434

PRIMO TEMPO Immigrazione

grandi passaggi storici coincido-no spesso con l’abbattimento del-le statue dei dittatori. Il 20 febbra-io del 1991 in piazza Skanderbeg, nel cuore della capitale albanese

Tirana, una folla oceanica composta da studenti e operai abbatté la statua bronzea di Enver Hoxha. Hoxha, l’artefice di uno dei regimi comunisti più totalitari e claustrofobici che siano mai esistiti, era morto nel 1985. Le redini del potere erano nel frattempo passate nelle mani del delfino Ramiz Alia, che in suo onore fece costruire quella statua alta dieci metri.Il 20 febbraio, dopo settimane di proteste e di sciopero della fame da parte degli studenti che chiedevano semplicemente più libertà e demo-crazia, oltre che la propria università non fosse più intitolata al dittatore scomparso, la statua venne abbattuta. In pochi giorni, un regime basa-to sul più assoluto isolamento (non solo nei con-fronti dei Paesi occidentali, ma anche nei con-fronti di tutti i Paesi dell’Europa dell’est e della stessa Cina, considerati ormai come traditori dei rigidi dettami del marxismo-leninismo) andò in frantumi.Poche settimane dopo, ai primi di marzo, ini-ziarono i primi viaggi dei boat people verso le no-stre coste. A meno di due anni dalla caduta del Muro di Berlino, cadeva la cortina di ferro anche nel Basso Adriatico. Nella sola città di Brindisi, a bordo di diverse imbarcazioni, arrivarono venti-mila albanesi, che furono accolti dalla popolazio-ne locale. Per capire la psicologia di quei viaggi, l’ansia spasmodica di approdare sull’altra spon-da, bisogna ricordare che quegli uomini e quelle donne, spesso giovanissimi, erano le prime per-sone “normali” (non appartenenti, cioè, alla ri-strettissima élite del partito) a mettere piede fuori dai confini statali dopo quarant’anni.Da allora, la nostra percezione del Mediterraneo si è profondamente trasformata. Tuttavia a ma-terializzare l’immagine dell’esodo davanti ai no-stri occhi non furono tanto quei viaggi di marzo, quanto l’approdo del mercantile Vlora nel porto di Bari la mattina dell’8 agosto del 1991. A bordo, stipati in ogni anfratto della nave, c’erano oltre sedicimila persone. Chi non era ancora nato, può capire qualcosa del viaggio più imponente nella storia del Mediterraneo recente, e dell’impatto che ebbe sull’opinione pubblica italiana e euro-pea, attraverso le immagini di due film recenti: Anija di Roland Sejko e La nave dolce di Daniele Vicari.Appena quell’enorme massa di persone sbarcò sul molo del porto, si pose il problema di dove

sistemarla. L’allora sindaco di Bari Enrico Dalfino avrebbe voluto costruire un campo d’accoglienza nella zona della Fiera del Levante. Ma il ministe-ro dell’Interno (e alle sue spalle, d’imperio, il pre-sidente della Repubblica Francesco Cossiga) optò per una soluzione che non prevedesse il rispet-to di alcun minimo standard di accoglienza, ol-tre che dei più elementari diritti. Quelle migliaia di uomini e donne vennero confinate nello Stadio della Vittoria, il vecchio stadio di calcio in disu-so, sostituito dal San Nicola che solo un anno pri-ma aveva ospitato la finale per il terzo posto dei Mondiali di Italia ‘90.Dalla fine della Seconda guerra mondiale, in Europa occidentale, solo un’altra volta migliaia di civili erano stati accatastati in uno stadio. Era ac-caduto nel 1961 a Parigi, quando migliaia di alge-rini vennero rinchiusi nel Velodromo d’Inverno, già tristemente noto come luogo di internamento degli ebrei nel 1942.Quasi tutti gli albanesi ammassati nello sta-dio vennero rimpatriati. Vista col senno di poi, quella decisione caldeggiata dallo stesso Cossiga portò alla creazione del primo grande centro di permanenza informale sul suolo italiano. Come se la politica dei grandi centri, successivamente articolata negli anni degli sbarchi sulle coste pu-gliesi e poi esportata in tutta Italia, avesse mosso i propri passi proprio a partire da quella scelta scellerata. Tuttavia, come nel 1961 la polizia francese ave-va confinato in un velodromo i figli e i nipoti dei

I

A materializzare l’immagine dell’esodo davanti ai nostri occhi fu l’approdo del mercantile Vlora nel porto di Bari, l’8 agosto del 1991. A bordo c’erano oltre 16mila albanesi

In apertura, la nave “Vlora” all’arrivo nel por-to di Bari: era l’8 agosto del 1991, e a bordo c’erano oltre 16mila pro-fughi albanesi

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35 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

colonizzati che protestavano, nel 1991 a finire nello Stadio della Vittoria furono i figli e i nipo-ti di un Paese che in passato era stato occupato dall’Italia fascista -un Paese in cui tutti parlavano italiano non solo perché i suoi abitanti riuscivano a captare le onde delle nostre emittenti televisive, ma soprattutto perché le basi dell’italianizzazio-ne voluta dal fascismo, a cominciare dall’urbani-stica, non erano state del tutto divelte dal succes-sivo regime-.Prende così forma, proprio nel 1991, un singola-re intreccio tra miopia sulle cause dei viaggi con-temporanei e rimozione di quell’antico passato coloniale, che precede spesso lo sconquasso poli-tico da cui poi i viaggi hanno origine. A venticin-que anni di distanza da quegli eventi, e dalla paura dell’“invasione albanese” che allora generarono, è facile constatare come mezzo milione di uomini e donne provenienti dal Paese delle aquile siano stati integrati nella società italiana. In particola-re, si è formata una nuova generazione italo-al-banese, perfettamente bilingue, che vive in bilico tra le due sponde dell’Adriatico, e che costituisce il rovescio esatto delle politiche dello Stadio della Vittoria (e dei deliri isolazionisti di Enver Hoxha, oltre che, andando un po’ più indietro nel tempo, di quelli imperialisti di Galeazzo Ciano). Un libro utilissimo per capire che cosa è accaduto in que-sti anni è L’immigrazione albanese in Italia. Dati, riflessioni, emozioni del sociologo Rando Devole (Agrilavoro, 2006).Dopo le convulsioni degli anni Novanta e la lunga

transizione post-comunista, l’Albania appare oggi enormemente mutata. Basta un dato per ca-pire come siano lentamente cambiate le relazioni nel Basso Adriatico: secondo dati forniti dal mi-nistero dell’Interno albanese, per la prima vol-ta nel 2013 il numero degli albanesi rientrati in Albania dall’Italia (46mila), sommato a quello de-gli italiani che hanno richiesto un permesso di la-voro nel “Paese di fronte” (19mila), ha superato il numero degli albanesi emigrati in Italia nello stesso periodo. A Tirana c’è ormai una Little Italy che conta alcune decine di migliaia di abitanti.

C’è tuttavia un altro venticinquennale da ricor-dare in questa estate del 2016. Il 24 maggio del 1991, al termine di una guerra trentennale contro l’occupante etiopico, l’Eritrea ottiene l’indipen-denza. Tuttavia, nel giro di pochi anni, il gover-no sorto intorno a Isaias Aferwerki e alla leader-ship del Fronte popolare di liberazione nazionale si trasforma in una spietata dittatura. Viene isti-tuito il Tribunale speciale; decine di migliaia di oppositori finiscono nelle prigioni, alcune delle quali sono tuttora formalmente sconosciute. Il regime impone presto la leva obbligatoria a tem-po indeterminato, sia per gli uomini sia per le donne. È da questo Stato-carcere che fuggono in massa decine di migliaia di eritrei. Se guardiamo i dati degli approdi in Italia dalla Libia negli ul-timi due anni forniti dall’Agenzia Frontex (oltre 300mila persone) ci rendiamo conto che il 25% dei profughi è fuggito dall’Eritrea. Eppure rara-mente si parla della “questione eritrea” alla base dei viaggi nel Mediterraneo. E ancora più rara-mente -esattamente come per l’Albania- si parla del passato coloniale italiano nei posti da cui oggi si fugge in massa (si pensi anche alla Somalia).Sono davvero sorprendenti le analogie tra due Paesi diversissimi come l’Albania e l’Eritrea. Entrambi occupati dal fascismo, hanno sviluppa-to in seguito una forma di iperstalinismo, dal cui dissesto è poi emerso un esodo di massa. Tale esodo ha cause recenti (il totalitarismo tra-gicamente edificato dai movimenti di liberazione nazionale) e fantasmi lontani (l’eco dell’occupa-zione italiana). Spesso non riusciamo a districa-re l’intreccio tra i due piani, né a comprendere come entrambi i piani abbiano a che fare con il nostro presente. Per questo è importante iniziare a considerare il 1991 un anno-chiave della nostra contemporaneità. Un anno-chiave non solo per capire cosa sia accaduto in Albania e in Eritrea, ma per leggere le cause che hanno determinato due dei principali esodi di massa degli ultimi 25 anni.

* Alessandro Leogrande è nato a Taranto nel 1977 e vive a Roma. È vice-direttore del mensile “Lo straniero”.Nel 2015 ha scritto “La fron-tiera” (Feltrinelli), finalista al Premio interna-zionale Tiziano Terzani nel 2016. Nel 2012, per lo stesso editore, aveva pubblicato “Il naufragio”, che ricostruisce la storia della Kater i Rades, una pic-cola motovedetta albanese straca-rica di immigrati, speronata da una corvetta della Marina militare italiana nel marzo del 1997. I morti furono 57, in gran parte donne e bambini, 24 corpi non verranno mai ritrovati

L’indipendenza dell’Eritrea è del 24 maggio 1991. Nel giro di pochi anni diventa uno Stato-carcere, da cui è fuggito il 25% dei 300mila profughi arrivati dalla Libia negli ultimi 2 anni

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AltreconomiaNumero 18436

Il clima è (già) cambiatoIl riscaldamento globale è un problema urgente. Il sistema climatico ha una grande inerzia. E se non riduciamo le emissioni nei prossimi 20 anni, non avremo un’altra opportunità

Stefano Caserini è docente di Fenomeni di inquinamento al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente, 2016)

di Stefano Caserini, Climalteranti.it

Uno dei motivi per cui fatichiamo ad agire contro il riscal-damento globale, e per cui l’abbiamo sottovalutato a lungo, è che non abbiamo capito la sua particolarità, la sua straordi-narietà, il perché è così diverso da altri problemi ambientali con cui abbiamo a che fare. Perché è diverso? La spiegazione è centrata su due parole: inerzia e irreversibilità. Molti dei cambiamenti del sistema climatico che saranno indotti dalle nostre emissioni di gas serra dureranno per secoli, alcuni per molti millenni. Il principale dei gas cli-malteranti, il biossido di carbonio (CO2) che scarichiamo nell’atmosfera in tanti modi diversi (principalmente quanto produciamo energia), è un gas molto stabile: una parte ri-mane in atmosfera per migliaia di anni, è sostanzialmente perenne rispetto ai tempi dell’esperienza umana. Inoltre, il sistema climatico globale ha una grande inerzia, che sposta gli effetti di parecchi decenni (e in qualche caso di secoli e millenni) rispetto alle cause. Se scarichiamo CO2 in atmosfe-ra, si accumula. Di conseguenza anche l’aumento di tempe-ratura generato dall’aumentato effetto serra non riguarderà solo noi, ma centinaia di generazioni dopo di noi. Un’inerzia ancora maggiore hanno le grandi masse glaciali, in particolare dell’Antartide, il cui accumulo o la cui fusione influenza il livello medio degli oceani. Uno studio recente, pubblicato sulla rivista scientifica Nature, è riuscito a spiega-re i cambiamenti dei ghiacci dell’Antartide dovuti alle varia-zioni di temperatura del passato, e quindi a descrivere cosa potrebbe succedere in futuro. La conclusione è che se conti-nueremo ad emettere tanti gas climalteranti nell’atmosfera, una parte dei ghiacci dell’Antartide fonderanno e l’acqua di fusione aumenterà il livello del mare. Non sarà affatto come nei film di Hollywood, con ondate di decine di metri che im-provvisamente inondano le città. Il livello del mare potrebbe salire fino a 15 metri in 5 secoli, ma poco vedremo nei pros-simi decenni. Il vero problema che ci riguarda è l’irreversibilità dei cam-biamenti che noi genereremo, con le decisioni che prendere-mo nei prossimi anni e decenni. Perché le nostre emissioni di gas climalteranti, il loro inevitabile permanere e scaldare l’atmosfera per secoli, potrebbero destabilizzare una parte

è la quantità di CO2 che sarà ancora presente nell’atmosfera

10.000 anni dopo essere stata emessa dalle attività umane.

20%

dell’Antartide, e quindi i ghiacci poi inevitabilmente finireb-bero negli oceani aumentandone il livello medio. Una volta innescato questo meccanismo non c’è modo di fermarlo: le forze in gioco sono troppi grandi, anche la fantascienza sa-rebbe in difficoltà nel trovare il modo di intervenire.Solo se taglieremo drasticamente le emissioni, limitando l’aumento di temperatura ben al di sotto dei 2°C (più o meno l’obiettivo dell’Accordo sul clima di Parigi), il contributo dell’Antartide all’aumento del livello del mare nel 2500 sarà di poche decine di centimetri. Altrimenti saranno molti me-tri, seguiti da tanti altri metri nei secoli successivi.In altre parole, se non ridurremo le emissioni dei gas climal-teranti nei prossimi due o tre decenni, non avremo un’altra possibilità. Ossia, potremmo comunque farlo dopo, ma non sarà la stessa cosa, non avrà le stesse conseguenze per chi verrà dopo di noi. Mentre potremmo aspettare 20 anni per ripulire i fiumi, i laghi o i suoli contaminati, sul clima c’è questa “small window of opportunity”, una “piccola finestra di opportunità” come la chiamano gli esperti di scenari clima-tici. I prossimi 20-30 anni saranno cruciali. Viviamo in tem-pi interessanti, dice il filosofo Slavoj Žižek.

