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Gianni Vattimo Essere, storia e linguaggio in Heidegger MARIETTI

Vattimo, Essere, Storia e Linguaggio in Heidegger

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History and Language in Heidegger's Thought.

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Gianni Vattimo

Essere, storia e linguaggio in Heidegger

MARIETTI

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Gianni Vattimo è nato a Torino nel 1936. È do­cente di Teoretica presso la Facoltà di Lettere e Fi­losofia di Torino. Dopo essersi dedicato a ricer­che di estetica antica, si è occupato di filosofia te­desca fra ottocento e novecento. Interviene spes­so dalle colonne di “ La Stampa” in dibattiti e po­lemiche che attraversano gli umori della cultura italiana contemporanea. Tira le sue numerose opere ricordiamo almeno Poesia e ontologia, del 1967, Il soggetto e la maschera, del 1974, e Le avventure della differenza, del 1980.

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In preparazione:C. Sini, Parola e silenzio

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“ Un nuovo lavoro su Heidegger non ha bisogno di'particolari giustificazioni” - scriveva nel 1963, jjélïa Prefazione a questo suo importante studio, Gianni Vattimo. Allora come oggi il pensiero di Heidegger resta uno dei più “ discutibili” della fi­losofia contemporanea. Per la difficoltà intrinse­ca della materia concettuale, ma anche per quella intenzione di svolta storica che il pensiero heideg­geriano porta sempre esplicitamente con sé. Da ciò nascevano allora, e si sono susseguite fino ad og­gi, molteplici letture che spesso, negli ultimi tem­pi soprattutto, si sono lasciate andare alla malia delle formule heideggeriane. Il libro di Vattimo si distingueva per la volontà di considerare il pen­siero di Heidegger nel suo complesso, ma non al­l’interno dei rigidi canoni del genere della mono­grafia. “ Tutto” Heidegger, attraverso il fondamen­tale nesso di essere, storia e linguaggio, viene con­siderato per le indicazioni e per gli sviluppi ehe può fornire alla filosofia contemporanea, in un dialogo che in quanto tale non si concepisce co­me discorso chiuso ed esaustivo, ma come una prova di percorsi. Riproporre oggi, dopo troppi diluvi pubblicistici e polemici, il libro di Vattimo ha per noi il senso di fornire al lettore l’occasione per arrivare ad una delle vette del pensiero filoso­fico del novecento attraverso una riflessione di mi­rabile lucidità prospettica.

Grafica di Andrea Musso

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Collana di Filosofia 34

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Gianni Vattimo

Essere, storia e linguaggio in Heidegger

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I Edizione 1963

© 1989 Casa Editrice M arietti S.p.A. Via Palestra 10/8 - 010/891254 16122 Genova

ISB N 88-211-8650-4

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Indice

Prefazione 9Prefazione alla 2a edizione 11Abbreviazioni 12

1. Chi è il Nietzsche di Heidegger 131. Storia e storia della metafisica nel pensiero di Heidegger,16. — 2. Nietzsche come compimento della metafisica, 26. -3. Nietzsche come profeta del mondo contemporaneo, 42. —4. Conclusione: Nietzsche, Heidegger e la visione metafisica dell’alienazione, 47.

2. Distruzione dello storicismo e fondazione dell’ontologia inSein und Zeit 531. L’essere e il tempo, 5 3 .-2 . Il concetto di essere-per-la-mor- te come centro della speculazione heideggeriana sulla temporali­tà, 58. — 3. L’essere-per-la-morte e la struttura della temporali­tà autentica, 63. — 4. L’essere e il nulla, 83.

3. L ’eventualità dell’essere e l’opera d’arte 971. Centralità della riflessione sull’arte nel pensiero di Heideg­ger, 9 7 .-2 . Il mondo e le cose in Sein und Zeit, 99. — 3. L’ori­gine dell’opera d’arte, 110. — 4. La conferenza su Hölderlin,125. — 5. La riflessione sull’arte e il concetto di eventualità del­l’essere, 128.

4. Essere e linguaggio 1321. La « ripetizione » ontologica dell’analitica esistenziale, 132.— 2. Evento e linguaggio, 141. — 3. Geviert e linguaggio poeti­co, 150, — 4. Uomo ed essere alla luce del Geviert, 156. —5. La struttura dell’evento, 163. — 6. Linguaggio e silenzio,169. — 7. La meditazione sul linguaggio e l’ontologia, 174.

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6 IN DICE

5. Essere ed ermeneia1. Pensiero metafisico e pensiero ermeneutico, 178. — 2. Ca­ratteri del pensiero ermeneutico, 188. — 3. L’essenza del lin­guaggio e la vicinanza di pensare e poetare, 207. — 4. Essere ed ermeneia, 211.

Conclusione

178

222

Indice dei nomi 237

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Nur zu Zeiten erträgt göttliche Fülle der Mensch.

Traum von ihnen ist drauf das Leben. Hölderlin, Brot und Wein, VII

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Prefazione

Un nuovo lavoro su Heidegger non ha bisogno di particolari giustifi­cazioni; giacché, anche se ormai la letteratura heideggeriana è molto vasta, il pensiero di Heidegger rimane uno dei più discutibili (anzitutto in quanto degno di discussione) che la filosofia contemporanea offra. Non solo per l’obbiettiva difficoltà che i documenti di esso presentano per l’interprete, ma anche e soprattutto per il senso decisivo che esso rivendica rispetto alla situazione attuale e al destino della filosofia e, in un certo senso, della stessa umanità. È soprattutto rispetto a questo significato di svolta storica, che il pensiero heideggeriano pretende di avere, che le interpretazioni esistenti divergono profondamente fra di loro e, in generale, risultano insoddisfacenti. In realtà, tra tutti coloro che hanno intrapreso lo studio della filosofia heideggeriana, ben pochi sembrano essere quelli che l’hanno accolta nella sua integrità e che, in particolare, hanno preso sul serio (non come indiscutibile, ma come degna di attenzione e di sforzo interpretativo) l’ultima e più matura fase di questo pensiero.

Il lavoro che presento è mosso anzitutto da questo proposito: di prendere sul serio tutto Heidegger e, specialmente, di tener conto del senso che egli stesso ha voluto dare, nei suoi scritti più tardi, al proprio pensiero precedente e al suo sviluppo. Non ho voluto dunque scrivere un libro sul pensiero più maturo di Heidegger {o, come si dice, secondo me a torto, sull’ultimo Heidegger), ma su tutto Heideg­ger, muovendo dall’interpretazione che egli stesso dà del proprio itine­rario speculativo negli scritti delFultimo periodo. Il titolo di questo lavoro non indica quindi il proposito di indagare su alcuni temi, sia pure centrali e determinanti, del pensiero heideggeriano: come verrà in chiaro nel corso dell’indagine, il nesso di essere, storia e linguaggio designa il significato del pensiero heideggeriano nella sua totalità, e come tale io l’ho inteso.

Non mi è parso utile, tuttavia, impostare il lavoro come una mono­grafia storica che « raccontasse » esaurientemente la filosofia di Hei-

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degger: ne esistono già di ottime, in italiano (Chiodi), francese (De Waelhens, almeno per il periodo precedente il Brief über den Humani­smus) e soprattutto in tedesco (Pöggeler). Il lavoro di Pöggeler tengo qui in special modo a segnalare come quanto di più completo si sia scritto finora sull’argomento. Io ho cercato, per parte mia, di evidenzia­re piuttosto delle linee di sviluppo, cosa che spesso, in un lavoro che voglia essere storicamente informativo ed esauriente, risulta più diffici­le. Del resto, il pensiero di Heidegger non è ancora qualcosa di cui si possa fare « storiograficamente » un bilancio: meglio cercare di entra­re in dialogo con esso, sforzandosi di ascoltare quello che ha da dire nell’attuale situazione della filosofia.

A questo carattere piuttosto storico-teoretico del lavoro è connesso il fatto che non mi sono preoccupato di corredare il libro di una completa bibliografia heideggeriana sotto forma di elenco: a parte una lista un po’ abbondante alla fine del primo capitolo (lista in cui non è compreso il libro del Pöggeler, uscito nell’estate di quest’anno, e di cui ho potuto servirmi solo per gli ultimi capitoli), ho indicato invece in nota, via via, gli scritti che mi sembrava di dover prendere in discussione sui singoli punti; ritengo, con una certa completezza. Per un elenco dettagliato rimando alla bibliografia del Lübbe (indicata nella nota 1 del capitolo I), che va fino al 1955, e alle opere generali su Heidegger pubblicate negli ultimi anni e che vengono citate nel corso del lavoro.

Il lavoro che qui presento è stato condotto con l’aiuto di una borsa di studio concessa dalla Fondazione Piero Martinetti presso l’Universi- tà di Torino e, nella sua parte conclusiva, di una borsa della Alexander von Humboldt-Stiftung di Bad Godesberg, alle quali va il mio ringra­ziamento. Ringrazio il professor Augusto Guzzo, che ha voluto acco­gliere questo libro nelle edizioni di « Filosofia », e il direttore della « Rivista di Estetica », Luigi Pareyson, che mi concede di ristampare qui, nel terzo capitolo, materiale già pubblicato nel fascicolo III del 1963 di quella rivista. Al professor Pareyson desidero inoltre esprime­re in modo tutto particolare la mia gratitudine per avermi voluto incoraggiare, seguire e consigliare per tutto il corso del lavoro.

Torino, dicembre 1961 - Heidelberg, dicembre 1963

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Prefazione alla seconda edizione

Questo volume si ristampa senza sostanziali modifiche rispetto alla prima edizione, uscita nel 1963 nelle edizioni di « Filosofia », la rivi­sta diretta da Augusto Guzzo. Aggiornarlo avrebbe voluto dire riscri­verlo sostanzialmente; non perché nel frattempo — almeno così mi pare— si siano rivelate infondate o insufficienti le analisi testuali o le proposte interpretative che lo ispiravano; ma perché ci sono state molte novità nella letteratura secondaria, mentre anche i testi di Hei­degger disponibili sono aumentati di molto, con la edizione completa delle opere avviata presso gli editori Klostermann e Niemeyer. L ’imma­gine di Heidegger che il libro presenta mi appare ancora valida anche nei confronti di tutti i nuovi testi usciti nel frattempo, che però, qui, restano non utilizzati né discussi.

Per questa ragione, ristampare il libro nella forma che aveva nel 1963 (salvo piccoli ritocchi: nelle indicazioni bibliografiche, che tengo­no conto delle nuove edizioni e traduzioni uscite nel frattempo dei libri allora utilizzati; e in certe frasi che alludevano a Heidegger vivo, e che oggi suonerebbero grottesche) non ha anzitutto il senso di docu­mentare, un po’ narcisisticamente, una interpretazione del pensiero heideggeriano proposta più di venticinque anni fa; ma quello di rende­re di nuovo disponibile uno strumento di conoscenza della filosofia di un pensatore la cui popolarità è cresciuta costantemente, non solo in Italia e nella cultura « continentale », ma anche nel mondo anglosasso­ne, negli ultimi decenni.

Oltre agli amici della Casa editrice Marietti, che mi hanno incorag­giato a preparare questa riedizione, desidero qui ringraziare cordial­mente Francesco Tomatis e Luca Bagetto, che hanno collaborato generosamente agli aggiornamenti bibliografici e alla revisione delle bozze.

Torino, febbraio 1989.

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Le opere di Heidegger vengono citate con le seguenti sigle (con, tra parentesi quadre, le pagine delle traduzioni italiane):

SuZ = Sein und Zeit, 9a ed., Tubinga 1960; trad. it. di P. Chiodi, Milano 1953 [2a ed., Torino 1969];

WM = Was ist Metaphysik?, 8a ed., Francoforte 1960 [trad. it. di F. Volpi in M. Heidegger, Segnavia, Milano 1987];

WW = Wom Wesen der Wahrheit, 4a ed., Francoforte 1961 [trad.it. di F. Volpi in op. «/.];

EM = Einführung in die Metaphysik, 21 ed., Tubinga 1958 [trad.it. di G. Masi, Milano 1968];

N — Nietzsche, voll. I e II, Pfullingen 1961;EH — Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, 2a ed., Francoforte

1951 [trad. it. di L. Amoroso, Milano 1988];Hw = Holzwege, Francoforte 1950 [trad. it. di P. Chiodi, Firenze

1968];HB — Ueber den Humanismus, Francoforte 1949 [trad. it. di

F. Volpi in op. cit.];VA = Vorträge und Aufsätze, Pfullingen 1954 [trad. it. di

G. Vattimo, Milano 1976];WD = Was heisst Denken?, Tubinga 1954 [trad. it. in 2 voll, di

U.M. Ugazio e G. Vattimo, Milano 1978-1979];WPh — Was ist das - die Philosophie?, Pfullingen 1956 [trad. it. di

C. Angelino, Genova 1981];SF = Zur Seinsfrage, Francoforte 1956 [trad. it. di F. Volpi in

op. eit. ] ;SvG = Der Satz vom Grund, Pfullingen 1957;ID = Identität und Differenz> Pfullingen 1957 [trad. it. di U.M.

Ugazio in « aut aut », n. 187-188, 1982];US = Unterwegs zur Sprache, Pfullingen 1959 [trad. it. di A. Ca­

racciolo e M. Caracciolo Perotti, Milano 1973].

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1. Chi è il Nietzsche di Heidegger

Chi si rifiuta di liquidare con formule piuttosto semplicistiche il pensiero di Heidegger 1 dopo Sein und Zeit, rinunciando a una troppo facile ironia sulle sue etimologie cervellotiche (che ha illustri preceden­ti in Platone e in Vico) e sul misticismo del suo richiamo all’essere che non si riduce ad alcuno degli essenti, sicché diventa estremamente difficile e quasi impossibile parlarne (« Prima di parlare, l’uomo deve

- 1 Della vastissima bibliografia heideggeriana (per cui si veda H. Lübbe, Bibliographie der Heidegger-Literatur 1917-1955, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 1957, 401-52) ho tenuto presenti in modo particolare; L. Pareyson , La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers, Napoli 1940 [2* ed. ampliata, dal titolo Karl Jaspers, Casale Monferrato 1983]; A, D e W aelhen s, La philosophie de Martin Heidegger, Lovanio 1942; L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, Firenze 1942 {2* ed., ivi 1950 [rist., ivi 1971]; P. Chiodi, L ’esisten­zialismo di Heidegger, Torino 1947 (2‘ ed., ivi 1955); M. M ü lle r , Existenzphilosophie im geistigen Leben der Gegenwart, Heidelberg 1949; W. Biemel, Le concept de monde chez Heidegger, Lovanlo-Parigi 1950; J . W ah l, La philosophie de Heidegger, Parigi 1952; P. Chiodi, L'ultimo Heidegger, Torino 1952 (2* ed., ivi 1960); L. Landgrebe, Philosophie der Gegenwart, Bonn 1952; K. L ow ith , Heidegger. Denker in dürftiger Zeit, Francoforte 1953 (2‘ ed., Tubinga 1960 [trad. it., Torino 1966]); A. D e W aelhens, Chemins et impasses de l"ontologie beideggerienne, Lovanio-Parigi 1953; B. Allemann, Hölderlin und Heideg­ger, Zurigo 1954; C. F abro, Dall’essere all’esistente, Brescia 1957; P. Fürstenau, Heideg­ger. Das Gefüge seines Denkens, Francoforte 1958; Th. Lan gan , The Meaning of Heideg­ger. A Criticai Study of an Exist en tialist Phen omen o logy, Londra 1959; H. O tt , Denken und Sein. Der Weg Martin Heideggers und der Weg der Theologie, Zollikon 1959; H. Spieg el­berg , The Phenomenologicai Movement. A Historkal Introduction, vol. I, L ’Aia 1960, 271-357.

Tra gli articoli comparsi in periodici ricorderò soltanto: J.G . G ray, Heidegger « evalua- tes » Nietzsche, in «Journal of thè History of Ideas », 1953, 304-309; H. Schlawin, Heideg­gers Überwindung der Metaphysik, ln « Zeitschrift für philosophische Forschung », 1954, 585-95; A. G uzzoni, Recenti sviluppi del pensiero di Heidegger, in « I l pensiero», 1957, 74-91; P. C asalone, La filosofia ultima di Heidegger, in «Rivista di filosofia neoscolasti­ca », 1958, 117-37; P. Rossi, Martin Heidegger e l’analisi esistenziale della storicità, in « Rivista di Filosofia », 1959, 15-37 (ora nel volume Storia e storicismo nella filosofia contemporanea, Milano 1960); W. B rüning , La filosofia de la historia en Husserl y Heideg­ger, in « Humanitas » (Tucuman), 1959, 65-78; O. Pö ggeler , Sein als Ereignis, in « Zeit­schrift für philosophische Forschung », 1959, 597-632; J . P aumen, Heidegger et le thème nietzschéen de la mort de Dieu, in « Revue internationale de philosophie », 1960, 238-62.

Per le citazioni da Sein und Zeit mi sono servito della traduzione italiana di P. Chiodi, Milano 1953 [2° ed., Torino 1969]; i numeri delle pagine di questa traduzione sono dati tra parentesi insieme a quelli dell’edizione tedesca.

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aspettare che l’essere torni a rivolgerglisi e a farsi valere su di lui, anche col pericolo che, in questo appello dell’essere, poco o quasi nulla gli rimanga da dire » HB, 1 0 [ 2 7 3 ] ) , non potrà non salutare come un fatto estremamente importante la pubblicazione dei due volumi del Nietzsche da parte dell’editore Neske. Quest’opera, che raccoglie i testi dei corsi su Nietzsche tenuti da Heidegger a Friburgo tra il 1 9 3 6 e il 1 9 4 0 e altri scritti e abbozzi di minor mole, permette non solo di fare il punto sulla interpretazione heideggeriana di Nietzsche, ma in genera­le documenta in maniera più precisa lo sviluppo del pensiero di Hei­degger negli anni decisivi della maturazione seguita a Sein und Zeit. E ciò che Heidegger dice nella prefazione dell’opera (N I, 1 0 ) : pubblican­do insieme questi scritti su Nietzsche, egli vuol dare una visione pano­ramica del cammino percorso tra il 1 9 3 0 e la pubblicazione dello scritto sull’umanesimo ( 1 9 4 7 ) ; i due scritti sull’essenza della verità e su Platone, pubblicati prima del Brief, risalgono infatti, per la loro composizione, al 1 9 3 0 - 3 1 , mentre i commenti a Hölderlin danno una idea solo parziale del cammino percorso. E dunque chiaro che, prima che per l’interpretazione del pensiero di Nietzsche, quest’opera heideg­geriana ha un significato fondamentale per la comprensione di Heideg­ger stesso: e ciò non per la ragione banale che Heidegger sia uno storico poco attendibile, ma per il significato decisivo che Nietzsche acquista nella sua visione della storia, e del compito attuale della filosofia. Si può dire che, dopo Sein und Zeit, è principalmente in dialogo con Nietzsche che il pensiero di Heidegger si viene sviluppan­do, come attestano i numerosi saggi e i riferimenti a Nietzsche sparsi in tutta la sua opera2.

Del resto, e ciò non vale solo per Heidegger, Nietzsche è un pensato­re col quale, per la forma « provocatoria » del suo pensiero, è difficilis­simo istituire quel rapporto storiografico che si ritiene indispensabile per fare storia della filosofia. Heidegger direbbe anzi che con Niet­zsche tale rapporto è impossibile e che, per un certo verso, il senso del suo pensiero sta tutto qui. In ciò si può vedere la ragione del fatto che i più significativi studi su Nietzsche sono stati quelli che lo hanno inserito in una prospettiva storica più specifica di quelle consuete: basti ricordare i lavori di Jaspers e di Lowith 3. La posizione di

2 Si vedano specialmente: Nietzsches Wort « Gott ist tot », in Hw 193-247 [191-246]; Wer ist Nietzsches Zarathustra?, in VA 101-126 [66-82]; Überwindung der Metaphysik, in, VA 71-99 [45-65]; la prima parte di WD, 1-78 [I, 37-142], Ma accenni e riferimenti fondamentali a Nietzsche ricorrono in tutta l’opera di Heidegger.

3 K. L ow ith , Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen, Berlino 1935, nuova ed. Stoccarda 1956 [trad. it., Bari 1982]; K. J aspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, Berlino 1936.

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CH I È IL N IETZSCH E DI H EID EG G ER 15

Heidegger è però ancora più radicale, giacché egli non si propone di dare una ricostruzione del pensiero di Nietzsche storiograficamente più esatta delle altre: un tale proposito per lui non avrebbe alcun senso. Con Nietzsche è possibile solo una Auseinandersetzung, una contrappo­sizione dialogante che si impegni a stabilire chi davvero Nietzsche sia stato nella storia dell’essere, di là dai particolari biografici e dagli stessi contenuti espliciti dell’opera. Per Heidegger si deve cercare di com­prendere Nietzsche

in base all’esperienza fondamentale che domina Sein und Zeit. Essa consiste nel trovarsi di fronte, in maniera sempre più accentuata e più chiara, a quest’unico fatto, che nella storia del pensiero occidentale fin dall’inizio viene pensato l’essere dellessente, e tuttavia la verità dell’esse­re rimane non pensata, e non solo è negata al pensiero come possibile esperienza, ma il pensiero occidentale, in quanto metafisica, nasconde espressamente anche se non coscientemente, il fatto di questo negarsi (NII, 260).

L ’interpretazione che, in tale prospettiva, Heidegger dà di Nietzsche si può riassumere per chiarezza in questa proposizione: Nietzsche è il compimento della storia della metafisica e perciò il profeta del mondo contemporaneo. Appare evidente fin d’ora il perché della portata decisi­va del pensiero di Nietzsche: nella “struttura escatologica della storia dell’essere come Heidegger la pensa, la conclusione della metafisica è anche il solo punto di vista che ne riveli pienamente l’essenza. Capire il pensiero di Nietzsche significa scoprire la vera natura della metafisi­ca, che alla metafisica come tale rimane celata, e preparare le condizio­ni per il suo possibile (per quanto problematico) superamento. Recipro­camente, Punita del pensiero di Nietzsche si potrà comprendere solo inserendolo nella storia della metafisica. Inoltre, poiché la metafisica non è altro che il rapporto fondamentale tra essere ed essente che domina tutte le manifestazioni di una data epoca, capire il pensiero di Nietzsche significherà scoprire il carattere essenziale della nostra epoca come età della fine e del definitivo trionfo della metafisica.

L’analisi e l’esplicazione dell’interpretazione heideggeriana di Niet­zsche richiedono dunque che si chiarisca: 1) in che senso Heidegger parla della storia della metafisica e di un suo compimento; 2) quali sono i temi essenziali del pensiero di Nietzsche e quali le linee dello sviluppo storico della metafisica, che in tale pensiero confluiscono e si concludono; 3) che rapporto c’è tra compimento della metafisica e civiltà contemporanea, per cui si possa dire che Nietzsche, come pensa­tore che conclude la metafisica, è anche il profeta del mondo odierno. Non entra in questo schema, come si vede, la discussione del valore

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storiografico dell’interpretazione di Heidegger, per i motivi che già si sono detti; e il confronto, che pure si potrebbe utilmente tentare, fra l’itinerario teoretico di Heidegger e quello di Nietzsche sarà solo accen­nato, perché svilupparlo implicherebbe un riesame del senso di tutta l’opera di Nietzsche che non si può ovviamente fare in questa sede 4.

1. Storia e storia della metafisica nel pensiero di Heidegger

Chi sia Nietzsche, non ce lo potrà mai dire una narrazione storica della sua vita, né una esposizione del contenuto dei suoi scritti... Né lo potre­mo sapere se ci riferiremo soltanto alla sua personalità e alla sua figura storica (N I, 473; cfr. II, 239).

È del resto ciò che Nietzsche stesso ha voluto dire in Ecce homo: « Warum ich ein Schicksal bin? ». Nella visione heideggeriana di Nietz­sche, come in Ecce homo, « non si tratta della biografia di Nietzsche, né della persona del signor Nietzsche, ma propriamente di un destino; non però della sorte di un singolo, ma della storia dell’era moderna come epoca finale dell’Occidente » (N I, 474).

Questo atteggiamento e questo richiamo al destino, la cui fondazio­ne è per lo meno problematica o soltanto implicita in Nietzsche, si radica invece in Heidegger nella sua visione della storia come storia dell’essere. La condizione preliminare per capire chi sia Nietzsche, dice ancora Heidegger,

è prescindere dall’uomo e ugualmente dall’opera, nella misura in cui questa viene vista come espressione dell’umanità, cioè nella luce dell’uo­mo. Giacché la stessa opera come tale ci rimane inaccessibile finché la consideriamo mantenendo lo sguardo sulla vita dell’uomo che l’ha prodot­ta, invece di porci il problema dell’essere e del mondo in cui soltanto si trova il fondamento di quest’opera (N I, 474).

Il termine « mondo » non deve trarre in inganno; si tratta qui di ben altro che duna relativazione dell’opera e della personalità al mon­do storico, economico o politico, in cui essa sorge: basterebbe l’uso del termine essere insieme a quello di mondo 5, e poi il richiamo a mettere

* Spunti molto stimolanti per una ricostruzione del pensiero di Nietzsche in chiave heideggeriana, per quanto non nel senso della interpretazione esplicita che di Nietzsche dà Heidegger stesso, si trovano in K. U lm er, Orientierung über Nietzsche, in « Zeitschrift für philosophische Forschung », 1958, 481-506 e 1959, 52-84. Si veda inoltre J. Stambaugii, Untersuchungen zum Problem der Zeit bei Nietzsche, L ’Aia 1959.

5 Circa il significato ontologico dell’In-der-Welt-Sein, cfr. HB 17 [280-281],

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CHI È IL N IETZSCH E DI HEID EG G ER 17

da parte « l’umanità » nella considerazione storica. Lo studio della personalità del pensatore o dei contenuti specifici dell’opera non ci può dare una vera visione storica perché nessun pensatore che sia veramen­te tale ha scelto o sceglie la propria strada. Un pensatore è infatti uno di coloro « che non hanno scelta, ma piuttosto devono [müssen\ di­re ciò che Tessente è nei vari momenti della storia del suo essere »

(N n ’ 37)\I pensieri fondamentali intorno a cui si articolano le grandi opere filosofiche

non sono mai la pura e semplice veduta di un singolo uomo; meno ancora sono una espressione del suo tempo, come troppo spesso si usa dire. In questi pensieri... risuona piuttosto la storia ancora ignota dell’es­sere in una parola che è anche il linguaggio dell’uomo nella sua storicità (N II, 43-44).

L ’espressione più chiara della prospettiva che in queste proposizioni si rivela è il famoso passo del Brief über den Humanismus sul pensiero come pensiero dell’essere:

II pensiero è il pensiero dell’essere, Il genitivo significa due cose. Il pensiero è proprio dell’essere in quanto, come istituito dall’essere [vom Sein ereignet], gli appartiene. Il pensiero è ugualmente pensiero dell’esse­re in quanto il pensiero, appartenendo all’essere, presta orecchio all’esse­re (HB 7 [270]) &.

Entro questa prospettiva del pensiero come evento dell’essere vanno inquadrati i numerosi passi in cui Heidegger presenta Nietzsche come necessario compimento della metafisica occidentale, punto di arrivo di una storia che ha al suo « principio » (che non equivale semplicemente a inizio) l’oblio del concetto di verità come àXrjìkia e l’affermarsi del concetto di verità come conformità. Questo oblio stesso, come dice ancora il Brief, non è un fatto che dipenda da un comportamento dell’uomo (HB 18 [282]). In realtà la storia del pensiero, e più in generale la storia tout court, non è principalmente storia dell’uomo e delle sue decisioni, ma storia dell’essere: contro Sartre, che identifica esistenzialismo e umanismo e vuol porsi su un piano in cui ci sono soltanto gli uomini, Heidegger rivendica la preminenza dell’essere: « non è l’uomo l’essenziale ma l’essere come dimensione dell’estaticità

l' Per il pensiero come pensiero dell’essere cfr. Hw 303 [306]: il Denken è un Dichten, ma non nel senso della poesia (Dichtung) come fatto specifico; giacché « das Denken sagt das Diktat der Wahrheit des Seins ».

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dell’esistenza... Précisément, nous sommes sur un plan où il y a principa­lement l’Être (HB 22 [287])7.

Questa presa di posizione ontologica che sta alla radice della visione heideggeriana della storia e della storia del pensiero è parsa a molti interpreti la sostanza stessa della Kehre seguita a Sein und Zeit, nel senso di un tradimento delle premesse « esistenziali » di quell’opera s. Tuttavia, è innegabile che la preoccupazione dominante di Heidegger, in Sein und Zeit, era già quella di studiare le strutture dell’esistenza per aprirsi la via a una ontologia. Il piano stesso dell’opera presuppone la distinzione tra essere ed essente: l’analitica esistenziale è indispensa­bile per fondare una ontologia generale proprio in quanto con Tessere non vengo in rapporto come con gli oggetti, ma anzi il mio rapporto con l’essere è più fondamentale, è esso che rende possibile l’istituzione di quel progetto entro cui soltanto il mondo delle cose e delle altre persone mi si apre. Solo in quanto Tessere non si identifica con Tessen­te Tanalitica esistenziale è un passo indispensabile per la fondazione delTontologia. Le opere seguite a Sein und Zeit sono tutte un tentativo di esporre, appunto, quell’ontologia: si tratta di andare non al di là, ma più a fondo rispetto a Sein und Zeit. Si potrebbe schematizzare: alla base del mondo delle cose e degli enti c’è l’esistenza; ma alla base dell’esistenza c’è Tessere, che rende possibile il pensare e Tuomo stesso (cfr. HB 7-8 [270-271]). Parallelamente, la radicalizzazione della pro­blematica diltheyana della storicità (la storia ricondotta alla temporali­tà come struttura originaria dell’esistenza) subisce una radicalizzazione ulteriore, poiché la storicità-temporalità dell’uomo viene ricondotta alla storicità dell’essere 9, che, in quanto non dipende dalla decisione uma­

7 Sulla storia dell’essere come primum si ricordi l’importante passo di WD 34 [84], dove è chiaro che il pervenire a un nuovo rapporto con l’essere non dipende principalmente dairuomo stesso. E detto infatti che Tuomo deve cercare di porsi in un nuovo rapporto con Tessere, « soweit es an ihm liegen darf », « per quanto dipende da lui », ciò è chiarito in Hw 309 [312], dove ciò che Tuomo può fare sembra sia mantener desta l’attenzione alla Wirnis, alla confusione e all’oblio dell’essere in cui si trova, in modo da preparare, ma solo negativa- mente e con l’attesa, una nuova possibile epoca dell’essere.

8 L ’esistenza di una frattura nel pensiero heideggeriano è sostenuta da molti autorevoli interpreti, primo fra tutti il L ow ith (Heidegger. Denker in dürftiger Zeit, cit.). Si vedano inoltre, tra gli italiani, il volume L'ultimo Heidegger di P. Chiodi, cit., e l’articolo, già ricordato, di P. Rossi. Le difficoltà dell’ontologia heideggeriana sono messe in rilievo anche dallo Schlawin, art. cit., specialmente 588 e ss. A dimostrare Ja coerenza del pensiero heideggeriano è invece dedicata l’opera citata di P. F ürstenau, Heidegger. Das Gefüge seines Denkens. Contro l’esistenza di una frattura tra la filosofia « esistenziale » di Sein und Zeit e gli sviluppi ontologici delle opere posteriori è anche H. O tt nel cit. Denken und Sein. Quest’opera costituisce uno degli studi più utili e penetranti sull’insieme del pensiero heideggeriano.

9 Su ciò cfr. H. O t t , op.cit., 106-107, e L. L andgrebe, op. cit., 114-115.

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na, è destino (Geschichte come Geschick). Anche la concezione dell’es­sere come destino, se da un lato, come si vedrà, è connessa al pensare Tessere secondo la struttura della temporalità autentica, d altro lato discende direttamente dall’impossibilità di identificare Tessere con gli essenti e di farlo dipendere dalla decisione dell’uomo: « es gibt Sein » (si dà, il y a, Tessere) e non: « das Sein ist » (HB 22 [287]), perché in questo caso Tessere diventa un essente fra gli altri, magari Tessere sommo, o il genere supremo. « Quel che dà, nel si dà, è Tessere stesso » {ibid.).

I modi in cui avviene questo darsi dell’essere, la sua storia, non dipendono da qualche decisione di un ente, ma sono il suo destino stesso. Dell’essere quindi non posso parlare come d’una cosa che mi stia di fronte, perché anch’io ci sono dentro; anche il mio pensiero e il mio parlare stanno nelTessere: in quanto sono appartengono non prima di tutto alla storia dell’uomo, ma alla storia dell’essere 10. Posto così il problema, si tratterà di giustificare la possibilità di un discorso valido e rigoroso sull’essere: ma intanto il rapporto del discorso con Tessere è originariamente garantito dal fatto che il pensiero è, è un evento dell’essere stesso. Così il genitivo oggettivo, pensiero dell’essere, si fonda sul genitivo soggettivo, pensiero che in quanto è appartiene alTessere e perciò sta in rapporto con esso. Anche Terrore, naturalmen­te, è un evento della storia dell’essere: a ciò si connette la concezione della verità come disvelamento che implica e suppone sempre anche un celarsi dell’essere.

Quali sono, più specificamente, le conseguenze di questa prospettiva ontologica sulla concezione della storia? Qui viene in luce un altro importante aspetto della coerenza della speculazione posteriore con Sein und Zeit\ la storia dell’essere, cioè, è pensata secondo il modo della temporalità autentica. Una struttura scoperta nell’analitica esisten­ziale viene applicata alla determinazione di un carattere dell’essere stesso. Mi pare questo il senso di un filone di pensieri indicato dalle considerazioni seguenti.

Si continua a pensare che la tradizione sia davvero passato e soltanto oggetto della coscienza storica. Si continua a pensare che la tradizione sia ciò che davvero noi abbiamo dietro le spalle, mentre invece essa viene verso di noi [auf uns zukommt\, giacché noi siamo consegnati ad essa e posti dal destino in essa (WD 71 [I, 134]).

10 L ’espressione « storia dell’essere » ritorna in molti luoghi dell’opera heideggeriana; si vedano per esempio i titoli dei capitoli V ili e IX del Nietzsche: Die Metaphysik als Geschichte des Seins e Entwürfe zur Geschichte des Seins ah Metaphysik. Si veda anche HB, passim.

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In queste righe vengono opposti due possibili modi di vedere la storia, che altrove Heidegger caratterizza come historisch e come geschi­chtlich. Il modo di conoscenza historisch è quello preoccupato di stabili­re i nessi, la concatenazione degli eventi: ma « ciò che accade, non è mai conoscibile istorialmente [historisch] » (N I, 480). La ragione di ciò è che, mentre la storia è storia dell’essere, la Historie la rappresenta invece semplicemente e principalmente come storia di essenti. Caratte­ristica della Historie è la rappresentazione del rapporto storico come « concatenazione di dipendenze e di relazioni » (N I, 497). Questo tipo di conoscenza storica è fondato, in Sein und Zeit, sulla struttura della temporalità inautentica o banale: nella interpretazione volgare del tempo,

il tempo si presenta, innanzitutto, come una serie ininterrotta di ora. Ogni ora è già anche un or ora e un fra poco... Questa teoria del tempo [scil. : come infinito nelle due direzioni] è possibile solo sul fondamento di un orientamento nelVin sé astratto di uno scorrimento di ora concepito nel quadro della semplice presenza (SuZ 424; it. 435 [602]).

Per l’esistenza inautentica, il passato è solo ciò che non c’è più, di cui si tratta di raccogliere le tracce nella ricerca storico-archeologica, tenendo ciò che è ancora utilizzabile o che in qualche modo agisce ancora nel presente, mentre il futuro è ciò che non è ancora qui. Sia Vor ora del passato che il fra poco del futuro vengono modellati sul presente come semplice-presenza, cioè come presentazione, che è il modo di essere inautentico del presente, proprio dell’esistenza che si progetta non a partire dalla propria possibilità più autentica, la morte, ma « a partire da ciò di cui si prende cura » (SuZ 337; it. 350 [490]). Questo modo di concepire il tempo e di conseguenza la storia come serie di ora non solo dà una immagine del passato modellata sul presente, ma distrugge il futuro nella sua più propria natura: « ogni Historie calcola l’avvenire in base alle immagini del passato determina­te attraverso il presente. La Historie è la costante distruzione del futuro e del rapporto storico all’avvento [Ankunft] del Geschick » (Hw 301 [304]).

L 'Historie rimane tuttavia un mezzo indispensabile per la conoscen­za del passato: essa solo non può costituire l’unico e definitivo rappor­to con la storia intesa come Geschichte.

La chiarificazione del rapporto autentico con la storia è però meno facile della determinazione della storicità inautentica. Questa maggior difficoltà dipende dal fatto che il rapporto autentico con la storia non può più essere descritto nell’ambito del linguaggio della metafisica: qui

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si urta proprio contro quei limiti che, secondo il Brief, avrebbero impedito la prosecuzione della ricerca e dell’esposizione di Sein und Zeit. E vero che Sein und Zeit dà un’analisi esauriente della temporali­tà autentica: ma essa suscita una serie di problemi che possono essere chiariti solo in riferimento alla successiva esplicitazione della storia come storia dell’essere. L ’esistenza diventa autentica con la decisione anticipatrice che assume la morte come la possibilità più propria dell’es- serci. « L ’anticipazione della possibilità estrema e più propria è il comprendente rivenire sul più proprio stato. L ’esserci può autentica­mente essere stato solo in quanto è adveniente. L ’esser-stato \Gewesen- heit] scaturisce in certo modo dall’avvenire » (SuZ 326; it. 338 [475]).

Nella temporalità autentica è rovesciato il rapporto fra i momenti o estasi del tempo: non è più il presente che domina e modella la rappresentazione del passato e del futuro, ma viceversa: « Adveniente e riveniente su se stessa la decisione si porta, presentando [gegenivärti- gend], nella situazione. L ’esser stato scaturisce dall’avvenire in modo che l’avvenire che è stato (o meglio: essente stato) pone in essere il presente a partire da sé » (SuZ 326; it. 339 [476]).

Il diverso rapporto che si stabilisce tra i momenti del tempo dipen­de dal carattere della decisione anticipatrice: la decisione anticipa la morte, che è futura e possibile, ma in quanto è la possibilità autentica a cui non si può sfuggire è anche sempre passato, il passato come esser già così destinato a morire; e più in generale, assumere la propria possibilità autentica vuol dire progettarsi a partire da ciò che già sempre si è, cioè dal proprio passato, anche nel senso della storia in generale, inteso come destino.

L ’insistenza sulla storia come storia dell’essere e sul concetto di destino ha fatto ritenere a molti interpreti che la visione heideggeriana della storia sia una nuova forma di storicismo deterministico in qual­che modo paragonabile a quello hegeliano. La storia dell’essere appari­rebbe a Heidegger solo come un ritornare su ciò che già è stato, sicché la dimensione fondamentale del tempo sarebbe il passato. Una tale interpretazione può in effetti sussistere nei confronti di Sein und Zeit, proprio perché, di fronte all’analitica esistenziale, sta ancora l’essere pensato entro i termini della metafisica; l’analitica cioè non si è ancora completata nell’ontologia vera e propria, sicché la stessa esistenza au­tentica rimane difficile da capire nel suo significato. Rispetto all’essere come lo pensa la metafisica (cioè come presenza) l’atteggiamento più comprensibile e « naturale » è quello della Historie; la posizione auten­tica, non ancora connessa con la nuova prospettiva ontologica, finisce necessariamente per apparire come una forma di fatalismo e di determi­

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nismo storicistico. Solo quando diventi chiaro che l ’essere, in cui soltan­to Tesserci è possibile, ha una struttura « escatologica » ossia modella­ta sulla temporalità autentica, il rapporto autentico con la storia può non apparire più come l’assunzione fatalistica di un passato che è già stato fuori e prima della mia decisione e a cui io non dovrei che ritornare. Se la decisione anticipatrice è un fatto soggettivo, che concer­ne solo l’uomo, davanti a cui sta un fluire del tempo inteso come serie di momenti, di ora: passato, presente, futuro, in tal caso la decisione è davvero semplicemente l’accettazione di un già-stato da cui riconosco di essere determinato, il puro e semplice riconoscimento di una situa­zione in cui non posso non essere. Se la decisione anticipatrice viene invece concepita come un evento dell’essere la cui struttura è essa stessa modellata secondo la temporalità autentica, per cui non solo nella mia decisione, ma nell’essere stesso non c’è una serialità fra passato, presente e futuro, allora il problema di un ritorno di Heideg­ger a forme di determinismo storicistico, almeno formulato in questo modo, cade, e si pone invece quello dell’ulteriore chiarimento della struttura dell’essere a partire dalla temporalità autentica.

Che cosa significa, più precisamente, che Tessere è strutturato secon­do la temporalità autentica? Vale anzitutto, anche per la storia delles- sere, la distinzione tra vergangen e gewesen, che già si trova, con lo stesso senso ma applicata allesserei, in Sein und Zeit (328; it. 340 [478]): fare la storia del pensiero, dice il Brief non è mai il far presente un passato nel senso di vergangen (HB 23 [288]); è invece il riconoscimento di un esser-stato (gewesen) che, in quanto principio che deve arrivare alla sua piena Entfaltung, al suo dispiegamento, è ancora sempre da-venire:

Tesser stato [Gewesenheit] è la liberazione dell’essenza di ciò che solo apparentemente è passato [Vergangen], la tras-posizione [Übersetzung] del principio, solo in apparenza sprofondato definitivamente nell’ombra, nella sua principialità, attraverso la quale esso sorpassa tutto ciò che cronologicamente è venuto dopo di lui e cosi è adveniente [zukünftig] (N II, 9).

L ’assunzione autentica del passato lo pone nella sua Gewesenbeit, cioè lo libera nella sua vera essenza di principio che regge tutto ciò che viene dopo di lui e che quindi sta sempre ancora di là da tutto questo, come autentico futuro. Ma ciò che vale più in generale per il paralleli­smo fra temporalità autentica e storia dell’essere è la riduzione a unità delle tre estasi temporali: nella temporalità autentica, l’unità delle tre estasi temporali, che fonda il temporalizzarsi dell’esistenza, era la deci­

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sione anticipatrice e riveniente; nella struttura dell’essere, il posto della decisione è preso dal destino dell’essere stesso; dove il termine destino, a differenza che in Sein und Zeit, ha piuttosto un significato negativo, sta a indicare semplicemente che nella storia dell’essere non ce decisione nel senso in cui se ne parla per l’esistenza dell’uomo, o almeno questa decisione non è la stessa decisione umana, da cui la visione « umanistica » fa dipendere la storia e l’essere stesso: la decisio­ne umana, in quanto è nell’essere, è un evento dell’essere che deve trovare la sua fondazione nella struttura dell’essere stesso. Questa strut­tura, in quanto sta al di sopra delle singole decisioni, la chiamiamo Geschick. Come passato, presente e futuro della esistenza autentica si configuravano a partire dalla decisione e dall’attimo, opposto al presen­te come un essere-qui-ora della semplice-presenza (cfr. SuZ 338; it. 351 [491]), così i momenti della storia dell’essere si temporalizzano solo a partire dal Geschick: il Geschick non è quindi mai il passato che determina il presente e il futuro, perché entro la struttura originaria dell’essere non c’è ancora una disposizione seriale dei tre momenti; anzi, tale disposizione seriale, quella che domina la visione historisch della storiografia come « scienza positiva » è una struttura derivata e inautentica: il passato come vergangen deve liberarsi del passato come gewesen, che riporta i momenti successivi del tempo alla struttura dell’essere; la visione autentica della storia riconosce che « nella distan­za istoriale [tó/ome/?^cronologica della sentenza di Anassimandro si cela una vicinanza storica [geschichtlich] di ciò che in essa è inespresso e che parla nel futuro » (Hw 300 [303]).

Nel Geschick dell’essere è vero sia che il passato determina e domi­na il futuro, sia l’opposto, perché le estasi temporali hanno qui quel rapporto complesso della temporalità autentica che vieta l’assunzione di ima di esse come determinante rispetto all’altra in quanto preceden­te, su cui si fonderebbe una visione di Heidegger come storicista nel senso deterministico del termine. In realtà, se c’è qualcosa di assoluta- mente impossibile dal punto di vista di Heidegger, è proprio una visione storicistica e deterministica della storia, anche se molto spesso la sua opera parla della necessità di determinati compimenti storici: distrutta la serialità del tempo, o almeno riconosciuta come inautentica e derivata, diviene impossibile parlare di determinazione del presente e del futuro da parte del passato, e anche di sviluppo nel senso in cui questa nozione implichi una prospettiva di prima e dopo: il tempo non è la struttura dell’essere, si potrebbe dire, ma una struttura dell’essere; non nel senso che l’essere ne abbia altre, ma nel senso che è più originario, che il tempo si temporalizza solo a partire dal Geschick

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dell’essere11. Questo rovesciamento della visione «storicistica» del tempo è il carattere « escatologico » dell’essere: Y« una volta » del principio come inizio diventa 1’« una volta » di ciò che deve venire come ultimo, come pieno dispiegamento del principio nella sua princi- pialità: « L ’essere stesso, in quanto geschicklich, è in se stesso escato­logico... Se pensiamo a partire dalla escatologia dell’essere, dovremo aspettare Vana volta dell’inizio nell 'una volta del venturo, e impara­re a pensare luna volta [scil. : del passato] in questa prospettiva » (Hw 302 [305]).

Carattere escatologico dell’essere non significa altro che questo: i rapporti temporali vanno pensati unicamente a partire dal Geschick dell’essere, quindi non ordinati anzitutto in serie secondo il prima e il dopo, ma a partire dalla loro unità originaria.

Escatologico è anzitutto Tessere, ma anche le singole epoche stori­che come epoche dell’essere: nel saggio su Anassimandro pare si debba vedere Tecxcctov dell’epoca soprattutto come una fine (cfr. Hw 301 [304]); ma l’escatologia dell’essere, proprio per questo, indica anche sempre una nuova apertura: « La storia dell’essere non è mai passata (■vergangen), ma sempre imminente » (HB 5 [268]).

La povertà della nostra epoca consiste nel fatto che i vecchi dèi non ci sono più e i nuovi non ci sono ancora (cfr. EH 44 [57]). Il rapporto fra escatologicità dell’essere e escatologicità delle epoche non è un semplice rapporto di analogia: le epoche sono escatologiche in quanto sono destinate essenzialmente a compiersi nel dispiegamento finale del loro principio, mentre Tessere è escatologico proprio perché, in questo succedersi delle epoche, è sempre di là da venire. Ma, ancora, non si pensi che tra le epoche delTessere vi sia un qualche ordine progressivo inteso storicisticamente come ritornare dello spirito presso di sé o progressiva illuminazione della coscienza. In questa prospettiva, anzi, e entro questi precisi limiti, non sarebbe azzardato vedere il pensiero di Heidegger come il recupero di un aspetto essenzia­le delTescatologismo cristiano, contro la progressiva secolarizzazione che esso ha subito nella storia della cultura occidentale 12. L ’escatologia

11 Cfr. SvG 120: « Quando parliamo di storia dell’essere, tale discorso ha senso solo se pensiamo la storia in base al Geschick come sottrarsi (Entzug) dell’essere, e non invece se, all’opposto di questa e secondo il modo di pensare comune, ci figuriamo il Geschick in base alla storia intesa come un accadere che si svolge secondo un continuo processo di successione ».

12 La storia di questo processo di secolarizzazione dell’escatologia cristiana è ricostruita, com’è noto, da K. L owith in Weltgeschichte und Heilsgeschehen, Stoccarda 1953 [trad. it. col titolo Significato e fine della storia, Milano 1963]. Cfr. anche R. B ultmann, History and Escatology, Edimburgo 1957 (trad. it., Milano 1962).

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dell’essere è sostanzialmente identica alla sua epocalità e alla sua irridu­cibilità all’essente: epocale, infatti è Tessere in quanto ogni epoca, in senso storico, è una sua £7toxT), un suo sottrarsi mentre si dà e illumina Tessente: al fondo di un’epoca c’è sempre un certo rapporto fra Tessere e gli essenti (cfr. N I, 476). Questo rapporto definisce l’epoca, nel senso che domina tutte le manifestazioni di essa: la scienza, la morale, la tecnica, la filosofia. « Ogni epoca, ogni umanità storica- mente definita, è sorretta da una propria metafisica e attraverso questa posta in un determinato rapporto con Tessente nella sua totalità e quindi anche con se stessa » (N II, 34).

Va osservato che qui metafisica è da intendersi nel senso specifico che Heidegger dà a questo termine: non come nome generico indicante la filosofia, ma come nascondimento dell’essere mentre alla luce di esso si fa visibile Tessente (cfr. WM 7 [317-318]). La caratteristica della metafisica è la riduzione dell’essere all’essente, come ente supre­mo o come genere sommo, l’oblio dell’essere nella sua essenziale diffe­renza dall’ente. Che ogni epoca sia retta da una metafisica è dunque fondato sulla epocalità dell’essere nel senso del darsi-sottrarsi, e quindi sul suo carattere escatologico.

L’essere si sottrae in quanto si rivela nell’essente. Così Tessere si tiene presso di sé con la sua verità. Questo tenersi presso di sé è il modo originario del suo rivelarsi. Il segno originario del suo tenersi presso di sé è TàXridEia. In quanto essa porta il non-nascondimento delTessente, così fonda il nascondimento delTessere... Possiamo chiamare questo illu­minante tenersi presso di sé con la verità della sua essenza la etcoxt] dell’essere... Dall’epoca dell’essere viene l’essenza epocale del suo Ge­schick., in cui consiste Tautentica storia del mondo... Ogni epoca della storia del mondo è un’epoca dell’errare (Hw 311 [314-315]).

L ’errare è l’essenza della metafisica come oblio delTessere.Una difficoltà piuttosto grave circa il concetto heideggeriano della

metafisica nasce dal fatto che mentre Heidegger da un lato pone la metafisica, come erramento e oblio delTessere, alla base di ogni epoca della storia 13, dall’altro indica ripetutamente la nostra epoca, la cultura occidentale, come Tepoca della metafisica che, appunto in Nietzsche, giunge alla propria conclusione. Per un verso la metafisica è intesa come la forma generale della prepotenza delTessente sull’essere che è alla base di ogni epoca; per l’altro essa indica invece la forma specifica

13 Nel Nietzsche (II, 201), è detto esplicitamente che « la fine della metafisica [seti.: quella che si compie in Nietzsche] va pensata anzitutto come l’inizio della sua resurrezione in forme diverse ».

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che l’oblio dell’essere ha assunto nella nostra epoca, anzi questo oblio stesso in quanto carattere proprio della cultura occidentale. L’equivoco si risolve solo in parte quando si osservi che in realtà noi non conoscia­mo altre epoche che la nostra, e quindi possiamo rappresentarci il carattere generale della storia solo sul modello della nostra epoca. Il problema, in quanto rimane aperto, conduce a constatare un altro dei non pochi aspetti « religiosi » del pensiero di Heidegger (anche se non nel senso della religione positiva), giacché se la metafisica è carattere generale della storia, allora non è possibile storia se non come erramen- to e lontananza dall’essere 14. L ’oblio dell’essere non è altro che la radice stessa di ciò che altri filosofi hanno chiamato alienazione 15 ; sicché la fine dell’alienazione non è mai possibile nella storia, come evento storico: il che conclude la parabola antistoricistica del pensiero di Heidegger; e spiega anche la difficoltà di pensare in termini com­prensibili il nuovo rapporto con l’essere che dovrebbe condurci fuori dall’epoca della metafisica: giacché questo nuovo rapporto, per defini­zione, o sarà una nuova forma di metafisica o non sarà nulla di storica­mente determinabile. La Dürftigkeit, da carattere di una particolare epoca, diventa carattere costitutivo del tempo e della storia. La stessa estaticità dell’esistenza viene ricondotta in ultima analisi all’epocalità dell’essere: « Il carattere estatico dell’esserci è il nostro primo modo di corrispondere al carattere epocale dell’essere. L ’essenza epocale delles- sere istituisce l’essenza estatica dell’esserci » (Hw 311 [375]).

L ’essere è così quel « trascendens assolutamente » di cui parla Sein und Zeit; e il pensiero è anzitutto un accorgersi che noi ancora non pensiamo, in quanto non pensiamo l’essere (cfr. WD 1-8 [I, 37-46]); ma Yancora non può avere un senso temporale, se la trascendenza assoluta dell’essere va mantenuta.

2. Nietzsche come compimento della metafisica

Questa premessa sul concetto della storia era necessaria perché in tale concetto si riassume e si risolve gran parte della interpretazione heideggeriana di Nietzsche come compimento della metafisica. S’inten­

14 H. Ot t , nel già citato Denken und Sein, per quanto metta bene in luce il carattere profetico del pensiero di Heidegger (127-28), sembra perdere di vista quest’altra, più vasta, possibile apertura religiosa: ciò perché egli non mette abbastanza in rilievo il fatto che la metafisica non è solo carattere della nostra epoca, ma della storia in generale.

13 Cfr. HB 27: « Ciò che Marx, in un senso essenziale e significativo che risale a Hegel, ha chiamato alienazione dell’uomo, getta le sue radici fin nell’essere senza patria proprio dell’uomo moderno ». Dove la Heimatlosigkeit, l’essere senza patria, corrisponde a ciò che Heidegger chiama più di frequente oblio dell’essere.

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de anzitutto che quando Heidegger definisce Nietzsche compimento della metafisica, non pensa la metafisica come carattere di ogni epo­ca della storia, ma come carattere della nostra epoca che comin­cia con la speculazione greca. Segnalo questa ambiguità solo per chiari­re che d’ora in avanti intenderò per metafisica l’insieme del pen­siero occidentale quale secondo Heidegger viene a conclusione in Nietzsche.

Mi sembra opportuno, per chiarezza espositiva, dividere questa par­te dello studio in due momenti, che Heidegger non distingue e non potrebbe distinguere: cercherò in un primo momento di definire quali sono secondo Heidegger i temi fondamentali del pensiero di Nietzsche e la loro connessione; quindi esporrò come in questi temi e nella loro connessione confluiscano e si concludano le linee principali di sviluppo della metafisica occidentale.

Una difficoltà che si incontra nello studiare l’interpretazione heideg­geriana del pensiero di Nietzsche, e in genere i lavori storici di Heideg­ger, è il fatto che per lui non si può parlare della ricostruzione di un pensiero come svolgersi di problemi, logicamente o storicamente conca­tenati: così non si può dire, per esempio, quale sia il problema da cui, secondo Heidegger, Nietzsche muove.

Anche questo fatto è coerentemente connesso con la visione hei­deggeriana della storia del pensiero come storia dell’essere: un pensa­tore non è prima di tutto e fondamentalmente in rapporto con una serie di problemi che egli trova nella situazione storica del tempo e nella tradizione filsofica, ma invece con l’essere che regge e domina quella storia e quella tradizione come propria; egli non è tanto solutore di problemi, quanto voce dell’essere che attraverso di lui si rivela e insieme si nasconde, secondo la struttura propria della sua storia. Sicché la ricostruzione di un pensiero non è tanto la ricerca dei problemi da cui muove e che via via risolve, ma piuttosto la scoperta del « pensiero fondamentale » che domina una personalità filosofica e ne determina il significato nella storia dell’essere. Un pensatore pensa fondamentalmente sempre un unico pensiero: « Chiamiamo pensatori quegli uomini... che sono determinati a pensare un unico pensiero a differenza di scrittori e studiosi, Ì quali hanno sempre molti e diversi pensieri » (N I, 475). Qual è il « pensiero unico » o « pensiero fonda- mentale » intorno a cui si costruisce la filosofia di l'sfietzsche? È l’idea dell’eterno ritorno delPuguale o, che è lo stesso, l’idea della volontà di potenza.

Volontà di potenza ed eterno ritorno sono solo due di quelli che

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Heidegger considera gli Haupttitel della filosofia di Nietzsche. Ecco come egli caratterizza questi Haupttitel:, Volontà di potenza, nichilismo, eterno ritorno dell’uguale, superuomo, giu­

stizia, sono le cinque espressioni fondamentali della metafisica di Nietz­sche. La volontà di potenza indica Tessere dell’essente come tale, Yessen- tia delTessente. Nichilismo è il nome che indica la storia delTessente così definito. Eterno ritorno dell’uguale è il modo in cui Tessente nella sua totalità è, Yexistentia delTessente. Il superuomo caratterizza Tumanità quale Tessente nella sua totalità la esige. Giustizia è Tessenza della verità delTessente come volontà di potenza. Ognuna di queste espressioni dice quel che dicono le altre. Ma solo se quel che esse dicono è pensato unitariamente è possibile comprendere a fondo il significato di ciascuna (N II, 259-60).

Vediamo rapidamente i capisaldi di questa interpretazione heidegge­riana. Il nichilismo costituisce l’esperienza fondamentale di Nietzsche. Esso è la storia del processo attraverso cui Tessente nella sua totalità si rivela come Wille zur Macht, come volontà di potenza. « Il nichilismo è il processo di svalutazione dei valori supremi » (N IX, 55).

Più in generale, secondo Nietzsche, il nichilismo è una storia che riguarda « i valori, la posizione [.Ansetzung] dei valori, la loro svaluta­zione, la trasvalutazione dei valori, la nuova posizione di valori e, in definitiva, e più fondamentalmente, lo stabilire un diverso principio di ogni valutazione \W ertsetzung] » (Hw 209 [207]).

L ’esperienza del mutare delle prospettive metafisiche e delle conce­zioni filosofiche, che Nietzsche vede sotto il profilo del valore, è il punto di partenza per la scoperta del carattere dell’essente nella sua totalità come volontà di potenza. La volontà di potenza non va pensata infatti come un che di psicologico che concerna solamente l’uomo: essa, conformemente al carattere metafisico del pensiero di Nietzsche (e proprio di ogni metafisica è definire Tessere dell’essente nella sua totalità, cioè che cosa è Tessente in quanto tale), indica la « generale costituzione dell’essente » (N I, 424: die durchgängige Verfassung alles Seienden). Il nichilismo come storia della posizione e della svalutazio­ne dei valori rivela che Tessenza dell’essente sta proprio in questo costruire delle prospettive che via via vengono superate. In quanto riguardano Tessente in generale, il concetto di volontà di potenza e quello di eterno ritorno dell’uguale non si possono dimostrare nel senso comune e scientifico del termine: ad essi si addice piuttosto il termine di fede. E questa è resa necessaria dall’esperienza della storia della filosofia occidentale come nichilismo, dove necessario è not-wen-

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dig, il manifestarsi cioè del bisogno (Not) di un cambiamento {Wende), che sarà appunto l’idea dell’eterno ritorno (e della volontà di potenza) come Gegenglaube che, almeno secondo Nietzsche, deve rovesciare il nichilismo e superarlo (N I, 434-35). Il superamento del nichilismo non consiste nel porre valori nuovi e diversi da quelli tradizionali, perché con ciò si rimane nella corrente del nichilismo come tale; il problema è invece quello di trovare un nuovo luogo dei valori, cioè il vero modo di valere dei valori stessi. Non più collocare i valori, come ha fatto la tradizione, in un mondo di là da questo (il platonismo come essenza della tradizione occidentale, ivi compreso il cristianesimo che per Nietzsche è solo una forma di platonismo volgarizzato), ma ricon­durli alla volontà di potenza che li pone e li toglie, superandoli (N II, 87-89), in un continuo processo a cui Nietzsche dà il nome di eterno ritorno dell’uguale.

La volontà di potenza come carattere generale delTessente si può pensare anche come vita, e Nietzsche usa spesso i due concetti come equivalenti; ma non per questo si può chiamare la sua filosofia « biolo- gismo », almeno nel senso che la biologia come scienza speciale costi­tuisca il modello della metafisica, perché anzi il concetto di volontà di potenza è prima di tutto legato alla storia della metafisica occidentale, e semmai il fatto che abbia potuto presentarsi come biologismo va visto come significativo di un evento che riguarda anzitutto la storia della metafisica e la storia dell’essere (cfr. N I, 517-27). Il concetto di vita può però servirci a capire che cosa Nietzsche (e Heidegger) inten­de per volontà di potenza: Nietzsche vede l’essenza della vita non, come il positivismo del suo tempo, nella conservazione di sé e nella lotta per l’esistenza, ma nella Steigerung, nell’accrescimento oltre i propri limiti (N I, 488). Steigerung significa però che non ce un termine a cui la volontà di potenza tenda come a punto di arrivo fisso. Lo stesso concetto è espresso dal termine volontà di potenza: potenza infatti non significa in fondo qualcosa di diverso dal volere, perché anzi essa, in quanto non è un puro tendere indefinito (Streben), è un ordinare che dispone effettivamente di certe possibilità e dispone anzi­tutto di sé, comanda quindi alle cose e a sé, « comprende sé stesso nel compito che si è assegnato » {[Wille ist das Sichzusammennehmen in das Auf gegebene]-, Hw 216 [214-215]).

Volontà di potenza è sinonimo di volontà di volere; la volontà vuole se stessa, e il volere è il suo voluto [ibid.). In questa essenza della volontà di potenza si radicano le sue due forme supreme, che sono la conoscenza e l’arte. Per potersi continuamente accrescere e superare, la volontà di potenza ha bisogno di porre dei punti fermi oltre cui andare

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e insieme di figurare delle possibilità di nuove posizioni: oltre la Steigerung., e proprio per rendere possibile questa, l’essenza della volon­tà di potenza implica dunque la Erhaltung, la conservazione, il manteni­mento e la stabilizzazione di ciò che via via si raggiunge.

La verità è la condizione della conservazione della volontà di potenza... La conservazione resta fondamentalmente subordinata all’accrescimento. L’accrescimento va sempre oltre ciò ch’è conservato e il conservare; ma non attraverso una mera aggiunta di potenza. Il più della potenza consi­ste nel fatto che l’accrescimento apre nuove possibilità di potenza... Nell’accrescimento della potenza così inteso trova il suo pieno compimen­to il superiore concetto dell’arte (N II, 315).

La conoscenza e la verità rimangono concepite dunque secondo la tradizione della metafisica occidentale: vero è ciò ch’è fisso, conoscere il vero significa conoscere qualcosa di stabile. Ma questo stabile è solo il prodotto di una stabilizzazione, e la verità come stabilità diventa una condizione necessaria al dispiegarsi della volontà di potenza, che la pone per potersi accrescere. Come la Erhaltung è subordinata alla Steigerung, così la verità non è il valore supremo: al di sopra di essa sta l’arte, che è l’attività di apertura di nuove possibilità in cui la volontà di potenza si realizzerà. L ’arte non va intesa come limitata a quella che ordinariamente è indicata come attività estetica, la produzio­ne e la fruizione dell’opera d ’arte: essa va vista come un fatto più generale, obiettivo, come la capacità stessa della vita di darsi nuove forme, che trascende l’attività specifica dell’artista. Questo è il senso in cui Nietzsche dice che il mondo è un’opera d’arte (cfr. N II, 316). Un’opera darte, si badi, che si fa da se stessa: la volontà dì potenza non ha una sede privilegiata nell’uomo, è un carattere generale della vita, la quale per essere quello che è, cioè anzitutto Steigerung, deve ritagliarsi un orizzonte, costruirsi una prospettiva, cioè un insieme di condizioni di conservazione-accrescimento che sono appunto i valori (cfr. N I, 573-74). Il mondo come volontà di potenza non è altro che un insieme di prospettive sul mondo.

Poiché la volontà di potenza è in ultima analisi volontà di volontà, e cioè costante ritorno su se stessa, l’idea deH’etemo ritorno dell’eguale, che in Nietzsche, cronologicamente, si fa luce prima che quella del Wille zur Macht (ciò si spiega, secondo Heidegger, col fatto che nor­malmente un pensatore pensa, di un’idea, prima la Vollendung.„ il signi­ficato ultimo, e poi la portata generale: cfr. N I, 481-82), il Wille zur Macht è il modo in cui Tessente come tale esiste come volontà di potenza, Yexistentia di quella essenza dell’essente nella sua totalità.

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Con questa interpretazione Heidegger porta uno dei contributi specifi­ci più notevoli al chiarimento dei testi nietzscheani, in cui il rapporto fra Wille zur Macht e ewige Wiederkehr costituisce uno dei problemi meno facilmente risolvibili. La base per l’interpretazione del rapporto in tale senso è costituita dalla minuziosa esegesi di un passo di Also sprach Zarathustra {libro III: Vom Gesicht und Rätsel) a cui Heideg­ger dedica molta parte del secondo corso (Die ewige Wiederkehr des Gleichen: N I, 255-472). In esso ancora non si parla di volontà di potenza, ma l’eterno ritorno dell’uguale è rappresentato in una visione di sogno da due strade che si saldano a circolo sotto una porta su cui è scritta la parola Augenblick, attimo. Questo attimo (che, come appare dalla storia del pastore e del serpente dello stesso capitolo di Zarathu­stra è l’attimo della decisione) è quello in cui si stabilisce, si attua— proprio nel senso in cui Vexistentia attua una essentia — la volontà di potenza come eterno ritorno dell’uguale. UAugenblick nietzscheano non è dunque il momento storico del superamento del nichilismo (co­me è implicito nella interpretazione del Lowith), né, come pure si può forse ritenere, il salto fuori del tempo di una decisione che si mette in immediato rapporto con l’eternità; è semplicemente l’atto con cui la volontà vuole se stessa e perciò si attua come eterno ritorno.

La struttura di una posizione metafisica implica sempre, oltre alla definizione dell’essenza dell’essente nella sua totalità, anche una deter­minazione della posizione dell’uomo tra gli essenti e dell’essenza della verità: nella metafisica di Nietzsche, la posizione dell’uomo nel mon­do come volontà di potenza è indicata dal concetto di Übermensch. Uüber non indica il porsi al di sopra di una qualche essenza dell’uomo definita una volta per tutte, e neanche ha il senso estetistico o politico dell’uomo che si mette al di sopra degli altri nella morale o nella lotta per il potere; ciò oltre cui l’Übermensch va è l’uomo come è stato finora, l’uomo della storia del nichilismo. Il superuomo è caratterizzato dal pessimismo dei forti, che « penetra analiticamente i fenomeni e postula la presa di coscienza delle condizioni e delle forze che sono necessarie per dominare nonostante tutto la situazione storica » (Hw 207 [205]).

Il superuomo è dunque l’uomo che ha riconosciuto la volontà di potenza come essenza delPe ssente e come unico fondamento dei valori, e vive e costruisce in mezzo alla realtà così lucidamente concepita.

Quanto all’essenza della verità, essa è definita in Nietzsche come Gerechtigkeit, giustizia: è questo il quinto Haupttitel della metafisica di Nietzsche, secondo lo schema che abbiamo riportato. Gerechtigkeit significa letteralmente giustizia, ma non ha nulla da fare con le nostre

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concezioni tradizionali della giustizia, legate alla morale. Nello stabilire le condizioni della propria Steigerung.» una delle quali, essenziale, è la verità come fissazione e stabilizzazione, la volontà di potenza costrui­sce, discerne, distrugge i6> stabilisce insomma ciò che per essa vale o non vale come condizione di accrescimento: la giustizia è proprio que­sta attività. L ’essenza della verità è l’essere giustificati così davanti alla volontà di potenza e dalla volontà di potenza stessa.

Questa ricostruzione della struttura del pensiero di Nietzsche è sche­matica non solo per esigenze di esposizione: essa, se rimane a questo punto, non può avere per Heidegger alcun significato. È una ricostruzio­ne puramente historisch, e quindi inautentica. Il modo autentico di porsi di fronte a Nietzsche, come di fronte a ogni pensatore, è quello che Heidegger chiama denkerisch, e cioè, poiché il pensiero è pensiero dell’es­sere, quello che vede Nietzsche nell’ambito della storia dell’essere, e quindi della storia della metafisica e in vista del suo superamento. Nello schema che si è visto, i vari concetti non possono risultare sufficiente- mente chiari neanche da un punto di vista meramente storiografico: quel che essi significano, quel che Nietzsche davvero è stato, ce lo dice solo una prospettiva che inserisca l’opera di Nietzsche nella storia della metafi­sica. « Nietzsche è il passaggio dalla fase preparatoria della modernità [Neuzeit] — cioè, in termini storiografici, il periodo compreso tra il 1600 e il 1900— all’inizio della sua conclusione» (N I, 477).

Ma, in quanto l’epoca moderna è connessa, per il dominio di una prospettiva metafisica unitaria, al medio evo e all’antichità classica, Nietzsche è il compimento non solo della metafisica moderna, ma della metafisica in generale e quindi della storia dell’Occidente che dalla metafisica è determinata (cfr. N II, 192). Tutto ciò diventa comprensi­bile solo quando si metta in luce come tutti i principali filoni di sviluppo che Heidegger individua nella storia della metafisica conflui­scano unitariamente in Nietzsche, non solo, ma vi trovino la propria conclusione, cioè l’ultimo definitivo sviluppo delle loro interne possibi­lità, oltre cui non sarà più possibile andare. Alla storia della metafisica occidentale è dedicato quasi interamente il secondo volume del Nietz­sche heideggeriano, oltre a numerose pagine del primo, e ciò confer­ma come per Heidegger riflettere su Nietzsche equivalga a ripensare tutta la storia della metafisica 17.

16 Cfr. F. N ietzsch e, Werke, ed. Naumann, Lipsia 1894 ss., vol. XIII, 42 (il rimando è di Heidegger stesso; cfr. N II, 322).

17 Heidegger ha ripreso più volte e da punti di vista diversi la questione della storia della metafisica, sia illuminandone momenti o aspetti speciali, sia studiandone la struttura elo sviluppo complessivi. Riesce difficile sintetizzare e ordinare tutto questo materiale: un quadro abbastanza completo è quello che dà J. W ahl, Sur l’interprétation de l ’histoire de la

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La metafisica nasce e si sviluppa come oblio dell’essere e messa in primo piano delPessente come tale:

Essa pensa Tessente in quanto tale. In ogni caso in cui viene posto il problema di che cosa sia Tessente, è Tessente come tale che sta davanti agli occhi. II pensiero metafisico deve questa visione delTessente alla luce dell’essere. La luce, cioè quello che un tale pensiero sperimenta come luce, non viene però più alla vista di esso: giacché esso si pone davanti [vor-stellt] sempre solo Tessente e dal punto di vista delTessente (WM 7 [37-38]).

In quanto è un evento della storia dell’essere, la metafisica non può considerarsi un errore nel senso usuale della parola; anzi, essa « è la verità sulPessente come tale nella sua totalità » (N II, 193). Ogni metafisica istituisce un certo rapporto fra Tessere e Tessente, anche se dimentica costantemente l’essere: in quanto nasce come problema del­l’essere delTessente (di ciò per cui Tessente è tale), essa si fonda sempre sulla differenza tra Tessere e Tessente, ma subito vi si sottrae e la dimentica (cfr. N II, 208). Il rapporto che la metafisica stabilisce tra essere ed essente, il progetto di ciò che essa chiamerà Tessere delTessen­te (o essentità delTessente) è « gettato », nel senso che non è una decisione dell’uomo, un suo arbitrario modo di rappresentarsi la realtà, ma un evento dell’essere stesso 18 : in questo senso la metafisica è verità, in quanto è il modo di svelarsi-celarsi dell’essere in un momento della sua storia (cfr. N II, 235). Ma è proprio il problema dell’essere come tale che la metafisica non pone e lascia indeterminato (cfr. N II, 459): per questo la metafisica « è il vero nichilismo » (N II, 350), poiché la vera essenza del nichilismo non è, come riteneva Nietzsche, la svalutazione dei valori supremi, ma l’oblio dell’essere. « L ’essenza del nichilismo è la storia in cui dell’essere non ne è più nulla \_es mit dem Sein selbst nichts ist] » (N II, 338).

In ciò, il nichilismo coincide con la metafisica. Paradossalmente, si può anche dire che il nichilismo consiste proprio nel non aver posto il problema del nulla (N II, 54), nel senso in cui per Heidegger il

métaphysique d’après Heidegger, Parigi 1951; che però, per il fatto d’essere la raccolta degli appunti di un corso universitario, e più ancora per il carattere della materia stessa, ha una fisionomia alquanto frammentaria. Meno complete, ma più organiche, le sintesi che presen­tano il L angan, op. cit., capp. VIII-X; lo O tt , op. cit., 105-127; il F ürstenau, op. cit., 101-164. Per questa esposizione io seguo soprattutto il volume i l del Nietzsche, in particola­re i capp. V ili e IX, già ricordati.

18 II concetto di « progetto gettato » di Sein und Zeit va interpretato, secondo il Brief, nel senso che « chi getta, nel progetto, non è l’uomo, ma l’essere stesso » (HB 25 [290]).

