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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA FACOLTÀ DI AGRARIA CORSO DI LAUREA IN PRODUZIONI AGROALIMENTARI E GESTIONE DEGLI AGROECOSISTEMI Curriculum Produzioni Agroalimentari TESI DI LAUREA ATTIVITA’ ANTIMICROBICA DI ALCUNE SOSTANZE DI ORIGINE NATURALE SU COLTURE DI PAENIBACILLUS LARVAE Relatore: Dott. Antonio Felicioli Laureando: PietroFrancesco Luchini ANNO ACCADEMICO 2010-2011

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

FACOLTÀ DI AGRARIA

CORSO DI LAUREA IN PRODUZIONI AGROALIMENTARI E GESTIONE DEGLI

AGROECOSISTEMI

Curriculum Produzioni Agroalimentari

TESI DI LAUREA

ATTIVITA’ ANTIMICROBICA DI ALCUNE SOSTANZE DI ORIGINE NATURALE SU

COLTURE DI PAENIBACILLUS LARVAE

Relatore: Dott. Antonio Felicioli

Laureando: PietroFrancesco Luchini

ANNO ACCADEMICO 2010-2011

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INDICE 1. INTRODUZIONE Pag. 1

1.1 Paenibacillus larvae agente eziologico della peste americana 1.1.1 Inquadramento generale del problema pag.1

1.1.2 Storia e classificazione pag.6

1.1.3 Genotipi e virulenza di Paenibacillus larvae pag.10

1.1.4 Agente eziologico e patogenesi pag.13

1.1.5 Trasmissione della malattia pag.18

1.1.6 Sintomatologia della peste americana pag.21

1.1.7 Diagnosi pag.26

1.1.8 Metodi di controllo della malattia pag.31

1.2 Il lisozima pag.37

1.2.1 Proprietà chimiche e meccanismo di azione pag.38

1.3 Oli essenziali pag.42

1.3.1 Meccanismo di azione pag.45

1.3.2 Attività antimicrobica degli oli essenziali verso

Paenibacillus larvae pag.47

1.3.3 Origano pag.49

1.3.4 Maggiorana pag.50

1.3.5 Timo rosso pag.51

1.3.6 Timo bianco pag.52

1.3.7 Rosmarino pag.53

1.3.8 Bergamotto pag.54

1.3.9 Cannella pag.55

1.4 Curiosità: la peste americana e l’uomo pag.56

2. SCOPI pag.57

3. MATERIALI E METODI

3.1 Allestimento delle colture di Paenibacillus larvae

per l'esecuzione delle prove pag.58

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3.2 Composizione dei terreni utilizzati per le prove

sperimentali pag.60

3.3 Test effettuati con il lisozima pag.62

3.3.1 Il lysoplate assay pag.62

3.3.2 La minima concentrazione inibente pag.64

3.4 Test effettuati con gli oli essenziali pag.67

3.4.1 La minima concentrazione inibente pag.67

3.4.2 Metodo Kirby-Bauer pag.67

4. RISULTATI pag.69

4.1 Lisozima pag.69

4.2 Oli essenziali pag.71

5. DISCUSSIONE pag.84

6. CONCLUSIONI pag.90

7. BIBLIOGRAFIA pag. I-XIX

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1. INTRODUZIONE

1.1 PAENIBACILLUS LARVAE, AGENTE EZIOLOGICO DELLA PESTE AMERICANA

1.1.1 INQUADRAMENTO GENERALE DEL PROBLEMA

L'apicoltura è un'attività zootecnica, (legge 24 dicembre 2004, n.313 ) conosciuta

principalmente per il miele, ma da cui derivano anche altri prodotti animali come

il polline, cera, propoli e altri.

L'ape riveste un ruolo importante nell'ambito dei servizi ecosistemici come

impollinatore di numerose specie botaniche, per il suo impatto sull'ambiente e

per il suo ruolo indispensabile nelle numerose produzioni agricole e forestali.

Le api mellifere sono insetti sociali, vivono in colonie, anche chiamate famiglie,

costituite da alcune decine di migliaia di individui.

Esistono vari tipi di organizzazione sociale, per il genere Apis si tratta del massimo

grado evolutivo cioè l'eusocialità.

Secondo Wilson (1976) che scrisse “ La società degli insetti”, la eusocilità si ha

quando nella stessa colonia si hanno tre requisiti fondamentali: (i)la

sovrapposizione nel nido di almeno due generazioni,(ii) la suddivisione del lavoro

con individui sterili e fertili in cooperazione e (iii) la collaborazione dei

componenti della colonia nella cura della prole.

Diversi Autori (Wheller, 1928; Seeley, 1989; Moritz e Southtwick, 1992;

Wilson and Hölldobler, 2011), considerano la società delle api come un

unico organismo superiore in cui ogni ape rappresenta l’unità minima

vivente che esplica le funzioni di cellula e, come tale, è fondamentale alla

vita di tutto l’organismo. La colonia d’api costituisce quindi una sorta di

“superorganismo” formato da migliaia di individui interdipendenti e

regolato da sistemi di coesione, integrazione e comunicazione propri degli

insetti sociali più evoluti (Moritz e Southtwick, 1992; Wilson and Hölldobler

2011).

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Il termine “superorganismo” fu usato per la prima volta dal biologo americano

William Morton Wheeler (1865-1937) nel 1911 riferendosi alla vita sociale delle

formiche per indicare questo particolare tipo di forma vivente.

Wilson e Sober (1989) cercarono di definire questo concetto, scrivendo che un

superorganismo è “un insieme di singoli individui che posseggono

l’organizzazione funzionale che è implicita nella definizione formale di

organismo”.

Nel libro “ Bees as superorganism . An evolutionary reality” (1992), Moritz e

Southwick studiano le analogie tra un “superorganismo” e una colonia d’api:

- La omeostasi intra-organismica: pur essendoci divisione del lavoro

all’interno della colonia, esistono meccanismi agenti a livello fisiologico,

comportamentale e di comunicazione che permettono di commutare

l’attività nella necessità più urgente.

- La “cripticità” del nido: il sito di nidificazione è sempre accuratamente

nascosto e/o protetto perché l’accumulo di alimenti in uno spazio confinato

aumenta l’attrattiva per eventuali predatori.

- La sessilità: ossia la presenza di un ben definito sito fisiografico di

nidificazione, , dove si effettua la cura della prole e si stoccano le riserve di

cibo, all’interno del quale si trova la maggior parte degli individui per la

maggior parte del tempo.

- L’elevato numero di individui all’interno del gruppo che agiscono di

concerto come un unico organismo; infatti non sono mai presenti forme di

vita solitaria all’interno delle colonie.

- La compartimentalizzazione: vi sono funzioni specifiche svolte da gruppi

di individui specializzati.

- La riproduzione per gemmazione di progenie che risponde alla

definizione di superorganismo: per la famiglia di api è rappresentata dalla

sciamatura.

- La selezione naturale operante sulla colonia intera e non sui singoli

individui.

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L'animale allevato quindi, secondo la teoria sociobiologica di Wilson, non è l'ape

intesa come singolo individuo ma è il super organismo cioè l'intera famiglia;

questa è costituita dall'insieme degli insetti e da tutti gli elementi che

solitamente ne fanno parte (riserve di miele, polline, propoli etc...).Come tutti gli

esseri viventi anche le api hanno i loro nemici naturali, che trovano nell'alveare le

condizioni favorevoli per svilupparsi o adattarsi; l'alveare costituisce un ambiente

ideale allo sviluppo di malattie infettive.

Decine di migliaia di individui vivono e si riproducono in un ambiente confinato e

ristretto dove la temperatura e l'umidità sono ideali per lo sviluppo di patogeni.

(Frediani, 1983).

Tra gli agenti patogeni che attaccano l' Apis mellifera troviamo: virus, batteri,

funghi e altri parassiti, questi comportano una significativa minaccia par la salute

della famiglia.

Con il termine “malattia” delle api vengono considerate tutte le avversità, sia di

natura parassitaria che non. Le prime vengono causate da altri organismi viventi e

sono trasmissibili ad altre colonie, le seconde invece sono alterazioni fisiologiche

insorte a causa di condizioni ambientali sfavorevoli e come tali non sono

trasmissibili. Questi due gruppi di malattie possono riguardare i soli adulti, gli

adulti e la covata oppure solamente la sola covata (Frediani, 1983).

Per quanto riguarda le malattie delle api adulte, ricordiamo tra le più dannose; la

nosemiasi e l'acariosi; per quelle invece che attaccano sia la covata che gli adulti,

la varroasi.

In questo elaborato di tesi andremo a trattare una delle malattie appartenente al

terzo gruppo, cioè quelle relative alla covata.

Prima dell'arrivo dell'acaro parassita Varroa destructor responsabile della

varroasi, le malattie economicamente più rilevanti erano i due tipi di peste,

quella americana e quella europea, rispettivamente denominate con le sigle AFB

e EFB (American Foulbrood e European Foulbrood).

Fino al 1906, le due malattie erano chiamate entrambe con il nome di peste,

successivamente Phillips, nell'introduzione alla pubblicazione di White (1906),

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usò i termini American foulbrood e European foulbrood. Lui stesso mise in chiaro

che le denominazioni non si riferivano alla distribuzione geografica della malattia

ma alle aree dove queste vennero per prima scientificamente studiate (Hachiro

Shimanuki, 1978).

La peste americana è ancora oggi considerata la malattia più pericolosa per le api

a causa non solo dei danni che può provocare al singolo alveare ma sopratutto

per i danni che può provocare nell'intero apiario (Genersch E ., 2010).

In apiario la AFB è altamente contagiosa dato che la diffusione della malattia è

facilitato dallo scambio di api e materiali da un alveare all'altro, ma anche

dall’elevato numero di famiglie che possono comporre l’apiario, infatti si deve

considerare che un quest’ultimo consta in media di una cinquantina di alveari,

questi si ritrovano “costretti” dall’uomo a convivere in un’area ridotta ( circa

20m2). (in Frediani, 1983).

Questo frequente contatto permette il passaggio della malattia da una famiglia

all'altra.

In molti Paesi, come in Italia, la peste americana è una malattia che deve essere

denunciata agli enti competenti e i vari provvedimenti sono regolati da leggi ben

precise che devono essere rispettate per evitare il contagio (Regolamento Polizia

Veterinaria art. 154 e 155).

Oggigiorno, l’unica strategia di controllo efficace contro questo agente patogeno

sembra essere quella di eliminare mediante fuoco la famiglia e tutto il materiale

infetto, in quanto è l'unico modo per esser sicuri di eliminare il batterio e le sue

spore. Infatti, non è possibile l'eradicazione del microbo con l'impiego di

antibiotici, vista la natura sporigena del batterio. Infatti questi medicinali sono

efficaci solamente sulla fase vegetativa, eliminando o diminuendo i sintomi,

lasciano però vitali le spore che sono in grado quindi di germinare e di reinfestare

la colonia; I normali contatti che avvengono tra le varie colonie possono poi

permettere il contagio della malattia su larga scala da una famiglia all’altra

(Genersch E ., 2010).

All'interno dell'Unione Europea è vietato l'impiego degli antibiotici per la lotta

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alle malattie batteriche in alveari destinati alla produzione di miele o di altri

prodotti apistici. Questo a causa dell'assenza di metabolizzazione dei farmaci

nell'alveare e la loro possibile fissazione nelle diverse matrici come la cera,

propoli, polline e miele, tutti prodotti destinati all'uomo e che quindi non

possono contenere tali sostanze (Lodesani e Consta, 2005 ; Martel et al., 2005).

Proprio per queste ragioni è necessario sviluppare strategie alternative per il

controllo di questa malattia ricorrendo a sostanze, magari di origine naturale, non

dannose alla vita delle api e dell'uomo.

In questo elaborato di tesi indagheremo sul possibile impiego di alcune sostanze

naturali per il controllo eventuale del Paenibacillus larvae : il lisozima di origine

animale e gli oli essenziali di origine vegetale.

Da quello che abbiamo accennato in questa premessa si intuisce come l'AFB sia

un problema serio che causa elevate perdite economiche.

Secondo uno studio fatto dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni

Lazio e Toscana nel 2008, i patogeni principalmente coinvolti nei fenomeni di

moria delle api sono risultati essere:

1. Varroa destructor associata alle virosi, che insieme danno il quadro patologico

noto con il nome di: “Parasitic Mite Syndrome” (PMS);

2. Paenibacillus larvae, agente responsabile della peste americana (PA);

3. Melissococcus plutonius, agente responsabile della peste europea (PE);

4. Nosema spp. responsabile della nosemiasi.

Fig 1 Principali patogeni responsabili nel 2008 di moria delle api (fonte:Giacomelli A. e Formato G. 2010 ).

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1.1.2 STORIA E CLASSIFICAZIONE

La storia della comprensione della peste americana e di quale fosse il suo agente

etiologico è stata complessa e di non facile soluzione; di seguito sono riportati le

fasi salienti dello sviluppo dell'isolamento del patogeno.

Fonti storiche antiche mostrano che i greci, i romani e gli egiziani praticavano

intensamente l’apicoltura e che talune malattie delle api erano già note. Tuttavia

le descrizioni sommarie contenute in quei documenti non ci consentono di

stabilire a quali affezioni particolari si riferissero. Aristotele nel 4° secolo a.c.

descriveva una malattia delle api che provocava un forte odore nell’alveare ( in

Panizzi L. and Pinzauti M., 1999).

Nel XVIII secolo fu descritta da Schirach una malattia delle api caratterizzata da

un cattivo odore proveniente dalla famiglia ammalata, fu proprio in questa

occasione che fu coniato il termine inglese di “Foulbrood” per definire tale

malattia (Schirach G. A., 1769).

Circa un secolo dopo, Dzierzon notò due differenti eziologie della peste, una che

colpisce le larve giovani ed è meno letale e l'altra che attacca sopratutto le larve

di età avanzata, più maligna e pericolosa della prima.

Si pensa che la prima fosse quella che oggi chiamiamo peste europea e la

seconda la peste americana. Il frate salesiano chiarì inoltre che le malattie erano

contagiose e che non dovevano essere confuse con la covata morta e in via di

decomposizione a causa di fame e raffreddamento (Dzierzon J., 1882).

Nel 1885, con l’inizio dell’era degli studi batteriologici, si riuscì a dimostrare la

fondatezza delle asserzioni fatte da Dzierzon; infatti Bacillus alvei fu isolato da

alcune larve infette e identificato come agente patogeno della malattia che

ancora veniva chiamata semplicemente foulbrood (Cheshire F.R and Cheyne

W.W., 1885).

Successivamente, nel 1906, il microbiologo americano White fallì nell'isolare il

batterio B. alvei dalla massa larvale filante; coltivò invece un batterio ancora non

conosciuto in coltura pura.

Basandosi sulla morfologia a bastoncino e l'abilità di formare endospore

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classificò il batterio, che veniva trovato in maniera consistente nelle larve morte

di peste, con il nome di Bacillus larvae (White G., 1906).

White realizzò anche che esistevano due tipi di peste causati da due agenti

patogeni che sviluppavano a loro volta due complessi di sintomi differenti (White

G., 1906).

Si trattava quindi della peste europea e di quella americana i cui nomi non hanno

nessun rapporto con la distribuzione geografica: si trovano entrambe

indifferentemente in Europa e in America. I nomi sono dovuti al fatto che l’agente

eziologico della peste americana venne isolato e studiato da White in America

mentre il primo degli agenti eziologici della peste europea venne isolato per la

prima volta dai ricercatori inglesi: Chesire F.R. e Cheyne W.W. (Panizzi L. e Pinzauti

M., 1999 ; Hachiro Shimanuki, 1978).

Successivamente fu isolato l'agente eziologico della peste europea e identificato

in Melissococcus plutonis e come ospiti secondari molto frequenti il Bacillus alvei

e Enterococcus faecalis. ( Bailey, 1956 ; Bailey et al., 1973)

Nello stesso periodo anche il batteriologo svizzero Burri R. stabilì fondamentali

differenze nel modo di formare le spore tra il B. alvei ed il B. larvae (in Panizzi L. e

Pinzauti M., 1999).

Nel 1950, un'altro batterio venne isolato da larve di api morte asciugate fino ad

assumere una consistenza polverosa; questa malattia venne chiamata “powdery

scale disease” e il batterio classificato come Bacillus pulvifacens (Katznelson,

1950).

Esistono molte notizie in conflitto tra di loro nella letteratura riguardante la

relazione tra B. pulvifacens e questa malattia della covata, ci sono voluti una

cinquantina d'anni per chiarire la questione circa la patogenicità di questo

batterio (Genersch et al., 2006).

Quando fu introdotta l'analisi comparativa delle sequenze di sub-unità di rRNA

(16S rRNA) nella tassonomia dei batteri, divenne evidente che il genere Bacillus

comprendeva 5 linee filetiche, rendendo così necessario una revisione della

tassonomia (Ash et al., 1991).

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Una di queste linee, dimostrò di essere sufficentemente diversa da giustificare

una riclassificazione nel nuovo genere, Paenibacillus (Ash et al., 1993).

Usando un gene marcatore altamente specifico basato sul filamento 16S rRNA il

B. larvae e B. pulvifaciens furono assegnati al nuovo genere Paenibacillus

cambiando il nome in Paenibacillus larvae e Paenibacillus pulvifaciens (Ash et al.,

1993).

Qualche anno dopo, le analisi su alcuni ceppi di riferimento di entrambe le

specie, rivelò un elevato numero di somiglianze molecolari, tali da non

giustificare la classificazione dei due batteri in due specie diverse. In particolare

gli studi sul modello di restrizione di rDNA e il legame DNA-DNA supportava la

teoria che questi facessero parte della stessa specie (Heyndrickx et al., 1996).

Basandosi sulle differenze fenotipiche e genotipiche, i due batteri vennero riuniti

nella medesima specie ma con due sub-specie differenti, Paenibacillus larvae

subsp larvae e Paenibacillus larvae subsp pulvifaciens (Heyndrickx et al., 1996).

Gli studi sulle caratteristiche dei ceppi, isolati da colonie infette, risultavano però

contraddittori con quanto venne specificato nella descrizione delle due sub-

specie.