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37 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

Diritti

you remember il G8 di Genova? C’erano George W. Bush, Silvio Berlusconi e Tony Blair; c’erano i black bloc e i gruppi scout, le bandie-re rosse e quelle arcobaleno; c’erano

soprattutto i manganelli e i falsi verbali d’arresto di forze di polizie uscite per giorni dai canoni tipi-ci di una democrazia. Sono trascorsi quindici anni e non è acqua passata. In quei giorni -luglio 2001- il tema politico del momento era la mobilitazio-ne globale di milioni di cittadini. Contestavano le oligarchie politiche e finanziarie che governano il Pianeta; chiedevano per le persone la stessa liber-tà di movimento prevista per capitali e imprese; volevano la cancellazione del debito dei Paesi più poveri. In breve: il movimento che si batteva per una “globalizzazione dei diritti” era al centro del-la scena e la città di Genova, fra il 16 e 22 luglio, sarebbe stato il suo palcoscenico internazionale. Sappiamo com’è andata a finire. La mobilitazio-ne fu enorme e piena di entusiasmo ma la conte-stazione ai cosiddetti “otto grandi” sarà ricorda-ta ancora a lungo per la definizione che ne diede all’epoca Amnesty International, come “la più va-sta e cruenta repressione di massa della storia eu-ropea recente”. Un ragazzo genovese, Carlo Giuliani, fu ucciso

da un carabiniere in piazza Alimonda, vicino alla stazione Brignole; migliaia di persone furono at-taccate per strada dalle forze di polizia a colpi di manganello e con abnormi lanci di lacrimogeni; gli arresti ingiustificati non si contarono; infi-ne decine e decine di persone subirono violenze e maltrattamenti gravissimi nella scuola Diaz, in un quartiere borghese della città, e in una caser-ma di polizia adibita a carcere nella frazione pe-riferica di Bolzaneto. Fu un tracollo dello stato di diritto; si vissero giornate e nottate all’insegna del sistematico abuso di potere. Sono passati quindici anni e molto sappiamo di quel che avvenne in quelle drammatiche giorna-te e perché. Conosciamo anche nomi e cognomi dei responsabili, grazie ai processi che la magi-stratura genovese è riuscita a portare a termine nonostante gli ostacoli frapposti dai vertici isti-tuzionali e di polizia. Sappiamo -è scritto nero su bianco nelle sentenze- che alla Diaz e a Bolzaneto fu praticata la tortura su decine di cittadini iner-mi da parte di molti agenti e funzionari delle for-ze di polizia e nell’indifferenza complice di colle-ghi e superiori. Sono passati quindici anni e c’è una domanda ob-bligata in attesa di risposta: che cosa si è fatto per punire i responsabili e prevenire ulteriori

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Dopo quindici anni il G8 di Genova è una ferita aperta per l’ItaliaIL 15 LUGLIO NEL CAPOLUOGO LIGURE UN CONVEGNO A PALAZZO DUCALE

Sbiadisce il ricordo della Diaz e Bolzaneto, e nonostante la condanna della Corte europea per i diritti umani, non c’è ancora una legge contro la tortura. E i nomi dei poliziotti condannati sono stati oscurati nella banca dati della Cassazione

di Lorenzo Guadagnucci

25i poliziotti con-dannati in via definitiva per l’irruzione all’in-terno della scuola “Diaz”, dove dor-mivano i manife-stanti: oltre 60 risultarono feriti, e tra loro c’era anche Lorenzo Guadagnucci, l’autore di questo articolo

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AltreconomiaNumero 18438

PRIMO TEMPO Diritti

abusi? Come ha reagito lo Stato a quella spa-ventosa eclisse della democrazia? Che lezione ne ha tratto il Paese? Proviamo a immaginare che cosa sarebbe acca-duto in una democrazia davvero funzionante. I vertici di polizia avrebbero reagito con indigna-zione, avviando rigorosi procedimenti disciplina-ri, sospendendo immediatamente gli agenti coin-volti negli episodi più gravi, per poi escluderli dal servizio se rinviati a giudizio e allontanarli defi-nitivamente se condannati. Il Parlamento avreb-be istituito un’inchiesta al fine mettere a fuoco il malessere interno alle forze di polizia, avviando poi una riforma democratica degli apparati, con la rimozione dei dirigenti ormai compromessi e una profonda revisione dei criteri di formazione e selezione del personale. Tutti i responsabili delle violenze sarebbero stati puniti e il Parlamento avrebbe preso sul serio le indicazioni contenute nelle sentenze, approvan-do regolamenti e leggi per introdurre l’obbligo di indossare codici di riconoscimento sulle divise

e lo specifico reato di tortura nell’ordinamento penale. Niente di tutto questo è avvenuto. Alcuni, solo al-cuni, dei responsabili sono stati puniti grazie alle condanne inflitte dai tribunali, ma i più sono sfug-giti alla legge grazie alla mancata identificazione, alla prescrizione e anche all’assenza di azione giu-diziaria (numerosi abusi compiuti per strada non sono stati perseguiti). Le uniche sospensioni sono state inflitte dai giudici come pena accessoria ai condannati nel processo Diaz, mentre i vertici di polizia e il ministero non hanno avviato veri

Secondo Amnesty, l’operato delle forze dell’ordine durante il G8 di Genova ha rappresentato “la più vasta e cruenta repressione di massa della storia europea recente”

Carabinieri in assetto anti-sommossa al G8 di Genova del 2001

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39 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

IL CONVEGNO IL 15 LUGLIO 2016 A GENOVA

PERCHÉ NON PUNIAMO LA TORTURA?

Più volte la Corte europea dei diritti umani ha condannato lo Stato italiano per aver violato il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti. La lacuna maggiore è rappresentata dalla mancata codificazione del reato di tortura: il Parlamento discute ma non è ancora riuscito a trovare un accordo su una buona leg-ge. Nella prestigiosa sala del Minor Consiglio, nel Palazzo Ducale di Genova, una giornata di lavori -convegno e tavola rotonda- per fare il punto a 15 anni dal G8 sulla tutela dei diritti umani in Italia. Partecipano tra gli altri Enrico Zucca, Marina Lalatta Costerbosa, Maria Luisa Menegatto, Sergio Lo Giudice. Info su altreconomia.it

procedimenti disciplinari. La proposta di istitu-ire una commissione parlamentare d’inchiesta fu bocciata per la defezione di alcuni deputati della maggioranza parlamentare che la proponeva.No, l’Italia non ha fatto i conti con Genova G8 e perciò non è acqua passata. Continua a prevalere l’enorme desiderio di rimozione che ha impedito agli apparati dello Stato di agire come si dovrebbe fare in un Paese democratico e maturo. L’ultimo episodio della serie ha tratti grotteschi quanto in-quietanti. Qualcuno si è accorto che nelle banche dati della Cassazione, alle quali possono accedere giudici e studiosi, nel dispositivo della sentenza Diaz erano stati oscurati i nomi dei condannati (e la sentenza Bolzaneto era oscurata in attesa di analoga sorte). Un’anomalia, perché la copertura dei nomi è concessa in casi molto particolari e a tutela “dei diritti e della dignità degli interessati”. Si tratta in genere di casi scabrosi, a sfondo ses-suale o tali da nuocere a familiari e altri congiun-ti dei condannati. Ma le vicende Diaz e Bolzaneto riguardano abusi di potere e da proteggere, sem-mai, c’è solo l’identità delle vittime. Forse qual-cuno ha voluto proteggere i funzionari e dirigenti condannati da brutte figure sugli articoli giuridi-ci che saranno scritti in futuro? Il senatore Luigi Manconi ha presentato un’interrogazione per sa-pere chi e a che titolo abbia chiesto e ottenuto la cancellazione, in apparenza immotivata. Sono passate poche settimane e ancora prima che arri-vasse una risposta ufficiale in Parlamento, i nomi sono ricomparsi. Ora toccherà al governo, in re-plica a Manconi, chiarire che cos’è successo, ma l’episodio è emblematico della difficoltà mostrata dagli apparati dello Stato nel digerire le dure sen-tenze dei giudici genovesi.Una difficoltà che investe in pieno anche il Governo, il Parlamento, le varie forze politiche, incapaci di compiere un atto dovuto come il varo di una legge sulla tortura. Un anno fa, all’indoma-ni della clamorosa condanna subita dall’Italia alla Corte europea per i diritti umani sul caso Diaz, il presidente del Consiglio assicurò una pron-ta risposta: l’approvazione immediata della leg-ge sulla tortura, da tempo ferma in Parlamento. Era il 7 aprile 2015. Due giorni dopo fu in effet-ti approvato alla Camera un testo di legge, in più punti distante dagli standard normativi indicati dalla Convenzione internazionale contro la tor-tura. Quel testo, pur carente e da molti giudicato inadeguato, fu comunque avversato dai vertici di polizia, finanza e carabinieri, che vi vedevano un attacco alla credibilità delle forze dell’ordine. Tre mesi dopo, quindi l’estate scorsa, una burrascosa audizione in commissione al Senato del capo della

Polizia, Alessandro Pansa, portò a un improvviso ribaltone: il testo uscito da Montecitorio fu cam-biato per renderlo più gradito alle forze dell’or-dine, introducendo addirittura -fra altre norme a dir poco inconsuete- il principio delle “violenze reiterate” come condizione per poter parlare di tortura: un caso unico al mondo, un modo per va-nificare dall’interno la possibilità di applicare in concreto il crimine di tortura e per disinnescarne tutta la forza persuasiva in chiave di prevenzione. L’iter legislativo a quel punto si è fermato e non è chiaro se, quando e soprattutto come riprenderà. Sappiamo però che i vertici delle nostre forze dell’ordine mostrano disagio e diffidenza rispetto agli standard normativi internazionali in materia di diritti umani e di limiti all’azione delle polizie. L’attuale Parlamento, dal canto suo, si è rivelato inadeguato a svolgere i suoi compiti di indirizzo e controllo che devono essere esercitati, quando è il caso, anche contro i desiderata degli apparati di sicurezza. Sono passati quindici anni e il caso Genova G8 è ancora aperto.

“sTortura” è il titolo di un pam-phlet di Lorenzo Guadagnucci. Racconta perché l’Italia non sa punire la torturaed è incapacedi una riformademocraticadelle forze di polizia. Lo sca-ricate qui www.altreconomia.it/stortura

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AltreconomiaNumero 18440

Distratti dalla libertàI detenuti, la nonviolenza e il “modello Gorgona”. L’Italia non tutela la dignità dei reclusi e cancella il progetto avviato sull’isola-carcere, fondato sul rapporto con gli animali

Lorenzo Guadagnucci

Lorenzo Guadagnucci è un giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

Il sistema carcerario italiano non gode di grande prestigio. È anzi da tempo sotto processo, in senso sia metaforico sia giudiziario. Il sovraffollamento cronico ha esposto l’Italia a una severa censura da parte della Corte europea per i dirit-ti umani (la sentenza Torreggiani del 2013), culmine di un malessere strutturale che non si è riusciti ad affrontare con strumenti adeguati. La cultura della pena perorata dall’ar-ticolo 27 della Costituzione -la tutela della dignità umana e la finalità rieducativa- stenta ad affermarsi in un ambien-te carcerario afflitto da patologie di antica data. Ci sarebbe bisogno di una radicale riforma democratica, da concepire lungo i binari più avanzati e più moderni del diritto.Una riforma del genere certamente non si improvvisa ma va riconosciuto che non si partirebbe da zero. Nel corso del tempo il nostro pur malandato universo carcerario ha messo in moto “buone pratiche” che andrebbero considerate come le fondamenta di un nuovo edificio da costruire. E’ quindi un vero peccato - per usare un eufemismo - che si abbando-nino i progetti più originali e promettenti. È quanto sta avve-nendo alla Gorgona, l’ultima isola-carcere rimasta in Italia. Lì i detenuti hanno la possibilità di vivere all’aperto e alcuni di loro lavorano nell’azienda agricola istituita a suo tempo dallo stato. Gorgona è diventata famosa per un’impresa in apparenza impossibile: l’inserimento della pratica concreta della nonviolenza all’interno di una struttura carceraria. È il progetto che ha avuto il veterinario Marco Verdone come principale promotore e il direttore Carlo Mazzerbo come de-cisivo sostenitore. Il cuore del progetto è una nuova relazio-ne fra umani e animali, fino a formare -come massima am-bizione- una comunità interspecifica. I reclusi sono stati incoraggiati a considerare i maiali, le mucche, le capre, gli asini di Gorgona come propri compa-gni in un’avventura speciale: trasformare il periodo di de-tenzione in una vera occasione di ripensamento sul tema della violenza e del rapporto con l’altro. Gli animali, nella nostra società, sono l’altro per antonomasia, in quanto vit-time predestinate della violenza istituzionale. Segregarli, tormentarli e infine ucciderli è perfettamente legale e gode di un generico quanto solido consenso sociale. Ma non c’è

I detenuti presenti nelle carceri italiane al 31 maggio 2016. La capienza regolamentare dei 193 istituti è 49.697 persone (ministero della Giustizia)

53.873

nulla di “rieducativo” nell’allevare e macellare animali. Tutto cambia se questi diventano “rifugiati e cooperato-ri del trattamento” (come sta scritto nei provvedimenti di grazia firmati da Mazzerbo per alcuni di loro), se diventa-no titolari di propri diritti, come ha spiegato Verdone nel libro “Ogni specie di libertà” pubblicato da Altreconomia. Tutto cambia se il macello chiude e la morte violenta scom-pare dall’orizzonte quotidiano dei detenuti. Marco Verdone dopo vent’anni è stato comandato ad altri compiti dalla Asl livornese; Carlo Mazzerbo è stato trasferito e la com-petenza su Gorgona è passata al penitenziario di Livorno. L’azienda agricola (ma non gli animali) è stata affidata a un’impresa privata (i Frescobaldi) e il macello ha ricomincia-to la sua truculenta attività. Ma non è detta l’ultima parola: giuristi, intellettuali, associazioni animaliste hanno chiesto al governo di salvare quell’idea di Gorgona che ha preso for-ma grazie al veterinario, al direttore, ai detenuti, ma anche alla mucca Libertà, alla maialina Bruna e agli altri animali non umani. In verità il nostro sistema penitenziario potreb-be -forse dovrebbe- fare tesoro di quell’isola di armonia che Gorgona ha dimostrato di poter essere.

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Secondo tempo41—60

SilenzioPensare con le nostre orecchie è uno degli obiettivi attorno a cui si concentra da molti anni la ricerca dell’ecologia acustica, che studia l’ambiente sonoro del mondo, l’impatto dell’inquinamento acustico sulla qualità della vita e la gestione responsabile della realtà acustica in cui viviamo, considerata la più rumorosa di sempre

Maurizio Torretti

a pag. 52

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AltreconomiaNumero 18442

SECONDO TEMPO Attivismo

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43 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

Israele/Palestina: dieci fotografi contro il muro

HANNO AFFISSO LE LORO FOTO PER STRADA, A TEL AVIV

Il collettivo “Activestills” è nato nel 2006 e in dieci anni ha raccolto un archivio di 37mila scatti. Documentano la vita quotidiana tra West Bank, Striscia di Gaza e Cisgiordania

Testo di Federica SassoFoto del collettivo “Activestills”

Alcuni palestinesi usano una scala per superare il muro israeliano ad A-Ram, a Nord di Gerusalemme. Cercano di raggiungere la moschea di Al-Aqsa, nella città vecchia, per il secondo venerdì di preghiara del Ramadan.Foto di Oren Ziv

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AltreconomiaNumero 18444

SECONDO TEMPO Attivismo

uando i primi manifestanti si in-camminano verso la collina, Oren Ziv si infila il giubbotto antiproiet-tile con scritto “stampa” e allaccia l’elmetto. Ha già due macchine fo-

tografiche a tracolla e la maschera antigas pen-zola dalla cintura. È venerdì e siamo a Bil’in, il villaggio palestinese della Cisgiordania in cui da oltre dieci anni, ogni settimana, attivisti palesti-nesi e israeliani protestano contro il muro costru-ito da Israele. Le “proteste del venerdì a Bil’in” sono un simbolo, quasi un rituale del dissenso. Nei primi anni la stampa ha coperto con costanza le manifestazioni, poi l’interesse si è spento e solo un gruppo ristretto di fotografi continua a ritro-varsi al villaggio venerdì dopo venerdì. Oren è un fotografo israeliano, arrivato a Bil’in per la prima volta nel 2004, quando l’esercito sta-va edificando la barriera di cemento e la popo-lazione organizzava manifestazioni quotidiane. Non ha mai smesso di tornarci, ed è qui che ha incontrato i colleghi con cui nel 2006 ha fondato “Activestills”, un collettivo composto da israelia-ni, palestinesi e internazionali. “La differenza con il resto dei fotogiornalisti sul campo era che noi ci consideravamo fotografi ma anche parte di quel-lo che stava succedendo, supportavamo la lotta”, racconta Oren. Con Yotam Ronen, Keren Manor ed Eduardo Soteras, ha fondato “un collettivo, non un’agenzia”, sottolinea Oren. Perché l’idea di

fondo era “non esser costretti a coprire qualsiasi cosa, ma continuare a focalizzarci su quello che ci interessa: le violazioni dei diritti umani, gli sfratti e le demolizioni delle case dei Palestinesi, ma an-che questioni interne a Israele, come la lotta dei richiedenti asilo, il problema delle case popolari o i diritti della comunità LGBTQ”.

Oggi “Activestills” conta 10 fotografi sparsi fra Israele, la Cisgiordania e Gaza, e un archivio di quasi 37mila foto. Dieci anni fa, tutto è iniziato con l’idea di produrre una mostra a Tel Aviv per raccontare quello che stava accadendo a Bil’in. “Il villaggio si trova a 40 chilometri da qui, ma la gente non sa che cosa succede nel West Bank”. Oren Ziv è cresciuto ad Haifa ma vive a Tel Aviv da tempo. Ha 30 anni ed è attivo politicamente da quando ne aveva 16; è riuscito a farsi ricono-scere lo status di obiettore di coscienza dall’e-sercito israeliano, che lo ha esonerato dalla leva obbligatoria. Mentre siamo seduti nella sua casa di Tel Aviv, spiega che con quella prima mostra autoprodotta i fondatori di “Activestills” voleva-no “prendere la realtà del West Bank e portarla fino a qui”. Lo spazio di una galleria non sareb-be bastato per raggiungere il pubblico più vasto possibile, così i fotografi hanno cercato i muri più adatti tra le vie della città, quelli con la luce migliore. “Abbiamo stampato le foto su carta di buona qualità, preparato testi e didascalie, e poi

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Un palestine-se affronta un soldato israe-liano durante una protesta in occasione del “Giorno della ter-ra”, nel villaggio di Huwwara, West Bank, il 30 marzo 2015. Almeno 15 partecipanti furono feriti. Il “Giorno delle ter-ra” ricorda ogni anno la morte di 6 palestinesi per mano di polizia ed esercito israe-liano durante una manifestazione di protesta il 30 marzo 1976. Foto di Ahmad Al-Bazz

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45 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

ogni notte uscivamo ad affiggere”. Dopo questo esperimento “Activestills” è diventato una realtà strutturata, con un sito e un archivio cronologi-co e tematico per documentare gli aspetti poli-tico-sociali di questa realtà. Che è interconnessa e inseparabile: “Ci definiamo come un collettivo locale che si occupa di Israele/Palestina, il nome che abbiamo scelto di utilizzare per questo terri-torio”. Oren afferma che “l’archivio è organizzato per evidenziare la connessione fra i temi e le lotte portate avanti in nell’area. Non per proporre pa-ragoni impossibili fra situazioni diversissime, ma perché noi vediamo un filo che collega la scelta di resistere a ogni forma di oppressione”.