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problema del nulla coincide con l’autentico problema dell’essere 19. Come Nietzsche, anche Heidegger considera dunque il nichilismo co­me la vera sostanza della storia della filosofia e della civiltà occidenta­le, ma in un senso diverso e più radicale. Il venire in luce dell’essente come volontà di potenza, in cui culmina la storia della metafisica come nichilismo, è insieme l’estremo allontanarsi dell’essere come luce entro cui Tessente solo può rivelarsi. La volontà di potenza, per la quale la verità è solo un valore, cioè una condizione di conservazione-accresci­mento, rappresenta il punto di arrivo e il culmine della prepotenza dell’essente sull’essere: non è più la verità dell’essere (come luce) che fonda e rende possibile Tessere della verità (cioè l’illuminarsi degli essenti), ma semmai è l’opposto. L ’oblio dell’essere è completo in quanto tutto, anche la verità, è ridotto all’essente come volontà di potenza: non c’è nulla « prima » o « oltre » Tessente come volontà di potenza, ogni stabilità è solo il prodotto di una stabilizzazione operata dalla volontà stessa per potersi volere ancora. Il senso di vertigine che più d’ogni altro il pensiero di Nietzsche provoca si radica in questa assoluta e riconosciuta mancanza di fondamento, che Heidegger indica con l’espressione « volontà di volontà » a cui, come si è visto, si riduce la volontà di potenza.

Il venire in luce dell’essente come volontà di potenza è un evento preparato da tutta la storia della metafisica, la quale si può riassumere, secondo Heidegger, nella storia delle modifiche subite dal significato di alcuni concetti fondamentali, modifiche che, coerentemente con Tescatologicità dell’essere e delle sue epoche, ne rivelano e dispiegano pienamente l’originario contenuto. Si tratta, all’apparenza, di una storia di parole; ma in realtà, in quanto nelle parole della metafisica si esprime un certo rapporto dell’essere con Tessente, rapporto che domi­na e determina tutte le manifestazioni di un’epoca, si può ben dire che la storia come tale è anzitutto storia di parole, che appartengono però all’essere stesso 20. Quel che si tratta di mettere in chiaro, ricostruendo questa storia, è anzitutto come lo sviluppo della metafisica confluisca

19 Cfr. O. P ö g g e le r , art. cit., 625: è proprio della metafisica « presupporre un fonda­mento ontico per l’ontologia e determinare il senso dell’essere in base a un essente partico­lare. Heidegger, di contro, ponendo la domanda: perché in generale Tessente e non piutto­sto nulla?, chiude ogni possibilità di richiamarsi a un essente supremo il cui essere non sia più posto in questione ».

2 In una pagina del Nietzsche, che risale al 1940, Heidegger parla di un « doppio genitivo » a proposito della parola: « ogni parola come tale è una parola dell’essere, ed è taie non solo in quanto il discorso è .fa/messere e riguarda l ’essere, ma è parola dell’essere nel senso che in ogni parola si esprime l’essere e proprio così nasconde tacendo la propria essenza » (N II, 252).

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nel concetto della volontà quale essenza dell'essente; e, in secondo luogo, perché si possa dire che in tale concetto la metafisica giunge a conclusione.

Le parole chiave attraverso il cui sviluppo la storia della metafisica può venir ricostruita sono iSÉa, ÈvépfEux, àXrii!tia, imoxEqjiEvov, divenute rispettivamente, nella traduzione latina, percepito, actualitas, certitudo, subie et um, con un processo di trasformazione denso di signi­ficato e che culmina definitivamente nel concetto di volontà di potenza.

La prima tappa decisiva della metafisica è lo scindersi dell’unità originaria delPessere nei due modi del che {Dass-sein) e del che cosa ( Was-sein) secondo la distinzione che rimarrà come quella tra essenza ed esistenza. Questa distinzione, che si definisce in Aristotele, è già il risultato di un processo cominciato alle origini stesse del pensiero greco, quando Tessere viene concepito come àXrjftEUX, e come (pùcxç-: entrambi questi termini conservano ancora un richiamo alla vera essen­za dell’essere che è un disvelare e quindi un pro-durre gli essenti. Ma subito è Tessente come tale che prende il sopravvento, non si pensa più il suo venire in luce e venire day che implicitamente erano ancora presenti nei concetti di àXifjtteux e di (pucriç: Tessere viene definito come ovvia, come presenza, cioè già sul modello delTessente. Anche ToùcrCa, tuttavia, è ancora concepita come una presenza, uno stato, che è un punto di arrivo: le sostanze possono essere prodotto di (pucriço di tzqùï\<t\,ç . Voxida è cioè epyov, opera, prodotto. L ’essere della sostanza come essenza dell’essere è quindi hsipyzia. Uivipyzia però è solo uno dei due modi, il fondamentale, della presenza, il suo che (.Dass-sein); c’è un secondo modo della presenza, che Aristotele defini­sce nel capitolo quinto delle Categorie, ed è I’elSoç; la specie entro cui questo essente presente davanti a me come èvépYELa si colloca, il suo che cosa (Was-sein). Nella preminenza che Aristotele dà alTèvépyeia come Dass-sein rispetto alTeZSoç* si risente ancora il concetto originario greco dell’essere come ovaia, precedente a ogni distinzione tra essen­za ed esistenza; in questo senso, si può dire che Aristotele pensa in modo « più greco » di Platone (N II, 409). Ma resta il fatto che la sua èvépYEia è pensata come preminente dopo che la distinzione tra che e che cosa è già avvenuta, appunto nella dottrina platonica delle idee riconosciute come Tessere vero, sicché la preminenza deli’èvépYEia non può più in alcun modo esser considerata un ritorno alToriginario concetto dell’essere. Anzi, con la preminenza accordata al che, Aristote­le non fa che accentuare una delle due tendenze costitutive della metafisica nel suo progressivo allontanamento dall’essere, cioè la ten-

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denza a considerare l’essere come ciò di cui non c’è bisogno di dir nulla, perché è presente davanti a noi, è effettività (Wirklichkeit) e basta, sicché è ovvio (selbstverständlich). La seconda tendenza costitu­tiva della metafisica trova invece espressione nella dottrina platonica delle idee come sede dell’essere vero: qui la preminenza è del Was- sein, del che cosa; l’essere viene ridotto all’essenza (essentità) dell’es­sente. Questi due caratteri: « la preminenza dell essente e l’ovvietà dell’essere, sono caratteri distintivi della metafisica» (N II, 411).

’lSéa ed èvépyEia non si svolgono su linee di sviluppo parallele, ma le implicazioni di ciascuna si intersecano in maniera complessa con quelle dell’altra. Così lo sviluppo del concetto di ÈvspyEux in quello latino-cristiano di actualitas porta a maturazione anche un altro signifi­cato implicito nella dottrina platonica delle idee 21. L ’idea suprema, quella in cui tutte le altre, che a loro volta rendono « visibili » le cose, diventano visibili, è quella di àyadóv, l’idea delle idee; ora, àyadóv non significa in alcun modo, secondo Heidegger, bene morale; va tradotto piuttosto come « ciò che è capace e che rende capace altro » di qualcosa; Tì-Séa, cioè, è ciò che rende possibile [ermöglicht] gli essenti (cfr. N II, 413-16). Ora, il passaggio dal concetto di Evépyeia a quello di actualitas consiste proprio nel venire in luce del carattere causale dell’essere concepito come èvépyEia. L ’èvÉpyEux non è solo l’essere spyov come prodotto di un movimento, ma è il fatto stesso di questo esser prodotto, latto del venir prodotto. Il termine actualitas, con cui il mondo latino cristiano traduce il greco àvépyEia, rivela un senso che nel concetto greco era rimasto nascosto e solo implicito. Non ce contraddizione tra èvÉpy£ia come risultato di un movimento e actualitas come movimento e causa del movimento stesso. L ’essenza dell’essente è èv&pyeia; ma l’essenza dell’èvépyeia è il fatto della pro-duzione; l ’èvépyeia è dunque, nel suo significato più profondo, actualitas, produzione, causalità. In questo processo di traduzione delTèvépyEia in actualitas risiede uno dei significati decisivi del pen­siero cristiano antico e medievale. Nel concetto cristiano di Dio si uniscono infatti il carattere della actualitas e il carattere del sommo bene come ciò che, in quanto causa finale, muove e rende possibile gli essenti, intuito da Platone nella dottrina dell’àyaftóv come idea supre­ma. Si noti che il cristianesimo e la sua dottrina della creazione non hanno per Heidegger il senso, che comunemente gli si dà, di riprende­re e mettere in luce certi particolari caratteri del pensiero antico indiriz­

21 Si veda per questo Platons Lehre von der Wahrheit, Bema 1944 [trad. it. di F. Volpi, in M. H eid eg ger , Segnavia, cit.).

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zandoli quindi a un certo sviluppo; non è che, sotto l’azione del cristianesimo, 1 evspyeia diventi actualitas', piuttosto, è solo l’evento dello sviluppo deirèvépYEia in actualitas, inteso come evento della storia dell’essere, che rende possibile il cristianesimo, almeno, bisogna dire, come fatto di civiltà, come mondo cristiano caratterizzato da una teologia e da una determinata cultura. Del resto, sia detto qui per inciso, la filosofia di Heidegger può parlare del cristianesimo solo così, cioè come evento della storia dell’essere; non avrebbe senso, per Hei­degger, distinguere il cristianesimo come dottrina di salvezza, nella sua sostanza dogmatica, dalla civiltà cristiana, dalle istituzioni storiche che vanno sotto il nome di « cristianità », dalla Chiesa stessa come organiz­zazione gerarchica: nella filosofia intesa come ritorno al fondamento della metafisica, e quindi come ricostruzione della storia dell’essere, il cristianesimo è ciò che storicamente è stato, è un’epoca o parte di un’epoca dell’essere, e quindi anch’esso condizionato e reso possibile da una certa metafisica. Questo può significare due cose, solo apparen­temente analoghe, ma in realtà del tutto opposte: o che la filosofia come tale non può riconoscere il cristianesimo se non come fatto di civiltà, e allora interamente subordinato alla metafisica; o che la filoso­fia parla del cristianesimo solo in quanto fatto di civiltà, lasciando impregiudicato il suo eventuale significato soprannaturale. In quest’ulti­mo caso, che rappresenta tuttavia un’ipotesi interpretativa piuttosto arrischiata, la posizione di Heidegger potrebbe rappresentare una delle più decise rotture con ogni tentativo di culturalizzare o « ideologizza­re » il cristianesimo 22.

In conseguenza della traduzione latino-cristiana del concetto di èvépysta, Tessere viene determinato in generale in base alla actuali­tas-. è essere in senso pieno anzitutto Dio, come atto puro, causa; essere in senso derivato e secondario, ciò che dalla causa prima è prodotto. Lo stesso significato ha, per la storia dell’essere, lo sviluppo del concetto di existentia: in Aristotele, a cui il concetto risale, esistenti sono le cose che ci sono fuori della mente, in rapporto alle quali si definisce la verità del giudizio; ma in Suarez esistere vorrà dire stare fuori dalla causa e fuori dal nulla, come effetto dotato di consistenza autonoma. Anche qui, mentre in un primo momento l’esistenza era piuttosto connessa col concetto di verità come conformità, viene poi

22 Sulla questione specifica del significato della posizione di Heidegger dal punto di vista del cristianesimo si veda L angan, op. cit., 221 ss. e passim. E noto che Heidegger parla spesso del divino e degli dèi, anche di Dio, ma non è troppo facile dire che cosa questo possa significare dai punto di vista della religione positiva. Si veda per esempio HB19 e 26 [283 e 291]; e il saggio Das Ding, in VA, 163-185 [109-124],

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determinata come effettività: l’essere è esistere come effettività ( Wirklich­keit) cioè come actualitas.

Allo sviluppo del concetto di essere daU’èvepyeia in actualitas corri­sponde un mutare dell’essenza della verità: EVEpyEia e actualitas rappre­sentano due modi di svelarsi-celarsi dell’essere nella propria storia, a cui corrispondono modi diversi di essere del Dasein, dell’uomo, nell’essere, cioè diverse essenze della verità. Non che sia il modo di porsi dell uomo in mezzo all’essente che determina l’essenza della verità; viceversa l’es­senza della verità (ciò per cui la verità vale come tale) di una data epoca è lo stesso modo di stare dell’uomo in mezzo all’essente, modo che non è scelto arbitrariamente dall’uomo stesso, ma è un accadimento dell’esse­re. Le prime tappe dello sviluppo del concetto di verità verso quello di certezza sono, da un lato, la divisione dell’essere nei due modi del che e del che cosa, cioè dell’èvépYEioc e dell’iSÉa, e dall’altro l’originario mutarsi deU’àX-f$Eia in conformità, ôjj.ofrocaç', che si trova in Platone e Aristotele. Il concepire l’essere come che cosa, come iBia o eZSoç*, porta a pensare la verità come lo stabile apparire della cosa in una certa forma, mentre l’essere pensato come ivipyzia. favorisce la tendenza a pensare la verità come indiscutibilità della presenza effettiva, cioè a identificare la realtà con la certezza assoluta (cfr. N II, 459). LofJLoCwô'LÇ, d’altra parte, riduce fin dall’origine la verità a carattere dell’intelletto (la verità è una proprietà della rappresentazione e del giudizio). La storia della verità come certezza, preparata dalla speculazio­ne greca, ha poi due momenti fondamentali strettamente connessi, nel medio evo cristiano e nell’età moderna. Per la teologia cristiana medieva­le Dio, suprema realtà, è anche la fonte suprema della certezza; come la realtà-effettività delle creature è derivata rispetto all’attualità pura di Dio, così la certezza dell’uomo può essere fondata solo sulla verità divina, e questo rapporto è stabilito dalla fede. Ma proprio la teologia cristiana svilupperà una teoria della certezza razionale come base della fede (gratia supponit naturam) che metterà in evidenza il carattere di certezza di sé fondamentale in ogni certezza e aprirà così la via all’essen­za della verità propria della metafìsica moderna: la modernità (Neuzeit) è caratterizzata dalla verità « divenuta certezza del sapere di una umani­tà che fonda essa stessa la propria sicurezza » (N II, 424).

Nell’evoluzione del concetto di verità in quello di certezza, come già nello sviluppo della E V E pyE ia in actualitas, il cristianesimo ha dun­que, ma nel senso che già si è precisato, una funzione determinante, ed è in questo senso che per Heidegger il mondo moderno è un mondo cristiano, anche, anzi proprio, là dove il cristianesimo è scomparso come fede e resta come puro fatto di cultura.

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La certezza è l’essenza della verità propria del momento in cui Tessere è ridotto ad actualitas, cioè il modo di svelarsi adeguato all’esse­re come actualitas. L ’identificazione realtà-certezza trova per la prima volta in Cartesio la sua espressione, che resterà determinante per la metafisica moderna: è reale solo ciò che è certo; e la certezza è la stabilità di ciò che è rappresentato nel rappresentare certo (cfr. N II, 427). Essenza della realtà diventa così la Vor-gestelltheit, Tesser rappre­sentato (posto davanti) al soggetto in maniera stabile. Reale in senso primario, come era Dio nella teologia medievale, diventa il soggetto rappresentante. Si inserisce qui lo sviluppo del concetto di subiectum da quello greco di imoxeipsvov, terzo aspetto decisivo della costitu­zione della metafisica moderna. L ’attività del Vor-stellen che fonda essa stessa la propria certezza ha bisogno di un fondamento « absolu- tum et inconcussum » come dice Heidegger riprendendo i termini carte­siani; questo fondamento assoluto è il soggetto nel senso moderno del termine. <Y'h:ok,£ljj,£vov, che era in origine solo la presenza primaria insieme a cui si fanno presenti i ffupßeßTiKOTa, nella traduzione di kvépYzia in actualitas diventa invece ciò che nelVactus è posto come base su cui vengono a inserirsi gli accidenti. Subiectum e substantia, come traduzione di ovaia, indicano il vero essere, ciò che permane stabilmente in mezzo al mutare degli accidenti. Carattere del vero essere come subiectum è così il durare, il permanere; è subiectum, per la filosofia medievale, tutto ciò che permane e dura in sé, sia questo uomo, pianta, animale, minerale, Dio. Ma in connessione con lo svilup­po del concetto di verità in quello di certezza, anche il subiectum rivela il significato soggettivistico già presente nelTuTCOxsip-evov inteso co­me stabilità della presenza: il soggetto come fondamento stabile e inconcusso è il soggetto rappresentante, la cui presenza come attività rappresentativa è quella che garantisce e fonda ogni altra presenza e realtà.

Cartesio tuttavia non è che l’inizio della metafisica moderna, giacché per lui il soggetto è ancora sostanza finita, che rimane subordinata a Dio, e inoltre la soggettività resta un carattere proprio di una particola­re sostanza, Tuomo, in mezzo ad altre: il cogitare contraddistingue Yactualitas dell’uomo. Il vero dispiegamento della metafisica moderna e Tinizio della sua conclusione si avranno quando il cogitare, o percipe- re, sarà riconosciuto come carattere generale di ogni actualitas, cioè in Leibniz. Una volta ridotta la realtà a certezza, e questa all’attività rappresentativa, ogni reale potrà essere riconosciuto come tale solo in quanto rappresenta, percipit. Il reale, per Leibniz, è tale in quanto è uno; ma Tunità della monade è unità rappresentativa, specchio delTuni-

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verso da un determinato punto di vista. Proprio la continua inadegua­tezza del punto di vista particolare a rispecchiare tutto l’universo fa sì che l’altro carattere essenziale della monade, oltre alla percepito, sia Yappetitus, cioè l’impulso a mutare, a rappresentare o percepire in modi sempre nuovi. Viene in luce nel pensiero di Leibniz l’essenza delTessente come volontà, che caratterizza tutta la metafisica moderna, la quale a sua volta non fa che portare alle loro conseguenze i presup­posti della metafisica classica (Tessere come presenza). Il fatto che si debba ancora attendere Nietzsche per dire conclusa la metafisica dipen­de solo dalla molteplicità delle forme che assume, ancora dopo Leib­niz, il concetto della volontà come essenza delTessente: la volontà può essere infatti la volontà della ragione o la volontà dello spirito, la volontà delTamore o la volontà di potenza (N II, 452). Sotto il comu­ne denominatore della volontà Heidegger unifica tutti i grandi sistemi metafisici moderni, tra i quali considera decisivi, proprio dal punto di vista del dispiegamento dell’essenza dell essente come volontà, quelli di Hegel e di Schelling. La stessa forma sistematica della metafisica è un fatto proprio del pensiero moderno connesso col venire in luce dell’essere come volontà: non si può parlare di sistema né per la filosofia antica né per quella medievale: in quest’ultima si danno sol­tanto delle summae. Il sistema, infatti, conformemente alla sua posizio­ne ontologica generale, non può essere per Heidegger uno schema di ordinamento del reale che un certo pensatore ha in testa ed espone; come evento delTessere, il sistema è possibile solo nell’epoca in cui Tessere si rivela come volontà e quindi, secondo il carattere esigenziale proprio di questa sua essenza, « dispiega se stesso e la totalità delTes­sente nella propria unità, cioè nella disposizione della sua struttura essenziale » (N II, 453).

Il sistema, cioè, in quanto non sia inteso solo come uno schema di ordinamento del reale proposto arbitrariamente da un singolo, ma come evento della storia delTessere, è possibile solo quando Tessere, presentandosi come volontà (nel senso deWappetiius della monade leib- niziana), tende a rappresentarsi come unità.

In Nietzsche, questa volontà che si è venuta chiarendo come l’essen­za dell’essere diventerà esplicitamente l’unico principio, come volontà di potenza o volontà di volontà. Per questo Nietzsche va considerato la conclusione della metafisica occidentale. Ancora in Hegel l’essenza dell’essere come volontà si presenta solo copertamente attraverso la ragione e l’autocoscienza (l’essenza della ragione come autocoscienza è fondata sul fatto che Tessere, come volontà, è anzitutto un volere se stesso; cfr. N II, 453). Tuttavia ci si può domandare perché l’idea

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nietzscheana della volontà di potenza non solo costituisca lo sviluppo logico del concetto della volontà come essenza dell essere quale si va preparando in tutta la storia della metafisica, ma anche rappresenti la fine di questa storia: perché, cioè, si possa dire che, dopo Nietzsche, la metafisica non è più possibile. Ciò non appare del tutto evidente dal testo heideggeriano, ma si può agevolmente capire se si tiene presente quale sia l’essenza della metafisica. La metafisica è possibile solo fino a che l’oblio dell’essere e la prepotenza dell’essente sull’essere, che ne costituiscono la vera sostanza, rimangono in qualche modo celati. Essa nasce dalla distinzione tra l’essere e Tessente e vive solo in quanto tale distinzione, sebbene, si potrebbe dire, mistificata, continua a farsi sentire: ogni metafisica infatti vuol definire Tessere dell’essente, ciò per cui Tessente è tale (e in ciò conserva l’idea della differenza ontologi­ca), anche se poi concepisce Tessere in base all’essente (e così dimenti­ca Tessere stesso). Lo sviluppo storico conduce alla rivelazione di questo secondo aspetto, mentre svanisce via via l’idea della differenza ontologica: Heidegger dichiara ripetutamente che nella dottrina niet­zscheana delTeterno ritorno come existentia dell’essentia Wille zur Macht cade proprio la distinzione tradizionale fra i due termini e quindi uno dei caposaldi della metafisica. L ’eterno ritorno non è solo Tattuarsi della volontà di potenza presupposta come essenza delTesse- re, bensì il costituirsi di questa essenza stessa come tale; c’è tra i due termini un rapporto reciproco, essi indicano fondamentalmente la stes­sa cosa; nell’attimo della visione di Zarathustra si costituisce, non si attua, il mondo come Wille zur Macht. In termini non più rigorosamen­te heideggeriani, potremmo dire che la sostanza della metafisica moder­na che si manifesta in Nietzsche è la perdita del fondamento, il fonda­mento posto nella infondatezza stessa, quello che appunto si esprime nel concetto di volontà di volontà. In Nietzsche, con la scomparsa della distinzione tra essenza ed esistenza, sparisce anche l’ultimo ricor­do della differenza ontologica che, pur nell’oblio dell’essere, rendeva ancora possibile la metafisica. Dopo di lui, nella storia dell’essere, la metafisica non è più possibile; il che non significa che non ci siano ancora dei filosofi che fanno della metafisica: ma in tal caso essi possono solo riprendere e ripetere posizioni il cui significato ultimo si è già chiarito ed è già confluito nella metafisica di Nietzsche.

Lo stesso significato nel senso della scomparsa del ricordo della differenza ontologica ha il concetto nietzscheano della verità come condizione posta dalla volontà per il proprio sviluppo: nell’idea della verità come conformità al dato c’era ancora una traccia della differen­za, ma già l’aver fatto della verità una proprietà del giudizio conteneva

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il presupposto per lo sviluppo del concetto nel senso di Nietzsche. E così anche tutti gli altri singoli concetti della dottrina nietzscheana si possono vedere come punto di arrivo di altrettante direzioni essenziali della storia della metafisica: il superuomo rappresenta il trionfo del soggettivismo cartesiano (sia in quanto affermazione del soggetto uo­mo in mezzo all’e ssente, sia in quanto, soprattutto, esso è l’uomo quale Tessente nella sua totalità, concepito come volontà e cioè come sogget­to, lo esige); la vita che, in quanto identificata con la volontà di potenza, rappresenta il carattere generale dell’essente, porta a compi­mento il concetto delTessere come (pvo'iç presente alle origini remote del pensiero greco. Si è già visto, poi, che nell’essere concepito come volontà si concludono e si saldano i tre processi di sviluppo delTèvépYEux, delTàtaqdeux e deU’ÜTtoxexpxvov, processi che a loro volta sono dominati dalToriginaria identificazione delTessere con la presenza, che Heidegger trova già, come è noto, in Anassimandro. Nietzsche rappresenta così quel momento escatologico in cui ritornano, nel loro vero significato e quindi nella loro presenza come Gewesen- heit, i motivi originari e costitutivi di tutta la storia della filosofia occidentale. Manifestandosi nel loro significato vero, essi rivelano an­che le loro connessioni, sicché solo a partire da Nietzsche si può ricostruire la storia della metafisica in maniera geschichtlich e non puramente historisch; dispiegando infine tutta la carica di oblio delTes­sere contenuta nelle origini stesse del pensiero metafisico, tali motivi rendono impossibile un ulteriore sviluppo della metafisica e ne prepara­no il superamento.

3. Nietzsche come profeta del mondo contemporaneo

Si tratta ora di mettere in evidenza un ultimo aspetto, forse il più interessante, delTinterpretazione heideggeriana di Nietzsche, quello per cui, in quanto compimento della metafisica, Nietzsche è anche il profe­ta del mondo contemporaneo. Heidegger arriva a dire che « l’oggi, definito non in base al calendario (cioè banalmente) né in base agli eventi della storia del mondo », si definisce come « la determinatezza metafisica delTumanità storica nell’epoca della metafisica di Niet­zsche » (N II, 254).

Si è già visto come alla base di ogni epoca, a reggerla, vi sia una metafisica, cioè un modo di svelarsi-celarsi delTessere, una sua

Questo vale anche per il mondo moderno, ed è ciò che dice il

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passo riportato. Ma nel mondo moderno come epoca finale dell’Occi- dente [Abendland come terra del tramonto dell’essere), il rapporto metafisica-civiltà ha una conformazione più specifica e particolare, la quale deriva dal fatto che la metafisica odierna, quella di Nietzsche, non è una fra le metafisiche, ma è l’ultima e conclusiva metafisica dell’occidente. Alla fine della metafisica si stabilisce anche un nuovo e più specifico rapporto tra la metafisica e la civiltà in generale: anzi, per un certo aspetto, la fine della metafisica consiste proprio in questo nuovo rapporto. Che la metafisica si concluda con Nietzsche, significa che

essa ha ormai compiuto la parabola delle sue possibilità. La metafisica compiuta, che è anche il fondamento del modo di pensare planetario, fornisce l’impalcatura per un ordinamento della terra destinato probabil­mente a durare per lungo tempo. Tale ordinamento non ha più bisogno della filosofia, perché essa costituisce ormai la sua stessa base (VA 83 [54]).

Nell’epoca finale della metafisica, questa si rovescia, per così dire, nel proprio opposto, e diventa l’ordine pienamente attuato di un certo mondo; perde quindi la propria determinatezza e la propria distinzio­ne, non è più altro che il modo di funzionare di una certa struttura storica e di una certa civiltà. Ciò può accadere solo nel momento finale della metafisica, quando sia andato perduto anche l’ultimo ricordo della differenza ontologica. La metafisica, per quanto sia oblio e allon­tanamento dall’essere, vive finché la differenza essere-essente, in qual­che modo, si fa ancora sentire; sulla base del permanere di questa differenza, essa si può distinguere ancora dall’attività di concreta orga­nizzazione delTessente; solo se ce ancora qualcosa che non si riduce completamente alTessente e al suo divenire, il pensiero metafisico sussi­ste e ha un senso. Ma la volontà di volontà ha fatto sparire ogni ricordo dì ciò che alTessente non si riduca: la metafisica, allora, non può più esistere come attività distinta, il mondo non ne ha più biso­gno. D’altra parte, a questo punto si è arrivati proprio attraverso lo sviluppo della metafisica stessa: è venuta in luce in essa l’essenza delTessente come volontà di volontà, che rende possibile la riduzione della metafisica a mondo, la sua completa identificazione con l’attività di organizzazione e dominio delTessente. La nostra epoca costituisce così la fine e il trionfo definitivo della metafisica, nella sua sostanza di oblio dell’essere.

L ’aspetto più significativo di questo processo è la tecnica moderna. La tecnica è la stessa metafisica giunta al suo compimento (cfr. VA 80

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[52]), che coincide con la completa incapacità di pensare, nel senso in cui pensare indica un mettersi in rapporto con l’essere:

La tecnica, come forma suprema della coscienza razionale intesa nel senso tecnico, e l’assenza di meditazione come incapacità organizzata, incomprensibile a se stessa, di arrivare a un rapporto con ciò che è degno di essere interrogato [das Fragwürdige], sono intimamente connesse: anzi, sono la stessa cosa (VA 87 [57]).

La tecnica realizza pienamente la definizione della verità come valo­re vitale data da Nietzsche: essa è l’attività con cui l’uomo si costituisce dei « fondi », delle stabilità, ma solo in vista di un ulteriore superamen­to. Essa è connessa con l’essenza della modernità come Neuzeit, deter­minata dalla riduzione della verità a certezza che si accerta da se stessa, in cui il fondamento stabile e inconcusso è dato dal soggetto rappresen­tante. Nel termine Neuzeit, il neu (nuovo) ha un significato essenziale: in quanto la modernità è l’epoca della certezza che si autoassicura, essa è anche il tempo in cui l’uomo è continuamente alla ricerca di nuovi punti di assicurazione e di stabilizzazione sempre più solidi, sicché la novità è la sua caratteristica essenziale (cfr. N II, 424 e Hw 85 [93]). La tecnica, con il suo dispiegamento nel mondo contemporaneo in forma di pianificazione, serve anzi, proprio nei confronti del pensiero di Nietzsche, a metterne in luce il significato più vero, di là dai fraintendimenti e dalla confusione in cui il contenuto del suo pensiero si presentò ai contemporanei e a lui stesso. Quel che in Nietzsche sembra in contrasto con la civiltà tecnica è l’accentuazione esagerata della vita nel suo significato biologico e psicologistico, il vitalismo come esaltazione di una specie di ebbrezza che sarebbe in contrasto con la fredda ragione calcolante che caratterizza la tecnica contemporanea. Ora, vedere Nietzsche così significa non capire quanto essenziali siano, oltre allo slancio creatore e al superamento continuo, i processi median­te i quali la volontà di potenza si assicura i suoi « fondi », le sue stabilità da superare. Tali procedimenti di assicurazione sono fonda­mentalmente matematici: « ciò che è proprio della volontà di potenza è la signoria assoluta della ragione calcolante e non l’oscurità e la confusione dei torbidi vortici vitali » (VA 81 [53]).

Del procedimento di universale pianificazione della tecnica come volontà di volontà che si assicura i suoi « fondi » fa parte anche la capacità di situare storicamente la propria condizione, di inquadrarla, come si dice, nelle sue dimensioni storiche, ricostruendo il passato a partire da essa: tutto ciò è proprio di quel che Heidegger chiama Historismus, lo storicismo come costante ricostruzione e chiarimento

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della situazione a partire dalle sue componenti storiche (nel senso di historisch). La Historie, come distruzione del futuro (cfr. il già citato passo di Hw 301 [304]), non contrasta, anzi si identifica, con la sostan­ziale a-storicità della civiltà tecnica, nel senso in cui Geschichte si identifica con Geschick.

La volontà di volontà si oppone, senza poterlo sapere e senza consentire una conoscenza di questo fatto, a ogni Geschick, nel senso in cui questo termine indica l’assegnazione di una apertura dell’essere delTessente. La volontà di volontà irrigidisce tutto nella privazione di destino. La conse­guenza di ciò è la a-storicità, di cui è segno caratteristico il dominio della tìistorie (VA 80 [51]).

Ciò si capisce se si tiene presente che anche la storia, come la metafisica, si fonda essenzialmente sulla differenza tra essere ed essen­te: ogni epoca è una stìo/ti, cioè uno svelarsi-celarsi delTessere; è per questo che, in molti luoghi, Heidegger può parlare di una identità fra metafisica e storia dell’essere (cfr. il capitolo V ili del Nietzsche: II, pp. 399-457: « Die Metaphysik als Geschichte des Seins »). La fine del pensiero metafisico, che conservava ancora, per quanto oscurato, un ricordo della differenza ontologica, segna anche la fine di ogni possibile coscienza storica, nel senso in cui questa non si riduca a un sapere che cosa è venuto prima, ma sia invece un riconoscimento del proprio posto nella storia delTessere come destino, cioè come assegna­zione di un certo progetto gettato (dato dall’essere stesso) in cui Tessen­te si apre all’umanità di una determinata epoca. La tecnica, che non riconosce più alcuna differenza tra essere ed essente, per la quale Tessere delTessente consiste nell’essere assicurato alTinterno di una attività stabilizzante fondata sul calcolo e la pianificazione, non può più riconoscere alcun destino, cioè alcuna autentica storicità.

Tecnica e storicismo, come attività di assicurazione e pianificazione, sono solo gli aspetti salienti di quella che Heidegger chiama, in genera­le, Tepoca della Weltanschauung, o anche del Weltbild, dell’immagine del mondo (si veda un saggio di Hw che porta il titolo: Die Zeit des Weltbildes, pp. 60-104 [71-101]). Weltanschauung è un termine che si può usare solo in riferimento all’epoca moderna, in cui la verità è divenuta la certezza di un soggetto che si certifica da se stesso: Tessen­te non ha più alcun essere al di fuori dell’attività rappresentativa o produttiva del soggetto, ed è questo il senso ultimo del venire in luce delTessenza dell’essere come volontà di volontà. L ’attività rappresentati­va o produttiva del soggetto costituisce l’unico autentico essere delle cose. Il mondo non è altro che l’immagine del mondo che il soggetto

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continuamente costruisce e ricostruisce: quest’attività è la tecnica o la costruzione scientifica del mondo storico. Il movimento di questo mon­do è assicurato sia dall’impulso delle Weltanschauungen a superare continuamente se stesse, sia dalla lotta delle Weltanschauungen. La nostra epoca è quella della lotta per il dominio della terra (cfr. Hw 87 [99-100]), sia nel senso della tecnica come utilizzazione dell’essente (si veda la bella pagina sul Reno in VA 23-24 [11-12]), sia nel senso della lotta tra le Weltanschauungen per imporsi l’una sulle altre. Il trionfo del soggetto si accompagna paradossalmente con il massimo di oggetti­vità degli oggetti: proprio all’interno della concezione della verità co­me certezza si sono elaborate le tecniche più raffinate e rigorose di accertamento delloggettività, nel senso scientifico della parola. Esalta­zione del soggetto e dell’oggettività dell’oggetto sono due aspetti corre­lativi di uno stesso processo; così si può spiegare anche come, nel mondo moderno, all’esaltazione dell’individuo si accompagni in egual misura la crescita delle strutture collettive e delPanonimità. Entro l’atti­vità assicurante e stabilizzante del soggetto, anche l’oggetto acquista una consistenza mai prima posseduta.

Le alternative che si offrono all’uomo in questa situazione sono legate ad essa e quindi votate a un esito negativo fin daH’inizio: nel mondo della soggettività e dell’oggettività, deH’individualismo e del­l’anonimato, l’uomo può scegliere di essere massa o di essere individuo aristocraticamente isolato dalla storia del suo tempo, ma in tutti e due i casi rimarrà all’interno della situazione e non avrà superato il nichili­smo. Il superuomo di Nietzsche è stato un tentativo di superamento, ma in quanto non poteva capire l’essenza della metafisica è rimasto nel nichilismo e anzi ne è stato il profeta (cfr. Hw 239 [238] e le pagine conclusive del saggio Wer ist Nietzsches Zarathustra? già ricordato). Né si esce daWimpasse semplicemente cercando di ricostruire le condi­zioni di un tempo passato assunto come epoca dell’autenticità: il ritor­no alle origini della metafisica è il ritorno al suo fondamento, non ai suoi inizi storici (cfr. ID 48 [23]). Tale ritorno si può operare solo pensando la metafisica fino in fondo, in modo che ne venga in luce la sostanza nichilistica. Solo così ci si sottrae all’alternativa mal posta tra individualismo estetistico e anonimità; questa alternativa è proprio il punto di arrivo della metafisica; ponendola in questione ci si apre la via a capire l’essenza della metafisica e se ne prepara il superamento. Rispetto a ciò si può vedere in Heidegger un atteggiamento analogo a quello di Nietzsche: nell’epoca di povertà in cui siamo, l’unica via di uscita è quella di pensare tale povertà fino in fondo. In tal modo si condivide autenticamente la sorte dei propri contemporanei: alla fine

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di uno dei saggi di Holzwege (il già citato Die Zeit des Weltbildes), Heidegger ricorda i versi di Hölderlin nella poesia Ai tedeschi: « Se la tua anima si slancia con nostalgia di là dal tuo tempo, triste tu rimani allora sulla riva fredda, accanto ai tuoi, e non li conosci ».

La fine della metafisica non significa la fine del pensiero, ma il passaggio a un nuovo cominciamento (VA 83 [54]). La nostra epoca, in cui loblio delTessere è arrivato al suo culmine, è anche quella in cui Tuomo corre maggiore pericolo. Ma, ancora con Hölderlin: « dove c’è il pericolo, là cresce anche ciò che salva » (cfr. VA 36 [22]).

4. Conclusione: Nietzsche, Heidegger e la visione metafisica dell’alienazione

Per quanto il ritratto che Heidegger fa di Nietzsche e la interpreta­zione che dà del suo pensiero come culmine, trionfo e conclusione della metafisica tendano a porre una contrapposizione nettissima e invalicabile tra le due posizioni, rimane tuttavia difficilmente superabi­le l’impressione, quando si leggono le opere dell’uno e dell’altro, di trovarsi di fronte a un itinerario sostanzialmente analogo, a una serie di atteggiamenti comuni davanti alla filosofia e alla storia, davanti alla civiltà contemporanea e, più in generale, davanti al problema della condizione dell’uomo.

Una tale impressione può riconoscersi non del tutto ingiustificata anche dal punto di vista di Heidegger stesso: se è vero infatti che per lui Nietzsche rappresenta il culmine della metafisica e la sua conclusio­ne, è anche vero che tale conclusione può e deve significare anche un avvio, in qualche modo, al superamento di ciò che conclude. E un discorso che Heidegger accenna appena, per esempio quando dice che « la fine della metafisica, di cui qui è questione, va pensata anzitutto come l’inizio della sua resurrezione in forme diverse » (N II, 201), ma che può servire di base per domandarsi fino a che punto il significato di Nietzsche per Heidegger non sia stato in realtà un significato « posi­tivo »; cioè fino a che punto Heidegger non abbia trovato in Nietz­sche, oltre che una summa degli erramenti della metafisica da supera­re, anche delle indicazioni positive per d suo tentativo di superamento. Si può dire anzi che, dopo l’interpretazione di Heidegger, qualunque lavoro su Nietzsche, che non voglia limitarsi a fornire (che sarebbe tuttavia utilissimo) una nuova ricostruzione filologica del suo pensiero, non può non porsi questo problema. Heidegger, cioè, ha esplicitato magistralmente tutto il contenuto « esistenzialistico » e « umanistico »

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del pensiero di Nietzsche; ciò che rimane da fare sembra essere la messa in evidenza dell’esito, almeno problematicamente, ontologico di tale pensiero, quello appunto in base a cui si possono capire e spiegare le analogie tra Nietzsche e Heidegger e valutare il peso che la lettura di Nietzsche ha avuto nello sviluppo del pensiero di quest’ultimo. È chiaro dunque che una tale valutazione implica una rilettura e reinter­pretazione di Nietzsche, che non si può fare in questa sede e il cui esito va riconosciuto come dubbio; si può tuttavia provare a indicare alcune linee di un possibile confronto, in attesa di ulteriori sviluppi.

L'analogia che colpisce più immediatamente nelle posizioni di Nietz­sche e di Heidegger è l’acuta coscienza che essi hanno della propria epoca come dürftige Zeit, come tempo di privazione e di attesa: si rilegga la fine del primo libro dello Zarathustra-.

Più tardi, un’altra volta ancora diventerete miei amici e tutti figli di una sola speranza: e allora... sarò con voi per festeggiare il grande mezzogior­no. Sarà il grande mezzogiorno quando l’uomo starà a metà del suo cammino tra la bestia e il superuomo 23.

Non si può non rilevare anche una stretta analogia terminologica con i molti luoghi in cui Heidegger parla della nostra epoca come età finale delTOccidente (e l’Occidente stesso è considerato, etimologica­mente, come terra dell’occaso, del tramonto e del definitivo allontanar­si dellessere nella metafisica) e soprattutto con il già ricordato passo della conferenza su Hölderlin und das Wesen der Dichtung in cul il nostro tempo (quello aperto e « fondato » dalla poesia di Hölderlin) è caratterizzato come dürftige Zeit, povero perché gli dèi antichi se ne sono andati e i nuovi non sono ancora venuti (EH 44 [57]). In questa situazione di Dürftigkeit, il compito del pensatore è un compito profetico, un compito di annuncio e di preparazione; e il carattere profetico del pensiero, proprio come accade nei profeti della Sacra Scrittura, consiste anzitutto nel mostrare il senso del passato e del presente in rapporto a ciò che deve venire: così un momento fonda- mentale del pensiero di Nietzsche e di Heidegger è la ricostruzione e il

t ripensamento, in una prospettiva nuova, della storia della civiltà occi- dentale. Si può osservare, tuttavia, che un atteggiamento profetico di questo tipo è comune a molti pensatori e a molte correnti di pensiero che hanno radice, in misura diversa, nella speculazione di Hegel: profe­tico è, in questo senso, il pensiero di Kierkegaard, con la sua idea di

23 Cito la traduzione di B. Allaso n , Torino 1944, 114. Nei Werke ed. cit., il passo è nel vol. VI, 115 [Opere, cit., vol. VI, tomo I, 93],

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una nuova era in cui la filosofia viene distrutta dalla religione; e quello di Feuerbach, per il quale la nuova età è determinata dal risol­versi della filosofia nella politica 24 ; profetico e messianico è, per que­sto verso, il pensiero di Marx, con la sua predicazione della società comunista come fine dell’alienazione e restituzione dell uomo alla sua umanità. Ora è proprio questo confronto col marxismo che può servire a precisare e a capire il carattere autenticamente profetico del pensiero di Nietzsche e di Heidegger. Si è già accennato, a proposito della visione heideggeriana della storia e del suo concetto di metafisica, che la fine dell’alienazione, o dell’oblio dell’essere, non può essere per Heidegger un fatto storico, giacché la storia è costitutivamente legata alla metafisica, fondata sulla epocalità dell’essere stesso. Questa posi­zione si esprime in tutta la sua chiarezza in un passo di Was heisst Denken?, dove, proprio in connessione con Nietzsche, è detto che per la salvezza dell’uomo nulla può la psicologia, intesa come psicoterapia, né la morale, intesa come insieme di comandi, finché l’uomo non sia pervenuto a un nuovo rapporto con l’essere, il che non dipende intera­mente da lui (WD 34 [I, 84]).

Alla psicoterapia e alla morale si potrebbero aggiungere la sociolo­gia e la politica (come socioterapia); e si avrebbe in termini chiari la presa di posizione di Heidegger nei confronti delle due principali vie di salvezza storica che il mondo contemporaneo presenta all’uomo, i due termini obbligati di tutti i discorsi che oggi si fanno sull’alienazio­ne: la psicoanalisi e il comuniSmo. Ciò che distingue Heidegger dal profetismo marxista è dunque il rifiuto di vedere la fine dell’alienazio­ne come la messa in atto di certi strumenti scientifici o politici, e ciò perché l’alienazione non ha le sue radici principalmente in una certa condizione psicologica o in certe strutture politiche: luna e le altre sono semmai aspetti secondari e derivati di una « alienazione » più profonda, che concerne il rapporto dell’uomo con Tessere 25.

Si può trovare in Nietzsche una posizione analoga? Quello che per Marx è alienazione, e che per Heidegger è oblio dell’essere, Nietzschelo chiama nichilismo: non si tratta evidentemente di stabilire in che misura i termini e i concetti si corrispondano punto per punto, ma piuttosto del fatto che, come gli altri due, anche Nietzsche riflette

34 Per il carattere profetico della filosofia di Kierkegaard e Feuerbach si veda L. Parey­son, Esistenza e persona, 21 ed., Torino 1960, cap. I, specialmente 40-44 [4a ed., Genova 1985, 68-71],

25 Cfr. il già citato passo di HB 27 [292] dove l’alienazione di cui parla Marx è ricondot­ta all’oblio dell essere; si veda inoltre J.E . Sesffert , Entfremdung und Seinsvergessenheit, Ein Versuch über Martin Heidegger, in « Il pensiero », 1959, 275-93 (con traduzione italia­na a cura di A.L. Guzzoni).

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muovendo dalla considerazione della condizione umana come insoddi­sfacente e si pone il problema del suo superamento.

Ora, il nichilismo ha per Nietzsche radici storiche individuabili preci­samente ed eliminabili mediante tecniche storiche? E proprio questo il problema che, come si è detto, andrebbe posto e risolto in un’attenta reinterpretazione di Nietzsche. Per quanto solo una tale rilettura possa dare una soluzione, non sembra infondato affermare, almeno in via di ipotesi, che anche l’analisi nietzscheana del nichilismo (o alienazione) non è principalmente un discorso storico e che conduca a esiti di carattere storico, sociologici o politici. Proprio il primo libro del Wille zur Macht, che è dedicato allo studio dei caratteri e della storia del nichilismo europeo, comincia con una dichiarazione di grande impor­tanza, da questo punto di vista: è un errore credere che il nichilismo derivi da « necessità sociali » o da « decadimento fisiologico », o da ciò che genericamente si chiama corruzione. Si tratta invece di un processo legato (e in modo necessario: cfr. le prime righe della « Vorre­de ») al tramonto del cristianesimo e al fallimento della sua morale 26.

Si può obiettare, tuttavia, che anche il tramonto del cristianesimo, se è ammesso, è un fatto storico e che quindi il superamento del nichilismo può consistere nell’awento storico di un’umanità non più cristiana. L ’obiezione, come tutte quelle che mettono in risalto il carat­tere di Nietzsche come filosofo della cultura, come critico della nostra civiltà, è fondata, e si supera soltanto guardando a quale sia stato l’esito dell’analisi nietzscheana del nichilismo, in che cosa consista per lui, in definitiva, il superamento di esso. E davvero possibile interpre­tare il concetto e l’ideale del superuomo come delineazione della figura di una umanità storicamente realizzabile e da preparare con strumenti storici? Non è estremamente significativo, da questo punto di vista, che proprio l’opera di Nietzsche più decisiva e densa, lo Zarathustra, mentre muove dal proposito di preparare il superuomo e di delinearnei caratteri, finisca nell’idea dell'eterno ritorno dell’eguale, che è l’oppo­sto di una dottrina che si voglia presentare come ideale « storico » di una nuova umanità? Vista sotto la prospettiva del suo punto di arrivo, cioè del concetto dell’eterno ritorno dell’uguale, l’analisi nietzscheana del nichilismo assume un’unità che altrimenti sarebbe difficile attribuir­le: il problema del nichilismo appare il problema della posizione del­l’uomo nei confronti del tempo, e cioè il problema dell’eternità. Tutte le prime opere filosofiche di Nietzsche sono percorse da questo tema

26 Cfr. Der Wille zur Macht, Vorrede, e n. 1 \Opere, cit., vol. V ili, tomo II, 392-393 e tomo I, 116-119].

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CHI È IL N IETZSCH E DI H EID EG G ER 51

del tempo, che viene in luce specificamente nella II delle Unzeitgemäs­se Betrachtungen: Sull’utilità e il danno degli studi storici21.

Il nemico di Nietzsche, come anche di Heidegger, è lo storicismo : la decadenza della nostra civiltà consiste proprio nell’eccesso di coscienza storica, per cui non si produce più storia, ma solo si ricostruisce la storia nel senso « storiografico » del termine. Per produrre storia occor­re, almeno per un momento, dimenticare il passato, o meglio non sentirsi più nel tempo come semplici prodotti di ciò che è venuto prima e tappe sulla via di ciò che verrà. Che cosa sia questo momento a-storico o sovra-storico verrà chiarito da Nietzsche solo nelle opere della maturità con il concetto dell’eterno ritorno. Quale che sia il senso preciso da dare all’idea dell’eterno ritorno, si possono almeno rilevare due cose: che per Nietzsche il superamento del nichilismo implica la scoperta di una nuova posizione delTuomo nei confronti del tempo, che superi quello che, in senso lato, possiamo chiamare appunto storici­smo; e che questa nuova posizione del problema del tempo si raggiun­ge ponendo l’uomo in rapporto, prima che con i singoli momenti del tempo, con il divenire nella sua totalità. Questa soluzione implica che il superamento del nichilismo non può essere inteso come un fatto storicamente determinabile e di cui si possano indicare i caratteri preci­si: il superuomo di Nietzsche è qualcosa che si può solo preparare, anzi, non si prepara neanche il superuomo come tale, ma la sua casa, il suo mondo 28. Anche Nietzsche è dunque il profeta di una schönere Zeit, per usare un altro termine hölderliniano, che non si può attende­re come un evento storico, nel senso usuale del termine. E, per conver­so, la sua analisi dell’alienazione dell’uomo, per quanto meno esplicita­mente che in Heidegger, è di carattere « metafisico », questa volta nel senso comune della parola, cioè vede la situazione di disagio dell’uomo come qualcosa che non riguarda solo i suoi comportamenti storici e che non si supera con atti « storici » modificando delle realtà. In questa luce si deve vedere un’altra analogia nel destino di Heidegger e di Nietzsche: entrambi hanno in qualche modo avuto a che fare con il nazismo. Nietzsche soprattutto è stato considerato il profeta della « raz­za eletta » e da molti ritenuto corresponsabile, almeno sul piano cultu­rale, delle aberrazioni naziste. La responsabilità di Heidegger, per ciò che riguarda i concreti atti storici, può parere anche più diretta: ma questo vuol dire che lui stesso ha potuto fraintendere per un momento il senso del proprio pensiero. Rispetto a un pensiero che, come quello di Nietzsche e di Heidegger, nasce proprio contro lo storicismo e la

27 In Werke, ed. cit., vol. I, 277-384 [Opere, cit., vol. I l i , tomo I, 259-355].38 Cfr. Werke, ed. cit., vol. VI, 16 [Opere, cit., vol. VI, tomo I, 9].

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riduzione dell uomo alla storia, il più grave fraintendimento è proprio il pretendere di misurarne i risultati sul piano delle realizzazioni stori­che, il voler tradurre in formule concretamente e immediatamente applicabili un discorso che si rifiuta a una tale applicazione. Dal punto di vista di Heidegger, — e anche da quello di Nietzsche, se pensiamo per esempio alla Unzeitgemässe contro D.F. Strauss —, proprio questo ridurre tutto alle sue applicazioni, questo vedere l’umanità dell’uomo come funzione di una situazione storica, sarebbe il segno e il carattere più grave dell’alienazione.

Rispetto a questa situazione di disagio dell’uomo, che socioterapia e psicoterapia non sono più tanto sicure di poter risolvere e che risorge in forme più pericolose proprio là dove si era convinti di averla vinta mediante interventi scientificamente diretti, Heidegger e Nietzsche valgo­no come richiamo a una ricerca che, rinunciando a fornire delle formule (le quali pretendono di risolvere l’alienazione restando, in quanto formu­le, all’interno di essa), si sforza di arrivare alla prima radice del rapporto dell’uomo col mondo e con se stesso, quello che per Heidegger è il rapporto originario con l’essere. L ’atteggiamento « pratico » corrisponden­te a un tale sforzo può sembrare estremamente tenue e impreciso, misura­to con il metro del moralista o del politico riformatore: in una lettera di risposta a un giovane studente che aveva ascoltato la sua conferenza su La cosa (cfr. VA 182-85 [122-124]), Heidegger non sa consigliare altro, per preparare il superamento della metafisica come oblio dell’essere, che un atteggiamento di vigile e silenziosa attenzione nei confronti del Ge­schick dell’essere. Anche qui si risente un atteggiamento hölderliniano: « ...ich Innig und gläubig und treu ringe nach schönerer Zeit » e poi « Sie, die inniger Liebe treu, und göttlichem Geiste Hoffend und dul­dend und still über das Schicksal gesiegt » 29. Questo tema del silenzio, di derivazione hölderliniana, è tipico di Heidegger e non ha, almeno esplicitamente e in questa forma, parallelo in Nietzsche. Rimane però che anche per Nietzsche si può parlare di una non-definibilità storica del superamento del nichilismo e quindi, nel senso che abbiamo precisato, di una posizione metafisica davanti all’alienazione.

E questa solo una base su cui è possibile impostare il problema di un eventuale significato « positivo » del rapporto di Heidegger con Nietzsche, di là dalle innegabili, profonde differenze. Ed è anche, soprattutto, una prospettiva che può aiutare a vedere con più chiarez­za, ed eventualmente a ripensare, la problematicità ancora così aperta delle loro conclusioni.

29 Götter wandelten einst..: nella « Stuttgarter Hölderlin-Ausgabe », I, Stoccarda 1946, 274 [trad. it. di G. Vigolo con testo a fronte, F. H ölderlin , Poesie, Milano 1971, 24-25],

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2. Distruzione dello storicismoe fondazione delPontologia in Sein und Zeit

1. L ’essere e il tempo

Una delle ragioni principali per cui riesce difficile capire Tunità del pensiero heideggeriano e quindi il vero senso sia di Sein und Zeit sia della speculazione ontologica più matura è il fatto che non si intende con sufficiente chiarezza il significato del rapporto essere-tempo per la fondazione dell’ontologia, cioè proprio quello che Heidegger voleva indagare nella sua opera fondamentale. E vero che Sein und Zeit (o meglio la sua prima parte, teorica) si è interrotto proprio quando si trattava di affrontare esplicitamente questo tema, in quella terza sezio­ne, « tempo ed essere », che non fu mai pubblicata. Ma resta da vedere se, coerentemente con le enunciazioni metodologiche di Heideg­ger, secondo le quali ogni comprensione parziale di un fenomeno implica già sempre un progetto sul suo senso in generale \ la parte scritta di Sein und Zeit non contenga già, a proposito del senso dell’es­sere e del suo rapporto col tempo, molto più di quanto le conclusioni esplicite, e provvisorie, di essa enuncino; non solo, ma se le opere successive, come portano a termine, sebbene in maniera frammentaria, il compito storico che era l’assunto della progettata seconda parte di Sein und Zeit, così non rappresentino anche, nella loro parte più speci­ficamente teorica, la costante elaborazione di temi intesi al compimen­to dell’indagine intrapresa nella prima parte, e cioè non contengano proprio lo sviluppo del rapporto tempo-essere che doveva costituire l’argomento della terza sezione.

L ’importanza di questo problema, e cioè quale sia il significato del rapporto essere-tempo per la fondazione dell’ontologia, difficilmente può essere esagerata. Non si tratta soltanto del problema storiografico concernente il significato unitario o meno del pensiero di Heidegger, ma soprattutto del valore di questo pensiero nella problematica filosofi-

1 Si vedano i §§ 32 e 65 di SuZ.

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ca odierna. Senza un chiarimento della portata ontologica di Sein und Zeit, la speculazione heideggeriana successiva appare inevitabilmente come una ripresa, in linguaggio più o meno esoterico, di temi della metafisica tradizionale, senza una vera connessione con i problemi della filosofia di oggi. Lo stesso cosiddetto « ermetismo » del pensiero heideggeriano, molto più che per il linguaggio in cui si formula, appare tale perché non se ne vede il « fondamento », cioè il rapporto con Sein und Zeit che ne costituisce appunto la fondazione. Il compito di una comprensione storica del pensiero di Heidegger e di una valutazione del suo significato teorico si riassume dunque nella elucidazione del rapporto essere-tempo, rapporto che rimane il tema centrale di tutta la sua speculazione.

Se si esaminano le interpretazioni del pensiero heideggeriano che insistono sull’inconciliabilità tra la sua prima e la sua seconda fase, cioè quelle che si potrebbero chiamare le interpretazioni « negative » di questo pensiero, sia nel senso che ne rifiutano i risultati, sia soprat­tutto nel senso che lo rendono incomprensibile nel suo insieme, si vede che alla loro base sta sempre, più o meno esplicita, una determina­ta interpretazione delle conclusioni di Sein und Zeit e cioè del rapporto essere-tempo 2. Sein und Zeit si conclude infatti (ma anche, in certo senso, comincia) con il riconoscimento del tempo come orizzonte del­l’essere: « c’è » essere solo in quanto « c’è » la verità; ma la verità « c’è » in quanto c’è Tesserci che istituisce un’apertura in cui Tessente si illumina venendo così all’essere (cfr. SuZ 230; it. 242 [348]); ora, Tesserci è costitutivamente temporale, e poiché Tessere si manifesta solo nell’apertura che esso istituisce, la temporalità costituisce Torizzon- te dell’essere. Sulla base di questo risultato, Sein und Zeit si conclude

2 Nei volume Heidegger. Denker in dürftiger Zeit, Karl Lowith, che è il più autorevole sostenitore della frattura nel pensiero heideggeriano, dedica tutto il denso capitolo II alla questione delia temporalità. « Mentre in Sein und Zeit — scrive Lowith — sì dice che il problema dell’essere può venir posto solo storicamente, perché Tesserci dell’uomo che poneil problema è storico, nella lettera sull’umanismo, all’opposto, è detto che il pensiero dell’essere è storico perché ce la storia dell’etere, alla quale il pensiero, come ricordo di questa storia, istituito da essa stessa, appartiene. In Sein und Zeit la storia si fonda sulla temporalità della nostra più propria esistenza storica, dopo Sein und Zeit si fonda invece, in modo tutto diverso, sull’essere stesso... » (52- 53 [trad. it. cit., 59-60]). Questa posizione del Lowith è ripresa quasi alla lettera da W ern er M arx, Heidegger und die Tradition, Stoccar­da 1961, 123, anche se egli tende peraltro a riconoscere una certa unità, soprattutto metodi­ca, tra Sein und Zeit e gli scritti heideggeriani più recenti: cfr. 113. Da una accettazione della posizione interpretativa di Lowith muove anche Wolfgang De B oer, Heideggers Missverständnis der Metaphysik, in « Zeitschrift für philosophische Forschung », 1955, 499-545. Per una più completa rassegna delle posizioni sulla questione della Kehre del pensiero di Heidegger, cfr. la nota 8 del capitolo I.

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in realtà anche con una domanda, che rimane tale: che cosa significa, per il senso dell’essere che ci importa di scoprire, che la temporalità è l’orizzonte dell’essere? In che senso la scoperta della temporalità come orizzonte dell’essere ci dice qualcosa sull’essere stesso?

Le interpretazioni che abbiamo chiamato negative del pensiero di Heidegger intendono questo riconoscimento della temporalità come orizzonte dell’essere nel senso di una messa in luce della finità storico- temporale dell esserci, e quindi come la negazione della possibilità di qualunque discorso sull’essere. L ’ontologia, partita dall’analitica esisten­ziale, non può andare oltre; anzi, l’analitica esistenziale, mettendo in luce la costitutiva nullità delPesserci e la sua finità (come temporalità), chiude la strada a ogni metafisica, cioè ad ogni discorso sull’essere che pretenda di valere universalmente. Ogni discorso è sempre temporal­mente (storicamente) situato, le cose vengono all’essere solo nella luce di un « progetto » che è sempre « gettato », cioè storicamente limitato, e oltre il quale non si può andare. Questo significato « negativo » di Sein und Zeit pare confermato dalla preponderanza che vi assumono concetti quali quelli di angoscia, colpa, essere-per-la-morte, che sembra­no sottolineare ulteriormente la chiusura dell’esserci nei confini invali­cabili della sua situazione 3.

A questa interpretazione della temporalità di Sein und Zeit come impossibilità di ogni discorso universalmente valido sull’essere corri­sponde, all’estremo opposto, l’interpretazione deH’ulteriore pensiero di Heidegger come metafisica di stampo hegeliano, anche se si tratti di un hegelismo rovesciato. In questa « seconda fase » del pensiero di Heidegger la temporalità diventerebbe orizzonte delTessere nel senso che Tessere ha una storia, anzi è la sua stessa storia, ma, a differenza di Hegel, si tratterebbe di una storia a struttura involutiva, nel senso che, col procedere del tempo, Tessere, invece di manifestarsi sempre più chiaramente, si sottrae e si nasconde, al punto che viene un momento, quello del compimento della metafisica, in cui Tessere prende congedo (.Abschied: Hw 301 [305]). La Kehre del pensiero heideggeriano consi­ste per questa interpretazione nell’abbandono della prospettiva della finità, teorizzata in Sein und Zeit, e nella conseguente ripresa della

3 Una posizione di questo tipo è quella sostenuta, almeno rispetto al significato e alle conclusioni di Sein und Zeit, da Fridolin W iplinger , Wahrheit und Geschichtlichkeit. Eine Untersuchung über die Frage nach dem Wesen der Wahrheit im Denken M. Hei­deggers, Friburgo i. Br. 1961, 309-10, dove il senso di Sein und Zeit viene visto nel- l’aver condotto alle conseguenze estreme la metafisica soggettivistica, mostrandone lo scacco.

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metafisica nella sua forma hegeliana, come teorizzazione della struttura necessaria delTessere 4.

Ma il rapporto essere-tempo è davvero, in Heidegger, prima l’affer­mazione delTinvalicabilità della situazione storica, e poi, dopo la Keh­re, l’identificazione dell’essere con la sua storia, intesa come un proces­so di decadenza? Se così fosse, si dovrebbe dire che le due fasi del pensiero di Heidegger sono semplicemente la ripetizione a ritroso del cammino dello storicismo contemporaneo. Si avrebbe infatti un primo Heidegger storicista nel senso dello storicismo tedesco del novecento, per il quale la storicità, cioè l’appartenenza a una determinata struttura storica, è il fatto ultimo, oltre il quale in definitiva non si va, anche se è possibile stabilire sempre ulteriori connessioni, che non conducono però mai a vedere un senso unitario della storia. La finità dell’esserci di cui parla Sein und Zeit sarebbe identificabile senz’altro con la storici­tà come appartenenza a una situazione storica data e dalla quale non si può uscire per fare discorsi universalmente validi. In un secondo mo­mento, Heidegger diventerebbe invece storicista nel senso ottocentesco e hegeliano del termine, in quanto pretenderebbe di indicare le leggi generali della storia dell’essere, entro cui soltanto i singoli momenti acquistano il loro significato, dimenticando proprio che, come momen­to, nessuna proposizione filosofica è in grado di enunciare la verità come totalità del processo.

L ’insufficienza di una tale visione del pensiero heideggeriano, che si rivela da sé per il fatto che accentua, non che dissipare, la difficoltà di capire Heidegger, che ha la sua radice proprio nella incomprensione della funzione che riveste l’indagine sulla temporalità nella fondazione dell’ontologia sviluppata nelle opere successive a Sein und Zeit. In particolare, Paporia a cui si arriva nella posizione interpretativa descrit­ta mette in luce come non si possa assolutamente interpretare il rappor­to essere-tempo in Heidegger secondo moduli storicistici, né hegeliani né diltheyani. Proprio l’incomprensione e il fraintendimento subiti dal pensiero di Heidegger, anzi, sono rivelativi della difficoltà che incontra

4 Cfr. K. L ow ith , Heidegger, cit., 47 [trad. it. cit., 53]: « La verità dell’essere... non ha più come in Hegel la tendenza a svilupparsi sempre più pienamente fino a un “regno dello spirito”, ma la tendenza opposta, a sottrarsi sempre di più ». Sottolineo io le ultime parole per mettere in rilievo come Lowith consideri ancora Heidegger nell’àmbito dello storici­smo che caratterizza a suo parere tutta la metafisica dell’èra cristiana: cfr. 70-71 [ivi, 80-81]. Di hegelismo dell ultima fase del pensiero di Heidegger parla anche J.C . P igu et, Les oeuvres récentes de Martin Heidegger, in « Revue de Théologie et de Philosophie », 1958, n. 4, 283-90. Hegeliana è per lui la dottrina del linguaggio come dimora dell’essere; e hegeliano, soprattutto, il rapporto dialettico essere-enti che sarebbe implicito nel recente pensiero di Heidegger. L ’hegelismo di Heidegger come teorizzazione di una struttura neces­saria dell’essere è sostenuto da P. C hiodi, L ’ultimo Heidegger, cit., 100 ss.

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una speculazione che, come la sua, non rientri nelle prospettive dello storicismo che dominano ancora in larga misura la nostra cultura filoso­fica. Non solo, però, il pensiero heideggeriano sfugge alle categorie storicistiche consuete nelle loro diverse sfumature, ma rappresenta la messa in crisi e la distruzione di queste categorie stesse. Se è vero, come vuole il Landgrebe, che il senso del pensiero di Heidegger rispet­to a quello di Dilthey consiste nell’aver capito che « il compito di una fondazione filosofica delle scienze dello spirito non può essere adem­piuto senza una nuova ontologia » 5, si può anche dire, rovesciando in parte questo giudizio, che egli ha visto come la fondazione della nuova ontologia debba andare di pari passo con la distruzione di ogni forma di storicismo.

Da questo significato generale del pensiero di Heidegger nei con­fronti dello storicismo va distinto lo specifico richiamo a Dilthey che egli fa in Sein und Zeit, sul finire del capitolo V della seconda sezione (SuZ, § 77). Qui si tratta della questione della fondazione delle scien­ze dello spirito, e rispetto a questo problema, come Heidegger dice, l’indagine di Sein und Zeit ha inteso « assecondare l’opera di Dilthey » (SuZ 404; it. 414 [575]). Dilthey, e più ancora il conte Yorck, hanno mostrato che una comprensione del rapporto fra natura e storia esige una « radicalizzazione decisiva » mediante la quale « Yontico e lo stori­co vengano ricondotti a una unità più originaria che renda possibile la determinazione comparativa e la differenziabilità » (SuZ 403; it. 414 [574]).

Una tale radicalizzazione decisiva può essere solo l’ontologia che Heidegger si propone di fondare con Sein und Zeit.

Il significato del pensiero esposto in Sein und Zeit nei confronti dello storicismo va tuttavia ben più in là di quanto possa apparire da questo richiamo a Dilthey. A definire questo significato però può servire proprio il termine « radicalizzazione » che Heidegger adopera per definire la propria posizione nei confronti di quella di Dilthey. L ’indagine heideggeriana sulla temporalità, che costituisce la seconda sezione di Sein und Zeit, e che condurrà, come ci proponiamo di mostrare, alla distruzione delle categorie storicistiche — intese generica­mente come quelle per cui il significato di ogni evento storico si definisce in rapporto al prima e al dopo temporali, siano poi questi vari momenti compresi o no in una linea unitaria di sviluppo — nasce proprio da un atteggiamento « radicale » nei confronti della storicità, dal proposito di prender sul serio nel modo più completo la storicità

5 Philosophie der Gegenwart, cit., 114.

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delTesserci come determinatezza e appartenenza a una precisa situazio­ne. Da questo punto di vista il termine Radikalisierung, più che un ridurre la storicità alla sua radice (come nel caso del richiamo a Dilthey), va accentuato nel senso, che conserva anche nell’uso tedesco, di assunzione di un fatto in tutto il suo significato: l’indagine sulla temporalità impostata nella seconda sezione di Sein und Zeit muove dal proposito di prender sul serio la storicità e la determinatezza dell’es- serci, storicità e determinatezza che si concretano nella situazione limi­te della morte.

Se dunque l’incomprensione del pensiero di Heidegger nella sua unità deriva dalla pretesa di applicare al rapporto essere-tempo che ne sta al centro categorie storicistiche, diltheyane o hegeliane che siano, mentre invece l’ontologia heideggeriana si costituisce attraverso un processo di pensiero che implica l’abbandono di ogni prospettiva stori­cistica, tutto questo accade proprio perché Heidegger ha voluto porre alla base dell’ontologia l’assunzione dell’esserci nella sua più estrema concretezza e quindi nella estrema particolarità della sua situazione. Uno dei significati decisivi di Heidegger per la filosofia contempora­nea sta appunto nel recupero della possibilità di un discorso ontologico a partire dal riconoscimento più totale della storicità e della finitezza temporale dell’esserci. L ’esser riuscito a pensare la storicità dell’uomo in concetti non più storicistici costituisce la base stessa dell’ontologia heideggeriana. È questo il significato della centralità che riveste per il suo pensiero il problema del rapporto essere-tempo. Alla domanda con j cui si conclude idealmente Sein und Zeit: che cosa significa per il senso dell’essere il fatto che esso si manifesta a quelPente che è costituito dalla temporalità?, non si risponde né con la chiusura scettica della finità su se stessa, né con l’identificazione di essere e storia. Proprio l’indagine sulla temporalità mostra che entrambe queste prospettive storicistiche suppongono l’adozione di un concetto non originario del tempo e l’applicazione allesserei — tipica della metafisica come Heideg­ger l’intende - di categorie proprie dell’ente intramondano.

2. Il concetto di essere-per-la-mortecome centro della speculazione heideggeriana sulla temporalità

Il duplice significato, di radicalizzazione e insieme di distruzione dello storicismo, che inerisce al pensiero di Heidegger, è connesso col fatto che questo pensiero si sviluppa tenendo come suo centro il pro-

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blema della morte. Lo stesso fatto che, nelle opere successive a Sein und Zeit, della morte si parli molto meno, almeno esplicitamente, va inteso non nel senso che quel tema sia stato abbandonato, insieme a molti altri elementi delTHeidegger « esistenzialista », ma nel senso che esso trova il suo coerente sviluppo in altri concetti i quali ne dipendo­no strettamente. La stessa epoca della metafisica compiuta, caratterizza­ta dalla filosofia di Nietzsche e dalla poesia di Rilke, la dürftige Zeit dell’oblio dell’essere, è definita dal fatto che non si è risolto il proble­ma della morte: « I mortali non sono ancora in possesso della loro essenza. La morte si sottrae ancora nelFenigmatico » (Hw 253 [252]).

Del resto, non è un caso che le più coerenti filosofie storicistiche non riescano ad assegnare un senso qualunque alla morte; o meglio, che proprio per averle assegnato un senso dialetticamente connesso col sistema, non la prendano più sul serio come il venire alla fine dell’esi­stenza singola, la vanifichino nella sua natura di evento inevitabile e insuperabile. Così accade nel sistema di Hegel, sebbene per un certo verso si possa anche dire che « l’accettazione senza riserve del fatto della morte è la fonte suprema di tutto il pensiero hegeliano, il quale non fa che trarre tutte le conseguenze, anche le più remote, di tale fatto » 6. Resta però da vedere se, essendo divenuta un momento neces­sario e fondamentale del sistema — come manifestazione suprema della potenza del negativo da cui è mosso il divenire dello Spirito — la morte come fine dell’esistenza singola non venga, appunto, messa da parte: nel senso che essa ormai riguarda la vita dello Spirito, e solo come tale è reale; mentre non ha senso parlarne come fatto che riguarda il singolo 7. Da questo punto di vista, il contenuto fondamentale della posizione hegeliana sembra espresso fedelmente in uno dei primi scrit­ti di Feuerbach, dedicato appunto a questo problema, i Todesgedan- ken. Non è un caso che proprio all’inizio del capitolo conclusivo di questo scritto, intitolato « Die Nichtigkeit von Tod und Unsterblich­keit », Feuerbach riprenda l’antica argomentazione epicurea sulla ir­realtà della morte per il singolo. Essa viene inserita però entro un quadro hegeliano: « la morte è essa stessa la morte della morte »,

6 A. K o jève , La dialettica e l’idea della morte in Hegel (traduzione italiana, a cura di P. Sermi, di una parte delia Introduction à la lecture de Hegel, Parigi 1947), Torino 1948, 159.

7 Phänomenologie des Geistes, ed. Hoffmeister, Amburgo 1952, 29 e 69; e i §§ 374-76 della Encyclopédie. Qui soprattutto appare evidente che la considerazione hegeliana della morte è sempre fondata sul punto di vista di quella che Heidegger chiama Vorhandenheit (!a semplice-presenza) e intesa come fatto biologico. Sull’idea della morte in Hegel e Hei­degger cfr. W. Marx, Heidegger und die Tradition, cit., 104.

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giacché la negazione è reale solo come negazione parziale, che toglie una determinata realtà riaffermando però la realtà del tutto8.

Che il problema della morte sia invece centralissimo per tutto Sein und Zeit è chiaro se si riflette che la prima sezione, quella che comune­mente si intende per analitica esistenziale, ha solo una funzione prepa­ratoria, di messa a disposizione delle strutture fenomeniche dell’esserci come esse si danno nella quotidianità, nel loro « innanzitutto e per lo più »; l’analitica esistenziale non è completa senza la seconda sezione, nella quale, messo in luce come la temporalità sia il senso unitario delle strutture della cura, cioè delle strutture dell’esistenza messe allo scoperto dall’analisi preparatoria, si riconosce la necessità di un’esplici­ta « ripetizione » dell’analisi in modo da mostrare il senso originaria­mente temporale delle strutture preliminarmente messe allo scoperto (cfr. SuZ, §§ 45 e 66). Il tema della temporalità, poi, che regge tutta l’impostazione dell’opera, ha a sua volta la propria radice nell’essere- per-la-morte. « La temporalità viene incontrata in modo fenomenica­mente originario nell’autentico essere-un-tutto da parte dell’esserci, nel fenomeno della decisione anticipatrice » (SuZ 304; it. 317 [447]).