Un esempio fu la caratteristica attribuita solamente al P. l. pulvifaciens di

produrre un pigmento color arancio (Heyndrickx et al., 1996) sebbene fossero

state isolate delle colonie pigmentate dello stesso colore da larve morte

prelevate da colonie affette da peste americana (Drobnicova et al., 1994).

Altri elementi contraddittori furono rilevati negli anni successivi, alimentando

altre controversie sulla classificazione dei due batteri.

Finalmente, grazie al sequenziamento 16S rRNA, si riuscì a dimostrare che

queste sequenze geniche erano identiche per i due ceppi (Kilwinski et al., 2004).

Due anni dopo fu pubblicato uno studio in cui attraverso la PCR si cercava di

trovare differenze tra l'agente patogeno della AFB (P. l. larvae) e il presunto

parente stretto non patogeno P. l. pulvifaciens ( De Graaf et al., 2006).

Questi ultimi due studi confermarono la teoria che questi due batteri non erano

stati classificati correttamente, infatti venne avanzata l'ipotesi che quelle che

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erano considerate due sub-specie diverse in realtà non lo fossero.

Effettuando studi con il microscopio elettronico sulla morfologia delle colonie e

delle spore, e utilizzando metodi più moderni come la PFGE (pulsed-field gel

electrophoresis) e la rep-PCR (Repetitive-element PCR) (Versalovic et al., 1994),

usando i primer ERIC (enterobacterial repetitive intergenic consensus), venne

effettuato uno studio incrociato, non solamente tra alcuni ceppi di riferimento di

entrambe le sub-specie ma anche su una serie di ceppi presi in campo, isolati e

purificati da colonie infette provenienti da Germania, Finlandia e Norvegia

(Genersch et al., 2006).

I risultati ottenuti confermarono l'elevata somiglianza, non supportando l'identità

presunta del ceppo di riferimento P. l. pulvifaciens e quindi delle due sub-specie.

Infine, i biotest (bioassays) di esposizione dimostrarono che tutti i ceppi erano in

grado di infettare le larve, al di là della loro subspecie. I Sintomi riscontrati sulle

larve infette erano quelli dell'AFB e i resti larvali si degradarono nella

caratteristica massa filante (Genersch et al., 2006).

Gli studi di Heyndrickx del 1996 furono quindi rivisti e il batterio riclassificato.

Nella letteratura inerente questo patogeno, lo possiamo trovare quindi sotto

diverse classificazioni e con diversi nomi, proprio a causa di queste continue

scoperte, da Bacillus larvae (White, 1906) all'ultima riclassificazione che è

Paenibacillus larvae (Genersch et al., 2006) senza subspecie.

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1.1.3 GENOTIPI E VIRULENZA DI PAENIBACILLUS LARVAE

Lo studio di Genersch e la sua equipe mise in luce l'esistenza di 4 genotipi (ERIC I-

IV) che differiscono in alcune caratteristiche come le spore, morfologia della

colonia, metabolismo e emolisi. Secondo la nomenclatura utilizzata da Genersch

la subspecie che veniva chiamata prima con il nome di P. l. larvae corrisponde ai

genotipi ERIC I e ERIC II, quella chiamata P. l. pulvifaciens corrisponde a ERIC III e

IV.

Studi epidemiologici mostrarono che il genotipo ERIC I viene frequentemente

isolato da famiglie infette in Europa e nel continente Americano, mentre ERIC II

unicamente in Europa.

Gli altri due genotipi invece non sono stati identificati e isolati recentemente ma

esistevano solamente ceppi in coltura (Genersch et al., 2003 ; 2006).

L' ERIC I non produce alcun tipo di pigmentazioni e può essere considerato come

il genotipo classico del P. larvae, cioè quello che causa la maggioranza delle

epidemie nel mondo. Finora, tutti i tipi e ceppi di riferimento delle collezioni di

colture che prima venivano attribuiti alla sottospecie di P. l. larvae appartengono

a questo genotipo.

L'ERIC II invece risulta corrispondere a quello caratterizzato da una produzione di

pigmentazione arancione, le epidemie di peste causate da questo meno classico

genotipo pigmentato non sono un raro evento almeno in Germania (Genersch

and Otten, 2003; Kilwinski et al., 2004) e Austria (Loncaric et al., 2009).

Questi 4 differenti genotipi oltre a mostrare differenze morfologiche, hanno

mostrato anche diversi livelli di virulenza.

Inoculando il patogeno su larve allo stesso giorno di vita, ERIC II, III e IV ne hanno

provocato la morte nel giro di solo 6-7 giorni, mentre per il genotipo ERIC I ce ne

ha impiegati circa 12-14; pertanto, quest'ultimo venne considerato meno

virulento degli altri tre (Genersch et al., 2006 ; 2007).

Il P. larvae è un patogeno che è obbligato ad uccidere il suo ospite per riuscire a

essere trasmesso, la sua virulenza è determinata principalmente da due fattori: (i)

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la probabilità di infettare un ospite e (ii) il tempo per portare l'ospite alla morte

(Ebert and Weisser, 1997).

Il primo fattore è legato alla capacità del batterio di produrre endospore tenaci,

che rimangono vitali e infettive per 35-50 anni (Shimanuki et al., 1994)

aspettando la presenza di un nuovo ospite, e all'alto tasso di riproduzione

dell'agente patogeno e quindi all'elevato numero di spore prodotte all'interno di

ogni larva infetta (Yue et al., 2008).

Per valutare invece il secondo fattore di virulenza, è importante tenere in

considerazione i due livelli delle larve ospiti, cioè la larva singola che muore di

setticemia e l'intera famiglia che soccombe all' AFB (Rauch et al., 2009).

Nell' apidologia, per comportamento igenico si intende la capacità da parte delle

api nutrici di rilevare e rimuovere la covata malata, parassitata, o comunque non

vitale dal nido di covata. Questo comportamento aiuta a rimuovere gli agenti

patogeni della covata dalla colonia, è quindi viene considerata come uno dei

vettori della risposta immunitaria sociale delle api (Spivak and Gilliam, 1998 ;

Spivak and Reuter, 2001 ; Wilson et al., 2009 ; Woodrow and Holst, 1942).

Nel caso della peste americana, la rimozione delle larve malate prima della

conversione nella massa larvale filamentosa e quindi nella fase di diffusione delle

spore , ostacola in modo efficace la produzione delle stesse all'interno della

colonia, compromettendo così la diffusione e lo sviluppo della malattia

all'interno della colonia.

La maggior parte delle larve infette diventano agonizzanti o muoiono prima

dell'opercolatura della cella, pertanto più larve saranno rimosse dalle api nutrici

meno spore verranno prodotte. Un basso livello di produzione delle spore

comporterà, all'interno della famiglia, una lenta diffusione del batterio, che a sua

volta porterà a un più lento collasso della colonia. Perciò si può asserire che più il

batterio è veloce a uccidere, e quindi prima si avrà l'isolamento della larva morta,

meno il batterio sarà virulento a livello della colonia.Per questo motivo diremo

che il genotipo più classico, l'ERIC I, è il più virulento tra tutti gli altri (Rauch et al.,

2009).

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Questa relazione può essere il motivo per cui i genotipi ERIC III e ERIC IV non

sono riusciti a insediarsi nelle popolazioni di api, ma si sono estinti, infatti questi

ceppi a estremamente rapida uccisione potrebbero aver causato una rapida

morte delle larve consentendo una troppo efficiente risposta immunitaria sociale

compromettendo così la diffusione della malattia. Questi due genotipi possono,

quindi, rappresentare un vicolo cieco evolutivo, dove la virulenza al livello larvale

è stato un fattore limitante (Genersch et al., 2006).

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1.1.4 AGENTE EZIOLOGICO E PATOGENESI

Il Paenibacillus larvae è un batterio dalla forma tipica a bastoncello, gram-

positivo e sporigeno.

Il batterio nella forma vegetativa è mobile (perchè munito di flagello) e misura

dai 2 ai 5 micron di lunghezza per 0,5-0,8 micron di larghezza.

Le endospore sono ovoidali e misurano 0,6-0,7 x 1,1-1,9 micron e rappresentano

la forma di resistenza a condizioni ambientali avverse ma anche la forma di

propagazione (Alippi et al., 1999).

Fig 2 Cellula vegetativa a forma di bastoncello di Paenibacillus larvae. Notare la spessa parete esterna della cellula (Stahly D. 2002).

Fig 3 Spora immatura di P. larvae circondata dalla cellula madre (Stahly D. 2002).

Queste sono la sola forma infettiva di questo organismo (Hornitzky, 1998) e le

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larve delle api risultano essere le uniche suscettibili all'infezione di questo

batterio, infatti le api nell'età adulta non vengono infettate dopo l'ingestione

delle spore (Wilson, W.T. 1971).

Le api adulte assumono le spore del batterio proprio dalle varie matrici (polline,

miele) presenti nel nido; l'infezione delle larve si ha attraverso la nutrizione, più

precisamente le spore vengono passate alle larve attraverso la pappa reale; sono

le api adulte, sopratutto quelle nutrici ad essere i vettori di questa

contaminazione, proprio perchè sono loro a produrla. La suscettibilità

all'infezione dipende dallo stadio larvale, la dose di spore necessaria per

l'infezione di una larva aumenta con l'aumentare dell'età della larva (Brodsgaard

et al., 1998).

Le larve sono più suscettibili all'infezione durante i primi stadi larvali, cioè 12-36

ore dopo la schiusura delle uova, quando le larve vengono nutrite con la pappa

reale.

Durante questo periodo, l'assunzione orale di una dose di circa 10 o meno spore

è sufficiente per infettare la larva. (Brodsgaard et al., 1998; Genersch

et al., 2005)

Dopo 48 ore dalla schiusura dell'uovo, la maggior parte delle larve diventano

meno suscettibili all'infezione (Brodsgaard et al., 1998 ; Hoage and

Rothenbuhler, 1966 ; Yue et al 2008).

Questa suscettibilità dipendente dall'età larvale è stata attribuita allo sviluppo

della membrana peritrofica, infatti la sua composizione e spessore aumenta

progressivamente con il crescere della larva questo potrebbe dare luogo a una

maggiore capacità della membrana a trattenere i batteri presenti nel lume

dell'intestino medio (Davidson E.W., 1970).

Studi storici suggeriscono che la forma vegetativa del Paenibacillus larvae

penetra nell'epitelio del mesenteron, attraverso fagocitosi subito dopo la

germinazione e che prolifera successivamente nell'emocele (Bailey e Ball., 1991).

Utilizzando però una nuova tecnica di ricerca, l’ibridazione in situ fluorescente

(FISH) su i genotipi più comuni (ERIC I e II), è stato possibile smentire i precedenti

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studi effettuati (Yue et al., 2008).

La FISH utilizzata da Yue è una tecnica citogenetica che può essere utilizzata per

rilevare e localizzare la presenza o l'assenza di specifiche sequenze di DNA nei

cromosomi. Essa utilizza delle sonde a fluorescenza che si legano in modo

estremamente selettivo ad alcune specifiche regioni del cromosoma.

Un'applicazione del FISH è proprio quella di mettere in evidenza la presenza o

meno di un microrganismo in un determinato ambiente.

Con questo studio è stato confermato che le spore che vengono ingerite, passano

attraverso lo stomodeo e germinano nel mesenteron circa 12 ore dopo

l'ingestione, ma è emerso anche che la forma vegetativa del batterio sviluppatasi

dalla spora colonizza il lume del intestino medio, proliferandovi massicciamente,

senza però distruggere visibilmente l'integrità dei tessuti dell'epitelio (Yue et al.,

2008).

Durante questo stadio dell'infezione, il P. larvae segue uno stile di vita da

commensale cioè nutrendosi di quello di cui si ciba la larva, questo conferma altri

recenti studi, che dimostrarono la presenza nel batterio di enzimi attivi coinvolti

nel metabolismo dei carboidrati e che quindi sono in grado di metabolizzare

differenti zuccheri inclusi il glucosio e il fruttosio per sostenere la crescita

vegetativa ( Julian and Bulla, 1971 ; Neuendorf et al., 2004).

Nelle larve infette, la membrana peritrofica aiuta a tenere la massa batterica nel

lume del mesenteron, sebbene il P. larvae è capace di penetrare questo strato

protettivo (Davidson, 1970 ; Yue et al., 2008) e di attaccare l'epitelio in una fase

successiva di infezione quando l'intestino della larva è completamente invaso dai

batteri patogeni.

I primi studi effettuati con il microscopio elettronico, suggerirono che la forma

vegetativa del P. larvae penetra l'epitelio dell'intestino attraverso la fagocitosi

(Davidson, 1973 ; Gregorc and Bowen, 1998).

Usando la FISH, sono state analizzate parecchie larve, ma in nessuna è stato

rilevato il batterio negli spazi intracellulari, la violazione dell'epitelio avviene

passando per gli spazi intercellulari, cioè i batteri si muovono attraverso lo spazio

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tra una cellula e l'altra per entrare nell'emocele dove migrano e proliferano (Yue

et al., 2008).

I risultati mettono in evidenza che più che fagocitosi si tratta della distruzione

delle giunzioni tra una cellula e l'altra (Yue et al.,2008).

Inoltre è stato visto che il batterio è sempre distribuito intercellularmente, sia

nell'emocele, sia tra le cellule del corpo adiposo e sia negli altri tessuti larvali,

non è mai stato individuato intracellularmente, anche se non si può escludere del

tutto che esista una via eventuale che preveda la fagocitosi (Yue et al., 2008).

Una caratteristica del batterio è quella di secernere proteasi extracellulari

altamente attive durante il processo di infezione (Dancer and Chantawannakul,

1997 ; Hrabak and Martinek, 2007).

Si potrebbe ipotizzare che alcune di queste proteasi siano le responsabili della

distruzione dell'integrità della barriera epiteliale attraverso la degradazione delle

proteine presenti nelle strutture di giunzione tra le cellule ma anche di quelle tra

la cellula e la matrice, permettendo così al P. larvae di invadere l'emocele (Yue et

al., 2008).

Inoltre le proteasi saranno necessarie anche per la successiva degradazione dei

resti larvali che infine si trasformeranno in una sostanza colloidale, semi liquida,

di colore marrone più o meno scuro a seconda dello stadio di avanzamento della

malattia, passando così a quello che viene chiamato comunemente stadio filante.

Entrambe le funzioni di queste proteasi sono fondamentali per la sopravvivenza

del batterio, dato che in qualche maniera deve essere in grado di uscire dai

tegumenti larvali; le spore così si distribuiscono meglio all'interno della colonia e

di conseguenza possono essere ingerite dal nuovo ospite. (Genersch E., 2009)

I resti della massa colloidale larvale, con il tempo si disidratano assumendo la

consistenza di una scaglia aderente alla parete inferiore della cella; queste

risultano altamente infettive perché contengono milioni di spore (Bailey and Ball,

1991; Lindström et al., 2008).

Le spore sono estremamente durevoli e resistenti, possono rimanere vitali per

più di 35 anni, sono resistenti al calore, freddo, umidità e siccità (Hasemann,

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1961), ed è proprio la tenacia e la grande quantità di queste che rende così

difficile l'effettivo controllo della Peste Americana.

Man mano che la malattia progredisce un numero sempre maggiore di celle

conterrà le larve malate. Gli opercoli che coprono le larve sono di colore scuro,

infossati al centro e sforacchiati. Come già accennato in precedenza le larve si

presentano di color marrone–caffellatte e le pupe sono brunastre, di consistenza

vischiosa, muoiono con la caratteristica ligula estroflessa. La larva morta di colore

brunastro con il tempo si scurisce e asciuga riducendosi a una scaglia (Ratnieks F.,

1992).

Quando si osservano queste caratteristiche nella covata bisogna pensare

immediatamente alla peste americana.

Un'altra caratteristica della malattia è il ripugnante odore di colla da falegname o

di pesce guasto; a stadio avanzato della malattia questo si può avvertire anche

senza effettuare l'apertura dell'arnia, tanto l'odore è forte e penetrante (Ratnieks

F., 1992).

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1.1.5 TRASMISSIONE DELLA MALATTIA

I patogeni obbligati, che dipendono da un ospite per la loro riproduzione, per

assicurare la loro sopravvivenza devono aver sviluppato un sistema di

trasmissione da ospite malato a sano di una certa efficienza.

In generale, esistono differenti vie per la trasmissione del patogeno; questi

possono essere suddivisi in due categorie: la trasmissione orizzontale e la

trasmissione verticale.

La prima si riferisce al passaggio della malattia tra individui della stessa

generazione, mentre nel secondo caso a quella tra individui di generazioni

diverse (genitore-figlio) (Canning, 1982).

Quando prendiamo in considerazione le colonie di insetti sociali, all'interno della

trasmissione verticale e orizzontale, si devono effettuare delle ulteriori

suddivisioni; le componenti che vengono aggiunte sono: intra-colonia, cioè tra

individui della stessa colonia, e inter-colonia cioè tra individui di differenti colonie

(Fries and Camazine, 2001).

La trasmissione orizzontale intra-colonia del patogeno avviene molto

comunemente quando un ape operaia infetta trasmette la malattia ad un'altra

operaia o ad una larva.

La trasmissione verticale intra-colonia avviene quando una regina infetta

trasmette un patogeno ad una operaia figlia (Fries and Camazine, 2001), nel caso

delle api mellifere, l'infezione trans ovarica non viene presa in considerazione

come un altra forma potenziale di trasmissione verticale intra-colonica, perchè

non si hanno conoscenze sulla presenza di questa via (Fries and Camazine, 2001;

Fries et al., 2006).

La via della trasmissione orizzontale rispetto a quella verticale avviene con

maggiore frequenza a causa delle continue interazioni che avvengono tra le

operaie di una colonia rispetto a quelle che avvengono tra la regina e le sue

operaie (Fries and Camazine, 2001).

Conoscere le vie di trasmissione inter-colonica del P. larvae è necessario per

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comprendere l'epidemiologia della peste americana e quindi per valutare la

diffusione attesa del patogeno all'interno dell'apiario.