Sparsi tra Israele, la Cisgiordania e Gaza, i foto-grafi di “Activestills” scelgono le storie da coprire e le seguono per anni. “Uno dei miei progetti a lungo termine riguarda la vita nei villaggi palesti-nesi della Valle del Giordano, quelli inclusi nell’A-rea C controllata a Israele”, racconta Ahmad Al-Bazz, un fotografo e videografo di Nablus. Ha 23 anni, si è unito al collettivo nel 2012 e documenta da anni le demolizioni delle case palestinesi che secondo il governo di Israele non sono autorizza-te. Ahmad e gli altri fotografi palestinesi posso-no muoversi all’interno del West Bank. Oren e gli israeliani seguono quello che accade in Israele e nei territori occupati. Poi ci sono gli internazio-nali come Anne Paq che possono andare dapper-tutto: “Penso di essere stata il primo membro di ‘Activestills’ a vivere e lavorare in modo perma-nente nel West Bank”, racconta Anne, francese che fa parte del collettivo dal 2006 e ha passato dieci anni tra Ramallah e Betlemme. “Ho lavora-to a lungo nel campo profughi di Aida, vicino a Betlemme, e grazie al fatto di esser donna sono riuscita a fotografare situazioni a cui un uomo non avrebbe mai avuto accesso”. Funerali, mo-menti di dolore famigliare, o attimi molto intimi che le donne palestinesi non avrebbero accettato di condividere. Adesso Anne fa la spola tra l’Europa e la Striscia di Gaza, dove ha realizzato “Obliterated families” un progetto fotografico che racconta la storia di 50 famiglie che hanno perso più cari durante l’at-tacco israeliano dell’estate 2014. Il lavoro diven-terà anche un web-documentary focalizzato su 10 famiglie la cui vita è stata devastata dai bombar-damenti, e Anne racconta di aver deciso di esplo-rare questo tema perché “quando sono tornata nella Striscia di Gaza dopo l’attacco ho scoperto che non c’era più nemmeno un giornalista. Tutti i reporter che si erano precipitati a Gaza per copri-re gli scontri sono andati via dopo l’attacco, ma a

Gaza è rimasta una devastazione umana e mate-riale che nessuno stava documentando”.

Ahmad Al-Bazz crede che sia lo sguardo dei mem-bri come Anne a dare più autorevolezza al lavoro di “Activestills”. “Penso che il lavoro dei nostri fo-tografi internazionali sia più autorevole agli occhi di chi vive all’estero. Noi, israeliani o palestine-si, potremmo esser considerati di parte”, racconta quando ci incontriamo in un caffé di Ramallah. Anne invece è convinta che sia fondamentale ave-re più fotografi palestinesi nel collettivo “per riu-scire a documentare problemi interni alla società palestinese come la violenza domestica, la condi-zione delle donne o la differenza tra classi”. Non è scontato che palestinesi e israeliani collaborino stabilmente e Ahmad racconta di esser contra-rio alla “normalizzazione”, l’idea che le partner-ship fra israeliani e palestinesi siano positive in ogni caso. “Io seguo le linee guida del movimento BDS che propone il boicottaggio, ma i miei col-leghi israeliani lavorano per esporre le violazioni dell’occupazione israeliana e in casi come questo non c’è conflitto con i principi del movimento”.Ahmad Al-Bazz lavora come videografo per una delle più grandi case di produzioni palestine-si, Oren Ziv è stato per anni uno dei fotografi del quotidiano israeliano Haaretz, ora scatta da freelance e insegna fotografia. Tutti i membri di “Activestills” hanno altri lavori con cui si guada-gnano da vivere mentre il collettivo procura po-che entrate, “ma garantisce molta libertà”, affer-ma Oren. La missione di “Activestills” è quella di scegliere le storie da seguire, a lungo e in pro-fondità. Come il progetto sul dislocamento dei Palestinesi in Israele e nel West Bank dopo la fon-dazione di Israele. “Ci dividiamo, ognuno copre le zone geografiche a cui ha accesso, poi ci ritro-viamo a editare il progetto”, racconta. Grazie a questo metodo negli ultimi 10 anni il collettivo ha creato un archivio fotografico su alcuni dei temi più importanti dell’area, documentandone gli ef-fetti da più punti di vista. “Per noi è importante mantenere controllo sulle nostre foto e abbiamo scelto di collaborare con media indipendenti che prendono sul serio questi temi quando decidono di affrontarli”. Le fotografie di “Activestills” ven-gono pubblicate da gruppi come Al Jazeera o Vice Magazine, ma il collettivo coopera prima di tut-to con blog di approfondimento come l’isrealia-no “+972”, ong, no profit o ricercatori universi-tari. Quest’estate poi uscirà un libro fotografico edito dalla londinese Pluto Press, per festeggiare i primi 10 anni di “Activestills” e testimoniare una grossa fetta di realtà in Israele/Palestina.

2004è l’anno in cui venne costruito il muro tra Israele e Palestina, nei pressi del villag-gio di Bil’in

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AltreconomiaNumero 184

Nel 2015, per la prima volta, il numero di nuovi nati in Italia è sceso sotto la soglia di 500mila, un dato che assie-me alle proiezioni per i prossimi anni ha portato la ministra Lorenzin a parlare di rischio di “crac demografico” per il no-stro Paese. Il recente Rapporto Istat 2016 segnala un secon-do dato sui minori in Italia: circa uno su dieci, oltre un mi-lione, vive in condizioni di povertà assoluta. Accanto a questi due dati allarmanti, ripresi in varie occa-sioni nel dibattito pubblico, un terzo fenomeno forse meno noto merita di essere richiamato con riferimento all’infan-zia. Negli ultimi anni, dopo una fase di crescita, gli utenti dei nidi, il pilastro centrale dei servizi educativi e di cura per la prima infanzia, hanno iniziato a diminuire. Una tenden-za manifestatasi già nel 2011/2012 e proseguita negli anni. Questo accade nonostante il nostro Paese abbia nel comples-so una quota sensibilmente inferiore alla media europea di bambini con meno di tre anni che fruiscono di servizi educa-tivi e di cura per la prima infanzia (23% contro 33% per l’Ue 27 secondo gli ultimi dati OCSE).Gli asili nido sono stati introdotti nel 1971 come “servizi so-ciali di interesse pubblico”: oggi notiamo che i posti dispo-nibili sono notevolmente aumentati nel corso degli ultimi due decenni. Se ad inizio anni 90 i posti coprivano meno del 5% dell’utenza potenziale, nel 2014 la copertura ha raggiun-to il 20,1% (una crescita notevole sebbene il dato sia ancora molto distante da quello dei Paesi europei più avanzati). Tale incremento, che in parte dipende dalla contrazione del nu-mero dei bambini, deriva in larga misura da un aumento si-gnificativo dei posti disponibili nei servizi a titolarità diretta dei Comuni e in quelli a titolarità privata o in convenzione. Il dato nazionale, come spesso accade, cela però importan-ti differenze a livello territoriale, dal 33,5% dell’Emilia-Ro-magna al 3,8% della Campania. La contrazione degli utenti è avvenuta pertanto in uno scenario in cui la fruizione di servizi socio-educativi per questa fascia di età e la dispo-nibilità risultavano già limitati. Una recente indagine Istat mette in luce come circa il 30% delle madri che non hanno fruito degli asili nido in realtà avrebbero voluto. Al contra-rio di quanto ci si potrebbe aspettare, il motivo principale

Social Cohesion Days Meno bambini al nido? Perché sono troppo cari. Sono i costi a scoraggiare le famiglie dall’iscrizione agli asili. Eppure, lo Stato li considera “servizi sociali di interesse pubblico” sin dal 1971

di Ilaria Madama

euro: è la spesa sociale destinata a misure di sostegno e a servizi per famiglie e minori (importo pro capite a parità del potere d’acquisto) in Italia. In Francia è di 712 euro, in Germania 1.042 euro. La media per l’Ue 28 è di 617 euro.

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del mancato accesso è “la retta troppo cara” (il 50,2%) e solo in percentuale più ridotta la “mancanza di posti” (il 11.8%). L’istituto degli Innocenti di Firenze ha documentato come “il 12% circa dei bambini che trova posto al nido rinuncia prima di iniziare la frequenza, mentre, di quelli che iniziano, il 9% circa si dimette dopo qualche mese e un altro 16% circa prosegue senza pagare la retta”. La questione dei costi degli asili è centrale nell’accesso ai servizi pubblici per la prima infanzia, che incide soprattutto sui nuclei familiari a reddito medio-basso. È utile ricordare che i servizi educativi per la prima infanzia non sono rilevanti solo per consentire la con-ciliazione fra lavoro e responsabilità di cura. Come segnala la Commissione europea, quelli di qualità hanno un valore strategico in termini di “investimento sociale”, sia per i ri-svolti etici connessi alla promozione delle opportunità e dei talenti dei bambini e delle bambine, sia per il ritorno econo-mico potenziale che questi servizi hanno per la collettività, specie quando coinvolgono minori che provengono da con-dizioni di svantaggio economico, sociale o culturale.

Ilaria Madama insegna Sistema politico e modello sociale europeo presso l’Università di Milano. È membro dell’Osservatorio per la coe-sione sociale, www.socialcohesiondays.com

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47 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

Economie solidali

Il grano della tradizione ritorna nei campi della Sardegna. Ed è “bio”“I SEMI DEL FUTURO” È UN PROGETTO DEL CENTRO SPERIMENTAZIONE AUTOSVILUPPO E DI DOMUS AMIGAS

Si chiamano Trigu arrubiu, murru e cossu, e negli anni Settanta erano coltivati in aziende indipendenti, perché abituate a riprodurre le sementi. Pratiche di nuovo presenti sull’isola, da Cagliari all’Iglesiente, fino al nuorese

di Chiara Spadaro

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Salvatore Ceccarelli in uno dei campi del progetto “Semi di futuro”

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AltreconomiaNumero 18448

SECONDO TEMPO Economie solidali

una varietà moderna di piccola taglia (a differen-za dei grani antichi che crescono più alti) e molto produttiva: è stata selezionata nel 1974 dal Cnen (ora Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecno-logie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibi-le) irradiando con raggi X la varietà Cappelli, e nei primi 10 anni era arrivata a coprire oltre il 25% di tutta la superficie a grano duro d’Italia. Dopo ol-tre 40 anni, secondo l’Enea, il Creso rappresenta ancora il 20% dei grani duri italiani. “Abbiamo iniziato guardando alla storia contadi-na sarda e distribuendo dei sacchettini che conte-nevano un pugno di semi, invitando a coltivare”, racconta Teresa. Riportare i semi in campo è l’o-biettivo di questo percorso, che ha la particolari-tà di avvalersi della collaborazione con le agenzie di ricerca regionali. In Sardegna ce ne sono tre: Laore (Cagliari), che si occupa dell’assistenza tec-nica; Agris (Sassari), per l’innovazione e la ricer-ca; e Argea (Cagliari), che segue i finanziamenti (www.sardegnaagricoltura.it). A partire dalla pre-sa di coscienza che “la biodiversità si conservava nei centri di ricerca, ma non si coltivava più nei campi”, il Csa ha preso contatti con Agris e Laore, che dal 2012 hanno fornito rispettivamente una piccola quantità di semi di varietà tradizionali e il supporto tecnico per la parte agricola.“Siamo partiti da poche file di spighe e da picco-li orti familiari, per sperimentare l’adattamento e riprodurci il seme”, racconta Teresa. Poi, gra-zie all’ingresso in Rete Semi Rurali (www.semi-rurali.net e seedversity.org), dal 2014 ha intrec-ciato nuove relazioni con chi, anche in altre zone, porta avanti la selezione partecipativa dei cereali. “Accanto ai tradizionali grani sardi -i duri Trigu arrubiu e murru, il tenero Trigu cossu-, abbiamo seminato grani siciliani come il duro Timilìa, o Tumminìa”, avuto da Giuseppe Li Rosi di Terre Frumentarie (Raddusa, Ct), “e anche una miscela di grani teneri”, nei campi dell’azienda biodina-mica “Su treulu biu” di Masainas (Ci), nel Sulcis. Altri due campi si trovano nell’azienda biologi-ca Agrifoglio di San Giovanni Suergiu (Ci) e nel bioagriturismo Tupei a Calasetta (Ci): 40 piccoli “fazzoletti di terra” di 12 metri quadri ciascuno, seminati nell’autunno del 2015, per 14 diverse va-rietà di grano duro e tenero, i miscugli di tutte le varietà e l’orzo, di cui 29 varietà per uso zoo-tecnico, 15 da malto -coltivate a Samassi (Ca)- e l’orzo nudo per l’alimentazione umana. “Abbiamo seminato anche i primi campi di miscugli di gra-no duro e tenero -racconta Teresa-. Tra i miscugli di orzo ne abbiamo uno, costituito da Salvatore Ceccarelli nel 2008 in Siria, con 1.600 varietà provenienti da tutto il mondo e ora coltivato da

20%la superficie italiana a grano duro coperta dal Creso, una varietà molto produttiva sele-zionata nel 1974

aludi e trigu. In Sardegna la salute la porta il grano, quello della tra-dizione locale, come il Senatore Cappelli. E la lingua dell’isola por-ta con sé il valore di questa storia

di cereali e sovranità alimentare. “Quand’ero pic-colo io dicevamo s’incungia, per indicare l’indi-pendenza di ogni azienda nel riprodursi i semi, il bene più prezioso”, racconta Giorgio, che a metà giugno sta aspettando la trebbia per miete-re i grani del suo campo. Giorgio Deiana dell’a-zienda Agrifoglio nel Sulcis, da 35 anni in agri-coltura, è uno dei contadini coinvolti nel progetto “I semi del futuro”, avviato nel 2014 dal “Centro sperimentazione autosviluppo” (Csa, nato da un gruppo di donne nel 1999, per “sperimentare l’autosviluppo partendo dai bisogni dell’ambien-te e delle persone” del sud ovest della Sardegna) e Domus Amigas (www.domusamigas.it) con il pro-fessore Salvatore Ceccarelli. Dal 2002 il Csa par-tecipa al miglioramento genetico partecipativo ed evolutivo delle varietà di grano e orzo, con l’obiet-tivo di “uscire dalla monocoltura del grano duro Creso -come spiega Teresa Piras-, a favore del grano Cappelli”, ottenuto dal genetista Nazareno Strampelli un secolo fa e storicamente coltivato in Sardegna, povero di glutine. Il Creso è invece

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IN DETTAGLIO

LA LEGGE DEL PANE

È stata votata all’unanimità lo scorso marzo dal Consiglio regio-nale sardo la legge sul pane (4/2016), “Disposizioni in materia di tutela della panificazione e delle tipologie da forno tipiche della Sardegna”. Si regola così un settore che conta circa 1.050 impre-se (erano oltre 1.100 nel 2014) e 4mila addetti, per 350 milioni di fatturato annuo. La legge istituisce un “apposito contrassegno regionale che attesti la vendita del pane fresco”, il “Registro regionale delle specialità da forno tipiche della tradizione della Sardegna” e un tavolo tecnico composto da assessorati, agen-zie regionali ed esperti del settore “con il compito di elaborare apposite strategie di intervento dirette a agevolare, assistere ed incentivare i produttori locali” verso l’ottenimento delle denomi-nazioni di origine protetta, delle indicazioni geografiche protette e delle specialità tradizionali. L’articolo 10 della legge regionale sottolinea inoltre la “valorizzazione della filiera sarda”, attraverso “accordi o programmi di filiera” che “prevedono la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti, tra i quali agricoltori, produttori, pani-ficatori, molitori, rivenditori e consumatori finali”.