Essere-un-tutto (Ganzsein) e decisione anticipatrice sono espressioni che indicano l’assunzione del più proprio essere-per-la-morte da parte dell’esserci. Tutto il concetto di temporalità autentica e la polemica contro la visione volgare del tempo come serie di « ora », che sono le premesse della distruzione heideggeriana dello storicismo, si radicano così nella riflessione sul significato della morte.

Come si è accennato, all’assunzione del tema della morte come centro dell’indagine sulla temporalità e alla conseguente elaborazione di un concettò del tempo che rende impossibile lo storicismo, Heideg­ger arriva proprio muovendo dalla necessità di radicalizzare lo storici­smo stesso. Una tale esigenza di radicalizzazione decisiva è infatti il contenuto del procedimento di pensiero mediante il quale si introduce in Sem und Zeit il problema della morte. L ’analitica esistenziale elabo­rata nella prima sezione faceva riferimento allesserei assunto nella sua quotidianità media, nel modo di essere che esso presenta innanzitutto e per lo più, cioè nella inautenticità. Ora, uno dei segni che l’analitica esistenziale (per quanto abbia essa stessa riconosciuto la distinzione fra autentico e inautentico, e per quanto le strutture che essa ha messo allo scoperto non si identifichino tout court con quelle delPesistere inautentico) rimaneva pur sempre confinata in una sorta di non rag-

% L. Feuerbach , Sämtliche Werke, a cura di W. Bolin e F. Jodl, Frommann, Stoccarda 1960, vol.I, 84-90.

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giunta originarietà, da cui la sua funzione unicamente preliminare, è proprio il fatto che le sue enunciazioni e le sue scoperte valgono per l’uomo in generale. Mossa dall’indagine delTesserci come esso si presen­ta per lo più nella quotidianità media, cioè nel man in cui già sempre si trova, l’analitica ha messo in luce le strutture dell’esistenza, anche di quella autentica, sempre a partire dal man e, per così dire, dal punto di vista del man. Si può dire di aver raggiunto l’autenticità originaria delTessere delTesserci se si è delineato un progetto di autenticità che tuttavia rimane sospeso a mezzaria, nel senso che vale genericamente in riferimento a una sorta di « essenza » dell’esserci, senza porsi il problema di quale sia la sua validità misurata sulla effettiva esistenza delTesserci e sui limiti di questa?

L’anàlisi esistenziale finora condotta intorno allesserei non può avanzare la pretesa delVorigìnarietà. Innanzi a lei stava sempre soltanto l’inautentico essere dell’esserci e questo come non totale. Se la « interpretazione » dell’essere dell’esserci in quanto fondamento della elaborazione del pro­blema ontologico fondamentale vuol farsi originaria dovrà prima di tutto porre esistenzialmente in luce l’essere dell’esserci nella sua possibile autenticità e totalità (SuZ 233; it. 246-47 [354]).

Il fatto che nella prima sezione l’autenticità rimanga definita solo negativamente viene così spiegato col fatto che essa si elabora con l’occhio rivolto allesserei nella sua quotidianità inautentica, è inoltre all esserci non preso nella sua totalità. Sebbene nella frase che abbiamo riferito la mancanza di totalità venga indicata come un altro carattere accanto all’inautenticità, il procedere della riflessione sulla morte mette­rà in luce sempre più chiaramente come l’autenticità si riduca, nel suo fondo, alla totalità, cioè come Tesserci possa essere autentico solo in quanto può essere un tutto assumendo la morte nella sua decisione anticipatrice. Il problema della totalità dellesserci è il problema del valere delle strutture esistenziali, preliminarmente scoperte nell’analiti­ca, per la singola concreta esistenza presa entro i suoi limiti. In questo senso il suo fondo è l’esigenza di storicizzare, nel senso di render concreto, ciò che è stato finora scoperto. Lesserei con cui abbiamo a che fare non è Tesserci astratto, fuori dalla storia (ma questa espressio­ne si usa qui, ovviamente, solo provvisoriamente e nel senso più comune, tanto per intenderci), ma Tesserci concreto che, come tale, pone il problema del valere dell’autenticità rispetto ai suoi limiti. L ’au­tenticità è un « episodio » nel corso della vita dell’esserci? O è un modo di essere costante? Ma, anzitutto, ha senso parlare per Tesserci di un « corso della vita » e di una « costanza » dei suoi modi di

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essere? E, se riconosciamo che l’autenticità richiede una certa costanza, che senso avrà parlare di costanza per un essere che muore? Tutte queste domande, per forza imprecise in quanto gli stessi termini in cui vengono formulate sono ancora usati nel senso banale e andranno precisati attraverso l’indagine, si riassumono nel problema se si possa parlare di autenticità senza garantire che essa vale per la totalità dell’es­sere dell’esserci. Ciò tanto più, in quanto lo scopo del discorso non è quello di delineare una possibilità esistentiva a fini, per esempio, di edificazione morale, ma invece di fondare in una completa indagine sulla struttura dell’esserci il discorso sull’essere. È quindi indispensabi­le che l’autenticità, la quale non è solo un possibile modo di essere dell’esserci, ma il suo modo d’essere più proprio e quindi rivelativo della sua struttura, copra l’intero esserci e si garantisca dal pericolo di lasciar fuori di sé qualche suo modo di essere, fallendo così nella sua funzione fondativa.

L ’esigenza di mettere a disposizione Tesserci nella sua totalità porta così di fronte al concreto essere dell’esserci, dando un contenuto alla Jemeinigkeit di cui riconosce la radice profonda nel carattere sempre- mio della morte come possibilità più propria dell’esserci. La radicalizza­zione del problema della storia, che a rigore viene tematizzata da Heidegger solo più avanti, nello sviluppo dell’analisi della temporalità, comincia e si annuncia però già tutta nel modo stesso in cui viene introdotta la seconda sezione di Sein und Zeit, colla posizione del problema della totalità dell’esserci. In questo senso, radicalizzazione— come già si è detto — non significa solo il cercare un’ulteriore radice che fondi la storicità, come accade appunto quando Heidegger caratte­rizza la propria posizione nei confronti di Dilthey, ma più vastamente (quel significato quindi rimane, ma è compreso in uno più generale) il voler condurre la storicità dell’esserci, intesa come suo esser sempre Tesserci di qualcuno, situato in un quadro di possibilità sempre partico­lari e determinate, alle ultime conseguenze. Ciò che caratterizza questa estrema concretezza dell’esserci e che conduce alla sua autenticità origi­naria è appunto il fatto della morte.

In quanto è la via che conduce alla scoperta delTautenticità origina­ria — non solo nell’analisi esistenziale, ma anche sul piano esistentivo è in base all’anticipazione di essa che Tesserci si realizza come autenti­co — la morte non ha dunque quel carattere di negatività che una certa maniera esistenzialistica ci ha abituato ad attribuirle, caricando il pen­siero di Heidegger di una Stimmung, di una colorazione emotiva, fedele forse al significato usuale dei termini in cui si formula (ango­scia, nulla, ecc.), ma non certo alle sue intenzioni più profonde. Anche

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rispetto allo specifico problema della morte si può dire che il pensiero di Heidegger ha subito un quasi costante fraintendimento, che lo ha coperto nel suo significato « positivo », cioè ne ha tenuto in ombra le aperture ad ulteriori sviluppi. Mettere in luce i contenuti positivi (non certo in senso edificante) della dottrina heideggeriana sulla morte, il nulla, l’angoscia, equivale del resto proprio a vedere come la radicaliz- zazione della storicità, coerentemente perseguita, fornisca anche le indi­cazioni per il superamento dello storicismo e la fondazione dell’ontolo­gia. Che la morte sia proprio ciò in virtù di cui gli uomini sono il «wesende Verhältnis zum Sein als Sein» (VA 177 [119]), è una conseguenza che discende logicamente dal discorso che Heidegger con­duce in questa seconda sezione di Sein und Zeit. Nella quale, dunque, la messa in crisi della mentalità storicistica si attua in due momenti, che ci sforzeremo di distinguere solo per chiarirli, ma che in realtà sono tutt’uno: un momento negativo, in cui, elaborando il problema della possibilità di essere un tutto da parte dell’esserci, si arriva a riconoscere come inautentica e non originaria la visione « seriale » del tempo, quella che assume la sua struttura articolata in passato, presen­te e futuro come una linea sulla quale ogni punto prende significato dal suo rapporto con gli altri, rapporto che dunque ha, nei suoi con­fronti, un valore fondante e costitutivo; un momento positivo, in cui vengono poste le basi per la fondazione della temporalità e quindi della storicità dell’esserci sulla sua costitutiva ontologicità, cioè sulla sua natura di ente finito in rapporto con l’essere. In questo secondo momento, la finità e la nullità costitutive dell’es serri vengono illumina­te nel loro significato positivo, che consiste appunto nell’essere i carat­teri dell’originaria ontologicità dell’esserci.

3. L ’essere-per-la-mortee la struttura della temporalità autentica

La questione di come si possa garantire che la struttura esistenziale della cura (Sorge) vale per tutto l’essere delTesserci, e quindi il proble­ma di come si possa parlare di una totalità dell’esserci, conduce Heideg­ger ad affrontare il problema della morte, indagando sul quale elabore­rà la nuova struttura della temporalità. Si può dire che la ricerca heideggeriana sulla morte e la temporalità, almeno dal punto di vista ancora « negativo » che ora ci interessa (indipendentemente, cioè, da­gli sviluppi positivi in senso ontologico), è tutta racchiusa in un arco di concetti che, per comodità, si può indicare come compreso fra la

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delineazione della struttura del non-ancora proprio delPesserci e quella dell’advenire riveniente 9. Mi propongo di esporre l’indagine heidegge­riana sulla temporalità tenendo come fili conduttori questi due concet­ti, anzi più propriamente il secondo di essi (che si può formulare anche col termine di ripetizione, Wiederholung), giacché il primo costituisce solo il punto di avvio della ricerca, mentre il rivenire se ne rivela come il senso ultimo e definitivo, caratteristico per la definizione della tem­poralità e della storicità.

La morte viene incontrata quando l’analisi esistenziale, per garantir­si la propria validità in vista della fondazione dell’ontologia, pone il problema se le strutture che essa ha scoperto valgano per l’esserci nella sua totalità. Sembra che di una tale totalità delPesserci si possa parlare solo quando esso ha attuato tutte le sue possibilità, anche la più decisiva ed estrema, quella della morte. L ’esserci, almeno a prima vista, pare realizzarsi come tutto solo quando è morto, cioè, paradossal­mente, solo quando non « c’è » più. L ’esserci, infatti, in tanto c’è in quanto è il proprio ci (Da), cioè in quanto non appartiene al mondo come una semplice-presenza o come un utilizzabile intramondano, il cui ci, per così dire, è l’apertura aperta da altri, ma solo in quanto è il centro di un ordine di significati che trovano in lui il loro riferimento ultimo. Ora, il morto può essere ancora nel mondo come cadavere, ma in questo caso è una cosa appartenente al mondo, una pura presenza fisica, che ha senso solo in un quadro di significati aperto da altri esserci. Sicché il morto, a rigore, non ci è più, non è più un esserci. La morte, quindi, non può mai in alcun modo rappresentare, almeno come fatto che a un certo punto accade allesserei, la totalità di questo; essa, anzi, ne costituisce la fine, per cui dopo la morte Pesserci non è né totale né incompleto, semplicemente non c’è più. Sembra dunque che il problema della totalità delPesserci sia di quelli che non possono trovare mai soluzione: finché c’è, Pesserci è necessariamente incomple­to: quando muore, e cioè realizza la sua ultima ed estrema possibilità, non c’è più, quindi non si può dire che ci sia come totalità. L ’essenziali­tà del concetto della morte per il pensiero di Heidegger si svela pro­prio anzitutto a questo punto, giacché muove di qui la distinzione fra temporalità autentica e inautentica, con tutte le sue conseguenze. La

9 Traduco così, seguendo il Chiodi, le espressioni Zukunft, zukommen (avvenire, ad-veni­re), e zurück-kommen (ritornare, ri-venire), come compaiono ad esempio nei seguenti passi di Sein und Zeit'. « Nur sofern Dasein überhaupt ist als ich ^/«-gewesen, kann es zukünftig auf sich selbst so zukommen, dass es zurück-kommt » (SuZ 326; it. 338 [475]); e: « Zukün­ftig auf sich zurückkommend, bringt sich die Entschlossenheit gegenwärtigend in die Situation » (ibid., it. 339 [476]).

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morte, infatti, ha per Tesserci proprio il senso di un evento che non è ancora avvenuto, come finora abbiamo supposto accettando il modo di pensare comune, è solo un accadimento che non è ancora reale e, quindi, entro certi limiti, non mi riguarda se non in quanto vedo che si muore e ne induco che una volta o l’altra toccherà anche a me? Pensata così — e non per nulla questo è il modo di pensare del man inautentico, il quale, come si vedrà, pone ogni sua cura nel vanificare la morte e nello sfuggire davanti ad essa — la morte non è mai qualcosa che mi riguardi. Il man ripete inconsciamente il ragionamento epicureo per cui, finché ci sono io, la morte non ce, e quando ci sarà la morte io non potrò soffrirne perché non ci sarò più. In tal modo, la morte di cui parlo non è mai la mia, e perciò questo discorso ha una funzione tranquillizzante: anche se, vedendo che si muore, penso che un giorno o Taltro toccherà anche a me, questo pensiero può al massimo suscitar­mi una momentanea paura; se non ci penso, la cosa non mi riguarda, la morte è un evento che accade al man impersonale. In quanto mia, io non la sperimento mai.

L ’impossibilità di sperimentare la morte, e quindi l’impossibilità di costituire davvero un tutto senza cessare di esserci, vale tuttavia solo nella misura in cui la morte viene pensata come un evento semplice- mente-presente che, non essendo ancora tale, non è nulla, e quindi non se ne può parlare. Che le cose in realtà stiano diversamente si vede se si prova a indagare in che rapporto stia Tesserci con la sua fine che è la morte. Il non-ancora della morte può essere forse paragonato al non-an- cora della luna a cui « manca l’ultimo quarto » per essere luna piena? Oppure al non-ancora del frutto che deve giungere a maturazione? Né l’uno né Taltro paragone esprimono il non-ancora proprio dell’esserci; la morte non è né il divenire totalmente accessibile di un ente prima in parte coperto, né un compimento per cui l’ente, dopo, possa dirsi perfetto, come è il caso rispettivamente della luna e del frutto non ancora maturo. Tutti i paragoni di questo tipo falliscono nella loro funzione di chiarificazione perché implicano una riduzione dell’esserci alla semplice-presenza, cioè al modo di essere proprio delle cose (cfr. SuZ 245; it. 258 [371]). Il che sta a dire che il non-ancora di questo tipo, cioè misurato sulla semplice-presenza, è possibile solo all’interno di un mondo già aperto come totalità di rimandi e di significati, ma non vale per quell’ente che è esso stesso l’origine dell’apertura. Ogni semplice-presenza ( Vorhandenes) e ogni utilizzabile (Zuhandenes) sono tali solo entro un mondo; Tesserci, che è caratterizzato dall’essere il proprio ci, ossia dall’essere il punto di riferimento ultimo intorno a cui il mondo come contesto di utilizzabili (e, solo per un processo di

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« degradazione », di semplici-presenze) si ordina, si sottrae al tentativo di pensare il suo non-ancora secondo il modo che è adeguato per gli enti intramondani.

Il problema della possibilità che Tesserci costituisca un tutto è dun­que senza soluzione solo finché si pensa il non-ancora sulla base della semplice-presenza: solo così si può dire, per esempio, che finché ci sono io (come semplice-presenza) non ce la mia morte, e quando ce la morte (ancora come evento semplicemente-presente) io non ci sono più. Ma Tesserci si distingue dagli enti intramondani proprio per il fatto di essere il proprio a , cioè per il fatto che è quell’ente « a cui, nel suo essere, ne va di questo essere stesso » (SuZ 42; it. 54-55 [107]), cioè quell’ente che mai, semplicemente, è, ma sempre ha da essere. È ciò che Heidegger esprime anche con il noto termine di progetto: l’uomo è sempre nella forma del progettarsi; le cose intramondane sono in quanto vengono illuminate in un ordine (il mondo come conte­sto di strumenti e di significati) che è tale solo in funzione, per così dire, di questo progetto. Sicché è ovvio che Tesserci sia costantemente incompiuto dal punto di vista della semplice-presenza o Vorhanden- heit. Ma « il non-ancora che ogni esserci è non può venire interpretato come mancanza » (SuZ 246; it. 259 [372]).

In quanto ci è solo sempre nella forma delTaver da essere, « Tesser­ci, allo stesso modo che, fin che è, è già costantemente il suo non-anco­ra, è anche già sempre la sua morte » (SuZ 245; it. 258 [371]).

Data la struttura propria dell’esserci, che è definita dai concetti di progetto e di cura, il modo di essere alla fine, di finire (e quindi di compiersi) proprio dell’esserci è Tessere-per-la-fine [ibid.), si potrebbe dire, chiarendo e un po’ anche banalizzando, il vivere la propria morte.

Il modo come si è pervenuti a questa conclusione può far sorgere il sospetto che il concetto di essere-per-la-morte non abbia in effetti nel pensiero di Heidegger quel carattere centrale ed estremamente origina­rio che gli abbiamo attribuito. Si può osservare infatti che la possibilità di essere-alla-fine come essere-per-la-fine si giustifica solo sulla base della struttura delTesserci come cura, come aver da essere, già stabilita nella prima sezione con Tanalitica esistenziale. Bisogna ricordare che qui siamo di fronte a una struttura di pensiero circolare — e Heidegger teorizza esplicitamente il circolo 10. Perché, infatti, non si può pensare

10 Sulla circolarità tra comprensione e interpretazione si veda soprattutto il § 32 di Sein und Zeit, specialmente 152-53 (it. 166 [249-250]); e inoltre 8 (it. 19 [60-61]), 314-16 (it. 327-29 [460-463]). Non mi sembra si possa accettare l’affermazione di W. M arx, Heidegger und die Tradition, cit., 123, secondo cui la struttura circolare di comprensione-interpretazio- ne non varrebbe per il « pensiero essenziale ». II testo heideggeriano a cui il Marx si

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il non-ancora della morte come il non-ancora delle cose che giungono a compimento o a fine, la luna o il frutto in via di maturazione? La ragione che viene indicata in questi casi è che, se si accettasse l’identifi­cazione, si ridurrebbe Tesserci alla stregua di un ente utilizzabile o semplicemente-presente. Ora questo non è possibile, perché ogni utiliz­zabilità o semplice-presenza si fonda sull’essere nel mondo proprio dell’esserci; è possibile un contesto di utilizzabili e di semplici-presen­ze solo in quanto c’è Tesserci che apre un mondo. L ’esserci, cioè, è con Tessere in un rapporto diverso dalle cose intramondane: a lui, nel suo essere, ne va di questo essere stesso. Le cose vengono all’essere in quanto si illuminano nel suo progetto, ma Tesserci è questo progetto stesso. Poiché dunque non si può ridurre Tesserci alla stregua dell’uti­lizzabile intramondano e del semplicemente-presente, non si può conce­pire il non-ancora della morte sul modello del non-ancora proprio delle cose; di qui si muove per delineare il concetto di essere-per-la-fine e la struttura escatologica della temporalità. Ma, d’altra parte, perché Tes­serci è originariamente ontologico, cioè tale che si rapporta all’essere in modo diverso dalle cose intramondane, le quali vengono all’essere solo in quanto appartengono all’apertura che egli istituisce? O, in altre parole, perché Tesserci può essere quell’apertura in cui si mondeggia il mondo, e come vedremo, si temporalizza la temporalità? Solo in quan­to è per la sua fine. Come apparirà meglio quando la temporalità sarà riconosciuta esplicitamente come il senso ontologico della cura, Tesser­ci è quell’ente che è sempre nel modo delTaver da essere proprio perché è caratterizzato dall’essere per la morte. Si può così dire che la struttura delTesserci come aver da essere è la ratio cognoscendi della possibilità di costituire un tutto essendo per la fine, ma che Tessere per la fine o per la morte è la ratio essendi e la radice di quella struttura stessa. L ’esserci è il proprio ci, è costituito dalla cura, solo in quanto è quell’ente che è per la propria morte; ciò che apparirà del resto eviden­te, oltre che dalla fondazione della cura nella temporalità, anche e soprattutto dal carattere di possibilità aprente che verrà riconosciuto

riferisce, US 150-51 [121-122], significa piuttosto che il circolo ermeneutico teorizzato in Sein und Zeit non raggiunge la radice più profonda del fenomeno. Scrive infatti Heidegger: « Questo necessario riconoscimento del circolo ermeneutico non vuole ancora dire che... si sia colto in maniera originaria il rapporto ermeneutico »; non è più il concetto di circolo quello che deve stare in primo piano nella descrizione di questo rapporto, giacché tale circolarità è solo, potremmo dire, un segno del più profondo rapporto che lega l’uomo all’essere, e che Heidegger ama indicare come un Entsprechen (rispondere, corrispondere), in cui l’essere usa (braucht) l’uomo come proprio messaggero (US 150-51 e 155 [121-122 e 124]). Si ricordi che altrove il rapporto dell’essere con l’uomo è indicato come un Anspruch, un appello: HB 10 [273].

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alla morte, la quale, in quanto possibilità estrema, fonda tutte le altre possibilità via via concrete in base a cui Tesserci esistentivamente si progetta.

Fin d’ora è chiaro il nesso che la morte ha col problema della temporalità, anche se tale nesso non è ancora tematizzato e verrà messo in luce alla conclusione di un più lungo ragionamento. Se la morte deve essere presa sul serio come la mia morte, e non semplice- mente « coperta » nel suo vero significato dalla chiacchiera banalizzan­te, bisogna ammettere che il non-ancora come viene comunemente pensato non può essere attribuito alTesserci, per il quale dunque deve valere una struttura della temporalità diversa da quella entro cui sono le cose intramondane; non solo diversa, ma più originaria e fondante rispetto ad esse, nella quale, e questo è chiaro fin d’ora, il passato, il presente, e il futuro non siano concepiti come Y ora della semplice-pre- senza (e il relativo ora-non-più e ora-non-ancora). La possibilità dell’au­tenticità è così garantita dalla possibilità che Tesserci costituisca un tutto; e il costituire un tutto è possibile all'esserci nella forma del V anti­cipazione della morte. L ’autenticità non è dunque tanto connessa alTesse- re-per-la-morte perché la morte sia, in quanto la possibilità a cui non si sfugge, anche la possibilità più propria dell’esserci, il quale sarebbe autentico solo progettandosi in base ad essa; il nesso tra autenticità ed essere-per-la-morte è invece nella esigenza di totalità che si accompa­gna all’autenticità. Sicché non tanto la morte è la possibilità più propria in quanto ineludibile (giacché, in tale senso, poiché nessuno sfugge alla morte, sarebbe ancor sempre concepita, in certa misura, in riferimento al man e quindi in maniera inautentica), ma in quanto costituisce ed apre Tesserci nella sua totalità, alTinterno della quale soltanto tutte le altre possibilità avranno un senso.

L ’esserci può essere un tutto, e quindi autentico, in quanto può vivere la propria morte nella forma dell’anticipazione. Anche l’anticipa­zione deve esser difesa dal rischio di venir pensata in riferimento alla semplice-presenza: si potrebbe infatti credere che la morte sia anticipa­ta quando è desiderata e attesa; oppure quando costituisce l’oggetto di un costante « pensare alla morte »; o, addirittura, quando è procurata volontariamente nel suicidio. Ciò che ovviamente vale come immediata obiezione contro il suicidio, e cioè che, realizzando la morte, Tesserci non è più e quindi non è più neanche un tutto, vale allo stesso titolo per gli altri modi di anticipazione, quali Tattendere e il pensare-a. Infatti, in entrambi i casi la possibilità della morte viene anticipata, non come possibilità, ma come realtà (penso al momento in cui morrò, attendo Tevento della mia morte e mi preparo a quell’evento come

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tale) e conseguentemente annullata nel suo vero significato di possibili­tà. Solo questo è il senso in cui si può dire che pensare alla morte chiude lesserei alle sue concrete possibilità di ente che è sempre in un mondo e, per esempio, che essa implica una « fuga dal mondo ». Anticipare la morte come possibilità significa viverla come possibilità permanente dell’impossibilità di ogni altra possibilità. Ma proprio per questo le altre possibilità via via concretamente date nella vita dell’es­serci non sono annullate o chiuse, bensì per la prima volta intese e aperte nel loro autentico significato: « L ’anticipazione della possibilità insuperabile apre nel contempo alla comprensione delle possibilità po­ste al di qua di essa » (SuZ 264; it. 276-77 [395]).

L ’esserci che si progetta in base a possibilità diverse dall’estrema possibilità che è la morte è inautentico perché chiude continuamente il proprio essere inteso come cura e aver da essere. Se mi progetto in base a una possibilità che poi di fatto realizzo, con la realizzazione della possibilità su cui mi sono progettato viene anche sempre meno il mio aver da essere; la mia « storia » è dunque la casuale e discontinua storia delle semplici-presenze che via via costituiscono le mie possibili­tà realizzate — una discontinuità che ricorda l’esistenza estetica del seduttore kierkegaardiano. Il carattere di inautenticità di questo modo di esìstere deriva dalla costante chiusura che la realizzazione delle singole possibilità rappresenta per me. Anticiparsi nella propria morte costituisce invece l’esistenza autentica proprio in quanto la morte è una possibilità che, finché Tesserci c’è, rimane sempre tale e lo mantiene costantemente aperto per le concrete particolari possibilità che costitui­scono la sua situazione. « L’anticipante farsi libero per la propria mor­te libera dalla dispersione nelle possibilità che si incrociano casualmen­te, in modo che le possibilità effettive, cioè situate al di qua di quella insuperabile, possano essere comprese e scelte autenticamente » (SuZ 264; it. 276 [395]).

Rispetto alle possibilità concretamente date nelle singole situazioni la morte è la più propria perché è il più proprio poter essere delTesser­ci (sein eigenstes Seinskönnen: SuZ 263; it. 275 [394]), cioè la possi­bilità più appropriata alla sua struttura di essere che ha da essere, in quanto possibilità che rimane costantemente tale.

Tenendo presente questo carattere di possibilità aprente che inerisce alla morte si chiarisce anche ulteriormente la questione della distinzio­ne fra autenticità e inautenticità. Autentico è il modo di essere delTeiref- ci in quanto tale: solo in quanto anticipa la morte Tesserci apre un mondo come contesto di possibilità concrete e di significati, cioè è il proprio ci. Perciò l’indagine che voglia porre il problema delTessere

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partendo da un’analisi del modo di essere proprio di quell’ente che pone il problema non può che scegliere di studiare l’esistenza autenti­ca; anche l’esistenza inautentica è oggetto di indagine solo in quanto, in essa, si annunciano, sia pur coperte, le strutture dell’autenticità. In tale senso la distinzione fra autentico e inautentico rimane per Heideg­ger al di qua di ogni valutazione morale, almeno in questa fase della sua ricerca, e mira solo a una messa in luce delTesserci in ciò che esso ha di caratteristico e di peculiare.

Che la morte venga anticipata come possibilità e, di conseguenza, che essa apra Tesserci alle possibilità via via concretamente date, è un punto su cui bisogna insistere particolarmente; e Heidegger non a caso vi ritorna di frequente. Ciò non perché, sul piano esistentivo, importi chiarire in modo speciale come si debba anticipare davvero la morte per realizzare l’autenticità; bensì, invece, perché solo in questo modo è possibile arrivare a fondare la struttura dell’autentica temporalità. L ’an­ticipazione della morte, come progettarsi su una possibilità che, rima­nendo permanentemente tale, apre alle concrete possibilità di volta in volta date allesserei, e permette di sceglierle autenticamente fuori dalla casualità, mette in luce il fenomeno dell’ad-venire riveniente, o più semplicemente del rivenire, che sarà decisivo per la struttura della temporalità. Il progettarsi anticipando la propria morte si rapporta infatti a una possibilità, cioè a un avanti-a-sé\ ma questa possibilità, in quanto autenticamente e costantemente tale, non offre qualcosa da realizzare che si ponga in alternativa alle altre possibilità concretamen­te date (cfr. SuZ 262; it. 275 [393]), sicché progettarsi in base ad essa significa semplicemente aprirsi a comprendere le possibilità esistentive concrete e a sceglierle autenticamente, cioè come possibilità finite. In questo senso, « Tessere per la morte, come anticipazione nella possibili­tà, rende possibile la possibilità e la rende, come tale, libera » (SuZ 262; it. 275 [393]).

Anticipare la morte come possibilità implica così un ritorno sulle possibilità date di fatto, un rivenire fondato e reso possibile dalla anticipazione. Questa struttura del rivenire fondato dal progettarsi sulla possibilità autentica costituirà l’ossatura della temporalità.

Alla stessa conclusione sulla struttura adveniente-riveniente dell’esi­stenza autentica arriva, e in maniera più esplicita, l’indagine che Hei­degger conduce sui concetti di coscienza e di decisione, indagine che costituisce l’effettivo passaggio alla delineazione della struttura della temporalità. Ciò che si è detto finora sull’autenticità dell’esistenza che si progetta anticipando la morte ha bisogno infatti di essere fondato da un discorso che, dopo aver delineato un tale progetto sul piano pura­

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mente ontologico ed esistenziale, ne mostri anche la possibilità esisten- tiva. Si deve cioè rispondere alla domanda: come arriva di fatto Tesser­ci a progettarsi sull’anticipazione della propria morte? Ossia: il proget­to esistenziale di una esistenza autentica come anticipazione della mor­te è attestato anche come concreta possibilità esistentiva? Si tratta, per parlare in termini più approssimativi ma perciò anche più chiari, di mostrare l’effettiva attuabilità di una esistenza autentica quale è stata delineata. L ’attuabilità esige che si indichi il « fatto » in virtù del quale il progetto esistenziale dell’esistenza autentica si attua esistentivamen- te, giacché solo così si potrà riconoscere che l’esistenza autentica è davvero una possibilità che si presenta allesserei. Proprio perché il problema è di arrivare a indicare il « fatto » che attua in concreto Tesistenza autentica, il punto di arrivo di queste pagine sarà il concetto di decisione. E necessario vedere almeno schematicamente come Hei­degger vi arriva, proprio per cogliere anche nella decisione quella struttura del rivenire che abbiamo scelto come filo conduttore per la delineazione della temporalità.

L ’esserci, in quanto essere-nel-mondo, è già sempre gettato in que­sto mondo, cioè si trova già sempre ad essere presso le cose di cui si prende cura e, conseguentemente, ha già sempre la tendenza a proget­tarsi, cioè a pensarsi e interpretarsi, in base ad esse. È questa una delle strutture costitutive della cura, quella che Heidegger chiama Verfallenheit (deiezione), per la quale Tesserci si trova già sempre ad esistere nella forma dell’inautenticità; in conseguenza di questo fatto, tra l’altro, Tanalisi esistenziale ha sempre un inevitabile carattere di violenza, giacché il nascondimento delle sue vere strutture e l’interpre­tazione inautentica di esse è lo stato normale in cui Tesserci già sempre si trova (cfr. SuZ 311; it. 324 [457]). Che cos’è che, nella situazione di inautenticità in cui Tesserci vive, può costituire il punto di partenza perché esso si progetti invece autenticamente anticipando la morte? Heidegger introduce qui uno dei concetti più difficili della sua specula­zione, la cui difficoltà è tuttavia più apparente che reale, perché quan­to al senso fondamentale esso non si distingue quasi affatto dall’ango­scia; alla quale tuttavia non si può senz’altro ridurre, perché non è chiaro che sia una « tonalità affettiva », anzi è indicato esplicitamente come « discorso » (cfr. SuZ 296; it. 309 [437]). È il concetto di « voce della coscienza » che, in mezzo alla dispersione quotidiana in cui Tesserci sempre già si trova, lo richiama per metterlo di fronte alla nullità costitutiva della sua esistenza, cioè alla sua originaria colpevo­lezza.

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Non si può indicare chi sia che chiama, in quel richiamo che noi indichiamo col termine coscienza:

Il chiamante della chiamata, e ciò appartiene al suo carattere fenomenico [nel senso di « fenomeno » che Heidegger precisa in SuZ, § 7 A], tiene completamente lontano da sé qualsiasi forma di darsi a conoscere {SuZ 274; it. 287 [409]).

Tuttavia si può dire che « il chiamante della chiamata » è « Tesserci affettivamente aperto al suo fondamentale spaesamento » (SuZ 276; it. 289 [412]).

Il che si chiarisce solo in seguito, quando si cerca di illuminare che cosa dia a comprendere questa chiamata. Essa — e si osservi in ciò l’analogia con il rapporto di non omogeneità e non alternatività fra la possibilità della morte e le singole concrete possibilità quotidiane — non dice qualcosa che possa essere messo accanto a ciò che si dice nella chiacchiera quotidiana; anzi, da questo punto di vista la coscienza non dice assolutamente nulla (cfr. SuZ 273; it. 286 [407]). Tuttavia essa dà a comprendere qualcosa, e precisamente un originario e fondamenta­le esser colpevole da parte delTesserci. Ciò non significa che Tesserci venga così richiamato a una responsabilità morale per qualche fatto preciso che violi una qualche legge; questo modo di esser colpevole, come riferito a ciò che comunemente si considera bene e male, è anzi possibile e « aperto » solo in base alla colpevolezza radicale dellesser- ci, che consiste nelTessere « il (nullo) fondamento di una nullità » (SuZ 285; it. 298 [423]). « Tanto nella struttura dellesser gettato, quanto in quella del progetto, è racchiusa una nullità essenziale » {ibid.).

Lesserei, cioè, in quanto essere che ha da essere, a cui nel suo essere ne va di questo essere stesso, si trova ad aver da essere il fondamento di se stesso (deve progettarsi, scegliersi nelle sue possibili­tà); ma in quanto il suo che, il fatto che esso ci sia, non è fondato da lui, la sua struttura di fondamento si trova davanti a un limite, poiché, se non fonda se stesso come fondamento delle proprie possibilità, non fonda nulla. Non solo: anche in quanto progetto, Tesserci incontra il non (quello che traduciamo con nullità, Nichtigkeit, viene usato da Heidegger proprio come la sostantivazione di nicht, non), giacché la scelta di una possibilità implica sempre il non poter scegliere Tal tra. A questa duplice nullità allude dunque la voce della coscienza quando richiama Tesserci alla propria colpevolezza.

Ciò che importa mettere in luce qui, a proposito di questo esser colpevole (sul cui rapporto con il non e la Nichtigkeit torneremo), è

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che anch esso, non essendo fondato su un fatto, su una colpa effettiva­mente commessa, ma sulla struttura dell’esserci, ha il carattere di possi­bilità che inerisce alla morte. Rispondere alla chiamata della coscienza, o meglio ascoltarla e darle retta, non significa prendere qualche iniziati­va per liberarsi dalla colpevolezza a cui essa richiama, ma « progettarsi sul più proprio ed autentico poter divenir colpevole » (SuZ 287; it. 300-301 [426]).

Un tale progettarsi implica anch’esso un rivenire: « Comprensione del richiamo significa: voler-avere-coscienza » (SuZ 288; it. 301 [427]), cioè esser pronto a venir richiamato. Ma, come già era il caso del progettarsi in base alla possibilità della morte, il modo di vivere concretamente le possibilità esistentive non cambia: « Il voler-avere-co- scienza assume la forma di una accettazione dell’essenziale mancanza di coscienza, all’interno della quale unicamente sussiste la possibilità esistentiva di essere “buono” » [ibid.). Questo «tacito e angoscioso autoprogettarsi sul più proprio esser colpevole è ciò che chiamiamo decisione» (SuZ 297; it. 310 [438]).

Come la morte, in quanto possibilità estrema, garantiva tutte le altre possibilità nella loro autenticità, così la decisione che assume Tesser colpevole apre e fonda ogni altra decisione. Lungi dalTisolare Tesserci, « il decidersi è proprio invece in primo luogo l’aprente progettamento e la determinazione delle possibilità di volta in volta effettive » (SuZ 298; it. 311 [440]).

Questa determinazione delle possibilità di volta in volta effettive è l’unico senso in cui il discorso esistenziale possa giustificare il concetto di situazione; la situazione, come complesso di effettive possibilità ordinate e connesse, è fondata e aperta dalla decisione. Il man, che non si è mai deciso, non ha situazione, ma eventualmente vale per esso il concetto di Umwelt o milieu, ossia ciò che lo circonda come sempli­ce-presenza, perché esso non ha aperto, col decidersi, l’àmbito in cui si trova. « La chiamata della coscienza, risvegliando al poter essere, non prospetta un vuoto ideale di esistenza, ma pone innanzi alla situazio­ne » (SuZ 300; it. 313 [442]).

Non occorre nemmeno sottolineare in che senso la struttura della decisione contenga in sé quel carattere di rivenire che abbiamo già scoperto nella anticipazione della morte. Anche qui il rivenire consiste nella assunzione delle possibilità concretamente date; al punto che si può domandare in che cosa la struttura complessiva della decisione come è stata fin qui elaborata si distingua da quella dell’anticipazione della morte. Un facile modo di mettere in rapporto i due fenomeni sarebbe quello di considerarli come i due limiti che segnano la finità

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dell’esserci, l’uno, la morte, a parte post, l’altro, la decisione che assu­me la colpevolezza, e cioè accetta Tessere gettato come fondamento che non si fonda da sé, a parte ante. Tutto questo è anche parzialmente vero, ma vale più che altro come considerazione aggiunta che si può fare su questa parte del pensiero di Heidegger; giacché intenderlo in senso rigoroso come il senso stesso del parallelismo fra anticipazione della morte e decisione equivarrebbe a rappresentare Tesserci nella forma della semplice-presenza, che ha un inizio e una fine i quali si fanno presenti rispettivamente attraverso la coscienza della morte e là coscienza della nullità del proprio essere gettato.

In realtà, l’analogia che si riscontra fra la struttura della decisione e quella dell’anticipazione della morte rivela il suo senso solo nel concet­to di decisione anticipatrice: si vede allora che né Tanticipazione della morte può avere una realtà esistentiva senza la decisione assumente Tesser colpevole, né la decisione può essere autentica senza essere decisione per la morte. Queste due strutture dell’autenticità si rivelano come una struttura unica, che si riassume nel concetto di decisione anticipatrice, nella quale anche il movimento dell’advenire riveniente appare nella sua massima chiarezza ed è usato esplicitamente per la fondazione della temporalità. Il concetto di decisione anticipatrice non nasce ovviamente da una semplice unificazione estrinseca dei due con­cetti che si sono venuti elaborando, ma sorge come lo stesso unico possibile modo di essere autentica della decisione. Infatti, questa « comprende il “potere” implicito nel poter essere colpevole, solo se si “qualifica” come essere per la morte » (SuZ 306; it. 319 [450]).

Non che Tesser colpevole, che la decisione deve assumere, abbia di per sé un qualunque rimando all’essere per la morte: anche dal concet­to di decisione anticipatrice viene anzi ribadito che l’assunzione della colpevolezza non è mai in nessun caso l’assunzione di una colpa, ma solo l’aprirsi deciso alla finità caratteristica del proprio essere, alle proprie concrete possibilità. Proprio per questo, e cioè perché è un aprirsi alle proprie concrete possibilità, la decisione di per sé non garantisce di essere autentica finché non si decida per le proprie possi­bilità nella forma dell’anticipazione della morte. La decisione « porta in sé l’autentico essere per la morte come la possibile modalità esistenti­va della propria autenticità» (SuZ 305; it. 319 [450]).

Ora, dire che Tessere per la morte è la modalità autentica della decisione equivale a dire che la decisione è tale solo quando è decisio­ne anticipatrice; e cioè, come già aveva fatto intuire l’analogia, anzi l’esplicito nesso, tra la voce della coscienza e l’angoscia, che Tessere gettato come esser colpevole è solo il modo di annunciarsi e di richia­

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mare dello stesso essere per la fine che è costitutivo delTesserci. È per questo che « la decisione anticipatrice e solo essa comprende il poter essere colpevole autenticamente e totalmente, cioè originariamente » (SuZ 306; it. 319 [451]).

Il concetto di decisione anticipatrice si capisce solo se si tiene ben fermo che tra lanticipazione della morte e la struttura della decisione com’è stata fin qui elaborata non c’è parallelismo; Tandcipazione della morte è il punto di arrivo di un « progetto esistenziale » di esistenza autentica; questo progetto può farsi esistentivo solo attraverso il richia­mo della coscienza, il riconoscimento e l’assunzione decisa della pro­pria colpevolezza come nullità. Ma, come si è visto, la decisione come assunzione della finità rigetta Tesserci nelle concrete possibilità in cui già sempre si trova gettato; questo ritorno sulle concrete possibilità è autentico solo se è un farsi autenticamente libero per esse nella forma dell’anticipazione della morte. La decisione, quand’è autentica, non è altro che il modo in cui esistentivamente si attua Tessere per la morte, raggiunto dapprima solo come progetto esistenziale. « La nullità, che impronta originariamente tutto Tessere dellesserci, gli si svela nell’au­tentico essere per la morte » (SuZ 306; it. 319 [451]).

Se la decisione non è anticipatrice, essa si limita ad essere un ricono­scimento della situazione in cui di fatto Tesserci si trova: ma in quanto tale situazione, con le possibilità che la costituiscono, non è riconosciu­ta e assunta con quella libertà che solo Tessere per la morte può dare, la decisione stessa non è decisione, e la situazione, a rigore, neppure si può chiamare tale, giacché il man che non si è autenticamente deciso non ha una situazione in senso proprio. Il problema della connessione fra anticipazione della morte e decisione si risolve solo considerando tutta la parte dedicata in Sein und Zeit all’elaborazione del concetto di decisione mediante quelli di coscienza e di colpa come un modo — e così la presenta Heidegger stesso — di ricercare la via attraverso cui Tesserci, esistentivamente, può realizzare Tessere per la morte nella forma dell’anticipazione. Questa è anche la ragione per cui il concetto di decisione anticipatrice, nella sua sostanza, non aggiunge apparente­mente molto a quello che nel primo capitolo della seconda sezione è stato detto sull’essere per la morte. Salvo che è proprio la decisione a permettere la delineazione della struttura della temporalità in base a quell’advenire riveniente che già ci era apparso giacere al fondo del progetto esistenziale di essere per la morte tracciato nel capitolo pri­mo. L ’essere per la morte ha messo solo in evidenza che il non-ancora e in genere tutte le determinazioni temporali pensate in base alla semplice-presenza non possono valere per Tesserci, il quale può vivere

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la propria morte nella forma dell’anticipazione, anticipazione che, in quanto lo apre autenticamente alle possibilità costitutive della sua situazione, è riveniente. Ma il punto da cui prende l’avvio questo movimento di andata e ritorno, di anticipazione e apertura alle possibi­lità date, può essere solo la decisione. La nuova struttura della tempo­ralità annunciata dal concetto di anticipazione della morte si tempora- lizza concretamente solo a partire dalla decisione, che nella sua forma autentica è decisione anticipatrice. La stessa apertura sulle possibilità concretamente date, che si è visto essere connessa con l’anticipazione della morte, si apre solo quando lesserei esistentivamente si decide per la propria possibilità autentica. Ecco perché Heidegger insiste partico­larmente sul nesso esistente fra decisione (Entschlossenheit) e apertura (.Erschlossenheit) 11. Ciò che la decisione originariamente apre è anzitut­to la temporalità stessa. Passato, presente e futuro si temporalizzano infatti solo nel momento della decisione e come un distendersi del­l’apertura da essa aperta secondo le tre dimensioni del tempo. Nel cooriginario temporalizzarsi di tutte e tre le dimensioni della temporali­tà, spetta però una sorta di primato al futuro. L ’anticipazione della morte, in cui consiste la decisione autentica,

è possibile solo in quanto Tesserci, in generale, può pervenire a se stesso nella sua possibilità più propria e perché in questo lasciarsi pervenire \Zukommen\ a se stesso mantiene la possibilità come possibilità, cioè esiste. Il lasciarsi pervenire a se stesso nel mantenimento della possibilità caratteristica come tale è Toriginario fenomeno delTad-venire [Zukunft\ (SuZ 325; it. 338 [474-475]).

Il futuro autentico, cioè, è proprio il non-ancora proprio delTesserci, il quale non-ancora è caratterizzato dall’anticipazione della possibilità come possibilità, cioè dall’anticipazione della morte la quale è appunto Tunica possibilità che si lascia anticipare come tale e cioè è Tunica possibilità autentica. Si può parlare in generale di un futuro solo perché c’è un ente che può anticiparsi nella possibilità mantenendola come tale, cioè che può vivere la propria morte. L ’esserci ha autentica­mente un futuro solo in quanto muore, cioè in quanto è essere-per-la- morte: tutte le altre possibilità non garantiscono di per sé alcun futuro, il loro non-ancora è sempre il non-ancora della semplice-presenza.

Ma la decisione anticipatrice, anticipando la morte, in quanto deci­sione è anche sempre l’assunzione della nullità costitutiva dell’esserci; ossia, come già si è detto, la decisione anticipatrice è anche sempre un

n Si veda per esempio SuZ 297 (it. 310 [438]): « Die Entschlossenheit ist ein ausgezei­chneter Modus der Erschlossenheit des Daseins ».

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ritorno sulle concrete possibilità date, una autentica assunzione di esse: « l’assunzione dell’essere gettato significa per Tesserci: essere au­tenticamente come già sempre era... L ’anticiparsi nella possibilità estre­ma e più propria è il comprendente rivenire sul più proprio essere-sta- to [Gewesen] » (SuZ 325-26; it. 338 [475]) 12.

Solo in quanto si progetta sul proprio autentico futuro (la morte come possibilità), Tesserci ha e si riconosce un passato (le concrete possibilità costituenti la sua situazione, in cui è già sempre gettato). In quanto la decisione anticipatrice e riveniente lo ha posto in una situa­zione, Tesserci sta presso l’utilizzabile intramondano non più nella forma della deiezione che si progetta in base alle cose, ma come un « attivo lasciar venire incontro ciò che si presenta nel mondo »; la decisione è presente in quanto « presentazione », cioè in quanto « schietto far venire incontro ciò che essa, agendo, afferra » (SuZ 326; it. 338-339 [475-476]).

La decisione anticipatrice è così il punto a partire dal quale il tempo si temporalizza e le tre dimensioni o estasi temporali si distendono, permettendoci di parlare di un presente, di un passato e di un futuro. E chiaro che, se il tempo è in tal modo radicato nella decisione, non avrà più senso vedere la decisione come un evento che accade nel tempo a un momento ben determinato, che è in un rapporto lineare di successione e di anticipazione con i momenti che vengono prima e dopo. Tutte queste strutture del tempo, l’ora, il prima, il dopo, sono strutture derivate che, per così dire, si spiegano (o meglio, si dispiega­no) solo in base alla decisione, e non viceversa. La struttura della temporalità che Heidegger ha così raggiunto muovendo dal problema della morte è una struttura genuinamente escatologica, e ciò in un duplice senso, analogo a quello che il termine ha nella teologia 13 : da

12 Alla « paradossalità » della concezione heideggeriana del tempo, come essa si riflette nelle strutture linguistiche e nello stile, dedica alcune pagine E rasmus Schöfer , Die Sprache Heideggers, Pfullingen 1962, 189-91, che inserisce le peculiarità terminologiche e stilistiche del testo heideggeriano in un più vasto studio sulle « forme metalogiche » del pensiero di Heidegger (si veda tutto l’interessante capitolo su « Metalogische Denkformen und grammatische Besonderheiten » (181-226).

13 La struttura escatologica della concezione heideggeriana del tempo, in riferimento all’uso fattone nella teologia da Rudolf Bultmann, è illustrata da J ohannes K örner, Eschatologie und Geschichte, Amburgo-Bergstedt 1957, specialmente 69-97, che mette an­che bene in luce l’importanza del concetto di essere-per-la-morte nella determinazione di questa prospettiva escatologica. Si veda anche R ené M arlé, Bultmann et l’interprétation du Nouveau Testament, Parigi 1956, dove però il rapporto Bultmann-Heidegger è studiato specialmente dal punto di vista del problema ermeneutico. Una riflessione teologica sul pensiero heideggeriano è l’assunto dello studio di H einrich Ot t , Denken und Sein, cit., il quale però si limita a chiarire con grande acume i temi principali del pensiero heideggeria­no, senza esplicitarne molto la portata teologica. Sia nello studio dello Ott, sia nel lavoro di

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un lato, infatti, la dimensione primaria del tempo è il futuro, e le altre si temporalizzano a partire da essa; ma questo futuro, proprio in quanto non è un futuro nel senso della temporalità banale del prima e del dopo, mette in crisi la concezione banale del tempo. Nella teologia cristiana, il giudizio è insieme un fatto finale e un atto che è già in corso fin da ora. Del resto Heidegger ricorda esplicitamente proprio in queste pagine, la dottrina kierkegaardiana dell’attimo (cfr, SuZ 338, nota; it. 351 [491]), anche se attribuendole un significato limitato. L’essenziale di questa impostazione escatologica della temporalità è che la decisione, attraverso la quale Tesserci si temporalizza e, come ora si vedrà, si storicizza, non assume il suo significato dal rapporto che, come momento della storia, ha con gli altri momenti di questa, proprio perché la temporalità come esteriorizzarsi e distinguersi delle tre dimensioni del tempo è originariamente fondata nella decisione.

Se si prova a pensare che cosa è allora la storia, posto che la struttura della temporalità sia davvero quella delineata da Heidegger, ci si accorge che il concetto della temporalità autentica ci costringe ad abbandonare quasi tutti i punti di vista apparentemente più consolidati e ovvi su questo problema. Il radicare la temporalità nella decisione che anticipa la morte, cioè che si rapporta autenticamente con la pro­pria nullità, implica che il rapporto costitutivo delTuomo, se così si vuole esprimersi, non è quello con la storia, intendendo il termine storia come indicante genericamente la « situazione » (l’eredità biologi­ca o culturale, il rapporto con gli altri in un certo mondo, ecc.), o con il tempo; a questo rapporto, che è considerato costitutivo da tutte le forme di storicismo, se ne sostituisce un altro, che per ora rimane non

Körner (il quale però riflette la posizione di Bultmann, a cui lo scritto è monograficamente dedicato), il rapporto della filosofia heideggeriana con la teologia è visto in una prospettiva di tipo genericamente scolastico. La filosofia di Heidegger, cioè, si concluderebbe con delle « aperture » a Dio e alla Rivelazione: si veda per esempio, nel libro dello Ott, 128, la conclusione del discorso sul « superamento della metafisica », che rimane compito della teologia (dove si ha l’applicazione di un modo di procedere « dialettico »: la filosofia proprio col suo scacco, in questo caso l’impossibilità di superare la metafisica, richiede la teologia e vi si apre); e 224-25, dove il risultato del più recente pensiero di Heidegger viene visto, in base al concetto di Geviert teorizzato nei Vorträge und Aufsätze, nell’aver reso possibile una visione della « cosa », che senza essere una theologia naturalh, « tiene la porta aperta » alla rivelazione del Dio vivente. Non sembra però che il significato religioso del pensiero di Heidegger vada cercato secondo queste vie, che implicano sempre una visione « dialettica » del rapporto filosofia-rivelazione. Più produttivo sarebbe forse cercare il signi­ficato religioso del pensiero heideggeriano inteso come struttura conclusa, senza imporgli più o meno artificiose « aperture »; e per questo, più che studiare il possibile uso teologico dei concetti heideggeriani, occorre vederne Yorigine teologica. Heidegger stesso indica que­sta via quando, alludendo all’origine teologica del suo interesse per il problema ermeneuti­co, dice « senza questo punto di partenza [Herkunft] teologico non sarei mai arrivato sulla via del pensiero. E il punto di partenza rimane sempre (anche) il futuro » (US 96 [90]).

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chiarito, e che si può genericamente indicare come rapporto col nulla. Proprio l’aperta problematicità di questo concetto di nulla rivela che, per ora almeno, e fin che il concetto di nulla non sia ulteriormente chiarito, il risultato dell’indagine sulla temporalità è un risultato princi­palmente negativo, che consiste nell’aver reso impossibile ogni prospet­tiva storicistica intesa come quella per cui ciò che costituisce luomo èil rapporto con la storia o l’essere nella storia. La compiuta radicalizza- zione della problematica della storicità verrà raggiunta solo quando si farà chiaro come vada pensato questo « nulla » con cui Tesserci è originariamente e costitutivamente in rapporto: ecco perché la questio­ne della radicalizzazione viene posta da Heidegger verso la fine della seconda sezione di Sein und Zeit, e cioè verso la fine della parte effettivamente scritta e pubblicata. Ciò che finora se fatto, per quanto diretto, come si è visto introducendo il concetto della morte, dall’esi­genza della radicalizzazione (ma piuttosto nel senso del portare agli estremi), non vale tuttavia ancora come positiva fondazione della sto­ricità.

Ciò a cui, almeno esplicitamente, Sein und Zeit arriva è appunto solo la messa in crisi della visione storicistica della storia. Tale visione, che è la visione banale, attesta una certa predominanza del passato in questo concetto: è storico, nel modo comune di pensare, ciò che viene dal passato, che ha un lungo passato, ecc. Ora, una breve riflessione mostra che, se vale ciò che finora s’è detto sulla temporalità, il solo che possa essere autenticamente passato è Tesserci. Le cose hanno un passato solo in quanto appartengono a un contesto, a un mondo, diverso da quello a cui altra volta hanno appartenuto: ma questi mon­di sono diversi solo come diverse aperture aperte dall’esserci stesso. Il problema è: come si può dire « del passato » una cosa (un mobile, un edificio, un documento qualsiasi di quelli sulla cui base lavora la storiografia) che appartiene al mondo, cioè a quel contesto che Tesserci apre per il solo fatto di esserci come proprio ciì In che senso, cioè, Tesserci aprendo un mondo può avere un passato, riconoscere in esso delle cose come « venienti dal passato » o come voci e documenti del passato? L ’esserci, poiché non è una semplice-presenza, come non può avere un non-ancora nel senso del non essere ancora qui, così non può mai essere passato nel senso di non esserci più; quando non c’è più, non è più Tesserci. L ’unico modo in cui si può pensare il passato delTesserci è quello radicato nel rivenire fondato sulla decisione antici­patrice. Quel « più proprio essere stato » a cui la decisione anticipatri­ce rimanda Tesserci autenticamente deciso, è proprio il passato anche nel senso della storia. L ’attimo della decisione (che non va pensato

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come ora nel senso della temporalità inautentica: cfr. SuZ 338; it. 351 [491-492]) è quello in cui Tesserci si temporalizza, apre le tre estasi temporali e quindi anche si storicizza. La storia, come il passato che io riconosco come mio fondandolo, sono quelle possibilità in cui mi trovo gettato e a cui la decisione anticipatrice e riveniente mi rimanda. « La mobilità specificamente propria delVautoe stender si esteso \_erstrecktes Sicherstrecken] la chiamiamo lo storicizzarsi [Geschehen] dell’esserci » (SuZ 375; it. 388 [539]).

Si è già visto come l’anticipazione della morte, proprio in quanto è il decidersi per una possibilità che rimane permanentemente tale, non offra alcun contenuto esistentivo allesserei. « L ’autoprogettarsi antici­patore sulla possibilità insuperabile delTesistenza, la morte, garantisce solo la totalità e l’autenticità della decisione. Le possibilità effettiva­mente aperte dell’esistenza non possono venir ricavate dalla morte » (SuZ 383; it. 395 [549]).

Queste possibilità effettivamente aperte sono quelle in cui io sono già sempre gettato. « La decisione, in cui Tesserci ritorna su se stesso, apre le possibilità via via effettive di un autentico esistere in base aWeredità che essa, in quanto gettata, assume » (SuZ 383; it. 396 [55 °]).

Come solo chi è deciso ha una situazione, solo chi è deciso ha una storia; il che non significa, ovviamente, che chi non è deciso non sia in un mondo, quindi, nel significato, comune, in una situazione storica; ma a rigore questa non è situazione né storia, nel senso che non è la sua situazione e la sua storia, aperta dalla decisione anticipante la propria possibilità più autentica. Il fatto che il man parli comunemente di storia e di situazione si verifica perché, come sempre, Tinautentico è un modo di vivere in maniera coperta e stravolta l’autenticità, e come tale ne conserva sempre, per quanto mistificate, le strutture. In quanto la storia è aperta e fondata dalla decisione, e perciò è sempre di qualcuno (è caratterizzata dalla Jemeìnigkeit che inerisce a tutte le strutture autenticamente esistenziali), essa si può indicare anche col termine di destino. Col termine destino « noi designiamo l’originario storicizzarsi dell’esserci riposto nella decisione autentica, storicizzarsi in cui Tesserci, libero per la sua morte, si tramanda [überliefert] a se stesso in una possibilità ereditata ma tuttavia scelta» (SuZ 384; it. 396 [550]).

Destino non significa dunque in alcun modo una semplice accettazio­ne della « situazione » in cui mi trovo, una specie di sanzione del fatto compiuto contro cui non posso nulla; non è uno spinoziano riconosci­mento della necessità come unica forma possibile di libertà. Ciò a cui il

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termine destino allude anzitutto è l’eliminazione della casualità e della dispersione, che deriva dall essersi autenticamente deciso per la morte. In quanto mi sono deciso per la mia morte, e la anticipo come possibili­tà permanente, mi apro autenticamente alle singole possibilità concre­te; sono queste possibilità che, aperte e fondate dalla decisione antici­patrice, perdono la loro forza di pressione dispersiva sull’esserci, vengo­no riconosciute nella loro finità. In quanto sono possibilità, esse non possono mai costituire un destino nel senso deterministico del « desti­no segnato » una volta per tutte.

Soltanto l’anticipazione della morte elimina ogni possibilità casuale e « provvisoria ». Solo Tesser libero per la morte offre schiettamente alles­serei il fine e pone l’esistenza nella sua finità. La finità, una volta afferrata, la sottrae all’indefinita molteplicità delle possibilità che si offro­no immediatamente, quali l’inseguire ciò che garba, il prender alla legge­ra, il trastullarsi, e porta Tesserci in cospetto della nudità del suo destino (SuZ 384; it. 396 [550]).

Le possibilità via via concrete sono costituite in situazione e in storia solo in virtù della decisione anticipatrice. Non si può parlare di storia se non dove c’è un destino.

L ’altro termine attraverso cui Heidegger, sempre in base alla delinea­zione della temporalità autentica, descrive la storia, è quello di ripeti­zione. In quanto si apre alle possibilità concretamente ed esistentiva- mente offertegli, Tesserci può anche assumere delle possibilità già rea­lizzate da altri esserci: modi di vita, proposte ed esempi morali, artisti­ci, ecc. Queste possibilità, in quanto esso vi si apre autenticamente, costituiscono il suo destino. Il tramandare possibilità, che è un autotra- mandare in cui Tesserci, assumendo le possibilità concrete che gli sono date, le tramanda a se stesso come « eredità » autentica, come il pro­prio autentico passato, diventa così ripetizione. « La ripetizione è l’espli­cito tramandare [die ausdrückliche Überlieferung], cioè il ritorno su possibilità delTesserci essente-stato » (SuZ 385; it. 397 [552]).

Esplicito perché in essa le possibilità che Tesserci assume e si tra­manda non sono solo quelle della particolare e determinata situazione in cui egli è gettato, si allargano a comprendere possibilità realizzate da altri esserci in situazioni che possono non avere alcun nesso, nel senso della storicità banale, delle concatenazioni e dipendenze, con la sua situazione. La storia come rapporto con l’indefinito panorama delle possibilità concretamente date, nelle più diverse situazioni (nel senso comune del termine), allesserei, è proprio Tesplicitarsi di questo auto- tramandare. L esserci « si sceglie i suoi eroi » (SuZ 385; it. 397 [552]), e ciò si fonda sulla decisione anticipatrice; solo in quanto

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anticipante autenticamente la propria morte, e quindi aperto sulle pos­sibilità concretamente date, Tesserci può ripetere delle possibilità di esistenza, trasferendole nella propria.

Il concetto di ripetizione, così formulato, è l’estremo approdo « anti­storicistico » cui arriva Sein und Zeit-. Tesserci non ha mai un passato, ma se lo sceglie; la storia non è davanti a lui come un ordine già articolato, che gli presenti questa o quella possibilità come più vicina o più lontana.

Se essa fosse un tale ordine successivo, in cui ogni momento è il risultato di quelli che lo precedono e una via che conduce ai momenti seguenti, in cui cioè ogni momento ha una sua individualità irrecusabil­mente definita proprio dal rapporto con gli altri punti della linea, non si potrebbe parlare di ripetizione o di scelta di propri eroi: nulla in realtà si potrebbe ripetere, nessun eroe si potrebbe scegliere se non passando attraverso tutti gli altri che, sulla linea del tempo, stanno fra noi e lui.

Il senso di questa scelta del proprio passato e dei propri eroi, tuttavia - e ciò va tenuto ben presente — non è da vedere in una luce « attualistica », quasi che il passato non fosse se non nelTatto del soggetto che lo assume e la storia si riducesse totalmente alla storio­grafia. Infatti, sebbene sia proprio la decisione anticipatrice ad « apri­re » il mondo e la storia, la Geworfenheit delTesserci non si consuma mai totalmente, Tesserci non è mai il soggetto come assoluta autopo­sizione.

Tutto ciò è espresso bene nel concetto heideggeriano di destino. Il destino è tale solo in quanto riconosciuto nella decisione anticipatrice, sicché non si può dire che Tesserci lo trovi come un ordine già dato a cui debba solo aderire; ma, d’altra parte, nella decisione Tesserci ricono­sce il proprio destino, costituendo la propria « situazione storica » proprio come un ordine di circostanze a cui non si può arbitrariamente sottrarre. Il senso di questo discorso, almeno fino a questo punto, resta tuttavia solo la negazione della possibilità di pensare un « ordine storico » dato in cui e da cui la decisione prenda il suo significato. Una interpretazione « attualistica » di questa posizione heideggeriana, poi, avrebbe senso solo se, nelTatto del decìdersi anticipante, la decisione fosse in rapporto unicamente con se stessa. Così, sia questo problema, sia l’antinomia tra i due aspetti del concetto di destino potranno essere chiariti solo quando si sia messo in luce in rapporto a che cosa, se non in rapporto alla « storia », la decisione anticipatrice si definisce e si fonda.

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4. L ’essere e il nulla

L’aver ricondotto la storia alla temporalità originaria costitutiva del- Pesserci, dunque, non è ancora sufficiente. Un tale compito è andato bensì oltre Dilthey, nella misura in cui, mettendo in luce la escatologici- tà della struttura della temporalità autentica, ha reso impossibile ogni visione storicistica della storia. Questo è tuttavia ancora un risultato negativo: abbiamo già visto come l’osservazione sulla necessità di una radicalizzazione ulteriore del problema della storia non si trovi all’ini­zio della seconda sezione di Sein und Zeit, ma verso la fine, il che, insieme al resto, sta a indicare come Heidegger non consideri compiuta questa radicalizzazione, anche se ne sono state poste almeno le basi. Proprio queste basi si tratta di illustrare ora, in modo da capire in che senso il discorso sviluppato da Heidegger nelle opere successive a Sein und Zeit rappresenti l’ulteriore svolgimento di questo compito di radi­calizzazione (o, se si preferisce, di fondazione) della storicità nell’elabo­razione del rapporto essere-tempo.

La necessità che la fondazione della storia nella temporalità, compiu­ta nella seconda sezione di Sein und Zeit, vada oltre — necessità che emerge, come si è visto, dagli stessi problemi che rimangono aperti a proposito del concetto di destino e della possibile interpretazione « at­tualistica » di Heidegger — si può formulare così: posto che la decisio­ne, nella quale anzitutto la temporalità si temporalizza, non è definita dal suo rapporto con la storia (come sarebbe in una prospettiva storici­stica), giacché essa per prima apre e fonda la possibilità di qualunque rapporto storico, è possibile indicare un altro « rapporto » più origina­rio che la fondi e la definisca? Nello sforzo di rispondere a questa domanda risiede la differenza fondamentale fra Heidegger e Nietzsche, almeno dal punto di vista di Heidegger stesso 14. Nietzsche, nell’inter­pretazione che Heidegger ne dà, è arrivato fino alla teorizzazione più conseguente della « infondatezza », della volontà di volontà; di qui, dal punto di arrivo della metafisica (e dello storicismo), si deve riparti­re per filosofare.

Che cos’è che costituisce la decisione autentica come tale, cioè come apertura del mondo e temporalizzazione originaria della temporalità? La decisione è autentica, cioè è davvero apertura del mondo e della

14 Lo stesso Nietzsche, però, proprio con il suo problematico concetto di « eterno ritor­no dell’eguale », è forse andato oltre la pura e semplice radicalizzazione negativa dello storicismo, che per lui si identifica con il nichilismo: per tale questione mi permetto di rimandare al mio saggio su Nichilismo e problema del tempo in Nietzsche, in « Archivio di Filosofia », 1962, n. 3: Pascal e Nietzsche, 140-65.

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temporalità, nella misura in cui si decide anticipandosi nella possibilità più propria, la morte. E questa la base da cui bisogna muovere per arrivare a capire come lontologicità che caratterizza Tessere dell’uomo coincida e si identifichi con il suo essere-per-la-morte.

Il circolo, che già abbiamo segnalato, tra esistere ed essere-per-la- morte (la struttura dell’essere per la morte è raggiunta solo in base all’impossibilità riconosciuta di pensare Tesserci sul modello dell’ente intramondano, ma tale impossibilità si fonda a sua volta nell’essere- per-la-fine proprio delTesserci) indica semplicemente l’identità che sus­siste fra il carattere ontologico proprio dell’esserci e la sua finità. L’esserci è con Tessere in un rapporto diverso dalle cose intramondane, o anche, semplicemente, è in rapporto con Tessere, solo in quanto è costitutivamente rapporto con la propria fine. Questa identità si può vedere nel modo più chiaro seguendo lo sviluppo che il concetto di verità ha nella seconda sezione di Sein und Zeit. La prima sezione si è conclusa indicando nell esserci come apertura la verità primaria: « “V’è” la verità solo perché e finché c’è Tesserci » (SuZ 226; it. 239 [344]).

D ’altra parte, Tente è solo in quanto appartiene all’apertura aperta dalTesserci: « “V’è” essere, non ente, soltanto in quanto è la verità » (SuZ 230; it. 242 [348]).

Questa apertura resta tuttavia ancora pensata in modo non origina­rio. Solo il concetto di decisione anticipatrice permette di raggiungere il concetto ultimo e fondamentale della verità: « Con la decisione è stata ormai raggiunta la più originaria, perché autentica, verità dell’es­serci » (SuZ 297; it. 310 [439]).

Il mondo come contesto di utilizzabilità e di significati è aperto dalTesserci; ma Tesserci apre solo in quanto autenticamente si decide per la propria morte, cioè in quanto, anticipandosi nella possibilità autentica, viene rimandato alle singole concrete possibilità che costitui­scono la sua situazione. Queste sono assunte come possibilità, come contesto aperto, in movimento, proprio in virtù dell’anticipazione della morte. La morte rende ragione del carattere « storico » della verità 15, dell’esistenza di ipotesi che si verificano via via, di idee morali che mutano, del mondo insomma come di fatto è: la verità nel senso secondario o derivato, come muoversi alTinterno di un àmbito di signi­ficatività, confrontando, verificando, sbagliando, correggendo, istituen­do criteri nuovi, ecc., è possibile solo in quanto l’anticipazione della

15 Sulla storicità della verità cfr. per esempio N II, 257: « Die Wahrheit ist... in ihrem eigenen Sein geschichtlich ».

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morte mantiene « aperto », anche nel senso del divenire e dello svilup­po, questo àmbito: « L anticipazione apre all’esistenza, come sua estre­ma possibilità, la rinuncia a se stessa, spezzando in tal modo ogni irrigidimento su posizioni esistentive raggiunte » (SuZ 264; it. 276 [395]).

Da tutto questo appare anche più profondo il nesso che lega l’esse- re-per-la-morte, all’essere un tutto da parte dell’esserci. Come essere- per-la-morte, Tesserci non solo costituisce un tutto nel senso che la morte, anticipata nella decisione, non è più ciò che gli manca per essere totale, ma anche costituisce un tutto, uno nel senso della conti­nuità storica, del passaggio da una possibilità esistentiva ad un’altra. Tale paesaggio può essere continuo, e non una successione di rotture brusche e di fasi slegate, solo in quanto, in virtù dell’anticipazione della morte, nessuna possibilità esistentiva particolare è considerata e vissuta come definitiva, ma si apre alle altre.

L ’anticipazione della morte, come si vede, non ha la moralistica funzione di garantire che le possibilità esistentive via via date vengano considerate nella loro giusta misura, come possibilità finite, in modo che Tesserci non se ne lasci sopraffare proprio perché sa che deve morire. Questo modo di intendere le cose corrisponde a quello che intende la morte come possibilità più propria in quanto insuperabile. Non è che la morte sia la possibilità autentica perché ad essa non si sfugge; piuttosto è vero l’opposto, che ad essa non si sfugge perché è la possibilità autentica dell’esserci. L ’esserci è tale in quanto è essere- per-la-morte. Che non possa sfuggirvi è semmai un segno di questa originaria e profonda autenticità; il dover morire inevitabilmente è il modo in cui mi si rivela la mia natura di essere-per-la-morte. Ma la morte è la possibilità più propria anzitutto nel senso che è la più appropriata allesserei, quella per cui esso è quello che è, cioè apertura. Si può dire che la morte è la possibilità autentica perché è autentica possibilità: nessuna delle possibilità via via date nell’esistenza si man­tiene permanentemente tale; Tesserci che si progetta in base a queste possibilità si chiude continuamente con la loro realizzazione. Può passa­re dall’una all’altra, avere una « storia » e costituire un « mondo » solo in quanto la possibilità su cui si progetta si mantiene continuamente aperta. Tale possibilità è la morte. L ’esserci è apertura, cioè verità primaria e fondante, solo in quanto è deciso per la propria fine. In questo senso la decisione anticipatrice costituisce la verità più estrema- mente originaria dell’esserci.

Si chiarisce così anche il rapporto dell’essere-nel-mondo con l’ango­scia: l’angoscia può essere il senso del possibile puro solo in quanto è

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il trovarsi di fronte alla propria morte come possibilità suprema e autentica. Anche rispetto a questo concetto è decisivo lo sviluppo di pensiero della seconda sezione di Sein und Zeit con l’elaborazione dellessere-per-la-morte. Prima di questo sviluppo, l’angoscia veniva caratterizzata in modo sostanzialmente negativo, come lo sprofondare del mondo nelTinsignificanza : era il modo affettivo del trovarsi di fronte al mondo nella sua pura e semplice mondanità, al di qua di ogni appartenere già ad un àmbito di significati e di possibilità definite e particolari. Perciò si poteva dire che l’angoscia è un modo di cogliere l’apertura nell’atto di aprirsi, prima — ma, ovviamente, non in senso cronologico — che un qualunque significato o contesto di significati sìa istituito o « aperto ». L ’angoscia è così il trovarsi di fronte all’« esser- nel-mondo stesso » (SuZ 187; it. 201 [295]). L ’essere nel mondo in quanto tale, non l’essere già per una determinata possibilità, è il possi­bile puro: « l’angoscia apre Tesserci come esser-possibile » (SuZ 188; it. 201 [295]).

La pura possibilità, fin qui, è però raggiunta solo negativamente, come sospensione dei significati consueti e di ogni significato. Solo con il raggiungimento del fenomeno originario dell’essere-per-la-morte l’an­goscia perde il carattere, che ancora poteva sembrare avere, di « depres­sione arbitraria e casuale » (SuZ 251; it. 264 [379]); essa infatti « in quanto situazione affettiva fondamentale dell’esserci, rappresenta l’apertura dell’esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine » {ibid.).

Solo in quanto Tesserci è costitutivamente essere-per-la-morte, l’an­goscia è la sua tonalità affettiva fondamentale; essa è angoscia di fronte al puro essere-nel-mondo proprio in quanto questo, come apren­te, è radicalmente essere-per-la-fine. L ’angoscia non è la paura del decesso; essa accompagna invece, come tonalità affettiva corrisponden­te e adeguata, l’anticipazione decisa della morte, cioè l’apertura del mondo e il temporalizzarsi del tempo. In quanto la verità ha la sua radice ultima nella decisione anticipatrice, l’angoscia è la tonalità affet­tiva corrispondente all’aprirsi della verità.