La trasmissione orizzontale inter-colonica, comprende tutte le interazioni tra

individui di colonie differenti, i momenti più frequenti di contatto sono:

(i) durante la deriva delle bottinatrici (Pfeiffer and Crailsheim, 1998).

(ii) durante il saccheggio (Fries and Camazine, 2001). (iii) il contatto che avviene

tra una bottinatrice e un'altra durante il foraggiamento; Generalmente è

altamente improbabile che avvenga (Fries and Camazine, 2001). (iv) contatto con

materiale infetto dell'ambiente come ad esempio i fiori già visitati (Kevan et al.,

1990).

La trasmissione verticale inter-colonica è stata dimostrata da uno studio recente

che ha analizzato questa modalità di trasmissione del batterio tra le colonie (

Fries et al., 2006); venne dimostrato che le spore del P. larvae vengono trasferite

dalle colonie naturalmente sciamate agli sciami figli. Se la famiglia madre con la

regina vecchia è a uno stadio iniziale della malattia, la quantità di spore

diminuisce nel tempo in entrambe le colonie, madre e figlia.

Tuttavia anche se la densità delle spore diminuisce e non si verifica nessun

focolaio della malattia, le colonie figlie non riescono del tutto a eradicare le

spore.

Un anno dopo la sciamatura, alcune di queste colonie sono risultate positive alla

presenza delle spore nell'alveare senza però mostrare i sintomi della malattia,

indicando quindi che il batterio rimaneva sotto la soglia, a livello sub-clinico.

Questo però significa anche che tutti gli altri tipi di trasmissione del batterio,

sopratutto quelli intra-colonici, rimangono attivi (Fries et al., 2006).

Questi risultati comunque sono un buon argomento di sostegno alla tesi che

riguarda il metodo della “ messa a sciame” come sistema meccanico per il

controllo della malattia; questo sistema consiste nel trasferire le api adulte e la

regina dall'arnia contaminata ad una nuova con fogli cerei, distruggendo con il

fuoco tutto il materiale infetto ( Genersch E., 2008).

Comunque si può asserire che i principali vettori della malattia all'interno

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dell'alveare sono le api operaie stesse che tentando di ripulire le celle occupate

dalla covata morta si imbrattano tutto il corpo con i residui viscosi delle larve

ricoprendosi di conseguenza di spore. Avvenuto questo trasferimento, tutto

quello che entra in contatto con l'ape verrà contaminato anch'esso. Le larve sane

vengono infettate dalle api nutrici attraverso del cibo contaminato dalle spore

(Yue et al., 2009; Fries and Camazine, 2001).

Fino ad ora abbiamo parlato delle vie che permettono la diffusione della malattia

che coinvolgono direttamente le api, una causa importantissima di cui ancora

non si è fatto cenno è l'apicoltore e le pratiche apistiche.

Tutti i movimenti di materiali che un apicoltore effettua da un arnia all'altra

possono essere possibili vie di contaminazione, per questo è fondamentale il

monitoraggio e quindi la conoscenza delle patologie apistiche per prevenire

eventuali contagi tra le famiglie (Ratnieks F., 1992).

Elenchiamo qui sotto alcuni dei vettori usati dall'uomo che possono portare alla

diffusione delle spore del batterio (Ratnieks F., 1992; Frediani D., 1986; Genersch

E ., 2010):

trasferimenti di materiali da un arnia all'altra come favi di covata, di miele,

melari, arnie e etc..;

Guanti e leve ma anche tutte le altre attrezzature utilizzate dall'apicoltore

come lo smielatore, affumicatore, tuta e etc..;

fogli cerei composti da una cera non ben sterilizzata;

compravendita di sciami;

alimentazione con miele o altre soluzioni contaminate;

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1.1.6. SINTOMATOLOGIA DELLA PESTE AMERICANA

L'infezione da peste americana non avviene semplicemente perché un singolo

batterio o spora entra nella famiglia. L'infezione si manifesta solo quando milioni

e milioni di spore vengono introdotti (Von der Ohe e Dustmann, 1997).

Molte delle spore presenti nel miele possono venir inghiottite dalle api e espulse

mediante defecazione; alcune spore possono arrivare alle larve tramite la

nutrizione, ma possono essere in numero insufficiente a indurre l'infezione. Allo

stato attuale le spore batteriche sono presenti in moltissime colonie, ma in molti

casi non in numero sufficiente a scatenare la malattia. E' perciò evidente l'utilità

di qualsiasi mezzo atto a diminuire il numero delle spore presenti su ciascuna

famiglia, nell'intero apiario e nell'intera azienda apistica (Von der Ohe e

Dustmann, 1997).

Precedentemente nel paragrafo della patogenesi, si è già accennato alla

sintomatologia della peste americana.

Per descrivere i sintomi della covata infetta, dobbiamo comparare le anormalità

dovute alla malattia con gli aspetti caratteristici di una covata sana, pertanto

prima si deve accennare al normale processo di sviluppo delle larve.

Fig 4 Telaio di covata sano. Notare l’omogeneità delle celle opercolate.

Tre giorni dopo la deposizione dell'uovo, questo si schiude e nasce una piccola

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larva di colore bianco perla. In questo stadio la larva appare come una piccola C

sul fondo della celletta, tale forma è mantenuta all'incirca per 4 giorni, la taglia

aumenta notevolmente di giorno in giorno. All'ottavo giorno dalla deposizione, la

larva si sdraia lungo la parete inferiore della cella, preparandosi alla

trasformazione in pupa. Al nono giorno dalla deposizione la cella viene

opercolata. Al dodicesimo giorno avviene la metamorfosi della larva in pupa

(Contessi A., 2010).

In caso che si manifesti l'infezione la covata nel suo insieme si presenta

disomogenea, non compatta, irregolarmente opercolata. Normalmente non vi

sono sintomi visibili fino a che la larva non muore; Il primo sintomo osservabile è

quindi un cambiamento nel colore dell'opercolo, questo assume una colorazione

più scura, fino ad apparire quasi nero.

Fig 5 Telaio di covata affetta da P. larvae. Si possono notare gli opercoli delle celle forati dalle api nutrici per eliminare le larve morte per setticemia.

L'opercolatura delle celle contenenti la larva infetta risultano caratterizzate da

una leggera infossatura (caratteristica depressione) (Alippi et al., 1999).

Percependo l'anormalità nella cella le api cominciano eliminare l'opercolo per poi

rimuovere la larva infetta contenuta nella cella. Questi fori hanno una forma più

irregolare rispetto alle celle in fase di opercolazione e non ancora terminate e

anche rispetto alle celle in cui la giovane ape comincia ad uscire (Contessi A.,

2010).

Come si è già accennato, le larve sane sono di color bianco perla mentre le larve

malate assumono una colorazione marrone caffè e latte.

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Fig 6 Particolare di opercolo forato dalle api nutrici per rimuovere la larva infetta da P. larvae contenuta al suo interno (http://afb.org.nz/).

La colorazione della larva non basta a far diagnosticare la malattia in quanto

anche altre patologie possono dare una colorazione similare alle larve morte; Il

colore può variare a seconda di quanto tempo è trascorso da quando la larva è

morta, da quanto si è degradata ed essicata. Dopo circa un mese questa sarà

completamente secca e potrà avere un colore molto vicino al nero, assumendo la

consistenza di una scaglia (Genersch E., 2009).

Le scaglie morte di peste americana risultano fluorescenti quando esaminate

sotto la luce ultravioletta con lunghezza d'onda di 360 nm. Anche il miele e il

polline possono risultare fluorescenti in seguito alla presenza di muffe perciò

questa tecnica non può essere adottata come prova definitiva. Questi sintomi si

presentano solamente nelle larve dall’ottavo giorno dalla deposizione in poi, ed è

Fig 7 Cella di covata operaia disopercolata contenente larva sana

in posizione sdraiata per la metamorfosi a pupa (http://afb.org.nz/).

Fig 8 Cella di covata operaia contenente larva morta per

setticemia a causa di P. larvae. Notare caratteristico color bruno

(http://afb.org.nz/).

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per questo che non li troviamo su quelle dalla forma a C (primi 7 giorni dalla

deposizione) ma solamente su quelle che si trovano sdraiate lungo la parete

inferiore della cella, cioè quelle che si preparano alla trasformazione in pupa

(Alippi et al., 1999).

Un altro sintomo che può da subito insospettire è l'odore tipico di questa

malattia, questo si può avvertire anche dall'esterno della famiglia infetta senza

dover aprire l'arnia (Frediani D., 1986).

Le larve e pupe infette hanno un odore tipico definito simile alla colla da

falegname; l'intensità dell'odore può variare considerevolmente, dipendendo dal

numero delle celle infette e da fattori come la temperatura (Contessi A.,2010).

Larve e pupe infette da peste americana manifestano in genere una discreta

viscosità. Storicamente uno stuzzicadenti veniva usato per valutare la viscosità

della larva (Contessi A., 2010).

Rimosso l'opercolo e inserito uno stuzzicadenti nella massa della larva morta, se

al momento dell'estrazione si forma un filamento viscoso e di consistenza elastica

lungo fino ai 2 – 2,5 cm ma che può arrivare anche fino ai 4-5 cm (Alippi et al.,

1999) molto probabilmente ci troviamo davanti ad un covata infetta da peste

americana.

Fig 9 Filamento viscoso visibile a seguito della introduzione di uno stecchino nella cella di una larva

di operaia morta per P. larvae (http://afb.org.nz/).

Fig 10 Dettaglio del filamento viscoso (http://afb.org.nz/).

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Quando le larve e le pupe vengono uccise dalla Peste Americana e asciugandosi

assumono la consistenza di una scaglia, questa forma piatta può risultare difficile

da essere identificata, in quanto la scaglia può essere talmente piatta, e quindi

aderente alla cella, da sfuggire alla vista. I resti delle pupe invece, sono

generalmente più facili da identificare; in genere per ogni celletta si può notare

un sottile filamento, questo è la ligula che risulta essiccata nella posizione

estroflessa e punta direttamente verso l'angolo opposto della cella (F. Ratnieks,

1992).

Fig 11 Cella di covata operaia aperta ad arte. È visibile il capo di una pupa con la caratteristica ligula estroflessa. Tipico sintomo su pupa morta

per infezione da P. larvae (http://afb.org.nz/).

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1.1.7 DIAGNOSI

Diagnosticare la peste americana in modo corretto e tempestivo è

indubbiamente una condizione fondamentale per una efficace profilassi

dell'infezione (E. Carpana 2010).

Il percorso diagnostico prevede fondamentalmente due procedure distinte che

corrispondono a due diversi stati dell'infezione: conclamata o latente. Nel primo

caso si tratta di riconoscere i sintomi di uno stato patologico in atto e di

procedere e di procedere quindi a ricercare l'agente eziologico in un campione

opportunamente prelevato. Nel secondo caso invece, in assenza di sintomi di

malattia, si vuole valutare la presenza sub-clinica dell'infezione, determinando,

analiticamente il livello di contaminazione dell'alveare con le spore di

Paenibacillus larvae. A queste due procedure diagnostiche corrispondono

contesti epizoologici differenti: riconoscimento della malattia in atto, oppure

monitoraggio preventivo (E. Carpana 2010).

Per quanto riguarda la prima, inizialmente si procede tramite un esame

sintomatologico. Il quadro clinico della peste americana, come abbiamo già

accennato nel paragrafo della sintomatologia, presenta tratti caratteristici che

rendono la diagnosi di campo attendibile, almeno nella maggioranza dei casi (E.

Carpana 2010).

Ricordiamo ora le principali caratteristiche da tenere in considerazione:

La covata presente nel nido assume un aspetto non omogeneo, a mosaico

dovuto all'alternanza di celle con larve sane e non.

Opercoli delle celle non regolari, affossati e forati.

Il colore della larva morta inseguito alla setticemia (da bianco a caffellatte

e poi sempre più scura fino al bruno-nero).

La filamentosità con relativa prova dello stecchino.

La ligula delle pupe morte che si estende dalla testa fino alla sommità

della celletta.

Un metodo più classico e oramai non molto in uso è quello della chiarificazione

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del latte. Per la prova occorrono latte scremato e acqua distillata. Si preleva da

una celletta una scaglia, si pone in una provetta con 20 goccie di acqua calda e

poi si aggiungono dieci goccie di latte scremato.

La prova risulta positiva se entro quindici minuti, la soluzione opalescente di

acqua e latte si chiarifica sotto l'azione di un enzima proteolitico prodotto dal

Paenibacillus larvae (Frediani D. 1986).

Negli ultimi anni, sono stati messi a punto dei test immunoenzimatici per la

diagnosi della Peste americana direttamente in campo, questo kit diagnostico è

stato messo a punto dalla VITA (EUROPE) LIMITED e denominato “AFB Test”.

Il funzionamento del Kit si basa sull’uso di anticorpi monoclonali selettivi per le

spore del batterio secondo una tecnologia simile a quella del test di gravidanza.

Fig. 12 Schema di funzionmento del Kit “AFB Test” per la determinazione della peste americana.

Gli anticorpi monoclonali sono stati isolati nel Central Sciences Laboratory in

Inghilterra utilizzando colture batteriche ottenute da materiale infetto. Lo stesso

laboratorio ha sottoposto i vari anticorpi isolati a screening per la specificità

relativa alle spore di P. larvae, verificando la risposta di una eventuale reattività

incrociata con altri batteri comunemente presenti nell’alveare.

L’AFB Test è molto semplice da utilizzare, la larva sospetta di infezione viene

omogeneizzata mediante un’apposita soluzione. Poi tre gocce dell’omogeneato

vengono introdotte in un supporto contenente gli anticorpi. Nel giro di pochi

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secondi su questo supporto si evidenzia una linea in corrispondenza di una

lettera C (controllo), il che indica il corretto funzionamento del test; quindi se gli

anticorpi reagiscono con le spore del batterio, appare un’altra linea in

corrispondenza della lettera T, indicante la positività.

Il kit VITA AFB Test risulta essere di pratico utilizzo sia in campo sia in laboratorio.

Tab 1 Esempi di confronto del Kit AFB test con la sintomatologia

(Giorgetti M, e Carpana E., 2003).

Nel 2003 Marco Giorgetti dell' Istituto di Entomologia agraria di Milano e

Emanuele

Carpana dell'Istituto Nazionale di Apicoltura hanno condotto uno studio per

verificare l'effettiva efficienza di questo Test cercando anche di individuare una

relazione tra il numero di spore e l'intensità della banda di colore del positivo.

Sulla base delle osservazioni condotte in queste prove di valutazione del kit, si è

potuto concludere che il Kit AFB Test costituisce uno strumento affidabile per la

conferma immediata della diagnosi di campo basata su rilievi sintomatologici.

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L’apicoltore può ricorrere al Test per verificare l’esattezza della propria diagnosi di

peste americana. Il tecnico apistico o il veterinario possono ottenere dal Test un

riscontro oggettivo rispetto al referto diagnostico emesso in occasione delle

ispezioni in apiario.

L’intensità della risposta all’AFB Test (valutata mediante la tonalità delle linea T) è

proporzionale al numero di spore presenti nella larva sottoposta a prova. Il limite

di rilevabilità si pone attorno a 20 milioni di spore per ml di omogeneato.

Tab 2 AFB Test eseguito su diluzioni scalari di spore di P. larvae

(Giorgetti M, e Carpana E., 2003).

Va tuttavia sottolineato che il Test non si presta ad evidenziare casi di peste

americana a livello sub-clinico o a risolvere quadri clinici di dubbia

interpretazione, a causa delle limitazioni di cui si è detto. In tali casi è quanto

meno opportuno ripetere il test in un momento successivo, in concomitanza con

una situazione sintomatologica meglio definita.

Per la valutazione della malattia in fase sub-clinica è fondamentale il

monitoraggio.

L'assenza delle manifestazioni cliniche non costituisce garanzia di assenza

dell'agente infettivo nell'alveare, dato i favi e le arnie possono essere

contaminate dalle spore del batterio, che come già detto possono rimanere

quiescenti anche per anni.

Scoprire la presenza dell'infezione in assenza di sintomi, è evidentemente di

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importanza strategica ai fini della prevenzione; a tal fine si ricorre a metodi

microbiologici di laboratorio applicati ad alcune matrici dell'alveare, più

frequentemente il miele, le api, i detriti raccolti dal fondo delle arnie (Novello L.

et al., 2005).

Il metodo analitico prevede l'omogenazione del materiale opportunatamente

diluito e l'inoculazione di un'aliquota in un apposito substrato colturale; segue

l'incubazione e infine il conteggio delle unità formanti colonia che rappresentano

solo una frazione non superiore al 10% delle spore totali (Novello L. et al., 2005).

In alternativa al metodo microbiologico tradizionale sono in corso di studio

metodi in PCR più rapidi e sensibili (Ryba et al., 2009).

La ricerca analitica deve essere necessariamente quantitativa, ossia occorre

valutare il livello di contaminazione da spore, che è correlato con il rischio di

sviluppo della malattia. La ricerca delle spore nelle suddette matrici è quindi uno

strumento di prevenzione che può essere impiegato in modo routinario

nell'ambito di programmi di monitoraggio a livello aziendale (Novello L. et al.,

2005).

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1.1.8 METODI DI CONTROLLO DELLA MALATTIA

Allo stato dell'arte non esistono metodi o prodotti sicuri per curare le famiglie

affette da peste americana. L'unico metodo veramente sicuro per limitare il

contagio è proprio l'eliminazione della famiglia e conseguente disinfezione di

tutto quello che entrando in contatto con la malattia, può essere diventato un

vettore come già descritto nel paragrafo relativo alla trasmissione del patogeno

(Ferrari C. e Formato G., 2010).

La distruzione per incenerimento delle colonie e dei favi colpiti resta tuttora

l'intervento più indicato, così come viene indicato dal Regolamento di Polizia

Veterinaria (RPV). Secondo il regolamento: l'apicoltore deve denunciare

obbligatoriamente all’Autorità Sanitaria i casi sospetti e quelli evidenti di Peste

americana; l’intera area sospetta (raggio di 3 km), viene messa in quarantena con

il divieto di rimozione degli alveari e del materiale.