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49 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

Teresa Piras illustra il proget-to di selezione partecipativa dei cereali all’incontro nazionale di Genuino Clandestino in Sardegna, che si è tenuto nell’a-prile del 2016

cinque anni in Molise”. A Samassi (Ca), nell’azien-da agricola Marcello Mancosu, 100 metri quadrati sono la piccola ma preziosa misura dedicata alla selezione delle varietà di orzo da birra “adatte al nostro clima e ai nostri terreni”, spiega Marcello. Non esiste, infatti, una varietà già selezionata per la Sardegna, quindi ci vuole la pazienza di aspet-tare “ancora un paio d’anni, per avere dei risultati e fare le prove per la produzione della birra”. Per Marcello è anche una strategia di diversificazione dell’azienda di famiglia, che ha sempre coltivato cereali con il metodo convenzionale e che lui ha convertito a biologico. Infatti, “ci sono molti mi-crobirrifici, ma è difficile trovare del malto biolo-gico e proveniente da una filiera sicura”.

La trebbia che sta aspettando Giorgio a San Giovanni Suergiu, invece, raccoglierà grano per fare pane. “Puliamo il raccolto, lo maciniamo a pietra e a settembre la impastiamo e cuociamo nel nostro forno a legna”, dice. I campi catalogo del progetto “I semi del futuro” sono stati scelti in zone vicine, ma con terreni molto diversi -fer-tili a Masainas, sabbiosi a Calasetta e poveri a San Giovanni Suergiu-, per vedere come si adattano i grani. “Il Trigu cossu è la varietà che ci stupisce di più: è un grano tenero molto resistente alla sicci-tà e anche quest’anno che non ha mai piovuto ha dato una buona resa”, spiega Giorgio. La bellezza dei miscugli è proprio questa, che “anche in con-dizioni climatiche estreme riesci sempre a racco-gliere qualcosa”. Un poco si trasforma e quel che resta si conserva per la semina successiva, come un tempo: “s’incungia”. 180 chilometri più a Nord, a Nuoro, un’altra re-altà, Semene, sta lavorando per tutelare la sovra-nità alimentare a partire dai cereali. “Dopo anni di impegno nel mondo della piccola agricoltura biologica e della filiera corta, con l’associazio-ne Biosardinia, con un amico veterinario, Pietro Fois, ci siamo trovati a pensare che il 70% del-la nostra alimentazione è fatta di pane e pasta”, spiega Maurizio Fadda di Semene, agronomo. Da qui l’idea di ripartire dal grano che “da ottant’an-ni non si coltiva più attorno a Nuoro, a favore dei cereali dell’Est Europa”.

Nata alla fine del 2015, Semene ha acquistato in forma collettiva un mulino a pietra semindustria-le, di legno, che macina circa 30 chili di farina all’ora. 90 soci (oggi Semene ne conta 140) han-no messo una quota per arrivare a coprire il co-sto del mulino, circa 6mila euro, diventando com-proprietari e al tempo stesso aspiranti mugnai: “Acquistiamo il grano Cappelli da un’azienda

agricola biologica di Serri (Ca) e lo maciniamo”. Per imparare, Maurizio e Pietro sono stati in alcuni mulini del nuorese e poi hanno guida-to il “gruppo aspiranti mugnai” di Semene nel-la macinatura dei grani, che si fa una volta ogni 10 giorni. “Accanto al mulino abbiamo uno spa-zio per stoccare i grani, lavarli e asciugarli”. La farina viene poi donata ai soci, che hanno dirit-to a 20 chili in un anno. “È una farina che dob-biamo anche imparare a usare, perché è diversa dalle farine bianche a cui siamo abituati e richie-de un altro tipo di lavorazione”, spiega Maurizio. Sta anche in questo l’importanza di fare comuni-tà attorno alla buona agricoltura, per tramandare saperi e scambiare conoscenze utili nel quotidia-no. “Il seme che vogliamo coltivare sta soprat-tutto nella testa delle persone, perché capiscano che un’alternativa è subito praticabile, colletti-vamente e facendo rete con i contadini, i Gas, le associazioni”.Nell’autunno 2015 l’associazione ha seminato a mano 1.500 metri quadrati di frumento Cappelli, nel campo messo a disposizione da un agricolto-re; sarà falciato a mano, per avviare poi una filie-ra di trasformazione. “Dobbiamo arrivare a ca-pire insieme cosa coltivare, come trasformare e chi può acquistare questi prodotti. Manca ancora, infatti, una rete di acquisto solida, anche se sono molti i soggetti attivi”. A partire da una piccola comunità di vicinato, Semene guarda così alla costruzione di un Distretto di economia solida-le, “nel quale fare rete e lavorare insieme per la tutela della sovranità alimentare nel nostro ter-ritorio”.

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50 AltreconomiaNumero 184

è il numero delle segnalazioni di operazioni sospette ricevute dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia nel secondo semestre del 2015. Rispetto al secondo semestre del 2014 l’aumento è stato del 27,1 per cento. Parte dell’incremento è dovuto a segnalazioni connesse a operazioni di voluntary disclosure

43.458

Avviso Pubblico Amministratori sotto assedio. Nel corso del 2015 il numero di atti violenti e intimidatori nei confronti di sindaci, assessori e consiglieri sono stati 479, il 33 per cento in più rispetto al 2014

di Pierpaolo Romani

Pierpaolo Romani è coordinatore nazionale di “Avviso pub-blico, enti locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie”, www.avvisopubblico.it

In Italia essere e fare l’amministratore locale è sempre più rischioso. Secondo l’ultimo Rapporto “Amministratori sotto tiro”, curato da Avviso Pubblico e presentato a fine giugno in Calabria, il 2015 è stato un annus horribilis: in dodici mesi, consultando le notizie di stampa locali e nazionali, racco-gliendo le segnalazioni dei propri coordinatori territoriali e monitorando le interrogazioni parlamentari, l’associazione ha censito 479 atti minacciosi e intimidatori nei confronti di sindaci, assessori, consiglieri comunali e municipali, ammi-nistratori regionali e personale della pubblica amministra-zione. Una media di 40 minacce al mese; una ogni 18 ore. Il 2015 ha fatto segnare un’impennata degli atti intimidato-ri del 33% rispetto al 2014. Le minacce sono aumentate, in particolar modo nel Mezzogiorno -72% dei casi censiti- e si sono estese in tutto il territorio nazionale -ben 17 le regioni coinvolte- seppur in modo non uniforme. Sicilia, Campania e Puglia occupano i primi posti della classifica, con 91, 74 e 62 casi censiti. A livello provinciale, spicca su tutte la pro-vincia di Napoli (46 casi), seguita da quelle di Roma (25 casi), Palermo (22 casi), Lecce (21 casi), Agrigento (19 casi) e Cosenza (18 casi). In aumento le minacce anche nel Nord-ovest d’Italia, che passa dall’8% al 10% del totale nazionale; in calo nel Nord Est. Dal punto di vista della distribuzione temporale, il picco delle minacce e delle intimidazioni si è registrato a maggio 2015 -60 casi-, mese nel quale si sono svolte le elezioni am-ministrative. In un numero limitato di situazioni, i candidati hanno pensato di ritirarsi dalla competizione elettorale, per timori di ulteriori e più gravi conseguenze sia nei loro con-fronti che verso i loro famigliari. Il Rapporto di Avviso Pubblico documenta anche le tipolo-gie di violenza: si incendiano auto e case personali, nonché mezzi pubblici; si aggredisce fisicamente per strada e ne-gli uffici; si spara alle abitazioni; si usano ordigni; si invia-no lettere con proiettili e messaggi minatori via internet; si profanano le tombe di parenti al cimitero; si scrivono mi-nacce sui muri della città e dei palazzi istituzionali. Gli am-ministratori locali sono colpiti non solo direttamente, ma anche attraverso minacce e intimidazioni verso parenti e

stretti collaboratori. In Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna alcuni sindaci e vicesindaci sono stati minacciati più volte in poco tempo. Alcuni di loro vivono sotto scorta. A minacciare sono certamente le cosche mafiose, in partico-lare nel Centro-sud del Paese, ma sempre di più i protago-nisti di questo assedio verso gli amministratori locali sono cittadini, singoli o in gruppo, in difficoltà economica ed esi-stenziale, che riversano la loro rabbia sui politici a loro più vicini, ritenendoli tutti quanti parte di una “casta” di privi-legiati e disonesti, incapace di produrre cambiamento e di fornire risposte concrete ai loro bisogni: casa, lavoro, sussi-di economici. “Non possiamo accettare né gli affronti e l’ar-roganza dei poteri criminali, né tantomeno il pensiero po-pulista manifestato dall’espressione ‘sono tutti uguali’. Non siamo tutti uguali. La maggioranza degli amministratori lo-cali è composta da persone perbene, animate da spirito di servizio. Non dobbiamo lasciarli soli” ha dichiarato Roberto Montà, presidente di Avviso Pubblico, a chiusura della prima “Marcia degli amministratori sotto tiro” che l’associazione ha organizzato a Polistena (Rc) il 24 giugno scorso.

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51 Lugio/Agosto 2016www.altreconomia.it

I libri di Altreconomia

“Contrappunti”, ecco la collana che suona le note della legalitàLa prima uscita, “Il confine”, è una minuziosa ricerca sulle azioni criminali che accreditano l’ipotesi della presenza delle “mafie” tra Liguria e Toscana

di Massimo Acanfora, editor di Altreconomia

Il confine Tra Liguria e Toscana, dove le mafie si fanno in quattro 128 pagine, 10,00 euroCollana “Contrappunti”

“Ponere punctum contra punctum” è l’arte antica di segnare “nota con-tro nota”, combinare registri diversi per arrivare a un’armonia. Si chiama “Contrappunti” la collana editoria-le di Altreconomia, Avviso Pubblico, l’associazione di enti locali e Regioni per la formazione civile contro le ma-fie, e il “Master in analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organiz-zata e della corruzione” organizza-to dal Dipartimento di Scienze politi-che dell’Università di Pisa con Libera e Avviso Pubblico. Un canto corale per la legalità. La collana si candida a ospi-tare infatti studi e ricerche che offri-ranno chiavi interpretative e strumen-ti utili ad animare la resistenza civile e politica contro le organizzazioni cri-minali e la corruzione. Saranno scelti alcuni dei lavori di tesi e ricerca pro-dotti negli ultimi anni dagli allievi del Master. Non solo. “Contrappunti” ha un au-torevole comitato scientifico, com-posto da studiosi capaci di scende-re dalla cattedra per confrontarsi con i movimenti, la società civile e con l’amministrazione della cosa pubbli-ca: Enzo Ciconte (docente e scritto-re), Nando dalla Chiesa (Università di Milano, presidente onorario di Libera), Alessandra Dino (Università di Palermo), Monica Massari (Università di Napoli), Vittorio Mete (Università

di Firenze), Pierpaolo Romani (coordi-natore nazionale di Avviso Pubblico), Rocco Sciarrone (Università di Torino), Alberto Vannucci (Università di Pisa). “L’obiettivo di “Contrappunti” -spiega Vannucci, coordinatore del Master- è valorizzare, rendendolo ‘bene comu-ne’, il patrimonio di conoscenze in-terdisciplinari sul legame tra orga-nizzazioni mafiose, mercati illeciti e corruzione politico-amministrativa. L’approfondimento scientifico si sposa con l’elaborazione di strumenti di pre-venzione e contrasto dei fenomeni di criminalità organizzata e corruzione, soprattutto ad opera degli enti locali,

oltre che di formazione civile e sensibi-lizzazione dell’opinione pubblica”.

La prima uscita di “Contrappunti” -sono previsti altri due titoli nel 2016- è “Il confine. Tra Liguria e Toscana, dove le mafie si fanno in quattro”, au-tore Marco Antonelli, ricercatore del Master. Una ricerca puntigliosa, che si legge come un romanzo: numero-si elementi testimoniano il radica-mento delle organizzazioni criminali -Cosa Nostra, Camorra, ‘ndrangheta, Sacra Corona Unita- tra le province di Massa-Carrara e di La Spezia. Antonelli traduce in un racconto teso e coinvolgente le testimonianze di ma-gistrati, le informative degli operato-ri di polizia, le denunce degli ammi-nistratori locali. Spulcia i faldoni dei fascicoli dibattimentali dei processi e le conseguenti sentenze, le pagine dei giornali locali, in una minuziosa rico-struzione delle infiltrazioni criminali sul territorio. Un lavoro pionieristico da cui emerge uno spaccato delle “ge-sta” di piccoli e grandi criminali e del-le loro famiglie e organizzazioni, tra spaccio, racket delle estorsioni e ven-dette sanguinose. Il libro si scarica gratuitamente dal sito di Altreconomia (http://bit.ly/Scarica_Il_Confine), ma è disponibile anche in edizione cartacea, grazie alla collaborazione con il coor-dinamento di Libera Liguria.

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52 AltreconomiaNumero 184

SECONDO TEMPO Ambiente

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La scoperta del “paesaggio sonoro” di Borgo Riena, nel Comune di Castronovo di Sicilia (Pa)

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53 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

nostra cultura è oggi satura di suo-ni. Più della metà della popolazione mondiale vive immersa nel rumore e in una cacofonia assordante, con un livello medio spesso superiore a

60 decibel, la cui soglia s’impenna esponenzial-mente in corrispondenza della crescita tecnolo-gica. Eppure nessuno sembra accorgersene. Nella gerarchia sensoriale, il posto che occupa l’udito è inferiore a quello della vista. E così la condizione uditiva dell’uomo moderno viene penalizzata. Per migliorare la qualità della nostra vita occorrereb-be ristabilire un equilibrio tra i sensi, tra uomo e ambiente, realizzare quella che il musicologo Joachim-Ernst Berendt ha definito una democra-zia dei sensi. Tuttavia, da oltre tre secoli, la cultu-ra occidentale assegna alla vista il primato nella percezione e nell’elaborazione delle informazio-ni sensoriali, privando in qualche modo gli esseri umani della possibilità di interagire con il mon-do in modo completo e consapevole. Pensare con le nostre orecchie è uno degli obiettivi attorno a cui si concentra da molti anni la ricerca dell’ecologia acustica, che studia l’ambiente sonoro del mon-do, l’impatto dell’inquinamento acustico sulla qualità della vita e la gestione responsabile della realtà acustica in cui viviamo, considerata la più

rumorosa di sempre. Si tratta di un orientamen-to interdisciplinare ed etico in cui s’incontrano ricerca, scienze sociali e arte. Imparare a pensare con le nostre orecchie, è il concetto chiave elaborato nei primi anni ‘70 da Raymond Murray Schafer, compositore e musicologo canadese, per intro-durre e spiegare in termini di paesaggio sonoro, i luoghi acustici in cui siamo immersi, e ai quali tutti, consapevoli o meno, prendiamo parte atti-vamente. Studiando il paesaggio sonoro, Schafer si è interrogato sul contrasto tra lo stile di vita nelle città rispetto a quello più vicino alla natura, e sui costi del cosiddetto progresso. Nel concepire il paesaggio sonoro come un’unica immensa compo-sizione musicale in perpetua evoluzione, egli suggeri-sce il modo per migliorarlo e ristabilire una sana cultura uditiva. Si tratta di individuare nel pae-saggio sonoro gli squilibri che potrebbero rivelar-si dannosi e malsani, eliminando o controllando l’invadenza dei suoni che riflettono la velocità e la frenesia di oggi. Un radicale cambiamento in tal senso darebbe inizio a un rinnovato rapporto col mondo e con gli altri, ma soprattutto con noi stessi. Ma per ascoltare abbiamo bisogno di fer-marci o almeno di ritmi rallentati. Sintonizzare l’orecchio su un altro livello di consapevolezza uditiva per smettere di sentire e cominciare ad

La

A passeggio nel paesaggio sonoro, sui sentieri del rumore e del silenzio DA RIMINI ALLA SICILIA, NUMEROSE LE INIZIATIVE IN ITALIA PER LA GIORNATA MONDIALE DELL’ASCOLTO

Il 18 luglio è il World Listening Day. Nella gerarchia sensoriale, l’udito occupa un posto inferiore alla vista. Eppure le leggi dell’ecologia acustica potrebbero renderci consapevoli dell’esigenza di un rinnovato rapporto con il Pianeta

di Maurizio Torretti

La crescita tec-nologica compor-ta un aumento esponenziale del-la rumorosità me-dia del contesto in cui viviamo: più della metà della popolazione mondiale vive costantemente “esposta” a più di 60 decibel