È importante mettere in rilievo il nesso che lega decisione, verità, essere-per-la-morte e angoscia, perché in tal modo si arriva di fronte al problema conclusivo di Sein und Zeit, quello che permette di capire il passaggio alla speculazione heideggeriana posteriore. Tale problema scaturisce dal risultato a cui, attraverso l’elaborazione dell’essere-per-la- morte e della decisione anticipatrice come verità originaria, si è perve­nuti: dato che Tesserci è ontologico (in rapporto originario con Tessere, come apertura in cui la verità si illumina e gli enti vengono all’essere)

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proprio in quanto essere-per-la-fine, cioè essere per il proprio non esserci più; e dato che tutta la negatività che impronta di sé Tessere delTesserci è radicata neU’essere-per-la-fine (anche la colpa non è altro che Tannunciarsi esistentivo dell’originario essere per la morte); Tesser­ci è originariamente ontologico, cioè in rapporto con Tessere, proprio in quanto è rapporto con la negatività e il nulla. La domanda che si pone circa la decisione, e cioè che cosa la costituisca una volta che si sia rifiutata la soluzione storicistica che la definisce originariamente in rapporto alla situazione storica, al suo prima e dopo, trova così una risposta: la decisione è costituita originariamente dal suo rapporto con il nulla.

Un tale punto di arrivo costituisce nello stesso tempo la posizione di un gruppo di problemi, riassumibili in due: anzitutto, si tratta di capire meglio che cosa si intenda qui per nulla e in che senso si dia un rapporto con esso; in secondo luogo, più importante, si tratta di vede­re in che misura la scoperta di tale rapporto costitutivo col nulla possa aprire la via, paradossalmente, proprio al discorso sull’essere che costi­tuisce il compito originariamente assunto da Heidegger con Sein und Zeity e che si articolerà nella sua speculazione posteriore. Se si vuole un più evidente termine di confronto, la questione che si deve porre è come si passi dal concetto di progetto gettato quale è definito in Sein und Zeit, il cui carattere costitutivo è il rapporto col nulla, alla proposi­zione del Brief secondo la quale, chi getta, nel progetto, è Tessere (cfr. HB 25 [290]). « È forse tanto evidente che ogni non significhi una negatività nel senso di una deficienza? La sua positività si esaurisce nel costituire un passaggio? » (SuZ 286; it. 299 [424]).

La negatività che Heidegger ha scoperto elaborando il concetto di colpa non è né la mancanza o privazione di qualcosa, né la negatività puramente dialettica che si risolve e supera in positività. Questi concet­ti sono insufficienti a interpretare la nullità propria delTesserci, che si rivela nel fenomeno della colpa. Il concetto di privazione supporrebbe che la nullità sia un accidente, per dir così, che accade alTesserci una volta che esso è già dato come semplice-presenza; Tesserci sarebbe costituito dalla nullità in quanto mancante di qualche sua parte (Tini- zio, la fine, le altre possibilità che rifiuta scegliendone una). Ma Tesser­ci è proprio in quanto è questa mancanza: questa dunque non può essere definita come privazione, cioè in riferimento a qualcosa che già è, perché costituisce questo qualcosa stesso. Si vede qui come tutto ciò che Heidegger dice a questo proposito analizzando la colpa valga anche per la morte: Tesserci è quel che è proprio perché è per la propria fine, e la fine non può mai essere concepita come qualcosa che

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gli inerisca dall’esterno, come accidentale. Anche il concetto di negativi­tà come passaggio dialettico, a ben vedere, non è che una variazione della negatività come privazione, giacché si concepisce sempre come posto dentro una positività data, come sua articolazione interna. L ’ina­deguatezza dei concetti di nullità come privazione e di nullità come passaggio risiede da ultimo nel fatto che entrambi sono pensati sul modello della semplice-presenza: ora, la nullità dell’esserci « non signi­fica affatto un non essere semplice-presenza, non-sussistenza; essa esprime invece un non che costituisce proprio Vessere dell’esserci, il suo esser gettato » (SuZ 284; it, 297-98 [422]).

L ’impossibilità di concepire la nullità sul modello della semplice-pre­senza è ribadita nella precisazione del concetto di colpa: può la colpa, come esser colpevole dell’esserci, fondarsi su una colpa commessa, su un fatto accaduto a me o ad altri? Il richiamo della coscienza può essere concepito come il richiamare a una colpa originaria di cui ora soffriamo le « conseguenze »? « La voce chiama sì indietro, ma più indietro ancora dell’azione compiuta, nel gettato esser-colpevole che è “anteriore” ad ogni esser divenuto colpevole » (SuZ 291; it. 304 [ 4 3 1 ] ) -

La colpa è costitutiva dell’esserci, e conseguentemente non può mai essergli accaduta come un fatto; in questo senso, il concetto heidegge­riano di colpa non vuole avere alcun significato morale.

Per il chiarimento anche soltanto negativo del concetto di nullità è indispensabile tener presente come Heidegger insista ripetutamente sul fatto che la nullità a cui la coscienza richiama e la fine che viene anticipata nell’essere per la morte non hanno un carattere di chiusura dell’esserci, non rappresentano mai in alcun modo un rifiuto del « mon­do », un isolarsi in sé. L ’esserci che si è deciso autenticamente antici­pandosi nella propria morte è anzi l’unico davvero aperto alle singole concrete possibilità esistentive. Nonché isolare Tesserci dal mondo, dalla socialità, dalle concrete possibilità esistentive, la morte e la nulli­tà lo pongono in autentico e aperto contatto con esse. L ’insufficienza del concetto di privazione a interpretare la nullità propria dell’esserci, dunque, si fonda in ultima analisi sul fatto che, in quanto costitutiva, la nullità costituisce e fonda la stessa apertura dell’esserci, apparendo così come qualcosa di « positivo ».

Si potrebbe allora pensare, e certe pagine di Heidegger forse lo giustificano, almeno apparentemente, che la nullità sia solo il modo di presentarsi dell’essere all’esistenza inautentica. Una tale interpretazione potrebbe fondarsi principalmente sulle pagine in cui Heidegger analiz­za la voce della coscienza. Tale voce parla essenzialmente nel modo del

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silenzio; chi parla, in essa, si può indicare solo come « nessuno »; ciò che essa dice è « nulla »; ma tutto ciò pare derivare principalmente dal fatto che « Tesserci, in quanto è quel qualcosa che si comprende anzi­tutto e per lo più nella interpretazione muovente da ciò di cui si prende cura, viene messo da parte nella chiamata » (SuZ 274; it. 287 [409]).

La positività del nulla si fonderebbe sul fatto che esso è solo il modo in cui qualcosa che è, o l’essere stesso, si presenta al modo di pensare inautentico. Tuttavia neanche questa interpretazione è adegua­ta: il chiamante della chiamata non si lascia conoscere: « Contraddice al modo del suo essere il lasciarsi circoscrivere nell’àmbito della presa in oggetto e dell’essere oggetto di discorso » (SuZ 274-75; it. 287 [4 °9 ]).

Si osserverà che, poco più avanti, questo chiamante che non si dà a conoscere come oggetto è indicato come Tesserci stesso. Ma la proposi­zione ora riferita, in quanto Tesserci che cosi chiama se stesso è Tesser­ci originariamente costituito dalla nullità, può valere più in generale per tutte le componenti negative della chiamata, e per la stessa nullità delTesserci. Non si può dire che solo all’esistenza inautentica il nulla costitutivo delTesserci appare, appunto, come nulla, sicché a un’altra considerazione si riveli invece in un altro modo. Anche questa via per sfuggire alla nullità del nulla viene dunque chiusa.

Tutta questa teoria apofatica del nulla, che è contenuta implicita­mente nello stesso proposito di prender sul serio la morte, senza vanifi­carla col ricondurla entro più o meno espliciti quadri dialettici, condu­ce a vedere come in nessun modo, per Heidegger, si possa parlare di una esperienza del nulla come limite che, proprio in quanto tale, rimandi al di là di sé, all’essere. L’esclusione di una tale prospettiva è contenuta in modo abbastanza esplicito nel rifiuto di una teoria della colpevolezza come radicata in un fatto, in una colpa commessa, a cui già si è accennato: la nullità non è mai il mio modo di sperimentare un rapporto con qualcosa, sia questo la colpa originaria o più in generale una qualunque origine da cui dipendo e senza la quale, quindi, sono nullo e insufficiente. La nullità costitutiva dell’esistenza non può mai diventare una prova dell’esistenza di Dio, la finità che svela l’impronta delTeterno artefice in noi. Tutto questo modo di pensare implica sem­pre una prospettiva metafisica, in senso heideggeriano, cioè un pensare modellato sulla semplice-presenza: il limite che rimanda al di là di sé implica la visione delTessere come una presenza a cui si accede appun­to attraverso la linea di confine che ci separa e ci unisce ad esso; la finità come segno dell’origine implica il prospettarsi il nostro rapporto

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con Tessere come quello delTeffetto alla causa, e questa, quindi, come un ente.

Ma si dovrà dire allora che il tentativo di chiarire, sia pure solo negativamente, il concetto della nullità costitutiva dell’esserci, non rie­sce ad andare oltre, in modo da indicare almeno la via del passaggio alla successiva speculazione heideggeriana sull’essere?

La prima importante conclusione, a questo riguardo, è quella concer­nente il concetto di finità delTesserci. La costitutiva nullità dell’esserci equivale alla sua finità, la quale tuttavia, proprio nello sforzo di chiari­re il concetto di nulla, si rivela strutturata in maniera ben diversa da quel che in genere si pensa. Che la nullità delTesserci non significhi in alcun modo l’interna struttura finita dell’esserci stesso, senza implicare in nessun senso la delimitazione di tale finità da parte di altro che finito non sia, implica una conseguenza di portata più generale, decisi­va per tutta la speculazione heideggeriana. Se Tesserci non è finito nel senso che sia il limitato che si riconosce come tale in confronto all’illi­mitato, è chiaro che affermare la sua finità non implicherà affatto la necessità di sostenere che, allora, un discorso sull’essere gli è impossibi­le, giacché egli è nell’essere e non può mai farlo oggetto di discorso. Se anche questo, per un certo verso, rimane vero, ma solo nel senso che Tessere, non essendo mai questo o quell’ente, non può come tale divenire oggetto di discorso, non vale però più nella funzione scettica a cui tradizionalmente è stato fatto servire. Che la voce del chiamante, nel richiamo della coscienza, sia Tesserci stesso, significa che la finità delTesserci non rimanda in alcun modo ad altro, né nel senso che sia momento che si capisce nella sua verità solo cogliendosi nella totalità del processo, né nel senso che, in quanto finità, le risulti impossibile qualunque discorso valido il quale, sempre, esigerebbe il raggiunto possesso dell’infinito. La nullità delTesserci non è né privazione né momento dialettico di passaggio; ciò significa che la finità dell’esserci si definisce e si delimita da sé. L ’essere per la morte, coerentemente, non è stare in attesa del decesso come evento che porta finalmente nell’al di là, ma vivere permanentemente la propria morte anticipando­la nella decisione autentica e aprendo, mediante tale decisione, il mon­do e la temporalità.

Questa sorta di chiusura della finità su se stessa, proprio per il modo in cui si è venuta definendo, non implica dunque affatto, come conseguenza, l’impossibilità di un discorso sull’essere. Se rimane vero, sul piano esistentivo, che l’angoscia è davvero angoscia, e che la finità si riconosce davvero come « il nullo fondamento di una nullità »,

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questi fatti e la relativa tonalità emotiva perdono, nella interpretazione esistenziale, la loro caratterizzazione negativa; proprio attraverso essi, Tesserci si riconosce in rapporto con Tessere.

L ’idea che la finità dell’esistenza abbia come conseguenza l’impossi­bilità dell’ontologia e in generale di ogni discorso filosofico valido al di là del suo immediato significato storico sempre relativo è profondamen­te legata a una concezione ancora hegeliana o, più in generale, nel senso che il termine ha per Heidegger, metafisica dell’essere e dell’infi­nito 16. Il fatto che la finità dell’esserci, in Sein und Zeit, si definisca per così dire da sé, e non in rapporto ad altro che le stia di fronte e la delimiti, mette in luce una concezione di essa completamente slegata dall’idea di negatività. L esserci esiste, e cioè « apre » nel progetto che egli stesso è, il mondo e la verità, proprio in quanto è essere-per-la-mor- te, cioè in quanto è finito. La sua finità coincide con la sua natura ontologica, giacché Tessere « c’è » proprio in quel progetto gettato che l’uomo è e in cui si istituiscono i mondi storici. La non identità tra finità e negatività, che è in generale uno dei risultati più validi del pensiero esistenzialistico, o almeno della linea di sviluppo personalisti­ca di esso I7, ha nel pensiero di Heidegger una funzione centrale, in una accentuazione fortemente ontologica. Il finito, in quanto tale, non potrebbe parlare validamente dell’essere solo se la finità andasse pensa­ta come quella della parte che non può mai abbracciare il tutto o quella del momento che non esaurisce mai in sé il processo; ma che Tesserci sia finito, per Heidegger, non significa né luna cosa né l’altra. Dunque ogni obiezione di stampo « metafisico » alla possibilità della metafisica e dell’ontologia cade proprio attraverso l’elaborazione del concetto della finità delTesserci. Chi accentua il finito nella sua negati­vità, chi fa del riconoscimento della finità un atteggiamento disperato e sostanzialmente scettico rimane, nonostante le esplicite dichiarazioni contrarie, nell’àmbito del pensiero hegeliano, senza la pienezza che pure questo conteneva, giacché del sistema mantiene solo la concezio­ne della negatività del finito.

Appare quindi decisiva, per il successivo sviluppo del pensiero di Heidegger, proprio la teorizzazione del finito che costituisce la seconda

16 La radice hegeliana delle interpretazioni « negative » dell’angoscia e del nulla heideg­geriani e, in generale, del conseguente completo fraintendimento dell’intera filosofia di Heidegger, è evidente per esempio nelle pagine dedicate a Heidegger da G. L ukäcs in Die Zerstörung der Vernunft, trad. it.: La distruzione della ragione, Torino 1959, 497 ss.

17 Cfr. L uigi Pareyson, Esistenza e persona, 2“ ed., Torino I960, passim, e specialmente 163-64; 227-28; 239 ss.; 246-48; 256 [4" ed., 85-88; 154-55; 167 ss.; 174-77; 185-86]; e inoltre Filosofìa della persona, nel volume collettivo Invilo al dialogo. La filosofìa contempo­ranea in Italia, Asti 1958, 303-317 [ora in Esistenza e persona, cit., 213-226].

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sezione di Sein und Zeit. Infatti, solo sulla base del concetto di finità raggiunto in quest’opera diverrà possibile allesserei parlare, sia pure solo in un certo modo, dell’essere. Senza tale teorizzazione preliminare della finità il pensiero di Heidegger sull’essere rimarrebbe confinato nell’àmbito di quella che egli stesso chiama metafisica. È naturale che, se non si chiarisce il rapporto dell’ontologia heideggeriana con l’analisi esistenziale di Sein und Zeit, tale ontologia non può che apparire una ripetizione della metafisica tradizionale; e d’altra parte, in tale prospet­tiva la Kehre sembra ancora di più un rovesciamento delle posizioni di Sein und Zeit e la difficoltà di mettere le opere successive in rapporto con quella diventa sempre più insormontabile IS.

Sein und Zeit non si limita tuttavia a fondare in questa maniera ancora puramente negativa la possibilità dell’ontologia. Coerentemente con le enunciazioni metodologiche heideggeriane secondo cui ogni in­terpretazione di un fenomeno implica già sempre un progetto del senso generale di esso, anche Sein und Zeit, che pure, nell’intenzione di riproporre il problema dell’essere, si limita a un’analisi dell’esistenza, implica un certo progetto dell’essere, che sarà quello sviluppato da Heidegger nelle opere successive, ma che già qui è possibile cogliere e mettere in luce. Questo progetto del senso dell’essere, che è contenuto e come presupposto — si ricordi che Heidegger teorizza esplicitamente il circolo — da Sein und Zeit, e che ne guida lo svolgimento, è l’aspetto meno evidente dell’opera e costituisce appunto la fondazione positiva dell’ontologia heideggeriana.

Si è visto come l’esistenza sia, nel suo significato più profondo, essere-per-la-morte, e come quindi il carattere ontologico dell’esserci si identifichi con il suo essere costitutivamente in rapporto col nulla. Sembra dunque che il senso di Sein und Zeit rispetto a una fondazione positiva dell’ontologia sia l’identificazione tra essere e nulla. Tuttavia,

18 A una sorta dì rovesciamento dialettico o di implicanza reciproca di « Nichtung » e « Lichtung » ricorre il Wiplinger nel cit. Wahrheit und Geschichtlichkeit, per connettere l’ulteriore speculazione di Heidegger a Sein und Zeit, a cui egli assegna, come già si è detto, la funzione puramente negativa di condurre agli estremi la metafisica della soggettività. Su questa base, spetterebbe poi a Was ist Metaphysik? il compito di attuare la Kehre, mettendo in evidenza l’implicanza di « Nichtung » e di « Lichtung », nel senso che « solo nella nientifi- cazione [Nichten] [degli enti nella loro oggettività e cosalità] avviene l'illuminazione [dell’es- sente come tale nella sua Seiendheit, entità o “essentità”] » (313). Qui non solo siamo di fronte a un rovesciamento che implica sempre, in una certa misura, un modo metafisico o ontico di concepire l’essere, ma ancora sembra che il rapporto essere-nulla resti sul piano puramente gnoseologico; come si vede poco più sotto, dove è detto che la proposizione con cui si chiude Was ist Metaphysik?, « ex nihilo omne ens qua ens fit », può essere intesa correttamente solo in un senso aletheiologico, cioè nel senso che « in questa illuminazione del nulla Tessente “diviene” nel senso ontologico di un nascere come divenire illuminato e aperto» (313-314).

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anche questa identificazione sarebbe un esempio di quei rovesciamen­ti dialettici tutti legati al modo di pensare della metafisica e che nel pensiero heideggeriano non sono più possibili. Identificare Tessere col nulla può voler dire o ridurre il nulla all’essere, ma allora si ritorna necessariamente alla concezione del nulla come privazione o momento dialettico che Heidegger esplicitamente rifiuta; o ridurre Tessere al nulla, ma allora perde senso ogni ulteriore discorso ontolo­gico, non si capisce più come si possa parlare, come Heidegger fa, di una « storia dell’essere », di un suo destino e di una sua epocalità, giacché ci si dovrebbe fermare coerentemente alla negazione di ogni possibile ontologia. Entrambe queste posizioni interpretative fallisco­no perché pretendono di far rientrare Heidegger entro i confini di una tradizione, quella della metafisica occidentale, che egli intende superare; anzi, dal punto di vista heideggeriano esse non rappresenta­no neanche due posizioni alternative, ma solo i due momenti estremi di un processo di pensiero in cui consiste la storia stessa della metafi­sica, la quale comincia col non porre rigorosamente il problema del nulla e lo riduce all’essere concepito come presenza, e termina nel nichilismo, cioè nella riduzione dell’essere stesso al nulla, con la filosofia di Nietzsche.

C’è tuttavia un senso in cui vale per Heidegger l’identificazione dell’essere col nulla e in cui quindi si rivela decisiva, per la fondazione dell’ontologia, la scoperta di Sein und Zeit sull’identità fra carattere ontologico delTesserci e rapporto col nulla. Heidegger lo spiega in una importante pagina di Was ist Metaphysik?:

Essere e nulla coincidono, ma non nel senso... che concordino nella loroindeterminatezza e immediatezza, bensì perché Tessere stesso, nella suaessenza [im Wesen], è finito [endlich] e si manifesta solo nella trascenden­za dell’esserci che è tenuto dentro il nulla (WM 39-40 [75]) L9.

19 Traduco Wesen con essenza, pur avvertendo che in Heidegger il termine è usato perlo più in senso verbale piuttosto che come sostantivo, per indicare il modo di essere di tutto ciò che non è alla maniera degli enti intramondani : così west la verità, l’essere, il Dasein. Sull’uso e il significato di Wesen cfr. E. Schöfer, Die Sprache Heideggers, cit., 93-96 e 241-42. Rispetto a questo passo di Was ist Metaphysik? mi pare che il senso non cambi sia che Wesen venga inteso come infinito di un verbo, sia che si intenda come sostantivo equivalente a! nostro « essenza ». Non pare sostenibile infatti che l’essere possa esser detto finito solo nel suo Wesen, cioè nel suo illuminare àmbiti di verità storicamente determinati, quasi che esso fosse dato anche altrimenti, oltre queste aperture. E anzi uno dei capisaldi del pensiero heideggeriano che l’essenza dell’essere si identifica totalmente con il suo We­sen nel senso verbale {e proprio questo sta a indicare l’uso verbale del termine, del resto). Sul significato di questo passo di Was ist Metaphysik? si veda anche W. Marx, Heidegger und die Tradition, cit., 100 e 103.

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Ciò che Heidegger chiama qui finità dell’essere, con un termine che non troverà più riscontro nelle opere successive 20, è quel carattere costitutivo per cui l’essere si rivela (sich offenbart) solo nelle « apertu­re » finite entro le quali si illumina il mondo. L ’essere non è qualcosa che stia al di là delle sue aperture, e il sich offenbart va inteso come un « si apre » o « si manifesta » che non suppone un esser dato in qual­che modo prima o fuori di questa manifestazione. Non solo la finità dell’esserci, come è stata elaborata in Sein und Zeit, non esclude la possibilità del discorso ontologico; questa stessa finità, ora, è vista come costitutivamente posta nell’essere, come l’aprirsi e il manifestarsi dell’essere stesso. Questa pagina di Was ist Metaphysik? non fa che formulare positivamente la teoria della finità che è già contenuta in Sein und Zeit, per la quale il finito non entra in rapporto con l’essere secondo il modo di pensare della metafisica, come parte che richiede il tutto per spiegarsi, come limite che rimanda al di là di sé, come momento di un processo. L ’essere è, ma non nel senso ontico di « c’è », bensì nel senso per cui Heidegger usa i verbi walten e wesen\ Tessere è solo come illuminarsi delle aperture in cui Tessente si illumi­na per Tesserci. Per questo Sein und Zeit può dire che: « “c’è” essere, e non ente, solo in quanto è la verità » (SuZ 230; it. 242 [348]).

L ’ontologia, in questa prospettiva, non ha bisogno di una fondazio­ne nel senso in cui la intende il comune pensiero metafisico, cioè di una giustificazione del passaggio del discorso dall’ente (compreso Tes­serci) all’essere: all’essere non si arriva semplicemente perché si è già sempre in esso, dove Y in è ancora un’espressione imperfetta, in quanto allo stesso titolo si può dire che Tessere è già sempre in noi, nelle aperture finite in cui si apre e si manifesta.

L ’essere, così concepito, non si identifica con gli enti finiti, né con uno o ciascuno di essi né con la loro totalità. Se così fosse, non solo Heidegger si ridurrebbe alla forma più rozza del pensiero « metafisi­co » (l’identificazione dell’essere con Tessente nella sua concreta parti­colarità), ma l’ontologia non avrebbe più alcun senso, giacché sarebbe a pieno titolo ontologia ogni discorso su qualsiasi ente al livello della più piatta banalità quotidiana. Il pericolo di una tale interpretazione è

20 La finità dell’essere di cui si parla in Was ist Metaphysik? non va confusa con la Beschränkung, o limitazione, dell’essere di cui parla l’ultimo capitolo della Einführung in die Metaphysik (71 ss. [103 ss.]). Quella Beschränkung è un fatto che appartiene alla storia della metafisica occidentale, il cui concetto di essere è tale da non poter « nominare tutto ciò che “è” » (EM 155 [208]), cioè il divenire, l’apparire, il pensare, il dovere, perché pensa l’essere come presenza (Anwesen). Si può dire però che la Beschränkung in quanto evento delia storia della metafisica, e cioè della storia dell’essere, è appunto uno di quei modi finiti in cui l’essere west, in cui si svela celandosi.

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tenuto lontano se si connette la pagina ora ricordata di Was ist Meta­physik? con la proposizione di Sein und Zeit sul nesso tra essere e verità. L ’essere non si identifica con gli essenti, ma è (waltet, west, sich offenbart) nelle aperture in cui gli essenti divengono visibili, nella « verità » aperta dall’esserci. Fin dora, cioè, è chiaro che l’ontologia si realizzerà solo come eluddazione, dall’interno, delle aperture in cui Tessere si manifesta; non dei contenuti ontici del mondo, ma della mondità come tale. La già ricordata proposizione del Brief über den Humanismus secondo la quale chi getta, nel progetto, è Tessere, ribadi­sce questa inscindibilità delTessere dal suo manifestarsi nella verità (nel progetto delTesserci che apre la verità). Ciò in cui Tesserci è gettato non è un certo particolare insieme di enti (la Umwelt, le cose in mezzo alle quali sta), ma una certa apertura della verità, un certo modo storicamente determinato di entrare in rapporto con gli enti e con se stesso. In questa apertura, in quanto non mai riducibile agli essenti, « si manifesta » Tessere. L ’ontologia diventa, nel suo più pro­fondo significato, ermeneutica, nel senso che il discorso sull’essere è sempre esegesi ed eluddazione di quella manifestazione dell’essere in cui ciascuno già sempre si trova gettato. Basterà che Heidegger, attra­verso l’ulteriore riflessione, precisi la portata del linguaggio come aprir­si originario delTessere perché il suo discorso ontologico assuma quella forma di costante e talvolta esasperata indagine sulle parole che a molti pare l’aspetto più evidentemente paradossale delle sue opere recenti. In realtà, questo etimologismo è già tutto contenuto in Sein und Zeit, nell’affermazione sulla connessione tra essere e verità; la verità è sempre parola, l’ente intramondano ci viene incontro solo sempre entro un mondo, cioè entro un àmbito linguistico, e a questo livello va cercato Tessere. Seppure questi siano sviluppi maturati attra­verso un lungo processo speculativo, resta indiscutibile la loro fonda­zione in Sein und Zeit e, soprattutto, l’importanza positiva della elabo­razione del concetto di finità fatta in quest’opera.

In che senso una tale prospettiva ontologica si ricollega a quella « radicalizzazione » dello storicismo da cui è mossa la nostra ricerca e che, almeno sembra a noi, sta alla base del pensiero heideggeriano? Ciò risulta chiaro se si riflette che quella « finità » dell’essere di cui Heidegger parla solo nella citata pagina di Was ist Metaphysik? non è altro che la sua costitutiva eventualità. L ’essere « è », nel senso che si è più volte precisato, solo in quanto illuminazione di àmbiti storici via via diversi e particolari. Non è nulla che stia « oltre » o « sotto » queste manifestazioni: Sein und Zeit ha reso impossibile ogni ulteriore visione ontica delTessere. Il nulla è costitutivo delTessere in quanto

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questo è costitutivamente eventualità. Tuttavia sembra ancora poco chia­ro perché una tale visione dell essere possa sorgere solo in opposizione allo storicismo, il quale è generalmente considerato come la prospettiva filosofica che fa valere le ragioni del divenire (e quindi dell’evento) contro la metafisica tradizionale che concepiva Tessere come immobilità. In realtà, dal punto di vista di Heidegger, lo storicismo è proprio Testre- ma manifestazione della metafisica, il tentativo di rendere ragione della storicità senza abbandonare la concezione ontica dell’essere. Di fronte al divenire del mondo storico, la metafisica si salva concependo Tessere come l’unità del processo storico stesso: Tessere del momento singolo è la sua relazione col tutto. Anche le forme di storicismo che professano di aver abbandonato Hegel non possono evitare, nella misura in cui riduco­no la realtà a storia, di definire ogni momento sempre solo in riferimento al prima e al dopo temporali. Ma una riproposizione radicale del proble­ma dell’essere, che muova cercando di definire l’orizzonte entro cui Tessere si rivela, mostra come sia impossibile mantenere sia la concezio­ne ontica dell’essere sia lo storicismo. La radicalizzazione, cioè insieme il trarre alle estreme conseguenze e il fondare la storicità si trovano nel concetto di eventualità dell’essere.

Che ne è, allora, del rapporto essere-tempo che costituisce originaria­mente il problema di Heidegger? Tale rapporto può essere definito conclusivamente da ciò che egli dice, nel penultimo paragrafo di Sein und Zeit, a proposito dello « Spirito » hegeliano. Dal punto di vista dell’analitica esistenziale, quello che Hegel chiama Spirito « esìste come temporalizzazione originaria della temporalità. Questa temporalizza il tem­po-mondano [Weltzeit], nel cui orizzonte può “apparire” la “storia” come storicizzarsi [Geschehen] intramondano » (SuZ 436; it. 446 [617]).

L ’essere non è il tempo, né è nel tempo, ma il tempo si istituisce solo come il temporalizzarsi originario della temporalità, come l’artico­lazione fondamentale dell’apertura in cui si illuminano i mondi. L ’even­tualità dell’essere coincide con la sua temporalità, ma non perché Tesse­re sia nel tempo, bensì perché proprio in quanto eventuale esso si apre originariamente nelle tre estasi temporali.

Che cosa significhi e che cosa implichi questo concetto dell’eventuali­tà dell’essere, Heidegger lo verrà chiarendo e precisando nelle opere successive. Ma proprio nella misura in cui tutto l’ulteriore discorso ontologico si fonda sul concetto dell’eventualità dell’essere, il pensiero di Heidegger si mostra come lo sviluppo unitario di un unico tema fondamentale nel quale egli riconosce il problema che si deve risolve­re, o almeno cominciare a impostare e a proporre, dopo la conclusione della metafisica e dello storicismo.

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3. L ’eventualità dell’essere e l’opera d’arte

1. Centralità della riflessionesull’arte nel pensiero di Heidegger

Nonostante la sua incompiutezza, Sein und Zeit fonda in maniera non solo negativa, ma anche positiva, la possibilità del discorso ontolo­gico. L ’opera contiene infatti un progetto del senso dell’essere, che la dirige e ne spiega la struttura, anche se non è esplicitamente enunciato. Questo progetto è quello che si esprime nel concetto di essere come evento: Tessere non è alla maniera degli enti; esso si risolve nella sua apertura, entro la quale gli enti vengono in luce, cioè vengono all’esse­re. L ’esserci, quindi, non ha bisogno di un « passaggio » per « arriva­re » all’essere; in quanto è sempre in un mondo, è sempre nell’apertura dell’essere. L ’ontologia è possibile proprio come elucidazione dell’aper­tura in cui Tesserci già sempre si trova. In questo senso, e per ora solo in questo — in quanto cioè è elucidazione di una prospettiva già sempre aperta - l’ontologia è, in senso lato, ermeneutica, interpretazione, chia­rimento dalTinterno di tale prospettiva.

Eventualità delTessere significa quindi in Sein und Zeit che Tessere non è una sorta di sostanza permanente e stabile da cui gli esseri vengano o un processo entro cui essi acquistino il loro senso e di cui si possano indicare le leggi di sviluppo, ma è l’illuminazione dell’apertura entro cui gli essenti divengono visibili, cioè sono. Questa apertura, tuttavia, rimane ancora pensata in certa misura come un carattere « essenziale » dell’esserci: è Tesserci che, in quanto ce, apre sempre esso stesso un’apertura, ha il carattere di essere-nel-mondo, cioè, nel suo progetto, fa venire le cose all’essere. Questo concetto di eventuali­tà dell’essere, che Sein und Zeit lascia sottinteso, e che Was ist Meta­physik? indica con il termine « finitezza » delTessere lascia aperti una serie di problemi che solo la speculazione ulteriore di Heidegger arrive­rà, se non a risolvere, certo almeno a impostare esplicitamente. Il principale di tali problemi è quello del rapporto uomo-essere; se le

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cose vengono alPessere solo nell’apertura che l’esserci istituisce come essere-nel-mondo, e se anzi l’essere stesso non è qualcosa che stia al di là o al di fuori di questa apertura, l’essere si ridurrà totalmente all’esser- ci? E chiaro che già in base a Sein und Zeit questa tesi non poteva essere seriamente sostenuta, se si pensa al peso che ha in quell’opera il concetto di Geworfenheit; che l’esserci sia già sempre in un mondo, che esso apra sempre un progetto entro cui gli essenti si illuminano e vengono all essere, non può in alcun modo significare, per Sein und Zeit, che l’esserci dà Pessere alle cose. Il progetto che egli stesso è è sempre un progetto gettato; Tesserci stesso, cioè, è nell’apertura di cui si trova ad essere il punto focale. Anche Pesserci è un ente, sebbene caratterizzato dal fatto che a lui, nel suo essere, ne va di questo essere stesso. Resta tuttavia il fatto che, nonostante che Pessere chiaramente non possa ridursi allesserei (come posto o prodotto da questo), Sein und Zeit lo vede sempre solo dal punto di vista dell’esserci: Pontologia di Sein und Zeit è solo il progetto dell’essere che guida l’analitica esistenziale e che a tale analitica rimane ancora sostanzialmente legato. E possibile arrivare a un discorso che non parli più dell’essere dal punto di vista dell’esserci; ma piuttosto di questo dal punto di vista di quello? Ciò, come verrà in luce dalla speculazione heideggeriana suc­cessiva, non significa ovviamente una ripresa del punto di vista della metafisica (nel senso che Heidegger dà alla parola), cioè un inserimen­to dell uomo nell’essere come sua parte o momento; in certa misura Pontologia rimarrà sempre analitica esistenziale. Tuttavia il problema della continuazione e della conclusione di Sein und Zeit, cioè il proble­ma della Kehre del pensiero heideggeriano, è proprio quello di trovare la via per passare, per dir così, dall’ontologia come analitica esistenzia­le all’analitica esistenziale come ontologia. Posto che Pessere si risolve nella sua apertura e non è nulla al di là o al di fuori di questa, si tratta di precisare in che senso Pesserci appartiene esso stesso all’apertura, sebbene in una posizione diversa dagli essenti intramondani. Tutto questo esige una precisazione del concetto di evento dell’essere, a cui Heidegger arriva attraverso il ripensamento di alcuni dei concetti chia­ve di Sein und Zeit, e specialmente dei concetti di mondo, cosa, verità. Questa rimeditazione avviene in connessione con la riflessione sull’arte e la poesia, che divengono argomenti centrali nel pensiero heideggeria­no proprio negli anni decisivi della sua maturazione, cioè nel 1935-36. A questi anni risalgono infatti i primi scritti heideggeriani di contenuto estetico, sebbene di una estetica di Heidegger, a rigore, non si possa parlare, sia perché egli rifiuta polemicamente questo termine, a cui dà un significato fortemente svalutativo, sia perché, in realtà, la sua rifles-

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sione sull’arte è condotta sempre in vista della elaborazione dell’ontolo­gia, sicché non può venir qualificata con il nome di una disciplina filosofica specifica. Gli scritti sull’arte che occupano, non solo cronolo­gicamente, una posizione centrale nello sviluppo del pensiero heidegge­riano, sono il saggio su L ’orìgine dell’opera d’arte e la conferenza su Hölderlin e l’essenza della poesia \ L ’importanza di tali scritti è decisi­va per l’elaborazione del problema che rimane aperto dopo Sein und Zeit, e cioè quello di una ulteriore qualificazione del concetto di even­to dell’essere che chiarisca in che senso Tesserci appartiene esso stesso a tale evento e quindi apra la via a pensare non più Tessere dal punto di vista delTesserci ma questo dal punto di vista di quello.

Per cogliere il significato decisivo dei due saggi ricordati bisogna premettere all’analisi di essi una esposizione di come i temi che ne costituiscono l’ossatura, e cioè i concetti di mondo, cosa, yerjtà^ opera, strumento, poesia e linguaggio, venissero trattati in S'ein und Zeit. A'v' /'L'V/v-'";''--

2. Il mondo e le cose in Sein und Zeit

Nell’analitica esistenziale di Sein und Zeit il modo di essere delle cose e del mondo (nel senso che diamo comunemente a questa parola)

1 Der Ursprung des Kunstwerkes, il cui nucleo essenziale costituisce il testo di una conferenza pronunciata a Friburgo i.B. il 13 novembre 1935, è compreso in Hw 7-68; lo si veda ora pubblicato a parte, con un importante Zusatz che risale al 1956 e una illuminante introduzione di H ,G . Gadamer, nella Reclam-Bìbliothek, Stoccarda 1960. [Il testo delia conferenza e la Zusatz sono entrambi contenuti nella trad. it. di P. Chiodi rispettivamente alle pp. 3-65 e 65-69. Il saggio di H.-G. Gadamer è ora disponibile nel voi. 3 dei Gesammel­te Werke, Tubinga 1987, 249-261, trad. it. di R. Cristin in H.-G. G adam er, I sentieri di Heidegger; Genova 1987]. Hölderlin und das Wesen der Dichtung è una conferenza pronun­ciata a Roma il 2 aprile 1936, pubblicata, nel testo originale, nel 1937 (Monaco, Langen e Müller) e ora raccolta, insieme agli altri scritti su Hölderlin, in EH, pp. 31-45 [39-52], Sull’interesse di Heidegger per l ’opera d’arte si vedano i cenni autobiografici contenuti in US 92-93 [87-88], — Sull’estetica di Heidegger: C. Fabro , Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in « Giornale critico della filosofia italiana », 1952, n. 3, 344-61; J . W ahl, La pensée de Heidegger et la poésie de Hölderlin (dispense universitaire), Parigi 1953; E. Bud- d eb erg , Heidegger und die Dichtung Stoccarda 1953; R. Bosch , La estética de Heidegger, in « Revista de Filosofia », 1954, 271-89; P. Chiodi, L ’estetica di Heidegger, in « Il pensiero critico », 1954, n, 1, 1-12; E. O b erti, L ’estetica nel pensiero di Heidegger, Milano 1955; H . Ja e g e r , Heidegger and thè Work of Art, in « Journal of Aesthetics and Art Criticism », 1958-59, 58-71; W. B iem el, Die Bedeutung von Kants Begründung der Aesthetik für die Philosophie der Kunst, Colonia 1959, 182 ss.; R.M. R av era, En torno à la estética de Heideg­ger, in « Cuadernos filosóficos » (Rosario), 1961, n, 2, 59-67; si veda inoltre l’opera citata di B. Alleman, Heidegger und Hölderlin, e l’introduzione, anch’essa già ricordata, di H.-G. Gadamer, all’edizione Reclam ò&W'Ursprung.

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si definisce in base allesserei che è proprio dell uomo 2. Questo modo di procedere è connesso con una prospettiva fondamentale di Heideg­ger, il cui sforzo, che si muove nella direzione opposta a quella propria della metafisica, è di non pensare l’essere in base aliente e, di conse­guenza, di non interpretare Tessere proprio dell’uomo, Tesserci, in base alle cose. Quello da cui bisogna muovere, anche per definire il mondo, è Tesserci, per il quale le cose del mondo sono quello che sono. « Ontologicamente, il “mondo” non è per nulla una determinazione dell’ente difforme dall’esserci, ma è, invece, un carattere delTesserci stesso ». La mondità « esprime un momento costitutivo dell’essere-nel- mondo » (SuZ 64; it. 77 [135]).

Il mondo in quanto carattere costitutivo delTesserci è un esistenzia­le 3. Si dà un mondo solo perché è proprio dell’esserci Tessere in un mondo. Questa proposizione si presenta dapprima, come si è visto, come un principio metodologico: per non cadere nelle pastoie della metafisica che pensa Tessere e Tesserci in base all’ente e alle cose, dobbiamo muovere, nel porre il problema dell’essere, dall’analisi delle strutture proprie di quell’essere che pone il problema: anche il mondo va indagato a partire dall’esserci. Tuttavia, che il mondo sia un esisten­ziale, cioè che si dia un mondo solo in quanto c’è Tesserci, è una conclusione che si raggiunge attraverso una analisi ontologica del mo­do di essere delle cose che comunemente diciamo costituire il mondo, cioè di quello che Heidegger chiama l’ente intramondano.

Che il mondo sia « un carattere dell’esserci stesso » non esclude che « la via lungo la quale procede la ricerca intorno al fenomeno “mondo” passi per Tente intramondano » (SuZ 64; it. 77 [135-136]).

Proprio indagando il modo di essere peculiare dell’ente intramonda­no si arriva a dare un contenuto più preciso e fondato alla affermazio­ne secondo cui il mondo, o meglio la mondità, è un esistenziale. Quello che può rivelarci il modo di essere proprio del mondo, confor­memente al metodo generale dell’analitica esistenziale, è uno studio del mondo inteso nel suo senso più prossimo, cioè più immediato e inqualificato, nella sua quotidianità (cfr. SuZ 43-44, it. 56-57 [108-109]). Ora, il modo in cui il mondo ci viene incontro in generale

2 Sul concetto di mondo in Sein und Zeit si vedano specialmente, oltre agli studi generali su Heidegger: W. B iem el, Le concept de monde chez Heidegger, Parigi-Lovanio 1950, e A. C aracciolo, La struttura dell’essere nel mondo e il modo del Besorgen in Sein und Zeit di Martin Heidegger; Genova 1960.

3 Sulla nozione di esistenziale cfr. per esempio SuZ 44-45 (it. 57 [109-110]); sulla differenza tra esistenziale ed esistentivo, ibid., 12 (it. 23 [66]); e L. Pareyson, Esistenziale ed esistentivo nel pensiero di M. Heidegger e K. Jaspers, nel volume Studi sull’esistenzialismo, cit., 207-58.

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nella media quotidianità che costituisce comunque sempre già la nostra vita, in quello che Heidegger chiama Umgang (commercio) intramonda- no, è l’adoperare. Le cose sono cioè anzitutto e per lo più, per noi, degli strumenti, sui quali agiamo per renderli più adatti agli scopi cui devono servire, e mediante i quali ci procuriamo altre cose che a loro volta serviranno per altro. Il mondo in quanto tale non si può tuttavia definire come una somma di strumenti. Lo strumento, infatti, non è mai tale isolatamente, giacché è sempre strumento per qualcosa. « Nel­la struttura del per è implicito un rimando di qualcosa a qualcosa » (SuZ 68; it. 81-82 [141]).

Nel rimandare ad altro, che a sua volta rimanderà ancora ad altro e così via, lo strumento si inserisce entro una totalità che non risulta dall’insieme degli strumenti, ma che li precede e ne rende possibile l’esistenza. « Il mezzo, corrispondentemente al suo essere mezzo-per, è tale sempre sulla base della sua appartenenza ad altri mezzi... Prima del singolo mezzo è già scoperta una totalità di mezzi » (SuZ 68-69; it.

8 2 [ 1 4 1 ] ) -Solo entro questa totalità il mezzo particolare è quello che è. Si vede fin d’ora come il rovesciamento heideggeriano della prospettiva della metafisica sia radicale e conduca a un nuovo modo di concepire la mondità: il mondo precede le cose intramondane; esso non può venire concepito in base a quelle, perché anzi le cose sono quelle che sono solo in quanto appartengono al mondo. L ’impossibilità di concepire il mondo in base alle cose e come somma di esse è un primo concretarsi dell’affermazione secondo cui il mondo è un esistenziale. Già questo primo passo ci dice che il mondo non può essere pensato sul modello delle cose, come cosa suprema, somma di strumenti o di semplici- presenze.

Tuttavia pare che il definire le cose come strumenti e quindi pensa­re come preliminare e fondante la loro appartenenza al mondo si limiti a presentare la situazione dal punto di vista dell’uomo; il modo di pensare comune fa della strumentalità e dell’utilizzabilità una « proprie­tà » delle cose, le quali peraltro avrebbero un essere in sé, indipenden­temente dall’uso a cui l’uomo le può far servire. Invece è vero l’oppo­sto: « l’utilizzabilità è per il mezzo il suo “essere in sé” » (SuZ 69; it. 82 [142]).

La cosa come consistente in sé, come costanza a cui i rapporti con le altre cose, la contestualità intramondana in cui la inserisce l’uomo, ineriscono come accidenti — cioè la cosa come semplice-presenza, Vor­handenes— è solo una costruzione fittizia che risulta da un malinteso atto di obbiettivazione. Questo non è il modo originario di essere delle

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cose: noi incontriamo la cosa sempre anzitutto in rapporto con la nostra vita e inserita in un contesto di altre cose, cioè in un mondo (cfr. SuZ 61, 70, 71, 73; it., rispettivamente, 73-74 e 82-85 [131-133 e 143-147]). Questa appartenenza al mondo è l’essere in sé della cosa: si osserverà che Heidegger adopera l’espressione « essere in sé » tra virgolette. Ciò non dipende solo dal fatto che egli vuol richiamarsi qui a un luogo comune della tradizione filosofica, Tessere o la cosa in sé distinti dalTessere per noi; le virgolette indicano anche che per Heidegger si tratta di una espressione assolutamente impropria e inaccettabile. Ammettere che ci sia un essere in sé signifi­cherebbe confondere di nuovo Tessere con l’ente, e questo per giunta concepito nella forma del Vorhandenes, del semplicemente-presente. In Sein und Zeit, invece, essere, in contrapposizione a ente, indica la luce entro cui l’ente diventa visibile, e cioè anzitutto il contesto delTutilizzabilità aperto dall’esserci. Le cose vengono all’essere solo in quanto c’è Tesserci che le inserisce nel mondo utilizzandole. Così si può dire che Tutilizzabilità, cioè l’appartenenza al mondo, è il vero e unico essere delle cose.

Si può analizzare in maniera più particolareggiata il contesto referen­ziale entro cui la cosa è quel che è come ente intramondano. Si è già visto che il primo tipo di rimando è lo scopo, l’uso per cui la cosa è fatta: anche quando ci viene incontro una cosa che si rifiuta a un certo impiego, essa si rivela anzitutto come un utilizzabile che non serve all’opera presente ma nello stesso tempo può servire ad altro. Anche la non adoperabilità, nelle sue varie forme, che Heidegger analizza detta­gliatamente, è solo l’aspetto negativo delTutilizzabilità costitutiva delle cose e si dà a conoscere proprio nella luce delTutilizzabilità. C’è un secondo tipo di riferimento che lo strumento contiene, quello ai mate­riali di cui è composto: qui si apre la prospettiva sulla « natura », della quale tuttavia si può parlare sempre solo nei quadro delTutilizzabilità. La natura del botanico o dello scienziato che la vuol studiare nella sua « oggettività » non è la natura fatta di forze utili od ostili, di significati sentimentali, di indicazioni, per esempio, sul tempo e sui raccolti, che ci viene incontro nell’esperienza quotidiana, inserita cioè in un conte­sto di rimandi. Oltre che allo scopo e al materiale di cui è fatto, lo strumento rimanda in ultimo a chi lo usa: lo strumento, o opera, come anche Heidegger dice in quanto ne accentua il carattere di manufatto, è sempre fatto su misura di chi lo deve usare, e questo vale anche per la produzione in serie. Attraverso questi tre tipi di rimandi, Topera- strumento rivela il mondo a cui appartiene e da cui il suo essere dipende.

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L ’analisi del concetto di utilizzabilità e della struttura dello strumen­to conduce a mettere in chiaro che il carattere fondamentale e costituti­vo dell’ente intramondano è il rimando. Da ciò la funzione rivelativa, in senso filosofico, che acquista una specie particolare di ente intramon­dano, il segno. In quanto in esso utilità e carattere referenziale coinci­dono e fanno tutt’uno esso è particolarmente adatto a illustrare la struttura propria di ogni ente intramondano, nel quale il significare è soltanto, per così dire, un accidente che si connette all’adoperabilità. La funzione del martello è nel martellare, e se esso può anche richia­marmi al materiale di cui è fatto o alle persone che lo usano, il suo impiego precipuo non è questo. Nel segno, invece, utilità e referenziali- tà coincidono. Esso è perciò « un utilizzabile ontico che, in quanto mezzo determinato, ha anche la funzione di manifestare la struttura ontologica delPutilizzabilità, della totalità referenziale e della mondi- tà >> {SuZ 82; it. 95 [159]).

È importante rilevare, a proposito della rivelatività ontologica del concetto di segno, che l’essenza dell’ente intramondano, da questo punto di vista, si manifesta nel modo più chiaro come consistente nel rimandare ad un mondo già aperto, che non è costituito, ma solo indicato dalla referenzialità dello strumento. Lo strumento, e in genera­le l’ente intramondano, così com’è teorizzato in Sein und Zeit, presup­pone il mondo e lo rivela: in questo realizza pienamente la natura di segno.

Il chiarimento dell’affermazione secondo cui il mondo è un esisten­ziale, cioè un carattere costitutivo dell’esserci, non sarebbe completo se non si mettesse in luce come e perché quel contesto di strumenti che è il mondo rimandi in ultimo all’esserci. Finora l’appartenenza al mondo si è rivelata solo come un rimandare che lega le cose singole a tutte le altre cose; ci deve essere un ultimo rimando che sta alla base degli altri e che li spiega. L ’essere a cui le cose-strumenti in definitiva rimandano è Tesserci, cioè l’uomo. Questo tipo di rimando, diverso da quello che lega tra loro gli enti intramondani, viene caratterizzato da Heidegger come il Worumwillen, Tin-vista-di-cui della totalità strumentale del mondo; all’opposto, il rimando di uno strumento all’altro si caratteriz­za come il per {Wozu). Gli strumenti non si costituiscono da sé, ma sono quel che sono soltanto in rapporto a un essere che ha la caratteri­stica di assumerli come tali e di usarli, cioè dell’esserci che ha come suo carattere costitutivo Tessere-nel-mondo. Viene compiuto così il secondo passo nel chiarimento del mondo come esistenziale; non solo la cosa intramondana è tale solo in quanto appartiene al mondo, che la precede e la fonda; ma ancora, il mondo come totalità di strumenti e

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di rimandi è tale solo in quanto è fondato da quell’essere che ha come carattere costitutivo lessere-nel-mondo.

Diventa in tal modo anche più chiara la conclusione a cui già la scoperta del segno come strumento ontologicamente rivelativo della struttura dell’ente intramondano ci aveva condotti, e cioè che quel che caratterizza l’ente intramondano è la significatività. Si può dare questo nome alla struttura referenziale propria delle cose, struttura referenzia­le che viene in luce in modo privilegiato proprio nel segno come utilizzabile ontico, quando si voglia sottolineare che il complesso refe­renziale del mondo è tale solo per Tesserci che lo istituisce e lo fonda.

L’esserci non fonda e istituisce il mondo con un atto deliberato, come sarebbe lo stabilire a un certo momento determinati usi o deter­minate convenzioni semantiche; in quanto il suo carattere costitutivo è Tessere nel mondo, esso è già sempre in un mondo di rimandi e « in intimità con essi » (SuZ 87; it. 100 [165]). Che Tesserci sia già sempre in un mondo significa che esso ha già sempre una certa comprensione di una totalità di rimandi, cioè appunto di una totalità di significati. Il carattere della mondità, da questo punto di vista, si chiarisce allora come significatività. I significati stanno alla significatività complessiva come i singoli enti intramondani stanno alla totalità degli strumenti che costituisce il mondo: solo perché in generale c’è una significatività come carattere complessivo si danno dei significati, e non viceversa. La messa in luce e il chiarimento dei singoli significati articolati alTinterno di una generale (e inizialmente generica) significatività è quello che Heidegger chiama interpretazione, che è il modo di conoscere proprio delTesserci come essere-nel-mondo.

La significatività con cui Tesserci è già sempre intimo porta in sé la condizione ontologica della possibilità che Tesserci, che comprende nella forma dell’interpretare, possa aprire qualcosa come dei « significati », che, a loro volta, « fondano » la possibilità della parola e del linguaggio (SuZ 87; it. 100 [165]).

Heidegger sviluppa ulteriormente, nei §§31-34 di Sein und Zeit, il nesso di comprensione, interpretazione, discorso e linguaggio, che qui è solo accennato. Ciò che in quelle pagine egli chiamerà discorso (Rede), l’esistenziale su cui si fonda la possibilità inautentica della chiacchiera, è qui accennato nell’espressione « aprire dei significati » che a loro volta fondano il linguaggio. L ’essere nel mondo è già sem­pre intimo con una totalità dì rimandi e di significati; questo si espri­me dicendo che esso è costituito originariamente dalla comprensione. « La comprensione porta in sé la possibilità dell’interpretazione, cioè dell’appropriazione del compreso » (SuZ 160; it. 174 [259-260]).

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Questa appropriazione del compreso che accade nell’interpretazione è possibile solo in quanto ciò che è compreso è originariamente com­prensibile e interpretabile, cioè internamente articolato nei suoi signifi­cati. La « articolazione della comprensibilità » è appunto il discorso (cfr. SuZ 161; it. 174 [260]), che sta alla base della stessa interpreta­zione; si può dire anzi che discorso e interpretazione sono ugualmente originari. Il linguaggio, a sua volta, non è che l’espressione esteriore del discorso. Il fatto che il discorso si esprima in un linguaggio spezzet­tato in parole che divengono accessibili come enti intramondani, come utilizzabili qualunque che possono essere trattati anche come semplici- presenze, è legato alla mondità propria dell’uomo. « Il discorso è esi­stenzialmente linguaggio perché l’ente di cui esso “articola” l’apertura in base ai significati ha il modo di essere dell’essere-nel-mondo gettato e confinato nel “mondo” » (SuZ 161; it. 175 [261]).

Linguaggio e discorso si capiscono però, in Sein und Zeit, non solo in riferimento alla significatività propria del mondo, ma anche in base al con-essere proprio dell’esserci come essere-nel-mondo. Discorso e linguaggio, cioè, non sono solo l’articolazione di una originaria com­prensione delle cose, ma anche di una originaria con-comprensione. Il carattere comunicativo del discorso non è qualcosa che gli si aggiunga dal di fuori; né la comunicazione è « qualcosa come il trasferimento di Erlebnisse... dall’intimo di un soggetto all’intimo di un altro » (SuZ 162; it. 176 [262]), ma solo l’esplicitazione di una con-comprensione in cui Tesserci già sempre si trova. Ancora una volta, come è tipico della fondazione esistenziale a cui Heidegger mira, non la comunicazio­ne fonda la comprensione reciproca, ma la comunicazione (o la non comunicazione, come incapacità di parlare o ascoltare gli altri) è possi­bile solo in quanto una con-comprensione originaria è già sempre data. Con-comprensione significa, tra l’altro, che la comunicazione non ha mai per oggetto l’interiorità del soggetto stesso che comunica, ma che i soggetti si comprendono solo comprendendo insieme il mondo.

E importante tener presente tutta questa trattazione heideggeriana del linguaggio perché solo in base ad essa si capiscono a pieno i concetti di mondo e di cosa; ciò vale già per Sein und Zeit e sarà ancora più evidente nelle opere posteriori, nelle quali la connessione essere-linguaggio diventerà il concetto fondamentale.

Che la comprensione in cui il mondo originariamente è già sempre aperto per Tesserci sia sempre anche con-comprensione significa in definitiva il carattere storico del mondo, che in Sein und Zeit è tematiz­zato meno esplicitamente e che invece si chiarirà nelle opere posteriori a partire appunto dalYUrsprung des Kunstwerkes e dalla conferenza su

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Hölderlin. L ’aprirmisi del mondo non è mai, infatti, un evento che riguardi solo me o un soggetto idealmente isolato; ma sempre un comprendere il mondo in sintonia con gli altri, con una società ben determinata, la mia appartenenza alla quale è appunto attestata dal linguaggio che ho in comune con essa.

Per l’aspetto che qui ci interessa va sottolineato ancora un altro fatto connesso con il concetto di mondo e di linguaggio in Sein und Zeit\ e cioè che in quest’opera la poesia viene appena nominata di sfuggita e trattata come una delle possibilità del linguaggio : « La comu­nicazione delle possibilità esistenziali della situazione affettiva, cioè l’aprimento dell’esistenza [Existenz], può divenire il fine proprio del discorso “poetico” [dichtende] » (SuZ 162; it. 176 [262]).

All’interno della esplicitazione della originaria con-comprensione, che costituisce il discorso nel suo significato generale, la poesia si colloca dunque come una possibilità fra le altre, quella che si assume come fine specifico la comunicazione, cioè Tesplicitazione, dell’affettivi­tà originaria che caratterizza Tesserci e il con-esserci. Il termine apri- mento, quindi, non ha il senso, che si potrebbe esser tentati di dargli in base, per esempio, al saggio su Hölderlin, di fondazione, ma sempli­cemente quello di espressione, manifestazione o comunicazione.

Un ultimo passo occorre fare per chiarire, almeno dal punto di vista che qui ci interessa, i concetti di mondo e di cosa come si trovano enunciati in Sein und Zeit, e cioè accennare alla dottrina della verità. La verità, infatti, è intimamente connessa con Tessere-nel-mondo. Co­me è noto, Heidegger muove da una critica del concetto tradizionale della verità come concordanza o conformità, che si è mantenuto lungo tutto il corso della filosofia occidentale 4. Ma non rifiuta questo concet­to come falso; semplicemente ritiene che esso non sia originario, cioè che non arrivi al fondo del fenomeno della verità. Perché una qualun­que verità come conformità sia possibile, pensa Heidegger, occorre che qualcosa ci sia aperto; la proposizione vera come conforme alla cosa è possibile solo in quanto scopre la cosa in un’apertura in cui essa già sempre si trova: « L ’esser vero nel senso di esser-scoprente è possibile ontologicamente solo sul fondamento dell’essere-nel-mondo. Questo fenomeno... è il “fondamento” dell’originario fenomeno della verità » (SuZ 219; it. 232 [335]).

Vero si può dire in due sensi: come essere-scoprente (la proposizio­ne che manifesta veracemente la cosa) e come essere-scoperto (la cosa

4 Tale concetto della verità come conformità si mantiene fino a Nietzsche» che Heideg­ger considera come ü culmine e anche la fine della metafisica: cfr. N I, parte III.

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che si presenta nella proposizione vera). Ma l’esser-scoperto è possibile solo sul fondamento dell’essere scoprente; la cosa si può presentare solo entro un’apertura. Questa apertura è Tesserci stesso, il cui carattere costitutivo è di essere-nel-mondo, cioè di aprire e scoprire le cose. « Poi­ché Tesserci è essenzialmente la sua apertura, in quanto aperto apre e scopre; esso è quindi essenzialmente “vero” » (SuZ 221; it. 234 [337]).

Dato il primato che Tessere vero come essere-scoprente ha sull’esse­re vero come essere-scoperto, Tesserci è « primariamente vero »; « con Tapertura dell’esserci viene raggiunto il fenomeno più estremamente originario della verità » (SuZ 220; it. 233 [337]).

In quanto essere-nel-mondo, cioè nell’apertura, Tesserci è sempre nella verità. Ciò non significa che qualunque cosa io dica sia vera, che scompaia ogni differenza fra verità ed errore; ma invece che ogni criterio particolare di distinzione tra vero e falso è possibile solo in virtù dell’apertura originaria in cui le cose mi possono venire incontro. Essere nella verità, in questo senso, vuol dire essere già sempre coorigi- nariamente «nella verità e nella non verità» (SuZ 223; it. 236 [340]). Riprendendo ciò che si è detto sulla significatività e la com­prensione, diremo che Tesserci, come essere-nel-mondo, è già sempre gettato in un àmbito di proposizioni vere o false, distinte secondo criteri che possono variare da un’epoca all’altra e non sono stabiliti dal discorso filosofico; il suo essere nella verità, che si attua appunto come capacità di distinguere il vero dal falso secondo tali criteri, è però più originariamente la stessa apertura entro cui ogni formulazione di criteri diventa possibile. Non dunque Tasserzione (il giudizio) è il luogo della verità, come vuole la tradizione — che, però si richiama indebitamente ad Aristotele — ma « la “verità” estremamente originaria è il “luogo” dell’asserzióne ». Se la verità nel suo senso più fondamentale designa dunque Tapertura dell’esserci come essere-nel-mondo, essa è un esisten­ziale e conseguentemente « c’è verità solo perché e finché c’è Tesserci » (SuZ 226; it. 238-39 [344]).

Non solo la verità, ma Tessere stesso è legato all’esserci. Qui si tocca il nocciolo del concetto di essere come viene adoperato in Sein und Zeit. L ’essere non coincide con gli enti in quanto essi vengono all’esse­re solo nell’apertura in cui li pone Tesserci. Si è già visto che Tessere in sé delle cose intramondane è la loro utilizzabilità, chiarita ulteriormen­te come inserimento in un quadro di rimandi e come significatività. Per le cose, essere equivale ad appartenere al mondo aperto dalTesser­ci. Così si capisce perché « “v’è” essere, non ente, solo in quanto è la verità » (SuZ 230; it. 242 [348]). Ora, « la verità ha il modo di essere e il senso dell’esserci stesso » (SuZ 228; it. 241 [346]).

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Se ne dovrà concludere dunque che anche Tessere ha il modo di essere dell’esserci? Tale impressione non è ingiustificata in base a queste pagine di Sein und Zeit, ed è confermata da autorevoli interpre­tazioni, prima fra tutte quella del De Waelhens 5, il quale, avendo fondato per necessità di cose la sua interpretazione di Heidegger princi­palmente su Sein und Zeit, finisce per leggere in tale chiave anche il saggio sulTorigine dell’opera d’arte 6, che invece, come si vedrà, contie­ne gli elementi essenziali di uno sviluppo per certi aspetti rivoluziona­rio rispetto a Sein und Zeit, o almeno rispetto a ciò che in origine tale opera parve significare. Per il De Waelhens, Tessere non è altro che la luce che Tesserci proietta sull’essente costituendo il mondo e la verità; in tal modo, l’originaria ontologicità dell’esserci si identifica senza residui con il suo costitutivo essere-nel-mondo. Sarebbe fondata, in questa prospettiva, una interpretazione « soggettivistica » del concetto di essere come formulato (più o meno esplicitamente) in Sein und Zeit, e si potrebbe dire che Tessere ha il modo di essere delTesserci, si riduce all’esserci. È noto peraltro che Heidegger rifiuta esplicitamen­te, già in Sein und Zeit e anche più nettamente nelle opere successive 7, la contrapposizione tra soggettivo e oggettivo, proprio in nome di quel carattere di eventualità delTessere in base al quale non si può parlare di un « essere in sé » delle cose prima che queste si illuminino in un mondo, e quindi, correlativamente, di un loro « essere per noi » che si distingua dall’essere in sé.

Se dunque non si può parlare di « soggettivismo » per il concetto di essere di Sein und Zeit, per gli equivoci cui questo termine dà luogo e per il motivato rifiuto di esso da parte di Heidegger stesso, rimane il fatto che Sein und Zeit lascia aperta una quantità di problemi circa il rapporto essere-esserci. E vero che da un lato, specialmente in base alle pagine poco più sopra ricordate, sembra che Tesserci, a cui è stato riconosciuto un primato ermeneutico nella riproposizione del problema delTessere, finisca per avere un primato ontologico sull’essere stesso.

5 La philosophie de Martin Heidegger, est, specialmente le pp. 49 e 288.6 II De Waelhens potè conoscere il testo della conferenza suli’origine dell’opera d’arte

prima che fosse stampato in Holzwege. All’estetica heideggeriana egli dedica il cap. 17 del suo libro: il senso dell’Ursprung des Kunstwerkes consiste per lui solo nel fatto che qui, rispetto a Sein und Zeit, « si è spinto Io sguardo molto più avanti verso la comprensione dei concreto » (op. cit., 290). Peraltro, « il mondo di cui si parla qui (in Ursprung, cioè) va visto già come una derivazione e una specificazione del mondo più astratto, come esigenza pura, di cui parlava Sein und Zeit. Prima del mondo ci sono i mondi, mezzi più concreti di sviluppare il lavoro di comprensione che si instaura e si abbozza nella proiezione della Welt descritta da Sein und Zeit » (ibid.).

7 Cfr. per esempio il citato Zusatz all’edizione Reclam deirCi>'5/»w?g des Kunstwerkes, 99-100 [68-69],

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D’altra parte, però, l’impostazione generale di Sein und Zeit (Tanalitica esistenziale intesa come il primo passo, non l’unico, sulla via del discor­so ontologico) e gli stessi caratteri più francamente « esistenzialistici » dell’opera (il rilievo dato ai concetti di angoscia, deiezione, autenticità, essere-per-la-morte) attestano che l’ontologicità dell’esserci si richiama a un concetto di essere che, pur rimanendo imprecisato, o anzi proprio per questo, non può venir ridotto al significato gnoseologistico implici­to nella interpretazione del De Waelhens. L ’opera successiva di Hei­degger, del resto, ha smentito questa interpretazione mettendo sempre più in luce il carattere genuinamente metafisico del concetto di essere, affermato già, sebbene implicitamente, in Sein und Zeit8.

Il senso dell’incompiutezza di Sein und Zeity del resto, è tutto rac­chiuso entro i due termini di questa questione: si può infatti parlare di incompiutezza solo in quanto non si riduca Tessere all’apertura dell’es­serci, perché solo in questo caso Tanalitica esistenziale non esaurisce l’ontologia. Se Tessere non fosse altro che la luce in cui Tesserci pone gli enti, non ci sarebbe da aspettarsi nient’altro dopo la parte pubblica- ta di Sein und Zeit. E, di fatto, gli interpreti che accentuano la frattura fra lo Heidegger di Sein und Zeit e quello delle opere successive non possono che considerare definitiva l’incompiutezza di quell’opera, to­gliendo dunque al fatto ogni significato. D’altro lato, l’incompiutezza di Sein und Zeit è un fatto indiscutibile proprio perché in questo scritto il discorso ontologico rimane fermo all’analitica esistenziale, giustificando così l’impressione che Tessere non sia altro che la luce proiettata dalTesserci sulla totalità dell’essente. Il rapporto tra essere e tempo, da questo punto di vista, rimarrebbe pensato nell’àmbito dello storicismo, giacché l’eventualità dell’essere coinciderebbe con la sua storicità, cioè con l’aprirsi di prospettive via via diverse che costituisco­no Tessere stesso delle cose.

La via di uscita da questa situazione poteva venire solo dal raggiun­gimento di una posizione che costituisse nello stesso tempo una novità rispetto a Sein und Zeit e uno sviluppo delle sue premesse. Questa nuova posizione, o almeno le basi di essa, viene elaborata da Heideg­ger proprio nella riflessione sull’arte di cui sono testimonianza i due saggi estetici del 1935-36, attraverso i quali egli si apre la via allo sviluppo del discorso ontologico.

8 Cfr. HB 17 [281], Il carattere dell’esistenzialismo come « rivendicazione della metafisi­ca », in quanto « l ’esistenza è, fondamentalmente, rapporto con l ’essere », è già chiaramente indicato da L. Pareyson , Studi sull’esistenzialismo, cit., 15, 29 (in saggi che risalgono al 1939 e al 1941), e passim.

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3. L ’origine dell’opera d’arte

A una nuova apertura sul problema dell’essere, che gli permetta di andare oltre sulla linea rimasta interrotta in Sein und Zeit, Heidegger arriva infatti rimettendo in questione i concetti di mondo e di ente intramondano quali si erano configurati in quell’opera; e questa rimes­sa in questione avviene quando egli si pone il problema dell’opera d’arte. In ciò consiste l’importanza decisiva che ha la riflessione sull’ar­te per lo sviluppo del suo pensiero: essa gli fa scoprire un modo di essere delle cose e del mondo diverso da quello raggiunto in Sein und Zeit, e questa scoperta costituirà la base per l’ulteriore elaborazione dei problemi che là erano rimasti aperti.

L ’analitica esistenziale di Sein und Zeit aveva riconosciuto due tipi di dass, due modi di essere: il dass della fatticità (Tatsächlichkeit) proprio dell’ente intramondano, e il dass dell’effettività (Faktizität), proprio dell’esserci (cfr. SuZ 135; it. 148 [226]). L ’effettività propria dell’esserci è definita dal concetto di progetto gettato: Tesserci è già sempre come aprente, e in tal senso come originario illuminarsi della verità. La fatticità, invece, ricade entro la sfera della verità nel senso secondario o derivato, dell’apertura come inserimento in un àmbito di significatività, propria delle cose. Le cose, in quanto caratterizzate dalla fatticità, non sono mai aprenti, ma sempre solo aperte. Il loro rimandare, che le costituisce nell’àmbito della significatività, è sempre solo un essere segno di un ordine storico che esse non fondano, ma da cui sono fondate. Sicché si può dire che, finché il mondo è visto come un esistenziale, cioè come una caratteristica costitutiva dell’esserci, come quella luce delTessere che solo Tesserci può proiettare sulle cose, l’ente intramondano non può presentarsi altro che come segno, come rimando a un ordine che esso non fonda, ma da cui è fondato; se tuttavia si incontrasse un ente intramondano che sfugga a questa carat­terizzazione di segno — la quale, poi, non è altro che la strumentalità evidenziata come tale — allora anche la concezione del mondo come esistenziale nel senso di Sein und Zeit dovrebbe essere riveduta e i problemi che là rimanevano aperti potrebbero trovare una via di so­luzione.

Ora, questo ente intramondano (solo impropriamente, però, si può ancora chiamarlo così) che si rifiuta alla caratterizzazione come sempli­ce segno o strumento è proprio l’opera d’arte.

Le prime pagine del saggio su L ’origine dell’opera d’arte sono un fitto movimento di andare e venire tra diversi concetti che poi si illumineranno vicendevolmente: per cominciare a definire l’opera si

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cerca di definire la cosa, giacché lopera è anzitutto genericamente una cosa. Ma della cosa si sono date diverse definizioni nella storia del pensiero: quella che si rivela più calzante è la definizione aristotelica fondata sui concetti di materia e forma; ciò perché tali concetti sono attinti a un’originaria esperienza della cosa, l’esperienza dell’usare stru­menti. La cosa, come sinolo di materia e forma, viene caratterizzata anzitutto come strumento; che era appunto il concetto di ente intra­mondano di Sein und Zeit. Il concetto di strumento, tuttavia, più che definire esaurientemente la cosa, è un concetto medio tra quello di cosa, col quale ha in comune la consistenza fisica nel mondo, e quello di opera, in quanto è prodotto dall’uomo. Ma dell’opera, osserva già qui Heidegger, lo strumento non ha il carattere di autosufficienza, carattere che tuttavia si chiarirà solo in seguito. Per questa sua essenza media, comunque, lo strumento può fare da filo conduttore per l’inda­gine dei concetti di cosa e di opera.

La prima fondamentale incrinatura di questo modo di procedere che ha ancora il tono proprio di Sein und Zeit si ha proprio nel modo, apparentemente arbitrario e inopinato, in cui Heidegger sviluppa ora l’indagine sul concetto di strumento. Diremmo che, se si volesse indica­re una pagina decisiva per la Kehre del pensiero heideggeriano, ci si dovrebbe proprio riferire a questo passo delYUrsprung in cui, posto che si deve studiare il concetto di strumento per arrivare a chiarire quelli di cosa e di opera, Heidegger, invece di muovere, come avrebbe fatto in Sein und Zeity dalla quotidianità media sulla cui base là aveva formulato il concetto del mondo, sceglie di indagare lo strumento come esso si presenta in un’opera d’arte, un noto quadro di Van Gogh in cui si vedono le scarpe di una contadina. L ’introduzione dell’opera d’arte proprio là dove si tratterebbe di indagare sullo strumento per arrivare poi al concetto dell’opera ha tutte le caratteristiche di un procedimento scandaloso per il logico, è una forma di petizione di principio. La maniera stessa in cui Heidegger giustifica il suo modo di procedere è sospetta: pare che il riferimento al quadro debba solo servire per intendersi meglio sull’oggetto del discorso, con la funzione di una pura e semplice illustrazione inserita nel testo. La casualità e l’arbitrarietà di questo riferimento è tuttavia solo apparente: siamo invece di fronte a uno dei tanti « circoli » propri del ragionare heideg­geriano. La scelta del quadro di Van Gogh per studiare le scarpe della contadina nella loro strumentalità si giustificherà nella sua portata solo nel seguito del discorso, in cui si farà chiaro ciò che già nelle pagine precedenti è stato accennato, e cioè che i concetti di cosa, strumento, opera si illuminano vicendevolmente; anzi, in questa scelta agisce già

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quella che sarà la conclusione del discorso, e cioè che cosa e strumento si rivelano nel loro essere solo nell’opera, proprio in quanto è l’opera a porli nel loro essere e a fondarli.

Si può osservare qui un certo parallelismo con Sein und Zeit\ la preminenza ermeneutica delTesserci, là, corrispondeva in definitiva a una sua preminenza ontologica; analogamente, qui, il fatto che solo studiando l’opera d’arte si arrivi a capire l’essenza dello strumento e della cosa significherà alla fine che cosa e strumento sono ontologica­mente fondati come tali proprio dall’opera d’arte. Tenendo conto di questa analogia con Sein und Zeit, analogia che implica però un muta­mento radicale dei termini, si può capire in che senso possa apparire decisiva della Kehre heideggeriana la scelta del quadro di Van Gogh per l’ulteriore indagine del concetto di strumento.