In caso di malattia latente è possibile tentare di applicare trattamenti curativi per

tentare di sanare la famiglia. Infatti l'articolo 155 del RPV, puntualizza che: "Nei

casi di peste americana o europea, può venire ordinata la distruzione delle

famiglie delle arnie infette....Se la malattia è allo stadio iniziale possono essere

consentiti opportuni trattamenti curativi. L'apiario trattato deve poi essere

tenuto in osservazione e sottoposto ad esami di controllo sino a risanamento

accertato".

L’ipotesi del trattamento con antibiotici o altre sostanze curative, pur ammessa

implicitamente dal Regolamento, non può in pratica essere utilizzata, come

indicato da altre normative (art. 11 del D.L. vo 193/2006) e per l'assenza di

sostanze antibiotiche registrate.

L'operazione più sicura per diminuire la prevalenza della malattia e tutelare gli

apiari colpiti è la distruzione degli alveari infetti: si procederà prima all'uccisione

delle api adulte con vapori di zolfo ad arnia chiusa, operando nelle ore serali o al

mattino presto, in modo che nessuna bottinatrice rimanga fuori dall'arnia. Dopo

aver ucciso le api, si procederà alla distruzione di tutti i favi messi insieme alle api

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morte in una buca scavata per l’occasione, mediante il fuoco. Tutti gli oggetti

impiegati per la manipolazione degli alveari infetti, comprese le attrezzature

utilizzate dall'apicoltore per le operazioni apistiche (ad esempio, la leva, i guanti,

la tuta, lo smielatore, ecc.), andranno accuratamente lavati e disinfettati con

ipoclorito di sodio al 3% o sali di ammonio quaternario (Ferrari C. e Formato G.,

2010).

Le arnie per poter essere riutilizzate, possono essere trattate con diversi metodi,

tra i più comuni troviamo: (i) radiazioni ionizzanti (raggi gamma); (ii) immersione

in paraffina a 160 C° per 10 min; (iii) immersione in soda caustica

per 5-20 minuti in soluzione bollente al 1% con raschiatura delle superfici e

passaggio alla fiamma azzurra (Ferrari C. e Formato G., 2010).

Un altro procedimento che non prevede l'utilizzo di sostanze nocive per il

controllo della peste americana è un sistema meccanico chiamato “messa a

sciame”(Genersch E., 2008).

Il principio di questa pratica consiste nel trasferire le api adulte e la regina

dall'arnia contaminata ad una nuova con fogli cerei, distruggendo con il fuoco i

favi infetti in cui risiede la maggior concentrazione delle spore.

Questo procedimento arreca un notevole stress alla famiglia che non sempre è in

grado di riprendersi, per questo motivo bisogna evitare di effettuare visite di

controllo premature, in questa fase non si deve effettuare nessun tipo di

nutrizione e non bisogna rinforzarle con telai di miele o covata provenienti da

altre famiglie. Infatti le api adulte rimaste devono consumare tutto il miele,

contaminato dalle spore, contenuto a livello del loro apparato digerente e nella

borsa melaria (dilatazione dell'esofago presente a livello della cavità addominale,

dove le operaie immagazzinano il nettare durante la raccolta) ottenendo così un

effetto purificante. Per questo motivo questo metodo viene chiamato anche

“cura famis”. (Ferrari C. e Formato G., 2010).

La messa a sciame è una procedimento che può dare buoni risultati se effettuata

con cognizione di causa, su alveari forti, ed in un periodo favorevole per lo

sviluppo della famiglia (primavera/inizio estate). Per ottenere migliori risultati da

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questo metodo, dopo la messa a sciame, è opportuno sostituire la regina della

famiglia al fine di migliorare il patrimonio genetico presente in apiario (condotta

igenica) (Ferrari C. e Formato G., 2010).

Uno dei limiti di questo procedimento sta nel fatto che non è standardizzato,

quelle descritte sono le operazioni che stanno alla base ma queste variano

secondo la conoscenza di chi le applica; varianti della messa a sciame prevedono

l'ingabbiamento della regina o tenere la famiglia in luoghi freschi al chiuso per

impedire alle api adulte di andarsene in altre famiglie, altre ancora prevedono

almeno due travasi per ottenere una migliore purificazione.

Hornitzky e al (2001), ricercatori australiani, hanno verificato l'efficacia di alcune

varianti su 100 alveari e nessuna di queste ha dato come risultato una

purificazione al 100%; la ricomparsa dei sintomi della malattia nelle famiglie

trattate è avvenuta in tempi diversi, variabili da 3 a 17 mesi.

L’eliminazione delle famiglie ammalate viene considerato comunque la via

preferenziale da adottare nella maggior parte dei casi, infatti tentare di effettuare

questo metodo su famiglie troppo deboli e/o in periodi non favorevoli (tarda

estate) porterebbe ugualmente alla morte della famiglia perché troppo debole

per affrontare l'inverno, ma sopratutto porterebbe ad un aumento del rischio di

contagio di altri alveari a causa del probabile saccheggiamento che ne

scaturirebbe.

La messa a sciame è una pratica che prevede un certo dispendio di tempo, elevati

costi, (fogli cerei, regine nuove, disinfezioni, arnie) ma sopratutto, visto gli scarsi

risultati, rimane una operazione rischiosa e quindi sconsigliabile (Ferrari C. e

Formato G., 2010).

Negli ultimi anni si è sviluppato un notevole interesse nel cercare nuove strategie

per il controllo della Peste Americana (Genersch E., 2010).

Come già esposto, AFB è una malattia di una certa rilevanza in molti paesi del

mondo, per cui le misure e i trattamenti sono spesso regolati da leggi differenti

da nazione a nazione. In Europa, ad esempio, l'utilizzo degli antibiotici per curare

le famiglie infette è vietato; in altre nazioni invece è permesso.

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Nei paesi che permettono l'utilizzo di queste sostanze una comune strategia per

prevenire l'infezione e per curare le famiglie che mostrano già i sintomi della

malattia è l'uso della OTC cioè la ossitetraciclina cloridrata oppure il sulfutiazolo.

L'uso prolungato di questi antibiotici può causare una serie di problemi, tra questi

accenniamo alcuni tra i principali: (i) Gli antibiotici non hanno alcun effetto sulle

spore prodotte dal batterio, per cui sopprimono i sintomi clinici nascondendo la

malattia senza però curarla effettivamente. (ii) I residui chimici persistono nel

miele intaccandone la qualità e sopratutto la sicurezza nei confronti della salute

umana (Lodesani e Consta, 2005 ; Martel et al., 2005).

(iii) Gli antibiotici quando vengono ingeriti dalle larve e dalle api adulte

potrebbero influenzare la vitalità delle prime e la longevità delle seconde. (Peng

et al., 1992) (iv) Sono stati evidenziati casi di resistenza all'OTC e al sulfutiazolo da

parte di Paenibacillus larvae (Evans, 2003 ; Lodesani e Consta, 2005) rendendo

così necessaria la ricerca di antibiotici alternativi attivi nei confronti del batterio

(Alippi et al., 2005 ; Gallardo et al., 2004).

Nasce la necessità di sviluppare strategie di trattamenti alternativi che finora

hanno seguito tre differenti direzioni: (i) Selezione genetica di api con caratteri di

resistenza individuali o sociali contro l'AFB (Evans J. D., 2004; Wedenig et al.,

2003) (ii) controllo biologico di Paenibacillus larvae attraverso batteri antagonisti

(Alippi and Reynaldi, 2006; Evans and Armstrong, 2006; Olofsson and Vasquez,

2008) (iii) trattamenti con antibatterici naturali come oli essenziali di piante

(Fuselli et al., 2006a,b, 2009) o gli stessi prodotti delle api come il propoli e la

pappa reale (Antunez et al., 2008 ; Giusti M. et al 2010).

L'idea di riuscire a selezionare api che sono maggiormente in grado di resistere

alla peste americana attraverso un aumento della resistenza sociale è stato già

provato con successo. Le famiglie di api che sono state selezionate per la loro

migliore condotta igenica hanno dimostrato di essere maggiormente resistenti

alla peste americana (Spivak and Reuter, 2001).

In questa ricerca, è stato registrato il tempo che le api delle colonie selezionate

impiegavano per individuare, disopercolare e rimuovere le larve morte da una

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sezione del favo, precedentemente tagliato da un telaio del nido di una famiglia

infetta, congelato a -20°C per 24 h, e piazzato quindi nel nido della famiglia presa

in esame (Spivak and Reuter, 1998).

Questi risultati di resistenza alla AFB sono stati coerenti con precedenti studi che

avevano già dimostrato l'importanza del comportamento igenico come uno dei

principali meccanismi di resistenza alla AFB (Rothenbuhler, 1964a ; 1964b ).

L'utilità di questi tentativi di selezione sono ulteriormente supportati dalle recenti

osservazioni effettuate sulle api nutrici e sulla loro capacità di individuare e

rimuovere la covata malata dal nido.

Queste api con il loro lavoro di pulizia hanno un evidente impatto sulla diffusione

di spore e pertanto, sulla progressione nonché trasmissione della malattia

(Rauch et al., 2009).

L'idea di contrastare il Paenibacillus larvae attraverso batteri antagonisti è invece

di più moderna concezione, i primi esperimenti in laboratorio, portati avanti con

successo, sono stati condotti da Evans e Armstrong e pubblicati nel 2005, 2006

(Evans and Armstrong, 2005; 2006).

I risultati suggeriscono l'esistenza di un compromesso nelle famiglie tra il

mantenimento dei batteri simbionti potenzialmente benefici e la deterrenza nei

confronti delle specie patogene. Probabilmente le api, come anche altri insetti

sociali, hanno evoluto dei meccanismi comportamentali e fisiologici per creare

questo delicato equilibrio. Capendo i vettori di questo meccanismo potrebbero

essere usati a discapito dei batteri patogeni (Evans and Armstrong, 2006).

Queste esperienze devono essere ulteriormente approfondite ed estese per poter

affermare la validità di questa teoria; tanto più che recenti studi hanno messo in

evidenza che il genoma del P. larvae contiene geni che codificano per antibiotici,

questa prima tossina identificata appartiene alla famiglia delle adenosine

difosfato-ribosyltransferasi e potrebbe essere un nuovo elemento che può

portare a nuovi risvolti (Funfhaus et al., 2009).

Molto promettente è anche l'idea di utilizzare alcune sostanze naturali, non

tossiche per le api e sopratutto che non lasciano tracce nelle matrici di accumulo

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dell'alveare, tra queste le più promettenti sono gli oli essenziali, specialmente

perchè potrebbero essere combinati in modo tale da controllare sia il P. larvae

che la Varroa destructor (Umpiérrez M.L., 2011 ; Genersch E., 2010).

Altre sostanze che potrebbero essere impiegate sono quelle che vengono

utilizzate nelle tecnologie alimentari per il controllo dei batteri, in particolare tra

queste il lisozima che viene comunemente utilizzato nella conservazione degli

alimenti per uso umano.

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1.2 LISOZIMA

Le proprietà antibatteriche e batteriolitiche dei vari fluidi corporei, tessuti,

secrezioni e filtrati microbici sono da tempo oggetto di studio. Già nel lontano

1909, Laschtshenko aveva valutato l'azione antibatterica dell'albume dell'uovo,

concludendo che questa era dovuta proprio ad un enzima. Fleming infine,

dimostrò che tale sostanza ad azione batteriolitica, capace cioè di lisare

rapidamente colonie batteriche, era ampiamente distribuita in natura. Proprio

per il fatto che tale sostanza possedeva azione simile a quella degli enzimi,

Fleming la indicò con il nome di lisozima (Fleming et al., 1922).

Tale enzima successivamente fu identificato anche in secreti quali lacrime, saliva,

secrezioni nasali, sangue e latte nonché in molteplici tessuti e secrezioni animali e

microbiche (Masschalck and Michiels, 2003; Xue, 2004).

Fleming scoprì che, fra tutte le fonti di lisozima esaminate, proprio l'albume

dell'uovo ne era particolarmente ricco; inoltre riuscì ad isolare un batterio gram-

positivo, successivamente chiamato Micrococcus Luteus (lysodeikticus) che risultò

essere particolarmente sensibile all'azione litica del lisozima. Proprio la

suscettibilità al lisozima di questo microrganismo fu sfruttata per valutarne la

presenza nei vari campioni, fino a quando Meyer, riuscì a dimostrare la possibilità

di valutare indirettamente la presenza di questo enzima tramite la ricerca di

gruppi riducenti (Meyer et al., 1936).

Ancora oggi la titolazione della quantità di lisozima , presente nei diversi liquidi

biologici, viene determinata proprio sfruttando la sensibilità di Micrococcus

Luteus nei confronti dell'enzima. Il metodo di validazione, messo a punto per

l'uomo e per alcune specie animali, è ottenuto includendo il microrganismo in un

terreno agarizzato in cui sono praticati dei pozzetti, riempiti con concentrazioni di

lisozima standard e con i campioni di liquido biologico da testare. La

determinazione della concentrazione di lisozima nei campioni è ottenuta tramite

confronto con la curva di fiferimento degli standard (Poli G., 1996).

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1.2.1 PROPRIETÀ CHIMICHE E MECCANISMO DI AZIONE

Ad oggi le proprietà del lisozima sono state studiate ampiamente e tale enzima è

oramai diffusamente conosciuto anche dal punto di vista della sua azione chimica

e molecolare. Esso consiste in una molecola polipeptidica costituita da 129

aminoacidi del peso molecolare di 14,6 kDa contenente quattro ponti disolfuro

che ne rendono stabile la molecola ( Streyer L., 1996).

Nel 1965 Phillips e collaboratori ne determinarono la struttura tridimensionale

che risultò compatta e di forma ellissoidale con dimensioni 4,5x3,0x3,0 nm

(Phillips et al., 1965).

Fig 13 Struttura tridimensionale del lisozima. Raffigurazione in prospettiva delle catene carboniose Alfa: sono messi in evidenza i residui Glu-35 e Asp-52 situati in posizione opposta (Abeles, 1994).

Confrontato a molecole più complesse come la mioglobina e l'emoglobina, il

lisozima contiene meno strutture alfa-elica e più ripiegamenti in conformazione

Beta-foglietto, mentre l'interno della molecola, come la mioglobina, risulta quasi

completamente polare. Come per la maggior parte delle molecole polipeptidiche

e delle proteine, le interazioni idrofobiche sono di estrema importanza nel

ripiegamento della catena aminoacidica del lisozima (Streyer L., 1996).

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La conoscenza delle caratteristiche conformazionali della molecola non è

sufficente a dedurne l'attività biologica e la posizione del sito attivo dell'enzima.

Il sito specifico di azione del lisozima è stato identificato basandosi sulla

metodologia della cristallografia a raggi x, questa risce a penetrare i siti di legame

tra amminoacidi adiacenti della molecola ed infine a identificare il sito di azione

(Streyer L., 1996).

Tale sito di azione è stato identificato con la porzione polisaccaridica della parete.

Fig 14 Rappresentazione tridimensionale del lisozima

Il polisaccaride della parete è formato da due tipi di zucchero, N-

acetilglucosamina (NAG) e acido N-acetilmuramico (NAM), derivati entrambi

dalla glucosammina il cui gruppo amminico è acetilato.

Nella perete batterica NAM e NAG sono uniti da legami glicosidici tra il C-1 di uno

zucchero ed il C-4 dell'altro, ed in ogni caso questi legami si presentano, nella

parete, con una configurazione Beta. Il NAM e il NAG si alternano nella sequenza

polissaccaridica (Streyer L., 1996).

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Fig 15 Il lisozima idrolizza il legame glicosidico tra il NAM E IL NAG (in verde)

Il lisozima è una glicosidasi che idrolizza il legame glicosidico tra il C-1 del NAM ed

il C-4 del NAG , lasciando inalterato l'altro legame tra il C-1 del NAG ed il C-4 del

NAM.

In conseguenza a questa caratteristica, il lisozima può attaccare i polisaccaridi

della parete cellulare di alcune specie batteriche, specialmente dei batteri gram

positivi, inducendo alla rotture della parete e di conseguenza alla morte dello

stesso (Proctor e Cunningham, 1998).

Il lisozima è conosciuto inoltre come un efficace agente immunologico ed è stato

impiegato come coadiuvante nella terapia antibiotica (Verhamme, 1985);

presenta proprietà analgesiche (Bianchi, 1981) ed amplifica l'azione

antinfiammatoria costituita dalla neutralizzazione delle sostanze acide liberate

nel processo infiammatorio (Bianchi, 1983).

L'attività antibatterica del lisozima è essenzialmente diretta verso i batteri gram-

positivi, la loro parete cellulare è composta in parte da peptidoglicani che sono

facilmente accessibili all'enzima, al contrario i batteri gram-negativi sono protetti

da uno strato di lipopolisaccaridi (LPS) sulla membrana esterna. Nonostante ciò

studi recenti suggeriscono che la resistenza dei batteri al lisozima non dipende

esclusivamente dalla presenza dello strato di LPS (Benkerroum N., 2008 ).

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Infatti alcuni batteri gram-positivi risultano resistenti all'idrolisi del lisozima pur

non presentando tale strato esterno (Vollmer and Tomasz, 2000; Masschalck et

al., 2002; Bera et al., 2007; Veiga et al., 2006).

Viceversa, la presenza della membrana esterna non garantisce un assoluta

protezione dall'azione del lisozima infatti sono stati riportati vari casi nella

letteratura (Vakil et al., 1969; Ellison and Giehl, 1991; Pellegrini et al., 1992 ).

L'esatto meccanismo di resistenza al lisozima non è stato ancora del tutto chiarito

e si pensa che possa variare a seconda della specie o del ceppo batterico

(Benkerroum N., 2008 ).

I principali meccanismi di resistenza ipotizzati sono: (i) impedimento dell'azione

del lisozima a causa dei polimeri d'attacco di superficie (ad es. polisaccaridi

capsulari) (ii) elevato grado di reticolazione peptidica (iii) acetilazione dei residui

di della parete cellulare peptidoglucanica (iv) N-deacetilazione del gruppo

“acetamido” dei residui di hexosamine (v) incorporazione di dell'acido D-

aspartico nei ponti di contatto nel peptidoglicano del batterio (venne dimostrato

in Lactococcus lactis (Veiga et al., 2006)) e (vi) produzione di proteine inibitrici del

lisozima (Bera et al., 2007).