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ascoltare. Concentrarsi sul proprio ambiente acustico con la stessa attenzione con cui ascoltia-mo la nostra musica preferita. Partendo da que-ste considerazioni, il 18 luglio di ogni anno si celebra il World Listening Day, la giornata mon-diale dell’ascolto. Organizzata dal WLP (World Listening Project), vuole sviluppare una riflessio-ne profonda sulla qualità dell’ambiente sonoro in cui viviamo. Perché la qualità acustica degli sti-moli a cui è sottoposto il nostro udito può elevar-si e ridestare in noi sistemi di ascolto dimentica-ti. Secondo Dan Godston, del WLP, “negli USA, così come in altre parti del mondo, c’è oggi una maggiore consapevolezza sulle tematiche dell’e-cologia acustica, grazie all’impegno di ricercato-ri, università, istituzioni, artisti e organizzazioni. L’accesso alle nuove tecnologie è divenuto un fe-nomeno alla portata di tutti e il pubblico è glo-bale. L’esplorazione dei suoni del mondo può es-sere divertente ma anche un potente mezzo per preservare la natura e affrontare la sfida del cam-biamento climatico” (www.worldlisteningday.org). Per questo la giornata del WLD è diventa-to un momento di impegno sociale ed educativo, per accrescere una cultura dell’ascolto e stimo-lare una riflessione sull’importanza del silenzio, destinato sempre più ad esaurirsi. Per dirla con le parole dello scrittore svizzero Max Picard “il silenzio appartiene alla struttura fondamentale dell’uomo”, eppure quest’ultimo è riuscito a can-cellarlo. Recentemente, il famoso ecologista acu-stico americano Gordon Hempton, che negli ulti-mi trent’anni ha registrato il respiro del Pianeta nei luoghi più remoti, ha detto che “il silenzio è una specie in pericolo”. A causa delle attività uma-ne è diventato sempre più difficile trovare dei luo-ghi naturali privi di rumore per almeno 15 mi-nuti. Dunque, sono molti i Paesi che ogni anno aderiscono al WLD con performance varie, dibat-titi ed eventi pubblici, concerti, passeggiate sono-re (soundwalks) in ambienti naturali e urbani. In

SECONDO TEMPO

testa, Canada, Usa, Australia, insieme ai Paesi del Nord Europa, sensibili alle tematiche della quali-tà della vita. In crescita anche le iniziative pensa-te per i più piccoli, con pratiche di ascolto attivo, escursioni multisensoriali, laboratori interattivi, giochi e animazioni pensati per instillare la con-sapevolezza dell’ascolto. Quello attivo, infatti, aiuta a comprendere le trasformazioni sociali. Numerose le iniziative messe in campo quest’an-no per sensibilizzare l’opinione pubblica. In Giappone, The Tokio Phonographers Union or-ganizza per il WLD una soundwalk a Kyosumi Shirakawa, un distretto di Tokio attraversato dai fiumi Sumida e Arakawa. È un’area residen-ziale caratterizzata da grandi parchi, “un luogo dove gli uccelli acquatici e altre specie hanno un ruolo importante nel paesaggio sonoro”, raccon-ta Marcos Fernandes, musicista e performer, che condurrà la passeggiata. “Tokio è una città mol-to rumorosa. L’udito è bombardato da messaggi sonori di ogni tipo, e iniziative come questa sono molto apprezzate. Aiutano a mettersi in pausa e a prestare attenzione ai suoni quotidiani da cui siamo circondati e influenzati”. E aggiunge, “in Giappone, lo spazio personale ha un ruolo im-portante. E in questa dimensione privata si fa strada una lenta ma sempre maggiore consape-volezza dell’inquinamento acustico a cui si è sot-toposti” (soundingthespace.com). The Canadian Association for Sound Ecology (soundecology.ca) ha curato invece la mostra “Audio Postcard Canada”, che sarà accessibile online. Si tratta di 16 cartoline audio da tutto il Canada: registrazio-ni sul campo, documentari sonori, composizio-ni elettroacustiche, performance radiofoniche, e combinazioni di queste aree, con interventi di ar-tisti vari, tra i quali Hildegard Westerkamp, sound ecologist e compositrice. L’Italia è ancora poco attento ai temi dell’ecolo-gia acustica, anche se sono moltissimi gli atti-visti e artisti del suono, sociologi e antropologi, urbanisti e architetti, e associazioni interessa-te agli studi sul paesaggio sonoro. Lo dimostra il successo della terza edizione di “Per chi suona il paesaggio” organizzata dal FKL Italia (Forum Klanglandschaft), che quest’anno si è tenuta a Catania dal 19 al 22 maggio (paesaggiosonoro.it). Proprio in occasione di questo evento, Antonio Mainenti, compositore e appassionato ciclista, ha presentato in anteprima il suo progetto per il WLD, “Un percorso elettroacustico nel paesaggio illusorio”. Si tratta di una performance ciclistica che prevede l’utilizzo di sofisticate tecnologie per interagire in movimento con il paesaggio sonoro circostante. “L’idea di ‘preparare’ una bicicletta,

Chi studia l’ecolo-gia acustica sug-gerisce l’impor-tanza di arrivare a “pensare con le nostre orecchie”

“Il silenzio è una specie in pericolo” (Gordon Hampton, ecologista acustico americano che negli ultimi trent’anni ha registrato il respiro del Pianeta nei luoghi più remoti)

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il clima acustico della città basta poi collegarsi al sito dell’associazione. Il 18 luglio ad Alcamo ver-ranno organizzati punti di incontro e una tavo-la rotonda per parlare di suoni, mappe e dei pos-sibili sviluppi del progetto (www.mimema.it). A Rimini, il Ground-to-Sea Sound Collective, in collaborazione con l’Associazione Collegamenti Rampanti e con lo spazio RIU Project, organizza una due giorni di studio. “S’inizia il 17 luglio con un workshop di field recording, mettendo in relazio-ne la registrazione sul campo con la musica stru-mentale e l’elettronica dal vivo. I partecipanti re-gistreranno i suoni alla foce del fiume Marecchia sperimentando diversi tipi di microfoni, appren-dendo le basi dell’editing audio e l’uso creativo dei suoni ambientali per fare musica, e la sera stes-sa seguirà la presentazione dei lavori aperta al pubblico”, spiega Emiliano Battistini, musicista e sound artist, che lunedì 18 luglio condurrà invece una soundwalk alla scoperta dei suoni di Rimini, tra mare e centro storico (facebook.com/groun-dtosea). Infine, l’Associazione VacuaMœnia -im-pegnata in iniziative per lo studio del paesaggio sonoro siciliano- propone una soundwalk nottur-na nel territorio corleonese, tra campi, boschi, torrenti e antichi sentieri (vacuamoenia.net).

nasce dallo studio sul silenzio e sul rumore del se-colo scorso, in particolare dalle ricerche di Luigi Russolo e John Cage, fino ad arrivare agli studi sul paesaggio sonoro e della musica concreta”, racconta. “Il paesaggio illusorio che propongo è la metafora del movimento. Durante le pedalate il paesaggio viene reinventato con suoni nuovi, con tecnologie del passato e del futuro” (mainenti.net, soundobject.wordpress.com/sound-pedalling). L’attivissima Associazione Mimema promuove invece una soundwalk in uno degli ambienti na-turali incontaminati della Sicilia, e lancia poi la open call “Ricomporre il paesaggio”, aperta a com-positori e ascoltatori consapevoli, che sono invitati a presentare materiale inedito di soundscape com-position -tecnica che ricompone il paesaggio acu-stico seguendo un ordine scelto dal compositore- e di field recording, registrazioni di suoni naturali e ambientali. “I file selezionati saranno disponi-bili per il download ed eventuali manipolazioni”, spiega Piero La Rocca, musicista e ricercatore, sottolineando l’importanza di un altro proget-to, “Identità sonora del territorio”, che prevede la mappatura sonora della città di Alcamo (Tp), con l’intento di far conoscere i suoni della memo-ria e quelli della contemporaneità. Per ascoltare

15minuti: a causa delle attività antropiche, è difficile incontra-re luoghi naturali privi di rumore per almeno un quarto d’ora

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AltreconomiaNumero 18456

SECONDO TEMPO Economie solidali

Così il mutualismo solidale sta crescendo tra le vigneLE STORIE DI QUATTRO ESPERIENZE ESEMPLARI DI COOPERAZIONE TRA PRODUTTORI, DAL PIEMONTE ALLE MARCHE

Valorizzazione della vitivinicoltura biologica e biodinamica, riscatto sociale, difesa del territorio e dei beni comuni. Questi i principi che uniscono le cantine e aziende vinicole di “Solo Roero”, “TerroirMarche”, “i Dolomitici” e “Quat Gat”

di Luca Martinelli

uca Faccenda, Alberto Oggero e i fratelli Emanuele ed Enrico Cauda hanno meno di quarant’anni e fanno vino in Roero, tra Canale e Santo Stefano Roero, in provincia

di Cuneo e sulla riva sinistra del fiume Tanaro. Sono tutti vignaioli di prima generazione, pro-ducono e imbottigliano ogni anno poco meno di 40mila bottiglie. Due anni fa, hanno dato vita a un’associazione, che si chiama “Solo Roero” (www.facebook.com/soloroero), e a luglio 2016 verrà commercializza-to il primo vino con lo stesso marchio: a distribu-irlo sarà la coop Progetto Emmaus, perché dietro quelle 900 bottiglie di bianco c’è un’iniziativa che ha visto l’inserimento in vigna e in cantina di 5 giovani che vivono diverse condizioni di fragilità. Le tre aziende hanno messo a disposizione ognu-na poco più di 200 litri di Roero Arneis Docg. “Alessandro, un educatore di Emmaus, è amico di Alberto. Quando ci hanno chiesto di partecipare

a questo progetto, abbiamo aderito, insieme” racconta Faccenda, 34 anni, titolare dell’azienda agricola Valfaccenda. “Sono venuti per un giorno alla settimana, accompagnati da un educatore, a potare, a vendemmiare: non si tratta di un vero ‘inserimento lavorativo’, ma per piccoli viticolto-ri come noi, soprattutto durante la stagione esti-va, quando le viti crescono di una spanna al gior-no, seguirli ha rappresentato un investimento di tempo importante”. Importante ma alla portata, se suddiviso tra le tre cantine: è questo mutua-lismo, del resto, uno dei valori fondanti di “Solo Roero”, un percorso di condivisione nato intor-no ad un principio: in vigna si coltivano, con me-todi naturali o biologici certificati, solo Arneis e Nebbiolo, i due vitigni alla base delle Docg Roero Arneis (bianco) e Roero (rosso). “Il nostro è un percorso di condivisione -racconta Luca Faccenda-: crediamo nelle potenzialità del Roero, e cerchiamo di dimostrarla anche dal punto di vi-sta economico. ‘Scontiamo’ l’eccessivo successo

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118gli ettari di vigneto coltivati dalle 13 cantine associate in “TerroirMarche”

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dell’Arneis, un vino che ha appena 30 anni di sto-ria ma è prodotto in 6 milioni di bottiglie, che spesso sono già in vendita un mese e mezzo dopo la vendemmia”. Per i vini di Cascina Fornace, Alberto Oggero e Valfaccenda, invece, si deve at-tendere almeno il maggio successivo. Secondo Luca Faccenda, che lavora anche come consu-lente enologo, “le tre aziende non hanno anco-ra raggiunto la propria taglia ideale, quella delle 30mila bottiglie l’una, che ti permette di zappare, uscire col trattore, lavorare in cantina e parteci-pare a fiere di settore”, ma -anche per abbatte-re i costi- “ci si dà una mano in campagna, e sia Enrico sia Alberto mi hanno prestato dei macchi-nari, dato che tra i tre sono il meno fornito, men-tre per me è comodo ritirare i campioni delle tre cantine per portarli ad analizzare in laboratorio”. La cooperazione tra i 3 vignaioli di “Solo Roero” riguarda anche la parte commerciale: quando un importatore estero contatta una delle tre azien-de, per fissare una degustazione, è facile che le

incontri tutte. Ed è funzionale perché, spiega Faccenda, “nello stile i nostri vini restano molto diversi, come i nostri caratteri: perciò è vincente l’idea di integrarci”.

La stessa che guida “TerroirMarche” (www.terro-irmarche.com/), che riunisce 13 aziende vinicole delle province di Pesaro-Urbino, Ancona e Ascoli Piceno. “Faccio un esempio -racconta Alessandro Bonci de ‘La Marca di San Michele’, una delle cin-que realtà che hanno fondato il Consorzio, nel 2013-: Liana Peruzzi, che a Monte Roberto (An) produce spumante Metodo classico dalla fine de-gli anni Ottanta, ha insegnato la tecnica a noi de ‘La Marca’, e ci ha aiutato in una parte della vini-ficazione, mentre Corrado Dottori de ‘La Distesa’ ci ha prestato l’imbottigliatrice specifica. La no-stra mentalità è cooperativa, non competitiva: dato che ogni vino è espressione di un territo-rio, e del lavoro del vignaiolo, Liana sa che i no-stri spumanti, dato che le due aziende sono a

Giulia Fiorentini guida il trattore nella sua vigna, a Cupramontana (AN). È arrivata nella culla del Verdicchio a 20 anni, da Milano. La sua è una delle 13 aziende di TerroirMarche. Ne raccontia-mo la storia qui http://bit.ly/digiu-lia-terroirmarche

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(dove hanno sede tre delle 13 cantine) ha fatto pressioni in Provincia per una moratoria sull’u-tilizzo del glifosato ai bordi delle strade comu-nali. Il 10 aprile di quest’anno, invece, i marchi-giani hanno promosso un flash mob a Verona, al Padiglione 8 di Vinitaly, per dire no alle trivel-lazioni nei mari italiani, in vista del referendum della settimana successiva. Hanno letto un brano di Tonino Guerra: “Il nostro petrolio è la bellez-za, la bellezza ci fa pensare alto e noi la buttiamo via”. “Nel Piceno vogliono trivellare anche tra le cantine che fanno agriturismo -racconta Bonci-, ma i Consorzi non si sono mossi. E qualcuno di noi ha preso anche insulti, mentre era in piazza a raccogliere firme con il Comitato ‘No trivelle nel Piceno’”. Da due anni TerroirMarche organizza una pic-cola fiera, nel mese di maggio, ad Ascoli Piceno: “Abbiamo deciso di farlo nella zona più ‘depres-sa’ della regione, dal punto di vista enogastro-nomico. Dove si produce vino ad ettolitri, che

Monte Roberto e a Cupramontana, non saran-no mai uguali. Anche vendemmiare una settima-na dopo può fare la differenza”. TerroirMarche, spiega lo Statuto, “non ha scopo di lucro e si prefigge la promozione e la valorizza-zione della vitivinicoltura biologica/biodinamica marchigiana, la difesa del territorio e dei beni co-muni, la diffusione di culture e pratiche per una economia sostenibile e solidale”. Associarsi costa 100 euro all’anno. Le 13 cantine associate hanno 118 ettari di vigneto e producono 419mila botti-glie. I lavoratori sono una cinquantina, tra soci e dipendenti. “I ‘piccoli’ corrono il rischio di restare chiusi nella propria vigna, e a noi non andava -spiega Alessandro Bonci-, ma nei grandi consorzi, dove le decisioni vengono prese sulla base del numero di bottiglie prodotte non ci sentivamo rappresen-tati”. TerroirMarche nasce per essere anche un at-tore politico: nel 2014 ha lanciato una campagna contro il diserbo, e il Comune di Cupramontana

Enrico Cauda e -dietro di lui- Luca Faccenda vendemmiano la vigna di Cascina Fornace, l’azien-da del primo, una delle tre di “Solo Roero”. “Era il 2014, e quell’anno pioveva sempre: ci siamo dati una mano, per fare prima” racconta oggi Enrico

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però viene venduto in cisterne, trasportate ver-so altre regioni. Ci serve per sensibilizzare quel territorio”.