Fatto questo passo, i primi sviluppi della ricerca sembrano riportarci a Sein und Zeit e ai caratteri della strumentalità come là si definivano. Lo strumento è rivelato dall’opera d’arte con gli stessi caratteri che manifestava nell’analisi del quotidiano essere-nel-mondo. Così, le scar­pe della contadina rimandano al materiale di cui son fatte, all’uso cui servono, alla persona che le adopera, secondo le tre direzioni del rimando definite nell’analitica esistenziale. È vero che qui, rispetto a quelle pagine dell’analitica, si possono osservare già alcune novità, che tuttavia rimangono in secondo piano: cioè una accentuazione del riferi­mento al mondo dei sentimenti e dei pensieri della persona che usa lo strumento, e Tintroduzione del concetto di Erde. Sia luna che l’altra novità avranno il loro sviluppo solo nel seguito del saggio.

Ciò che a un certo punto Heidegger fa rilevare, come per prevedere un’obiezione, è che tutti i rimandi dello strumento scarpe sono venuti in luce non da un esame delle scarpe come tali, ma dall’analisi del quadro di Van Gogh: ciò potrebbe significare, a prima vista, che egli intenda l’arte come idealizzazione della realtà. Ciò a cui egli mira, invece, è tutto l’opposto. Il fatto che proprio dal quadro di Van Gogh sia stato possibile ricavare il molteplice significato di uno strumento- scarpe non è casuale: indica che proprio nell’opera d’arte lo strumento è venuto in luce nella sua verità, è stato posto nella sua verità. « Nel­l’opera, quando in essa accade un’apertura dell’essente in ciò che esso è e com’è, è all’opera un accadere della verità » (Hw 25 [21]).

Questo potrebbe venire inteso come una. pura e semplice ripresa dell’ormai banalizzato concetto di imitazione: l’opera d’arte presenta la realtà nelle sue caratteristiche più essenziali e riposte. La sua verità consiste, secondo il concetto metafisico tradizionale della verità come adeguazione, nella conformità all’essenza della cosa rappresentata. Se

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si tiene presente ciò che già in Sein und Zeit era detto contro la concezione della verità come conformità, a favore di un concetto più originario della verità, si intende che per Heidegger l’accadere della verità dev’essere qualcosa di ben diverso dal semplice manifestarsi di un vero che sia dato già in qualche luogo prima del suo rivelarsi nell’opera.

Che cosa significhi che nell’opera accade la verità si può cominciare a capirlo se si cerca di definire quello che, anche comunemente, si dice il mondo dell’opera. Continuamente ci troviamo di fronte a opere d’arte che appartengono a mondi storici diversi dal nostro, e sentiamo difficile rimetterci nelle condizioni adeguate a comprenderle. Tuttavia, l’appartenenza dell’opera al suo mondo non è da intendere come si intende generalmente, quasi che l’opera abbia il suo significato solo entro la società o l’epoca in cui è nata e che, si sottintende, ha determi­nato il suo esser così piuttosto che diversamente. Il discorso sul qua­dro di Van Gogh dovrebbe già averci messo in guardia contro una tale semplicistica prospettiva. Il mondo di quel quadro non l’abbiamo cono­sciuto studiando l’epoca storica e la società in cui Van Gogh è vissuto e ha lavorato, ma guardando il quadro stesso. Non abbiamo confronta­to le scarpe del quadro con le scarpe di alcuna contadina reale. Tutto quel che sappiamo di quelle scarpe e del mondo della contadina ce l’ha detto il quadro. Il quadro non ha manifestato un mondo che si potesse incontrare anche altrimenti, ma ha fondato la totalità dei rapporti e dei rimandi che in esso abbiamo scoperto.

Quando si parla di mondo di un’opera d’arte non si allude dunque se non al mondo che l’opera stessa apre e fonda, un mondo di rimandi in cui le cose ricevono un significato e si ordinano in una totalità che ha appunto la struttura propria del mondo come era teorizzato in Sein und Zeit, la significatività. Solo che mentre nell’analitica di Sein und Zeit la significatività appartiene al mondo inteso come esistenziale, a una totalità di strumenti che ha il suo centro e la sua origine nell’esser- ci, qui la totalità dei rimandi e dei significati che costituiscono il mondo è istituita dall’opera che è un accadimento della verità. La verità ha conservato quindi lo stesso carattere che aveva in Sein und Zeit, la sua costitutiva eventualità, la sua essenza di illuminazione degli enti che si ordinano in un mondo; ma mentre la verità più originaria là era lesserei come essere-nel-mondo, e quindi come aprente il mondo, qui la funzione di origine, come sarà detto esplicitamente nelle pagine conclusive del saggio, appartiene all’opera d’arte. Si potrebbe obiettare che, in definitiva, chi produce l’opera d’arte è l’uomo, e che quindi la funzione di verità originaria e aprente rimane all’esserci, come voleva

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Sein und Zeit. Ma resterebbe allora da spiegare perché Heidegger non abbia tematizzato questa prospettiva e parli per tutto il saggio di una messa in opera della verità senza mai chiarire il rapporto che l’opera così concepita ha con l’artista. Anzi, Heidegger nega ripetutamente che per conoscere l’opera d’arte si possa partire dall’artista. E in un’appen­dice scritta nel 1956 9 egli stesso sottolinea l’ambiguità della formula « messa in opera della verità », rifiutando però esplicitamente di chia­rirla univocamente nel senso « umanistico » che invece implicherebbe se si intendesse l’opera come un semplice mezzo attraverso cui Tesserci esercita quella funzione aprente già riconosciutagli nell’analitica esisten­ziale. Che ci sia del nuovo rispetto a Sein und Zeit è manifesto, oltre che dal tono generale del saggio, anche dall’insistenza con cui viene riaffermata la priorità dell’opera e dell’apertura che in essa accade sull’esserci stesso. « Non noi poniamo Tapertura dell’essente, ma è l’apertura dell’essente che ci colloca [bestimmt] in una essenza tale che, nel nostro rappresentarci le cose, noi siamo sempre posti a nostra volta dall’apertura dell’essente » (Hw 41 [37]) 10.

Per chiarire ulteriormente in che senso si debba intendere che l’ope­ra apre e fonda essa stessa il proprio mondo, Heidegger ricorre a un altro esempio, che precisa meglio come la storicità vada qui intesa anzitutto, contrariamente a ciò che si pensa comunemente, come fonda­zione di un mondo storico. Un tempio greco, con il suo semplice sussistere, apre (non nel senso di manifestare, come già si è detto) tutto un ordine della vita e della morte, cioè presenta tutto l’ordine dei valori che costituiscono la base della vita di una determinata umanità storica. Esso, in questo senso, apre e fonda il mondo cui appartiene. Ma, d’altra parte, essendo quello che è, si inserisce anche nella natura e le dà un significato: fondandosi sulla pietra, resistendo ai venti, offrendosi alla luce del sole e alle tenebre della notte, esso porta

9 Der Ursprung des Kunstwerkes, ed Reclam, cit., 99-100 [68-69],1U Nell’edizione Reclam citata, il passo presenta alcune aggiunte e modifiche, che peral­

tro Heidegger non segnala: alle parole « è l’apertura dell’essente » segue una parentesi « (l’essere) »; invece di « determina » {bestimmt) il testo modificato ha «pone » (versetzt); nella proposizione conclusiva, infine, a nachgesetzt (posti dopo, che ho reso con « posti a nostra volta ») è aggiunto un eingesetzt (posti e istituiti nelPapertura, oltre che da essa): si veda Ped. Reclam, p. 55. [La trad. it. cit. di P. Chiodi è per questo passo condotta sulla precedente ed.; all ed. Reclam si rifa invece per lo Zusatz]. L ’essenza in cui l’apertura si colloca o determina è Wesen: ho reso il termine secondo il modo consueto, ma bisogna avvertire che per Heidegger Wesen ha senso verbale, prima che nominale, per cui indica l ’essere in quanto walten, si potrebbe dire essentificarsi o essenzializzarsi; Tesserci, infatti, come anche il mondo, non è mai nel senso di un esser dato, nel senso della semplice-presen­za che caratterizza le cose intramondane. Su tutto ciò si veda E. Schoefer , Die Sprache Heideggers, cit., 95-96 e 241-42.

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all’evidenza tutte queste cose della natura, la quale si manifesta come « ciò su cui e in cui l’uomo fonda il proprio abitare » (Hs 31 [27-28]). L ’apertura di un mondo avviene solo come contemporanea messa in luce del fondamento a cui questo mondo si riconduce, la natura o Erde, la terra. In quanto fondamento dell’aprirsi del mondo, la terra si manifesta come chiudersi e sottrarsi: essa è « ciò a cui lo schiudersi di tutto ciò che si schiude, proprio in quanto tale, si riporta come alla sua chiusura originaria. In ciò che si schiude la terra è presente e agisce come ciò che nasconde » (Hw 31 [28]) !1.

Quel che caratterizza l’opera come tale e la distingue dagli enti intramondani, la cui essenza è ancora sempre definita come strumenta- lità, è proprio l’aprirsi in essa di un mondo e il contemporaneo venire in luce della terra come fondamento di tale apertura, e quindi come ciò che all’apertura non si riduce mai completamente, giacché l’apertura sta in essa. L ’esser opera dell’opera si riassume in questi due concetti: Aufstellung (es-posizione) di un mondo e Herstellung (pro-duzione, nel senso etimologico) della terra (Hw 33-34 [29-31]). Anche per questa Herstellung della terra, come per altri concetti della riflessione heideg­geriana sull’arte, è possibile una interpretazione banalizzante, o meglio parziale, che Heidegger stesso accenna: l’opera pro-duce la terra in quanto non adopera i materiali che usa nel senso di piegarli a un fine in cui la loro individualità scompaia, ma li mette in evidenza in ciò che essi davvero sono. L ’essere statua o parte del tempio mette in luce la vera essenza del marmo, l’appartenere a un quadro rivela il colore nella sua vera natura di colore e così via. Tutto questo è anche vero, ma non costituisce il nocciolo di ciò che Heidegger pensa nel concetto di pro-duzione della terra. Sebbene tale pro-duzione significhi la messa in luce della terra in ciò che essa essenzialmente è, la terra però si rivela nell’opera d’arte anzitutto come ciò che non è mai pienamente manifesto, come ciò che si sottrae all’apertura mentre la fonda. La materia di cui un’opera d’arte è fatta, per quanto si presenti immediata­mente come il fondamento di tutto ciò che l’opera ci dice, si sottrae come tale a ogni tentativo di penetrazione: parlare del colore di un quadro si può solo in quanto si elucidano i « significati » del quadro, cioè il mondo che il quadro apre; ma del colore come tale non si parla, se non a prezzo di perderlo in ciò che esso davvero è nel quadro. Se ne può fare, per esempio, un’analisi chimica, ma questo non ci dice nulla sul colore come è nel quadro. E tuttavia il colore non si riduce ai

11 L ’espressione « è presente e agisce » traduce il tedesco west, dal verbo wesen, su cui si veda la nota precedente.

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significati che ha nel quadro; essi, anzi, sono possibili solo sul fonda­mento del colore, che come tale, dunque, sfugge sempre a una elucida­zione. « Pro-durre la terra significa portarla nell’apertura come ciò che si chiude [das Sichverschliessende] » (Hw 36 [32]).

Si deve sottolineare però che il colore non scompare mai nel discor­so sui significato del quadro; esso non è un simbolo che si consumi, come si direbbe in una terminologia diversa da quella heideggeriana, ma apre i significati e il mondo del quadro proprio attirando l’attenzio­ne su di sé e imponendosi permanentemente a chi contempla l’opera. Nell’ente intramondano caratterizzato dalla strumentalità, la materia di cui lo strumento è fatto viene in evidenza solo quando c’è qualcosa che non funziona; nell’uso normale, l’esser così dello strumento non si fa osservare, non richiama l’attenzione su di sé, si inserisce senza scosse nel mondo dei rimandi e delTutilizzabilità. Nell’ente intramondano non c’è Herstellung della terra e di conseguenza non c’è Aufstellung di un mondo; l’ente intramondano non è un accadere della verità, un’apertu­ra in atto, ma è sempre solo costituito in un mondo già aperto.

Solo chiarendo ulteriormente il rapporto fra Welt e Erde nell’opera si può capire in che senso esso sia un accadere della verità e in che cosa si distingua dagli enti caratterizzati dalla strumentalità e dalla significatività di cui parla Sein und Zeit. Si sarà osservato come il concetto di Erde, comparso dapprima nel discorso sulle scarpe della contadina e poi a proposito del tempio greco, abbia finora un significa­to piuttosto ambiguo; nel quadro di Van Gogh, Erde è la terra nel senso comune del termine, le scarpe della contadina richiamano al fango, al succedersi delle stagioni, al maturare del grano, ecc. Nel caso del tempio greco, Erde è la natura con cui il tempio è in rapporto e di cui è fatto: la pietra, la luce, le tenebre, i venti. Nel saggio su Hölder­lin, Erde avrà un senso, se non esplicitamente diverso, certo più vago e sfuggente, stando ad indicare una specie di originarietà di cui non è chiaro come si distingua dall’essere stesso. Pare impossibile, o almeno molto difficile, sulla base di questi diversi usi del termine, arrivare a stabilire un significato non ambiguo del concetto. In realtà, secondo la struttura circolare che già più volte abbiamo rilevato in Heidegger, Welt e Erde rivelano il loro significato solo se messi in rapporto con il senso ultimo del discorso in cui l’autore li introduce. L ’opera è un accadere della verità in quanto es-pone un mondo e pro duce la terra. Nell’opera, infatti, tra il mondo come apertura di un aperto e la terra come ciò che si chiude (in quanto fondamento dell’apertura) si stabili­sce un conflitto che è la vera messa in opera della verità. Il conflitto tra Welt e Erde non va inteso nel senso che l’uno dei due termini tenda

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a eliminare l’altro, ma piuttosto nel senso che ognuno dei due richiama e implica necessariamente l’altro come proprio opposto e, seppure in senso diverso, come proprio fondamento. Il mondo dell’opera non è nulla se non sul fondamento della terra, o della materia di cui l’opera è fatta; d’altra parte, la materia viene in luce, pur sempre come sottraen- tesi, soltanto nel mondo dei significati che l’opera istituisce. L ’opera dunque rappresenta la messa in atto {Bestreitung) di questo conflitto in cui i due termini sono continuamente ed egualmente presenti e non soccombono mai l’uno all’altro. Ora, questa natura conflittuale, questo implicarsi di una apertura e di una chiusura che, fondandola, si manife­sta come chiusura, costituisce proprio l’essenza della verità. Qualunque sia il significato specifico che via via il termine Erde acquista nelle varie pagine e nei diversi scritti, esso sta sempre a indicare la chiusura che si manifesta come tale, il fondo da cui ogni schiudersi viene, nell’evento in cui accade la verità come aprirsi di un mondo.

Il concetto di verità come conflitto originario, come Ur-streit, è già implicito nel richiamo di Sein und Zeit all’antico concetto di verità come à-)o$£ia, come non-nascondimento che suppone dunque sem­pre un nascondimento più originario — richiamo che costituisce uno dei motivi più costanti e fecondi di tutta la speculazione heideggeriana. Il suo senso è la messa in luce del carattere eventuale della verità, la quale non è mai un darsi accidentale di ciò che peraltro è già lì come semplice-presenza, ma lo schiudersi di una totalità di rapporti che si istituiscono mentre si aprono. Solo entro questa apertura sarà poi possibile stabilire criteri di vero e falso e concepire la verità come conformità del giudizio alla cosa. Anzi, l’accadere della verità come apertura si attua proprio come istituzione di un criterio di discrimina­zione tra vero e falso: ogni mondo storicamente dato si fonda sempre su determinati modi di pensare la distinzione tra questi due termini; e così si può dire di ogni àmbito scientifico particolare, in cui vengono istituiti metodi e criteri di accertamento della verità (nel senso seconda­rio e derivato). Tutto questo è possibile solo entro una determinata apertura, e anzi è il modo di attuarsi dell’apertura stessa: in ciò si manifesta il carattere originariamente conflittuale della verità.

Tuttavia, nella messa in atto di criteri di distinzione tra vero e falso, nel dividersi del campo della conoscenza tra ciò che è noto e ciò che è, ancora (giacché, aperto l’àmbito, è solo questione di muoversi in esso, esplorandolo via via, senza che vi sia più alcun problema di conoscibili­tà, ma solo sempre problemi particolari, sempre per definizione risolvi­bili con ulteriori ricerche), ignoto, il conflitto che costituisce originaria­mente la verità si manifesta già nella forma dell’aperto. L ’esistenza di

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criteri di discriminazione tra vero e falso, di una distinzione tra noto e ignoto, ricorda ancora in qualche modo il conflitto originario tra na­scondimento e apertura, ma non coglie questo conflitto in atto. Vero e falso sono già sempre in una apertura; non colgono l’apertura nell’atto di istituirsi, portano solo una remota impronta del conflitto da cui vengono. L ’opera d’arte, invece, non è il prodotto del conflitto, ma è il conflitto stesso in atto (Bestreitung), uno dei modi fondamentali in cui il conflitto si attua. In questo senso è accadere della verità nella sua natura più profonda.

Ciò che in Sein und Zeit veniva pensato ancora come un fatto trascendentale, legato all’essenza dell’uomo come essere-nel-mondo e quindi come già sempre aprente, qui è pensato invece come evento storico, nel senso che fonda e apre dei modi storici. Sein und Zeit non poneva la questione delVorigine della verità; anche il richiamo 1̂ con­cetto di aArjÒELGt intendeva l’eventualità della verità solo come l’illu­minarsi del mondo per opera dell’esserci in quanto esser già sempre aprente e fondante l’apertura. A ciò è connesso il fatto che nell’analiti­ca esistenziale il mondo ha sempre l’articolo determinativo, non è mai questo o quel mondo — o, almeno, ciò non ha rilievo — giacché esso è pensato come una dimensione costitutiva delTesserci. L ’essere gettato non è un fatto storico, non è un evento, ma una proprietà essenziale dell’uomo. L ’apertura non viene mai colta, in Sein und Zeit, nell’atto di avvenire; il mondo è già sempre aperto come dimensione dell’esistenza dell’uomo. L ’indagine sull’opera d’arte come messa in opera del conflit­to tra Welt e Erde rivela invece l’apertura nell’atto di avvenire, la verità nell’atto di farsi tale. L ’opera d’arte istituisce il suo mondo, e quindi la verità, proprio mentre pro-duce la terra come ciò che non sì può mai aprire totalmente. L ’esistenza del conflitto tra Welt e Erde nell’opera fa sì che l’opera non manifesti un mondo peraltro già aperto, non sia significativa nel senso in cui è significativo l’ente intramondano caratterizzato dalla strumentalità e dal rimando. Il rimando nel senso dell’ente intramondano è possibile solo nell’àmbito di un aperto già aperto, di un mondo già istituito. L ’ente intramondano, in quanto si colloca in una apertura già raggiunta e pacifica, non produce la terra, non sa nulla di qualcosa che si manifesti come chiusura e come sottrar­si: ogni cosa, nell’àmbito dell’aperto, ha già un suo significato preciso, o almeno può averlo col progredire della ricerca. L ’opera invece si presenta come l’istituirsi di un mondo nuovo di significati che emergo­no da un fondo il quale non si lascia mettere del tutto in luce, e proprio per questo può essere fondamento. Di qui il carattere dell’ope­ra come fondata e fondante insieme, giacché porta in sé la propria « terra » e insieme è il primo ente del nuovo mondo da essa aperto.

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Se nell’opera si coglie l’apertura nell’atto di aprirsi, la verità nell’atto di accadere come tale, viene in luce anche un altro carattere fondamen­tale della verità, cioè la sua tendenza ad essere-in-opera, ad attuarsi in un’opera. L ’aprirsi di un mondo, infatti, accade sempre attraverso il venire in essere di un essente intorno a cui il nuovo mondo si organiz­za e si ordina. La verità è apertura solo in quanto « stabilisce se stessa nella propria apertura. Perciò occorre che in questo aperto ci sia sem­pre un essente in cui Tapertura assume la propria consistenza e la propria stabilità » (Hw 49 [45]).

Ci sono vari modi attraverso i quali la verità « stabilisce se stessa nella propria apertura », e sono certi eventi decisivi per la storia della verità e dell’essere stesso: Tatto di fondazione di un ordine politico, l’esperienza religiosa e l’esperienza morale, la filosofia 12. Ad essi Hei­degger accenna appena, né sembra che altrove abbia sviluppato il discorso nel senso indicato qui. Tuttavia il riconoscimento della neces­sità che la verità apra un mondo stabilendo un essente particolare intorno a cui questo nuovo mondo si organizza è decisivo per lo sviluppo del discorso heideggeriano sulla Geworfenheit, sull’essere get­tato dell’esserci; Tessere gettato è già sempre gettato, ma si possono riconoscere alcuni eventi fondamentali che decidono e qualificano stori­camente la Geworfenheit; Tesserci è già sempre in un mondo, ma questo mondo può essere colto nell’atto del suo nascere, e ciò proprio per Tessenziale tendenza della verità a essere-in-opera. Se si tiene conto che per il Brief über den Humanismus chi getta, nel progetto gettato, è Tessere (HB 25 [290]), si vedrà ancora meglio l’importanza che ha la riflessione sull’arte nello sviluppo del pensiero heideggeriano. Si può dire, anzi, che già nel saggio sull’origine dell’opera d’arte l’opera è vista come uno dei modi in cui Tessere getta quel progetto gettato che è Tesserci nel particolare mondo storico che gli è assegnato. Si è visto infatti che Heidegger esclude una interpretazione puramente umanisti­ca della formula « messa in opera della verità », per la quale il genitivo « della verità » sarebbe solo un genitivo oggettivo; non è l’uomo che mette la verità nell’opera e che istituisce l’opera come messa-in-opera della verità. Non è neanche che ciò accada indipendentemente da lui, è vero; e su ciò Heidegger dichiara che il problema è ancora aperto 13.

12 Credo si debba interpretare così il passo di Hw 50 [46) in cui Heidegger parla di « atto che fonda uno stato », « vicinanza di quello che non è un essente, ma il più essente di tutti gli essenti », di « sacrificio essenziale » e del « domandare del pensiero che, in quanto pensiero dell’essere, appella l’essere nella sua problematicità {Frag-würdigkeit, che indica essenzialmente il fatto che l’essere è degno di essere posto in questione, non va dimentica­to) ».

13 Cfr. Ursprung nell’ed. Reclam, citata, 100 [69].

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Ma, nel saggio che stiamo esaminando, l’opera d’arte viene chiaramen­te considerata come un evento dell’essere stesso, sebbene la funzione attiva delPartista, proprio in quanto non tematizzata, non sia neanche esclusa o negata.

Che l’opera sia un evento delTessere è chiaro da tutto ciò che si è detto finora. L’essere, infatti, come si è già visto in Sein und Zeit, è la luce entro cui gli eventi si rivelano allesserei. Ora, se l’opera è un accadere della verità, è l’istituirsi di una nuova apertura in mezzo all’essente, essa non è un evento che accada nella sfera degli essenti o che concerna un essente particolare, un mutamento che avvenga nel­l’àmbito dell’aperto già aperto. Se è, come vuole Heidegger, l’accadere di una nuova apertura sulTessente nella sua totalità, essa è un accadi­mento che riguarda Tessere stesso, un evento della sua storia. L ’opera agisce sul mondo non nel senso che muti qualcosa all’interno di esso: la sua efficacia « consiste in un mutamento, che ha origine nell’opera, dell’apertura dell’essente, e cioè in un mutamento dell’essere » (Hw 59 [56]).

L ’uomo stesso e lo stesso artista, in quanto è anch’egli gettato nel mondo che Topera apre e fonda, appartiene a questo mondo e si trova nella condizione dell’aperto più che dell’aprente, anche se è un aperto di specie particolare, la cui caratteristica consiste nel fatto che Tessere non apre mai un mondo se non a lui e per lui 14. Perciò il Brief potrà dire, in polemica con Sartre, che « précisément nous sommes sur un plan où il y a principalement TÊtre » (HB 22 [287]).

Che l’opera sia un mutamento radicale di questo genere si vede anche se si riflette sull’esperienza estetica nel suo significato più genui­no. Godere un’opera d’arte come tale non significa considerarla come documento storico rivelativo di un’epoca o modo di rivelarsi d una verità che deve essere chiarita ed esplicitata altrimenti; e neanche si gode autenticamente l’opera mettendola nei musei e considerandola come occasione di raffinate esperienze interiori, come il correlativo di un Erlebnis fondamentalmente estetistico. L ’opera, se è opera d’arte autentica, si impone con la forza di una novità assoluta rispetto a tutto ciò che è banale e consueto. Non che il fine del poeta sia baroccamente la meraviglia, evidentemente. L ’originalità per Toriginalità, il funambo­lismo di certa avanguardia rimane perfettamente entro il quadro del mondo com’è, non fonda né istituisce nuova storia. Si deve tuttavia ammettere che è difficile e rischioso distinguere l’opera davvero apren­te un mondo dall’opera semplicemente originale, ma non, potremmo

14 lbid.

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dire, originaria. Forse il segno più sicuro è proprio quello che Heideg­ger indica qui: l’opera autentica rappresenta una sospensione di tutto il nostro modo abituale di vivere e di pensare; solo dalla totalità e dalla profondità di questa sospensione dei rapporti e dei significati abituali si può misurare la validità delTopera come opera. E tuttavia, si noti bene, qui non è questione di metodologia critica, né della formulazione di criteri per distinguere l’opera d’arte dal semplice gioco intellettuale. Non a caso, introducendo questa parte del discorso, abbiamo parlato di segni; per il filosofo non si tratta di stabilire criteri, ma di cercare eventuali conferme al suo discorso nell’esperienza delle opere, senza che questo metta in pericolo l’autonomia della filosofia dell’arte o la riduca al rango di una metodologia della critica.

L ’opera agisce dunque come l’apertura di un nuovo mondo e ciò si vede anche dal modo in cui l’opera d’arte autentica si impone al fruitore. Il vero modo di godere l’opera d’arte come tale è il permanere nell’apertura aperta dall’opera, facendosi appartenente al mondo che essa ha istituito. Si osserverà che questa concezione della fruizione implica anche una serie di problemi connessi al concetto di interpreta­zione, problemi che Heidegger qui né formula né risolve, e che sono stati oggetto di sviluppi recenti proprio nella direzione da lui traccia­ta 15. Quel che si è detto, tuttavia, vale almeno a chiarire, nella manie­ra più concreta possibile qui, che cosa significhi che l’opera è un evento dell’essere e non un semplice mutamento all’interno dell’essen- te; essa non mette in gioco questo o quel rapporto interno al mondo, ma il mondo come tale nella sua totalità. Non è quindi la messa in opera di un singolo vero (come sarebbe nel caso che si trattasse di imitazione o di manifestazione, comunque, di un già aperto), ma mes- sa-in-opera della verità come tale, cioè di un’apertura che concerne la totalità dell’essente.

L ’imporsi dell’opera al fruitore come qualcosa che mette in mora tutti gli aspetti della sua vita e fa diventare ungeheuer (straordinario, non sicuro) tutto ciò che appariva ovvio, è ciò che Heidegger chiama anche Stoss (alla lettera, urto), intendendo accentuare il carattere di messa in crisi e di distruzione dei rapporti consueti che l’opera ha per noi.

Questa caratterizzazione dell’incontro con l’opera come Stoss, che a prima vista appare una precisazione casuale, ha però molta importanza

15 Si veda per esempio H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tubinga 1960 [trad. it. di G. Vattimo, 2‘ ed., Milano 1983] su cui mi permetto di rimandare alla mia nota Estetica ed ermeneutica in H.-G. Gadamer, in « Rivista di Estetica », 1963, fase. I, 117-130 [ripubbli­cato in Poesia e ontologia, cap. V ili, T ed., Milano 1985].

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perché lo Stoss si rivela come analogo alTangoscia, in quanto allo stesso modo dell’angoscia ci mette di fronte al nulla come ciò che non è nessun ente e che, perciò, si rivela in qualche modo identico all’esse­re stesso. L ’incontro con l’opera è un incontro di questo genere, sospen­de la nostra partecipazione al mondo come apertura in cui ci troviamo e ci fa percepire il movimento e il divenire dell’essere stesso, nel momento in cui apre nuovi mondi e nuova verità. Questo parallelo dello Stoss con l’angoscia, che pare indiscutibile, va sottolineato perché conferma il carattere di sviluppo e insieme di novità che il saggio sull’opera d arte possiede rispetto a Sein und Zeit; la fisionomia « posi­tiva » dell’angoscia, che in Sein und Zeit rimaneva solo implicita, giac­ché l’incontro con l’essere accadeva solo come nullificazione degli enti, (l’apertura suprema era l’essere-per-la-morte come possibilità permanen­te dell’impossibilità di ogni altra possibilità), viene qui in piena luce: nello Stoss che l’opera d’arte rappresenta per l’esserci, l’essere non è più sperimentato nella sua potenza nullificante, ma nell’atto di illumi­nare gli essenti. Lo Stoss non è l’angoscia senza oggetto, che ci pone davanti al niente, che « isola e apre lesserei come solus ipse » 16, ma è l’incontro con l’essere presente in qualche modo in un essente. La nullificazione del mondo degli essenti avviene qui nell’atto in cui un nuovo mondo viene instaurato; la verità apre un mondo stabilendo se stessa in questa apertura, in un ente particolare che è l’opera d’arte. Davanti all’essere non siamo più solo in una posizione di teologia negativa, ma abbiamo ora un appiglio che ci permette di indagarlo in maniera nuova.

Tutto ciò che si è detto finora viene riassunto da Heidegger nella analisi del concetto di Stiftung applicato all’opera. In quanto apertura di un nuovo mondo l’opera è fondazione; e ciò in tre sensi: anzitutto nel senso, che in tedesco ha pure il verbo stiften, di dono. L ’apertura che avviene nell’opera è qualcosa di radicalmente nuovo, indeducibile da ciò che già è, e in questo senso è dono, viene cioè dal nulla e non è dovuta a nessuno, giacché nulla che già sia può contenere in sé qualco­sa come un diritto ad essa. Tuttavia per quanto come non venuto da

16 Sul concetto dell’angoscia si vedano specialmente i §§ 40 e 68b di Sein und Zeit, oltre WM 31 ss. [66 ss.]. E vero che, anche nell’isolamento in cui l’angoscia lo pone, lesserei è sempre essere-nel-mondo (cfr. SuZ 188, it. 202 [296]) e che, inoltre, sia in Sein und Zeit, sia in Was ist Metaphysik? è già abbastanza chiaro che il niente a cui l’angoscia ci pone di fronte è il nulla dell’essente e quindi, coerentemente con il concetto di eventualità dell’esse­re, è l’origine stessa del mondo. Tuttavia, l’isolamento dell’esserci di cui parla Sein und Zeit va sottolineato perché conferma che, per quell’opera, l’origine del mondo va cercata princi­palmente nell’esserci, e non in qualche evento, come sarà l’opera d’arte, da cui Tesserci stesso sia « posto ».

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nessun ente questo dono venga dal nulla, esso non è qualcosa di arbitrario. A ciò si connette il secondo significato di Stiftung, che è fondazione nel senso di porre qualcosa (il mondo) sul suo fondamento. In quanto deve essere fondazione come posizione di un Grund, la fondazione deve in qualche modo già trovare questo Grund più che porlo. Non bisogna credere tuttavia che si ritorni per questo a una visione dell’arte come apertura di un mondo storico nel senso di messa in luce di ciò che peraltro questo mondo già è. E ciò anche se certe proposizioni del saggio che stiamo esaminando potrebbero essere inte­se in tal senso 17. E importante infatti vedere che cos’è questo Grund che l’opera, in qualche modo, deve riconoscere fuori di sé come sottrat­to al proprio arbitrio. Ciò in cui il Dasein è gettato « è la terra, e per un popolo storico la sua determinata terra, il fondamento chiudentesi [der sichverschliessende Grund] su cui tale popolo poggia con tutto ciò che esso, senza ancora esserne consapevole, già è » (Hw 62 [59]).

Il richiamo alla Erde esclude che l’opera possa trovare il fondamen­to da mettere in evidenza nel mondo storico dell’artista che la produce, giacché questo mondo non è evidentemente Erde, non è Grund sot­traetesi, non è ancora ignoto, ma invece è caratterizzato dall’apertura dell’aperto. Che la fondazione, come pure dice qui Heidegger, sia Bewahrung, conservazione, fare la guardia a un fondamento, e non un arbitrario figurare nuovi mondi, ribadisce d’altra parte quello che già si è visto, e cioè che l’opera, come mutamento dell’apertura in cui si colloca la totalità degli essenti, è un evento dell’essere che trascende la volontà del singolo artista. In quanto la fondazione che l’opera costitui­sce è per un verso riconoscimento di un fondamento fondante l’opera stessa, viene sottolineato che l’opera d’arte è appunto evento dell’esse­re e non semplicemente del mondo come già aperto. D’altra parte, il fondamento diviene tale solo nell’opera che lo custodisce, allo stesso modo che la terra si rivela come quella che sempre si sottrae solo nell’apertura dell’opera d’arte; il che sta a dire che, sebbene il fonda­mento non sia fondato dall’opera ma la fondi (l’opera è il primo ente del nuovo mondo aperto dall’essere, VEinrichtung della verità in un essente), esso conserva il carattere di eventualità, non è mai un già-lì che si tratti solo di riconoscere e manifestare.

Come fondazione di un nuovo mondo l’opera è, in terzo ed ultimo luogo, Anfang, inizio o meglio ancora principio, in quanto non ha il carattere di ciò che il progresso del tempo può superare, ma, secondo

17 Così, ad esempio, Hw 62 [59] : « Il progetto veramente poetante è l'apertura di ciò in cui Tesserci, come storico, è già gettato ».

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un concetto che nel Brief e in altre opere verrà sviluppato a proposito dell’essere stesso, è sempre di là da venire, giacché l’apertura che essa apre si dispiega lungo tutta la storia del mondo da essa fondato e ne costituisce il senso finale e complessivo, escatologico.

Proprio sulla base di questa essenza dell’arte come Stiftung viene introdotto nel saggio sull’origine dell’opera d’arte, verso la sua conclu­sione, il concetto di poesia (Dichtung). Poiché il mondo che l’opera fonda è radicalmente nuovo e irriducibile a ciò che era prima, la verità dell’opera, come apertura di un mondo, « accade in quanto è gedi­chtet » (Hw 59 [56]), cioè in quanto è inventata, noi diremmo anche creata, nel senso non rigoroso in cui questo termine si applica alla produzione artistica. Heidegger gioca sul duplice senso del termine tedesco Dichten, che significa insieme poetare e inventare. L ’essenza di ogni arte, allora, in quanto l’opera rappresenta un’apertura o un prò- getto che deve essere gedichtet, inventato, è Dichtung, poesia. L ’inven­zione, come già la fondazione analizzata prima nei concetti di dono, fondamento e principio, non è un immaginare arbitrario, e quindi diventa problematico anche l’abituale riferimento dell’arte all’attività fantastica intesa come slegata da ogni radice ontologica.

Che l’essenza dell’arte sia la poesia non significa tuttavia che le varie arti debbano essere considerate come sottospecie della poesia intesa nel senso ristretto di arte della parola. Heidegger adopera due termini distinti, anzi, per indicare la poesia nel suo senso generale di essenza di ogni arte (Dichtung) e la poesia nel senso limitato e specifico di arte del linguaggio (Poesie). Tuttavia, e in ciò si annuncia l’importanza che questo concetto di Dichtung avrà per tutta la successiva speculazione heideggeriana, sebbene si debba tener chiara questa distinzione, la poesia come arte particolare ha davvero una specie di preminenza o di priorità sulle altre arti. Questo si spiega in base al concetto di linguag­gio, che anch’esso subisce così una importante modifica rispetto a Sein und Zeit. Il linguaggio è il modo stesso di aprirsi dell’apertura: « dove non è presente \ivest] un linguaggio... là non c’è alcuna apertura dell’es­sente... In quanto è il linguaggio che per primo nomina Tessente, tale nominare porta per la prima volta Tessente alla parola e alTapparire » (Hw 60-61 [57]).

Questa essenza del linguaggio, tuttavia, non appartiene al linguaggio quotidiano, per il quale vale sempre quel che è detto nell’analitica esistenziale, ma solo al linguaggio che sia un autentico aprirsi dell’aper­tura e non un semplice manifestarsi dell’aperto; cioè all’opera d’arte e alla poesia intesa come opera d’arte linguistica. La poesia riunisce così una duplice originarietà: quella propria del linguaggio rispetto a tutte le altre manifestazioni dell’essere delTesserci (ed è ciò che si ricava già

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da Sein und Zeit) e quella propria dell’opera d arte. « Il linguaggio stesso è poesia nel suo senso più essenziale » (Hw 61 [58]).

Le altri arti, per quanto Heidegger non neghi loro Poriginarietà che ha teorizzato nelle pagine precedenti,

accadono già sempre e soltanto nell'aperto del dire e del nominare. Esse ne sono dominate e guidate. Ma appunto per questo rimangono vie e modi propri in cui la verità si stabilisce nell’opera. Esse sono ciascuna un particolare poetare all’interno dell’illuminazione dell’essente, che già è accaduta, del tutto inosservata, nel linguaggio (Hw 61 [58]).

Se si tiene presente l’espressione « appunto per questo » della propo­sizione centrale del periodo citato, bisogna ritenere che Poriginarietà delle varie arti diverse dalla poesia venga ugualmente conservata nono­stante (e anzi proprio per) la preminenza riconosciuta al linguaggio e alla poesia. Esse, infatti, sebbene accadano nell’aperto del dire e del nominare, sono da questo dominate e guidate. Mentre il significare all’interno dell’aperto già aperto, proprio del segno e in generale del­l’ente intramondano, non porta più in sé alcun segno dell’origine (non è presente in esso la Erde come nascondimento con cui è in lotta l ’apertura), nell’opera d’arte non linguistica la lotta permane, si può dire che accade nuovamente l’evento dell’aprirsi della apertura che è accaduto anzitutto nella poesia. Da questo punto di vista, l’originarietà dell’opera d’arte non linguistica consiste nel custodire l’apertura avve­nuta nella poesia proprio come apertura, cioè ripresentandola nella sua originarietà e non installandosi semplicemente nell’aperto senza più alcun ricordo della lotta da cui esso è sorto.

Quale che sia tuttavia la possibilità di continuare a concepire secondo loriginarietà propria dell’arte le opere delle arti diverse dalla poesia, sta di fatto che lo sviluppo del pensiero heideggeriano ha messo sempre più in primo piano Poriginarietà del linguaggio e della poesia, mentre sulle arti diverse non si è più esplicitamente fermato. Proprio per questo ci è parso utile lasciare per ultimo, nell’analisi del saggio sull’origine dell’ope­ra d’arte, il concetto di Dichtung, perché esso appunto, benché Heideg­ger vi dedichi solo un paio di pagine e non le conclusive, rappresenta la base degli sviluppi ulteriori, quali si trovano documentati anzitutto nella conferenza su Hölderlin und das Wesen der Dichtung.

4. La conferenza su Hölderlin

Per quanto si possa considerare senz’altro contemporanea alla prima stesura, anch’essa nata come conferenza, del saggio sull’origine delPope- ra d’arte, la conferenza su Hölderlin gli è idealmente posteriore. Nella

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sua maggior concisione e nella suggestività che le deriva dai testi hölderliniani che esamina e commenta, tale conferenza non solo ripren­de in maniera meno tecnica i temi dell 'Ursprung, ma ne rappresenta anche un importante sviluppo. Serve infatti a chiarire l'ultimo passag­gio che ci interessa qui mettere in evidenza, quello, per intenderci, che condurrà Heidegger dalla scoperta dell’originarietà dell’opera d’arte alla speculazione ontologico-linguistica delle sue ultime opere. Proprio per questa ragione, però, in quanto cioè essa introduce soltanto a un àmbito di pensieri che si articoleranno e chiariranno in seguito, tale conferenza viene qui fatta oggetto di uno studio solo parziale, solo in quanto serva ad annunciare un passaggio il cui senso tuttavia va oltre i limiti del presente capitolo.

Come si è visto, il saggio sull’Ursprung des Kunstwerkes introduce appena il tema del linguaggio. Tuttavia, tale tema era uno di quelli più evidentemente rimasti aperti e suscettibili di sviluppo in Sein und Zeit, e anzi il limite che Heidegger stesso riconoscerà più tardi a quell’opera deriverebbe proprio da una insufficiente elaborazione in essa del proble­ma del linguaggio (cfr. US 92-93 [87-88]). Quella preminenza del lin­guaggio, e della poesia [Poesie] sulle altre arti, che fa del linguaggio la sede prima e privilegiata dell’accadere della verità e delTessere, premi­nenza che viene solo accennata nelle ultime pagine déTUrsprung, costi­tuisce il tema dominante del saggio su Hölderlin. In tale scritto, quello che YUrsprung diceva in generale dell’opera d’arte viene ristretto e limita­to decisamente al linguaggio. Così, il linguaggio (nel suo essere essenzia­le e originario, come poesia) è quello che istituisce il mondo: « solo dove ce linguaggio c’è mondo » (EH 35 [46]); e poiché la storia è possibile solo nel mondo, cioè come muoversi all’interno dell’apertura, « nel cerchio di decisione ed opera, atto e responsabilità, ma anche di arbitrio e confusione, di deiezione ed erramento » (EH 35 [46]), solo dove c’è linguaggio ce storia. Quel che già in Sein und Zeit era ricono­sciuto come una caratteristica del linguaggio che lo rendeva un problema degno di essere approfondito, e cioè che il linguaggio non ha il modo di essere dell’ente intramondano (cfr. SuZ, § 34), viene precisato qui nel senso che il linguaggio non può assolutamente esser considerato, almeno nella sua essenza originaria, come uno strumento, ma come la possibilità che fonda il mondo e l’uomo in esso. « Il linguaggio non è uno strumen­to a disposizione, ma quell’evento che dispone sulla suprema possibilità dell essere dell’uomo » (EH 35 [46]). Dove la suprema possibilità va intesa come Tessere nel mondo o Tessere nella storia in quanto essere storico, giacché tutte le singole particolari possibilità che costituiscono la varia vita dell’uomo derivano di lì.

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Non solo, nella conferenza su Hölderlin, vengono ristrette al lin­guaggio le caratteristiche di originarietà attribuite dall’Ursprung all’ope­ra d’arte in generale, ma è accentuato anche il carattere di trascendenza che questa originarietà sembra possedere rispetto all’uomo singolo. Si è visto come a proposito di certe pagine di quel saggio si potesse ancora porre il problema se quell’apertura che si dà nell’opera d’arte non andasse intesa come un semplice modo di specificarsi dell’apertura originariamente costitutiva dell’esserci come essere-nel-mondo, in mo­do da ricondurre tutto il discorso a Sein und Zeit. Qui diventa più chiaro, sebbene in un contesto che, per esser commento e illustrazione di poesia, appare meno tecnicamente filosofico, che l’opera d’arte e il linguaggio (la poesia come linguaggio in senso pregnante) hanno una specie di priorità anche sull’esserci, non possono venir considerati semplicemente come modi di manifestarsi di quell’apertura che lo costi­tuisce, ma semmai istituzione di questa apertura stessa e quindi fonda­zione dell’esserci come tale. E il linguaggio, che qui Heidegger accen­tua nella sua natura di Gespräch, dialogo a colloquio (seguendo un verso di Hölderlin) — il che ne sottolinea il carattere di storicità nel senso comune del termine: appartenere a un mondo storico significa anzitutto appartenere a un àmbito linguistico — è il linguaggio che « regge il nostro esserci » (EH 36 [47]). La poesia « è il fondamento che regge la storia » (EH 39 [51]).

Vale poi, per l’istituzione del linguaggio che fonda la storia, quel che YUrsprung dice sulla non-arbitrarietà della Stiftung in cui consiste l’opera d’arte. Giacché se è comprensibile che il linguaggio, in quanto già fonda­to e istituito, è il mondo stesso a cui apparteniamo e quindi esclude o limita l’arbitrio, ciò di cui è questione qui non è l’appartenenza a un mondo già aperto, ma la fondazione di un mondo nuovo, che appunto avviene nella istituzione di un nuovo linguaggio, quello dell’opera d’arte come Stiftung. Questa istituzione, per il saggio sull’origine dell’opera d’arte, non è mai arbitraria perché, in quanto fondazione, è anche ricono­scimento di un fondamento che la fonda, il quale tuttavia « accade » come fondamento solo nella fondazione stessa. Qui lo stesso concetto è espresso in maniera diversa e conforme al fatto che ciò di cui si parla è il linguaggio. Il poeta, dice Heidegger, non fonda arbitrariamente, perché anzi la sua poesia, in quanto nomina gli dèi, è già una risposta all’appello che essi ci rivolgono. « La parola che nomina gli dèi è sempre risposta al [loro] appello. Tale risposta si origina sempre dalla assunzione della responsabilità di un destino » (EH 37 [48-49]).

Gli dèi, che in altri scritti heideggeriani paiono invece collocarsi interamente nell’aperto, cioè appartenere al mondo come evento dell’es­

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sere (cfr. VA 163-81 [109-122]), hanno qui un senso ancora generi­co, servono quasi come una metafora per indicare l’appartenenza dell’uomo all’essere; il che è ribadito dal concetto di destino. Più che provarci a dare una interpretazione puntuale, vogliamo sottolineare, di questi concetti, il senso complessivo in rapporto al tono generale del saggio su Hölderlin. Anche sotto questo aspetto, tale scritto rivela la sua novità rispetto alYUrsprung. Mentre quel saggio è attento soprattutto al carattere che l’opera ha di fondazione della storia, come accadere dell’apertura di un mondo, Hölderlin und das Wesen der Dichtung tende a mettere in evidenza come anche questo atto si radichi a sua volta in qualcosa che lo trascende e lo fonda. Non a caso, prima di sviluppare il concetto di poesia, come « worthafte Stiftung des Seins », il saggio afferma, commentando un’altra pagina hölderliniana, che il linguaggio è stato dato all’uomo « perché egli attesti... la sua appartenenza alla terra » (EH 34 [44]). Tale apparte­nenza, l’uomo la attesta « attraverso la creazione e il sorgere di un mondo come attraverso la sua distruzione e il suo tramonto ». L ’atte­stazione avviene come decisione libera, che « coglie il necessario e si impegna nei confronti di un appello supremo » (EH 34 [45]).

Queste proposizioni, che stanno quasi all’inizio del saggio, gli danno il tono fondamentale e vanno interpretate, come pure quelle sugli dèi e il destino, come il faticoso tentativo di venire in chiaro, anche attraver­so un linguaggio fatto di immagini, del nesso che lega la decisione dell’uomo istituente un mondo storico all’essere che, trascendendo gli enti, trascende l’uomo stesso e le sue azioni.

5. La riflessione sull’artee il concetto di eventualità dell'essere

Sono queste, nelle linee generali, le tappe essenziali del cammino attraverso cui Heidegger perviene a un primo chiarimento e a una prima qualificazione di quel concetto di eventualità dell’essere che Sein und Zeit presupponeva come progetto orientante l’analisi dell’esistenza e che lasciava sullo sfondo. L ’importanza di questi scritti del 1935-36 consiste appunto nel fatto che essi sono il primo vero sviluppo del discorso iniziato in Sein und Zeit\ come tali, essi da un lato assicurano la saldatura tra Sein und Zeit e le opere dell’ultimo periodo, dall’altro indicano già le principali direzioni in cui queste si muoveranno. Tutto comincia dalla revisione dei concetti di cosa e di mondo.

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Si è visto come l’unico modo di essere delle cose pensabile in base a Sein und Zeit fosse lutilizzabilità (o la significatività, come utilizzabili­tà evidenziata) : le cose, per l’analitica esistenziale, sono solo strumenti e, quindi, segni18. Abbiamo anche detto che, qualora si trovasse una cosa che non può ridursi a questo carattere, verrebbe messa in crisi la concezione del mondo di Sein und Zeit e si aprirebbe la via a sviluppi ulteriori. L ’opera d’arte, che non rimanda come segno ad un mondo già aperto, ma che fonda e apre un mondo nuovo, non costringe ad abban­donare ciò che era detto in Sein und Zeit, ma semplicemente lo integra andando più a fondo. All’interno del mondo, aperto e fondato dall’ope­ra, le cose continuano ad essere quello che erano per l’analitica esisten­ziale, strumenti e segni. Ma il mondo non è più un carattere dell’esser­ci, o soltanto questo; lo è solo in quanto Tesserci è sempre in un mondo; ma l’origine di questo mondo non è Tesserci; la luce entro cui gli essenti si illuminano non è proiettata dalTesserci. Piuttosto, esserci ed enti intramondani sono entro un’apertura che li trascende tutti, anche se Tesserci conserva una posizione preminente perché solo per lui la luce dell’essere è tale. Proprio perché il mondo non è più pensato anzitutto e soltanto come un esistenziale è possibile parlare di una sua origine, coglierlo come fatto « storico »; ciò appare, come si è visto, anche da un rilievo terminologico: mentre in Sein und Zeit il mondo ha sempre, o quasi sempre, l’articolo determinativo, neWUrsprung è preceduto invece dall’indeterminativo. Non è un carattere appartenen­te astoricamente all’essenza dell’esserci, ma l’accadere via via diverso di aperture in cui Tesserci e gli enti sono gettati.

Il primo importante risultato di questo discorso è che diviene possi­bile parlare di una storia dell’essere, che rimaneva invece un concetto problematico per Sein und Zeit. L ’apertura entro cui gli essenti e

18 Secondo P. Fürstenau, Heidegger. Das Gefüge seines Denkens, cit., il modo di essere delle cose delineato dall’analitica esistenziale concernerebbe solo la sfera dell’esisten­za inautentica (una tesi che si trova accennata anche da R.G. O lson, An Introduction to ExistentialismNew York 1962, 137, dove la strumentalità come carattere delle cose viene fatta rientrare nel mondo del man, cioè dell’esistenza inautentica). Ora, è vero che Heideg­ger fonda l’analisi della mondità sulla quotidianità, ma la quotidianità è studiata proprio in quanto capace, di rivelare l’esistenza nelle sue strutture ontologiche più fondamentali. Il Fürstenau tende a ricostruire l’unità del pensiero heideggeriano proprio in base alle catego­rie di autenticità e inautenticità, di cui Heidegger non fa più uso dopo Sein und Zeit; solo riconducendo il concetto di cosa, quale si è venuto chiarendo soprattutto negli scritti più recenti (per esempio nel saggio Das Ding, in VA 163-81 [109-124], alla nozione di esistenza autentica si può evitare, secondo il Fürstenau, di cadere in una sorta di monadologismo che equivarrebbe a pensare di nuovo l’essere in base agli essenti: si veda per tutto ciò Vop. cit., 68 ss.

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Tesserci stesso vengono all’essere non è vista più come un esistenziale, ma può esser colta nelTatto di accadere e di aprire un mondo storico: un tale accadere è l’opera d’arte, che, come primo ente in cui una nuova verità storica si istituisce e prende consistenza, rappresenta un evento dell’essere stesso. Non è un mutamento che concerna qualche aspetto dell’aperto come tale, ma l’aprirsi di una apertura, un « muta­mento » nell’essere stesso, non solo nelTente. L ’essere, così, si rivela come accadere di aperture storiche sull’ente, come istituzione di epo­che storiche: questo è il senso nuovo che, in base alla riflessione sull’arte, acquista il concetto di eventualità. Tutto un importantissimo filone della speculazione heideggeriana, che si apre con la Einführung in die Metaphysik, è radicato in questa prima chiarificazione del concet­to di evento. Se Tessere è istituzione di aperture storiche, di epoche, la storia di queste epoche, l’indagine, in concreto, sulla storia della filoso­fia e sui mondi che corrispondono (come nati e determinati da esse) alle singole filosofie, non è più un aspetto laterale o preliminare del­l’ontologia, come ancora pareva dovesse essere per Sein und Zeit (che parlava della necessità di una « distruzione della storia dell’ontolo­gia »), ma diventa un momento costitutivo, o il momento costitutivo, dell’ontologia stessa.

Che l’ontologia sia, anche o principalmente, storia dell’essere non significa un ritorno di Heidegger allo storicismo : non si dimentichi che l’opera d’arte è un evento delTessere proprio in quanto non può mai venir dedotta da ciò che già è, rappresenta una novità assoluta e irriducibile, anche se non è creazione priva di fondamento e affidata all’arbitrio. La non arbitrarietà dell’opera, anzi, è affermata risoluta- mente da Heidegger proprio per garantirne l’assoluta novità, sebbene ciò possa apparire paradossale. Ammettere che l’opera sia creazione arbitraria dell’artista significherebbe far dipendere sempre l’accadere delTessere da un essente particolare. Ma che il fondamento accada come tale solo nell’opera e non sia già dato fuori e prima di essa, mette in luce l’impossibilità di ridurre il concetto di eventualità delTessere a un concetto storicistico. Ogni evento davvero fondante, in quanto indeducibile dal mondo come apertura dell’aperto, esige un rapporto con Tessere stesso, essere che non è né un ente né la somma degli enti, e quindi non è neanche « la storia ».

Se questa precisazione del concetto di eventualità delTessere, che in Sein und Zeit era contenuto solo implicitamente, apre la via alla specu­lazione heideggeriana sulla storia delTessere, sul rapporto essere-pensie- ro e sulle vicende della metafisica occidentale, tutto un altro filone di

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sviluppo del pensiero di Heidegger viene fondato e reso possibile dalla connessione tra evento dellessere e linguaggio a cui perviene appunto l’indagine sull’opera d’arte come poesia. Non si tratta, a rigore, di un altro filone, bensì di una ulteriore qualificazione del concetto di even­to. L ’apertura dei mondi storici accade nell’opera d’arte e più precisa- mente nella poesia in quanto linguaggio. La stessa riflessione sulla storia dell’essere, nel suo fondo, è riflessione sulle aperture « poeti­che », o più in generale linguistiche, in cui essa consiste. L ’indagine sull’arte, in cui matura e si esplicita per la prima volta l’eventualità dell’essere che era rimasta solo implicita in Sein und Zeit, conduce dunque Heidegger alle soglie di quella riflessione sul linguaggio che costituisce il contenuto fondamentale delle sue opere più recenti.

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4. Essere e linguaggio

1. La « ripetizione »ontologica dell’analitica esistenziale

I risultati salienti dello sviluppo del pensiero heideggeriano seguito a Sein und Zeit si annunciano per la prima volta in maniera organica, per quanto un tale vocabolo si può applicare alla meditazione di Hei­degger, nel Brief über den Humanismus, che rappresenta una tappa decisiva della sua speculazione, nonostante il suo carattere « occasiona­le » (è la risposta a una specie di « inchiesta » sul concetto di umani­smo) e la sua piccola mole. Nello scritto sulTumanismo si raccolgono gli esiti della riflessione condotta durante il lungo periodo di silenzio seguito al 1930, rotto soltanto dagli scritti su Hölderlin, e si annuncia­no gli sviluppi ulteriori, culminati poi in Unterwegs zur Sprache. Quel­lo che colpisce di più, ad una prima lettura, nel Brief è quel che si potrebbe chiamare l’atteggiamento risolutamente antiumanistico di Hei­degger, intendendo con questo lo spostamento dell’accento dall’uomo all’essere. Non siamo, come vorrebbe Sartre, su un piano in cui c’è soltanto l’uomo; viceversa, c’è principalmente l’essere, la storia è storia dell’essere, così il pensiero pensa l’essere solo in quanto, nel senso soggettivo del genitivo, gli appartiene (cfr. HB 7 [270]). Per questa « nuova » impostazione dei rapporti tra l’uomo e l’essere Heidegger stesso usa il nome di Kehre, di svolta; anzi, la svolta doveva avvenire nella terza sezione non pubblicata di Sein und Zeit, dove appunto « kehrt sich das Ganze um », tutto si rovescia {HB 17 [281]). La terza sezione di Sein und Zeit non fu mai pubblicata perché urtò contro la difficoltà di dover usare il linguaggio della metafisica, che non si prestava, non poteva « esprimere » il nuovo punto di vista che ap­punto voleva uscire dalla prospettiva metafisica. Si dovrebbe anzi dire che forse fu proprio quella esperienza delPimpossibilità di parlare ancora il linguaggio tradizionale della filosofia occidentale a far venire in primo piano nel pensiero di Heidegger la questione del linguaggio,

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che ancora in Sein und Zeit rimane nello sfondo: uno dei modi in cui il linguaggio si fa presente come tale è proprio « la mancanza della parola adatta », perché allora viene in luce il suo non essere semplice- mente, come noi crediamo che sia, strumento indifferentemente adope­rabile per l’espressione; la mancanza della parola adatta rende impossi­bile pensare la cosa stessa, e ciò apre il pensiero alla più profonda natura del linguaggio (cfr. US 161 [128-129]). Di fatto, l’impossibilità di condurre a termine e di pubblicare la terza sezione di Sein und Zeit ha segnato un mutamento profondo nello stile stesso del pensiero di Heidegger: non più grandi opere organiche, ma per lo più brevi saggi, conferenze che si presentano sempre come tentativi di pensare un determinato tema, mai come trattazioni con una struttura « scientifi­ca »; soprattutto, commenti di poesie.

Tutto questo, almeno in sede di rilievo biografico, è sufficiente a mostrare quanto profonda sia stata l’esperienza del « fallimento » di Sein und Zeit e quanto abbia segnato l’ulteriore meditazione heidegge­riana. L ’indicazione fornita da Heidegger secondo cui la Kehre doveva aver luogo nella terza sezione di Sein und Zeit, però, contribuisce a mettere in luce il carattere che il rovesciamento o svolta era destinata ad avere, contro la tendenza a considerarla in senso troppo radicale, come puro e semplice cambiamento di rotta. Una tale indicazione, infatti, dà in maniera inequivocabile il criterio per « ricostruire » il senso del termine um-kehren e per intendere quindi il contenuto della svolta. La Kehre doveva avvenire nella terza sezione di Sein und Zeit, almeno in una certa misura, ad analogia di quanto era accaduto nella seconda sezione rispetto alla prima. La seconda sezione di Sein und Zeit, come si sa, ripete l’analitica esistenziale, ma da un punto di vista più originario: questo modo di procedere heideggeriano, di cui non si sottolineerà mai abbastanza la sostanziale connessione con il contenuto del pensiero, è tipico della sua interpretazione della fenomenologia, e ha la sua formulazione teorica nel concetto di Er-Örterung quale viene sviluppato nel saggio su una poesia di Trakl (US 37 [45]). Si tratta di procedere all’analisi di un « fenomeno » andando sempre più verso l’originarietà: ogni passo ripete le analisi precedenti ma dal punto di vista più originario che è stato raggiunto. In questo senso, ogni passo « kehrt das Ganze um », rovescia l’intera struttura concettuale prece­dentemente costruita, mostrandone l’insufficienza: non si tratta solo di fare altri passi nella stessa direzione, come sarebbe il caso di chi scopre la causa di un effetto studiato prima; il cammino non è sulla stessa linea, ma su un altro piano. L ’analisi precedente viene rovesciata in quanto se ne vede l’inadeguatezza, e quello che per essa appariva il

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« senso » del fenomeno viene abbandonato come un punto di vista insufficiente. Cosi in Sein und Zeit l’esistenza è dapprima caratterizzata dal progetto, ma poi, alla radice del progetto, viene trovato l’essere per la morte. La verità è l’apertura aperta dall’esserci, per la prima sezione; ma tale apertura viene raggiunta nella sua originarietà solo come deci­sione anticipatrice che assume il proprio essere-per-la-morte. Proprio attraverso l’indagine sul fenomeno della morte e sul suo nesso con il carattere ontologico delTesserci viene in luce quella che si può chiama­re (ma in Sein und Zeit non si usa ancora tale terminologia, e lo stesso concetto resta piuttosto nello sfondo come il « progetto » dell’essere che regge l’opera senza mai esser tematizzato come tale) l’eventualità dell’essere. È proprio in base ad essa che nella terza sezione di Sein und Zeit tutto doveva « sich umkehren », come di fatto è avvenuto nelle opere successive e come documenta principalmente, in maniera esplicita, il Brief: la Kehre doveva essere cioè la ripetizione dell’analiti­ca esistenziale dal punto di vista della eventualità dell’essere, o, più semplicemente, la ripetizione ontologica di tale analitica.

I primi passi sulla via di questa ripetizione sono i due saggi sulTori- gine deH’opera d’arte e su Hölderlin e l’essenza della poesia che, anche cronologicamente, occupano un posto centralissimo nella speculazione heideggeriana: in essi si attua per la prima volta la Kehre, nel senso che sono i primi tentativi che conosciamo fatti da Heidegger per ripen­sare l’analitica esistenziale dal punto di vista dell’eventualità dell’esse­re. E infatti nel saggio sull’origine dell’opera d’arte che il mondo di Sein und Zeit perde l’articolo determinativo e diventa un mondo; e che l’apertura della verità viene riconosciuta come evento storico nell’opera d’arte. Mondo e verità vengono cioè eventualizzati, che equivale a: pensati in base al concetto dell’essere che rimaneva in Sein und Zeit solo sullo sfondo. Un tale processo di « eventualizzazione degli esisten­ziali » si compie, almeno provvisoriamente, nel Brief über den Huma­nismus: è questa infatti la sostanza dello spostamento di accento dal­l’uomo all’essere che a prima vista pare un tanto scandaloso rovescia­mento o almeno un ingiustificato mutamento di prospettiva. Non sì fa abbastanza attenzione a come il Brief colleghi umanismo e metafisica: l’umanismo è un fatto della metafisica, e anche viceversa, proprio in quanto pretende di definire Yessenza dell’uomo, in quanto pensa il Wesen sostantivamente, come la struttura permanente di un certo ente, quindi sul modello dell’essere come presenza che caratterizza appunto il pensiero metafisico. Nella prospettiva del Brief anche Sein und Zeit, almeno se ci si ferma alla parte pubblicata, è ancora metafisica; o almeno resta difficile non vederlo come tale; in esso gli esistenziali

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sono dei caratteri dell’essenza dell’uomo intesa in certo modo ancora sostantivamente. Questo modo di vedere è possibile proprio perché essi non sono ancora visti nella loro originarietà estrema, come invece accade nel Brief. UExistenz di cui Sein und Zeit parlava come della « sostanza » dell’uomo subisce anche una trasformazione ortografica e viene pensata come Ek-sistenz: che essa sia la « sostanza » dell’uomo « non significa altro che: il modo in cui l’uomo, nella sua essenza più propria, è presente \anwest\ all’essere è lo stare estatico dentro la verità dell’essere » (HB 19 [283]) 1.

L ’esistenza non è vista più né come il trascendere del progetto rispetto alle cose del mondo (SuZ: I sezione), né come l’essere aperto in quanto deciso per la propria morte (II sezione), ma come Testatico stare dentro la verità (cioè l’apertura aperta) dell’essere. Ciò che diven­ta decisivo per l’uomo, ora, è questa apertura dell’essere, apertura che, conformemente al concetto di verità elaborato in Sein und Zeit e alla eventualità dell’essere, che là già era sottintesa e che viene in luce nell’Ursprung des Kunstwerkes, è un evento. I caratteri che l’analitica esistenziale ha scopèrto come propri dell’uomo non sono più proprietà di un’essenza; o almeno, sono tali solo in quanto eventualizzati in una determinata e « storica » apertura dell’essere. Gli esistenziali vengono riportati all’essere come evento. Così il Verfallen, la deiezione, che in Sein und Zeit caratterizza Tesserci come essere che si interpreta già sempre a partire dalle cose di cui si prende cura, cioè in modo inauten­tico, « non indica una sorta di peccato originale inteso in modo filoso­fico, cioè secolarizzato, ma denomina un essenziale rapporto dell’uomo con Tessere all’interno del rapporto dell’essere coll’essenza [Wesen] dell’uomo » (HB 21 [285-286].

Autenticità e inautenticità cessano anch’essi di essere anzitutto delle determinazioni antropologiche e diventano modalità del rapporto « estatico » dell’uomo con la verità dell’essere (cfr. HB 21 [285]). Il mondo, che in Sein und Zeit è un esistenziale, cioè una delle strutture dell’esistenza 2, viene pensato come la stessa apertura dell’essere: l’uo­mo è sempre essere nel mondo perché è ex-sistente, cioè estatico star dentro la verità dell’essere, che si apre appunto come mondo (HB 35

1 Noto che il significato di innestehen usualmente riportato dai dizionari e « stare in bilico » (v. per esempio il Grimm e Rigutini-Bulle); preferisco la traduzione « star denno », fedele all’etimo della parola e che rende evidente la contrapposizione con il termine « estati­co », a cui mi pare Heidegger pensi in questo testo. Non è da escludere che, per il significa­to della proposizione, vada tenuta presente anche la risonanza del senso letterale del termine.

- 2 Per il mondo come esistenziale cfr. W . B iem el, Le concept de monde chez Heidegger, cit., e A. D e W a e lh e n s , La philosophie de Martin Heidegger; cit., 49.

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[301-302]. Tutta l’esistenza, insomma, diviene un evento eventualizza- to dall’essere, cioè un fatto della sua storia.

Questa ripetizione dell’analitica esistenziale dal punto di vista dell’es­sere come evento è appena delineata nelle sue linee generali nel Brief che proprio per questo resta uno scritto programmatico, nel senso che traccia una strada che Heidegger ha percorso in tutta la fase matura della sua filosofia. Non deve sembrare che una tale considerazione della più recente speculazione di Heidegger come una ripetizione onto­logica delPanalitica esistenziale la sminuisca e ne limiti la portata. Si ritiene infatti, in genere, che l’analitica esistenziale debba avere un valore solo propedeutico, sicché il rapporto fra Sein und Zeit e le opere posteriori dovrebbe essere pensato piuttosto come quello fra l’introdu­zione all’ontologia e Politologia vera e propria. Questo è anche vero, ma resta una considerazione superficiale: il rapporto tra l’uomo e l’essere, come già si delinea in Sein und Zeit e come torna continuamen­te in primo piano nelle opere successive, non è paragonabile a nessun altro; non si può parlare prima dell’uno e poi dell’altro o considerarli separatamente; è vero che anche per lo Heidegger degli scritti più recenti, anzi soprattutto per questo, l’uomo resta una via all’essere; ma una via che non può essere lasciata mai dietro le spalle, e proprio qui si radica la particolare struttura dell’ermeneutica heideggeriana che tanto insiste, come vedremo, sui concetti di Weg, Um-weg, Unterwegs. A ben vedere, anzi, dal punto di vista del progetto dell’essere che regge Sein und Zeit e che si fonda tutto sulla differenza ontologica tra essere ed essente, quindi sull’impossibilità che si dia un incontro con l’essere come tale, inteso come qualcosa dì incontrabile (cioè come un ente), Punico contenuto dell’ontologia non può essere altro che la ripetizione delPanalitica esistenziale dal punto di vista dell’essere: cioè, posto che le cose vengono all’essere solo nel progetto che l’esserci è, l’essere si può incontrare solo in questo progetto, cioè nell’esistenza e nelle sue strutture, guardate da un punto di vista ontologico. Che cosa sia questo « punto di vista ontologico » è esemplificato, anche se non completamente e sistematicamente svolto, dal Brief: il progetto dell’es­sere che era venuto in luce come sottinteso da tutto Sein und Zeit e che si era qualificato e precisato negli scritti sull’opera d’arte e sulla poesia di Hölderlin è quello dell’essere come evento, come illuminarsi di ambiti storici via via particolari. L ’esistenza e i suoi « caratteri » vengono ripensati in base a tale « progetto ».

In che senso, però, gli scritti tardi di Heidegger, cioè soprattutto Ì saggi contenuti in Vorträge und Aufsätze e in Unterwegs zur Sprache, e specialmente questi ultimi, tutti incentrati sul problema del linguag­

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gio, possono essere considerati una ripetizione ontologica dell’analitica esistenziale? Se è relativamente facile ricondurre entro il quadro del­l'analitica esistenziale così considerata gli studi sulla storia della metafi­sica, in quanto la Seinsvergessenheit è proprio l’inautenticità e la deie­zione considerata dal punto di vista dell’evento dell’essere, qualificata storicamente, meno facile sembra una tale operazione quando si tratti degli scritti sul linguaggio: il linguaggio di cui parla Heidegger negli ultimi scritti non ha più nulla, o quasi nulla, da fare, almeno a una considerazione immediata, con il linguaggio come era trattato, molto succintamente, in Sein und Zeit, Tuttavia proprio il peso che Heideg­ger attribuisce alla questione del linguaggio nella Kehre del suo pensie­ro, o meglio, il venire in primo piano di questo problema proprio quando tale Kehre doveva essere attuata, suggerisce che la questione del linguaggio è tutt’altro che periferica o difficilmente collegabile con il centro della speculazione heideggeriana 3. Non solo: esposta, almeno nelle sue grandi linee, come si è fatto sopra, la ripetizione ontologica dell’analitica esistenziale non pare presentare tutta quella difficoltà a cui allude Heidegger quando parla dell’impossibilità di condurre a termine Sein und Zeit. Tale ripetizione, vista come l’abbiamo vista ora, si riassume tutta nel considerare i caratteri dell’esistenza dell’uomo come eventi dell’essere: questo non pone particolari problemi linguisti­ci, almeno apparentemente. Se non che, pensata così, la ripetizione ontologica dell’analitica finisce per ridiventare un discorso metafisico: l’esistenza dell’uomo è un evento dell’essere nel senso che ne è una manifestazione, o una parte, o un momento. L ’uomo è com’è perché appartiene all’essere il quale ha una certa struttura. In questo modo, l’evento dell’essere viene pensato, per usare una distinzione che Hei­degger ama applicare spesso, nel senso soggettivo del genitivo: l’even­to appartiene all’essere, è una sua manifestazione o proprietà; il che suppone sempre che l’essere sia dato, sia presente sul modello dell’en­te: come pensa appunto la metafisica. Ma l’eventualità dell’essere qua­le viene in luce in Sein und Zeit e negli scritti sull’opera d’arte e su

3 La questione del linguaggio come sostanza della Kehre non è colta da M. M ü l l e r , Existenzphilosophie im geistigen Leben der Gegenwart, cit., 54, né dal W ip l in g e r , Wahrheit und Geschichtlichkeit, cit., per cui la Kehre resta sostanzialmente legata al problema del rapporto essere-nulla, e anche la questione del linguaggio va riportata lì (cfr. pp. 323-24). La speculazione heideggeriana sul linguaggio, del resto, rimane dichiaratamente fuori dalla prospettiva del lavoro del Wiplinger (pp. 363-64). Non pare sufficientemente sviluppata la questione del linguaggio neanche dal M akx , Heidegger und dìe Tradition, cit., 203-205. Il più completo, anche sotto questo punto di vista, è il lavoro di O. PÖGGELER, Der Denkweg Martin Heideggers, Pfullingen 1963, che però non rileva il nesso più profondo tra la Kehre e il problema del linguaggio in quanto tale.

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Hölderlin impone di pensare il concetto di evento dell’essere altrettan­to nel senso oggettivo del genitivo quanto in quello soggettivo: evento dell’essere significa che Tessere appartiene all’evento, che è eventualiz- zato come essere nell’evento, quindi che non è dato prima o fuori del suo evento, dell’evento che lo dà. È possibile ripetere ontologicamen­te Tanalitica esistenziale, cioè ripensare la struttura dell’esistenza, senza cadere in questa metafisicizzazione del linguaggio? Si noti che, pensata in base all’evento dell’essere nei due sensi soggettivo e oggettivo, la ripetizione dell’analitica si svela di per se stessa come ontologia, e come Tunica ontologia possibile. Infatti: l’esistenza è l’evento dell’esse­re, significa sia che l’esistenza delTuomo non è un fatto che riguarda anzitutto lui, ma anzitutto Tessere; sia che l’esistenza è l’evento che eventualizza Tessere, nel senso oggettivo del genitivo, ciò in cui soltan­to Tessere è Tessere. Con ciò si chiarisce anche che non si può dire che l’esistenza è un evento dell’essere : Heidegger esclude esplicitamente, anche se non esattamente nel senso che ci interessa qui, che il termine evento (Ereignis) possa essere usato al plurale (cfr. ID 29 [12-13]). Per noi qui, questo significa che dire un evento suppone ancora sem­pre la considerazione metafisica dell’essere come essente, in cui un evento possa essere messo accanto ad altri. L ’essere non è qualcosa al di fuori del suo evento, perciò l’evento deve essere sempre pensato al singolare.