Gli ultimi tre meccanismi di resistenza, sono quelli che sembrano i più probabili,

mentre i primi due non sembrano coinvolti (Benkerroum N., 2008 ).

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1.3 OLI ESSENZIALI

Gli oli essenziali sono oli aromatici volatili ottenuti da materiale vegetale come

fiori, germogli e semi; si presentano sotto forma liquida.

Sono conosciuti all'incirca 3000 tipi diversi di oli essenziali di cui solamente 300

hanno una importanza commercialmente rilevante, destinati principalmente alla

produzione di profumi e fragranze (Van de Braak and Leijten, 1999).

Chiamati comunemente essenze, gli oli essenziali sono sostanze di consistenza

oleosa, più o meno fluida, molto profumati, volatili, spesso colorati e più leggeri

dell’acqua con una densità compresa tra 0.75 e 0.99. Sono insolubili o poco

solubili in acqua, solubili in alcool, etere, cloroformio, acetone, oli emulsionati e

nella maggior parte dei solventi organici.

Sono miscele molto complesse i cui principali costituenti sono monoterpeni e

sesquiterpeni: strutture formate da più unità isopreniche, e composti ossigenati

derivati dagli stessi che includono alcoli, aldeidi, esteri, eteri, chetoni, fenoli e

ossidi. È possibile trovare inoltre, fra i componenti degli oli essenziali,

fenilpropeni e composti specifici contenenti zolfo o azoto (Bardeau, 1977).

Gli oli essenziali erano largamente utilizzati già dagli Egiziani, 4500 anni A.C., per

preparare oli balsamici, unguenti profumati, resine aromatiche e per

l’imbalsamazione dei corpi. Testimonianze di ciò si hanno da molti papiri, steli ed

iscrizioni ritrovati in Egitto nei quali sono descritte queste preparazioni. Dai

racconti dei primi viaggiatori greci che visitarono l’Egitto si percepisce che gli oli

essenziali e le essenze balsamiche venivano comunemente impiegate in

medicina, in cosmetologia e nell’imbalsamazione dei corpi in virtù della loro

proprietà antisettica e battericida. Si suppone inoltre che già gli Egizi

procedessero all’estrazione dell’olio essenziale tramite distillazione in quanto

molti oli ritrovati nelle ricette possono essere ottenuti solamente tramite tale

tecnica. Notizie sulla tecnica di distillazione sono pervenute già da greci e romani

nel primo secolo dopo Cristo (Bardeau, 1977).

Già 3000 anni avanti Cristo in India in Grecia e a Roma gli oli essenziali erano di

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impiego comune per profumare gli abiti e per profumare l’acqua con cui

riempivano le vasche da bagno. Successivamente con l’avvento dell’alchimia

nacquero nuove tecniche che permisero di ottenere principi attivi dai vegetali. In

seguito l’uso degli oli essenziali si è diffuso soprattutto in ambito terapeutico e

cosmetico. Caduti in disuso per molti anni sono tornati ad essere largamente

impiegati negli anni 30 grazie a numerosi studi di Gattefossè ideatore

dell’aromaterapia (Bardeau, 1977).

Gli oli essenziali possono essere prodotti in tutti gli organi della pianta: steli,

foglie, gemme, fiori, frutti, semi, legno e radici ma sono maggiormente

sintetizzati negli organi aerei.

Generalmente si accumulano sotto forma di goccioline negli spazi intercellulari o

in strutture specializzate interne o esterne come i dotti resiniferi, i peli

ghiandolari esterni e le ghiandole lisigene. Sembra che la pianta produca oli

essenziali per molteplici ragioni: possono svolgere attività allelopatica, di

attrazione degli impollinatori, possono funzionare come intermediari di reazioni

energetiche ed in alcuni casi forse vengono prodotti come materiale di scarto. Si

trovano particolarmente abbondanti nelle piante appartenenti alle famiglie delle

Apiaceae, Asteraceae, Cupressaceae, Geraniaceae, Lamiaceae,

Lauraceae,Myrtaceae e Verbenaceae (List e Schmidt, 1989).

L'attività antimicrobica di alcuni di questi oli di derivazione naturale era già nota

in passato (Guenther, 1948), ma il relativamente recente ritrovato interesse

commerciale per i prodotti di origine naturale, ha comportato un nuova spinta

nel campo scientifico per queste sostanze e la loro attività.

Approfonditi studi hanno quindi dimostrato e confermato che gli oli essenziali o i

loro componenti hanno proprietà antibatteriche (Mourey and Canillac, 2002),

antivirali (Bishop, 1995), antimicotiche (Mari et al., 2003).

Il metodo maggiormente utilizzato per la loro estrazione è quello della

distillazione in corrente di vapore, gli altri metodi utilizzabili sono: l'enfleurage,

l'estrazione con solventi e la spremitura (Van de Braak and Leijten, 1999).

La composizione in qualità e quantità dei componenti di uno stesso tipo di olio

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essenziale può variare notevolmente da un campione all'altro, oltre a dipendere

dalla pianta o parte vegetale utilizzata, dipende dalla stagione e dall'area

geografica in cui viene raccolta (Juliano et al., 2000 ; Faleiro et al., 2002); un altro

fattore che influenza la composizione è il metodo utilizzato per l'estrazione.

Quest'ultimo influenza non solo il profilo organolettico dell'olio ma anche le sue

proprietà, Packiyasothy e Kyle nel 2002 dimostrarono come oli estratti con

l'esano avessero una maggior attività antimicrobica degli stessi estratti con il

metodo della distillazione in corrente di vapore.

I componenti degli oli essenziali vengono determinati con la gascromatografia e

la spettrometria di massa, in generale possono contenere più di 60 componenti

individuali (Russo et al., 1998), e i maggiori componenti costituiscono più

dell'85% del totale, mentre gli altri sono presenti solamente in tracce (Bauer et

al., 2001).

Fig 16 alcuni dei singoli componenti presenti negli oli essenziali. Carvacrolo, eugenolo e timolo sono composti fenolici. Mentolo e geraniolo sono alcoli.

I componenti maggiormente responsabili dell'attività antibatterica sono i

componenti fenolici come timolo, eugenolo e carvacrolo (Cosentino et al., 1999),

ma esistono alcune prove che dimostrano che tra questi ultimi e gli altri

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componenti presenti solamente in tracce ci possa essere un qualche tipo di

attività sinergica dove quindi i secondi migliorano l'attività antibatterica dei

fenoli; questa sinergia è stata dimostrata per timo (Paster et al., 1995; Marino et

al., 1999) e origano (Paster et al., 1995).

1.3.1 MECCANISMO DI AZIONE

Considerando l'elevato numero dei differenti gruppi di composti chimici presenti

negli oli essenziali non si può attribuire un meccanismo specifico di azione nei

confronti delle cellule batteriche, ma una serie di obbiettivi sui quali questi

composti agiscono.

Una importante caratteristica degli oli e dei loro composti, su cui si basa un primo

meccanismo di azione, è la loro idrofobicità questo consente loro di rompere i

legami presenti tra i lipidi della membrana cellulare batterica e dei mitocondri,

alterando le strutture e rendendole più permeabili (Knobloch et al., 1986).

In seguito a questa azione si possono verificare delle perdite di ioni e altri

contenuti cellulari.

Fig 17 Disegno riassuntivo dei meccanismi di azione degli oli essenziali su

cellula batterica (Burt S., 2004).

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Queste perdite possono essere tollerate dalla cellula fino ad un certo livello, ma,

se avvengono in maniera estesa, portano la cellula alla morte (Burt S., 2004 ;

Denyer and Hugo, 1991a).

Come abbiamo già accennato la maggior azione antibatterica è dovuta ai

composti fenolici come il timolo, il carvacrolo e il geraniolo, i loro meccanismi di

azione sono simili a tutti gli altri fenoli: (i) alterazioni al livello della membrana

citoplasmatica (ii) interruzione della forza protonomotrice e del flusso elettronico

(iii) interruzione del trasporto attivo (iv) coagulazione dei contenuti cellulari

(Denyer and Hugo, 1991b; Sikkema et al., 1995).

La struttura chimica dei componenti degli oli essenziali influisce sull'esatto

meccanismo di azione e sull'attività antibatterica dello stesso (Dorman and

Deans, 2000).

L'importanza della presenza di un gruppo ossidrilico (OH) in un composto

fenolico, come il carvacrolo e il timolo, è stato confermato (Knobloch et al., 1986;

Dorman and Deans, 2000).

La sua posizione nell'anello fenolico non sembra influenzare particolarmente il

grado di attività battericida; per esempio l'azione del timolo e quella del

carvacrolo, che hanno il gruppo ossidrilico in posizioni differenti, sembra essere

molto simile per batteri come B. cereus, Staphylococcus aureus e Pseudomonas

aeruginosa (Lambert et al., 2001; Ultee et al., 2002).

Tuttavia in altri studi il carvacrolo e il timolo hanno dimostrato di agire in modo

diverso nei confronti di batteri Gram + e Gram - (Dorman and Deans, 2000).

L'importanza della presenza dell'anello fenolico è dimostrata dalla mancanza di

attività del mentolo che ne è privo.

Invece la presenza del gruppo acetato sembra aumentare l'attività antibatterica;

infatti il geranil-acetato è maggiormente attivo rispetto al geraniolo nei confroti

di numerose specie di batteri sia Gram + sia Gram - (Dorman and Deans, 2000).

Inoltre per quanto riguarda l'attività delle componenti non fenoliche degli oli, si è

riuscito a mettere in evidenza che a seconda di che tipo di gruppo funzionale è

presente l'attività può risultare maggiore o minore; ad esempio il gruppo

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alchenilico (C=C)è più efficace del gruppo alchilico (C-C) (limonene più attivo del

p-cynene) (Dorman and Deans, 2000).

I componenti degli oli essenziali sembra riescano ad agire sulle proteine che

compongono la membrana citoplasmatica (Knobloch et al., 1989).

Come è noto enzimi come l'ATPasi sono localizzati sulla membrana e sono

circondati da molecole lipidiche; sono stati ipotizzati due meccanismi di azione:

quando un idrocarburo ciclico agisce su questi, le molecole lipofiliche potrebbero

accumularsi nel doppio strato lipidico della membrana provocando una

alterazione del legame tra le proteine e i lipidi; altrimenti è possibile che si

verifichi una alterazione diretta tra la componente lipofilica e la parte idrofobica

della proteina (Juven et al., 1994; Sikkema et al., 1995).

Da quello riportato fino adesso, si evince come i meccanismi di azione dei vari oli

essenziali siano vari e diversi tra loro, risultando una sommatoria di tutti i

meccanismi di azione delle sostanze chimiche che li compongono; a causa di

questa elevata variabilità, si pensa che i batteri non possono sviluppare resistenza

nei confronti di questi composti (Burt S. 2004).

Le differenze di composizione tra un olio e un altro dello stesso tipo di pianta

rappresenta però anche un limite, infatti la loro attività antimicrobica potrebbe

risultare differente.

1.3.2 ATTIVITÀ ANTIMICROBICA DEGLI OLI ESSENZIALI VERSO PAENIBACILLUS

LARVAE

Come già accennato l’idea di utilizzare gli oli essenziali come applicazione per il

controllo della peste americana è relativamente recente. Alcuni oli essenziali

sono stati precedentemente testati nei confronti del Paenibacillus larvae: Floris e

Carta (1990) dell’università di Sassari testarono i seguenti oli essenziali: arancio

(Citrus sinesis), cannella (Cinnamomum spp.), cumino (Cuminum cyminum),

eugenia ( Eugenia spp.), timo (Thymus vulgaris) e verbena (Verbena sp.) che

hanno mostrato un valore MIC che si aggira tra i 100 e i 200 µg/ml.

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Alippi et al. (1996) invece trovarono i valori MIC per la citronella (Cymbopogon

citratus) con 50 µg/ml; per la santoreggia (Satureja hortensis) con 300 µg/ml; per

la lavanda (Lavandula intermedia) compresa tra 350 e 600 µg/ml; per la menta

(Mentha piperita) con 600 µg/ml; per l’origano (Origanum vulgare) compreso tra

250 e 350 µg/ml; per il timo (Thymus vulgaris) con 150 µg/ml; ed infine per il

rosmarino (Rosmarius officinalis) 700 µg/ml.

Gende et al. (2008) ha testato l’olio essenziale di cannella (Cinnamomum

zeylanicum) trovando un valore di MIC compreso tra 25–100 µg/ml.

Albo et al (2003) effettuarono anche dei test per valutare la ORL DL50 cioè la dose

orale acuta degli oli essenziali nei confronti delle api adulte.

Il termine DL 50 è l'acronimo di "Dose Letale 50" e si riferisce alla dose di una

sostanza, somministrata in una volta sola, in grado di uccidere il 50% di una

popolazione campione di cavie; questa misurazione è un modo per testare il

potenziale tossico di una sostanza solo a breve termine (tossicità acuta) e non si

riferisce alla tossicità a lungo termine. Gli oli essenziali vennero miscelati insieme

a diversi tipi di alimentazione. I valori della DL50 dimostrarono che gli oli essenziali

testati sulle api adulte non erano tossici o lo erano soltanto leggermente.

Gli oli essenziali che sono stati utilizzati per le prove sperimentali di questo

elaborato di tesi sono: origano (Origanum vulgare), maggiorana (Origanum

majorana), timo bianco (Thymus serpyllum), timo rosso (Thymus vulgaris),

rosmarino (Rosmarinus officinalis), bergamotto (Citrus auratium var. bergamia) e

cannella (Cinnamomum zeylanicum).

Questi sono stati scelti in base alla loro attività antimicrobica dimostrata per altri

batteri.

Nelle schede relative agli oli essenziali scelti sono riportati i valori della minima

concentrazione inibente (MIC) per alcuni dei batteri sensibili.

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1.3.3 ORIGANO

Fig 18 Pianta di Origanum vulgare

Il nome scientifico dell'origano è Origanum vulgare ed è una pianta perenne,

legnosa alla base, con fusti eretti alti 25-90 cm; le foglie sono opposte, picciolate,

verdi sulle due facce, intere a margine dentato. I fiori sono porporini sessili,

odorosi, ascellate da brattee violacee e portati in infiorescenze erette.

L'olio essenziale di origano si ottiene generalmente per distillazione in corrente di

vapore e contiene prevalentemente: carvacrolo, timolo limonene, cimene,

linalolo, borneolo, geranilacetato (Daferera et al., 2000; Demetzos and

Perdetzoglou, 2001; Marino et al., 2001).

Tab 3 Valori MIC (µl/ml) dell’olio essenziale di origano su alcuni batteri sensibili

Batterio MIC

(µl/ml) Bibliografia

Escherichia coli 0.5 – 1.2

Prudent et al., 1995; Hammer et al., 1999;

Burt and Reinders, 2003

Salmonella typhimurium

1.2 Hammer et al., 1999

Staphylococcus aureus

0.5 – 1.2 Prudent et al., 1995; Hammer et al., 1999

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1.3.4 MAGGIORANA

Fig 19 Pianta di Origanum majorana

Il nome scientifico della maggiorana è Origanum majorana ed una Dicotiledone

che fa parte della famiglia delle Lamiaceae. Questa è una pianta erbacea

originaria del bacino del Mediterraneo che può raggiungere i 60 centimetri di

altezza. Morfologicamente la Maggiorana presenta un fusto sub-legnoso, foglie

opposte e ovali, fiori rosei racchiusi in pannocchie terminali.

L'olio essenziale di maggiorana si ottiene generalmente per distillazione in

corrente di vapore e i suoi componenti prevalenti sono gli stessi dell'origanum

vulgare (Daferera et al., 2000; Demetzos and Perdetzoglou, 2001; Marino et al.,

2001).

.

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1.3.5 TIMO ROSSO

Fig 20 Pianta di Thymus vulgare

Il nome scientifico del timo rosso è Thymus vulgaris ed è una dicotiledone che fa

parte della famiglia delle Lamiacae, questa una piccola pianta suffrutticosa

originaria del bacino del Mediterraneo alta fino a 45 centimetri.

Morfologicamente questo vegetale presenta radici legnose, fusto eretto e

ramificato, piccole foglie aromatiche di forma ovale e fiori bianchi o rosati.

L'olio essenziale di timo si ottiene generalmente per distillazione in corrente di

vapore ed è composto prevalentemente da: carvacrolo, timolo, geraniolo,

linalolo, borneolo (McGimpsey et al., 1994; Cosentino et al., 1999; Marino et al.,

1999; Juliano et al., 2000).

Tab 4 Valori MIC (µl/ml) dell’olio essenziale di Thymus vulgare su alcuni batteri sensibili.

Batterio MIC (µl/ml) Bibliografia

Escherichia coli 0.45 – 1.25

Farag et al., 1989; Smith-Palmer et al., 1998; Cosentino et al., 1999; Hammer et al., 1999; Burt and Reinders, 2003

Salmonella typhimurium

0.450 – >20 Cosentino et al., 1999; Hammer et al., 1999;

Staphylococcus aureus

0.2 – 2.5

Smith-Palmer et al., 1998; Cosentino et al., 1999; Hammer et al., 1999

Listeria monocytogenes

0.156 – 0.45

Firouzi et al., 1998; Smith-Palmer et al., 1998; Cosentino et al., 1999

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1.3.6 TIMO BIANCO

Fig 21 Pianta di Thymus serpyllum

Il nome scientifico del timo bianco è Thymus serpyllum ed è una dicotiledone che

fa parte della famiglia delle Lamiacae questa viene anche chiamata con il nome di

serpillo o peppolino. Comune in tutta Europa e Nord Africa, è una delle specie di

timo più diffusa, utilizzata da secoli per scopi culinari, ornamentali e medicinali. È

una pianta arbustiva, alta da 10 a 30 cm con fusti prostrati striscianti o

ascendenti, sottili, radicanti.