Un problema che hanno voluto affrontare anche i vignaioli che in Trentino hanno dato vita, nel di-cembre del 2009, all’associazione “i Dolomitici” (www.idolomitici.com). “Nella nostra Provincia ‘vino’ è sinonimo delle grandi realtà della coope-razione, mentre la figura del ‘viticoltore’ che tra-sforma le proprie uve non c’è” racconta Giuseppe Pedrotti, presidente de ‘i Dolomitici’ dal dicem-bre 2015. I soci sono 10: un paio di cantine fan-no 150-200mila bottiglie, mentre tutte le altre hanno una dimensione inferiore, sotto le 25mila. “Nelle fiere ci rappresentiamo a vicenda, e met-tiamo in comune anche i contatti degli importa-tori -spiega Pedrotti-: a chi cerca un determina-to prodotto, che può esssere un Teroldego o un vino aromatico, consigliamo di visitare la canti-na di un altro socio”. Tutte condotte con metodo biologico o biodinamico. Insieme, “i Dolomitici” portano invece avanti la conduzione di una vec-chia vigna di mezzo ettaro, quella di un conta-dino di nome Narciso. “È nelle zona di Avio, ed è una delle ultime a piede franco, sopravvissuta alla fillossera -racconta il presidente dell’associa-zione-. Il vitigno si chiama ‘Lambrusco a Foglia Frastagliata’. Nel 2010, due soci ci segnalano che il proprietario del terreno, che l’aveva acquista-to dai parenti di Narciso, avrebbe voluto estir-parla, per piantare l’ennesima vigna di Pinot Grigio”. “i Dolomitici” hanno affittato la vigna, (“a un prezzo doppio rispetto a quello di merca-to”, dice Pedrotti), l’hanno rimessa in sesto (“an-che quest’anno abbiamo sostituito 100 pali”, su un totale di 727 ceppi), ed ogni anno producono 3mila bottiglie di “Perciso”. Quel vigneto storico, però, è molto di più: “I filari sono larghi tra i 10 e i 12 metri, e in mezzo Narciso coltivava ortaggi. Da quest’anno, siamo tornati a farlo anche noi”.

Tra le esperienze di cooperazione mutualistica tra piccoli vignaioli, la più “antica” è quella tra Matteo Baldin, Luca Caligaris e Franco Patriarca,

i “Quat Gat”. Fanno rete dal 2005, “anche se non è una forma organica, riconosciuta. Ci aiutiamo per ciò che riguarda la partecipazione a piccole manifestazioni, come ‘La Terra Trema’: ognu-no di noi rappresenta anche gli altri, senza invi-die. Quando uno viene ad assaggiare, parliamo del vino dell’altro con lo stesso rispetto con cui parleremmo del nostro. Gli impegni sarebbero moltissimi, anche nei fine settimana: è una for-ma di mutuo soccorso, ma anche un rapporto di amicizia”. Tra Gattinara e Lozzolo, nel vercellese, le tre cantine coltivano meno di dieci ettari e produ-cono circa 20mila bottiglie l’anno, nell’area della Docg Gattinara e della Doc Bramaterra. “Questa zona del Nord Piemonte, 100 anni fa, prima del-la Seconda guerra mondiale, era importantissima dal punto di vista viti-vinicolo, con migliaia di et-tari. Dopo l’industrializzazione, tutti sono andati in fabbrica, e la superficie vitata è ridotta a poche centinaia di ettari. Siamo rimasti pochi viticolto-ri, ‘quattro gatti’. Mettendoci insieme eravamo in 3, ma usiamo questo nome” racconta Patriarca. Tra le cose che i “Quat Gat” hanno fatto insie-me, c’è anche l’acquisto di una tappatrice se-mi-automatica: “Un investimento che, seppur minimo, risulta elevato per un piccolo vignaiolo -spiega-. Anche senza costituirci in cooperativa, siamo sulla stessa barca: via l’invidia, i sospetti. Bisogna darsi una mano. Se si resta davvero da soli, diventa impossibile superare molti proble-mi”. La scelta dei “Quat Gat” è per un’agricoltu-ra sostenibile: “Nessuno ha la certificazione, ma non usiamo più diserbanti, ne insetticidi -sot-tolinea Patriarca-. Sono 20 anni che non ne do. Dobbiamo necessariamente praticare un’agricol-tura attenta, in primis perché in mezzo alle vigne ci siamo noi”.

I marchigiani di “TerroirMarche” hanno organizzato un flash mob a Verona, in occasione del Vinitaly, per dire no alle trivellazioni nei mari italiani

“Anche senza costituirci in cooperativa, siamo sulla stessa barca: via l’invidia, i sospetti. Bisogna darsi una mano. Se si resta davvero da soli, diventa impossibile superare molti problemi” (Franco Patriarca dei “Quat Gat”)

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Piano Terra I giovani fuggono dalle aree distanti da grandi centri e servizi. Occorrono coraggio e buone idee per fermare una migrazione senza futuro

Questa è la disoccupazione media giovanile nel 2014 in Campania, Puglia, Sicilia e Calabria (dati ISTAT). Per frenare l’emorragia di giovani occorrono, e presto, progetti di territorio che siano capaci di generare occupazione dignitosa, distribuita, appagante nelle aree interne del Paese. Il virus della disoccupazione rimane la malattia mortale della società (Camillo Olivetti)

57,3% - 58,2% 57,8% - 60%

di Paolo Pileri

Paolo Pileri è professore associato di Pianificazione territo-riale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Che cosa c’è sotto” (Altreconomia, 2016)

C’è una migrazione diversa, meno cruenta, che, come goccia sulla pietra, buca il futuro. È quella dei tanti giovani pronti a fuggire per sempre dalle loro terre alla ricerca di un Paese che li accolga e riservi loro stima, dignità e speranza. A Milano, a questa fuga non diamo peso (e sbagliamo) perché forse ne intuiamo il ritorno. Ma a Palermo l’idea di scappare è indi-gesta. Primo perché sono molti di più i “pronti alla fuga”. Poi perché sai che non ritorneranno e quella terra rimarrà più sola di prima, in balia di chi vorrà spadroneggiare. E poi perché senti che così si ammazza chi resta, chi ha immagi-nato di dar vita lì a un nuovo futuro: i ragazzi dei laboratori artigiani di via Alloro, di Ballarò e di Libera o le Donne in Campo. Ma niente, loro vogliono andarsene. C’è chi dice che fanno bene: la vita è una sola. Chi dice che scelgono così per-ché si abbandonano al comodo e mortificante “intanto non c’è nulla da fare”. E se fosse un’altra la ragione? Sospendiamo il giudizio su di loro e voltiamoci verso di noi: se la fuga di quei ragazzi fosse un atto di separazione dalla nostra gene-razione? Un gesto estremo per dirci che non ne possono più di un modello sociale e politico? Ai nati tra il 1980 e il ‘90, quando l’autostrada di Capaci saltava per aria, non diamo le risposte che cercano. Abbiamo lasciato loro una terra canni-balizzata dal cemento, flagellata dai rifiuti e soffocata dalla mancanza di un lavoro dignitoso e appagante. Ma quel che meno sopportano è che non c’è uno straccio di progetto che li riguardi e che duri più di una campagna elettorale o non sia un mancetta per un tablet. Se fossimo noi a “deportar-li” e non loro ad andarsene? La nostra generazione, quella che arriva oggi all’età adulta, porta con sé una responsabi-lità storica: o riesce ad aprire gli occhi e frena l’evaporazio-ne di giovani dalle Aree interne del Paese (non solo dal Sud) diretta a condensarsi nell’ombelico delle smart city del Nord (dove, et voilà, la finanza vuole investire) e se ne parlerà nei prossimi libri di storia; o non vi riesce, e forse se ne parlerà fra due generazioni, ma in termini ben diversi. L’Italia della nostra splendida Costituzione è una terra dove a tutti i citta-dini devono essere date uguali opportunità laddove essi sono (art. 3). E invece, a suon di promesse di valli incantate e idro-poniche, li strappiamo alle loro terre, che così deperiranno

o saranno predate. Il futuro non può essere quello degli in-vestitori, ma dei cittadini. Bisogna reagire elaborando, con loro, veri progetti di dignità e rianimazione delle Aree inter-ne del Paese: il loro svuotamento riguarda tutti noi. È necessario un riscatto culturale che passa da strade e piaz-ze diverse da quelle percorse fin qui. In primis, dalle aule di scuola, dove si affilano le armi contro l’ignoranza che fa sba-gliare. Scuole che devono tornare il fiore che erano e che han bisogno dei migliori, come Laura: con una laurea in architet-tura al Politecnico di Milano vuole insegnare alle scuole me-die. Una scelta coraggiosa. Laura ha capito: la scuola non si salva da sola ma con la sua scelta di ri-costruirla dall’interno, rianimando la voglia di prendersi cura della propria terra, disegnando nuove prospettive di responsabilità. Laura, a suo modo, è una patriota a cui va il nostro grazie. Di tante Laura abbiamo bisogno. Le nostre generazioni imparino da lei. E quelli con il biglietto di sola andata, lo straccino.

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AcrobatiÈ difficile rintracciare, nemmeno da parte di chi dovrebbe esporre programmi, proposte di un cambiamento della società: siamo bombardati di presente, di immanente; non c’è memoria storica né disegno di futuro

Daniele Silvestri

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L’8 LUGLIO INIZIA L’“ACROBATI SUMMER TOUR”, ACCOMPAGNATO DALLE 18 STORIE DELL’ULTIMO ALBUM

Il lavoro artigiano sulle parole dei suoi testi e lo sguardo attento alla società che lo circonda. Intervista al cantautore romano, su diritti civili, qualità dell’informazione e cultura

di Luca Martinelli

Il cantautore Daniele Silvestri è nato a Roma nel 1968. Ha esordito nel ‘94, con un album omonimo. Quell’anno ha vin-to il Premio Tenco come migliore opera prima

Daniele SilvestriL’acrobata che immagina il futuro

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iciotto canzoni, “un’ora e un quar-to di storie che hanno bisogno l’u-na dell’altra per darsi valore”, una scelta forse “anacronistica”, spiega Daniele Silvestri, “per com’è cambia-

ta la fruizione della musica negli ultimi dieci anni”. Le tracce di “Acrobati”, undicesimo album solista del cantautore, sono “un’entità chiusa, rappre-sentano un mondo intero da raccontare”.

In “Quali alibi” canta un Paese in cui non si può “non votare perché non votiamo”, e dove i cittadini sono invitati a “fa’ finta di niente”. È l’Italia?DS Probabilmente, ma non solo: in quella can-

zone c’è un momento storico che riguarda una bella fetta di Pianeta, la parte occidentale. In Italia mi sembra un discorso applicabile agli ul-timi vent’anni, e se penso a riferimenti precisi, come il “governo di terza mano”, sto dando voce a un sentire comune, anche facilone. Quando scrivo canzoni mi piace raccontare punti di vi-sta che non sono per forza i miei, perché io, ad esempio, preferisco sempre votare, anche quan-do significa turarsi il naso. In Italia, in ogni caso, non c’è una richiesta violenta di omertà e silen-zio, non c’è un regime o una dittatura, che abbia-mo conosciuto in passato. Ciò non rende meno grave il fatto che sia una strada molto suggerita, culturalmente. Banalizzando, è più comoda una cittadinanza intesa come clienti di un mercato, abituati ad acquistare e a sentirsi soddisfatti o non, e a non andare più in là di questo, piutto-sto che un popolo pensante, che si prende a cuo-re il proprio destino, ma anche quello del prossi-mo, e cerca di riflettere su ciò che accade intorno.

Nel video che accompagna la canzone tor-na un megafono, già protagonista di una sua canzone del 1995, usato per arringa-re le folle, ma anche per zittirle, per far

passare un’unica “verità”. Che cosa pensa dell’informazione? DS Credo di aver vissuto un periodo storico,

mentre facevo intanto questo mestiere, che era già scritto quando ho iniziato, nel 1994, l’an-no della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi. Non è difficile far coincidere quel momento con un cambiamento, più culturale che politico. L’informazione ha fatto due percorsi: in larga mi-sura è più asservita, e non per costrizione ma per convenienza, quindi peggio dal mio punto di vi-sta, perché quando si è liberi di scegliere si do-vrebbe esercitare questa libertà al meglio. Inoltre, ha finito col fare lo stesso gioco della politica: si nutre di scaramucce e polemiche che accendono gli animi ma distraggono l’attenzione dagli ar-gomenti seri. Parallelamente, la globalizzazio-ne dal punto di vista tecnologico ha permesso uno scambio di flussi d’informazione, abbatten-do confini, frontiere, dettati anche dalle lingue, dall’appartenenza geografica: internet ha creato brecce, aperto varchi, solo bisogna saperli vedere. A differenza di altri momenti storici, e non parlo solo dell’Italia, chi ne ha la voglia, e averla è un tema politico e culturale, si può informare. Entra in un mare in cui si può perdere, ma quella libertà e varietà di pensiero che ufficialmente manca si può recuperare.

In “Un altro bicchiere” racconta di persone che vivono tra un cocktail e un’apericena, per cui il futuro è un pensiero distante, o almeno distratto. Causa o conseguenza del presente?DS È una conseguenza, ma questo non affranca

chi fa quella scelta. Siamo spinti a non occuparci del presente e nemmeno del futuro, e questo è il filo rosso che lega tutto il disco: l’impossibilità di vedere descritto intorno a noi un futuro possibile. È difficile rintracciare, nemmeno da parte di chi dovrebbe esporre programmi, proposte di un

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“Dal 1995 l’informazione è diventata in larga misura più asservita, e non per costrizione ma per convenienza: quindi ha fatto peggio dal mio punto di vista, perché quando si è liberi di scegliere si dovrebbe esercitare questa libertà al meglio”

“Acrobati” è l’ultimo disco di Daniele Silvestri. È uscito nel febbraio del 2016, a 5 anni da “Scotch”

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cambiamento della società: siamo bombardati di presente, di immanente; non c’è memoria sto-rica né disegno di futuro. Io bevo vino e basta, ma vedo l’abitudine, da parte di chi ha almeno dieci anni in meno, a pensare lo stare insieme, il diver-timento, il tempo libero come necessariamente legato a quell’attività, a tracannare cocktail. Non è un testo bacchettone, però: la canzone racconta questa realtà, che esiste. E nella parte in inglese, affidata alla voce di Roberto Dell’Era, c’è la riven-dicazione di chi ha fatto quella scelta.

Nel 2016 è stata approvata una legge sulle unioni civili, e riguarda anche le coppie omosessuali. Nel 2007 ha scritto “Gino e l’Alfetta”, dedicata al tema, inno del gay pride romano di quell’anno. La “legge Cirinnà” è un risultato adeguato?DS Adeguato no, però non posso fingere che

non sia un risultato, tardivo, ma non per colpa di questo governo: è un merito, anzi, averla portar-la a casa, anche se com’era facile prevedere si è arrivati a stravolgere in parte il disegno origina-le della senatrice Monica Cirinnà. Creando anche problemi, che saranno chiamati a risolvere colo-ro che interpretano le leggi. C’è un punto un po’ strano, ad esempio, sulla bigamia. Detto questo, abbiamo sfiorato testi ben peggiori. Oggi siamo il 26° Paese europeo con una legge del genere, né la migliore né la peggiore. Lo vivo come un buon se-gnale, per recuperare un po’ del terreno perduto: abbiamo il peso politico e culturale di una tradi-zione cattolica che c’entra poco col pensiero della Chiesa, se penso anche al Papa in carica.

In “Monolocale” canta l’indifferenza che molte donne vivono di fronte alla violen-za sessuale. Da cosa nasce la volontà di af-frontare questo aspetto della società?DS Spiego questa canzone, quando la canto dal

vivo: si tratta dell’esercizio, anche intellettuale, di provare ad entrare nell’intimità di una persona, di sesso femminile, e le parole le scopro come se non fossero mie, e venissero da quella persona. Ci sono elementi forti, anche drammatici, in cui altre figure femminili possono riconoscersi: rac-conta la solitudine che forse una donna può pro-vare più di un uomo quando le scelte che fa, ma-gari di estremo coraggio, la pongono ai margini o la costringono a fare i conti con se stessa, ritro-vandosi a non aver alcun aiuto. Quella cosa che nella canzone è accennata, un passato traumati-co, che lascia strascichi per un’esistenza, quello è qualcosa che isola, di cui culturalmente fatichia-mo a parlare, anche a chi ci vuole bene.