Anche un elementare tentativo, come questo, di parlare in maniera adeguata dell’evento dell’essere mostra che la difficoltà di fronte a cui si è fermato Sein und Zeit non è così facilmente superabile come parrebbe a prima vista. Tale difficoltà chiama in causa il linguaggio, e ciò in due sensi connessi ma ben distinti, uno dei quali, come spesso accade, sta alla radice dell’altro. Il linguaggio è chiamato in causa anzitutto perché « mancano le parole adatte », il pensiero non può esprimersi ma anzitutto non può formularsi. Questa mancanza delle parole adatte chiama però in causa non un determinato linguaggio, ma il linguaggio come tale: è questo il passaggio decisivo per il senso della Kehre, in cui si concentrano sia il come della difficoltà sia il contenuto di essa, per così dire: il linguaggio, da problema della Kehre nel senso che la rende difficile e la ostacola per la sua insufficienza, diventa (o si rivela) il problema della Kehre nel senso che proprio in una rinnovata meditazione su di esso la Kehre consiste e si attua. Il venire a mancare delle parole adatte viene sperimentato infatti in connessione con l’espe­rienza che per Sein und Zeit è fondamentale: quella dell’oblio dell’esse­re. Che manchino le parole adatte per un pensiero che cerca di pensare la Seinsvergessenheit e quindi di uscirne non è una semplice deficienza

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del vocabolario: definendo così il fatto lo si etichetta ma non lo si spiega. E perché, mancandogli le parole, il pensiero non se le foggia, non costruisce una terminologia adatta? Ma per costruirsi una termino­logia adatta dovrebbe anzitutto essere in grado di formularsi chiara­mente, e ciò non riesce a fare proprio per mancanza delle parole. Siamo in un circolo, in un « gioco di parole »? La deficienza del vocabolario è connessa essa stessa con la Seinsvergessenheit. Proprio sperimentando la mancanza delle parole adatte ad « esprimere » un pensiero che cerca di pensare la dimenticanza dell’essere, l’uomo si accorge che il linguaggio non è uno strumento di cui può servirsi a suo piacimento. E la dimenticanza dell’essere consiste in ultima analisi proprio in questa mancanza delle parole adatte che non si supera con delle escogitazioni terminologiche. La mancanza delle parole adatte è essa stessa evento dell’essere, l’evento della Seinsvergessenheit. Il rap­porto con il linguaggio diventa un rapporto privilegiato, in esso ci si può aprire il rapporto con l’essere stesso. L ’aprirsi delle epoche stori­che, dei mondi, cioè l’evenire dell’essere, viene in luce come un fatto linguistico: l’essere apre dei mondi proprio in quanto eventualizza dei vocabolari, potremmo anche dire delle « culture », in quanto istituisce dei linguaggi. Queste conclusioni, che si riassumono nello sperimenta­re la deficienza del linguaggio alla luce della dimenticanza dell’essere, maturano attraverso un lungo itinerario di pensiero, e principalmente nella meditazione sull’origine dell’opera d’arte, oltre che sulla poesia di Hölderlin; si direbbe che solo attraverso questa via si fa chiaro ad Heidegger il senso della difficoltà di fronte a cui si è arrestata la terza sezione di Sein und Zeit: questo significato della Kehre viene infatti enimciato per la prima volta nel Brief über den Humanismus che è del 1946.

La meditazione sul linguaggio non consiste dunque nella ricerca di una terminologia adatta ad esprimere l’ambiguità del concetto di even­to; è, anzi, una rimeditazione di questo concetto stesso. E nel linguag­gio infatti che l’evento dell’essere presenta allo stato puro, si potrebbe dire, la sua ambiguità: il linguaggio è opera dell’uomo, giacché è l’uomo che parla, lo usa, lo modifica. D’altra parte, come ha sperimen­tato il tentativo di pensare la dimenticanza dell’essere, cioè di uscire dalla metafisica, il linguaggio non è totalmente in potere dell’uomo, anzi, per un certo verso, è l’uomo che è in potere del linguaggio in quanto può pensare solo ciò che nell’ambito di un certo linguaggio rientra. Non solo: la funzione di « aprente » che spetta all’uomo come esserci si esercita proprio anzitutto nel linguaggio, ed è il linguaggio che caratterizza l’uomo nei confronti degli animali. L ’uomo esiste in

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quanto parla; e l’esistenza, d’altra parte, indica proprio il suo particola­rissimo modo di essere in rapporto con Tessere, come punto in cui Tessere si illumina e illumina gli essenti. Tutto ciò indica un rapporto, ancora pensato solo approssimativamente, tra il dire e Tessere 4. Tra eventualità dell’essere e linguaggio c’è una specie di circolo, nel modo come essi si sono sviluppati nel pensiero di Heidegger. Da un lato, infatti, il problema del linguaggio viene in luce proprio quando Heideg­ger si sforza di ripensare Tanalitica esistenziale dal punto di vista dell’evento dell’essere (III sezione di Sein und Zeit)', dall’altro, alla fondamentalità esplicita del problema del linguaggio Heidegger arriva proprio attraverso il tentativo di chiarire in qualche modo il concetto di eventualità dell’essere nel saggio sull’origine dell’opera d’arte: è in esso che l’opera appare come ins-Werk-setzen della verità, e questo anzitutto vale della poesia, in modo privilegiato e fondamentale rispet­to alle altre arti, proprio perché è un fatto linguistico. NçNins-Werk-set- zen della verità, secondo che si consideri la verità come oggetto o come soggetto, si presenta l’ambiguità del rapporto tra essere e uomo. E questa ambiguità si annuncia proprio nella poesia come fatto linguisti­co. « Nella espressione “messa in opera della verità”, in cui resta indeterminato ma determinabile chi o che cosa e in che modo “metta”, si nasconde il rapporto [Bezug] tra Tessere e l’essenza dell’uomo, il quale rapporto, anche in questa enunciazione, è pensato in modo inade­guato... » 5,

Come appare chiaro dall’esame del saggio su Hölderlin e Tessenza della poesia, quello che YVrsprung des Kunstwerkes dice ancora dell’ar­te in genere (ma già riconoscendo una sorta di preminenza all’arte linguistica in senso stretto, alla poesia) viene ristretto in modo inequi­vocabile alla poesia e al linguaggio. Nell’opera d’arte e nel linguaggio, che da un lato appaiono opera dell’uomo e dall’altro si presentano invece come eventi entro cui l’uomo stesso è « dato » a se stesso in una determinata costellazione storica, si nasconde l’ambiguità del con­cetto di evento. Proprio il carattere originario che il linguaggio ha rispetto all’esistenza in generale, il suo carattere di apertura colta nel momento di aprirsi, fa sì che appunto lì si celi, nel senso che è più presente, il mistero del rapporto tra l’uomo e Tessere. Da questo punto di vista, ciò che appariva nel Brief come atteggiamento antiumanistico acquista un senso diverso. Antiumanistico è il pensiero del Brief solo se visto ancora nella prospettiva della metafisica: l’uomo è un momen-

■* Cfr. Der Ursprung de.r Kunstwerkes, ed. Redam, cit. 100 [69].5 Ibid.

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to, una manifestazione dell’essere nel senso soggettivo del termine; la storia è storia dell’essere nel senso che segue certe precise regole dettate dalla struttura dell’essere stesso, senza che noi possiamo mai farci nulla, assumere una iniziativa. Il rapporto fra l’uomo e Tessere colto nel linguaggio, invece, mantiene in primo piano tutta l’ambiguità dell’evento, senza irrigidimenti metafisici in un senso o nell’altro. Il problema dell’essere non viene così semplicemente spostato e ripropo­sto in altro modo, ma colto nell’unica dimensione, si potrebbe dire, in cui è possibile proporlo senza ricadere nella metafisica. Problema del linguaggio e problema sul linguaggio (uscita dal linguaggio della metafi­sica proprio attraverso una rimeditazione sul linguaggio stesso nella sua essenza) divengono così la sostanza stessa della Kehre. L ’unico modo di ripetere ontologicamente l’analitica esistenziale è allora la meditazione sul linguaggio, che si rivela così anche come l’unica possi­bile forma dell ontologia.

2. Evento e linguaggio

Il pericolo a cui si va incontro, quando si cerca di illustrare organica- mente il pensiero di Heidegger, è quello di volerlo chiudere in una struttura linguistica inadeguata che lo falsa. Il pensiero heideggeriano non si lascia enunciare in « proposizioni », nel senso usuale della parola, perché la proposizione ha sempre una struttura inevitabilmente « metafisica » (cfr. SvG 93), che contrasta col contenuto di tale pensie­ro. Dal fatto, per esempio, che l’ontologia, come ripetizione ontologica dell’analitica esistenziale, non possa essere concepita se non come inda­gine e meditazione sul linguaggio, si potrebbe essere tentati di ricavare la « logica » conclusione che Tessere sia il linguaggio. Heidegger non ha mai sostenuto niente del genere. Lo stesso, in via preliminare, va detto di un’altra proposizione che pure potrebbe esprimere, in via molto approssimativa, il succo dell’ontologia heideggeriana, e che anche nel corso di questa indagine è stata o sarà usata per cercar di rendere la dottrina heideggeriana dell’essere, e cioè: Tessere è evento. Ora

il pensiero deve anzitutto disabituarsi a cadere nell’opinione che qui (cioè nel concetto di evento) « Tessere » sia pensato come evento. L’evento è essenzialmente altro, in quanto è più ricco di ogni possibile determinazio­ne metafisica dell’essere. All’opposto, è Tessere che si lascia pensare, rispetto all’origine del suo essenzializzarsi \_Wesensherkunft\ in base al­l’evento (US 260, nota [205; nota]).

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L ’essere non è linguaggio, come non è evento, perché né l’eventuali­tà né la linguisticità possono venirgli attribuite come determinazioni metafisiche, come proprietà che lo qualifichino. Non è tanto che il « contenuto » di queste proposizioni sia « falso »; è piuttosto la strut­tura necessariamente metafisica di esse che è inadeguata a dire il senso dell’essere. L ’essere non è, infatti, mai questo o quello, nel senso in cui normalmente noi connettiamo un predicato al soggetto. L ’espressione « è », attribuita all’essere, ha sempre soltanto un significato transitivo. Si può dire che l’essere è questo o quest’altro solo intendendo che Tessere fa essere questa o quella cosa, « la (oggetto) è » (cfr. WP 22 [23]). L ’impossibilità di definire Tessere è quindi, sotto un certo aspet­to, un’impossibilità linguistica: non si può trovare una proposizione che, volendo essere definizione dell’essere, per la sua stessa struttura non lo riduca al livello degli enti. Ma tale impossibilità linguistica, coerentemente con la posizione che Heidegger assume di fronte al linguaggio in seguito alla Kehre, non è soltanto linguistica: non riguar­da cioè il linguaggio come « strumento » di espressione, che si rivele­rebbe di fronte all’essere come imperfetto e bisognoso di modifiche. E neanche è vero che la difficoltà linguistica ne riveli un’altra più profon­da ed essenziale: semplicemente, il fatto stesso che il linguaggio non possa, per la sua struttura, definire Tessere, è evento dell’essere, e come tale riguarda Tessere stesso. Del resto, la stessa impostazione del problema dell’essere data da Sein und Zeit non poteva condurre a una definizione della sua « essenza ». Il problema dell’essere è il problema del suo senso, cioè dell’orizzonte in cui esso si illumina e illumina le cose, che in tale orizzonte vengono all’essere.

Non si può dunque dire, se si vuol restare fedeli a Heidegger, né che Tessere è linguaggio, né che è evento: linguaggio ed evento, inve­ce, sono al massimo dei Leitwörter che possono guidare meglio di altri nella ricerca del senso dell’essere e, più specificamente, nella ricerca del rapporto fra essere e uomo.

Non si tratta, come abbiamo già accennato, di due vie parallele o comunque distinte che conducano nelle vicinanze dell’essere, anche se talvolta Heidegger pare considerare, come accade nella prima parte di Identität und Differenz, l’evento a parte dal linguaggio. Una tale im­pressione può farsi strada facilmente soprattutto a causa dello stato frammentario, almeno in apparenza, in cui si trova la più recente produzione heideggeriana, nella quale un saggio pare affiancarsi all’al­tro come un diverso tentativo, senza che sia possibile stabilire una connessione organica. Questo è vero solo entro certi limiti, solo cioè in quanto il pensiero stesso, nella prospettiva di Heidegger, è sempre

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tentativo, sempre un muoversi sulla strada (dell’essere, del linguaggio) senza che si possa mai dire d’essere arrivati. Tuttavia questa stessa concezione della funzione sempre tentativa del pensiero implica una prospettiva ben definita, o almeno unitariamente definibile. Ciò che domina questa prospettiva e ne costituisce l’unità profonda è appunto il linguaggio: non diciamo il concetto di linguaggio, perché un tale concetto è sempre in via di chiarirsi e di definirsi; né il problema del linguaggio, in quanto una tale espressione può far pensare che il lin­guaggio sia tona sorta di « oggetto » del pensiero, posto chiaramente davanti ad esso e solo da esplorare, circumnavigare, analizzare. Il linguaggio è qui meno e più di un concetto e di un problema: meno, in quanto non possiede la definitezza che è propria, sotto aspetti diversi, dell’uno e dell’altro; più, perché non è né un risultato a cui la ricerca giunga, né un oggetto su cui si eserciti, né una questione da cui parta, ma è l’elemento entro cui si muove. Sicché, se un tentativo si può fare di interpretare unitariamente l’opera più recente di Heidegger, esso deve venir condotto alla luce del linguaggio. E ciò non solo permette di unificare (organicamente o quasi) la speculazione heideggeriana re­cente, ma anche di trovare il nesso di questa con le opere precedenti e soprattutto con Sein und Zeit, che si era arrestato appunto di fronte alla questione del linguaggio, ponendola con ciò stesso in primo piano e facendone la sostanza della Kehre.

Come si è visto, l’esperienza dell’impossibilità di proseguire Sein und Zeit ha fatto venire in luce che il linguaggio, lungi dall’essere un semplice strumento a disposizione dell’uomo, dispone piuttosto esso stesso di lui: la tradizionale massima retorica, rem tene verba sequen- tur, non vale più quando si creda di pensare in base ad essa la natura stessa del rapporto dell’uomo col linguaggio. Non si tiene la cosa se non nella parola: la mancanza delle parole adatte non è solo una deficienza del vocabolario di un singolo o di una cultura, ma riguarda il mondo stesso; è un evento dell’essere, perché indica i limiti di una certa « apertura » storica entro cui noi stessi siamo gettati e che non possiamo superare con una escogitazione terminologica. E la parola che dà l’essere alla cosa, come Heidegger arriva a chiarire riflettendo su una poesia di George (US 159-216 [127-170]). Ciò significa anzitut­to, nella prospettiva di Sein und Zeit, che il progetto entro cui solo le cose possono venire all’essere è un fatto linguistico. Non si tratta di un mio « modo di vedere » le cose, di una Weltanschauung entro cui soltanto sarebbe possibile l’esperienza del mondo, mondo peraltro già costituito indipendentemente da essa: un tale modo di pensare impli­cherebbe già la distinzione metafisica tra un « soggetto » e un « ogget-

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to », e una concezione psicologistica del progetto. Il progetto invece è un certo linguaggio: la cosa non si presenta, non viene alla presenza cioè all’essere se non in quanto è qualcosa, cioè è inserita in un mondò, in un ordine, che è una struttura linguistica.

E ben vero che anche la parola è qualcosa: ci sono dei vocabolari, delle parole dette e scritte, ecc. Ma la parola, quando è trattata come una cosa, perde ciò per cui essa è parola: si può parlare delle parole, ma le parole di cui si parla non sono le parole parlanti, sono le parole « oggetti vate », si potrebbe dire, mentre ciò per cui esse sono parole, cioè il loro portare la cosa nella presenza (nell’essere) è inoggettivabile.

La parola in quanto tale, cioè, non è\ non è un ente, ma ciò per cui ciascun ente è tale. Il paradosso, per il pensiero abituato a ragionare secondo il principio di ragione sufficiente, è che la parola, non essendo, possa dar l'essere alla cosa. Ma alla parola accade come all’essere stesso (all'ist; cfr. US 193 [152]): anche Tessere, lo « è » che si dice delle cose, non è a sua volta un ente, eppure è ciò per cui le cose sono. Non si tratta di un gioco che faccia leva su funzioni sintattiche per ricavarne conclusioni metafisiche, come può parere a qualcuno. Il fatto che Tessere e la parola, ciò per cui le cose sono quel che sono ̂ non si possono dire essenti ci mette in presenza di una delle caratteristiche fondamentali dell 'Ereignis dell’essere: ciò che dà originariamente Tesse­re alle cose, la parola o Visi, non può essere concepito come causa: il concepirlo come tale è tipico della metafisica, che pensa Tessere in base all’ente, per cui, in quanto pensa Tessere come Tessere degli enti è onto-logia, e in quanto lo pensa come causa, come ente supremo che dà Tessere a tutti gli altri, è teo-logia (alla struttura onto-teo-logica della metafisica è dedicata la seconda parte di Identität und Differenz). Che la parola non dia Tessere alle cose nel senso del causare (o del creare) esclude però anche che essa dia loro Tessere solo sotto il profilo gnoseologico, cioè che Tessere dato dalla parola sia Tessere in quanto appartenenza a un certo ambito conoscitivo, a un certo ordine di rapporti in cui la cosa sarebbe inserita. Anche una tale prospettiva, a parte il fatto che considererebbe la cosa come essente prima che venga all’essere nel progetto-parola, pensa la parola come causa: è Tessere che viene pensato diversamente, cioè diventa sinonimo di essere illumi­nato, sottintendendo che l’oggetto illuminato « esiste » o « è » già per conto suo. La parola causerebbe Tessere delle cose come illuminazione. In base a interpretazioni di questo tipo è chiaro che il rapporto tra meditazione sul linguaggio e ontologia diventa assolutamente incom­prensibile. Proprio Timpossibilità di pensare la parola come essente ci mette in guardia dal considerarla come datrice dell’essere nel senso

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causale del termine. E proprio questo ci avverte che siamo pervenuti a un « fenomeno » originario, giacché il fallimento stesso del modo di pensare metafisico o « ontico » è già una garanzia che siamo in qual­che modo arrivati nella vicinanza dell’essere.

Nello studio del rapporto parola-cosa e della funzione di donatrice di essere della prima arriviamo a mettere in luce un carattere fonda- mentale dell 'Ereignis, delPevento dell’essere, pensato però in termini negativi: l’evento in cui la cosa diventa ciò che è, o viene all’essere (nel senso più comprensivo di una tale espressione) non è un processo causale. Processi di causazione naturalmente si danno nel mondo, ed essi valgono al livello ontico a spiegare l’origine delle cose; ma il discorso ontologico non può fermarsi qui: ciò per cui la causa stessa è causa e l’effetto è effetto, l’essere che apre la possibilità di ogni rappor­to e quindi la possibilità dei rapporti causali non può essere pensato in termini di causa.

Se le cose stanno così, lo sforzo del pensiero di fronte al fenomeno della donazione di essere alla cosa da parte della parola non può essere quello di risalire ulteriormente all’origine di questa donazione, doman­dando il perché, chiedendo la ragione, ecc.; si tratterà invece di cercare di pensare il « come » di questa donazione, cioè l’evento stesso dell’es­sere nelle sue linee principali e caratteristiche. È sull’evento come tale che la riflessione deve concentrarsi per tentare di pensare Tessere, giacché questo non è al di là del suo evento.

La parola dà Tessere alla cosa. Il primo senso di questa affermazione si riattacca a Sein und Zeit e precisa il concetto di progetto nel senso del linguaggio; solo in quanto l’uomo ha già sempre un linguaggio può essere un essere-nel-mondo, può esistere come dà, come luce in cui si illumina Tessere. Il progetto è gettato proprio nella misura in cui il linguaggio non è mai creazione dell’uomo che lo parla, ma sempre è ricevuto. Tuttavia, non è un caso che generalmente il linguaggio venga considerato invece come segno, come un insieme di essenti, le parole, che rimandano ad altro, che stanno per, ecc.; cioè come un sistema semantico già connesso con le cose secondo determinate regole. In realtà il linguaggio comune è davvero questo, esso chiama le cose nella presenza solo nel senso « simbolico », cioè rende presenti, vicine, cose che in un certo momento o situazione sono assenti e lontane. Questo stesso potere presentificante del linguaggio, tuttavia, è una sorta di potere derivato da uno più originario, che è quello appunto di chiama­re le cose all’essere, non solo di renderle più vicine rispetto a una distanza che è misurata anch’essa all’interno del mondo come già aperto.

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Il linguaggio che realizza a pieno la natura del linguaggio, in questo senso, è il linguaggio poetico. Proprio un esame del linguaggio poetico è tale da mettere in crisi la concezione tradizionale del linguaggio come segno: Heidegger utilizza, in Unterwegs zur Sprache, i risultati raggiun­ti nell’indagine sull’origine dell’opera d’arte e sulla poesia di Hölder­lin. L'opera d’arte non è « imitazione » nel senso della riproduzione di un mondo peraltro già dato e aperto, ma è « messa in opera della verità ». Il linguaggio poetico è quello che non può ridursi sotto la categoria di segno, ma richiede un concetto diverso, cioè appunto quello della parola come donatrice di essere, come « luogo » in cui si eventualizza l’evento dell’essere. La sera d’inverno di cui parla la poe­sia di Trakl che Heidegger commenta nel primo saggio di Unterwegs zur Sprache non è una sera d’inverno che si può incontrare anche in qualche posto fuori della poesia e che la poesia si propone solo di « richiamarci » alla mente con maggiore o minore precisione; o alme­no, nessuno vorrà sostenere che la forza poetica della poesia consista in questo potere rievocativo e « imitativo ». E nemmeno si tratta di rappresentare una sera di inverno « possibile » nell’ambito della nostra esperienza. La parola poetica, come l’opera d’arte in generale nel sag­gio degli Holzwege, è un cominciamento assoluto, per dir così: proprio in quanto tale però, come verrà meglio in luce nell’ulteriore sviluppo della meditazione sul linguaggio, essa non può venir definita mediante il concetto di creazione, che suppone sempre un creatore: la parola poetica è il cominciamento dell’opera e dell’autore insieme, perché è la messa in opera della verità, cioè l’aprirsi di un mondo in cui opera e autore divengono visibili, vengono all’essere.

Tutto questo rappresenta una ripresa dei temi dell'Ursprung des Kunstwerkes, e costituisce solo la premessa indispensabile per capire le indagini di Unterwegs zur Sprache, dove, concentratosi il discorso sul linguaggio, l’evento dell’essere non è più solo definito inizialmente come fa il saggio degli Holzwege (messa in opera della verità), ma indagato nella sua intima costituzione, col proposito di arrivare a chiari­re, dall’interno dell’evento dell’essere come apertura aperta dal linguag­gio, il rapporto originario che lega Tessere all’uomo. Se vogliamo ri­prendere il concetto da cui siamo partiti, il saggio sull’origine dell’ope­ra d'arte rappresenta solo la premessa per la ripetizione ontologica delTanalitica esistenziale, nel senso che precisa preliminarmente la via per pensare l’eventualità dell’essere (cioè il darsi di un evento origina­rio, fondante: essenzialmente l’opera d’arte e la poesia). Ma oltre que­sto non si può andare se non pensando dall’interno la struttura del particolare evento linguistico-storico (nel senso in cui geschichtlich è

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sinonimo di ge schicklich), cioè la struttura del mondo aperto e fondato da un’opera d’arte o da una poesia. Questo non significa tuttavia ridurre l’ontologia al rango di filosofia della cultura: il pericolo c’è, nel senso che, posto che possiamo pensare l’evento dell’essere solo sempre dall’interno di un determinato evento come particolare mondo storico­linguistico, il pensiero ontologico potrebbe consistere semplicemente nella individuazione di certe linee costitutive di una certa epoca e nel riconoscimento della loro « storicità ». Proprio qui però emergono una serie di problemi: fare dell’ontologia una filosofia della cultura implicao il misconoscimento dell’eventualità dell’evento, nel senso che un certo ambito storico linguistico viene considerato come l’unico (ma allora non si fa più filosofia della cultura, bensì una metafisica dell’esse­re come stabilità di regole, strutture, ecc.); oppure l’atteggiamento storicistico, nel senso che l’eventualità dell’evento viene confusa con il suo essere solo uno dei possibili mondi storici, rappresentati come accostabili l’uno all’altro in una serie, siano o no connessi entro una struttura dialettica. L ’evento non può essere pensato che al singolare, e tuttavia come evento: il che esclude sia la prospettiva metafisica del­l’immobilità, sia la riduzione dell’ontologia a pura e semplice filosofia della cultura. In pratica, come si vede dalla riflessione di Heidegger, ciò vuol dire cercare, all’interno dell’evento, non tanto ciò che lo caratterizza come àmbito storico diverso dagli altri (quasi che un con­fronto fosse possibile), ma la sua eventualità. Nel caso del linguaggio non è né la prospettiva che ne assume le strutture come identiche tout court con le strutture dell’essere, né la prospettiva che lo prende come uno dei linguaggi possibili e di fatto dati nella storia (proprio come Historie, come raccolta dei fatti) in vista di classificazioni e confronti. Si tratta piuttosto di cercare di capire come nel linguaggio, nelle sue strutture, e nei suoi prodotti, si faccia presente il rapporto dell’uomo con l’essere.

Ora, nella generale funzione fondante che il linguaggio ha rispetto al resto dell’esperienza dell’uomo, il linguaggio poetico ha ancora una posizione particolare, giacché è in esso che l’aprirsi dell’apertura si attua: rispetto ad esso, il linguaggio comune è una sorta di linguaggio derivato e impoverito.

Che cosa sia la funzione fondante e aprente della poesia rispetto all’esistenza dell’uomo si intende meglio se si tiene presente l’altra caratteristica che fa del linguaggio poetico il linguaggio « puro » (US 16 [31]). La poesia, intesa come la composizione composta, il poema, non è linguaggio in atto, non è Sprechen, ma Gesprochenes, parola parlata. Tuttavia « nella parola parlata non viene meno il parlare. In

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essa il parlare resta contenuto. Nella parola parlata si raccoglie il modo in cui il parlare dura e ciò che, per opera sua, dura, cioè il suo durare e il suo essere [Wesen] » (US 16 [30-31]).

Insieme al carattere di inizialità, che si riassume nell’essere un co­minciamento assoluto nel senso che instaura un mondo nuovo, non deducibile dal « mondo » in cui sorge e da cui esce, la poesia ha un carattere fondante in quanto è una struttura compiuta, nella quale compiutezza e inizialità vanno di pari passo. Il che significa che la funzione aprente della poesia non consiste principalmente nell’iniziare un’epoca, nel senso che il linguaggio di essa, non che essere il riflesso di una certa situazione e di un certo modo di vita dell’uomo, piuttosto fornisce moduli di vita e modi di vedere il mondo nuovi e originali; la poesia, come poema (prodotto), è essa stessa un’epoca in sé compiuta, anche se per ipotesi non incontri una generazione che l’assuma come principio fondante di un’epoca storica e di una cultura. Anzi: solo in quanto in se stessa è un’epoca (nel senso di una certa apertura dell’esse­re in cui il mondo si illumina in maniera nuova) la poesia può diventa­re principio di epoche storiche, di mondi culturali. L ’inizialità (Anfan­gendes) della poesia non indica incompiutezza, attesa di una attuazio­ne, ma forza aprente che le deriva proprio dall’essere compiuta.

Tutto questo, nell’intenzione di Heidegger, è ben lontano dal voler essere estetica. Ciò di cui è questione qui non è l’arte o la bellezza, ma l’essere. E la compiutezza dell’opera poetica, insieme alla sua inizialità, va tenuta presente per capire tutta la portata della connessione essere- parola che è contenuta nell’affermazione secondo cui la parola dà Tessere alla cosa. Se intendiamo infatti la poesia come linguaggio origi­nario nel senso che fonda un’epoca storica, la parola dà Tessere alle cose nel senso che definisce l’àmbito linguistico entro cui di fatto le cose verranno all’essere per una determinata umanità storica; se accen­tuiamo nella poesia il carattere di compiutezza, per cui essa stessa (come poema) costituisce un’epoca, si dispieghi poi o no in un « mon­do storico », il senso dell’affermazione cambia, e può diventare che proprio nella poesia la cosa viene all’essere, nel senso che la poesia, più e meglio delle svariate forme in cui la cosa entra in rapporto con l’uomo, la inserisce nel mondo, cioè nell’apertura dell’essere.

E solo tenendo presente tutto ciò che diventa comprensibile, o almeno un po’ meno ermetico, il concetto heideggeriano di Geviert che è strettamente connesso con l’aprirsi del mondo nella poesia. In base ad esso si farà chiaro che i due sensi in cui può essere accentuata Toriginarietà della poesia, quello di inizialità rispetto a un’epoca storica e quello di compiutezza, non sono separabili l’uno dall’altro, e anzi il

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secondo fonda e rende possibile il primo. Fin che cerchiamo di immagi­nare come la parola possa dar l’essere alla cosa nel senso di fondare il suo apparire nella presenza, intesa come presenza fisica, restiamo anco­rati a una concezione dell’essere come presenza, come incontrabilità empirica, che è estranea al pensiero heideggeriano. Il quale, rispetto a questo modo di pensare l’essere, ha subito indubbiamente un processo di sviluppo e di chiarificazione. L ’idea che la poesia dia l’essere nel senso che apre e fonda gli àmbiti storico-linguistici in cui le cose appaiono all’uomo è ancora perfettamente concepibile in base alla parte pubblicata di Sein und Zeit, per quel che di « storicistico » e umanistico conserva ancora in quell’opera la nozione di progetto getta­to: l’essere delle cose è sempre l’appartenere a un mondo, a un ordine istituito da un progetto che è Tesserci. Accentuandosi, nelle opere successive a Sein und Zeit, il concetto che Tesserci, pur essendo sempre il punto aprente, il luogo delTilluminazione, è anch esso gettato nel­l’apertura dell’essere, sicché Tessere suo e delle cose non si risolve più tutto nell’appartenere al progetto come progetto delTesserci, ma si riconduce più originariamente all’appartenere a un’apertura aperta dal­l’essere stesso, diventa possibile concepire la donazione di essere alla cosa da parte della parola poetica in maniera più radicale e meno «umanistica»: le cose vengono all’essere, inteso come appartenenza alla sua apertura, proprio nella poesia, che le raccoglie (versammelt: questo dovrebbe essere allora il senso del comparire di tale termine nei testi heideggeriani) dalla dispersione in cui si trovano abitualmente nell’esperienza comune. È vero che questa esperienza non sarebbe possibile senza il linguaggio: da ciò la funzione aprente e originaria della poesia nel senso « storico » del termine; ma questa funzione « storica » della poesia è radicata nell’altra, in cui il venire all’essere significa non tanto venire in un àmbito storico, ma nel mondo (che riacquista l’articolo determinativo) inteso come l’apertura dell’essere, mondo che però waltet come tale nel linguaggio: in questo senso « la parola mondo non è più usata nel senso metafisico. Essa non denomi­na né, secondo il concetto secolarizzato, l’universo di natura e storia, né, secondo il modo di pensare teologico, la creazione (mundus), né sta ad indicare semplicemente la totalità della presenza (xoit^oç-) » (US 23-24 [36]).

La poesia non apre il mondo anzitutto nel senso che, in base ad essa, le cose vengono nella presenza intesa come cosmicità, come Tesse­re date nello spazio e nel tempo. II mondo che waltet nella poesia come linguaggio originario è il Geviert.

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3. Geviert e linguaggio poetico

Qualche interprete ha parlato, a proposito del concetto di Geviert, di un esito monadologico del pensiero heideggeriano, il che significhe­rebbe, dal punto di vista di Heidegger, un vero e proprio ritorno alla metafisica, giacché Tessere verrebbe di nuovo pensato in base all essen­te, cioè in base alla cosa concepita alla maniera di una monade. E naturale che il concetto di Geviert venga interpretato in questo modo quando lo si astrae dal contesto entro cui si elabora, contesto che è la meditazione heideggeriana sul linguaggio 6. Il nesso del Geviert con la riflessione sul linguaggio, anche se non è sempre esplicito nelle pagine heideggeriane, è tuttavia l’unico modo di inserire in maniera organica tale concetto nell’insieme del suo pensiero: ciò non sembra essere stato rilevato neanche dagli interpreti heideggeriani più attenti e « autorizza­ti », come ad esempio il Pöggeler 1.

Geviert, che traduciamo alla lettera con « quadrato », è il termine che Heidegger adopera per indicare il mondo come esso si fa presente e « waltet » nelle cose. Il significato di definitezza che è implicito nel termine, che anche in tedesco ha la forma di un participio passato (dal verbo vieren, quadrare o squadrare), non deve far pensare a una strut­tura conclusa e compiuta; per questo si potrà anche tradurre il termine con « quadratura » o « squadratura »: il Geviert, proprio in quanto indica il mondo e il suo carattere eventuale, è sempre in atto di squadrarsi. I quattro angoli del Geviert non indicano limiti o confini, ma direzioni che partono da un unico centro, l’evento in cui il mondo si mondeggia. Per capire il significato « aperto » del Geviert è utile una pagina di Zur Seinsfrage, dove Heidegger propone di scrivere il

6 Proprio in conseguenza della separazione del concetto di Geviert dal suo naturale contesto, che è l’evento dejl’essere come evento linguistico, il F ü r sten a u , Heidegger. Das Gefüge seines Denkens, cit., 67-69, può parlare di un « monadologismo » della dottrina del Geviert, e quindi di un conseguente ritorno di Heidegger alla metafisica, È particolarmen­te evidente a p. 68 che se si interpreta il Geviert come avente luogo nella presenza, intesa come essere nello spazio-tempo, il pensiero di Heidegger è riportato alla metafisica. Per uscire da questa contraddizione, il Fürstenau propone di riportare il concetto di Geviert al di qua dell’opposizione tra cosa intesa come semplice-presenza e cosa vista come monade: ora, questo al di qua (che è insieme anche un al di là) va esplicitamente riconosciuto nel linguaggio.

Cfr. O. P ö g g e l e r , Der Denkweg Martin Heideggers, cit., 247-67, e specialmente le pp. 248-50, in cui l’autore ricostruisce la via attraverso cui Heidegger è pervenuto al concet­to di Geviert assegnando a! linguaggio e alla poesia una posizione ancora troppo periferica. La stessa vicinanza {Nähe), così importante per il significato del Geviert, di cui il Pöggeler parla al fondo di p. 249, accade in definitiva anzitutto nel linguaggio; e anzi la vicinanza che rende possibile ogni altra vicinanza è quella tra pensare e poetare, che costituisce l’essenza stessa del linguaggio (cfr. US 210-11 [165-166]).

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termine essere (Sein) con una barratura incrociata: Spin. Ciò deve significare, in primo luogo, che l’essere di cui si parla non è l’essere della metafisica, cioè concepito come un essente sommo accanto e a fondamento degli altri; ma, ciò che più conta, la barratura ha anche e prima di tutto, oltre a questo significato negativo, un significato positi­vo. L ’essere non può essere pensato come quello della metafìsica pro­prio perché esso si eventualizza nel Geviert e si risolve tutto nel suo evento, evento aperto nelle quattro direzioni del quadrato (SF 30-31 [360]). Quando parliamo di Geviert, come quadrato o squadratu­ra, alluderemo dunque a questo « squadernarsi » del mondo nel senso di un aprirsi nelle quattro direzioni a cui allude la barratura incrociata con cui Heidegger scrive la parola Sein.

Al concetto di Geviert Heidegger arriva sviluppando l’indagine su ciò che costituisce la cosa come tale: in questo senso, il Geviert è sulla linea della ricerca iniziata nel saggio sull’origine dell’opera d’arte. Il problema posto nelle prime pagine di quel saggio viene però ripropo­sto in base alle conclusioni che là erano state raggiunte, cioè dal punto di vista del linguaggio. Ciò che dà l’essere alla cosa, come si è visto, è la parola. È dal linguaggio che la cosa è be-dingt, posta nella sua cosalità. Ora, tale evento non può essere ulteriormente indagato nel senso della ricerca delle cause e dei fondamenti; il dar Tessere alla cosa da parte della parola non è infatti un causare, per cui si possa dire che la spiegazione di un tale evento consista nell’andare a cercare la causa prima che muove tutto il processo. L ’evento del divenir cosa della cosa nel linguaggio si sottrae a queste categorie ontiche. L’unico modo di riflettere ulteriormente su tale evento è tentare di chiarire il « come » del suo accadere, la sua struttura. Che cosa significa be-dingen, far essere cosa la cosa, è possibile scoprirlo solo indagando sulTesser cosa della cosa stessa, sul suo dingen.

I modi in cui la mentalità metafisica riesce a rappresentarsi la cosali­tà della cosa si riducono sostanzialmente a due, e in fondo a uno solo: la cosa infatti è pensata o come oggetto della rappresentazione o come prodotto del fare umano. Così la classica definizione della cosa come sinolo di materia e forma, che Heidegger discute a lungo nel saggio sulTorigine dell’opera d’arte, rappresenta la cosa in base alla produzio­ne, Tutta la mentalità filosofica dell’età moderna concepisce la cosa come oggetto del conoscere: la cosa è riconosciuta come tale solo in quanto è rappresentata al soggetto e dal soggetto secondo le leggi del conoscere. Ora, né il concetto di oggetto del conoscere né quello di prodotto del fare ci conducono davvero alla cosalità della cosa (cfr. VA 165-166 [110-111]). In nessuno di questi due casi l’uomo incontra

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davvero la cosa come tale, ma solo se stesso come soggetto della rappresentazione o della produzione. È questo un altro aspetto del nichilismo a cui necessariamente la metafisica conduce: il processo cominciato con la riduzione dell’essere a ente finisce con la scomparsa dell’ente stesso. Se l’essere degli enti, come accade nel momento con­clusivo della metafisica in cui viviamo, si riduce all’attività rappresenta­tiva o produttiva del soggetto, l’uomo nel mondo non incontra più nulla che non sia la sua stessa attività; la cosalità della cosa scompare, e dell’ente, come dell’essere, « non ne è più nulla ».

Dove andrà dunque cercata la cosalità della cosa? Nella appartenen­za della cosa all’apertura dell’essere. Solo in quanto appartiene a que­sta apertura, la cosa può diventare poi oggetto di rappresentazione o risultato di un processo produttivo. « È bensì la produzione che fa pervenire la brocca in ciò che essa ha di proprio (la sua struttura di brocca). Ma questa struttura stessa non è mai prodotto di un’operazio­ne di produzione» (VA 166 [111]).

Il senso di questo discorso non è però quello platonico, per cui Videa dovrebbe preesistere alla cosa e al suo formarsi: anzi, proprio la dottrina platonica delle idee è una tappa decisiva sul cammino lungo il quale Tessere della cosa si, riduce a rappresentazione {ibid.). Non è dunque questo il senso del discorso di Heidegger. Ciò per cui la cosa è cosa, e ciascuna cosa è quello che è, è l’appartenenza all’apertura dell’essere. Che cosa significa una tale appartenenza? « Le cose fanno dimorare presso di sé la quadratura [Geviert] dei quattro. Tale racco­gliente far-dimorare è Tesser cose delle cose » (US 22 [35]).

La cosa è cosa, cioè appartiene all’apertura dell’essere, in quanto fa dimorare presso di sé la quadratura, il Geviert. I quattro del Geviert sono la terra e il cielo, i mortali e i divini (Göttlichen). Così la brocca, nella sua essenza di brocca come viene indagata nel saggio su Das Ding (VA 163-85 [109-124]), è tale non in quanto è un prodotto così e così fatto, in quanto è uno spazio vuoto, o pieno d’aria, dentro cui si può versare del vino, ma in quanto è fatta di terra e può contenere il vino o l’acqua, che a loro volta sono quel che sono per l’intervento di terra e cielo insieme (le piogge, il sole che matura l’uva, ecc.); e il contenere della brocca è un contenere per versare fuori: il vino contenuto nella brocca è versato dai mortali in omaggio dei divini. NelTesser brocca della brocca si raccolgono, in quanto sono richiamati, i quattro che costituiscono il Geviert, cioè il mondo, che è il loro dispiegarsi.

Dal punto di vista di un filosofare che si modella sulle scienze esatte e che pretende di pervenire a dimostrazioni inconfutabili, tutta questa « teoria » del Geviert può apparire, nel migliore dei casi, solo come un

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discorso poetico, nel senso in cui si dice poetico tutto ciò che non è pensiero rigoroso ed enunciazione verificabile. Ora, una tale critica, sebbene si fondi su presupposti inaccettabili, coglie però nel segno definendo poetico il discorso sul G ev iertpoetico tale discorso è in senso molto più radicale e preciso di quanto i critici di Heidegger pensino. Non per nulla in un saggio posteriore a Das Ding, in cui riprende a lungo la questione del Geviert, Heidegger connette esplicita­mente il discorso al commento di una poesia, e in un contesto dedicato alFindagine sul linguaggio (cfr. Die Sprache, in US 11-33 [27-44]. Come si può pensare, infatti, il Dingen della cosa nel senso indicato dal Geviert? L ’esser cosa della cosa come far dimorare presso di sé i quattro della quadratura va forse inteso come un modo di presentarsi della cosa nel « mondo dell’esperienza » in modo da « richiamare » in qualche maniera a chi l’incontra i quattro, cielo e terra, mortali e divini? In tal caso, Tesser cosa della cosa rimarrebbe un certo modo di apparire nella presenza, una maniera particolare - ma, chissà perché, più « autentica » di ogni altra — di essere rappresentata, vor-gestellt, posta davanti al soggetto. La cosa sarebbe cioè incontrabile come tale nell’ambito spazio-temporale, e insieme ad essa, presso di lei, si dovreb­be incontrare anche il Geviert. Ora è proprio questo presso e questo insieme che bisogna cercare di chiarire. La brocca del saggio ricordato non richiama cielo e terra, mortali e dèi, come un oggetto richiama i materiali di cui è fatto o l’uso a cui è adibito; questo modo di richiama­re è un modo simbolico, che suppone un mondo già aperto e un insieme di regole di rimando già stabilite. Ma nella dottrina del Ge­viert, il mondo e la cosa si costituiscono insieme. Si tratterà allora di una associazione di tipo psicologico, per cui la cosa viene vista in un certo modo, come indicante la presenza dei quattro? In tal caso, una volta di più, la sua cosalità si ridurrebbe totalmente alla rappresen­tazione.

In verità, Tesser cosa della cosa come far dimorare presso di sé i quattro del Geviert non può accadere nel mondo della presenza come « esser qui » nel contesto spazio-temporale. L ’esser cosa della cosa nel senso a cui allude la dottrina del Geviert accade, e in ciò hanno ragione i critici di Heidegger, solo nella poesia, o, più in generale, nel linguag­gio inteso come linguaggio puro. Heidegger perviene al concetto di Geviert proprio nel corso dell’indagine diretta a precisare in che cosa risieda la forza iniziarne e fondante del discorso poetico come linguag­gio allo stato puro. Tale forza del linguaggio poetico si annuncia inizial­mente, negli Holzwege, come indeducibilità dal mondo com’è, dall’aper­to già aperto: l’opera d’arte è un cominciamento assoluto, l’aprirsi di

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una nuova apertura suITes sente nella sua totalità, e perciò evento dell’essere. La parola poetica, in questo senso, è linguaggio originario perché in essa le cose vengono all’essere; essa fonda il contesto lingui­stico in cui le cose, in una data epoca dell’essere, divengono visibili. Ma perché la parola poetica come linguaggio originario ha questo potere aprente? Nel lungo dialogo con la poesia che costituisce così gran parte del suo itinerario speculativo, Heidegger è condotto a vede­re che tale forza aprente è radicata nel fatto che la poesia pone compiu­tamente le cose nel loro autentico essere, in quanto le fa dimorare nella vicinanza del mondo come Geviert. La forza aprente della poesia nei confronti delle epoche storiche si fonda sul fatto che nella poesia, intesa sempre come quella in cui il linguaggio si presenta allo stato puro, le cose sono davvero quelle che sono: la loro cosalità non consi­ste nell’essere oggetto di rappresentazione o risultato di produzione, ma nel permanere dentro l’apertura dell’essere facendo dimorare pres­so di sé il Geviert. La poesia ha così un carattere di cosmicità, che non significa una proprietà evocativa per cui essa, di qualunque cosa parli, richiama il cosmo nella sua totalità; essa costituisce un cosmo, in essa soltanto le cose sono davvero ciò che sono, e in base a ciò può aprire dei mondi storici. La cosmicità della poesia si riduce alla sua linguistici- tà: non perché il linguaggio sia segno del mondo, ma perché solo nel linguaggio il mondo si mondeggia autenticamente e le cose sono nel loro vero essere.

Tutti i tentativi heideggeriani di chiarire, con l’impiego di altre metafore, il rapporto che si istituisce tra la cosa e i quattro della quadratura, trovano un senso solo se si tiene ben presente il nesso tra Geviert e linguaggio. Solo come far dimorare presso di sé il Geviert la cosa è cosa; ma il Geviert dimora presso la cosa non nel contesto spazio-temporale dell’esperienza, non nel mondo della presenza, bensì nel linguaggio come sede del venire originariamente e autenticamente all’essere.

Anche nel saggio Das Ding, che è la prima elaborazione della dottri­na del Geviert, e dove sembra che il concetto venga studiato indipen­dentemente da ogni nesso con la parola poetica, l’indagine non è condotta sulla cosa come tale (nel senso comune del termine, come qualcosa che è dato davanti a noi nello spazio-tempo), ma sulle parole nelle quali la cosa viene all’essere. La brocca fa dimorare presso di sé i quattro del Geviert solo in un contesto linguistico (si veda l’analisi dei concetti di fassen, giessen, Guss in VA 170 ss. [114 ss.]). Lo stesso concetto della cosa come versammelnd-ereignendes Verweilen des Ge­vierts (alla lettera: raccogliente-appropriante dimorare del Geviert; do­

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ve verweilen può però avere anche senso attivo: VA 172 [115]) è raggiunto studiando l’etimo dell’antica parola altotedesca Thing e della corrispondente latina res. La meditazione è condotta non su un testo poetico, ma su parole isolate; ma non si dimentichi che per Heidegger il linguaggio poetico non è diverso dal linguaggio comune, ne costitui­sce piuttosto l’essenza che nel linguaggio comune è ancora presente, ma confusa e obliosa. Anche le parole isolate, quando siano riportate, per esempio attraverso la ricostruzione degli etimi, alla ricchezza del loro significato originario, possono essere il luogo adatto a rintracciare la cosalità autentica della cosa. Poeticità non significa necessariamente, per il linguaggio, appartenere a una poesia, ma conservare la « cosmici­tà » che originariamente (nel senso di essenzialmente) appartiene al linguaggio come tale.

Resta quindi anche vero che la via attraverso cui Heidegger pervie­ne al concetto di Geviert è il gioco di parole. Ma il senso dispregiativo che generalmente è connesso con questa espressione deriva dal fatto che si pensa il vero essere della cosa come lessere-qui-davanti-a-me, cioè come il suo essere vor-gestellt, mentre la parola non farebbe altro che descrivere e raccontare questa presenza, senza alcuna autonomia: e allora i rapporti di parole, istituiti in base alle parole stesse, sarebbero dei giochi, cioè delle operazioni vane, senza alcun « significato reale ». Ora, in Heidegger, proprio l’atteggiamento di fronte al linguaggio è cambiato (tale mutamento è l’unico che possa preparare il superamento del nichilismo: SF 26 [354-355]), e proprio in base all’esperienza della Kehre. Il linguaggio non può essere considerato anzitutto come segno e come mezzo di espressione. È nella parola, e non nella presenza come un esser posta davanti al soggetto, che la cosa ha il suo essere. La parola non è descrizione di un Sachverhalt, di uno « stato di cose », come se questo fosse dato in qualche modo fuori di essa, giacché essa è ciò in cui solo è reso possibile ogni Verhältnis, ogni rapporto: il linguaggio è il rapporto di tutti i rapporti possibili, e quindi la sede di ogni possibile Sachverhalt (cfr. US 215 [169]).

I risultati della riflessione sulla cosalità della cosa in base al Geviert sono principalmente due. Anzitutto, Tesser cosa della cosa non può concepirsi né come Tesser oggetto né come Tesser prodotto. Entrambi questi modi di vedere la cosa la riducono a nulla e appartengono al nichilismo. Sono legati alla mentalità metafisica: nella dimenticanza dell’essere a vantaggio dell’ente, anche lente scompare. La cosalità della cosa può concepirsi solo come l’appartenenza all’apertura dell’es­sere, appartenenza che si attua come bei-sich-verweilen-lassen, del Ge­viert. In secondo luogo il concetto di Geviert conduce a vedere in

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maniera chiara il nesso tra evento dell’essere e linguaggio e a riconoscere il linguaggio come la sede in cui l’essere davvero accade. Infatti, il far dimorare presso di sé il mondo non è un « carattere » che appartenga alla cosa considerata come presenza nel cosiddetto mondo dell’esperienza; la cosa fa dimorare presso di sé i quattro della quadratura in quanto è « chiamata », cioè insieme nominata e fatta venire all’essere, dal linguag­gio poetico, il quale non è necessariamente il linguaggio della poesia, ma il linguaggio autentico, colto là dove ancora manifesta la sua originaria forza aprente rispetto al mondo. L ’evento dell’essere è evento linguistico: ciò nel senso di apertura iniziante solo in quanto, prima di tutto, lo è nel senso terminale e conclusivo. La poesia, o il linguaggio, può aprire un mondo storico solo in quanto anzitutto in essa si apre il mondo come venire delle cose all’essere nel bei-sich-venveilen-lassen del Geviert.

Il Geviert, visto così, lungi dal costituire una periferica escogitazio­ne poetico-speculativa dell’« ultimo » (si direbbe anche in senso di « finale » e... « finito ») Heidegger, è una tappa di importanza incalco­labile nello sviluppo del suo pensiero. La speculazione sul linguaggio, il concetto di una ontologia ermeneutica che essa sottintende e svilup­pa, si capiscono solo in base ai risultati della meditazione intorno al Geviert, cioè in base al concetto di « inizialità » del linguaggio come fondata sulla sua « terminalità », in quanto esso costituisce la sede del venire all’essere delle cose nel senso autentico. L ’essere degli enti, dopo la meditazione sul Geviert, appare inequivocabilmente come un evento che si eventualizza non nella presenza ma nel linguaggio; e ciò non nel senso che il linguaggio apra e inizi la presenza, la quale però rimarrebbe il vero essere delle cose, dispiegato « a partire » dal lin­guaggio. La presenza stessa, invece, è concepita ormai come un fenome­no derivato rispetto al darsi della cosa nel linguaggio, come è derivato il linguaggio quotidiano rispetto al linguaggio poetico.

4. Uomo ed essere alla luce del Geviert

Che cosa dice la dottrina del Geviert rispetto al problema intorno a cui ci è parso si raccolga tutta la speculazione heideggeriana posteriore a Sein und Zeit, il problema cioè della ripetizione dell’analitica esisten­ziale dal punto di vista dell’essere come evento? La connessione tra analitica esistenziale di Sein und Zeit e Geviert non ha bisogno di esser stabilita; l’enumerazione stessa dei quattro della quadratura basta a metterla in luce. Nel Geviert, infatti, Tesserci è presente proprio con quella che in Sein und Zeit veniva considerata la sua « essenza » più propria ed autentica, Tessere-per-la-morte. Non è un caso che il concet­

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to della morte e della mortalità dell’uomo ritorni proprio nella medita­zione sul Geviert. Questo infatti, come la struttura dell’evento in cui l’essere si eventualizza, è l’unica traccia possibile per la ripetizione ontologica dell’analitica esistenziale. Se infatti essa vuol ripensare in base all’essere come evento la struttura dell’esistenza, non può che pensarla all’interno dell’evento stesso, cercando cioè nel modo di aprir­si dell’apertura dell’essere, in cui anche l’uomo è gettato e « dato » a se stesso, la via per arrivare a pensare il rapporto uomo-essere. Questo evento dell’essere si è caratterizzato dapprima genericamente come evento linguistico: l’uomo è gettato nell’apertura in quanto ha già sempre un certo linguaggio che, detto imprecisamente, delimita il cam­po della sua esperienza. Questo « delimitare » è un vero e proprio dare l’essere alla cosa da parte della parola; l’essere che la parola dà alla cosa è l’appartenenza all’apertura dell’essere, più originario e fondante rispetto a ogni essere come presenza in un àmbito spazio-temporale. Questa appartenenza è un bei-sich-verweilenlassen il Geviert. L ’evento linguistico, che dapprima appare come un esser già sempre gettato in un certo mondo linguistico-culturale, ora si è precisato e qualificato: nella parola che dà l’essere alla cosa anche il mondo si dà nella sua costituzione fondamentale, come quadratura dei quattro. L ’uomo è uno di questi quattro, ed è presente nel Geviert proprio con quel suo essere-per-la-morte che l’analitica esistenziale di Sein und Zeit gli ha riconosciuto come costitutivo.

Tuttavia, la ripetizione dell’analitica a cui Heidegger mira è una ripetizione che non si limita a ridire il già detto, ma comporta qualcosa di nuovo nella misura in cui riconduce il già detto a un livello più originario. Ora, come appare, nella luce del Geviert, l’essere-per-la-mor- te che già in Sein und Zeit caratterizza l’essere dell’esserci? Nella modificazione che il concetto di essere-per-la-morte ha subito da Sein und Zeit al Geviert, cioè ai saggi di Vorträge und Aufsätze e di Unterwegs zur Sprache, si riassume tutto il contenuto di quella « even- tualizzazione » degli esistenziali che è annunciata per la prima volta in maniera esplicita nel Brief über den Humanismus.

In Sein und Zeit l’essere-per-la-morte si identifica con l’esistere in quanto esserci come il proprio ci\ è solo in quanto anticipa la propria morte che luomo apre il mondo come un coordinarsi di possibilità ognuna delle quali, proprio in virtù della decisa anticipazione della morte, rimane aperta. L ’uomo ha un mondo e una storia proprio in quanto è quell’essere che può vivere la propria morte. In base alla riflessione sulla anticipazione della morte come essere per il proprio non esserci più si apre in Sein und Zeit la via a pensare il nesso fra

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essere e nulla e, conseguentemente, l’eventualità dell’essere. Ora, nella luce del concetto di evento, che si precisa come aprirsi del Geviert nel linguaggio, in cui la cosa e il mondo vengono all’essere, anche la morte, o meglio la « mortalità » come possibilità di vivere la morte, viene ripensata in maniera più originaria. Anche nella luce del Geviert, inizialmente, l’uomo come mortale è colui che apre l’àmbito entro il quale gli altri tre della quadratura consistono nel loro essere: luomo è infatti colui che « salva » la terra (nel senso che la lascia essere quello che è, il che è molto di più che impadronirsene per utilizzarla: questo modo è quello che riduce la terra a « oggetto » di manipolazione o di rappresentazione); egli si apre a ricevere il cielo, lasciando che la propria vita sia regolata dai suoi movimenti; e infine, l’uomo abita la terra come mortale in quanto « aspetta i divini », come tali, cioè attende i cenni del loro avvento e non misconosce i segni della loro assenza; non si fabbrica da sé le proprie divinità e non serve agli idoli (cfr. VA 150-51 [99-100]).

Fino a questo punto, tuttavia, benché il linguaggio sia diverso, siamo ancora in un àmbito compreso, o « comprensibile », dentro i confini di Sein und Zeit, solo più specificato, in quanto sono precisate le direzioni fondamentali nelle quali si dispiega il mondo aperto dal­l’uomo. Il mondo è fatto di cielo e terra, mortali e divini; ma i mortali ci stanno solo in quanto fanno essere gli altri tre, aprono l’àmbito entro cui quelli consistono. Fin qui, cioè, pare che il Geviert non sia altro che una qualificazione ulteriore del mondo inteso come esistenzia­le. Luomo resta il punto focale dell’apertura, mentre gli altri tre man­tengono una posizione ambigua, giacché, nell’àmbito del mondo come esistenziale, essi non possono essere altro, a rigore, che enti intra- mondani.

Il chiarimento della posizione dell’uomo nel Geviert in una prospetti­va nuova, e, parallelamente, il chiarimento dello status degli altri tre termini del quadrato, in un senso che non li lascia più identificare in alcun modo con l’ente intramondano 8, viene da una pagina di Unter­wegs zur Sprache nella quale Heidegger accosta esplicitamente i due caratteri costitutivi dell’esserci, l’essere-per-la-morte e il linguaggio. Gli animali non possono vivere la morte come tale, perciò vengono alla fine ma non sono per la propria fine; parallelamente, essi non hanno il linguaggio. Noi, invece, « apparteniamo al Geviert come mortali, e

8 Cfr. O, P ö g g e l e r , Der Denkweg Martin Heideggers, cit., 249: « Terra e cielo [e, a maggior ragione, umani e divini], non sono in generale nulla di essente, ma dei punti cardinali [Weltgegenden'] ».

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possiamo parlare solo in quanto rispondiamo [entsprechen] al linguag­gio ». In questa osservazione « il rapporto essenziale tra la morte e il linguaggio balena appena, ma rimane ancora non pensato » (US 215 [169]).

Nella luce del Geviert, Tessere-per-la-morte che costituisce l’autentico essere dell’esserci si identifica con il fatto che l’uomo, come mortale, parla solo in quanto risponde al linguaggio. La contrapposizione tra mortali e divini all’interno del Geviert si fonda su questo. I divini infatti sono sempre definiti come i « messaggeri » della divinità; il rapporto dei mortali con essi è uno stare attenti (attendere, aspettare) ai loro cenni. In tale modo, Tesserci appartiene davvero al Geviert', non è più solo colui che apre il mondo in quanto esistente. La funzione aprente, che pure Tesserci conserva, e che si esplica nel linguaggio, si rivela come fondata su e da un originario ascoltare. Se in tal modo si precisa l’appartenenza dell’esserci al Geviert, anche gli altri tre termini di questo si presentano in una luce che non può più essere in alcun modo quella dell’ente intramondano. L’uomo è uno dei quattro proprio perché i quattro non sono alla maniera dell’ente intramondano; anche il mondo, che si dispie­ga come Geviert, viene in luce in un senso diverso da quello che aveva in Sein und Zeit; e a tutto ciò corrisponde il concetto di cosa come non più riducibile a strumento o a semplice-presenza, concetto intorno a cui si articola per la prima volta, nel saggio sull’origine dell’opera d’arte, lo sviluppo dell’ontologia heideggeriana.

Se si riconosce che i quattro del Geviert non sono pensabili come enti intramondani né come categorie in cui si articoli la totalità dell’es- sente, anche il problema di una più precisa e netta definizione della natura di ciascuno di essi perde molta della sua importanza. L’uomo come mortale ascolta il linguaggio, come si è visto; ma, d’altra parte, sta attento ai cenni dei divini. A questa possibile confusione, si aggiun­ge la difficoltà di chiarire, in base alle pochissime indicazioni di Hei­degger, che cosa si debba intendere esattamente per terra e cielo. In realtà, queste preoccupazioni di precisione sono estranee al significato di questa dottrina heideggeriana. Esse nascono piuttosto dalla volontà di trovare nella dottrina del Geviert gli elementi di una cosmologia 9 o

9 Su ciò si vedano ancora le giuste osservazioni del PÖGGELER, Der Denkweg Martin Heideggers, cit., 254. Il Pöggeler stesso, però, nelle pagine seguenti, sembra troppo preoccu­pato, se ho inteso bene, di mostrare la validità dell’impostazione heideggeriana anche in vista della conoscenza e indagine « scientifica » del mondo (mondo degli organismi, concet­to di corpo, ecc.): ora, tutto questo tipo di conoscenza e indagine sul mondo rientra nell’àmbito delle diverse aperture storiche e in fondo, a rigore, la filosofia come riflessione sull’aprirsi dell’apertura (non sulle sue creature, sulla sua « logica >> interna) non serve né a fondarle, nel senso consueto del termine, né a indicar loro le vie. E su un piano totalmente diverso.

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di una teologia. Il testo heideggeriano offre però pochissimi appigli per usi del genere, e ciò non è senza significato. Il fatto è che qui siamo di fronte a concetti, alcuni anche letteralmente, analoghi a quelli di terra e mondo elaborati nel saggio sull’origine dell’opera d’arte. Anche là risultava difficile precisare una volta per tutte che cosa si dovesse intendere con l’un termine e con l’altro. La soluzione, in quel caso come in questo del Geviert, è considerare ciascun termine delle coppie (terra-mondo; terra-cielo; mortali-divini) come relativo all’altro, non in un senso dialettico, ma nel senso che ogni coppia intende semplicemen­te illuminare l’eventualità dell’apertura in cui viene in luce. Pretende­re di assegnare a ogni termine un significato definito e definitivo significa involgere artificiosamente Heidegger in una quantità di con­traddizioni, quelle su cui insistono tanto interpreti scarsamente aperti al senso del suo pensiero. NelYUrsprung des Kunstwerkes la terra è opposta al mondo, mentre nel concetto di Geviert essa è uno dei quattro in cui appunto il mondo si dispiega e si articola. Si tratta di una ennesima discrepanza tra il « primo » (ma sarebbe già il secondo, quello delYUrsprung) e « l’ultimo » Heidegger?

La spiegazione va cercata in altra direzione, ed è quella che valeva già per il rapporto mondo-terra nel saggio sull’origine dell’opera d’arte. Là, mondo e terra stavano solo a indicare che all’interno dell’opera d’arte, proprio in quanto essa è messa-in-opera della verità, si riprodu­ce (o meglio, si attua) il conflitto tra nascondimento e non-nascondi- mento in cui « nasce » la verità. Nel Geviert accade lo stesso: proprio in quanto esso è l’aprirsi dell’evento originario dell’essere, l’accadere dell’essere come mondo, nella sua stessa struttura è riconoscibile l’even­tualità dell’evento. In quanto, per così dire, è il « prodotto » di un evento, l’evento in quanto avvenuto, il Geviert porta in sé il marchio dell’eventualità. Solo per questo è possibile l’ontologia, e nella forma della ripetizione ontologica dell’analitica esistenziale: l’essere non è qualcosa a cui si debba arrivare, perché non è nulla che stia al di fuori o al di sopra del proprio evento (e quindi l’ontologia è già sempre fondata nella sua possibilità); ma, allora, l’evento non è una via o un segno per scoprire il senso dell’essere: è invece questo stesso « senso » in atto. La tensione che si stabilisce all’interno del Geviert tra i quattro non è nient’altro che la struttura dell’essere come evento, la sua eventualità. Chiarire la posizione dell’uomo nel Geviert e alla luce del Geviert è il vero modo di ripetere ontologicamente l’analitica esi­stenziale. Il Geviert non « simboleggia » il rapporto uomo-essere; è questo stesso rapporto in atto e quindi anche l’unico modo in cui lo si possa cogliere.

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In quanto è l’unico autentico modo di ripetere ontologicamente l’analitica esistenziale, il Geviert è anche Tunica via di riproporre, nel pensiero heideggeriano, il problema di Dio e della religiosità. Non solo perché è qui più che altrove che Heidegger parla esplicitamente della divinità; ma soprattutto perché, posto dal punto di vista del Geviert, il problema religioso non rischia in nessun modo di venir ricondotto al problema « metafisico » dell’esistenza o non esistenza di Dio. E chia­ro infatti, come si è visto, che i quattro del Geviert non sono degli enti alla maniera delle cose intramondane. Quindi, se si intende il proble­ma della « esistenza » di Dio come problema del suo esser dato come un ente, sia pure l’ente supremo, in qualche modo incontrabile alla maniera dell’ente intramondano (per esempio, come fondamento e cau­sa della catena di cause ed effetti in cui la totalità dell’ente consiste), il Geviert non ha nulla da dire su di esso. Questo è infatti il modo in cui la metafisica concepisce Dio; il nome metafisico di Dio è « causa sui ». « A questo Dio Tuomo non può presentare preghiere o sacrifici. Davan­ti alla causa sui Tuomo non può cadere in ginocchio per il timore, né può, davanti a questo Dio, far musica o danzare » (ID 70 [35-36]).

Il pensiero metafisico, che pure parla tanto di Dio, almeno fino a un certo punto della sua storia, cioè fino a quando non si è totalmente dispiegata la sua sostanza nichilistica, impedisce un vero rapporto reli­gioso con Dio. Il problema della filosofia che abbia sperimentato la dimenticanza dell’essere che domina il pensiero metafisico e ne sia consapevole non può essere quello di « stabilire » l’esistenza di Dio, ma semmai di riaprire la possibilità di un rapporto religioso con Lui. Per questo, si può dire che è più vicino alla divinità di Dio il pensiero senza-Dio (che non equivale ad ateo), come quello di Nietzsche il quale, con la sua sentenza « Dio è morto », intese appunto annunciare la morte del Dio della metafisica, del Dio come causa suprema, come « spiegazione » e « fondamento » delle cose 10. Questo pensiero senza- Dio ha almeno il merito di svelare la sostanza irreligiosa della metafisi­ca. Ciò che la metafisica fa sparire è la stessa dimensione del Sacro, in cui soltanto il problema di Dio, non come problema filosofico ma come problema di un rapporto religioso con Lui, si pone all’uomo (cfr.

10 Cfr. F. N ie t z sc h e , Werke, ed. Naumann, Lipsia 1899 ss., vol. XIII, 75 [Opere, cit., vol. VII, tomo III, 307]: « La confutazione di Dio: propriamente, è solo il Dio morale che è confutato ». Il passo è ricordato da Heidegger in un articolo uscito nella « Neue Zürcher Zeitung » del 27 settembre 1959, Aufzeichnungen aus der Werkstatt, che cito dal P ö g g e­l e r , Der Denkweg Martin Heideggers, cit., 262: la frase di Nietzsche, scrive Heidegger, significa che « il Dio pensato come valore, sia pure come valore supremo, non è Dio. Dio quindi non è morto, poiché vive la sua divinità. Esso è più vicino al pensiero che alla fede... ».

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HB 37 [303]). Tutta la speculazione heideggeriana, tesa a recuperare le dimensioni autentiche dell’esistenza umana come rapporto con Tesse­re, anche se non parla, o parla poco, esplicitamente di Dio, è uno sforzo per ricostruire la possibilità di un rapporto religioso. In questa direzione, il massimo risultato raggiunto da Heidegger è proprio la dottrina del Geviert.

La dottrina del Geviert non parla di Dio, ma di « divini » (che non va tradotto con « dèi », anche se altrove, commentando Hölderlin, Heidegger usa questa espressione: cfr. EH 43-44 [56-57]. Il Geviert non comprende Dio, ma i « divini », come « direzione divina ». Dio non fa parte del Geviert11 ; ne fa parte invece la direzione del Sacro entro cui Tuomo come mortale è aperto a una possibile esperienza religiosa. La caratteristica fondamentale dell’esperienza religiosa, nella prospettiva del Geviert, è l’ascoltare: Tuomo è mortale e sta davanti alla divinità in quanto ascolta, in quanto il suo parlare è un ascoltare. Se si tiene conto che il parlare è per Tuomo la sua stessa apertura, come da, cioè che Tuomo c’è in quanto parla, si vedrà che questo rapporto religioso come ascoltare implica tutto Tessere dell’uomo, una messa a disposizione totale che ha tutte le caratteristiche, almeno dal punto di vista umano, della fede come è vista nella teologia cristiana.

Se tuttavia vale quanto è stato detto circa il rimandare del concetto di Geviert all’eventualità dell’evento, in modo che non importa tanto chi siano i termini singoli del Geviert quanto il loro rapporto, nel quale si annuncia il rapporto delTuomo con Tessere, non si dovrà dire che lo stesso rapporto religioso come il Geviert lo presenta o almeno lo rende pensabile è piuttosto da considerare come una sorta di allegoria del

11 Su questo, tuttavia, il pensiero di Heidegger è ambiguo: si vedano i passi riportati dal P ö g g e l e r , Der Denkweg Martin Heideggers, cit., 262-63, dai Beiträge zur Philosophie, un inedito risalente agli anni 1936-38. Questi Beiträge, scrive il Pöggeler, « si concludono, invero necessariamente, con il problema di Dio. In questo scritto Tessere è pensato in quanto Tessere stesso, e quindi come l'evento del non-nascondimento. Il non-nascondimen- to si raccoglie in ciò, che in esso può parlare un appello divino che tutto determina e trasforma e può giungere all’uomo ». In questo testo Heidegger parla di Unterschied che « entscheidet e er-eignet uomini e dèi », il che fa pensare che questi ultimi appartengano al Geviert. Quanto all’uso di « dèi » al plurale, esso è giustamente spiegato dal Pöggeler: « siccome la decisione da cui dipende se e come Dio si rivolge all’uomo non è mai affare dell’uomo e il pensiero che cerca la verità dell’essere deve lasciare tale decisione impregiudi­cata, Heidegger parla in modo indeterminato sia di “Dio” sia di “dèi” » (p. 263). Per il Pöggeler è indubbio il significato religioso del pensiero heideggeriano; cfr. p. 262: « Hei­degger può porre il problema di Dio in maniera nuova perché secondo la sua esperienza non è la divinità di Dio che è confutata, ma solo Tessenza divina come la pensa la metafisi­ca ». Del Pöggeler si vedano anche ìe importanti note al capitolo citato, pp. 311-13, sul significato del pensiero heideggeriano per la teologia, con riferimenti a scritti recenti di teologi soprattutto protestanti.

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rapporto uomo-essere, che rimane però il fondamentale? La « religiosi­tà » del pensiero di Heidegger, nella misura in cui se ne può parlare, rimarrebbe cioè una religiosità laica, e l’uomo che sta attento ai cenni della divinità sarebbe solo una immagine per indicare un rapporto religioso-secolarizzato tra l’uomo e l’essere. Ora, parlare di un significa­to allegorico del rapporto uomo-divinità come si prospetta nel Geviert sarebbe possibile solo se fosse dimostrato che il rapporto uomo-essere si dà in altro modo, e che non è raggiungibile come tale nel linguaggio, il quale è quindi costretto a servirsi di una allegoria religiosa. Ma il concetto di evento dell’essere esclude un tale darsi del rapporto; dal punto di vista del concetto di evento sarebbe altrettanto vero dire che il rapporto uomo-essere è una allegoria del rapporto uomo-divinità. Non solo il rapporto con l’essere non è tale che lo si possa pensare come precedente al rapporto con la divinità, cioè precedente alPaprirsi delfevento, ma, sotto un altro punto di vista, nel pensiero di Heideg­ger manca assolutamente il concetto di una « priorità » della filosofia rispetto alle altre forme dell’esperienza umana, per cui si debba ritene­re che gli altri rapporti, ad esempio quello religioso, valgano per il filosofo solo in quanto derivati o simboli o allegorie del rapporto fondamentale tra Tuomo e Tessere. Se di una allegoria, nel senso letterale del rimandare e del dire altro, si può parlare, essa non può che essere reciproca; il pensiero e l’esperienza religiosa sono due modi di incontrare Tevento dell’essere, che rimane unico. Con questo, si intende, i problemi del rapporto esperienza religiosa-pensiero filosofico sono appena posti. Si deve però notare che, nel pensiero di Heidegger, una delle maggiori difficoltà tradizionali che impedivano la soluzione di tale problema, cioè la visione razionalistica del pensiero, necessaria­mente chiusa alla possibilità della fede in quanto ammissione di una ineffabilità, non sussiste più. Il Denken è ben lontano dall’essere la ragione tutta spiegata che ha divorato, o almeno tende a divorare, ogni presupposto.

5. ha struttura dell’evento

Il rapporto religioso in cui, nell’ambito del Geviert, il mortale si caratterizza come colui che parla solo in quanto ascolta, ci porta in presenza della struttura dell’evento dell’essere. Il Geviert, come già s’è detto, non è segno o indicazione di questa struttura dell’evento, ma è Tevento stesso in atto. Dall essere pensato come Geviert deriva all’even­to una precisazione del suo significato. Il Geviert, infatti, rivela il

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significato più fondamentale del concetto di Ereignis, che non è tanto,o prima di tutto, quello del darsi istantaneo di una illuminazione in cui la totalità dell’ente viene all’essere — come ancora potrebbe apparire se si pensa levento principalmente in base a Sein und Zeit e a Was ist Metaphysik? ; ciò che caratterizza l’evento dell’essere è fondamental­mente il movimento del reciproco rimandare dei termini. Così, nel Geviert, l’uomo parla in quanto ascolta; il suo progettare è un progetta­re gettato; egli si definisce come mortale solo in rapporto ai divini. Ora, tutto questo movimento di rapporti che anima il Geviert è solo il dispiegarsi del movimento originario che si istituisce tra Tuomo e Tessere e che costituisce YEreignis. L ’uomo infatti, nel linguaggio, dà Tessere alle cose, ma solo in quanto lo riceve (parla in quanto ascolta). L’essere, d’altra parte, non è {west, waltet) se non nell’apertura aperta dalTuomo. « L ’uomo è appropriato [yereignet] all’essere, Tessere dal canto suo è consegnato \zugeeignet] all’uomo » (ID 28 [12]).