Le foglie sono piccole da lineari ad ellittiche, cigliate alla base, piane e i fiori sono

a corolla bilabiata colore variabile dal bianco al rosa al violetto.

L'olio essenziale di peppolino è del tutto simile a quello di timo rosso

(McGimpsey et al., 1994; Cosentino et al., 1999; Marino et al., 1999; Juliano et

al., 2000).

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1.3.7 ROSMARINO

Fig 22 Pianta di Rosmarino officinalis

Il nome scientifico è Rosmarinus officinalis ed è una dicotiledone che fa parte

della famiglia delle Lamiaceae ed è un arbusto cespuglioso sempreverde,

originario del bacino del Mediterraneo, che può raggiungere anche i 2 metri

d’altezza. Coltivato in tutto il mondo, presenta una struttura molto ramosa,

caratterizzata da foglie aghiformi di colore verde-argentee e fiori azzurri violacei.

L'olio essenziale di rosmarino si ottiene generalmente per distillazione in

corrente di vapore ed è composto prevalentemente da: cineolo, limonene,

geraniolo, linalolo, verbenone, safrolo (Daferera et al., 2000, 2003; Pintore et al.,

2002).

Tab 5 Valori MIC (µl/ml) dell’olio essenziale di rosmarino su alcuni batteri sensibili

Batterio MIC (µl/ml) Bibliografia

Escherichia coli 4.5 – >10

Farag et al., 1989; Smith-Palmer et al., 1998; Hammer et al., 1999; Pintore et al., 2002

Salmonella typhimurium

>20 Hammer et al., 1999

Bacillus cereus 0.2 Chaibi et al., 1997

Staphylococcus aureus

0.4 – 10

Farag et al., 1989; Smith-Palmer et al., 1998; Pintore et al., 2002

Listeria monocytogenes

0,2 Smith-Palmer et al., 1998

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1.3.8 BERGAMOTTO

Fig 23 Pianta di Citrus auratium var. bergamia

Il nome scientifico del Bergamotto è Citrus auratium var. bergamia, è un agrume

di origine italiana, un albero sempre verde alto tra i tre e i quattro metri. I fiori

sono bianchi, molto profumati. Le foglie sono lucide e carnose come quelle

dell'arancio. La fioritura e le nuove foglie spuntano appena finita la stagione delle

piogge, all'inizio di marzo. Il frutto è grande poco più di un'arancia e poco meno

di un pompelmo; ha un colore giallo intenso più del pompelmo e meno del

limone, esternamente ha la pelle liscia e sottile come un pompelmo, è meno

rotondo del pompelmo in quanto è schiacciato ai poli.

L'olio essenziale si ottiene per spremitura e contiene prevalentemente: linalolo,

citrale, limonene, fellandrene, transbergamottene, umulene (Nabiha et al., 2010).

Tab 6 Valori MIC (µl/ml) dell’olio essenziale di bergamotto su alcuni batteri sensibili.

Batterio MIC (µl/ml)

Bibliografia

Acinetobacter baumanii

2.0 Hammer et al., 1999

Aeromonas sobria

2.0 Hammer et al., 1999

Escherichia coli

1.0 Hammer et al., 1999

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1.3.9 CANNELLA

Fig 24Pianta di Cinnamomum zeylanicum

Il nome scientifico della cannella è Cinnamomum zeylanicum ed è un piccolo

albero sempreverde alto circa 10–15 m, della famiglia delle Lauraceae. La pianta

è nativa dello Sri Lanka e la spezia che se ne ricava è la più fine e costosa.

Morfologicamente presenta il fusto dalla corteccia spessa e scabra da cui

nascono rami robusti e giovani polloni screziati di colore arancio-verdi. La

cannella espone foglie coriacee verde lucenti e piccoli fiori bianchi. I frutti sono

costituiti da drupe bianco-azzurrognole.

L'olio essenziale contiene prevalentemente: cinnamaldeide, eugenolo,

cuminaldeide, linalolo, acido cinnamilico, eugenilacetato (Lens-Lisbonne et al.,

1987).

Tab 7 Valori MIC (µl/ml) dell’olio essenziale di Cannella su alcuni batteri sensibili

Batterio MIC (µl/ml)

Bibliografia

Staphylococcus aureus

3.2 Prabuseenivasan S. et al., 2006

Bacillus subtilis >1.6 Prabuseenivasan S. et al., 2006

Escherichia coli >1.7 Prabuseenivasan S. et al., 2006

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1.4 CURIOSITA’-LA PESTE AMERICANA E L'UOMO

Il bacillo della peste americana è in grado di trasferirsi dalle api all’uomo e può

provocare infezioni di natura batterica. La scoperta è stata fatta da un’equipe di

ricercatori tedeschi che hanno documentato il fenomeno grazie ad uno studio

(pubblicato sul numero di marzo 2010 della rivista Emerging Infectious Diseases)

effettuato su un gruppo di pazienti ricoverati presso la Clinica Universitaria di

Friburgo – Germania. All’indagine ha preso parte anche il professor Wolfgang

Ritter,

presidente della Commissione di Patologia Apistica di Apimondia, nella sua veste

di responsabile del Laboratorio di Referenza Apistica dell’OMS – Organizzazione

Mondiale della Salute. L’infezione da Paenibacillus larvae, agente della peste

americana, si trasmette tuttavia per una strada assolutamente inusuale che resta

l’unica modalità di contagio dall’ape all’uomo. Gli infettivologi tedeschi sono

giunti a questa scoperta analizzando le ragioni all’origine dei sintomi febbrili

manifestati da cinque giovani pazienti che, in comune, avevano il fatto di essere

tossicodipendenti e di essersi auto iniettati una soluzione di metadone

addizionata con miele. Il metadone cloridrato viene impiegato nei piani di

disintossicazione da eroina e dovrebbe essere tassativamente somministrato per

via orale. E’ altresì risaputo che il miele, proveniente da famiglie di api colpite da

peste americana, viene contaminato dalle spore di Paenibacillus larvae che sono

così in grado di contagiare altri alveari cui questo miele dovesse essere

somministrato come nutrimento. E’ noto, tuttavia, che il bacillo non colpisce

l’uomo, il cui organismo è naturalmente protetto e indifferente alle spore della

peste americana delle api ( AA VV., 2010).

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2. SCOPO DEL LAVORO

Lo scopo della presente indagine è stato quello di valutare l'efficacia di alcune

sostanze nei confronti di Peanibacillus larvae nell'ottica di un eventuale impiego

sul campo nel controllo della peste americana.

Le sostanze impiegate sono state: il lisozima e alcuni tra i principali oli essenziali

la cui attività antibatterica è già stata ampiamente descritta in letteratura nei

confronti di diversi microrganismi; sono state testate inoltre anche combinazioni

di questi oli in modo da verificarne l'eventuale azione sinergica diretta contro

Paenibacillus larvae.

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3. MATERIALI E METODI

Dal momento che sono state saggiate differenti sostanze, sono stati anche

utilizzate metodiche diverse.

Il lisozima è stato valutato utilizzando due metodiche opportunamente

modificate per Paenibacillus larvae: il test della minima concentrazione inibente

(MIC) (modificato da Flesar et al., 2010) e il test “lisoplate assay” (modificato da

Lie et al., 1986).

Nel caso invece degli olii essenziali è stato utilizzato nuovamente il test della MIC

(modificato da Flesar et al., 2010) e il metodo della diffusione su piastra secondo

Kirby-Bauer.

Ciascuna prova è stata effettuata in triplice.

3.1 ALLESTIMENTO DELLE COLTURE DI PAENIBACILLUS LARVAE PER

L'ESECUZIONE DELLE PROVE

Il ceppo di Paenibacillus larvae impiegato per le prove è stato il ceppo ATCC

9545. Il microrganismo è stato conservato a –80°C fino al momento dell'utilizzo in

criovac contenenti brodo BHI addizionato dell' 1% (v/v) di glicerolo quale agente

di crioprotezione.

Il batterio è stato rivitalizzato inoculando 0,2ml del ceppo scongelato in 6 ml di

brodo BHI con aggiunta del 3% in volume di siero bovino sterilizzato mediante

filtrazione, e ponendolo ad incubare a 37°C per 24/48 ore. Successivamente, la

coltura rivitalizzata è stata seminata mediante spatolamento superficiale su

piastre Petri contenenti terreno J agar, allestito presso il Dipartimento di

Patologia Animale, Profilassi e Igene degli alimenti secondo le indicazioni della

ditta MICROBIOL ®. Una volta rivitalizzato abbiamo voluto verificare le

caratteristiche morfologiche, tintoriali e di crescita del microrganismo, tramite la

colorazione di Gram e le semine su terreni di arricchimento e selettivi.

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Fig 25 Foto di Paenibacillus larvae al microscopio ottico x1000 trattato con il metodo della colorazione di Gram. In evidenza la colorazione violacea che indica che si tratta di un batterio

Gram positivo e la forma bastoncellare; tutte e due caratteristiche di P. larvae.

Fig 26 Colonia di Paenibacillus larvae su piastra di J agar.

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Fig. 27 Agglomerato di cellule batteriche di Paenibacillus larvae al microscopio a scansione elettronica FEI QUANTA 200 a 16.000 ingrandimenti (foto dell’autore).

Le prove sono state effettuate sempre impiegando colture raccolte da terreno J

agar seminato ed incubato a 37°C per 24- 48.

Le colonie sviluppatesi venivano prelevate con ansa sterile e dispensate in

soluzione fisiologica sterile fino al raggiungimento del livello di torbidità

desiderato secondo gli standard di Mc Farland.

3.2 COMPOSIZIONE DEI TERRENI UTILIZZATI PER LE PROVE SPERIMENTALI

Composizione (g/l) J agar (MICROBIOL ®)

Triptone 5,00

Estratto di lievito 15,00

Glucosio 2,00

K2HPO4 3,00

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Acido Nalidixico 0,30 mg/l

Agar 15,00

H2O 1,000 ml

pH finale 7,4 + o – 0,2

Sospendere 40 g di polvere, secondo le quantità riportate sopra, in 1 litro di

acqua distillata. Mescolare. Riscaldare a bagnomaria bollente fino a completa

soluzione. Sterilizzare in autoclave a 121°C per 15 minuti.

Composizione (g/l) Brain Heart Infusion Broth (BHI) (OXOID ®)

Infuso di cervello di vitello (solidi) 12,5

Infuso di cuore di bue (solidi) 5,0

Peptone proteasi 10,0

Destrosio 2,00

Sodio cloruro 5,0

Sodio fosfato mono-acido 2,5

Sospendere 37 g di polvere in 1 litro di H2O distillata. Mescolare con cura e

distribuire nei contenitori finali. Sterilizzare in autoclave a 121°C per 15 minuti.

Composizione (g/l) Mueller Hinton Agar (MH) (OXOID ®)

Infuso di carne di manzo 300,0

Idrolisato di caseina 17,5

Amido solubile 1,5

Agar 17,0

pH finale 7,4 + o – 0,2

Sospendere 38g di polvere in 1 litro di H2O distillata. Riscaldare a bagnomaria

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bollente fino a completa soluzione. Sterilizzare in autoclave a 121°C per 15

minuti.

3.3 TEST EFFETTUATI CON IL LISOZIMA

3.3.1 IL LYSOPLATE ASSAY

Si tratta di un metodo di valutazione della quantità di lisozima presente in

materiali biologici; la prova viene effettuata includendo un microrganismo

particolarmente sensibile al lisozima (Micrococcus luteus o Micrococcus

lysodeicticus) in un terreno agarizzato in cui sono praticati dei pozzetti che

vengono poi riempiti con i campioni del liquido biologico da testare.

Questo metodo è stato modificato per P. larvae, prendendo a modello il

protocollo proposto da Lie et al., (1986).

Il controllo della rispondenza dei vari reagenti impiegati per le prove è sempre

stato effettuato mediante l'allestimento di una piastra in cui nel terreno

agarizzato fosse inclusa una sospensione di Micrococcus luteus.

Protocollo:

Preparazione della sospensione di Paenibacillus larvae

Prelievo tramite tampone sterile di tutte le colonie sviluppatesi e

successivo lavaggio in 10ml di acqua distillata sterile in provette falcon da

12 ml;

Passaggio al vortex per alcuni minuti al fine di raccogliere la maggior

quantità possibile di patina batterica;

Centrifugazione delle cellule per 10-15 minuti a 3000 rpm;

Eliminazione del surnatante e ripetizione del lavaggio in acqua distillata

sterile ;

Prelievo del pellet cellulare e sospensione in tampone fosfato (PBS) a pH

6,2 passaggio al vortex per ottenere una sospensione omogenea. La

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quantità di tampone da immettere è variabile e deve essere tale da

permettere il raggiungimento di una Densità Ottica (D.O.) pari a 1,25 a

550nm;

Fig. 27 Piastra rettangolare contenente la sospensione di PBS ( 1% agar) e di P. larvae, e

sospensione di M. luteus in bottiglia di stoccaggio.

Determinazione della densità ottica mediante spettrofotometro CGA tipo

CP 2300;

Inattivazione della sospensione in autoclave a 121 °C per 15 minuti

Raffreddamento della sospensione e successivo stoccaggio a -20°C fino

al momento dell'utilizzo.

Preparazione del Lysoplate assay:

Modificato come segue da Lie et al., (1986)

Preparazione di un terreno costituito da agarosio all'1% in tampone

fosfato (PBS) a pH 6,2;

Miscelazione di una uguale quantità di terreno all'agarosio (27ml) e di una

sospensione di P. larvae (27ml) inattivato al calore;

Dispensazione della soluzione in una piastra rettangolare (12X8 cm)

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precedentemente detersa con alcool;

Solidificazione del terreno dispensato nelle piastre a temperatura

ambiente (circa 45 minuti)

Realizzazione di pozzetti del diametro di 5 mm per un massimo di 32

pozzetti per piastra al fine di evitare sovrapposizione degli aloni di lisi;

Dispensazione delle diluizioni di lisozima H.E.W.L (Sigma ®) in quantità pari

a 50 µl;

Allestimento di una camera umida costituita da carta bibula imbibita di

acqua distillata in un contenitore plastico dove viene deposta la piastra e

messa ad incubare a 37°C per 17-18 ore;

Lettura e misurazione del diametro degli aloni di lisi mediante calibro;

Le prove vengono sempre eseguite in doppio e interpretate da due operatori per

ridurre al minimo gli errori sistematici.

3.3.2 LA MINIMA CONCENTRAZIONE INIBENTE (MIC)

La determinazione del valore di M.I.C. fornisce una misura quantitativa del livello

di resistenza agli antibiotici e ad altre sostanze ad attività antimicrobica espressa

dai microrganismi testati.

Questa metodica prevede la preparazione di una serie di diluizioni scalari delle

sostanze da testare di cui si vuole determinare la M.I.C., a ciascuna delle quali

viene in seguito aggiunta la stessa quantità di una brodo-coltura standardizzata

del ceppo da testare.

Le diluizioni vengono effettuate in micropiastra (Microtech).

Il livello minimo di concentrazione, nella scala di diluizioni seriali, per il quale non

è possibile verificare visibilmente la presenza di crescita batterica è considerato

come valore di M.I.C..

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65

Protocollo:

Preparazione della soluzione madre di lisozima da utilizzare per le

microdiluizioni sciogliendo una quantità di polvere di lisozima (Sigma ®) in acqua

distillata, tenendo conto della concentrazione che si vuole ottenere e del volume

di solvente utilizzato. La polvere deve essere pesata su bilancia analitica,

adeguatamente tarata;

Dispensare in eppendorf sterili da 1 ml e conservare a temperatura di – 20° C,

fino al momento dell’utilizzo;

Preparazione di una micropiastra (Microtech®);

Fig. 28 Micropiastra (Microtech ®) utilizzata per effettuare la MiC in microdiluizioni.

Distribuire nei pozzetti della prima riga 200 µl di terreno alla

concentrazione dell'antimicrobico più alta da testare, ottenuta per diluizione

della soluzione madre. Dispensare negli altri pozzetti 100 µl di terreno BHI

privo di antimicrobico. Prelevare dai 200 µl di terreno della prima riga, 100 µl

e miscelarli con quelli della seconda e così via, in modo da ottenere diluizioni

scalari in base 2 (per dimezzamento) di antimicrobico , sino alla riga con la più

bassa concentrazione;

Inoculare in tutti i pozzetti, tranne quelli riservati al controllo negativo, 10

µl della coltura batterica standardizzata a 105 UFC/mL. Incubare la

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micropiastra alla temperatura ottimale di crescita della coltura batterica per

24h in camera umida;

Dopo l'incubazione, verificare che nella riga riservata al controllo negativo

non ci sia presenza di crescita microbica visibile. In caso di contaminazione, i

dati derivanti dalla micropiastra non potranno essere considerati attendibili.

Se non è rilevata contaminazione, la crescita microbica potrà essere

determinata visivamente mediante confronto con il controllo positivo. In caso

di assenza di crescita del controllo positivo (mancato sviluppo del ceppo in

esame), la prova sarà ripetuta.

Nel caso si osservi crescita discontinua (es. ceppo cresciuto con 128 µg/mL,

ma non con 64 µg/mL), i dati relativi al ceppo considerato non potranno

essere ritenuti attendibili.

Si assume come Minima Concentrazione Inibente, la concentrazione del

pozzetto che precede la comparsa della torbidità.

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12

antibatterico 1 1024 512 256 128 64 32 16 8 4 2 CP CN

antibatterico 2 1024 512 256 128 64 32 16 8 4 2 CP CN

antibatterico 3 1024 512 256 128 64 32 16 8 4 2 CP CN

antibatterico 4 1024 512 256 128 64 32 16 8 4 2 CP CN

antibatterico 5 1024 512 256 128 64 32 16 8 4 2 CP CN

antibatterico 6 1024 512 256 128 64 32 16 8 4 2 CP CN

antibatterico 7 1024 512 256 128 64 32 16 8 4 2 CP CN

antibatterico 8 1024 512 256 128 64 32 16 8 4 2 CP CN Fig. 29 Esempio di lay-out micropiastra.