Tra il 2014 e il 2015 è stato protagonista di un disco e un tour con Niccolò Fabi e Max Gazzè. Ad “Acrobati” collaborano in molti, da Roy Paci a Diodato. È importante, per lei, cooperare? DS Assolutamente sì, e lo è diventato negli

anni. Per me è una scelta: sono cresciuto con l’i-stinto naturale di far tutto da solo. Mi piace occu-parmi di ogni singolo aspetto del mio mestiere. Ma una cosa è demandare, e un’altra è coopera-re: avere accanto le persone giuste, scegliersele ed essere scelti, è questione di fortuna e di idee chia-re. Questo l’ho imparato a fare: intercettare cer-te persone nel momento giusto. Anche “Scotch” (l’album del 2011, ndr) è pieno di collaborazio-ni: c’è Stefano Bollani, c’è Andrea Camilleri. E c’è Gino Paoli: non ci conoscevamo, e trovarlo così disponibile e auto-ironico, di fronte alla propo-sta di un cover rivista de “La gatta”, è un privile-gio. Dettato, credo, dall’aver fatto questo mestie-re acquisendo credibilità presso i miei colleghi.

Ascoltando “Bio-boogie” l’agricoltura bio-logica sembra solo marketing. È così?DS Quella è una canzone divertita e diver-

tente, che affronta un tema serio, che si lega al rapporto tra alimentazione e salute, e alla pos-sibilità di formarsi un’opinione. Sul tema si può leggere un sacco di roba, spesso anche terro-rizzante, a volte basata su argomenti scientifi-ci altre molto meno. Insieme a mia moglie sono diventato molto più attento, ma spesso sba-glio: sono anch’io abbindolabile, a volte basta un marchio, che non sempre corrisponde a ciò che sto pensando di acquistare. Questo non si-gnifica pensare “lasciamo perdere, ci stanno solo vendendo la verdura al doppio del prezzo”. Penso che ci sia qualcosa di concreto, che certi ali-menti siano più o meno giusti, dal punto di vista strettamente alimentare, però bisogna saper ri-conoscere l’eventuale fregatura, e sapersi ricono-scere come parte di un potenziale mercato. Basta guardare a come sono cambiati i nostri supermer-cati: anche il più piccolo ha uno scaffale dedicato al “bio”.

Dall’8 luglio al 22 agosto, Daniele Silvestri è im-pegnato nell’A-crobati Summer Tour. La data del 6 ago-sto, a Montalto di Castro (VT), è pensata come un festival popolare. Info su danielesil-vestri.it

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Tomaso Montanari è professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli. Il suo ultimo libro è “Privati del patrimonio” (Einaudi, 2015)

di Tomaso Montanari

Finalmente è tornato alla luce un vero Michelangelo: un evento colossale, la cui importanza sarà calcolabile solo tra decenni. La piccola, superba scultura in legno è proprietà di un celebre finanziere italiano residente a Londra, alla te-sta di una holding internazionale con sede alle Isole Cayman (dunque un accreditato attore democratico). Solo il prossi-mo 31 settembre l’opera (la cui ventilata esistenza teneva da mesi in fibrillazione mercati e musei) sarà presentata al mondo, a Las Vegas. Il Michelangelo che Altreconomia è oggi in grado di mostrare in esclusiva italiana è un’opera soste-nuta non da sogni, ma da solide realtà: una scientifica e una documentaria. La prima. Il massimo studioso mondiale di tecnologia del le-gno, l’americano Elm Woodlover (docente all’Università di Buffalo), è stato il primo scopritore della paternità miche-langiolesca dell’opera: grazie a una spettroscopia transluci-da della superficie lignea ha potuto accertare che i segni del-lo scalpello coincidono al millimetro con quelli lasciati nel famoso bozzetto di crocifisso conservato al Museo del Brand Italia. Non per caso, questa inoppugnabile conclusione è sta-ta confermata anche dall’analisi stilistica di uno dei più emi-nenti studiosi di Michelangelo (Maxim des Aveugles, dell’u-niversità di Voir-par-les-Oreilles), il quale ha letteralmente dichiarato, citando Vasari, che “nelle natiche eroiche del Cristo nessun altro avrebbe potuto scolpire ‘un morto più morto di quello’”. E, in effetti, è in queste natiche che sembra confluire tutta la storia dell’arte occidentale.Ma, come sempre, la vera prova è quella provvidenzial-mente somministrata dai documenti d’archivio: carta can-ta. Intorno al 1540, Vittoria Colonna scrisse all’amato Buonarroti: “Cordialissimo mio, signor Michelangelo, ve prego me mandiate un poco il Crucifixo, se ben non è forni-to”. Ebbene, il capolavoro restituito dalla marea dei secoli è appunto non finito: una coincidenza impressionante. Ma la prova regina sta nella provenienza: una serie di inventari che giungono fino al 1776 conferma che quel crocifisso si trova-va presso gli eredi della marchesa. E non è finita: l’attuale proprietario l’ha acquistato dagli eredi di un soldato ameri-cano che confidò ai figli di averlo avuto in Italia da un certo

‘signor Colonna’ in cambio di derrate alimentari, nel 1944. E il cerchio, come per magia, si chiude.In primavera l’opera tornerà in Italia. Sarà esposta presso la sede di Confmarketing: e in quell’occasione il ministro del-lo Storytelling presenterà il piano quinquennale per il pa-trimonio culturale, la Lotteria della Bellezza. Una coltre di riserbo nasconde i connotati dell’operazione, ma sembra che la seconda tappa dell’esposizione si terrà a Firenze, e avrà come titolo: “Michelangelo versus Cattelan”. La mostra sarà curata dal portavoce del Partito della Nazione, e ci lavore-ranno solo precari volontari non retribuiti. Una cultura che, finalmente, fattura.

Post scriptum: amico lettore, tutto questo è finzione, ma tieni alta la guardia. Quasi ogni giorno sui giornali pascolano bu-fale non molto più credibili di questa. Dunque, occhi aperti.

65 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

Un volto che ci somiglia Le natiche dell’arte. La scoperta di una statuetta di Michelangelo, il ministero dello Storytelling, una mostra presso Confmarketing, la Lotteria della Bellezza: se la realtà somiglia troppo a una bufala

La statua lignea di Michelangelo, scomparsa dall’Italia da secoli e oggi di proprietà di un finanziere italiano alla testa di una holding con sede alle Isole Cayman. È attesa in Italia nella prossima primavera

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AltreconomiaNumero 18466

TERZO TEMPO Cinema

I racconti e le qualitàdel documentario italiano“SACRO GRA” HA VINTO IL LEONE D’ORO A VENEZIA. IN TV HA RAGGIUNTO 650MILA SPETTATORI

Non solo “Fuocoammare”, vincitore dell’Orso d’oro nel 2016: nonostante i pochi incassi in sala e finanziamenti limitati, il genere si fa spazio tra festival e pubblico. La chiave sta nella flessibilità di autori e produttori

di Stefano Zoja

uocoammare a Sanremo. Il do-cumentario di Gianfranco Rosi sull’incontro fra migranti e lampe-dusani, coprodotto da Rai Cinema, è stato benedetto da trenta secondi

di promozione all’ultimo Festival della canzone. Il film è poi rientrato dal Festival di Berlino con l’Orso d’oro. Sui giornali sono apparse le foto di Matteo Renzi che ne regala i dvd ad Angela Merkel e agli altri leader europei; papa Francesco ha vo-luto proiettarne degli spezzoni al Giubileo dei giovani; il presidente Mattarella ha ricevuto re-gista e protagonisti. “Eppure -commenta Dario Zonta, produttore creativo del documentario- il film nei cinema l’avranno visto forse 150mila per-sone. Considerata l’enorme visibilità che ha avu-to, c’è da riflettere su cosa sia oggi il documenta-rio nel nostro Paese”.Nel 2001, secondo i dati Cinetel, i documentari proiettati nei cinema italiani erano stati 5: una ventina nel 2012, e 78 nel 2014. Nel 2013, era già affiorato Rosi, vincendo il Leone d’oro a Venezia con Sacro Gra, docufilm che racconta l’umanità nei dintorni del Grande raccordo anulare roma-no. “Sono quindici anni che il documentario pro-pone molte delle novità più forti per ricerca for-male e costruzione della narrazione”, racconta il critico Luca Mosso. “E il pubblico, sia quello più

accorto che quello generalista, lo sta notando”.Grazie anche alla vittoria a Venezia, Sacro Gra “è stato il documentario italiano di maggiore succes-so al cinema, coi suoi 200mila spettatori” ricorda Zonta. “È stato poi trasmesso da Rai 1 in seconda serata, dove ha raggiunto 650mila spettatori, con punte di un milione. Infine, le vendite dei dvd. Ma in Italia l’ultimo film di Checco Zalone ha portato quasi dieci milioni di persone in sala. Dobbiamo ancora fare i conti con una diffusa incultura sul documentario”. Per Mosso, “il pubblico c’entra poco. Sono gli intermediari, tv e case di distribu-zione, che attuano spesso strategie conservatrici, incuranti della qualità di molti lavori”.Il ritratto degli emarginati della Louisiana di Roberto Minervini; il poema sulle reincarnazio-ni di un’anima di Michelangelo Frammartino; le parabole sull’Italia moderna di Pietro Marcello; la versione di un cantoniere siciliano sul Novecento raccontata da Costanza Quatriglio: sono vari i do-cufilm sperimentali italiani accolti con interesse nei festival e nei circuiti cinematografici stranie-ri. Al di là di Rosi “c’è un insieme di autori ricono-sciuti e capaci di osare”, afferma Ottavia Fragnito, produttrice e cofondatrice di Falest Film. “Poi ci sono i giovani ai primi film, talvolta registi con un talento notevole, anche se poco consapevoli del-le dinamiche produttive”. Il sito CinemaItaliano.

F

78i documentari proiettati nei cinema italiani nel 2014. Appena 5 nel 2001

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67 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

info registra circa 800 produzioni documentari-stiche l’anno nel nostro Paese: grandi e piccole, lunghi e corti. “Gran parte di questi si autopro-ducono recuperando un po’ di soldi in famiglia, o investendo il proprio tempo”, spiega Stefano Tealdi, produttore di documentari e cofondato-re di Stefilm. “I lavori migliori arrivano ai festi-val e vincono anche qualche premio, ma restano ai margini del sistema. Del resto il costo medio di un documentario di taglio cinematografico è sui 100mila euro, ma può anche salire a 400mila e ol-tre per lavori complessi”.

“Un documentario non parte da un tema, ma dal-le persone”, dice Andrea Segre, regista di nume-rosi lavori a sfondo sociale. “Per riconoscere chi è capace di trasferire un’emozione narrativa e co-struirci una relazione occorrono mesi. È la pre-messa di tanto cinema documentario, e parte di questo lavoro esplorativo va a vuoto”. Si incontra già in fase di scrittura dei documentari il primo imbuto produttivo: in Italia esistono pochissimi fondi di sostegno allo sviluppo. “Anche per questo con i miei quattro soci abbiamo fondato ZaLab”, riprende Segre. “È l’associazione attraverso la

quale produciamo i nostri lavori: quello che in-cassa lo redistribuisce in progetti. Per esempio, abbiamo coperto così l’inizio del lavoro a Rosarno per ‘Il sangue verde’”, ritratto degli immigrati che lavorano come stagionali nel paese calabrese e della loro rivolta nel 2010. “Anche oggi siamo fer-mi su un nuovo progetto, perché le persone con cui ci stiamo confrontando per il film hanno su-bito un lutto. Attese e incertezza sono inevitabili. Farebbe una grande differenza se la Rai, o altri, allocassero un fondo a perdere, anche piccolo, per consentire ai documentaristi di sviluppare i loro progetti”.Anche i produttori tradizionali vivono lo stesso problema. Molti sono concentrati a Torino, capi-tale italiana del documentario, dove c’è anche una film commission fra le più attive. Questi enti pub-blici locali di sostegno all’audiovisivo “sono fra i primi soggetti ai quali ci rivolgiamo in fase di svi-luppo”, racconta Simone Catania di Indyca Film e referente dell’associazione Doc/It. “Ma poi si deve ricorrere ai bandi europei per lo sviluppo, soprat-tutto lo storico fondo Media. Chi spicca fra centinaia di concorrenti ottiene 25mila euro, e ha così il tempo di sviluppare

“Fuocoammare” è l’ultimo do-cumentario di Gianfranco Rosi. Ha vinto l’Orso d’oro a Berlino, nel 2016

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AltreconomiaNumero 18468

TERZO TEMPO Cinema

storie e strategia per il progetto”. Nel momen-to in cui un documentario è scritto e si passa alle riprese, la partita decisiva diventano le coprodu-zioni con l’estero e, se possibile, con le televisio-ni europee. “Significa accedere ai fondi di altri Paesi, dove il mercato è molto più evoluto”, spiega Tealdi. “Anche le televisioni straniere, se decido-no di investire sul tuo progetto, mettono da due a quattro volte le cifre che normalmente si ottengo-no in Italia col preacquisto del film”.Per la parte italiana il tipico piano di finanzia-mento include i fondi del ministero per i film di interesse culturale, contributi da fondazioni o associazioni, o forme di finanziamento da priva-ti basate sul tax credit. “Ma i margini sono scarsi, la concorrenza ampia e il cash flow problematico, con i soldi che entrano mesi o anche anni dopo la vittoria di un bando o la promessa di un contri-buto”, dice Fragnito. Così per molti documenta-ri i tempi di lavorazione si allungano, rischiando di compromettere il racconto degli eventi nel loro svolgersi spontaneo.

Massimo D’Anolfi e Martina Parenti hanno co-minciato a realizzare documentari insieme dieci anni fa, quando già erano una coppia nella vita. I loro lavori, rigorose esplorazioni in campo socia-le e filosofico, sono passati da Berlino, Locarno e altri grandi festival. “Il castello”, un’indagine rea-lista quanto visionaria sull’aeroporto di Malpensa nel clima di paura post-11 settembre, ha vinto il premio della giuria a Toronto. Come sempre la la-vorazione l’hanno svolta in due: Massimo alla ca-mera, Martina al suono ed entrambi al montag-gio, senza quasi collaboratori esterni. Seguono una strada di completa autonomia, da registi–produttori. Con la piccola società fondata per re-alizzare i propri film vanno a caccia di fondi di ogni genere. “Per il nostro primo documentario ci ha sostenuti anche un pastificio”, sorridono. Negli anni il mix di finanziamento dei loro la-vori ha più o meno ricalcato quello tradizionale, dalla tv alle coproduzioni con l’estero, dai fondi Media alle associazioni. Ma all’inizio creatività e fortuna sono state decisive: “La Lines, l’azienda produttrice di assorbenti, ci ha finanziato i pri-mi tre lavori. Probabilmente realizziamo i nostri film con un quarto dei soldi che costerebbero se ci rivolgessimo al mercato, ma così restiamo liberi. E il gioco regge perchè siamo una troupe legge-ra, i mezzi tecnici sono nostri e il tempo pure. Se così non fosse, difficilmente potremmo accostar-ci a progetti vasti come quello di ‘Spira Mirabilis’, la quadrilogia di documentari sugli elementi del-la natura alla quale stiamo lavorando, e che ci

porterà a viaggiare fra Giappone, Svizzera e Stati Uniti”.Rosi, Segre, D’Anolfi e Parenti e altri hanno an-che trovato presso la tv pubblica un interlocutore attento in Paola Malanga, oggi vicedirettore Rai Cinema, che nel 2012 ha voluto una struttura de-dicata ai documentari per erogare fondi alla pro-duzione: “Era tempo che si desse un’attenzione diversa al documentario. Abbiamo un arcipela-go di autori capaci di porre sfide di linguaggio di cui la fiction non è più capace da tempo, e van-no sostenuti”. I registi ai primi film, invece, spes-so si rivolgono alle case di produzione struttura-te. Spiega Catania di Doc/It: “Li sosteniamo nel processo di realizzazione dei film secondo moda-lità professionali. Li portiamo ai mercati interna-zionali, dove parliamo con i commissioning editor delle tv straniere, o con potenziali coproduttori, e seguiamo altre modalità di ricerca fondi, come il crowdfunding. Il produttore poi prende fra il 10 e il 20% del finanziamento ottenuto, ma è il pri-mo a non venire pagato se non si raggiungono le soglie previste”. “Si lavora sempre per la pagnotta -conclude Zonta-, ma è un sistema che non gene-ra profitti veri, coi quali reinvestire su un’opera successiva”.