Questo passare dell’essere all’uomo e dell’uomo all’essere è un XJber-eignen, o Übergang, di cui non si può indicare il punto di partenza e a cui perciò si addice il termine Ereignis. Nel reciproco Übereignen Tessere e Tuomo sono anzitutto appropriati {er-eignet o ver~eignet) ciascuno a se stesso, e in questo senso sono « eventualizza- ti » nel significato comune del termine, fatti essere ciascuno quel che è. Una sorta di Über-eignen di questo tipo si dà anche fra Tessere e gli enti in generale: Tessere degli enti è Tessere degli enti, cioè qualco­sa che non si riduce semplicemente ad essi: si può chiedere infatti che cos’è ciò per cui gli enti sono enti; ma, d'altro lato, Tessere non è altro che Tessere degli enti, cioè non è trovabile altrove che in essi. E questo il vero senso della differenza ontologica, per cui Tessere appar­tiene agli enti ma anche se ne distingue e non vi si riduce mai. Non si può indicare l’uno o gli altri come fondamento o causa (cfr. ID 62 [28]). Non si tratta nemmeno di un rapporto dialettico, tuttavia (cfr. ÏD 23 [9]): anche concepirlo così implica che i due termini consista­no separatamente, sia pure come richiamantisi. L 'Ereignis invece è uno. Questa sua rigorosa unità, che esclude anche la distinzione impli­cita in un rapporto dialettico, implica che, nell’atto stesso in cui sono ver-eignet, appropriati ciascuno a sé, i termini del rapporto sono an­che ent-eignet, espropriati, consegnati ciascuno all’altro nel movimen­to delYXJbereignen. UEreignis è Tintrecciarsi di questo duplice movi­mento in cui essere e uomo sono reciprocamente übereignet, appro­priati ciascuno a sé e insieme assegnati all’altro. E questo movimento che anima il Geviert: in esso, ognuno dei quattro fa essere presenti gli altri tre, ne è anzi uno specchio, sicché il Geviert costituisce il « gioco

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dello specchio del mondo » (Spiegel-Spiel der Welt) (cfr. VA 178 ss. [119 ss.]).

Anche se YUbereignen che costituisce la struttura dell’evento si può cogliere tra gli enti in generale e Tessere, gli enti come tali non hanno un rapporto « immediato » con Tessere. Chi apre il mondo dentro cui gli enti vengono all’essere è Tuomo; il reciproco Übereignen tra essere ed enti avviene nell’apertura aperta dall’esserci. Parlare della differenza ontologica come se essa riguardasse anzitutto Tessere e gli enti, e non invece anzitutto Tessere e Tuomo, è un modo per ridurre Heidegger entro i termini della metafisica 12. La differenza ontologica si dà anzi­tutto e originariamente al livello dell’apertura; perciò XÜbereignen che lega Tuomo all’essere è la struttura fondamentale dell’evento, che rende possibile ogni altro movimento di ver-eignen e ent-eignen. Que-

12 È ciò che accade anche agli interpreti più attenti che non connettono abbastanza il problema della differenza ontologica al linguaggio. Così A. D o n d ey n e , La différence ontolo­gique chez M. Heidegger, in « Revue philosophique de Louvain », 1958, 35-62 e 251-93: pur tenendo conto che questo saggio è stato scritto prima della pubblicazione in volume dei saggi di Unterwegs zur Sprache, sembra che la questione del linguaggio vi sia trattata troppo marginalmente. Così il linguaggio, secondo l’autore, deve essere analizzato per risalire alle strutture delPesserci (è quindi solo uno sviluppo dell’analitica esistenziale, non una ripetizione ontologica di essa). Heidegger, secondo il Dondeyne, ha preso sul serio il miracolo del linguaggio e l’ha seguito fino alla sua più remota radice. Ma « va da sé che questa radice deve essere cercata in ultima analisi nella struttura stessa del nostro “Sein” come “Sein-da” » (p. 42). Così, la questione della interruzione di Sein und Zeit si spiega solo con il venir meno del linguaggio visto ancora, in fondo, come semplice strumento (cfr. p. 252). DÌ conseguenza, pare a noi, i problemi che l’autore pone circa il pensiero heidegge­riano risentono ancora di una certa impostazione « metafisica » (cfr. pp. 258-60); di sapore ancora « metafisico » è la conclusione a cui il Dondeyne perviene. L ’essere heideggeriano, che si identifica con l’aprirsi dell’apertura della verità, non è che Tessere delle cose per noi, per la nostra coscienza. Il Dondeyne ha ragione ad affermare che il problema dell’essenza della verità non è quello della esistenza di Dio; e su ciò cfr. quanto diciamo in questo stesso capìtolo sulla divinità nella prospettiva del Geviert. Ma ciò non per la ragione che egli indica, e cioè perché « si tratta dell’origine in noi [la sottolineatura è dell’autore] della verità, di ciò che in noi la rende intrinsecamente possibile [ermöglichen], cioè di ciò che originariamente “accade” in noi nell’evento della verità, giacché questo evento è un evento della esistenza umana » (pp. 284-85). In tale prospettiva, la problematica heideggeriana dell’essere corrisponderebbe a quella scolastica dell’intelletto agente (cfr. p. 289). Col che, Heidegger è ricondotto completamente entro l’ambito della metafisica (cfr. anche p. 49, dove Heidegger è collocato nella tradizione della philosophia perennis), anzi si direbbe, dal punto di vista heideggeriano, entro Tambito della « logica », cioè della riflessione metafisica sul pensiero. Per l’apertura della verità come non concernente Tessere nel senso della presenza o sussistenza delle cose (senso che però presso questi interpreti viene mantenuto) ma solo la coscienza e il conoscere, si vedano anche le pagine già ricordate dl F. W ip lin ­g e r , Wahrheit und Geschichtlichkeit, cit., 313-14, sul senso « aletheiologico » dell’evento. La stessa insufficiente connessione tra differenza ontologica e nuova posizione davanti al linguaggio si rileva nel saggio di W .J. R ic h a rd so n , Heidegger and thè Problem ofThought, in « Revue philosophique de Louvain », 1962, 58-78 (crr. specialmente pp. 65 ss.). Utili osservazioni ha invece, sul nesso evento-linguaggio, il M a rx , Heidegger una die Tradition, cit., 203-5, che però restano poco sviluppate.

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sta è la ragione per cui Heidegger può dire che il modo più appropria­to, e cioè autentico e originario, delYEreignis è il linguaggio (cfr. US 262 [207]). Il « luogo » dove si eventualizza ogni rapporto tra essere ed enti, in cui cioè si dà Tessere di qualunque cosa, non è il mondo come insieme di semplici-presenze, ma la parola. Per questo, YUberei- gnen che si dà nel linguaggio — in cui il linguaggio è tutto nel parlare delTuomo ma d’altra parte non si riduce a questo parlare, perché invece costituisce l’appello a cui questo parlare risponde e da cui è reso possibile — non è un caso particolare del rapporto essere-enti, e nean­che la manifestazione tipica di questo rapporto, bensì è Tevento stesso delTessere entro cui ogni altro Er-eignen accade e diventa visibile. Se uno sviluppo ce nel tardo pensiero di Heidegger, esso consiste nel restringersi progressivo del concetto di evento a quello di linguaggio. Identität und Differenz parla ancora di un Übereignen tra essere ed enti; Unterwegs zur Sprache, i cui ultimi tre saggi sono posteriori a Identität und Differenz, concepisce ormai YEr-eignen solo in rapporto al linguaggio, cioè in maniera più originaria.

Come si precisa, nel linguaggio, Tappropriante espropriare che lega Tuomo e Tessere nell’evento? Heidegger adopera per indicare la com­plessità di tale rapporto il termine Bezug, assunto in due dei suoi possibili significati (cfr. US 125 [107]; e S F 2 7 [356]): non solo come rapporto, ma anche come « acquisto », il procurarsi ciò di cui si ha bisogno. L ’uomo, nel linguaggio, è in rapporto con Tessere in quanto è a sua disposizione, è in Bezug con Tessere perché è Bezug (acquisto) delTessere; Tessere ne ha bisogno e lo impiega come proprio messagge­ro (cfr. US 155 [124]). Il progetto in cui il mondo viene alla luce è il « luogo » in cui Tessere si eventualizza: è Tessere che apre Tapertura in cui il mondo si mondeggia, e Tapre attraverso Tuomo. L ’essere braucht Tuomo come proprio messaggero: cioè, secondo Ì due significati, inse­parabili nel testo heideggeriano, del verbo brauchen, Tessere usa Tuo­mo, ma perché ne ha bisogno:

Parliamo di « Bezug » anche per indicare Taver bisogno e il procurarsi, Tacquistare le cose che ci occorrono... Che Tuomo stia in Bezug non significa che egli sia una cosa [Ware]. Anzi, proprio all’opposto, la parola « Bezug » vuole indicare che Tuomo è impiegato [gebraucht] in ciò che egli autenticamente è, e appartiene proprio come uomo a un impiego [Brauch] che si rivolge a lui con autorità [ihn beansprucht] (US 125 [107]).

Se dunque Tessere usa Tuomo come proprio messaggero, facendosi valere su di lui con un appello pieno di autorità, ciò non significa un violare l’umanità delTuomo. L ’uomo è « scelto », si potrebbe dire,

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come messaggero delTessere proprio perché non è un ente intramonda- no, ma Tesserci, a cui, nel suo essere, ne va di questo essere stesso. L ’uso che Tessere fa dell uomo è dunque un uso tutto particolare, che non si può in alcun modo paragonare al nostro servirci degli strumenti intramondani. Ciò che caratterizza quest’uso è che Tessere ha bisogno dell’uomo non per qualche scopo particolare e accidentale, ma per darsi come l’essere. L ’uomo è appropriato all’essere solo in quanto Tessere è consegnato a lui.

Diciamo troppo poco delTessere in sé quando, dicendo « Tessere », lascia­mo fuori il suo esser presente [An-wesen] all’uomo [Menschenwesen], misconoscendo così che quest’ultimo entra esso stesso a costituire « Tesse­re ». Anche delTuomo diciamo sempre troppo poco quando, dicendo « Tessere » (non Tessere delTuomo), poniamo Tuomo per se stesso e solo in un secondo tempo lo mettiamo in relazione con « Tessere ». Ma diciamo anche troppo, se intendiamo Tessere come ciò che abbraccia in sé tutto e ci rappresentiamo Tuomo solo come un ente particolare fra altri (piante, animali) ponendolo poi in rapporto con Tessere; giacché già nell’essenza delTuomo è contenuta costitutivamente la relazione a ciò che, proprio attraverso tale rapporto [Bezug], che è un rapportarsi nel senso di aver bisogno [Brauchen], è determinato [bestimmt] come essere e quindi sottratto al suo preteso « essere in sé e per sé » (SF 27 [356-357].

L ’evento dell’essere è tale in senso soggettivo (Tevento è evento che appartiene all’essere e, come tale, è anzitutto affare delTessere), ma anche e nella stessa misura in senso oggettivo (Tessere non è se non nel suo evento). L ’uomo è « usato » dall’essere, ma ciò non significa che sia uno strumento paragonabile ad altri; tanto è vero che non è pensabile che Tessere ne possa fare a meno o lo possa sostituire con altri. L ’essere ha bisogno delTuomo perché non è altro che annuncio, come apparirà pienamente chiaro dall’elaborazione del concetto di er­meneutica.

Tale originaria appartenenza reciproca di essere e uomo precede tutte le possibili determinazioni che la metafisica ha attribuito alTes- sere; anche le leggi e i princìpi che paiono più indiscutibili e univer­sali, come il principio di identità, sono eventi che si eventualizzano solo dentro all’originario Übereignen di essere e uomo. È vero che ogni possibile apertura dell’essere sì apre appropriando ciascuna cosa a se stessa, per cui ogni rapporto con gli enti è possibile solo alla base del fatto che A è A; ma questa « struttura delTessere » (ossia dell’ente nella sua totalità, nel linguaggio della metafisica) è essa stessa una struttura eventuale, è un carattere dell’apertura. L ’identità, originaria- mente, non è questa, che « appartiene all’essere »; è piuttosto un’identi-

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tà a cui Tessere stesso appartiene, quella che si annuncia alle origini del pensiero occidentale nella sentenza di Parmenide sull’identità tra essere e pensiero (cfr. ID 18 ss. [6 ss.]).

Il Bezug tra essere e uomo che costituisce la struttura dell’Ereignis e che accade originariamente nel linguaggio come parlare (da parte del- Tuomo) che è anche un ascoltare (il linguaggio), non qualifica solo Tuomo, ma anche Tessere. L ’essere ha bisogno delluomo come messag­gero. Ciò, nel pensiero di Heidegger, non ha in nessun modo il senso di una limitazione e di un impoverimento dell’essere; così come il fatto di venire « usato » dall’essere non significa una violazione dell’umanità dell uomo. L ’essere sarebbe limitato e impoverito da questo suo rappor­to necessario (nel senso del bisogno) con Tuomo solo se fosse ancora concepito come la totalità dell’ente, cioè alla maniera della metafisica. Riuscirebbe allora incomprensibile come una tale totalità abbia biso­gno dell’uomo per darsi. Ora, si è visto che per Heidegger Tessere non può più pensarsi così: esso, nella misura in cui se ne può parlare, è solo pensabile come lo stesso non poter consistere da sé (in sé e per sé) dell’uomo e degli enti, come l’altro che nelTeventualizzarsi di ogni ente è sempre richiamato ma non esaurito dall’essere dell’ente stesso, il quale piuttosto è quello che è solo in virtù di esso. Da questo punto di vista, Tessere si identifica con la differenza pensata come tale di cui parla la seconda parte di Identität und Differenz (cfr. ID 43 [21]). Tenendo presente questo, si chiarisce ulteriormente in che senso l’onto­logia heideggeriana non possa mai essere altro che una ripetizione dell’analitica esistenziale ripensata nella sua eventualità, nel suo richia­mare un « altro » nel rapporto (Bezug) col quale Tesistenza accade. Il concetto di Geworfenheit, Tessere-gettato, che è così centrale in Sein und Zeit, rimane decisivo, da questo punto di vista, anche per la speculazione ontologica successiva. Ripetere Tanalitica dal punto di vista dell’evento, e cioè fare Tontologia nelTunico modo in cui essa è possibile, significa fare una teoria della Geworfenheit13. L ’essere, cioè, è solo pensabile come « l’altro », il gettante di quel progetto che io stesso sono. Il sottrarsi dell’essere mentre dà gli enti, la sua costitutiva epocalità, non è un evento nel senso che potrebbe darsi un momento

13 A una interpretazione analoga a questa accenna il W ip l in g e r , Wahrheit und Geschi­chtlichkeit, cit., 318 e 327: il discorso heideggeriano sul Geschick e il darsi-celarsi dell’esse­re nell’illuminazione della verità è il vero senso della Geworfenheit di cui parlava Sein und Zeit che solo adesso viene in luce nella sua vera radice. Un più netto e conclusivo rapporto tra Geworfenheit e ontologia, nel senso che questa rimane sempre una teoria di quella, si può stabilire solo chiarendo ulteriormente il nesso essere-linguaggio e il concetto heidegge­riano di hermeneia.

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storico in cui tale sottrarsi non accade più; è invece connesso con la struttura stessa dell’evento come Ereignis, appropriante espropriare. Nell’evento, Tessere è sempre l’altro che si coglie solo come altro, come differenza permanentemente irrisolvibile in una identità. Di qui deriverà tutta la particolarissima struttura dell’ermeneutica heideggeria­na e anche la sua accentuazione ontologica. Il rapporto con l’altro come altro è infatti ciò che si annuncia nel linguaggio.

6. Linguaggio e silenzio

Fin qui Tevento linguistico in cui si dispiega il reciproco appropriar- si-espropriarsi di uomo ed essere è stato indagato solo dal punto di vista delTuomo come colui che parla in quanto ascolta. È possibile tuttavia chiarire a chi spetta la parte attiva in questo singolare rapporto delTuomo col linguaggio in cui si cela il mistero del rapporto delTuo­mo con Tessere?

Anzitutto bisogna precisare che è solo apparente Tincongruenza tra le due tesi che si incontrano in Unterwegs zur Sprache, e cioè che Tuomo è il messaggero dell’essere e che, d’altra parte, egli parla in quanto ascolta il linguaggio. L ’incongruenza si fonderebbe sul rifiuto heideggeriano di identificare tout court essere e linguaggio. Si può domandare allora: Tuomo ascolta il linguaggio o ascolta Tessere? Ora, che Tuomo sia definito messaggero dell’essere non implica che, necessa­riamente, quello che gli parla sia Tessere. Piuttosto, nel rapporto del­Tuomo col linguaggio, nel suo parlare solo in quanto ascolta, si cela il mistero dell’essere. E studiando tale rapporto (non però che Tessere si identifichi col rapporto) che si possono trovare cenni {Winke) e indica­zioni per pensare il rapporto uomo-essere.

In quanto ogni parlare umano è anzitutto un ascoltare il linguaggio, si può dire secondo Heidegger che non Tuomo, anzitutto, ma il linguag­gio stesso parla {die Sprache spricht: US 20 [33] e passim). La proposi­zione, come sempre, può e deve essere accentuata in entrambi i modi possibili: è il linguaggio che parla, sicché il parlare dell’uomo non è originario in senso assoluto, è già un rispondere. D’altra parte, il linguaggio parla, cioè non si dà altrove che nel parlare stesso. Questo parlare, però, si riconosce sempre anzitutto come un ascoltare, confor­memente alla polarità che si stabilisce sempre alTinterno dell’evento. Ma, ancora, un ascoltare che cosa o chi?

A prima vista, il fenomeno del parlare come ascoltare si annuncia nel fatto che ogni discorso parla sempre in quanto usa un determinato

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linguaggio, storicamente dato, di cui non può disporre in maniera arbitraria. Il linguaggio in cui mi trovo gettato, data la sua funzione aprente rispetto a ogni altra mia possibile « esperienza », è la mia stessa situazione. Si dirà allora che il linguaggio che l’uomo, in quanto parla, ascolta, è il linguaggio storico in cui egli si trova già sempre gettato. È questa la tipica soluzione storicistica, caratterizzata dal risalire alle origini lungo una stessa linea, senza arrivare mai a una vera Er-örterung, a una autentica collocazione della linea di anteceden­ti e conseguenti nel suo luogo, nell’apertura che la rende possibile nella sua totalità. Dire che parlo in quanto ascolto il linguaggio come linguaggio storico è un rimanere alla superficie, al primo modo di presentarsi del fenomeno, spostando solo nel passato il problema. L ’obiezione di inutilità che la mentalità comune fa valere talvolta contro il ragionamento filosofico che cerca di raggiungere l’originarietà (la storia dell’uovo e della gallina) vale proprio solo contro quel tipo di ragionamento filosofico storicistico che, invece di porre il problema del « luogo » in cui la totalità dei fondamenti fondati è possibile, risale lungo la linea sperando di arrivare al primo anello o, all’opposto — ma concependo sempre la fondazione come concatenazione su una stessa linea — dichiara inutile tentare di abbracciarla tutta, e si limita a cercar di definire, con lo stesso schema di ragionamento, la situazione più prossima.

Il linguaggio che l’uomo in quanto parla ascolta, quel linguaggio che parla proprio nel parlare dell’uomo senza ridursi a questo parlare, non può esser dunque concepito come un darsi articolato di suoni e di segni, come una struttura di simboli e di regole per connetterli. Se è così, però, avrà ancora qualcosa da fare col linguaggio? Sembra che, se non è nulla di tutto questo, e cioè segni e regole sintattiche, discorso articolato, parola udibile, si tratti di qualcosa dì totalmente diverso dal linguaggio. E tuttavia è nel linguaggio che noi lo incontriamo, questo qualcosa che non è linguaggio nel senso corrente del termine. È proprio nel linguaggio in quanto parlare che nasce il problema della presenza di un « altro » che questo parlare fonda e rende anzitutto possibile. Il caso del linguaggio è diverso da quello di ogni altra ricerca di origine e di fondamento. Anche nel caso, per esempio, dell’origine di me come essere naturale si pone il problema di un « altro » che fonda: posso cercare di risalire lungo la catena delle cause naturali, genitori, avi, specie naturali diverse; oppure posso cercare il « luogo » entro cui tale darsi di concatenazioni causali è possibile. Ma, appunto, se poniamo il problema in questo secondo modo (quello autenticamen­te filosofico), troviamo che il « luogo » entro cui soltanto può pensarsi

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la catena delle cause naturali è proprio il linguaggio. Ogni problema circa le origini, cioè, si può porre solo già entro un quadro linguistico. Anche il più convinto atteggiamento naturalistico è già sempre un evento linguistico, è un certo modo di affrontare il mondo usando un linguaggio piuttosto che un altro. La situazione di chi filosofa sul linguaggio e quella di chi cerca le origini delle cose non sono analoghe, ma anzi profondamente diverse. Chi cerca l’origine, o, diciamo meglio, chi pone il problema dell’essere, in base al linguaggio muove da un fenomeno fondante e aprente rispetto a tutti gli altri. E del resto un corollario che discende direttamente dalla distinzione tra essere ed enti, dalla differenza ontologica: se l’essere non è un ente o la totalità degli enti, l’unico luogo dove lo si può cogliere è l’aprirsi dell’apertura, cioè il linguaggio.

Ciò che l’uomo, in quanto mortale, ascolta e in virtù di cui parla, anche se non si può identificare con un linguaggio come struttura linguistica di parole e di regole sintattiche, è linguaggio perché nel linguaggio si fa presente e viene in luce; non può essere altro in quanto ogni « altro » dal linguaggio è sempre « dopo » il linguaggio, e non può essere assunto a suo fondamento. L ’ascoltare che l’uomo sperimenta nel parlare è un ascoltare non mai riducibile a un rapporto con gli enti, per esempio con la storia del mondo a cui appartiene o con gli stessi contenuti, consci o inconsci, della sua psiche. Per questo, è un ascoltare che ci porta alla presenza del rapporto uomo-essere.

Questo linguaggio non strutturato linguisticamente, che non è paro­la nel senso consueto del termine, è ciò che Heidegger chiama la Sage, che è bene tradurre alla lettera con « saga », giacché, sebbene il senso che egli vi attribuisce sia dichiaratamente diverso, la scelta di questo termine e il significato comune che esso ha non sono indifferenti al contenuto del pensiero che vi si esprime. Sage è il discorso originario, il linguaggio senza parole che l’uomo ascolta e in base a cui si può formulare ogni discorso esplicito, ogni Aussage: VAus-sage, l’enuncia­zione o dichiarazione, è possibile solo in base alla Sage, ma questa, proprio per la sua funzione possibilizzante, non è mai risolvibile in quella. Così ogni discorso sul linguaggio è sempre un discorso dal linguaggio; il discorso è nel linguaggio, ma il linguaggio, totalmente, nel discorso. La saga è il dire (Sagen) originario da cui ogni dire esplicito muove e a cui sempre rimanda come alla propria possibilità.

In quanto dire originario entro cui ogni enunciazione esplicita diven­ta possibile, la saga non è discorso significante-, il suo modo di dire non è propriamente il significare, ma lo Zeigen, il mostrare o l’indicare, il far apparire (cfr. US 145 [118-119]). Essa è l’apertura entro cui il

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mondo stesso si illumina e che rende possibile parlare delle cose. Come « erscheinen lassen, lichtend-verbergend freigeben als darrei­chen dessen, was wir Welt nennen » (far apparire, illuminante-celante aprire, come porgere nel da, di ciò che noi chiamiamo mondo: US 200 [157]), la saga conserva così anche il senso comune di favola cosmogo­nica, di racconto in cui si riferisce circa le origini del mondo e che ci viene dal tempo delle origini. In questo senso si può dire che, benché Heidegger neghi esplicitamente (cfr. US 253 [199]) che la Sage alluda al mito e alla favola, una certa risonanza del senso comune e letterale del termine rimane, e forse ha più peso di quanto Heidegger stesso gliene riconosca.

Un intrecciarsi analogo di significato letterale e significato specifico si ha nell’elaborazione heideggeriana del concetto di Bewegung, che viene utilizzato per la precisazione di quello di Sage. L ’Ereignis, che apre il mondo come gioco dei rimandi del Geviert, si può anche defini­re come il be-wegende. Bewegen, alla lettera, significa muovere; ma, secondo una etimologia non improbabile, bewegen si può far risalire a Weg, via, sentiero. Be-w'ègen, allora, che Heidegger scrive col trattino e la Umlaut probabilmente per sottolineare la derivazione del verbo da Weg, significa tracciare vie, aprire strade. UEreignis è bewegend anzitut­to in questo senso, che apre le strade al gioco dei rimandi del Geviert; e proprio perciò è bewegend nel senso comune, muove il mondo come contesto di rapporti in divenire. Ma, come bewegendes, YEreignis non è a sua volta mosso o movimento: esso traccia le vie su cui si muoverà il gioco dei rimandi del Geviert e il divenire del mondo, ma come tale è quiete {Stille). Le tre dimensioni del tempo, presente, passato e futuro, che costituiscono i parametri del divenire intramondano, si distinguo­no a partire da un punto che non è nel tempo, ma che è invece gleichzeitige (cfr., per tutto questo, US 213 ss. [167 ss.]). La Sage si definisce così, in rapporto al discorso in quanto articolarsi di parole, come silenzio, e, in rapporto al discorso in quanto aprire effettivo del mondo del Geviert, come quiete. « Noi chiamiamo il silenzioso appel­lante raccogliere, in cui la saga muove e traccia le vie \be-wëgt\ al gioco di rapporti del mondo, il risuonare del silenzio [das Geläut der Stille] » (US 215 [170]).

La reciprocità che caratterizza YEreignis si incontra però anche qui: la Stille risuona come tale, si eventualizza come silenzio fondante solo nel discorso lautende, sonoro, dell’uomo. Come l’essere espropria luo- mo ma anche si espropria in lui, in quanto è {waltet) solo nell’apertura di cui luomo costituisce il punto illuminante, così il silenzio ha biso­gno della parola fisica dell’uomo per essere silenzio originario, da cui

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ogni discorso trae la sua possibilità. La stessa tensione che si stabilisce nelYEreignis tra essere e uomo si stabilisce nel linguaggio tra parola umana e risuonare del silenzio. « Il linguaggio ha bisogno del parlare umano, e tuttavia non è il puro e semplice prodotto della nostra attività di parlare » (US 256 [201]).

Nel linguaggio, la tensione di appropriante espropriare che si stabilisce nell’evento tra uomo ed essere è colta nel suo punto focale, là dove è più visibile perché più originaria: il linguaggio è in questo senso il modo più appropriato (il più autentico e proprio: eigenste; US 262 [207]) de\¥Erei­gnis. Proprio in base a questo Über-eignen che accade nel linguaggio si capisce il rovesciamento che la meditazione sul concetto di Stille fa subire alla frase di George da cui Heidegger muove nella sua indagine sull’essen­za del linguaggio. La meditazione è mossa dal riconoscimento che « non c’è cosa dove non c’è la parola »; ma ora, se è vero che il linguaggio delle parole è tale solo in quanto risponde a un linguaggio più originario che parola non è, ma piuttosto silenzio, varrà l’affermazione opposta: « solo dove la parola viene meno si dà un “è” », cioè una cosa (US 216 [170]). « Venir meno [zerbrechen; della parola] significa qui che la parola sonora [verlautende] si riporta indietro nel silenzio [Lautloses],... nel risuonare del silenzio » (US 216 [170]).

Il silenzio come quiete e come Gleichzeitiges è così il « luogo » di ogni movimento, di ogni dis corso inteso come articolarsi di parole e come relativo muoversi delle cose e degli eventi umani. La storia è, in questi due sensi connessi, dis-corso; un discorso che parla solo in quanto ascolta il silenzio. Come tale, il silenzio non si lascia mai afferrare e chiudere in una Aus-sage\ anzi, noi possiamo parlare delle cose, cioè agire nella storia, vivere storicamente, solo in quanto il linguaggio come tale, la Sage come silenzio originario ed essenza del linguaggio, si cela e si sottrae (cfr. US 161 [128]). Appartiene all’essen­za stessa del linguaggio che esso ci impedisca di arrivare a sé (cfr. US 186 [147]). Nella irraggiungibilità del linguaggio come tale, nella infor- mulabilità della Sage, si dispiega dunque la stessa epocalità dell’essere, che dà e lascia apparire le cose solo in quanto a propria volta si cela. Ma un tale celarsi non è un fatto negativo: c’è un duplice significato nell’uso heideggeriano di Verbergen, nascondere o celare: ciò che na­sconde, anche alberga e custodisce. Solo la mentalità della metafisica, che concepisce l’essere come fondamento e quindi, parallelamente, il pensiero come scoperta di tale fondamento ed espressione totalmente dispiegata, può pensare il celarsi dell’essere e del linguaggio come fatti negativi. In realtà la parola si cela in quanto custodisce il silenzio come la possibilità fondante di sempre nuovi discorsi; il silenzio non è la pura e semplice assenza di un dire, ma la sede di ogni parlare.

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7. La meditazione sul linguaggio e l'ontologia

A conclusione di questa prima esposizione delle linee fondamentali della speculazione heideggeriana sul linguaggio è opportuno cercar di riassumere il significato che essa ha dal punto di vista del problema del senso dell’essere, cioè a che risultati conduce, nella sua non solo appa­rente frammentarietà e asistematicità, dal punto di vista dell’ontologia. Si è visto come il linguaggio si introduca nel discorso proprio al momento in cui si tratta di esporre i risultati ontologici a cui Sein und Zeit è implicitamente pervenuto; la difficoltà di formulare tali risultati ha messo in luce che il linguaggio non è uno strumento che si pieghi a tutti gli usi, ma costituisce esso stesso l’orizzonte entro cui gli essenti ci si presentano e si lasciano vedere. L ’evento delTessere accade anzitutto e originariamente nel linguaggio, sicché è indagando il modo in cui Tuomo è nel linguaggio, il suo rapporto col linguaggio, che si può sperare di arrivare a pensare più chiaramente il rapporto uomo-essere.

La crisi stessa di Sein und Zeit e la Kehre hanno messo in luce che si tratta di assumere nei confronti del linguaggio un atteggiamento nuo­vo: la novità consiste nel riconoscere che le parole non sono anzitutto segni delle cose, ma che le cose vengono chiamate all’essere dalle parole: dove non c’è la parola, non c’è nemmeno la cosa. La parola condivide con Tessere stesso la caratteristica di dare Tessere senza che di essa si possa dire che « è »; la parola non è, ma es gibt, si dà. Anzi, si dà in quanto dà, presenta e fa essere le cose.

Se in generale è nel linguaggio che si deve cercare il rapporto delTuomo con Tessere (rapporto in base al quale soltanto è possibile l’ontologia: siamo ancora, attraverso le varie trasformazioni e « ripeti­zioni », nell’àmbito di Sein und Zeit), non tutti i linguaggi si presenta­no però come indifferentemente utili per questa indagine. Come in Sein und Zeit si trattava di fondare la ricerca sul modo di essere autentico dell’esserci, perché più proprio, specifico di lui, così qui si tratta di cercare il linguaggio « puro », quello che attua senza contami­nazioni e depauperamenti l’essenza, per dir così, del linguaggio. Tale linguaggio viene scoperto nella poesia. La parola poetica è la parola pura, perché, anzitutto, in essa è più visibile la funzione aprente e donatrice di essere della parola. Il linguaggio, nella poesia, non è segno di qualcosa che sia già dato altrove, ma chiama all’essere ciò che nomina. In ciò, poiché ogni segno come rimandare-a è possibile solo nell’àmbito di un’apertura già aperta, il linguaggio poetico sì rivela anche, in quanto aprente, come linguaggio originario; gli altri linguag­gi ne derivano, non nel senso che vengano cronologicamente da e dopo

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di esso, ma nel senso che sono, per dir così, poesia inautentica, sussi­stono in base a una sorta di deiezione. L’essere a cui la poesia chiama le cose è il vero essere delle cose: la cosa non è perché sia il termine di un atto di rappresentazione o il risultato di un processo produttivo, ma perché fa dimorare presso di sé i quattro che costituiscono, o meglio, in cui si dispiega, la quadratura o Geviert, terra e cielo, mortali e divini. Un tale essere autentico della cosa non si dà nell’ambito della presenza spazio-temporale, per cui la poesia non farebbe che descrivere il modo di essere autentico delle cose come dato fuori di essa, in quello che comunemente chiamiamo mondo. Invece, è nella poesia come tale, nel linguaggio puro e originario che la cosa viene all’essere nel senso pieno: Tessere incontrabile nel mondo dell’esperienza, mani­polabile, trasformabile, utilizzabile, analizzabile con i più diversi stru­menti escogitati dalle scienze, è solo un modo di essere derivato e impoverito, un modo di essere fondato sull’oblio. Il Geviert, per l’im­possibilità stessa di indicare come esso potrebbe verweilen presso la cosa considerata anzitutto nella sua immediata presenza spazio-tempo- rale, chiarisce che la funzione fondante del linguaggio, che allo stato puro è il linguaggio poetico, non è legata anzitutto all’essere il linguag­gio la forma fondamentale di ogni possibile esperienza, il modo di aprirsi dell’apertura sul mondo che noi stessi siamo; questa funzione fondante e aprente, il linguaggio ce Tha in quanto in esso il mondo non solo comincia, ma anche si conclude. Quello che chiamiamo la storia non è il linguaggio che si è attuato nella sua funzione fondante, ma un linguaggio quasi decaduto e disperso. La funzione di fondazione della storia, di apertura del mondo nel senso storico del termine, è solo una funzione secondaria che il linguaggio esercita in quanto in esso le cose vengono all’essere nel senso pieno e completo del termine.

Con questo, il rapporto tra Ereignis delTessere e linguaggio si è precisato e arricchito: non consiste più solo nel fatto che le cose ci appaiono soltanto entro un progetto che è anzitutto un fatto linguisti­co, nel senso che possiamo farne esperienza solo in quanto appartenia­mo a un certo linguaggio che ci è dato e che è Taprirsi dell’apertura delTessere; ma il linguaggio diventa in un senso più pieno il luogo del divenire all’essere delle cose. Le cose sono, nel modo più autentico, solo nella poesia ossia nel linguaggio puro, dove esse davvero fanno dimorare presso di sé il Geviert.

La meditazione sul linguaggio non conduce solo al risultato di arric­chire enormemente, e in un senso che finisce per rivelarsi rivoluziona­rio, l’affermazione secondo cui Tevento delTessere è un fatto linguisti­co; ma, in secondo luogo, porta in presenza di un altro concetto

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decisivo della speculazione tarda di Heidegger. Anche qui, si tratta di una precisazione del concetto di evento dell’essere. Fino a questo punto, evento dell’essere ed eventualità dell’essere appaiono ancora anzitutto come una posizione piuttosto negativa che positiva: l’essere è evento, si è detto in base a Sein und Zeit, perché non può essere pensato come lo svolgersi di un processo dialettico o come il manife­starsi e il dispiegarsi di un fondamento dato una volta per tutte: entrambe queste posizioni di pensiero implicano la concezione dell’esse­re come ente. La storia, nella misura in cui se ne può parlare, è un illuminarsi discontinuo di àmbiti in cui le cose appaiono all’uomo e l’uomo appare a se stesso: solo all’interno di questi àmbiti ha senso stabilire delle connessioni temporali. Ora, però, elaborando il proble­ma del linguaggio alla ricerca del rapporto uomo-essere, Heidegger incontra il silenzio. L’uomo parla, e apre con ciò dei mondi storici, solo in quanto risponde a un appello: questo appello non è, a sua volta, un discorso articolato come il discorso umano. Risuona solo nel discorso articolato dell’uomo come l’altro da cui questo discorso si accorge di dipendere; appello e risposta non si danno l’uno senza l’altra. L ’appello è, per contrapposizione al discorso come parola artico­lata, come dis-correre e movimento delle cose nel gioco di rapporti del Geviert, silenzio e quiete. Ogni discorso storico, e anzitutto il discorso poetico che è fondante rispetto a tutti gli altri, si costituisce solo come risposta a questo appello. L ’appello non è mai esaurito, cioè adeguata- mente ascoltato da nessuna risposta. Nessuna Aus-sage riesce ad affer­rare la Sage originaria. Proprio in quanto si sottrae nella sua essenza, il silenzio fa essere i singoli discorsi e quindi lascia apparire le cose. Il suo sottrarsi non è un fatto negativo, ma un riservarsi per sempre ulteriori appelli. Questo riservarsi, quindi, non solo lascia apparire le cose nei singoli discorsi, ma lascia essere la storia come presentarsi di nuove risposte a nuovi appelli: il silenzio ha così, nei confronti della storia, la funzione che aveva la morte nei confronti della continuità dell’esserci in Sein und Zeit. Come quella manteneva aperte le possibili­tà esistentive come possibilità, così il silenzio, in quanto si riserva e non si dà mai interamente, mantiene aperta la storia come divenire. Ma allora la storia, che dal punto di vista dell’essere come evento sembrava solo un illuminarsi discontinuo di àmbiti linguistici senza nulla di comune, giacché ogni rapporto si poteva stabilire solo all’inter­no degli àmbiti stessi, sembra trovare un punto di riferimento e di unificazione. Ogni epoca (nel senso comune ma anche nel senso specifi­co heideggeriano, come celarsi dell’essere facendo apparire le cose) si costituisce nel linguaggio umano come risposta ad un appello che,

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almeno imprecisamente e oscuramente, si presenta come sempre lo stesso. E poiché, come si è detto, l’appello non si dà mai se non nella risposta, come l’altro a cui il linguaggio umano si accorge di risponde­re, non è neanche tanto l’appello che costituisce questo « identico » {Selbe), quanto Tinscindibilità stessa di chiamata e ascolto (cfr. SF 28 [357]). Il Selbe è la stessa identità a cui, secondo Identität und Diffe­renz, Tessere e il pensiero appartengono, o la differenza ontologica di essere ed ente che si dispiega neìlEreignis come Übereignen. Questo « identico » che unifica in qualche modo la storia dell’essere è difficile da pensare, perché è sempre imminente il pericolo di ricadere nella metafisica: esso è:

qualcosa di comune [durchgängig]... che attraversa tutto il dono-destino [Geschick, e cioè anche Geschichte] dell’essere dall’inizio alla conclusione. Tuttavia resta difficile dire come una tale comunanza [Durchgängigkeit] sia da pensarsi, giacché non è né una generalità che valga per tutti i casi, né una legge che stabilisca la necessità di un processo nel senso dialettico del termine » (ID 66 [33]).

Questo Selbe, pensato solo oscuramente come l’unità stessa di appel­lo e ascolto che domina la storia dell’essere, costituisce l’autentico tema di tutta la tarda speculazione heideggeriana, occupata a cercare di raggiungere il Selbe nella luce del rapporto essere-linguaggio.

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5. Essere ed ermeneia

1. Pensiero metafisico e pensiero ermeneutico

Con la scoperta del nesso particolarissimo che lega essere e linguag­gio \ nesso che non viene formulato esplicitamente in una definizione, per il carattere necessariamente metafisico che questa assumerebbe, ma che diventa l’idea direttiva della ricerca, come ciò che sempre si dà da

1 Non sono molti, fino ad ora, gli studi che hanno cercato di sviluppare una filosofia del linguaggio nella direzione ontologica indicata da Heidegger. Il più notevole, anche perché il più consapevole del nesso ontologia-ermeneutica, è il già citato Wahrheit und Methode, di H.-G. Gadamer, il quale oltre ad avere il valore di una indagine teoretica autonoma dotata di una precisa fisionomia, è anche indispensabile per capire il significato ontologico del concetto heideggeriano di ermeneutica. Un’indagine ispirata a Heidegger, interpretato però in una prospettiva tomistica, è quella di G . S iew erth , Philosophie der Sprache, Einsiedeln 1962. Di una vera e propria « applicazione » della dottrina heideggeriana all’elaborazione di una linguistica comparata condotta in prospettiva ontologica si può parlare a proposito di molti degli studi pubblicati da J . Lohman nella rivista « Lexis », che purtroppo uscì solo per breve tempo. Si veda per tutti, del Lohman, M. Heideggers ontologische Differenz und die Sprache, in « Lexis », 1948, 49-106. Il Lohman muove dall’osservazione che, se la differenza ontologica è ciò per cui Tesserci, nella sua trascendenza, « si rapporta all’ente comprendendo Tessere » (p. 53), il discorso implica sempre la differenza ontologica, nel senso che parlare significa sempre usare concetti generali (l’essere di una cosa, secondo quel che dice TA.) in un senso determinato e particolare (pp. 55 ss.). Posto ciò, si può costruire, e il Lohmann lo tenta, una specie di tipologia delle lingue, secondo i vari modi in cui in esse, per esempio attraverso la declinazione dei nomi, viene in luce la differenza ontologica. Posizioni analoghe, almeno al tempo del comune lavoro in « Lexis », erano quelle di W. B rö ck e r : si veda per esempio, di lui, Die Sprache und das Sein, in « Lexis », 1948, 42-48, nel quale TA. si sforza di mostrare come la stessa struttura soggettivistica della metafisica classica tedesca sia « preformata » nella lingua tedesca, che « pensa ogni ente come analogo dell’io », cioè in un senso egomorfico (p. 48). Il pericolo di lavori di questo genere, tuttavia, resta sempre quello di voler fare, ,di una affermazione filosofica, un princi­pio di ricerche positive, col rischio di falsarne la natura e il significato. E vero che si può sempre cercar di giustificare queste ricerche indicandole come «ontologie regionali »: su tale concetto in Heidegger e sul suo rapporto con l’ontologia fondamentale, in un senso però che non mi pare troppo fedele allo sviluppo del pensiero heideggeriano successivo a Sein und Zeit, per il quale è problematico che si possa parlare ancora di ontologie regionali, cfr. E. Fink, Philosophie als Überwindung der Naivität - Zum Begriff der « ontologischen Differenz » bei Heidegger, in « Lexis », 1948, 107-27. Sul problema del linguaggio in Hei­degger si vedano però anzitutto, in generale, gli ultimi capitoli del già citato O. P ö g g e le r , Der Denkweg Martin Heideggers.

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pensare in quanto « luogo » in cui si nasconde il mistero del rapporto uomo-essere — con tale scoperta, che non è conclusiva, appunto, ina solo orientativa, il pensiero filosofico diventa, nel suo senso più profon­do, ermeneutica. Il concetto di ermeneutica è uno dei Leit-Wörter di tutto il pensiero heideggeriano (cfr. US 96 [89-90]) e come tale assu­me, nel corso del suo itinerario speculativo, significati diversi, ma non contrastanti, bensì sempre più comprensivi e originari. Già nella pro­spettiva di Sein und Zeit, posto che Tesserci è già sempre gettato in una comprensione delTessere, anzi è costitutivamente comprensione dell’essere, il pensiero non può essere mai anzitutto ricerca di una conformità tra la proposizione e la cosa, ma chiarimento, dall’interno, dell’ambito in cui ogni conformità e ogni incontro con la cosa diventa­no possibili. La ricerca della verità, se così si vuol dire, è quindi sempre un processo interpretativo; la conoscenza, in quanto parte sempre da una pre~comprensione delTessere, è interpretazione. Ora, con il chiarirsi progressivo del nesso tra Ereignis e linguaggio, la premi­nenza' del concetto di interpretazione, o meglio, e vedremo perché, di ermeneia, si fa più decisa 2. Non solo il progetto gettato, che Tesserci

2 Un tentativo, solo in parte riuscito, di dare un quadro dello sviluppo del concetto di ermeneutica in Heidegger è quello che si trova nel già citato H. S p ie g e l b e r g , The Pheno- menological Movement, vol. I, 323 ss. Lo Spiegelberg tende a riportare tutto il significato de) concetto heideggeriano di ermeneutica alla fenomenologia, considerata la radice fonda- mentale del suo pensiero. In Sein und Zeit, dice l’A., « l’ermeneutica ha un peso solo indiretto per l’ontologia m generale, in quanto si occupa del Dasein, cioè di quel tipo di ente che fornisce il fondamento per l’interpretazione dell’essere in generale » (p. 323). Questo modo di delimitare il senso dell’ermeneutica per Sein und Zeit, facendone una sorta di procedimento ausiliario del metodo fenomenologico, conduce poi lo Spiegelberg a non vedere la vera portata ontologica che l’interpretazione di testi poetici o filosofici ha per l’Heidegger più maturo. Così, secondo lui, nei saggi su Nietzsche e su Anassimandro contenuti negli Holzwege, « una interpretazione dei testi serve come preparazione per un più originario approccio ai fenomeni » (p. 344): il che suppone l’accettazione di una conce­zione del linguaggio come semplice segno, che Heidegger rifiuta o almeno ritiene non originaria. E questa anche, in definitiva, la ragione che spiega l’inaccettabile e paradossale affermazione dello Spiegelberg secondo cui, essendo l’essere concepito come non-nascondi- mento, l’ermeneutica stessa dovrebbe diventare superflua (cfr. p. 345). Sui limiti dell’opera dello Spiegelberg, peraltro utile e meritoria come prima presentazione d’insieme della fenomenologia, si veda H.-G. G a dam er , Die phänomenologische Bewegung, in « Philoso­phische Rundschau », 1963, n. 1, 1-45 [ora nel voi. 3 dei Gesammelte Werke, cit., 105-146],Il Gadamer dà una ben più fondata e appropriata interpretazione del rapporto tra la speculazione heideggeriana sul linguaggio e la fenomenologia: in particolare, egli segnala un’importante analogia tra Heidegger e la scuola fenomenologica, da un lato, e l’ultimo Wittgenstein e il circolo di Vienna dall’altro. « In una direzione simile a quella seguita all’interno della fenomenologia dalla critica ontologica di Heidegger si è mossa, nell’ambito della critica del linguaggio del circolo di Vienna, l’autocritica di Wittgenstein » (p. 41). La radice dell’analogia è vista nella rinuncia dell’ultimo Wittgenstein all’ideale di un linguaggio logico totalmente formalizzato (cfr. p. 42). La posizione di Wittgenstein resta però, secondo Gadamer, su un piano puramente negativo e « terapeutico », mentre Heidegger cerca positi­vamente, sulla base della riconosciuta irraggiungibilità del linguaggio logico perfetto, una

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stesso è, è un linguaggio, il linguaggio che egli si trova a parlare ed entro cui soltanto il mondo gli è dato, in cui cioè le cose vengono all’essere; ma, di più, è nel linguaggio stesso che le cose vengono autenticamente all’essere, nel senso che appunto nel linguaggio come linguaggio originario la cosa è davvero tale, fa dimorare presso di sé i

via per arrivare a una considerazione ontologica del linguaggio. La tesi che proprio in Heidegger vada cercata la soluzione delle difficoltà e dei problemi che incontra la filosofia cosiddetta analitica è sviluppata in un importante saggio di K.O. Apel, Sprache und Wahr­heit in der gegenwärtigen Situation der Philosophie, in « Philosophische Rundschau », 1959, fase. 3-4, 161-84. Il pensiero dell’ultimo Wittgenstein (quello che si esprime nelle Philosophische Untersuchungen) mostra, secondo l’A., che la filosofia del linguaggio ha subito un processo di sviluppo che si può dividere grosso modo in tre momenti: dall’accen­tuazione della dimensione puramente sintattica del linguaggio (Carnap) è passata all’accen­tuazione della sua dimensione pragmatica (Morris) e infine al riconoscimento della storicità del linguaggio stesso (ultimo Wittgenstein). Ora, proprio la storicità del linguaggio trova una fondazione adeguata solo in Heidegger. In questa fondazione ontologica della storicità del linguaggio occupa un posto essenzialissimo la poesia, come l’Apel dimostra in un altro saggio, ancn esso di estrema importanza per capire il rapporto, in Heidegger, tra metodo fenomenologico ed ermeneutica: Die beiden Phasen der Phänomenologie in ihrer Auswir­kung auf das philosophische Vorverständnis von Sprache und Dichtung in der Gegenwart, in «Jahrbuch für Aesthetilc und Allgemeine Kunstwissenschaft», vol. III, 1955-57, 54-76, specialmente pp. 68 ss. All’analogia tra Heidegger e Wittgenstein è dedicato anche l’articolo di P. C h io d i, Essere e linguaggio in Heidegger e nel Tractatus di Wittgenstein, in « Rivista di filosofia », 1955, 170-91, nel quale TA., conformemente alla sua interpretazione del pensie­ro heideggeriano (si cfr. i già citati volumi L ’esistenzialismo di Heidegger e L ’ultimo Heideg­ger) trova la base dell’analogia tra le due posizioni — analogia di cui segnala alcune manife­stazioni estremamente interessanti, come quella tra un’affermazione di Was heìsst Denken?, 99 [II, 38-39] e la proposizione 6.121 del Tractatus, dove si sostiene che le proposizioni in cui si esprime il pensiero originario, per Heidegger, o quelle della logica, per Wittgenstein, sono caratterizzate dal fatto di « non dire nulla » — nella comune presupposizione, da parte dei due pensatori, di una metafisica della necessità: « Come in Heidegger, anche in Wittgen­stein l’iniziativa linguistica ha il suo fondamento non già nell uomo ma nel mistero della necessità mistica originaria » (si noti che, paradossalmente, non è Heidegger, ma proprio il « positivista » Wittgenstein che parla di qualcosa di mistico: cfr. Tractatus, prop. 6.44, 6.45 e 6.522: das Mystische) (p. 187). Sebbene offra spunti di estremo interesse, soprattutto se accostati con quanto gli studiosi prima citati hanno rilevato sull’ultimo Wittgenstein, lo scritto del Chiodi mi sembra viziato da una interpretazione troppo rigida, Heidegger direb­be ancora « metafisica », del rapporto tra l’uomo e l’essere come Heidegger lo pensa negli scritti più tardi: si veda per esempio ciò che Chiodi dice de! concetto heideggeriano di fatum nel volume L ’ultimo Heidegger, cit., pp. 90-93. Su Heidegger e Wittgenstein, soprat­tutto in riferimento al problema del nesso pensiero-linguaggio, si veda anche T h . N. Mun- son , Heidegger’s Recent Thought on Language, in « Philosophy and Phenomenological Re­search », 1960-61, 361-72. Quanto al rapporto del concetto heideggeriano di ermeneutica con la fenomenologia, è da segnalare ancora Io studio di C a lv in O. S c h ra g , Phenomenolo- gy, Ontology and History in thè Philosophy of Heidegger, in « Revue internationale de philosophie », n. 44 (1958, fase. 2), 117-32, che però si conclude lasciando aperto il proble­ma di come si concilino in Heidegger descrizione fenomenologica ed ermeneutica, l’una intesa come ricerca di « essenze », l altra come interpretazione dell’essere storico dell’uomo (pp. 129 e 131). Su Heidegger e ia fenomenologia in generale si veda ancora M. T iieunis- sen , Intentionaler Gegenstand und ontologische Differenz■ Ansätze zur Fragestellung Heideg­gers in der Phänomenologie Husserls, nel « Philosophisches Jahrbuch » della Görres-Gesell- schaft, 1962-63, 344-62.

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quattro della quadratura. Il linguaggio non è solo l’apertura del mon­do, nel senso di inizio, principio, ma è la sede in cui il mondo autenti­camente si mondeggia, le cose diventano cose: la presenza nell’àmbito spazio-temporale non è, quindi, sviluppo e attuazione dell’apertura linguistica, intesa come momento iniziale, ma derivazione, dispersione diminutiva di ciò che nel linguaggio è versammelt, raccolto e autentica­mente fatto essere.

Coll’accentuazione del nesso tra essere e linguaggio, il pensiero non ha più solo un carattere ermeneutico, nel senso che si muove sempre, chiarendolo, entro un àmbito di comprensione già aperto, ma diventa ermeneutica in senso proprio, cioè esercizio di interpretazione di enun­ciati verbali, di parole e di discorsi3. Tuttavia, la riflessione che ha riconosciuto il nesso tra linguaggio ed essere ha anche mostrato, pro­prio in base a questo nesso, che il linguaggio va concepito in modo diverso da quello comune alla mentalità metafisica. Il linguaggio rivela il suo rapporto con l’essere proprio in quanto non si lascia ridurre sotto il concetto di « espressione » o strumento di comunicazione; e, in secondo luogo, il linguaggio come insieme di suoni articolati dotati di « significato » e connessi secondo regole sintattiche appare come fondato in un linguaggio più originario, che non si articola in parole ma che si rivela piuttosto come silenzio. Il pensiero filosofico, o il pensiero semplicemente, come Heidegger lo concepisce, non può che muovere, per tentare di pensare l’essere e il suo rapporto con l’uomo, dal linguaggio; perciò è essenzialmente pensiero ermeneutico, esercizio di interpretazione del linguaggio, dove interpretazione per ora indica genericamente il fatto che il pensiero lavora sul e nel linguaggio,

3 Questo passaggio dall’interpretazione dell’esserci all’interpretazione di testi va spiega­to, secondo K, G r ü n d er , M. Heideggers Wissenschaftskritik in ihren geschichtlichen Zusam­menhängen, in « Archiv für Philosophie », 1961, 312-35, piuttosto con un motivo biografi­co di carattere esterno che in base all’interno sviluppo del suo pensiero. L ’impegno storico di Heidegger raggiungerebbe la sua punta massima nel 1934, con l’appoggio dato al nazi­smo; in seguito, per la delusione circa le possibilità di azione nel mondo contemporaneo, Heidegger si sarebbe rivolto al passato. Questo sarebbe, secondo il Gründer, il vero senso della Kehre, « il passaggio dalla “ermeneutica dell’effettività” all’ermeneutica della storia passata » (p. 326). Il Gründer fonda la sua interpretazione storico-sociologica del pensiero di Heidegger (considerato come l’enunciazione teorica dei contenuti che stavano al fondo della Jugendbewegung) sulla più vasta indagine di Ch. Von Krockow, Die Entscheidung. Eine Untersuchung über Ernst Jünger; Carl Schmitt, Martin Heidegger, Stoccarda 1958: di questo libro, si vedano specialmente le pp. 28-43 e 119 ss. Per G. Ra lfs , Kritische Bemerkun­gen zu Heideggers Lehre von der Wahrheit, in « Kantstudien », 1956-57, 525-49, l’orientarsi dell’interesse di Heidegger all’interpretazione dei testi filosofici e soprattutto poetici delle epoche passate corrisponderebbe all’ultima tendenza irrazionalistica del suo pensiero, che abbandona il campo della distinzione tra vero e falso per tentare di arrivare a un piano originario sul quale, secondo l ’A., non è più possibile alcun discorso fornito di senso e suscettibile di dimostrazione scientifica (cfr. specialmente le pp. 538 e 543 ss.).

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perché questa è Tunica via che gli è data per cercare di pensare l’essere. Ma il carattere non espressivo o non strumentale del linguaggio e il fatto che esso sia stato riconosciuto come un rispondere al silenzio danno all’ermeneutica come Heidegger la pensa una fisionomia tutta particolare.

Se il linguaggio non è anzitutto strumento di informazione, l’erme­neutica non potrà essere l’arte di risalire dalle parole a ciò che esse « vogliono dire », dal segno al significato. Lo stesso rapporto tra segno e significato è rovesciato: l’andare dal segno al significato non è un risalire, come se il significato fosse prima del segno (quoad se, mentre il segno è solo primo quoad nos), ma un discendere; è la parola che fa essere la cosa, è il linguaggio che apre il mondo e lo fa venire all’esse­re. Ma questo tipo di ermeneutica, come andare dal segno al significa­to nel senso del discendere dalla parola alla cosa, non è il compito del pensiero. E semmai quello che fanno quotidianamente le scienze (« la scienza non pensa»: WD 4 [I, 41]) e in genere tutte le attività dell’uomo che lavorano per dispiegare, chiarire, consolidare il mondo come àmbito già aperto. Il concetto di linguaggio come strumento, della parola come segno che « rimanda » alla cosa nasce proprio in quanto si considera questo rapporto parola-cosa che si attua quotidiana­mente nel mondo come l’unico, dimenticando sia Toriginarietà del linguaggio rispetto alle cose, sia il suo radicarsi nel silenzio a cui risponde. La parola, per questa prospettiva, si esaurisce nella funzione di rimandare alle cose, di farle presenti nel senso di « avvicinarle » spazio-temporalmente; per un tale punto di vista, l’ermeneutica è l’arte di interpretare correttamente i discorsi nel senso di attraversarli, andan­do al di là di essi, alle cose cui essi rimandano. L ’ideale di una tale ermeneutica è un mondo dove le parole non ci siano più, o non siano più necessarie, e le cose siano tutte sempre presenti nella loro fisicità. E come dire che il discorso è una triste necessità della nostra condizio­ne di esseri finiti, che non possono essere sempre presenti ovunque e avere « in presenza » le cose; l’arte dell’interpretazione è proprio quel­la che si sforza di ridurre al minimo gli « inconvenienti » di questa situazione. Ora, per Heidegger la conoscenza della verità non è un incontrare le cose « al di là » dei nostri pregiudizi e del nostro « modo di vedere» (cfr. SuZ 152-53; it. 165-166 [248-250]): le cose sono vere non nel senso che sono lì davanti a noi — sicché si debba cercare di ridurre al minimo tutto ciò che non è presenza bruta, tutto ciò che è punto di vista o interpretazione — ma perché appartengono a una certa apertura dell’essere, a quel progetto gettato (dall’essere stesso) che noi stessi già sempre siamo. La stessa presenza, come si è visto, è resa

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possibile da questa apertura, la quale si attua primariamente nel lin­guaggio.

L ’idea che l’ermeneutica debba condurci alle cose al di là dell’inter­pretazione è solo una banalizzazione di ciò che costituisce la sostanza stessa del pensiero metafisico, inteso come quello che pensa l’essere in base all’essente, e dimentica quindi l’essere stesso in ciò che esso ha di proprio e di non riducibile a ciò che fa essere. La metafisica è domina­ta dal principio di ragione sufficiente, il quale è l’elemento in cui si muove il pensiero scientifico moderno e che, sia attraverso le applica­zioni tecniche della scienza, sia come struttura del pensare comune (noi cerchiamo sempre, nei nostri ragionamenti, di risalire al Grund,\ alla causa o fondamento di un fenomeno), caratterizza la nostra epoca che è quella del trionfo della metafisica (cfr. SvG 59-60). Il pensiero dominato dal Satz vom Grund concepisce la propria funzione come quella di scoprire e di dire il perché, cioè il fondamento, dei fenomeni.I grandi sistemi idealistici dell’Ottocento, e soprattutto quello di He­gel, non sono che il dispiegamento di questo concetto del pensiero. Il pensiero, cioè, ha la funzione di trovare il Grund per « assicurarsi » le proprie conoscenze: questa è già la sostanza del ragionamento sillogisti­co, il ricondurre una conoscenza particolare ai suoi principi per render­la sicura e stabile. Ma il Grund vale come fondamento della sicurezza delle nostre conoscenze solo in quanto è posto davanti al soggetto: il principio di ragione sufficiente trova così la sua formulazione decisiva, in Leibniz, come principium reddendae rationis (cfr. SvG 44-45). E vero, cioè reale, solo ciò di cui il soggetto trova ed enuncia il principio, il fondamento o causa. Il Satz vom Grund si dispiega quindi come Grundsatzo meglio come Grund der Sätzen, come principio fonda- mentale di ogni possibile proposizione vera: è veramente solo ciò che si lascia enunciare in una proposizione che soddisfa al principio di ragione sufficiente. L ’essenziale, nella formulazione di Leibniz, è il reddendae: la ragione sufficiente deve essere « resa » al soggetto, giac­ché solo così questo può riconoscere una verità come tale, qualcosa come esistente. L ’essere viene pensato come Grund, ma proprio in quanto deve servire ad assicurare e certificare le conoscenza del sogget­to; il Grund vale come tale solo in quanto è rappresentato al sogget­to, è enunciato da lui. Di qui, sarà facile arrivare prima a Kant e poi a Hegel: il vero Grund del reale è il soggetto stesso, è vero ciò ch’è rappresentato come tale dall’io.

Bisogna sottolineare bene il fatto che, nella interpretazione di Hei­degger, il Satz vom Grund si realizza pienamente solo in quanto diven­ta Grund der Sätzen; esso non riguarda anzitutto la « realtà » (come

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principio di causalità), ma anzitutto l’enunciazione, la proposizione vera. « Il principio di ragione è il principio fondamentale della necessa­ria fondazione delle proposizioni. La grandezza del principio consiste nel fatto che esso domina, guida e regge ogni conoscere che si esprime [aussagt] in proposizioni » (SvG 45-46).

Questo non significa che Leibniz limiti il principio al conoscere; anzi, sulla linea dello sviluppo della metafisica, ciò vuol dire che è stato fatto il passo decisivo sulla via, iniziata da Platone, della riduzio­ne dell’essere a oggetto e, quindi, della fondazione dell’essere dell’ente nel soggetto. « Per Leibniz e per tutto il pensiero moderno il modo in cui Tessente “è” consiste nella oggettività degli oggetti » (SvG 46).

L ’essere oggetto dell’oggetto, cioè Tessere dell’ente, nella prospettiva della metafisica consiste dunque nell’essere rappresentato, e cioè enun­ciato, conformemente al principio di ragione sufficiente. « Qualcosa °è”, cioè è certificato [ausgewiesen] come essente solo se è enunciato [ausgesagt] in una proposizione che soddisfa al principio di ragione sufficiente inteso come principio della motivazione [Begründung] » (SvG 47).

Per Leibniz e per tutta la metafisica moderna, come essa si dispie­gherà pienamente in Hegel, essere equivale a « esser detto », ad « esse­re enunciato ». Il pensiero filosofico, conformemente al principio di ragione sufficiente, tanto più è valido, cioè tanto più realizza la propria funzione, quanto più riesce a non lasciare nulla di infondato e cioè di inespresso, quanto più riesce a portare alla luce della enunciazione tutti i suoi fondamenti. L ’idea di un sapere che non ha presupposti perché li ha risolti tutti in sé, che guida il pensiero di Hegel, caratteriz­za però in diversa misura, più o meno esplicitamente, tutto il pensiero metafisico, cioè tutto il pensiero occidentale. Anzi, l’ideale del pensiero come esplicitazione totale è solo, detto in un altro modo, lo stesso contenuto fondamentale della metafisica, cioè la riduzione delTessere alla presenza: Tesplicitato è ciò che è portato alla presenza, che non rimanda ad altro, che è « tutto spiegato ». Solo perché Tessere è conce­pito sul modello di ciò che è dato nella presenza, l’ideale del pensiero è Tesplicitazione. Questo nesso, che rimane per lungo tempo celato, si rivela in tutta la sua luce nel pensiero di Hegel, dove essere e sistema si identificano senza residui. L ’essere stesso, cioè, alla lunga non può restare qualcosa di presupposto all’enunciazione, ciò sarebbe contrario al Satz vom Grund'. Tessere si risolve nell’enunciazione. Il sistema è così compiuto, il Satz vom Grund come principium reddendae rationis è pienamente soddisfatto. Ma che ne è, allora, delTessere? DelTessere, alla conclusione e al culmine della metafisica, « non ne è più nulla »

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(N II, 338). Rispetto a Hegel, Nietzsche non farà che rivelare il fondo volontaristico del principio di ragione sufficiente: Tessere si è risolto nell’enunciazione, in Hegel, solo in quanto nella metafisica esso è fondamentalmente volontà. Il sistema tutto spiegato che racchiude ferreamente la realtà nelle sue proposizioni è opera della volontà di potenza (cfr. N. II, 453).

Il pensiero metafisico, mosso alla ricerca del Grund, per aver voluto costruire, conformemente al principio di ragione sufficiente, un siste­ma in cui tutto è fondato, ha ridotto Tessere stesso a fondamento che vale come tale solo in quanto è enunciato dal soggetto in una proposi­zione, in quanto è rappresentato. In tal modo, il pensiero metafisico ha perso Tautentico fondamento, Tessere stesso, inteso non come Grund ma come Boden, come fondo, suolo, terreno su cui soltanto è possibile edificare Tente e abitare la terra. Il dispiegarsi del principio di ragione nel sistema di Hegel segna davvero, sotto un certo aspetto, la fine della storia:

il totale farsi valere delTappello alTenunciazione (assegnazione) della ragione sufficiente minaccia di togliere all’uomo ogni possibilità di avere una patria e gli sottrae il suolo su cui soltanto può darsi qualcosa di nativo, cioè quello da cui fino ad ora è nata e cresciuta ogni grande epoca dell’umanità, ogni spirito fondatore di mondi, ogni caratterizzazio­ne storica dell’essenza dell’uomo (SvG 60).

La storia, come aprirsi di àmbiti in cui le cose vengono all’essere, è storia della verità, cioè dello svelamento (Entbergung); ma ogni svela­mento è possibile solo sulla base di un originario nascondimento. Dove il nascondimento non c’è più, diventa impossibile ogni ulteriore aprirsi di aperture; il pensiero (in quanto metafisica, che è il pensiero stesso in una determinata epoca delTessere) è alla fine (SvG 113-14).Il Boden, come fondo di nascondimento su cui sorge la verità come apertura e la storia come storia della verità, non può diventare Grund\ paradossalmente, il pensiero che cerca il fondamento e che riduce tutto a fondamento, perde alla fine il suolo stesso su cui poggiare i piedi. La metafisica, nella totale esplicitazione, giunge al trionfo ma anche alla conclusione: resta dunque vero, sotto un certo rispetto, che dopo Nietzsche (e Hegel) non è più possibile filosofare, almeno nel senso in cui essi intesero, con tutta la tradizione occidentale, la filosofia. Solo un mutamento radicale di prospettiva può far sì che la fine della metafisica non sia anche la fine del pensiero (cfr. VA 83 154]). Questo mutamento di prospettiva è proprio attuato nella concezione del pensie­ro come ermeneutica.

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Sotto un certo punto di vista, anche il pensiero metafisico è un pensiero ermeneutico: questo almeno, esplicitamente, in Hegel, per il quale la filosofia definitiva consiste nel ripercorrere, interpretandole, le filosofie precedenti. Solo che in questo caso l’ermeneutica è anch’essa sotto il dominio dell’ideale deirespKcitazione, è lo strumento per arriva­re a una situazione in cui l’interpretazione non sia più necessaria, anzi sia resa impossibile dalla scomparsa dei Boden come nascondimento.

Come dev’essere l’ermeneutica, se non vuole risolversi nella perdita del Boden e quindi nella metafisica e nel nichilismo che ne è la forma compiuta? E, anzitutto, dove vuol condurre una tale interpretazione, se il suo ideale non è l’esplicitazione totale come risoluzione e messa in chiaro di ogni presupposto? Non si tratta di sviluppare ciò che si vuole interpretare, la proposizione o il discorso che, in quanto si offre all’in­terpretazione, è già sempre dato, è tramandato (überliefert), fino alle sue estreme conseguenze, come si dice, mettendone in luce i fondamen­ti e la struttura, fino a farne un sistema o parte di un sistema; ma di « far venire in primo piano [freilassen\ il pensiero tramandato in ciò che esso ancora tiene in riserva come Gewesenes », cioè come passato nel senso autentico, non come Vergangenes; passato cioè come ciò che non sta semplicemente dietro di noi sulla linea del tempo, ma, in quanto contiene in sé il principio ancora inesplicitato che apre l’epoca dell’essere in cui noi siamo, costituisce il nostro autentico futuro (ID 44 [22]) (su Vergangenheit e Gewesenheit cfr. il capitolo I, § 1).

L ’ermeneutica heideggeriana si fonda così sul presupposto che ciò che rimane nascosto non costituisce il limite e lo scacco del pensiero, ma anzi il terreno fecondo su cui, solo, il pensiero può fiorire e svilupparsi. Il suo fine non può essere quello di eliminare questo nascondimento; e nemmeno si può quindi pensare che la molla della storia del pensiero sia per Heidegger, come per Hegel, pur con le dovute differenze, l’inadeguatezza delle varie figure (o espressioni) dello spirito (o dell’essere, nel caso di Heidegger) a ciò che devono esprimere 4. Intendere questa inadeguatezza come la molla significa continuare a vedere il fine nella esplicitazione totale e, conseguente­mente, concepire ancora l’essere come presenza. Per Heidegger, il fine

4 Come sembra pensare A. D e W a e l h e n s , Chemins et impasses de l’ontologie heidegge- rienne, cit., 43-44: Heidegger è vicino a Hegel in quanto « per lui come per l’autore della Fenomenologia, la storia dell'uomo è ia storia della verità, e in quanto per l’uno e per l’altroil motore di questa storia è una inadeguatezza dialettica ». Tuttavia, ammette l’A., per Heidegger non è concepibile una adeguazione finale e necessaria come per Hegel, al punto che (si veda la nota di p. 43) non si può, a rigore, parlare di inadeguatezza. Riesce allora difficile capire come questa stessa inadeguatezza possa essere considerata, in Heidegger, il motore della storia dell’essere.

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del lavoro ermeneutico non può essere lesplicitazione compiuta, perché questo sarebbe anche la fine del pensiero e dell’essere, in quanto questo è ciò che sempre « è da pensare » (cfr. WD 1-2 [I, 37-38]) e, perciò, resta sempre in certa misura non pensato. Né si può dire che, se Heideg­ger si preoccupa tanto di mantenere Tessere come non pensato, ciò vuol dire che, appunto, per lui il pensiero si muove solo in quanto l’interpreta­zione è sempre inadeguata. In realtà, in Heidegger, il rapporto essere- pensiero è pensato molto più come un rapporto di appello e risposta (anche di dono e ringraziamento, se è vero che il pensiero è anche, fondamentalmente, ringraziamento: cfr. WD 149 [II, 114] e US 267 [211]) che non come un processo causalmente strutturato di cui si debba indicare la molla e il perché (in tal caso, Tessere diventerebbe Grund del pensiero, o viceversa, ma saremmo sempre nelTàmbito del pensiero metafisico). Sicché, anche il dire che l’interpretazione resta sempre inadeguata, perché altrimenti finirebbe la storia dell’essere e del pensiero, è solo un modo di esprimersi che, dovendo contrapporsi alla mentalità metafisica e ai suo ideale dell’esplicitazione, resta in certa misura nell’àmbito di questo pensiero. Il discorso vale solo nella misura in cui è destinato a indicare la contraddizione, l’autodistruzione a cui la metafisica giunge da se stessa e in base alla propria struttura: vale invece limitatamente quando venga assunto a indicare la posizione hei­deggeriana. Che l’espressione rimanga sempre inadeguata non è la molla della storia dell’essere e del pensiero, è già il modo in cui si manifesta la struttura di appello (dono)-risposta (ringraziamento) che caratterizza il rapporto uomo-essere; quella che, nel Geviert, ci è apparsa come la polarità dell’evento dell’essere. In quanto Tessere è apertura di àmbiti entro cui gli essenti sono, esso è donazione {geben) di essere; il Boden non si risolve mai nel Grund della metafisica proprio perché l’àmbito storico in cui Tesserci si muove e costruisce le sue concatenazioni di cause ed effetti, di premesse e conclusioni è sorretto, dato, reso possibile sempre dal dono dell’essere, che es gibt, si dà, solo in quanto, come la parola gibt, dà Tessere agli essenti.

L ’ermeneutica, dunque, non è mossa per Heidegger dall’ideale del- Tesplicitazione totale. Essa vuole invece arrivare a portare in primo piano, ma, alla lettera, a freilassen, a lasciar libero, ciò che si offre all’interpretazione in quello che esso ha di « Gewesenes tenuto in riserva » : il freilassen non equivale a un esplicitare, a un far venire in chiaro una volta per tutte, in modo che poi non ci sia più nulla « in riserva ». In questo senso, sia lo scopo sia i modi del lavoro ermeneuti­co assumono in Heidegger una fisionomia tutta particolare, la cui caratterizzazione costituisce uno dei risultati più rilevanti, se non, più in generale, il significato stesso, della sua filosofìa.

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2. Caratteri del pensiero ermeneutico

Un’ermeneutica che non si proponga come ideale l’esplicitazione totale, che non voglia cioè finire nel nichilismo in cui è finita la metafisica guidata dal principium reddendae rationis è quella che Hei­degger si sforza di teorizzare e di praticare nel suo dialogo col linguag­gio, sia esso il linguaggio poetico o il linguaggio della filosofia del passato 5. L ’esponente più coerente e più « completo » dell’ermeneuti­ca metafisica come volontà di esplicitazione era stato, come si è visto, Hegel. Ora, proprio in una Auseinandersetzung con lui Heidegger deli­nea le basi della propria ermeneutica, gli scopi che essa si prefigge e i modi con cui intende raggiungerli6.