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67

3.4 TEST EFFETTUATI CON OLI ESSENZIALI

Gli oli essenziali che sono stati testati derivano da: origano (Origanum vulgare),

maggiorana (Origanum majorana), timo bianco (Thymus serpyllum), timo rosso

(Thymus vulgaris), bergamotto (Citrus bergamia), rosmarino (Rosmarinus

officinalis) e cannella (Cinnamomum sp.).

Ognuno di questi oli essenziali è stato testato singolarmente e in combinazione

con gli altri al 50% sia nella MIC che nel metodo per diffusione su piastra secondo

Kirby-Bauer.

La preparazione della soluzione madre degli oli essenziali è stata sempre la stessa

per tutte le prove effettuate. Gli oli essenziali venivano diluiti in Dimetilsulfossido

(DMSO) con un rapporto di 1 a 10 per facilitare la diffusione in brodo e su piastra

degli stessi.

3.4.1 MIC

Il protocollo usato per effettuare la minima concentrazione inibente per gli oli

essenziali è fondamentalmente lo stesso impiegato per valutare la MIC per il

lisozima, con le sole varianti della sostanza utilizzata e della concentrazione

iniziale.

3.4.2 METODO KIRBY-BAUER

Il metodo di diffusione su piastra prevede che il microrganismo in esame venga

sospeso in acqua distillata sterile fino al raggiungimento di una determinata

torbidità e quindi seminato per tamponamento superficiale su piastre di apposito

terreno agarizzato su cui vengano successivamente apposti dischetti di

nitrocellulosa imbevuti della sostanza da testare. Dopo opportuna incubazione

attorno ai dischetti potranno essersi determinati degli aloni di inibizione della

crescita del microrganismo, che potrà dirsi resistente, mediamente sensibile o

sensibile nei confronti della sostanza contenuta nel dischetto sulla base del

diametro dell'alone stesso. Si tratta di un metodo quali-quantitativo

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comunemente usato in laboratorio per la valutazione rapida dell'efficacia di

diverse sostanze nei confronti di un microrganismo.

Attualmente il test di diffusione su dischetto più utilizzato è proprio il metodo di

Kirby-Bauer, sviluppato agli inizi degli anni ’60 (Bauer A.W, Kirby W.M.M., et al.,

1966).

Protocollo:

Allestimento di piastre petri contenenti terreno solido Mueller-Hinton

Agar (MH)

Sospensione del batterio in 2 ml di acqua distillata sterile fino al

raggiungimento di un livello di torbidità pari a 0,5 MC Farland.

Semina omogenea per tamponamento superficiale delle piastre.

Deposizione sulla superficie della piastra di una serie di dischetti di

nitrocellulosa sterili imbevuti di 10 µl di soluzione antimicrobica

preparata come descritto in precedenza.

Incubazione a 37°C per 24 ore.

Misurazione del diametro degli aloni di inibizione ottenuti.

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4. RISULTATI

4.1 LISOZIMA

Le prove effettuate con metodo “Lysoplate assay” modificato hanno fornito i

risultati evidenziati in tabella 8.

Tab. 8 Quantità di lisozima immessa in ogni pozzetto (mg/ml) e i corrispettivi aloni di chiarificazione (mm)

Gli aloni di chiarificazione si sono avuti in corrispondenza delle concentrazioni di

lisozima superiori a 2,5 mg/ml.

Quantità lisozima (mg/ml)

Aloni di inibizione Lysoplate assay (mm)

5 15

4 11

3 10 e 9,8

2,5 Tra 10 e 9

2 0

1,75 0

1,5 0

1,25 0

1 0

0,5 0

Fig. 30 Piastra Lysoplate con Paenibacillus larvae, sono visibili gli aloni di lisi ottenuti in seguito all’immissione di lisozima nei pozzetti.

Fig. 31 Piastre Lysoplate; di controllo con M. luteus (sopra) e prova con P. larvae (sotto).

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70

Il valore di MIC per il lisozima è stato di 2,5 mg/ml

Le prove sono state effettuate in triplice ed è sempre risultato lo stesso valore di

MIC.

Fig. 32 MIC in micrometodo di lisozima e oli essenziali. Notare i precipitati beii pozzetti che indicano la presenza del batterio a concentrazioni delle sostanze troppo basse per inibire la

crescita.

Fig.33 Particolare della micro piastra per mettere in rilievo il valore di MIC del lisozima corrispondente a 2,5 mg/ml.

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4.2 OLI ESSENZIALI

I valori di MIC per gli oli essenziali provati singolarmente sono riportati nella

tabella 9 e evidenziati nel grafico 9.

Tab. 9 Valori della minima concentrazione inibente degli oli essenziali impiegati singolarmente.

Fig. 34 Istogramma dei valori MIC degli oli essenziali valutati tal quale.

I valori di MIC delle combinazioni tra gli oli essenziali sono rappresentati nella

tabella 10.

Oli essenziali

Valore di MIC (µg/ml)

origano 64

maggiorana 128

timo bianco 64

timo rosso 64

bergamotto 256

rosmarino 128

cannella 128

OL

I E

SS

EN

ZIA

LI

µg/ml

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Tab. 10 Valori della minima concentrazione inibente di tutte le combinazioni di oli essenziali.

oli essenziali Valore di MIC (µg/ml)

oli essenziali Valore di MIC (µg/ml)

origano+maggiorana 512 timo bianco+timo rosso 512

origano+timo bianco 512 timo bianco+bergamotto 512

origano+timo rosso 512 timo bianco+rosmarino 512

origano+bergamotto 512 timo bianco+cannella 512

origano+rosmarino 512 timo rosso+bergamotto >512

origano+cannella 512 timo rosso+rosmarino 512

maggiorana+timo bianco 512 timo rosso+cannella 512

maggiorana+timo rosso >512 bergamotto+rosmarino >512

maggiorana+bergamotto >512 bergamotto+cannella >512

maggiorana+rosmarino >512 rosmarino+cannella 512

maggiorana+cannella 512

Dalla tabella si può notare come i valori di MIC delle combinazioni di oli sono tutti

molto simili tra loro con valori minimi di 512 µg/ml.

Tutte le prove sono state ripetute tre volte ottenendo sempre i medesimi

risultati.

Fig. 35 Cappa sterile dove sono visibili le piastre su cui è stato seminato il P.larvae e le mani dell’operatore che con una pinzetta applica sul substrato i dischetti di diffusione imbevuti di oli

essenziali come da protocollo (Kirby-Bauer).

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Le prove effettuate con il metodo Kirby-Bauer hanno fornito i dati presentati nelle tabelle 11 e 12.

Tab. 11 Valori degli aloni di inibizione(mm) nelle tre prove del test di diffusione Kirby-Bauer degli oli testati singolarmente, delle loro medie e della rispettiva deviazione standard.

Oli essenziali e combinazioni

Diametro dell'alone (mm) deviazione standard Prova 1 Prova 2 Prova 3 Media

Timo bianco (Tb) 12 13 11 12,00 0,8165

Timo rosso (Tr) 12 13 12 12,33 0,4714

Maggiorana (M) 14 14 15 14,33 0,4714

Origano (O) 14 15 13 14,00 0,8165

Cannella (C) 9 9 8 8,67 0,4714

Bergamotto (B) 8 7 8 7,67 0,4714

Rosmarino (R) 13 12 14 13,00 0,8165

Tab. 12 Valori degli aloni di inibizione (mm) nelle tre prove del test di diffusione Kirby-Bauer delle

essenze miscelate, delle loro medie e della rispettiva deviazione standard.

Oli essenziali e combinazioni

Diametro dell'alone (mm) deviazione standard Prova 1 Prova 2 Prova 3 Media

origano+maggiorana 9 9 8 8,67 0,4714

origano+timo bianco 10 9 9 9,33 0,4714

origano+timo rosso 9 10 9 9,33 0,4714

origano+bergamotto 7 6 8 7,00 0,8165

origano+rosmarino 8 7 9 8,00 0,8165

origano+cannella 10 10 11 10,33 0,4714

maggiorana+timo bianco 10 10 10 10,00 0,0000

maggiorana+timo rosso 10 10 11 10,33 0,4714

maggiorana+bergamotto 6 6 7 6,33 0,4714

maggiorana+rosmarino 7 8 6 7,00 0,8165

maggiorana+cannella 9 10 10 9,67 0,4714

timo bianco+timo rosso 9 8 9 8,67 0,4714

timo bianco+bergamotto 9 8 10 9,00 0,8165

timo bianco+rosmarino 7 6 8 7,00 0,8165

timo bianco+cannella 9 10 8 9,00 0,8165

timo rosso+bergamotto 9 10 9 9,33 0,4714

timo rosso+rosmarino 7 6 8 7,00 0,8165

timo rosso+cannella 10 11 10 10,33 0,4714

bergamotto+rosmarino 8 7 8 7,67 0,4714

bergamotto+cannella 8 9 7 8,00 0,8165

rosmarino+cannella 7 7 7 7,00 0,0000

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Fig. 36 Istogramma dei valori degli aloni di inibizione medi di tutte le combinazioni e rispettiva

deviazione standard.

Tra gli oli testati singolarmente troviamo valori medi massimi di 14,34 ± dev. st.

0,47 per la maggiorana e valori medi minimi di 7,67 ± dev. st. 0,47 per il

bergamotto; tra gli oli miscelati invece troviamo valori medi massimi di 10,33 ±

dev. st. 0,47 e minimi di 6,34 ± dev. st. 0,47.

Sulla prova è stata condotta l’analisi della varianza (ANOVA), in particolare è stato

utilizzato il test di Tukey; assunto come p altamente significativa se inferiore a

OL

I E

SS

EN

ZIA

LI

DIAMETRO ALONE IN mm

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0,01, significativa se compresa tra 0,05 e 0,01 e non significativa per valori

superiori allo 0,05, il valore di p trovato è 2.2e-16, questo ci indica un’alta

significatività delle prove effettuate.

Per comodità indicheremo gli oli con le loro lettere iniziali, troveremo dunque

rosmarino (R), timo bianco (Tb), timo rosso (Tr), origano (O), cannella (C),

bergamotto (B) e maggiorana (M).

L a differenza tra l’attività inibitoria degli oli essenziali delle singole essenze della

famiglia delle Lamiaceae rispetto a alle altre due cioè la cannella (Lauraceae) e il

bergamotto (Rutaceae) è altamente significativa. L’attività inibitoria degli oli

essenziali delle singole piante della famiglia Lamiaceae non è tra loro

significativamente diversa.

Fig. 37 Istogramma della media dei valori degli aloni di inibizione per gli oli essenziali provati singolarmente con la rispettiva devianza. In blu gli oli essenziali di piante appartenente alla famiglia delle Lamiaceae, in rosso alla famiglia delle Rutaceae e in giallo alla famiglia delle

Lauraceae. Le lettere A e B indicano la differenza significativa di attività inibitoria.

OL

I E

SS

EN

ZIA

LI

DIAMETRO ALONE IN mm

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Tab. 13 Valori di p del test della varianza con lettere di riferimento per il confronto di attività tra i vari oli usati tal quale. Assunto come p > di 0,05 non significativa; 0,05 <p> 0,01 significativa; p< 0,01 altamente significativa. Le abbreviazioni stanno per: rosmarino (R), timo bianco (Tb), timo

rosso (Tr), origano (O), cannella (C), bergamotto (B) e maggiorana (M).

Analizzando invece le differenze dell’attività inibente tra i vari oli presi

singolarmente e le loro rispettive miscelazioni è stato trovato che:

Facendo il confronto tra timo bianco tal quale e il timo bianco miscelato ad altri

oli essenziali come: timo rosso, bergamotto, origano,rosmarino e cannella, il timo

bianco tal quale risulta avere un’attività inibente maggiore. Il timo bianco

miscelato con maggiorana invece risulta avere una differenza di attività non

significativa rispetto al timo bianco tal quale.

oli essenziali tal quali a confronto

P value (Anova) n=3

lettera di riferimento

Tb Tr >0,05 A

Tb B 1,10E-06 B

Tb O >0,05 A

Tb R >0,05 A

Tb M >0,05 A

Tb C 4,32E-04 B

Tr B 1,00E-07 B

Tr O >0,05 A

Tr R >0,05 A

Tr M >0,05 A

O B <1,00E-07 B

O R >0,05 A

O M >0,05 A

O C <1,00E-07 B

R M >0,05 A

R C 1,10E-06 B

R B <1,00E-07 B

M C <1,00E-07 B

M B <1,00E-07 B

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Fig. 38 Istogramma della media dei valori degli aloni di inibizione del timo bianco provato singolarmente e delle miscele con le altre essenze con le rispettive deviazioni standard. La lettera

A e B indicano la differenza significativa di azione inibente, mentre la C indica il valore non significativo.

Tab. 14 Valori di p del test della varianza con lettere di riferimento per il confronto di attività tra timo bianco usato tal quale e timo bianco miscelato con gli altri oli utilizzati. Assunto come p > di

0,05 non significativa; 0,05 <p> 0,01 significativa; p< 0,01 altamente significativa. Le abbreviazioni stanno per: rosmarino (R), timo bianco (Tb), timo rosso (Tr), origano (O), cannella

(C), bergamotto (B) e maggiorana (M).

timo bianco (A) confrontato

con

P value(Anova)

n=3

Lettera di riferimento

Tb+Tr 4,32E-04 B

Tb+B 2,74E-03 B

Tb+O 1,53E-02 B

Tb+R <1,00E-07 B

Tb+M >0,05 c

Tb+C 2,74E-03 B

Facendo il confronto tra timo rosso tal quale e il timo rosso miscelato ad altri oli

essenziali: timo bianco,rosmarino, bergamotto e origano, il timo rosso tal quale

risulta avere un’attività inibente maggiore. Il timo rosso miscelato con

maggiorana invece risulta avere una differenza di attività non significativa

rispetto al timo rosso tal quale.

A

OL

I E

SS

EN

ZIA

LI

DIAMETRO ALONE IN mm

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Fig. 39 Istogramma della media dei valori degli aloni di inibizione del timo rosso provato singolarmente e delle miscelazioni con le altre essenze con le rispettive deviazioni standard. La

lettera A e B indicano la differenza significativa di azione inibente, mentre la C indica i valori non significativi.

Tab. 15 Valori di p del test della varianza con lettere di riferimento per il confronto di attività tra timo rosso usato tal quale e timo rosso miscelato con gli altri oli utilizzati. Assunto come p > di

0,05 non significativa; 0,05 <p> 0,01 significativa; p< 0,01 altamente significativa. Le abbreviazioni stanno per: rosmarino (R), timo bianco (Tb), timo rosso (Tr), origano (O), cannella

(C), bergamotto (B) e maggiorana (M).

timo rosso (A)

confrontato con

P value(Anova)

n=3

Lettera di riferimento

Tb+Tr 6,22E-05 B

Tr+B 2,74E-03 B

Tr+O 2,74E-03 B

Tr+R <1,00E-07 B

Tr+M >0,05 C

Tr+C >0,05 C

Facendo il confronto tra origano tal quale e l’origano miscelato agli altri oli

essenziali: timo bianco, timo rosso, cannella, bergamotto, rosmarino e

maggiorana, l’origano tal quale risulta sempre avere un’attività inibente maggiore

rispetto alle miscelazioni.

DIAMETRO ALONE IN mm

OL

I E

SS

EN

ZIA

LI

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Fig. 40 Istogramma della media dei valori degli aloni di inibizione dell’origano provato singolarmente e delle miscele con le altre essenze con le rispettive deviazioni standard. La lettera

A e B indicano la differenza significativa di azione inibente.

Tab. 16 Valori di p del test della varianza con lettere di riferimento per il confronto di attività tra origano usato tal quale e origano miscelato con gli altri oli utilizzati. Assunto come p > di 0,05 non significativa; 0,05 <p> 0,01 significativa; p< 0,01 altamente significativa. Le abbreviazioni stanno per: rosmarino (R), timo bianco (Tb), timo rosso (Tr), origano (O), cannella (C), bergamotto (B) e

maggiorana (M).

origano (A) confrontato

con

P value(Anova)

n=3

Lettera di riferimento

O+Tb 1,00E-07 B

O+Tr 1,00E-07 B

O+B <1,00E-07 B

O+R <1,00E-07 B

O+M <1,00E-07 B

O+C 6,22E-05 B

Per quanto riguarda il rosmarino, il confronto di questo tal quale e le miscele con

rosmarino e gli altri oli essenziali quali: il timo bianco, il timo rosso, l’origano, la

maggiorana, la cannella e il bergamotto, mette in evidenza che il rosmarino tal

quale ha sempre un’attività maggiore rispetto alle miscele dello stesso con gli

altri oli essenziali.

OL

I E

SS

EN

ZIA

LI

DIAMETRO ALONE IN mm

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Fig. 41 Istogramma della media dei valori degli aloni di inibizione del rosmarino provato singolarmente e delle miscele con le altre essenze con le rispettive deviazioni standard. La lettera

A e B indicano la differenza significativa di azione inibente.

Tab. 17 Valori di p del test della varianza con lettere di riferimento per il confronto di attività tra rosmarino usato tal quale e rosmarino miscelato con gli altri oli utilizzati. Assunto come p > di

0,05 non significativa; 0,05 <p> 0,01 significativa; p< 0,01 altamente significativa. Le abbreviazioni stanno per: rosmarino (R), timo bianco (Tb), timo rosso (Tr), origano (O), cannella

(C), bergamotto (B) e maggiorana (M).

rosmarino (A)

confrontato con

P value(Anova)

n=3

Lettera di riferimento

R+Tb <1,00E-07 B

R+Tr <1,00E-07 B

R+O <1,00E-07 B

R+B <1,00E-07 B

R+M <1,00E-07 B

R+C <1,00E-07 B

Facendo il confronto tra la maggiorana impiegata tal quale e le miscele con la

maggiorana e gli altri oli essenziali quali: il timo bianco, il timo rosso, l’origano, il

rosmarino, la cannella e il bergamotto, la maggiorana utilizzata tal quale ha avuto

un’azione inibente maggiore rispetto alle miscelazioni con gli altri oli.