Claudia Tosi, documentarista al suo secondo lun-go, da mesi si interroga su come raggiungere il pubblico. Fa da sè, perchè “The Perfect Circle”, la storia degli ultimi giorni di vita di due persone in un hospice emiliano, non ha trovato un distribu-tore. Una produzione di taglio cinematografico durata cinque anni, fra decantazione personale e ristagni produttivi. Risultato, un film duro e dol-ce sulla vita e la cura ai bordi della morte: “sulla carta è il film che nessuno vuole vedere, anche se poi in tanti vogliono riguardarlo. Ma i distribu-tori non capivano come maneggiarlo”. Così Tosi ha scoperto la formula delle proiezioni on demand: attraverso piattaforme online si realizza l’incontro

“Sono gli intermediari, tv e case di distribuzione, che attuano spesso strategie conservatrici, incuranti della qualità di molti lavori” (Luca Mosso, critico)

5% una stima dei documentari rea-lizzati ogni anno in Italia che trova un distributore vero, su un totale di circa 800

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fra le sale disponibili e i potenziali spettatori del film, che preacquistano il biglietto per una data sera: se si raggiunge un certo numero di presen-ze, la proiezione è confermata. Per questa via si sono già organizzate una decina di serate in tutta Italia, anche in Parlamento.“Forse il 5% dei documentari realizzati ogni anno trova un distributore vero”, dice Fabrizio Grosoli, consulente di I Wonder, una delle tre realtà di-stributive dedicate al documentario in Italia. “Per noi i margini di manovra sono molto ristret-ti. Televisioni e grandi piattaforme online, come Netflix o Amazon, si contendono i diritti per i film a monte nella filiera: la distribuzione di do-cumentari in Italia è un non-mercato, vista anche la cautela dei distributori tradizionali. Il risultato è che un gran numero di lavori restano al di sotto del loro bacino potenziale di pubblico”. E se i do-cumentari di taglio cinematografico arrivano di rado in sala, ancora meno si vedono in televisio-ne. “Eppure -dice Tealdi- tv come la Rai avrebbero

tutti i mezzi per investire, formare un pubblico e creare in qualche anno un mercato che darebbe ottimi ritorni”. Concorda Paola Malanga, che ha promosso la diffusione in prima serata sui Rai 5 di docufilm di qualità: “Oltre ai meriti artistici, questo è anche un prodotto dall’ottimo rapporto qualità-prezzo”. “In questo contesto resta strate-gica la vetrina dei festival”, spiega Mosso. “È il vei-colo migliore per certificare la qualità di un film e attivare il passaparola che lo farà conoscere, visto che distributori e produttori non hanno soldi per fare pubblicità”. Mentre distribuisce “The Perfect Circle”, Tosi lavora al prossimo documentario. Da otto anni segue due donne entrate in Parlamento. “Sarà un film sulle emozioni e le pene del fare politica”. Titolo provvisorio: “I Had a Dream”. Non importano i tempi lunghi e la fatica, “alla fine lo fai perché ti piace, e perché vorresti persi-no fare una qualche differenza sul piano sociale. Comunque sì, sono lentissima”, scherza. “Ma for-se lo chiudo l’anno prossimo. Forse”.

“The Perfect Circle”, di Claudia Tosi, è la storia degli ultimi giorni di vita di due persone in un ho-spice emiliano. È stato distribuito grazie a piatta-forme di proiezio-ni on demand

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UN ROMANZO EMPATICO

La ragazza di Santo Domingo

Ti viene voglia di sentirla cantare, Rita Indiana: canta merengue alternativo e scri-ve letteratura alternativa, all’inizio non capisci molto, ti senti un po’ sballottato dalla sua scrittura, poi ti rendi conto che è il suo ritmo.È la storia di una ragaz-za, adolescente, di Santo Domingo come la scrittrice. Per qualche tempo deve dare una mano nello studio dello zio veterinario. Una ragazza in una sala d’attesa, che aspetta, che cerca un nome, un amico, un amore, una famiglia.Ma poi della trama interessa poco, qui sono la scrittura e l’empatia della ragazza che sono notevoli. Lo stile colloquiale, l’utilizzo di espressioni inusuali, il raccontare in mezzo all’azio-ne, senza tanti preamboli e spiegazioni (un po’ di sforzo del lettore, che diamine!), fanno di questo libro un testo dal sapore nuovo.

Luce d’estate ed è subito notteJon Kalman Stefansson, Iperborea

Vorrei che facessi una cosa per meCharles Baxter,Mattioli 1885

L’uomo semeViolette Ailhaud,Playground

La biblioteca di GouldBernard Quiriny,L’Orma

CriminalePhilippe Djian,Voland

Un giorno triste così feliceLorenzo Iervolino,66thand2nd

Sabato sera, domenica mattinaAlan Sillitoe,Minimum Fax

Il pazzo dello zardi Jaan KrossIperborea € 19,00

La bambola di Kokoschkadi AfonsoCruz La Nuova Frontiera  € 17,00

I gatti non hanno nomeRita Indiana NN editore€ 16,00

STORIA VERA

Essere “pazzi” ai tempi dello zar Il pazzo, prima di diventarlo, era amico dello zar. Un nobile che aveva combattuto con valore contro Napoleone. Ma aveva strane idee. Come moglie sceglie una giovane contadina. Questo crea scandalo e riprovazione, ma fin qui si tratta di questioni private. Il dramma inizia quando la sua onestà intellettuale lo spinge a mandare una lunga lettera allo zar. Ecco la pazzia, per poterlo incarcerare prima e metterlo poi agli arresti domiciliari.

Perché leggere questa storia, basata su fatti real-mente accaduti, che parlano di nobili e zar? È scritta tremendamente bene ed è molto istruttivo per la mia attualità essere catapultato in un’epoca dove il nonno di mio nonno, nascendo da quelle parti, sarebbe stato un contadino, di proprietà del nobile del luogo, senza diritti. Di che pazzi abbiamo bisogno oggi?

VITE ASSURDE

Due libri al prezzo di uno “Sto scrivendo un nuovo libro. Di che parla? Non saprei. D’amore o di odio, della condizione umana, cose così. Di cos’è che parlano i libri?” In questo scambio fra Isaac Dresner, da bambino sopravvissuto al bombardamento di Dresda e da grande diventato editore con un volume di vendite prossimo alla disperazione, e Mathias Popa, musicista di talento senza passione ma appassionato di scrittura che ha ricevuto più rifiuti dei manoscritti inviati, c’è tutto questo assurdo e poetico libro. È anche un libro che contiene un altro libro, il primo ed ultimo libro scritto da Mathias Popa e pubblicato da Dresner. È un libro per chi non si spaventa nel saltare fra realtà e finzione in continuazione, per chi non cerca conforto nella sfiga e nell’amore altrui.

In breve, sette titoli da non perdereLa pagina dei librai

La libreria “MarcoPolo” ha due sedi: Malibran è in Cannaregio 5886/a; Santa Margherita, dal 2016, in Dorsoduro 2899

di Claudio Moretti, libreria MarcoPolo (Venezia - libreriamarcopolo.com)

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Agenda luglio-agosto 2016

TERRITORIO

13 luglioUna giornata per il suoloRomawww.isprambiente.gov.it

In occasione della presentazione dell’e-dizione 2016 del Rapporto sul consumo di suolo in Italia, a cura di ISPRA e del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente, l’Istituto -insieme a FAO, Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea, AISSA, DIPSE, CIA, CONFAGRICOLTURA, COPAGRI, CONAF e Forum “Salviamo il paesag-gio”- organizza una manifestazione interamente dedicata al suolo. Ci saranno spazi di approfondimento scientifico, dibattiti e tavole rotonde, ma anche spettacoli teatrali e musicali, laboratori didattici per bambini, gio-vani e adulti, degustazioni di prodotti della terra. Presso la Casa dell’Archi-tettura, in piazza Fanti, 47.

AMBIENTE

5-15 agostoFestambienteRispescia (Gr)www.festambiente.it

La festa nazionale di Legambiente è arrivata alla 28° edizione. Si svolge -come ogni anno- alle porte del Parco naturale della Maremma. Undici giorni di musica, cinema, mostre, area espositiva, dibattiti e conferenze, spazi per bambini, risto-razione bio e tradizionale, e lo spazio benessere.

DIRITTI

9 agostoGiornata internazionale dei popoli indigeniin tutto il mondowww.un.org/en/events/indigenousday

Proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1994, l’Interna-tional Day of the World’s Indigenous Peoples celebra 370 milioni di perso-ne che vivono in 90 Paesi in tutto il mondo. Sono portatori di conoscenze ance-strali, e spesso vivono “ai margini” dello sviluppo. Leggi su altreconomia.it l’intervi-sta ad Alvaro Pop, presidente del Forum permanente sulle questio-ni indigene dell’Onu http://bit.ly/indigeni-risorse-alvaropop

ATTIVISMO

9-14 agostoWorld Social ForumMontreal (Canada)fsm2016.org

Il Forum sociale mondiale si svolge per la prima volta in un Paese dell’emisfero Nord del Pianeta. La World Fair Trade Organization (WFTO) insieme ad alcuni partner ca-nadesi allestirà, per l’occasione, un Fair Trade Village, nei giorni 13 e 14 agosto.

CIBO RESISTENTE

1-4 settembreUna cucina nel “mare” Milanomaremilano.org

Il libro “Kitchen Social Club” diventa un “incontro di cucina sulle pratiche resistenti”. Giovedì 1 settembre alla Cascina Torrette di Trenno (dalle 19) sei cuochi cucineranno in diretta piatti che raccontano storie di lotta per l’equità, rispetto della terra e dei lavoratori. Ai fornelli realtà sociali milanesi e del Sud (Funky Tomato, Orto dei Miracoli di Alcamo, CortoCircuito Flegreo). Ingresso 15 euro, inclusa degustazione dei 6 piatti e bicchiere di vino. Dal 2 al 4 settembre “mercatino alimentare resi-stente”. L’evento è parte di United Food of Milan, percorso tra cucina popolare, arte e società, curato da donpasta, nella rassegna di Mare culturale urbano.

AGRICOLTURA E COMUNITÀ

22-26 settembreTerra madre Salone del gustoTorinowww.terramadre.info In occasione del trentennale di Slow Food, i due eventi simbolo dell’as-sociazione si svolgono per la prima volta all’aperto e ad ingresso gratuito: il mercato sarà ospitato nella storico Parco del Valentino, lungo il Po, mentre workshop, Laboratori e conferenze sono “diffusi” in tutta la città.

71 Luglio/Agosto 2016www.altreconomia.it

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Idee eretiche di Roberto Mancini

Economia domestica. È l’economia dei ruoli e della divisione dei compiti che da sempre or-ganizza il rapporto tra uomini e donne. Far maturare un’altra economia non solo in piccole comunità, ma nella società intera è impensabile senza una profonda trasformazione della relazione tra i generi. Si conferma, anche da questa prospettiva, l’idea per cui il proces-so di superamento del capitalismo non è attuabile solo con buone pratiche o con politiche economiche diverse, ma richiede un mutamento radicale e sistematico del nostro modo di abitare il mondo. La direzione della trasformazione realmente adeguata è evidente: si trat-ta di passare dalla mentalità che fa del potere il mediatore di tutti i rapporti (tra capitale e lavoro, tra umanità e natura, tra adulti e bambini, tra uomini e donne, tra nativi e migran-ti, tra possidenti e diseredati) a una cultura liberante, per cui il mediatore in ogni relazione diventa la giustizia. Intendo la giustizia che sa onorare la dignità delle persone e della natura; non è una dea bendata che non guarda in faccia a nessuno, ma una visione e un’azione lucida che sa rico-noscere ognuno, volto per volto. La giustizia vera è fatta di rispetto, accoglienza, reciproci-tà, solidarietà, responsabilità. È una forza di risanamento delle relazioni e delle situazioni, non un potere che reagisce al male con altro male. In un ordinamento civile e in un tessuto sociale orientati in questo modo chiunque trova spazio per essere libero, senza che questo diritto sia più confuso con la prepotenza e con l’indifferenza verso gli altri, come acca-de nella logica del “liberismo”. Giustizia è il nome plurale della libertà. La giustizia giusta, scrive María Zambrano, consiste nel “trattare tutti, chiunque, meglio di quanto si meriti” (Delirio e destino, Raffaello Cortina editore, p. 95), poiché la misura di riferimento è la di-gnità della persona e non l’utilità, la prestazione o la colpa. La scoperta e l’interiorizzazione di una giustizia simile avvengono in primo luogo nel rapporto tra i generi e in quello tra le generazioni. Quando tale cammino di apprendimento resta bloccato, prevale il criterio del potere, che una volta smascherato si rivela per quello che è: violenza. È proprio quello che continua ad accadere ogni giorno, ovunque nel mondo, a causa della violenza degli uomini contro le donne. Disprezzate, sfruttate, offese, violentate, uccise, bruciate vive. E di fatto prese in giro dalle grandi religioni mondiali, che a tutt’oggi continuano a perpetuare lo ste-reotipo per cui le donne sarebbero umanità minore e a disposizione. È storia vecchissima, sempre uguale. Perciò le parole di condanna suonano subito retoriche e pure le leggi più avanzate vengono facilmente eluse. Marx pensava che la rivoluzione proletaria avrebbe au-tomaticamente liberato il genere femminile. Oggi i soggetti dell’altreconomia non possono essere così ingenui. Noi uomini, tutti, dobbiamo diffidare di noi stessi e sentire la benefica vergogna per la tradizione maschilista a cui comunque apparteniamo. Dobbiamo chieder-ci quale immagine della donna abbiamo nel cuore e nella mente, quale economia domestica (materiale, simbolica, affettiva) abbiamo organizzato nei confronti di madri, sorelle, com-pagne e amiche. Chi opera per la nascita di un sistema economico equo, sobrio, ecologico e democratico deve interrogarsi con un’autentica disponibilità a cambiare. Le cooperative, le associazioni, le reti e i movimenti dell’altreconomia, sovente guidati da uomini, devono fare una verifica collettiva e scegliere una strada nuova. Molta parte del pensiero alternativo a cui ci si ispira è dovuto a schemi e logiche maschili. Vuol dire che il nostro resta un pensiero sordo, non così alternativo come crediamo. Perciò occorre porsi in ascolto e imparare, gra-zie al dialogo con le donne, a sradicare il maschilismo. In tal modo potremo dare un contri-buto all’avvento di relazioni libere dal dominio in ogni am-bito della vita personale e collettiva. Questa è la prima altreconomia.

Occorre porsi in ascolto e imparare, grazie al dialogo con le donne, a sradicare il maschilismo. In tal modo potremo dare un contributo all’avvento di relazioni libere dal dominio in ogni ambito della vita personale e collettiva

Roberto Manciniinsegna Filosofia teoretica all’Università di Macerata

72 AltreconomiaNumero 184

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altreconomia.it/soci

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L’incipit ideale per le vostre vacanze!

Tutti i titoli da mettere nello zaino dell’estate

Kitchen Social ClubManifesto dei cuochi, del cibo e delle cucine sociali e popolari25 racconti e ricette: un vasto repertorio di cucine militanti e cuochi resistenti, da Don Pasta, artista e attivista del cibo.

128 pagine, 12,50 euro 12,50euro

101 piccole rivoluzioniStorie di economia solidale e buone pratiche dal basso Paolo Cacciari racconta l’economia delle persone, che valorizza i beni comuni e tutela il territorio. Con un testo di Aldo Bonomi.

192 pagine, 14,00 euro14,00euro

Il viaggio e l’incontro

Che cos’è il turismo responsabileTeoria, prassi e racconti di un modo di viaggiare leggero ma intenso, nelle parole di due fondatori del movimento, Maurizio Davolio e Alfredo Somoza.

176 pagine, 14,00 euro14,00euro

Biologico, collettivo, solidaleDalla filiera agricola alle azioni mutualisticheLa storia e il modello partecipativo della Cooperativa Iris - la pasta dei Gas -, per prendersi cura della terra e del mondo.

128 pagine, 13,00 euro13,00euro

Piccola guida al consumo criticoAcquisti responsabili e stili di vita etici 2.0. Con 10 infograficheUna piccola guida per passare dal dire al comprare: come e perché adottare consumi critici e “stili di vita” responsabili.

128 pagine, 12,00 euro12,00euro

Non con i miei soldi!

Sussidiario per un’educazione critica alla finanzaPer occuparci della finanza, prima che lei si occupi di noi. In collaborazione con Banca Etica e la campagna “Non con i miei soldi”.

144 pagine, 13,00 euro 13,00euro

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