DIAMETRO ALONE IN mm OL

I E

SS

EN

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Fig. 42 Istogramma della media dei valori degli aloni di inibizione della maggiorana provata singolarmente e delle miscele con le altre essenze con le rispettive deviazioni standard. La lettera

A e B indicano la differenza significativa di azione inibente.

Tab. 18 Valori di p del test della varianza con lettere di riferimento per il confronto di attività tra maggiorana usata tal quale e maggiorana miscelata con gli altri oli utilizzati. Assunto come p > di

0,05 non significativa; 0,05 <p> 0,01 significativa; p< 0,01 altamente significativa. Le abbreviazioni stanno per: rosmarino (R), timo bianco (Tb), timo rosso (Tr), origano (O), cannella

(C), bergamotto (B) e maggiorana (M).

maggiorana (A)

confrontata con

P value (Anova) n=3

lettera di riferimento

M+Tb 1,10E-06 B

M+Tr 8,50E-06 B

M+B <1,00E-07 B

M+O <1,00E-07 B

M+R <1,00E-07 B

M+C 1,00E-07 B

Confrontando poi la cannella tal quale con le miscelazioni della cannella con gli

altri oli essenziali come: il timo bianco, il timo rosso, l’origano, il rosmarino, la

maggiorana e il bergamotto, la cannella tal quale e le miscelazioni non hanno

mostrato differenze significative nella loro attività inibitoria.

DIAMETRO ALONE IN mm

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Fig. 43 Istogramma della media dei valori degli aloni di inibizione della cannella provata singolarmente e delle miscele con le altre essenze con le rispettive deviazioni standard. La lettera

a indica la differenza non significativa dell’azione inibente.

Tab. 19 Valori di p del test della varianza con lettere di riferimento per il confronto di attività tra cannella usata tal quale e cannella miscelata con gli altri oli utilizzati. Assunto come p > di 0,05 non significativa; 0,05 <p> 0,01 significativa; p< 0,01 altamente significativa. Le abbreviazioni

stanno per: rosmarino (R), timo bianco (Tb), timo rosso (Tr), origano (O), cannella (C), bergamotto (B) e maggiorana (M).

cannella

(a) confrontata

con

P value (Anova) n=3

lettera di riferimento

C+Tb >0,05 a

C+Tr >0,05 a

C+B >0,05 a

C+O >0,05 a

C+R >0,05 a

C+M >0,05 a

Confrontando poi il bergamotto tal quale con le miscelazioni della cannella con

gli altri oli essenziali come: il timo bianco, il timo rosso, l’origano, il rosmarino, la

maggiorana e la cannella, il bergamotto tal quale e le miscelazioni non hanno

mostrato differenze significative nella loro attività inibitoria.

DIAMETRO ALONE IN mm

OL

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Fig. 44 Istogramma della media dei valori degli aloni di inibizione della cannella provata singolarmente e delle miscele con le altre essenze con le rispettive deviazioni standard. La lettera

a indica la differenza non significativa dell’azione inibente.

Tab. 20 Valori di p del test della varianza con lettere di riferimento per il confronto di attività tra bergamotto usato tal quale e bergamotto miscelato con gli altri oli utilizzati. Assunto come p > di

0,05 non significativa; 0,05 <p> 0,01 significativa; p< 0,01 altamente significativa. Le abbreviazioni stanno per: rosmarino (R), timo bianco (Tb), timo rosso (Tr), origano (O), cannella

(C), bergamotto (B) e maggiorana (M).

bergamotto

(a) confrontato

con

P value (Anova) n=3

lettera di riferimento

B+Tb >0,05 a

B+Tr >0,05 a

B+O >0,05 a

B+R >0,05 a

B+M >0,05 a

B+C >0,05 a

DIAMETRO ALONE IN mm OL

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5. DISCUSSIONE DEI RISULTATI

LISOZIMA

Le due prove effettuate, il lysoplate assay e la MIC, hanno evidenziato che il

lisozima ha una attività antibatterica nei confronti del P.larvae. Confrontando

l’attività del lisozima verso il Micrococcus luteus, batterio utilizzato nelle prove di

controllo perché particolarmente sensibile (Meyer et al., 1936), e nei confronti di

P. larvae si può mettere in evidenza che l’efficacia dell’attività antimicrobica si

espleta ad elevate concentrazioni. Come riportato nella tab. 8 e nella fig. 33, il

lisozima è risultato attivo a una concentrazione di 2,5 mg/ml. Mettendo in

relazione il dosaggio efficace di altre sostanze antibatteriche, proprio come gli oli

essenziali, queste agiscono a concentrazioni nell’ordine dei µg o µl su ml, quindi

la quantità di lisozima necessaria risulta essere una concentrazione

particolarmente elevata perché nell’ordine degli mg su ml. Questo potrebbe

essere dovuto al fatto che la parete cellulare batterica del P. larvae ha un elevato

grado di reticolazione peptidica (Benkerroum N., 2008 ).

Come abbiamo già detto nel paragrafo relativo al lisozima, questo enzima è

presente in molte sostanze naturali di origine animale, fu identificato anche in

secreti quali lacrime, saliva, secrezioni nasali, sangue e latte nonché in molteplici

tessuti e secrezioni animali e microbiche.

Le concentrazioni di lisozima presente in natura sono state determinate per

diverse sostanze di origine animale e a parte l’albume d’uovo con una quantità

compresa tra 3,4 e 5,8 mg/ml (Wilcox and Cole, 1957; Sauter and Montoure,

1972), non esistono altri secreti con concentrazioni così elevate di enzima

(Masschalck and Michiels, 2003; Xue, 2004). Il latte di asina che in letteratura è

riportato come un altro dei casi a più alta concentrazione, ne ha 1,428 mg/ml

(Salimei et al. 2004).

Questo naturalmente pregiudica la possibilità di impiegare sostanze

completamente di origine naturale contenenti lisozima per il controllo della peste

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americana; per raggiungere così elevate concentrazioni è necessario utilizzare il

preparato di lisozima ottenuto appunto da albume d’uovo in polvere o in granuli.

Il preparato in polvere utilizzato per le prove è stato acquistato presso la ditta

SIGMA ®.

Dal momento che non sono stati rinvenuti articoli nella bibliografia a nostra

disposizione sulla valutazione di efficacia antibatterica del lisozima su

Paenibacillus larvae, probabilmente l’azione di questo enzima sul batterio sopra

citato non è mai stato oggetto di ricerca.

Valutata l’efficacia di questo enzima in laboratorio, bisognerebbe naturalmente

valutarla in campo cercando di capire, oltre che all’effettiva efficacia, quale

potrebbe essere la modalità di somministrazione più efficiente e la tossicità DL50,

sia acuta che cronica, nei confronti delle api.

Una proposta per il metodo di somministrazione potrebbe essere attraverso la

nutrizione artificiale con soluzioni zuccherine liquide, in modo da agire

direttamente sul batterio in forma vegetativa presente nel lume dell’intestino

medio della larva.

Per quanto riguarda i metodi utilizzati per la valutazione del lisozima il lysoplate

assay non sembra essere una prova particolarmente adatta a rilevare l’efficacia

del lisozima nei confronti del Paenibacillus larvae. Infatti non è stato facile

mettere a punto questa tecnica per il batterio della peste americana; Gli aloni di

lisi non sempre erano rilevabili anche a parità di condizioni.

La MIC invece è risultata più efficace non solo per la sua più semplice

preparazione ed esecuzione ma anche per la sua ripetibilità e precisione.

OLI ESSENZIALI

Gli oli essenziali che sono stati utilizzati per le prove sperimentali di questo

elaborato di tesi sono: origano (Origanum vulgare), maggiorana (Origanum

majorana), timo bianco (Thymus serpyllum), timo rosso (Thymus vulgaris),

rosmarino (Rosmarinus officinalis), bergamotto (Citrus auratium var. bergamia) e

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cannella (Cinnamomum zeylanicum). Ognuno di questi oli essenziali è stato

testato singolarmente e in combinazione con gli altri al 50% sia nella MIC che nel

metodo per diffusione su piastra secondo Kirby-Bauer; in tutto quindi tra le

essenze testate tal quale e le combinazioni di queste sono stati valutati 28 casi.

Come prima osservazione, confrontiamo i valori di MIC degli oli impiegati tal

quale rilevati dalle prove effettuate con quelli presenti in bibliografia.

Tab 21 Valori MIC reperiti in bibliografia a confronto con quelli rilevati in questi elaborato di tesi.

oli essenziali valori di MIC

rilevati in questo

elaborato (µg/ml)

valori di MIC reperiti in

bibliografia (µg/ml)

riferimenti bibliografici

nome comune

nome scientifico

Timo rosso Thymus vulgaris 64 150 Floris e Carta, 1990

Timo bianco Thymus serpyllum 64 n.d n.d.

Origano Origanum vulgare 64 250-350 Alippi et al., 1996

Rosmarino Rosmarinus officinalis 128 700 Alippi et al., 1996

Cannella Cinnamomum zeylanicum 128 25–100 Gende et al., 2008;

Maggiorana Origanum majorana 128 n.d n.d.

Bergamotto Citrus auratium var.

bergamia 256 n.d n.d.

I valori di MIC delle prove effettuate per questo elaborato di tesi, riportate in tab.

9, hanno rivelato una maggiore azione antibatterica rispetto a quelli delle altre

prove riportate dalla bibliografia (tab. 21) ; solamente l’olio essenziale di cannella

ha mostrato un’azione minore. In realtà ci aspettavamo che l’essenza di cannella

avesse un’azione antibatterica maggiore rispetto a tutte le altre come riportato in

altri studi, questo olio infatti è stato studiato sia in laboratorio sia in campo

rivelando più volte di avere una buona azione inibente su P.larvae (Gende et

al.,2008; Gende et al., 2009; Cremasco et al., 1994).

Le differenze di attività antimicrobica degli oli essenziali sono imputabili alla

composizione degli oli stessi; la composizione in qualità e quantità di uno stesso

tipo di olio essenziale dipende da una notevole quantità di fattori, questi possono

far variare notevolmente un campione dall'altro; oltre a dipendere dalla pianta o

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parte vegetale utilizzata, dipende dalla stagione e dall'area geografica in cui viene

raccolta (Juliano et al., 2000 ; Faleiro et al., 2002).

In bibliografia, per alcuni oli essenziali sono state riportate le % dei principali

componenti presenti in essi:

Cannella Trans-cinnamaldehyde 65-90% (Lens-Lisbonne et al.,

1987),

Rosmarino a-pinene al 2 –25%, Bornil acetate 0 –17%, Canfora

2 –14% e 1,8-cineole 3 –89% (Daferera et al., 2000, 2003; Pintore

et al., 2002).

Origano Carvacrolo tracce-80%, Timolo Tracce-64%, g-

Terpinene 2 –52% e p-Cymene Tracce-52% (Daferera et al., 2000;

Demetzos and Perdetzoglou, 2001; Marino et al., 2001).

Timo Timolo 10–64%, Carvacrolo 2 – 11%, g-Terpinene 2 –31%

e p-Cymene 10–56% (Cosentino et al., 1999; Marino et al., 1999;

Juliano et al., 2000).

I componenti maggiormente responsabili dell'attività antibatterica sono i

componenti fenolici (Cosentino et al., 1999) come l’eugenolo, il carvacrolo e il

timolo, l’efficacia delle essenze dipende proprio dalla loro quantità.

Probabilmente gli oli essenziali usati nelle prove di questo elaborato hanno

quantità maggiori di questi componenti rispetto a quelli utilizzati nelle prove

reperite in bibliografia visto che hanno rivelato un’efficacia antibatterica

maggiore.

Un passo successivo per la valutazione delle essenze contro la peste americana

potrebbe essere proprio quella di valutare oli essenziali di uno stesso tipo di

pianta ma proveniente da diverse fonti, indagando anche la precisa composizione

di tutti i campioni attraverso la gas-cromatografia.

Un secondo punto importante rilevato in tutti e due i test riguardante l’utilizzo

degli oli essenziali tal quale è che quelli derivanti dalla famiglia delle Lamiaceae

sembrano essere più attivi rispetto agli altri come riportato in tab. 11 e fig. 37.

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Presumibilmente anche questi dati confermano l’ipotesi della quantità e qualità

dei composti fenolici presenti negli oli essenziali.

I composti fenolici, come il carvacrolo, l’eugenolo e il timolo sono presenti in

quantità elevate nelle essenze che hanno mostrato maggiore attività

antimicrobica verso P. larvae come riportato nel punto di discussione precedente.

Probabilmente queste molecole sono più attive verso il batterio rispetto agli altri

componenti antibatterici presenti negli oli essenziali che hanno mostrato una

minor attività inibente come: (i) il monoterpene limonene e il monoterpene

ossigenato linalolo maggiori componenti del bergamotto (Nabiha et al., 2010) e

(ii) l’aldeide cinnamica maggiore componente dell’essenza di cannella (Lens-

Lisbonne et al., 1987). In future indagini, poiché gli oli essenziali della famiglia

delle Lamiaceae si sono rilevati più promettenti rispetto agli altri, si potrebbe

continuare a indagare l’efficacia degli oli derivanti da piante appartenenti a

questa famiglia per poter capire se hanno tutte un’azione simile.

Un terzo punto rilevato in tutti e due i test è che gli oli essenziali impiegati tal

quale hanno un’azione inibente maggiore che in combinazione tra di loro.

Nel caso del test di MIC, la differenza dell’attività antimicrobica risulta molto

evidente, infatti i valori della minima concentrazione inibente per le combinazioni

sono pari o superiori a 512 µg/ml mentre quelli degli oli impiegati singolarmente

sono compresi tra 64 e 256 µg/ml come riportato nella tab. 10 per le

combinazioni e nella tab. 9 per gli oli utilizzati tal quale. Nel caso invece degli oli

testati con il metodo della diffusione su piastra con i dischetti, la differenza tra le

attività risulta meno evidente (fig.36) ma ugualmente significativa come riportato

nelle tabelle da 14 a 20 e nelle fig. da 38 a 44.

Per valutare appunto la significatività di questa prova è stata svolta l’analisi

statistica della varianza che ha mostrato una p pari a 2.2e-16, confrontando

successivamente ogni olio essenziale impiegato tal quale con le miscele

composte dall’essenza presa in esame e gli altri oli: il rosmarino (tab.17 e fig. 41),

l’origano (tab.16 e fig.40), il timo bianco (tab.14 e fig.38), il timo rosso (tab.15 e

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fig.39) e la maggiorana (tab.18 e fig. 42) hanno mostrato una differenza di

attività inibitoria altamente significativa; invece per cannella (tab.19 e fig.43) e

bergamotto (tab.20 e fig.44) non è stata rilevata alcuna differenza significativa di

attività antimicrobica nei confronti del P. larvae.

Questi dati suggeriscono che questi oli in combinazione non hanno un’attività

sinergica tra di loro, ma probabilmente hanno un’azione di diluizione, cioè

impiegando i due oli in combinazione al 50% e immettendo quindi solo la metà di

uno e la metà dell’altro anche la loro attività diminuisce probabilmente proprio

perché le quantità di quei componenti antibatterici diminuisce.

Dal momento che non sono stati rinvenuti articoli nella bibliografia a nostra

disposizione sulla valutazione di efficacia antibatterica degli oli essenziali in

combinazione tra di loro su Paenibacillus larvae, probabilmente l’azione di queste

miscele sul batterio sopra citato non sono mai state oggetto di ricerca.

Una possibile indagine futura potrebbe studiare altri casi di associazioni tra oli al

fine di comprovare l’ipotesi che le combinazioni tra questi hanno attività

battericida minore rispetto agli oli utilizzati tal quale; potrebbe essere anche

interessante andare ad indagare le stesse associazioni di oli ma con % differenti e

non solo al 50% come si è testato in questo elaborato.

Tutte le prove riportate in questo elaborato di tesi sono state condotte in

laboratorio; i risultati acquisiti potrebbero servire sia per continuare la

sperimentazione in vitro ma soprattutto devono essere valutati in campo perché

sono molteplici le variabili che potrebbero influenzare l’attività antimicrobica di

queste sostanze.

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6. CONCLUSIONI

LISOZIMA

Le prove di laboratorio di inibizione del lisozima su Paenibacillus larvae hanno

mostrato attività antimicrobica per concentrazioni minime di 2,5 mg/ml.

Per la valutazione del lisozima su P.larvae tra i due tipi di test effettuati la MIC è

risultata di più facile esecuzione e affidabilità.

La possibilità di impiegare sostanze completamente di origine naturale

contenenti lisozima per il controllo della peste americana è presumibilmente da

escludere visto che non esistono fonti naturali che ne contengono così elevate

concentrazioni, a parte l’albume d’uovo.

L’attività antibatterica del lisozima, autorizza a pensare ad una sua possibile

utilizzazione nel controllo della peste americana; alla luce dei dati in nostro

possesso si ritengono necessari ulteriori studi per la valutazione dell’efficacia in

campo, focalizzando le future indagini sulla possibile tossicità acuta e cronica nei

confronti delle api e al metodo di somministrazione.

OLI ESSENZIALI

Gli oli essenziali valutati hanno mostrato attività antibatterica e talune hanno

evidenziato una azione più elevata rispetto alle stesse essenze reperite in

bibliografia.

Gli oli essenziali estratti da piante appartenenti alla famiglia delle Lamiaceae si

sono rivelati più efficaci rispetto a quelli appartenenti alle altre famiglie, fatto

imputabile alla quantità e qualità dei componenti degli oli essenziali.

Nei due test effettuati, le essenze impiegate tal quale hanno mostrato un’azione

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inibente nettamente maggiore rispetto alle miscele degli oli essenziali combinati

al 50% tra di loro, facendoci presumere che la combinazione degli oli possa

risentire del’effetto di diluzione facendo diminuire l’efficacia antibatterica.

Con i dati in nostro possesso sull’attività antimicrobica degli oli essenziali si

conferma l’ipotesi del possibile impiego di queste sostanze di derivazione

naturale nel controllo della peste americana. Si rendono però necessari ulteriori

studi sull’argomento focalizzando l’attenzione sulla precisa composizione degli oli

per individuare le molecole più attive nei confronti del batterio.

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