Se per Hegel l’oggetto del pensiero {Sache des Denkens) era l’essere in quanto pensato e tutto riducibile al pensiero, per Heidegger è invece Tessere dal punto di vista della sua differenza dagli enti; l’ogget­to del pensiero è la differenza in quanto tale (cfr. ID 42-43 [20-21]). Questo è il vero e proprio principio dell’ermeneutica heideggeriana, cioè la base su cui essa si edifica e la definizione più comprensiva che se ne possa dare. Il pensiero dell’essere, dato il nesso essere-linguag­gio, è pensiero ermeneutico; ma l’ermeneutica, per pensare Tessere come tale e non ridurlo a ente con la conseguente caduta nel nichili­smo, può pensare Tessere solo dal punto di vista della sua differenza dagli enti, cioè la differenza come differenza. La difficoltà di chiarire questo tipo di pensiero interpretativo è tutta nel precisare che cosa si intende con l’espressione « pensare la differenza come differenza ».

5 In tal senso, in quanto non si propone di portare all’esplicitazione totale né il « reale »né i contenuti della coscienza, ma anzi, in un certo senso, cerca proprio 1 opposto, lafilosofia di Heidegger non si può avvicinare, come qualcuno ha voluto, nel metodo o neifini, alla psicanalisi. Si possono tuttavia riconoscere certe analogie, per esempio nel fattoche Heidegger sottopone a indagine la Selbstverständlichkeit della vita quotidiana perarrivare a ciò che essa cela: cfr. R. H e is s , Psychologismus, Psychologie und Hermeneutik, nel vol. Martin Heideggers Einfluss auf die Wissenschaften (Festschrift per il suo sessantesimo compleanno), Berna 1949, 22-36. Anche Freud, osserva l’A., muove dal proposito di capireil vero senso dei fenomeni che a prima vista appaiono ovvi (p. 30). Tuttavia, nella misura in cui la terapia psicanalitica si propone di portare alla coscienza ciò che era stato respinto nell’inconscio, essa appartiene in pieno alla metafisica moderna come tendenza all’espressio­ne totale. S\il significato specifico del pensiero di Heidegger per la psichiatria si veda, nello stesso volume, L. B in sw a n g er , Die Bedeutung der Daseinsanalytik M. Heideggers für das Selbstverständnis der Psychiatrie, 58-72.

r' Su Identität und Differenz si veda, proprio dedicato al rapporto Heidegger-Hegel come in tale opera si configura, A. Df, W a e l h e n s , identité et différence: Heidegger et Hegel, in « Revue internationale de philosophie », n. 52 (1960, fase. 2), 221-37. Su Hegel e Heidegger in generale si cfr. inoltre il più ampio studio di J. V an D e r M e u l e n , Heidegger und Hegel, oder Widerstreit und Widerspruch, Meisenheim/Glan 1953, che si fonda princi­palmente su Sein und Zeit.

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Ora, il tentativo heideggeriano di elaborare un’ermeneutica che non sia guidata dall’ideale dell’esplicitazione totale, ma che rispetti l’essere in quanto tale, cioè come fondo su cui si aprono le aperture storico-lingui­stiche in cui l’uomo sempre è gettato, è proprio il chiarimento di che cosa si intenda con l’espressione : pensare la differenza in quanto tale.

La prima conseguenza (e la prima specificazione) di questa imposta­zione ontologica (e non ontica) del problema ermeneutico, è il venire in primo piano di ciò che Heidegger chiama VXJngedachtes, il non-pen- sato, in una posizione nuova rispetto a quella che gli riservava l’erme­neutica di tipo tradizionale e metafisico. In questa, ciò che resta non pensato costituisce il limite negativo; la forza di un pensiero si misura in base a ciò che esso mette in luce come pensato e chiarito, come enunciato. Il non pensato esplicitamente vale solo in quanto il lavoro ermeneutico lo sottragga alla sua condizione di nascondimento, lo espliciti. Siamo qui sempre nell’àmbito dell’ideale dell’esplicitazione totale: il non detto è solo la negazione, il limite che l’esplicitazione tende a ridurre sempre più fino a farlo, alla fine, sparire. Questa via porta al nichilismo dei fondamenti tutti fondati che però hanno perso l’appoggio su un « terreno » capace di reggerli e di garantire ulteriori aperture, cioè altra storia. Per un pensiero che si proponga di pensare la differenza come differenza, l’essere dal punto di vista della sua differenza dagli enti, la forza di ciò che si offre all’interpretazione non può consistere in quello che è pensato esplicitamente e che è detto. Ciò per cui un pensiero vale, cioè, si potrebbe dire, ha un « significa­to », nel senso di « peso ontologico » — ciò per cui un pensiero è davvero pensiero, e cioè pensiero delTessere nei due sensi oggettivo e soggettivo di cui parla il Brief — non è quello che esso dice, ma quello che lascia non detto facendolo tuttavia venire in luce, richiamandolo in un modo che non è quello dell’enunciare. L ’esercizio ermeneutico, il dialogo che si instaura con il pensiero che ci si offre da interpretare nel linguaggio filosofico, poetico, o anche, in quanto sia colto nei suoi contenuti originari, nel linguaggio comune, ha proprio lo scopo di far venire in luce, ma non nella forma della enunciazione-esplicitazione, questo non-pensato che costituisce la forza di ciò che è pensato 7.

7 E sempre imminente il pericolo di intendere VUngedachtes e il suo significato nell’er­meneutica in un senso ancora sostanzialmente hegeliano: cosi il De Waelhens, nel cit. Identité et différence, per quanto sia molto attento a rilevare la differenza di fondo tra Hegel e Heidegger, tende in definitiva a una interpretazione di questo tipo (e st cfr., a conferma, la pagina sopra citata di Chemins et impasses...). Secondo il De Waelhens, il dialogo con i filosofi è, per Heidegger, « uno sforzo di mettere in luce ciò che resta di non-pensato nel loro pensiero » (p. 231), il quale si costituisce sempre come tentativo di pensare la differenza ontologica (l’essere dell’ente) ma subito la dimentica. Si tratta quindi

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Pensare Tessere come altro dall’ente è possibile solo in questa forma, che si tratta di cercare di precisare senza tuttavia pretendere di fornire una formula, che contraddirebbe alla natura per forza sfuggente, ben­ché niente affatto ambigua, di questo tipo di pensiero. Nella misura in cui il pensiero di Heidegger stesso ha cercato di realizzarsi in questa forma, che è Tunica fedele all’impegno di porre il problema dell’essere in maniera diversa dalla metafisica, cioè dal pensiero ontico, esso rimane incomprensibile e « scandaloso » dal punto di vista dal ragiona­re « fondato-fondante » a cui siamo abituati.

L ’essere come altro dall’ente non si lascia pensare come il fondamen­to a cui a un certo punto si perviene e in cui il moto della ricerca si quieta: né si identifica con il procedere della ricerca stessa, come legge immanente al suo costituirsi come totalità. Pensarlo come altro signifi­ca proprio pensarlo in un modo che non implichi il concepirlo in uno di quei due modi; lo stesso significato del pensiero, qui, viene messo in discussione, e Heidegger è ritornato più volte sul problema di che cosa significhi pensare. Pensare Tessere come essere, cioè nella sua differenza dall’ente, significa pensarlo in un modo diverso dal pensiero rappresentativo, dove il termine ha il senso letterale del tedesco Vor­stellen; Tessere in quanto tale viene pensato solo da un pensiero che non lo pone davanti a sé nell’enunciazione. L ’essere non è mai ciò che è pensato, nel senso di rappresentato, ma ciò in cui si pensa; esso non può mai venirmi davanti nel senso della rappresentazione. Tuttavia la rappresentazione e l’enunciazione, in quanto mi portano in presenza dell’ente, sono possibili solo perché Tessere si dà nelle sue aperture. Queste aperture sono sempre aperture di linguaggi: ogni espressione linguistica, ogni pensiero nel senso « rappresentativo » del termine è aperto dall’essere e quindi, si potrebbe dire, porta una traccia dell’esse­re, richiama all’essere. Non però come a un contenuto implicito nel-

per Heidegger di ricondurre il pensiero alla sua origine nascosta; la quale però, quando ci siamo arrivati, non è più tale, se « là noi comprenderemo che cos e la differenza, come e perché essa fu “dimenticata” » (p. 231). Che queste frasi contengano una tendenza a vedere in una luce hegeliana il significato dell’XJngedachtes è confermato dal fatto che, per il De Waelhens, anche il pensiero di Heidegger, in quanto si formula in concetti, come per esempio quelli di « evento », di « appartenenza », di « transitività » (dell’essere), non può non rientrare anch’esso nella metafisica: questi concetti sono infatti già nel cerchio del­l’oblio della differenza. La filosofia di Heidegger, cioè, si sforza di pensare il non pensato, ma per ciò usa concetti e quindi, in definitiva, fallisce (cfr. p. 236). La differenza da Hegel, invece, non è secondo noi tanto nel contenuto a cui si applica l’ermeneutica e nella diversa direzione (in Hegel va verso la conclusione, verso il risultato già contenuto nel principio; in Heidegger ritorna all’origine), ma nel diverso senso che ha l’ermeneutica stessa; giacché per Heidegger, appunto, non si tratta di « portare in luce », cioè esplicitare, o di arrivare, come vuole il De Waelhens, là dove « comprenderemo che cos’è la differenza », la quale in tal modo sarebbe già « onticizzata ».

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l’esplicito, come a un fondamento della validità di ciò che viene detto o simili: ma come alla luce dentro cui l’esplicito si fa visibile. Ogni enunciazione, che mette in primo piano ciò che enuncia, tende necessa­riamente a far dimenticare la luce che la rende possibile: è l’oblio dell’essere proprio della metafisica, che si manifesta in una ermeneuti­ca preoccupata solo di chiarire il detto nei suoi contenuti e nei suoi fondamenti. L ’ermeneutica non metafisica, ma ontologica, ha il compi­to di riportare l’ente, l’enunciato, alla luce in cui esso appare: non risalendo all’origine dell’enunciazione o alla sua causa, ma collocando il detto nel non-detto in cui si fa visibile. Si tratta di realizzare un pensiero rammemorante, non più oblioso.

In quanto è sforzo di mantenere ciò che appare nella luce in cui appare, ricordando e richiamando questa luce come l’unica degna di essere veramente pensata (Frag-würdige), l’ermeneutica ontologica si definisce come Erörterung, che alla lettera significa discussione, ma che nell’uso heideggeriano significa piuttosto, coerentemente con l’eti­mo, collocazione {er-örtem, mettere in un luogo, in un Ort: collocare) (cfr. US 37 ss. [45 ss.]). Davanti a un testo, ma anche davanti a una espressione del linguaggio comune, l’interprete che voglia ascoltarlo come parola dell’essere non deve solo, o principalmente, chiarire che cosa il testo dice (vuol dire), ma anzitutto ciò che esso non dice eppure richiama. Questo non-detto è il luogo, Ort, in cui l’espressione si radica e appare. Ort « è ciò che raccoglie [versammelt] in sé il Wesen di una cosa \Sache] » (SvG 106). « Ciò che raccoglie penetra e im­pronta di sé tutto. Il luogo, il raccogliente, riporta a sé [bolt zu sich ein], custodisce ciò che è richiamato [eingeholte], ma non come una capsula che rinchiude, bensì in tal modo, che fa trasparire e illumina il raccolto e così lo fa pervenire [entlässt] nella sua essenza [Wesen] » (US 37 [45]).

Poiché il raccogliente penetra e domina il raccolto, cioè poiché il non-detto è quello che fa venire in luce il detto come tale, il lavoro di Er-örterung serve anche a chiarire il detto in ciò che esso davvero significa; ma lo scopo della Erörterung è prima di tutto quello di far venire in primo piano, nella forma del ricordo, del richiamo, ciò che non si esprime totalmente ma è ben presente e tale che non se ne può « fare a meno », il luogo che raccoglie e protegge l’ente in quanto illuminato, l’enunciato in quanto detto ed esplicito s.

8 AI chiarim ento del concetto di Erörterung dedica alcune im portanti pagine O. Pö g g e­l e r , Der Denkweg M. Heideggers, cit., 282 ss., che ne delinea il carattere in contrapposizio­ne all 'Erklärung propria del. pensiero m etafisico, che riporta le cose al loro fondam ento o causa, ed alla Erläuterung fenom enologica, che cerca invece di far vedere nella sua purezza

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Il pervenire a collocare il detto nel suo luogo implica che si segua una via, la quale però comporta anch’essa delle caratteristiche speciali, coerentemente col particolare luogo a cui deve condurre. In quanto è quello che raccoglie e protegge il Wesen della cosa (cioè di ogni illuminato, di ogni ente, e quindi dell’espressione), YOrt non è un posto come quelli a cui si arriva mediante una certa strada che poi viene lasciata dietro le spalle, un posto dove ci si riposa avendolo raggiunto. Mentre nell’ermeneutica di tipo metafisico tradizionale l’es­senziale è il risultato e la via che si segue è solo mezzo, qui tutto consiste nella via, perché il luogo a cui si deve arrivare non è un posto definito che stia al fondo della via e che, una volta raggiunto, la renda inutile. Non solo l’interpretazione ontologica non può pervenire a un luogo in cui trovar riposo, cioè allesplicitazione completa di ciò che aveva da interpretare; ma non deve, nel senso che quando lo facesse ricadrebbe nell ambito dell’ermeneutica metafisica e avrebbe dimentica­to l’essere facendone un ente.

{Lauteres) l’essenza del fenomeno, senza ridurlo affrettatamente ad altri. Rispetto all 'Erör­tern heideggeriano, YErläutern è ancora troppo astratto; la visione fenomenologica delle essenze rischia di non poter render conto, per esempio, del rapporto del mondo dei valori in sé, per esempio dei valori etici o religiosi, con il mobile divenire dell’esperienza religiosao morale. Questa interpretazione del Pöggeler, sostanzialmente ineccepibile, comporta però il pericolo, cui in realtà il Pöggeler, più avanti, soggiace, di una visione troppo storicistica della Erörterung. Rispetto all "Erklären metafisico e all’Erläutern fenomenologi­co, YErortern heideggeriano sarebbe una collocazione dell’ente nell’apertura deiPessere, nz\Y epoca (anche in senso storico) a cui esso appartiene. « Il compito del pensiero collocan­te {erörternde) è di impedire che YErläutern ipostatizzi l’essenza che ha portato alla purez­za in una presenza statica. La purezza dell’essenza deve essere colta in riferimento all’evento storico dell’apertura, e perciò la Erläuterung deve sempre diventare una Erörterung » (p. 284). Il senso « storicistico » della interpretazione è evidente, mi pare, a pp. 292 ss., dove viene in luce che l’ermeneutica heideggeriana deve essere, secondo l’espressione del- l’A., una « topologia dell’essere ». Topologia « è il dire (Xóyocr) del luogo (tottoç-) in cui la verità come apertura che accade storicamente si raccoglie » (p. 294). Si tratta insomma di collocare ogni enunciazione (e quindi ciò che per i fenomenologi era l’essenza, in quanto, secondo l’uso heideggeriano di Wesen in senso verbale, ogni essenza è tale in un mondo, che è aperto linguisticamente) entro la particolare apertura « storica » dell’essere che la rende possibile. Si tratta di domandare « che cosa noi, uomini dell’Occidente, intendiamo veramente dire quando diciamo “è”. II pensiero topologico riflette al fatto che noi, quando parliamo come parliamo, ci adattiamo a un luogo determinato dell’accadere della verità » (p. 296). Questa posizione interpretativa del Pöggeler è confermata e sviluppata nel saggio Metaphysik und Seinstopik bei Heidegger, nel « Philosophisches Jahrbuch » della Görres- -Gesellschaft, 1962-63, 118-37, dove il concetto di topologia viene connesso esplicitamente a quello di topica in senso vichiano e, prima, aristotelico. Anche qui (si vedano soprattutto le pp. 136-37), come nel libro, si ha l’impressione che la topologia finisca per essere una sorta di chiarimento, sia pure ontologico (ma resta da vedere che senso ha ancora, qui, il termine), della « situazione » storica, nel senso storicistico contro cui Heidegger polemizza per esempio nel saggio su Die Zeit des Weltbildes, in Hw 69-104 [71-101]. In tale prospetti­va riesce poco chiaro quello che il Pöggeler riconosce poche pagine prima, nel saggio citato (p. 129), e cioè che la verità (e quindi il luogo in cui la Erörterung colloca l’ente e l’enuncia­zione) è un mistero (Geheimnis) che è destinato a rimanere tale in modo permanente.

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Tutto ciò è molto importante perché definisce uno dei primi caratte­ri salienti dell’ermeneutica heideggeriana: l’interpretazione, cioè, non ha un punto di arrivo, neanche nel senso di incontrare a un certo momento un limite invalicabile oltre il quale non sa andare. Essa consiste tutta nella via, è tale solo in quanto si sa mantenere unter­wegs, in cammino; non solo l’ontologia, per il nesso essere-linguaggio, diventa ermeneutica, ma questa, in quanto è intesa come ontologia, è un’interpretazione che consiste nel muoversi all’interno del campo da interpretare. Ma come si potrà realizzare, di fatto, questa interpretazio­ne che non sa dove vuole arrivare, anzi non vuole arrivare affatto? Il muoversi all’interno del campo, mantenendosi in esso, cioè ricordando­lo come la luce in cui l’illuminato diventa visibile, non sarà un muover­si brancolando, senza alcuna possibilità di distinguere i passi buoni da quelli errati?

Certo è che il criterio per misurare la bontà dell’interpretazione, intesa nella sua portata ontologica, non può essere il pensiero comune; questa difficoltà di darsi una struttura rigorosa senza voler accettare la « logica » del linguaggio di cui vuol appunto mettere alla prova la validità 9, che incontra inevitabilmente ogni pensiero rinnovatore, in Heidegger assume un peso centralissimo proprio per la sua iniziale distinzione tra autentico e inautentico e per il relativo rifiuto della metafisica come onticizzazione dell’essere. Se l’ermeneutica di tipo tra­dizionale, metafisico, si fonda tutta sull’ideale dell’esplicitazione, l’inter­pretazione che voglia salvare l’essere in ciò che ha di più proprio non può accettare di misurarsi sui criteri di essa. Non solo: ogni definizio­ne rigorosa di criteri, nel senso, si potrebbe dire, che risale a Cartesio, e prima ancora alla logica aristotelica, è estranea a questo tipo di riflessione. Se un criterio può esserci, dice Heidegger, esso si attinge nella nascosta ricchezza del linguaggio {cfr. US 197 [155]); ma questo non è un criterio nel senso ih cui lo intendiamo abitualmente, una misura per sceverare quel che vale da quel che non vale nel nostro lavoro interpretativo. Del resto, un criterio in questo senso implica per

9 Questa pretesa di sottoporre ii pensiero heideggeriano alla « logica » intesa come la struttura necessaria di ogni pensiero e non, come Heidegger la concepisce, come forma del pensiero in una determinata epoca dell’essere, è un po’ il limite dello studio di W. B röc- ker , Heidegger und die Logik, in « Philosophische Rundschau », 1953-54, fase. 1, 48-56. La tesi del Brocker, che pure in origine era stato uno dei primi discepoli di Heidegger, è che Heidegger identifica arbitrariamente la logica con il pensiero teoretico (o rappresentativo, o ontico) ; il suo sforzo di pensare in maniera più originaria rispetto ad esso lo conduce perciò a respingere in blocco la logica. Il presupposto ancora « metafisico » della posizione del Bröcker, l’essere ancora pensato come presenza e stabilità, è evidente per esempio a p. 51: la logica, su questa base, diventa la struttura necessaria di ogni tipo di pensiero. Ma con ciò, proprio il problema che Heidegger vuole porre è dato fin da principio per risolto.

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forza che sia definito ciò a cui si vuole arrivare; se invece ciò che si vuole è mantenersi sulla via, allora il criterio potrà essere proprio il riferimento alla ricchezza del linguaggio, cioè lo sforzo di attingere sempre di nuovo a una sorgente che non si esaurisce e proprio per questo non permette formulazioni definitive. C’è in questo atteggia­mento del pensiero heideggeriano una sorta di ritorno al « principio di autorità », e non per nulla il suo interesse per l’ermeneutica è nato in clima teologico (cfr. il passo già ricordato di US 96 [8 9 ])10: l’uso di criteri, nel senso che chiameremo cartesiano del termine, è tipico del pensiero che presuppone definiti in partenza i limiti del campo da esplorare, anzi i criteri segnano proprio questi limiti: per esempio: « è vero, cioè è autenticamente, solo ciò di cui riesco a formarmi un’idea chiara e distinta »; oppure « è (vero) solo ciò che è esente da contrad­dizioni », ecc. Anche storicamente, sarebbe forse possibile mostrare come questo atteggiamento « metodologico » si accompagna sempre con la messa in crisi del principio di autorità, inteso, questo, come quello che esige una capacità di ascoltare, di mettersi a disposizione di una parola (e solo in questo senso, ovviamente). Ora, il problema di Heidegger è proprio quello di mettersi in grado di ascoltare, superando la mentalità « misurante » del razionalismo che domina la metafisica. Chi misura ciò che incontra con criteri rigorosi stabiliti in precedenza non ascolta autenticamente, solo giudica e assegna l’essere e il non essere a suo arbitrio. L ’ermeneutica come arte di portare tutto all’espli- citazione, in realtà, non è capace di farci incontrare mai qualcosa di « nuovo » nel senso autentico, perché si limita a sistemare e risistema­re continuamente il « campo » secondo i criteri: è questo il significato del nesso che Heidegger stabilisce tra ragione fondata-fondante e fine della storia (cfr. il citato passo di SvG 60); si dà storia e quindi, in senso autentico, novità solo quando si ascolta. L ’essere è appello, e

10 L ’importanza del fatto che l’interesse heideggeriano per l’ermeneutica muova da radici teologiche e dal suo incontro con la Bibbia è messa giustamente in rilievo dal P ö g g e l e r , Der Denkweg M. Heideggers, cit., 270, il quale sottolinea che il testo sacro si presenta all'interprete come qualcosa di completamente opposto a un documento storico nel senso di historisch, ma invece come storico in quanto geschichtlich, come un evento che apre un tempo ancora futuro e che dal futuro attende il suo pieno compimento. Ciò che è importan­te, e che il Pöggeler rileva solo implicitamente, è che nella interpretazione del testo sacro l’interprete si trova di fronte a un evento storico a cui egli stesso appartiene (la storia della salvezza, l’appello che Dio gli rivolge nella Scrittura) e dentro cui la sua interpretazione si muove. Per l’origine teologica, e non solo fenomenologica, dell’interesse heideggeriano per l’ermeneutica, si veda un cenno in G. M ü l l er , M. Heideggers Philosophie als Frage an die Theologie, in « Theologische Zeitschrift », 1959, fase. 5, 357-75: il rapporto con Bultmann, osserva giustamente l’A., è troppo spesso concepito come diretto in un senso solo, da Heidegger al teologo; è probabile che ci sia stato un influsso non indifferente di Bultmann su Heidegger (cfr. p. 363).

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l’ermeneutica ontologica, anche se appare qualcosa di nebuloso e di poco scientifico dal punto di vista della ragione metafisica calcolante, deve cercare di diventare capace di ascoltare. L ’interpretazione non arriva mai in un luogo in cui possa riposarsi, come vorrebbe una mentalità « rigorosa »? proprio perché il tipo del suo procedere è quel­lo del dialogo; essa non rispecchia mai semplicemente un testo assunto in una definitezza simile alla morte, ma risponde all’appello di esso, e Tappello a sua volta si presenta in una luce diversa dopo questa rispo­sta. Rispondere all’appello del testo (e dell’essere, come luce in cui il testo, l’enunciazione, mi si presenta) è ben diverso che chiarire il testo (morto, definito una volta per tutte) corrispondendo a certi criteri accettati in un certo àmbito storico; il rispondere al testo (e, si direb­be, l’essere responsabili davanti ad esso) esige una capacità di ascoltare che l’illustrazione e il chiarimento in base a una tavola di criteri non riesce neanche a immaginare. Non ce nulla di meno arbitrario, sotto tale punto di vista, di un’interpretazione condotta in questo modo; rinunciando a stabilire a priori una tavola di criteri essa si mette interamente a disposizione della parola, e l’assume in ciò che essa ha di ancora e sempre vivo, cioè il non-detto che la regge e la rende udibile. « Che cos’altro è leggere, se non raccogliere: raccogliersi nel raccogli­mento in ciò che, in quel che è detto, rimane non-detto? » n.

Il leggere, cioè in generale l’interpretare, è un’arte del raccoglimen­to, nel duplice senso che qui Heidegger attribuisce alla parola (e che egli collega al leggere attraverso il latino legere, equivalente anche a raccogliere): raccogliere ciò che il testo ha da dirci, ma proprio in quanto ci si raccoglie nel non detto che attraverso esso si fa presente e da cui il detto riceve la sua forza. Ci si può aspettare che questo stare in ascolto possa pervenire, o preoccuparsi di pervenire, a conclusioni, a formulazioni che concludano il processo interpretativo e diano la misu­ra della sua validità? L ’ansia di pervenire ad una conclusione è legata all’ansia di procedere oltre in vista di conclusioni ulteriori; è il tipico modo di svilupparsi della scienza. Da questo punto di vista (ma non è novità autentica, come si è detto), la scienza dice sempre del nuovo, mentre il pensiero che si sforza di pensare l’essere si muove sempre, anzi rimane sempre (ma in movimento, il movimento ermeneutico) nell’identico. Non c’è una marcia di avvicinamento all’essere, ma solo un muoversi nella vicinanza di esso: il che non significa: nei suoi dintorni, perché non ci si muove fuori dall’essere; bensì dentro tale

!’ Lettera a Staiger del 28 dicembre 1950, in E. S t a ig e r , Die Kunst der Interpretation, Zurigo 1955, 48.

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vicinanza, la quale rimane una vicinanza proprio perché Tessere non si identifica mai con noi o con qualcuno degli enti che incontriamo, e quindi non è mai afferrabile una volta per tutte in una formulazione. Se è così, il problema non è quello di concludere una volta per tutte con un testo, ma di permanere in dialogo con esso, giacché in ciò che esso dice si rivela un non detto che è Tapertura delTessere stesso.

Tutto questo, mentre da un lato giustifica da un punto di vista ontologico Timpossibilità di delineare un metodo fornito di criteri rigorosi, d’altro lato definisce però, almeno negativamente, questo tipo di ermeneutica. Anzitutto, l’interpretazione che si deve tentare di realiz­zare non può consistere principalmente in una chiarificazione del signi­ficato: né nel senso di spiegare che cosa vogliono dire le parole e le frasi da interpretare, né nel senso di spiegare perché esse sono state dette. Entrambi questi modi di porsi davanti al testo, che corrispondo­no a quelle che il Pöggeler (cfr. la pagina citata nella nota 8 di questo stesso capitolo) caratterizza come YErlàuterung fenomenologica e Y Erk­lärung metafisica, si muovono nell’àmbito dell’aperto già aperto, non colgono la portata ontologica del testo, cioè Tapertura dell’essere a cui esso richiama. Spiegare il significato della parola, della frase, della pagina, è sempre un lavoro di vocabolario : sia quando si limiti davvero a indicare (per esempio per qualcuno che non conosca bene la lingua) il senso delle parole e delle espressioni, sia quando, come accade molto spesso nella critica letteraria, illumini il significato non solo in riferi­mento al vocabolario della lingua ma in riferimento al contesto, alla singola opera o alle altre opere di quel determinato autore: anche qui siamo di fronte a una illustrazione dei significati che assume le parole come segni, il cui rimando è possibile solo sempre entro un àmbito già aperto e fondato. Lo stesso accade alla critica che cerca il significato non nel puro riferimento semantico della parola, ma nelle condizioni storiche, psicologiche ecc. in cui il testo è nato: si tratta di fatti « storici » che rimandano l’uno all’altro, ma sempre, ancora una volta, entro una determinata apertura dell’essere, e non ci richiamano in alcun modo a questa apertura in quanto tale. Non è detto che questi tipi di interpretazione siano inutili; essi hanno lo stesso valore di sistemazione del campo, dall’interno di esso, che ha la scienza; ma in quanto pretendano di essere definitivi proprio per il rigore metodico con cui possono procedere, essi diventano un aspetto di quel metafisi­co oblio delTessere che domina la nostra epoca e costituisce la vera base dello stato di alienazione delTuomo (cfr. il già ricordato passo di HB 27 [292]).

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Se l’interpretazione, nel suo significato più autentico, non può consi­stere in uno di questi procedimenti chiarificanti, ciò dipende dal nuovo atteggiamento che il pensiero ontologico assume di fronte al linguag­gio: la parola, come Heidegger ha messo in luce soprattutto nel com­mento a un verso di George (cfr. US 159 ss. [127 ss.]), non è anzitutto segno. La chiarificazione- nei due sensi che abbiamo visto poco fa la assume proprio come tale. La parola va invece rispettata nella sua portata ontologica, se così vogliamo dire. Anche qui, chi voglia prova­re a pensare alla maniera di Heidegger si trova nella situazione difficile di non aver dove appigliarsi: rispettare la parola come tale, non assu­mendola come segno di una situazione storica, di uno stato psicologi­co, di un significato letterale, significa trovarsi di fronte ad essa faccia a faccia, cioè doverla davvero ascoltare per quello che è, senza incapsu­larla immediatamente in un corso di pensieri familiari. In questo si radica l’atteggiamento tipico di Heidegger che considera la parola co­me una sorta di dato ultimo 12, senza mai cercare di illuminarla con riferimenti storici, biografici ecc., ma eventualmente ricercandone e ricostruendone l’etimologia. La parola, o la proposizione in generale, è l’aprirsi dell’essere stesso: la società in cui essa viene detta, l’uomo che la dice, le cose che essa sta a indicare, vengono tutti « dopo » di essa, sicché non possono servire a capirla; è essa, semmai, che ci fa capire tutte queste cose. Rifarsi all’etimologia è un modo di cercare di incon­trare la parola nella sua vera natura, nel suo peso ontologico che non si fonda su alcun rimandare, poiché essa, prima che Zeichen, è Zeigen, mostrare e far essere le cose nel loro essere più autentico. E, data la priorità che ha la parola sulla storia, è chiaro che il divenire etimologi­co non potrà essere ricondotto alle condizioni storiche in cui è accadu­to, ma andrà considerato come un fatto primo.

Sembra tuttavia che l’etimologia non conduca a risultati diversi dal­l’interpretazione chiarificante di cui si è parlato prima come chiusa

12 Questo atteggiamento è parso a qualche interprete una sorta di « feticizzazione » del linguaggio: cosi Io definisce per esempio H. S ch w eppen h Äu se r , Studien über die Heideg- gersche Sprachtbeorie, in «Archiv für Philosophie», 1957, 279-324 e 1958, 116-44. Tale feticizzazione, per cui si veda la seconda parte del saggio, p. 144, consiste per l’A. nel fatto che Heidegger pretende di isolare la parola originaria dall’uso a cui essa di fatto storicamen­te serve (per u fatto che si rifiuta di assumerla come segno) (cfr. p. 131). Heidegger finirebbe così, ma qui pare a noi che l’A. si contraddica, per fondare la sua riflessione sul linguaggio proprio in quella attenzione al Geredete als solches che per Sein und Zeit (p. 168; it. 182 [270]) è il modo inautentico di porsi nei confronti del linguaggio (p. 139). Proprio questa ultima osservazione, però, dovrebbe mostrare che l’attenzione alla parola come tale non può essere per Heidegger un isolarla dall’uso in una specie di essenza astorica; appunto la ricostruzione etimologica, che pare all’A. ima forma di attenzione inautentica al linguag­gio, è invece il tentativo di recuperare l’originarietà della parola non come isolamento, ma come apertura e fondazione degli usi storici a cui via via viene fatta servire.

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nell’àmbito del pensiero metafisico 13. Ricostruire l’etimologia di una parola non vuol infatti dire altro che andare a ricercare i significati che essa aveva in altri tempi o in altri contesti. Ora, questo non fa che ampliare quantitativamente il campo dei riferimenti, ma, sembra, la prospettiva di fondo rimane la stessa. Heidegger tuttavia impiega la ricostruzione etimologica in un senso profondamente diverso, almeno nelle intenzioni e nei risultati. Il procedimento consiste in effetti nel ricostruire le derivazioni di una parola; risalendo così nella sua storia, noi ci troviamo di fronte a una serie di significati i quali non fanno che moltiplicare i riferimenti. Ciò che ha di ontologico questo modo di procedere non è la quantità di riferimenti a cui si perviene, presi ciascuno per sé o nella loro somma; ciò che conta, invece, è la storia delle derivazioni, la connessione dei significati tra loro, e la collocazio­ne della singola parola in questo quadro. La storia dei significati di una parola, la storia del suo formarsi nella struttura che ora le appartie­ne, è la storia dell’essere: ecco perché chi legge le molte pagine heideg­geriane dedicate al commento di proposizioni filosofiche, di testi poeti­ci, o anche alla ricostruzione di pure e semplici etimologie ha l’impres­sione che esse dicano sempre la stessa cosa. Ogni ricostruzione etimolo­gica ci riporta in presenza dell’evento dell’essere nella sua struttura di darsi-celarsi; la parola rivela di aver subito, nel corso di questa storia, una serie di mutamenti, che non sempre e necessariamente sono degli impoverimenti. Nella storia di ciascuna parola si rivela la storia dell’es­sere, perché la storia delle parole è la storia stessa dell’essere. Da questo punto di vista, cioè, l’etimologia è l’unica via dell’ontologia come ricostruzione della storia dell’essere. Tuttavia, ogni pensiero che si sforzi di abbracciare la storia dell’essere coglie in definitiva solo la storia dell’ente nella sua totalità, cioè la storia delle aperture dell’esse­re, della verità. L ’essere, in questa storia, si dà come quello che si

13 Ciò accade di fatto se si interpreta Petimologismo heideggeriano come un tentativo di risalire all’origine del linguaggio (e delle cose): questa è per esempio l’interpretazione di G. R a lfs nel citato articolo Kritische Bemerkungen zu Heideggers Lehre von der Wahrheit. L ’etimologia intesa come un risalire alle origini sarebbe una prova che Heidegger confonde l’originario nel senso di fondante con l’originario come Anfang (cfr. p. 547). Ma la ricostru­zione etimologica ha per Heidegger tutt’altro senso da quello che pensa il Ralfs. Un altro grave fraintendimento dell’uso dell’etimologia in Heidegger è quello che si trova nell’opera di V. Vy c in a s , Earth and Gods. An Introduction to thè Phisolophy of Martin Heidegger, L ’Aia 1%1, 258: neli’àmbito della sua interpretazione « naturalistica » di Heidegger — fon­data alquanto arbitrariamente sulla assunzione dei commenti heideggeriani ai pensatori greci come espressione tout court del pensiero di Heidegger stesso — l’etimologia ha solo il senso di mostrare, attraverso la raccolta e la sistemazione dei diversi significati di un termine, « che la cosa non è sempre stata concepita staticamente ». La ricostruzione etimolo­gica avrebbe quindi, nel migliore dei casi, un significato storicistico, nel senso di documenta­zione di un processo storico.

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sottrae. Anche l’etimologia, intesa in questo senso, richiama al proble­ma di arrivare a pensare Tessere come Taltro dall’ente, la differenza come differenza. Rispetto a questo problema, tuttavia, proprio l’etimo­logia offre un aiuto. Non solo, infatti, la molteplicità dei significati e i loro nessi, nella totalità delle loro derivazioni, sono un modo di arriva­re alla storia delTessere, ma, rispetto al compito proprio dell’ermeneuti­ca di collocare la parola detta nel suo Ort, nel non-detto da cui essa prende forza, l’etimologia assolve a una funzione importantissima; essa infatti chiama attorno alla parola detta, che significa, per il nostro vocabolario, qualcosa di molto preciso e definito, tutta la ricchezza del linguaggio, mostrando ciò che nella parola è presente come non-detto. Il non-detto della parola non è però, di nuovo, la totalità dei significati a cui l’etimologia ci riporta, o uno di questi significati emerso come fondamentale; qui saremmo sempre ancora nell’àmbito dell’esplicitazio­ne; ciò a cui l’etimologia ci riporta è la stessa ricchezza inesauribile del linguaggio, vista come la ricchezza stessa dell’evento delTessere, da cui la parola e il suo significato definito scaturiscono e si rendono udibili. Ascoltare l’etimo di una parola significa ascoltare la parola dentro al linguaggio dell’essere, come il modo autentico dell’evenire dell’evento. Per questo, non occorre nemmeno che l’etimo sia ricostruito attraverso una serie di nessi rigorosi; basta che si illuminino, anche disordinata- mente (come di fatto accade nella storia delle derivazioni delle parole, il cui divenire è solo in parte riconducibile a leggi rigorose) i molteplici significati, a testimoniare nella singola parola, e nello sfondo non detto del suo significato esplicito particolare, la presenza del linguaggio in tutta la sua ricchezza. Come sempre quando si tratta di ontologia; ; anche l’etimologia diventa per Heidegger un esercizio che ci pòrta in maniera indiretta e allusiva alla presenza delTessere come ciò éntro cui si illuminano gli enti ma che come tale non è mai formulabile iti una proposizione, definibile con un enunciato. \

Anche la ricostruzione degli etimi, da questo punto di vista, fa -partev di quegli Um-wege, di quei « giri » o « digressioni » a cui Heidegger attribuisce un’importanza decisiva nell’esercizio ermeneutico. E chiaro infatti che, come nell’ermeneutica ontologica non ce un punto di arri­vo, così essa non può neanche avere un procedere lineare, uno svilup­po: il Weg è una via che non conduce in nessun posto, ma che permane in un certo « campo », muovendosi nel costante ricordo di ciò che rende possibile e apre il campo stesso. Si è visto che uno dei modi di percorrere questo Weg è la ricostruzione dell’etimo delle paro­le, che ci porta in presenza della ricchezza nascosta del linguaggio collocando le parole dentro quel non-detto che ne costituisce la forza.

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Tuttavia, la ricostruzione dell’etimo non porta neanche essa mai a un punto di arrivo definitivo; né alla definizione precisa di una linea di derivazioni stabilita una volta per tutte. Anche l’etimologia, così, è Um-weg; e Um-weg, in generale, è ogni Weg ermeneutico. Ciò confer­ma, anche sotto questo punto di vista, che l’essenza dell’ermeneutica (e del pensiero in genere), secondo Heidegger, è un muoversi permanen­do nell’identico. Gli Um-u>ege di cui dà esempio Heidegger nel suo lavoro di interprete sono tanti, ma consistono sempre nell’accostare e nel confrontare diversi significati possibili di una parola o di una frase, richiamando magari testi di altri autori, anche lontani, apparentemen­te, dall’argomento in esame, come accade per esempio nel Satz vom Grund’ dove a un certo punto viene citato e commentato un distico di Angelo Silesio (cfr. pp. 68 ss.) 14. L ’introduzione di questi riferimenti, o anche, senza che vi sia richiamo a testi o autori, lo sviluppo di possibili linee interpretative che poi vengono abbandonate o comun­que non si inseriscono come parte o momento nell’ulteriore corso dell’interpretazione, ha sempre la funzione di far venire in luce la ricchezza linguistica entro cui la parola e il testo sono collocati. L ’esem­pio e il tipo de\VUm-weg ermeneutico, quindi, rimane sempre per Heidegger l’etimologia, la quale conserva quella indeterminatezza che altri tipi di analisi, sociologica e psicologica, della parola, non hanno. L ’etimologia, cioè, mentre da un lato prende la parola come dato ultimo e non come semplice segno (il che suppone sempre l’aver accet­tato a priori un criterio del rimando e quindi una non completa disponi­bilità a ciò che viene detto), dall’altro, proprio per questo, è un movi­mento che non conduce mai a conclusioni, e come tale rimane un esercizio di affinamento della capacità di ascoltare.

La stessa struttura sintattica del discorso ermeneutico così concepito muta profondamente: la frase composta di soggetto e predicato, nella misura in cui suppone sempre una accettazione dello schema metafisi­co sostanza-accidente, è inadeguata, come già si è visto, a un pensiero che voglia pensare l’essere in maniera autentica; la stessa insufficienza del Satz, della proposizione grammaticale definita, si incontra sul piano

H II primo verso del distico di Silesio (1624-1677, contemporaneo, un po’ più anziano, di Leibniz) comincia così: « Die Ros ist ohn warum ». Può essere interessante ricordare, per illuminare possibili nessi del discorso heideggeriano sul principio di ragion sufficiente con la mistica, che il tema delToèrae warum è uno di quelli che ricorrono spesso nell’opera di Meister Eckhart. È ohne warum, per esempio, per lui, l’amore di Dio, e anzitutto Dio stesso, giacché se avesse un perché non sarebbe più rigorosamene uno: cfr. M e is t e r E ck­h a rt , Deutsche Predigten und Traktate, a cura di J. Quint, Monaco 1955, 290-91 (nella predica sul passo di Atti 1,4 ss.: Convescens praecepit eis, ah Jerosolymis ne discederent, etc.) e 299 (nella predica sul passo di Giov. 15, 16: Ego elegi vos de mundo, etc.). ,

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dell’interpretazione. Una frase « metafisicamente », cioè grammatical­mente, strutturata può essere solo principio, mezzo o fine di un ragio­namento; nella sua definitezza, o pone un problema, o enuncia una soluzione o un passo verso di essa. Nel discorso ermeneutico heidegge­riano, perciò, la struttura stessa della proposizione tende a scomparire, per far posto a un linguaggio che si sforza di essere fedele al carattere eventuale dell’essere e alla conseguente natura non-conclusiva dell’in­terpretazione. Estremamente significativa è, da questo punto di vista, l’elaborazione a cui Heidegger sottopone il titolo di uno dei saggi di Unterwegs zur Sprache, « Das Wesen der Sprache » (159 ss.[127 ss.]): il titolo a un certo punto viene rovesciato, ma non nel senso che si possa dire: l’essenza del linguaggio è il linguaggio dell’essenza. Non solo l’uso del verbo essere è improprio perché né l’essenza né il linguag­gio sono alla maniera degli enti. Questo fatto ne cela e indica un altro più profondo, che costituisce la vera sostanza del primo, e cioè che il linguaggio, non solo nella sua totalità ma anche nelle sue espressioni particolari, quando sia ascoltato in modo autentico, cioè ontologicamen­te, non si lascia abbracciare in alcuna proposizione. Heidegger scrive perciò questa « proposizione » in maniera diversa, collegando le due espressioni mediante due punti: « Questo insieme che ora ci parla, e cioè: l’essenza del linguaggio: il linguaggio dell’essenza, non è un titolo né una domanda. Esso diviene il Leitwort, la parola-guida, che dovreb­be accompagnarci lungo la strada » (US 176 [140]).

Il Leitwort si limita a indicare una connessione, o meglio una vici­nanza, inizialmente non meglio definita, nella cui luce si va alla scoper­ta della ricchezza di significati non contenuti nella parola, ma in cui la parola stessa è contenuta (versammelt, nel senso che si è detto). Il Leitwort non pone né risolve un problema: è una sorta di richiamo che guida nel percorrere il campo da esplorare, e proprio per questo esso non dice, nel senso in cui il dire è sempre un definire (è, non è, può essere, ecc.), ma si limita, si potrebbe dire, a risuonare e a richiamare l’attenzione, a esigere un ascolto. Un tale passaggio dalla proposizione al Leitwort, se si riflette, è richiesto dalla stessa nuova concezione del linguaggio a cui Heidegger cerca di attenersi. Il linguaggio vale come segno proprio perché fa uso della copula: non per nulla la logica classica fa risiedere la verità nel giudizio e non nella parola isolata. La copula istituisce non solo il nesso tra soggetto e predicato, ma tra la struttura della proposizione e quella della « realtà » : anche in una definizione puramente fittizia (esempio classico: l’ippogrifo è un caval­lo con le ali), Yè rimanda sempre a un ambito nel quale si suppone che il nesso valga (nel caso dell’ippogrifo, per esempio, Y è rimanda al

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mondo della favola che sto raccontando, o al nostro tacito accordo di considerare per un momento possibile un cavallo alato, ecc.). Attraver­so luso della copula, il linguaggio si caratterizza necessariamente come segno; chi voglia invece rigorosamente assumerlo in modo diverso, e nella sua vera essenza, cioè come ciò che dà l’essere alle cose e non semplicemente le significa o vi rinvia, dovrà arrivare necessariamente a cercare un linguaggio che faccia a meno della copula 15. Si capisce che Heidegger non pensa affatto a una riforma del linguaggio in questo senso: per gli usi della vita quotidiana, e anche per la ricerca scientifi­ca, il linguaggio « ontico » o metafisico a cui siamo avvezzi va benissi­mo. E invece il linguaggio del pensiero — in quanto questo si ricono­sca e voglia rimanere pensiero dell’essere — quello che non può più accontentarsi della struttura tradizionale. Tutto ciò si riporta coerente­mente alla originaria poeticità del linguaggio: il linguaggio, nella sua essenza più riposta, è poesia, cioè canto {Lied), perché loda {lobt) e cioè fa apparire (erlaubt) le cose (cfr. US 266 [210]). In quanto il linguaggio non è originariamente Zeichen ma Zeigen, cioè mostrare e non significare o rimandare, esso ha una struttura fondamentalmente « laudativa » (o si direbbe meglio esclamativa), che non rimanda a un aperto già aperto, ma fa venire in luce la cosa stessa per la prima volta. Il linguaggio del pensiero, nella misura in cui cerca dì avvicinarsi a questa natura originaria del linguaggio, deve abbandonare come insuffi­ciente la struttura « copulativa » della proposizione come secoli di dominio della metafisica l’hanno configurata, per lasciarsi guidare solo più da Leitwörter. Se il parlare è originariamente e anzitutto un ascol­tare, e non invece un esprimere, comunicare, ragionare, conclùdere, allora la vera forma del parlare è il risuonare di un Leitwort che apre e mantiene la disponibilità dell’ascolto.

Anche nelTermeneutica ontologica, tuttavia, che si muove sempre lungo Umwege e che non conclude mai con enunciazioni definitive, ce però un punto discriminante che può corrispondere alla lontana a

15 E interessante e significativo (anche se questo « significato » è tutt’altro che facile da precisare) che proprio un pensiero mosso alla ricerca del senso dell’essere finisca per cercare di formularsi in « proposizioni » che fanno a meno della copula. Questo, mi pare, dovrebbe far riflettere che per Heidegger non si tratta solo, come vuole il P ö g g e l e r , Der Denkweg M. Heideggers, cit., di una precisazione di ciò che intendiamo col termine essere, di una collocazione del detto nella apertura storica o epoca dell’essere che lo rende possibile {e, in questa prospettiva, lo spiega: ^Erörterung sarebbe solo una forma più perfezionata di Erklärung), e cioè di una ontologia come filosofia della cultura, in un certo senso; ma di ben altro, e cioè: proprio la collocazione, lungi dalPesaurirsi in una collocazione di tipo storico e storicistico, esige che il detto venga collocato in un’epoca, ma nell’essere stesso come epoche permanente, il che richiede proprio che l’essere non venga più adoperato e assunto come copula, cioè come ridotto all’essere dell’ente.

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quello che è 1 enunciazione nel pensiero metafisico. L ’unico caso in cui per il pensiero ermeneutico si può parlare di Sätze è quando essi vengano intesi non più come proposizioni o enunciati, ma, in base a un altro dei significati del termine in tedesco, come salti (cfr. ID 32 [12]). Così il Satz vom Grund, nella interpretazione ontologica, diventa un Satz, cioè uno Sprung, nell’essere in quanto essere (SvG 96). L ’analo­gia tra Satz e Sprung è molto più che un richiamarsi di significati diversi di una parola: nel pensiero ontologico-ermeneutico, lo Sprung ha proprio quella funzione di punto critico o punto saliente che aveva il Satz, o enunciazione, nel pensiero metafisico e nell’ermeneutica con­nessa con quello. Come l’interpretazione condotta dal punto di vista metafisico ha senso solo perché mette capo a un Satz, così anche l’interpretazione nel senso ontologico acquista il suo senso e il suo peso solo perché conduce a uno Sprung, a un salto. Non si tratta cioè di andare e venire più o meno oziosamente sugli Um-wege, senza mai pervenire a una conclusione. Certo, la conclusione non è sulla linea delTespressione, non è una definizione o un enunciato fondamentale che regga tutti gli altri; proprio per questo il Satz diventa Sprung. Ciò a cui si deve arrivare è un mutamento di piani; bisogna arrivare ad ascoltare la parola non più come segno o voce dell’ente, ma come appello dell’essere. Ciò a cui il lavoro ermeneutico tende, in tale pro­spettiva, non è più la messa in luce di questo o quel contenuto, ma il raggiungimento di un determinato atteggiamento nei confronti del te­sto da interpretare che lo assuma nella sua portata ontologica. Parlare di atteggiamento è tuttavia esatto solo fino a un certo punto: potrebbe sembrare che, allora, il lavoro ermeneutico sia una sorta di esercizio psicagogico e tenda unicamente a raggiungere una diversa condizione psicologica. Ora intendere così l’interpretazione è lontanissimo dal pensiero di Heidegger: tanto è vero che uno dei significati essenziali del concetto di Sprung ermeneutico è la sua istantaneità e la sua non omogeneità con i passi fatti precedentemente. Gli Um-wege — cioè, se vale quanto abbiamo detto, tutte le tecniche messe in atto dall’interpre­te per mantenersi raccolto in ciò che il testo richiama di non-detto - non sostituiscono né, a rigore, causano lo Sprung: essi servono solo di preparazione, ma lo Sprung è tale proprio perché non è sulla loro stessa linea: « Il salto porta il pensiero senza ponti, cioè senza che vi sia un procedere continuo, in un altro àmbito e in un’altra maniera del dire (Weise des Sagens) » (SvG 95).

Il punto saliente del lavoro interpretativo viene in tal modo sottrat­to alla precisione di una formulazione chiara, rimane come punto limite che non può mai essere garantito. Questo non stupisce se si

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pensa che lo Sprung è quello che ci deve condurre a pensare Tessere come tale: arrivare alla presenza delTessere non può mai dipendere dalle tecniche o dall’iniziativa dell uomo, o non soltanto da queste. Prima di parlare, dice il Brief Tuomo deve attendere che Tessere gli si rivolga di nuovo, anche col rischio che, nell’attesa, si trovi costretto a tacere (cfr. il già citato passo di HB 10 [273]). Il rischio dell’ermeneu­tica ontologica è appunto questo, che il Brief indicava in generale per ogni pensiero che si sforzasse di ascoltare Tessere. Può anche darsi che gli Um-wege di cui è fatto il lavoro ermeneutico rimangano tali, cioè digressioni e giri senza senso, e che quindi il pensiero, in essi, taccia. La loro funzione è preparatoria, nel senso di quel soweit es an ihm liegen darf di Was heisst Denken? (WD 34 [I, 84]); ciò che Tuomo può fare è appunto preparare le condizioni in cui Tessere possa even­tualmente rivolgerglisi: quel che per Was heisst Denken? non possono realizzare né la psicologia, né la morale intesa come insieme di precet­ti, paradossalmente viene qui riservato proprio all’ermeneutica: tra i tanti esercizi ontici, cioè chiusi nell’ambito dell’essente, che costituisco­no quantitativamente la maggior parte della vita dell’uomo, Tunico esercizio autenticamente ontologico è così l’esercizio ermeneutico, inte­so come sforzo di disporsi ad ascoltare la voce e l’appello dell’essere. Davvero si deve dire, con Heidegger stesso, che l’origine teologica del suo interesse ermeneutico è anche il suo autentico futuro, la sua fine (cfr. il già ricordato passo di US 96 [89-90]). Ciò che veramente conta (non in alternativa agli altri « impegni » storici, ma come unico « fon­damento » e radicamento di essi) per Tuomo è ascoltare la parola, anche se in questo contesto filosofico essa né si identifica esplicitamen­te con la Parola di Dio né ha con questa rapporti precisati. La riuscita di questo esercizio di ascolto, cioè la realizzazione dello Sprung, non dipende solo o principalmente dall’ascoltante, ma dalla parola stessa. Proprio perché è dialogo, l’ermeneutica non si garantisce mai con lo stabilire e il seguire un sistema di regole.

Con il concetto di Sprung, l ’ermeneutica ontologica trova dunque un punto di riferimento, una specie di fine a cui tendere e che dà senso al Weg dell’interpretazione. Tuttavia, questo punto fìsso è tale che non si lascia ridurre a un criterio definito capace di sceverare con rigore il buono e Terrato del lavoro interpretativo. Non solo: lo Sprung, nella sua istantaneità, non può mai venir considerato, quando si realizzi, un risultato acquisito di cui si possa far parte agli altri attraverso un discorso. Ciò sarebbe possibile solo se la riuscita dello Sprung fosse legata casualmente con i procedimenti, gli Um-wege, messi in atto dall’interprete per prepararlo. Ma poiché non è così, la comunicazione

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agli altri dei « risultati » del proprio lavoro ermeneutico non è mai in realtà comunicazione di risultati, ma sempre soltanto un invitare gli altri sulla stessa via, a seguire gli stessi giri, in attesa che anche a loro il salto riesca. Anche per lo stesso interprete, lo Sprung è qualcosa che si deve sempre attuare di nuovo (cfr. SvG 159).

Questa istantaneità dello Sprung non solo sottolinea, dal punto di vista del lavoro ermeneutico, il primato dell’appello dell’essere su qua­lunque iniziativa dell’uomo, ma mette anche in luce che il salto, cioè il raggiungimento della prospettiva ontologica dell’interpretazione, più che un momento preciso del processo interpretativo ne costituisce invece una sorta di continua tensione interna, che è presente in ogni momento di esso come sforzo costante di mettersi a disposizione del­l’essere e del suo appello. Il salto infatti non ci conduce, dice Heideg­ger, ad abbandonare il campo (Bereich) dove ci trovavamo, ma anzi celo fa possedere in maniera più sicura: non nel senso della sicurezza a cui tende il ragionare fondante-fondato della metafisica, ma nel senso della sicurezza del ricordo (cfr. SvG 150: so dass das Gewesene jetzt erst unverlierbar wird). Il salto ermeneutico è insieme prospettivo e retrospettivo, come in generale è il pensiero in quanto pensiero dell’es­sere (cfr. SvG 158-59). Proprio perché non è sulla stessa linea dei passi fatti precedentemente, lo Sprung non se li lascia dietro le spalle come qualcosa di superato o di utilizzato, ma li recupera in sé, e in tal senso è retrospettivo; ed è prospettivo perché, cogliendo l’essere, lo coglie come Seinsgeschick, cioè, come dono-destino, e quindi anche come autentico futuro. Ma, come è proprio del Geschick dell’essere, tale futuro è autentico perché è l’autentico passato, sicché prospettività e retrospettività del pensiero e del salto ermeneutico finiscono per identificarsi.

Tutto questo non conduce però, in definitiva, a vanificare il concet­to stesso di Sprung, giacché lo priva di quella puntualità e individualità che solo potrebbero caratterizzarlo e dargli un senso? Anzitutto, si deve osservare che lo Sprung, pensato così, risulta scarsamente indivi­duato solo rispetto agli altri momenti del processo ermeneutico, e ciò proprio perché esso non è uno di tali momenti, sicché non si può definire se non negativamente in rapporto ad essi. E, in secondo luogo, l’uso del termine Sprung non sta a indicare che debba trattarsi di un fatto puntuale e individuato, ma solo che la riuscita (ontologica) dell’in­terpretazione è un fatto discontinuo e irriducibile rispetto al lavoro stesso dell’interprete. Quali siano i due versanti che lo Sprung unisce e distingue, però, è molto chiaro. Ciò ch’è « prima » del salto è il pensie­ro ontico, l’interpretazione come chiarificazione (dei significati, dei

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riferimenti storici, biografici, sociali, ecc.) e la relativa considerazione del linguaggio come segno o strumento di comunicazione: tutto questo modo di pensare si muove nell’ambito dell’essente, pensa ogni ente sempre solo in riferimento a un altro ente, all’ente supremo o alla totalità degli enti, fruendo della luce ma senza fare attenzione ad essa come tale. Lo Sprung fa invece pervenire il pensiero in un piano dove le espressioni da interpretare, e in generale lente come illuminato, vengono guardati solo, o principalmente, in quanto in qualche modo richiamano alla luce dentro cui si fanno visibili. Al pensiero metafisico si sostituisce il pensiero rammemorante. Mentre il primo bada a esplici­tare i significati, a portare l’ente all’enunciazione completa e piena, il pensiero rammemorante cerca di collocare l’enunciato, e di collocarsi, raccogliersi, « in quell’ambito, finora dimenticato, entro il quale e dal quale soltanto l’essenza della verità diventa degna di essere pensata » (ID 45 [22]).

Lo Sprung ermeneutico è anche, in questo senso, un passo indietro, Schritt zurück (ibid.), un risalire dall’illuminato aU’illuminarsi del­l’apertura. Ora, come si è visto, l’àmbito del non-detto in cui l’erme- neia colloca la parola detta è la ricchezza stessa del linguaggio; non intesa come la totalità o molteplicità dei significati, ma come la stessa inesauribile pienezza del significare. La distinzione tra pensiero metafi­sico e pensiero rammemorante, da questo punto di vista, diventa distin­zione tra pensiero che bada al detto del linguaggio e pensiero che cerca di pensare il dire stesso; mentre l’ermeneutica metafisica perviene sem­pre solo a un chiarimento dei significati, l’ermeneutica ontologica, in ogni significare particolare, cerca di cogliere l’essenza {Wesen, Walten) del linguaggio. Unterwegs zur Sprache non indica perciò un particolare problema, quello del linguaggio, che la ricerca può assumere a tema a preferenza di altri; il pensiero dell essere, in quanto, per la connessione essere-linguaggio, è pensiero ermeneutico, è riflessione sul linguaggio: non sulle espressioni linguistiche come tali, ma sul « dire » o parlare originario che le « pronuncia ». Vista cosi, l’ontologia non è soltanto la illustrazione delle varie aperture dell’essere, aperture sempre fondate da un determinato linguaggio, ma tentativo di cogliere l’aprirsi stesso, che come tale trascende le sue stesse aperture, quell’identico (Selbe) che percorre e penetra in qualche modo tutta la storia dell’essere. Uno dei risultati salienti della speculazione ermeneutica di Heidegger, cioè della sua teoria delPinterpretazione ma anche, e in primo luogo, della sua pratica di interprete che si sforza non di chiarificare ma di « collo­care » i testi che esamina, è proprio il chiarirsi di questo concetto di identico che percorre la varia storia dell’essere come storia delle apertu­

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re linguistiche dando a tale storia una unità. È questo, a nostro parere, il punto che si deve tentare di chiarire a conclusione di questo studio. Si tratta, cioè, di mettere in luce che cosa sia questa unità, questo Selbe di cui Heidegger parla ripetutamente nelle sue opere tarde senza mai impegnarsi in una trattazione distesa e conclusiva: da ciò risulterà anche evidente che non si tratta in alcun modo, come hanno supposto molti critici, di un ritorno allo storicismo.

3. L ’essenza del linguaggioe la vicinanza di pensare e poetare

Ogni volta che Heidegger cerca di avvicinarsi all’essenza del linguag­gio, che, data la connessione linguàggio-essere, è molto più che la soluzione di un particolare problema della filosofia, l’unica via che gli si apre è quella che muove dalla vicinanza di pensare e poetare, quelli che egli chiama i due modi del Sagen, del dire originario che apre la storia dell’essere.

Discorrendo del linguaggio, rimaniamo avviluppati in un parlare sempre insufficiente... Ma questo imbarazzo, che il pensiero non deve prendere alla leggera, si risolve appena noi facciamo attenzione a ciò che appartie­ne alla strada del pensiero, cioè ci guardiamo intorno nella regione in cui il pensiero dimora. Tale regione è aperta soprattutto nella vicinanza alla poesia (US 179 [142]).

È nel dialogo con la poesia che il pensiero si avvicina all’essenza del linguaggio; ma ciò accade solo perché questa essenza stessa si risolve nella vicinanza delle due maniere, o Weisen. La poesia non informa il pensiero sull’essenza del linguaggio, la quale sarebbe qualco­sa di distinto da pensare e poetare, a cui essi solo possono arrivare aiutandosi vicendevolmente. Quando entra in dialogo con la poesia e fa attenzione a questo dialogo come tale, il pensiero si muove nella vicinanza di pensare e poetare, cioè dentro l’essenza {come Wesen in senso verbale) del linguaggio. « Questa vicinanza (di pensare e poeta­re) domina in ogni suo aspetto il nostro dimorare sulla terra e il nostro muoverci [Wanderung] in esso (dimorare) » (US 189 [149-150]).

Quel Selbe a cui il pensiero ermeneutico deve ritornare con un saltoo con un passo indietro è proprio questa vicinanza, che domina e unifica tutta la storia dell’essere (cfr. US 208 [164]). Resta vero, come dice la conferenza su Hölderlin, che il fondamento che regge la storia è la poesia, ma qui questa proposizione va integrata in un modo che

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non contrasta con il suo significato primitivo: la storia si risolve (o anche: è il dispiegarsi) nella vicinanza di pensare e poetare. Tale vicinanza è l ’essenza (il Wesen) del linguaggio. L ’integrazione dell’affer­mazione dello scritto su Hölderlin corrisponde al chiarimento del concetto di ontologia che si è avuto proprio in base alla riflessione ermeneutica. In base al concetto della funzione aprente della poesia, la storia dell’essere appariva come il darsi successivo (ma sempre istanta­neo, anche se in quella prospettiva ancora il concetto di istantaneità aveva solo un significato negativo, di polemica antistoricistica, e non il senso positivo che acquista in base alla riflessione ermeneutica) di aperture linguistiche fondanti rispetto a ogni altra manifestazione della « cultura ». Corrispondentemente, l’ontologia doveva essere un andare a cercare l’essere al livello di queste aperture, cioè nel linguaggio. Ma poteva ancora sussistere l’equivoco di una ontologia intesa come « filo­sofia della cultura », come una descrizione dei vari ambiti culturali, delle « metafisiche » che anche per Dilthey reggono ogni epoca della storia. Ora, però, proprio lo sforzo di riflettere sul linguaggio in un modo che non si riducesse a questa pura funzione descrittiva e chiarifi­cante, ha condotto Heidegger a vedere che lermeneutica ontologica è tale in quanto non chiarisce ma « colloca » le enunciazioni linguistiche nel non-detto, cioè, sebbene questo modo di parlare sia approssimati­vo, nell’essere. E ciò fa in quanto non riflette sul detto del linguaggio, ma sul dire, sulla sua essenza: è questa essenza del linguaggio il Selbe, l’unità profonda che in qualche modo si coglie nella storia dell’essere. In questa essenza, la poesia conserva la funzione aprente e fondante che aveva già per il saggio su Hölderlin; ma ad essa si affianca, in maniera inscindibile, il pensiero. Esso « traccia solchi invisibili nel campo del linguaggio» (HB 47 [315]); questo campo, come Gegend in cui il pensiero si muove, è aperto proprio dalla poesia. Nella poesia risuona das Erstaunende, ciò che meraviglia e sorprende, nella forma del canto, mentre nel pensiero si annuncia il Denk-würdige, ciò che merita di essere pensato e dà a pensare (US 195 [154]). Ma la dimora dell’uomo sulla terra non è definita e istituita da uno solo dei due o da ciascuno separatamente; essa si istituisce invece nel dialogo di pensiero e poesia: di Erstaunende e Denkwürdige. Il rapporto tra pensare e poetare è un Gegeneinander-über, uno star dirimpetto l’uno all’altro (cfr. US 187 [148]), cioè un dialogare.

In questo dialogo, ognuno dei due dialoganti prende una sua fisiono­mia definita ma nello stesso tempo la perde e assume in certa misura quella dell’altro. I caratteri della poesia su cui molta estetica insiste, cioè la sua definitezza, il carattere concluso e compiuto, unico e irripeti

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bile, della forma poetica (o artistica), sono proprio quelli per cui la poesia può avere la funzione fondante e aprente nella storia: essa è « messa in opera della verità », come dice il saggio sull’origine dell’ope­ra d’arte, proprio perché è l’erigersi di un ente che è come il primo di un nuovo mondo, di una nuova epoca dell’essere. A questi stessi caratteri allude Unterwegs zur Sprache quando parla di risuonare fisico della poesia, di ritmo, o di Versteinerung (cfr. US 26 ss., 208, 230 [38 ss., 163-164, 181]). Il pensiero pensa sempre in risposta alla poe­sia, in dialogo con essa, questa è la sua condizione normale (cfr. US 187-89 [148-149]: è condizione normale perché la vicinanza di pensa­re e poetare, che si attua proprio nel rispondere del pensiero alla poesia, è l’essenza del linguaggio). E in tale senso che si deve intende­re l’affermazione heideggeriana per cui il pensiero porta alla parola ciò che già risuona (SvG 48-49: anche se in quel testo non è esplicito questo senso).

D’altra parte, il dialogo di pensare e poetare non implica una rigida contrapposizione tra un parlante e un ascoltante: è un dialogo proprio perché a un certo punto le posizioni si rovesciano, e chi parla ascolta. Ciò significa che la funzione aprente della poesia può essere esercitata anche dal pensiero: si ricordi che in Holzwege; proprio in quel saggio sull’origine dell’opera d’arte che rappresenta la prima enunciazione delle basi di tutta questa tematica, anche il pensiero era considerato uno dei modi di aprirsi alla verità, insieme all’opera d’arte (Hw 50 [46]). Per Was ist das - die Philosophie?, è proprio il filosofo che è chiamato a dire che cosa l’ente è (WPh 31 [33]), cioè a fondare un’epoca dell’essere. D ’altra parte, anche la poesia non è sempre, nelle pagine heideggeriane, considerata come origine prima: così nei versi di George sulla parola e sul suo rapporto con Tessere della cosa, il pensie­ro sente enunciata una tesi che gli è in qualche modo familiare e che è connessa da secoli all’antico concetto di logos (cfr. US 185 [146]). L ’unità di pensiero e poesia in cui consiste l’essenza del Sagen — ed è unità a tal punto che non si può parlare nemmeno di un rapporto tra di essi, perché ciò significherebbe pensarli come consistenti ciascuno per sé prima e fuori del rapporto (US 188 [149]) — non va pensata come un quadro in cui ciascun elemento ha assegnata una sua funzione rigidamente definita: essa è piuttosto quell’unità di appello e risposta in cui consiste forse l’essere stesso (cfr. SF 28 [357]). Questa unità è quel Selbe a cui il pensiero risale nel lavoro ermeneutico; l’unità di pensare e poetare è appunto pensata come un Gegen-einander-über, uno star dirimpetto, in dialogo. Ciò significa che ogni apertura storica, come fondazione linguistica di un’epoca dell’essere, è già sempre anche

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risposta ed interpretazione, a sua volta, di un altro appello : l’originarie- tà della poesia è anche sempre derivazione. Questo rappresenta un decisivo passo avanti rispetto al saggio sull’origine dell’opera d’arte, passo in cui consiste il risultato della riflessione sull’ermeneutica. In base ad esso, per Unterwegs zur Sprache, lo stesso Ereignis dell’essere è il darsi del linguaggio come vicinanza di pensare e poetare (US 196 [155]). La storia dell’essere non è più solo l’aprirsi di mondi linguistici fondati dall’opera d’arte e dalla poesia; allo stesso evento dell’aprirsi è altrettanto essenziale l’interpretare, come dialogo con un appello; que­sto non solo nel senso, che si è visto, per cui il linguaggio umano è sempre già risposta all’appello del Sagen stesso, ma anche nel senso che questo carattere di risposta si manifesta storicamente come irrag­giungibilità, di fatto, di un linguaggio originario. La poesia è un tale linguaggio originario, ma solo per la sua funzione fondante rispetto a ogni altro fenomeno storico-culturale; tuttavìa, anche di essa non si può dire che risponda soltanto all’appello del silenzio a cui ogni lin­guaggio in ultima analisi si riporta. Anche la poesia è a sua volta risposta ad appelli, cioè interpretazione. Per questo, come si è visto, non si può definire una volta per tutte, nel rapporto pensare-poetare, a chi tocchi parlare e a chi ascoltare e interpretare. NeìYEreignis dell’esse­re, che è il darsi stesso del linguaggio come unità di pensiero e poesia, cioè di appello e risposta, coincindono i due significati che Heidegger attribuisce al termine hermeneia: il fatto che si dia una ermeneutica come interpretazione e risposta a un appello esige che un appello si dia: è il darsi di questo appello nel linguaggio umano, usato come messaggero, il primo e fondamentale hermeneàein (cfr. US 121-22 [104-105]). Hermeneia cioè significa anzitutto annuncio, portare un messaggio. A questo primo e fondamentale aspetto dell’ermeneutica corrisponde la visione della storia come un darsi di istantanee aperture di linguaggi che costituiscono le epoche dell’essere. Ma proprio perché è l’uomo il messaggero che porta tale messaggio, il suo essere usato e impiegato in questa funzione è sempre già un rispondere al messaggio stesso: il linguaggio che noi parliamo non è anzitutto un parlare, ma anzitutto un ascoltare e rispondere a un appello. Ora, dalla riflessione ermeneutica, è emerso che l’essenza del Sagen, cioè il linguaggio nella sua struttura originaria, non è solo l’appellare, ma, appunto, l’unità di appello e risposta. La risposta, cioè, e ciò è di importanza decisiva, non si aggiunge al Sagen come un accidente legato contingentemente alla natura dell’uomo; o anche sì, ma questo non è accidentale, come non è accidentale per Tessere aprirsi solo in quell’ente che è Tesserci. L ’essen­za (Wesen, Walten) del linguaggio è appello ma nella stessa misura è

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anche sempre risposta. E ciò si rivela nel linguaggio umano, proprio dal fatto che ogni parlare — anche quello della poesia che pure, rispet­to alle manifestazioni di una determinata epoca, è primario e fondan­te — ha sempre anche il carattere dell’interpretare, del portare in luce (nel senso di esplicitare, questa volta, cioè nel senso dell’ermeneutica metafisica, che è poi l’ermeneutica « quotidiana ») un discorso in qual­che modo già fatto e dato. Così il pensatore dice ciò che già sempre risuona; e il poeta annuncia una parola che il pensiero trova familiare, perché essa è già presente nella sua storia.

La storia appare così non solo più come aprirsi di aperture linguisti­che sempre diverse, ma come risposta a un appello che è sempre lo stesso, in qualche modo, nella sua indicibilità: ogni apertura è già risposta, e ciò assicura una unità alla storia, anche se, come si vedrà, non si tratta più in alcun modo dell’unità come la pensava lo storici­smo ottocentesco. Non c’è annuncio che non sia già anche interpretazio­ne, risposta ad un altro annuncio. Quel « qualcosa di identico » che deve unificare la storia, e che oscuramente si annuncia anche se mai si può definire esattamente che cosa sia (si può definirlo negativamente: non è l’unità di un processo, né la legge dialettica hegeliana, né un’idea universale che si individua in vari esemplari ecc.; cfr. ID 66 [33] e SvG 110) coincide con l’essenza della Sage o del linguaggio, intesa come unità di pensare e di poetare. Questo punto di arrivo del pensie­ro heideggeriano implica un insieme di conseguenze che sono accenna­te, anche se non ancora sistemate, nelle pagine più vive di Unterwegs zur Sprache.

4. Essere ed ermeneia

La scoperta — a cui Heidegger perviene proprio approfondendo, sia sul piano teorico che nel lavoro concreto di interprete, il problema ermeneutico — dell’unità di pensare e poetare come essenza stessa del linguaggio, e il nesso che peraltro egli ha stabilito, sviluppando i presupposti contenuti in Sein und Zeit, tra essere e linguaggio, permet­tono di parlare di una struttura ermeneutica della storia dell’essere o, semplicemente, dell’essere stesso. Non solo, cioè, l’ermeneutica rico­struisce la storia dell’essere in quanto chiarisce e riporta all’inespresso i vari àmbiti storico-linguistici nelle cui aperture consiste la storia dell’es­sere; ma l’aprirsi stesso di queste aperture, in quanto non è mai sempli­ce annuncio, ma anche sempre risposta, cioè unità di pensiero e poesia, è un fatto ermeneutico; l’ermeneia non è più solo la storiografia dell’es­

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sere, ma la sua storia stessa, il suo accadere. Sebbene, rispetto alle altre manifestazioni dell’epoca che essa stessa apre e fonda, la poesia abbia una posizione originaria, essa non è mai in realtà in comunica­zione col linguaggio stesso, col silenzio a cui si riduce la Sage origina­ria; anche la poesia dice ciò che già risuona, ciò che il pensiero trova familiare. Il rapporto del linguaggio umano con il silenzio che è l’essenza della Sage originaria non è mai individuabile, non si può mai dire che un evento linguistico non è in rapporto con altri eventi linguistici ma solo con il silenzio; così come Tessere non può mai essere raggiunto come il primo anello della catena degli enti, eppure è quello che tutti li regge e li apre nelle loro possibili concatenazioni. Anche la poesia, anche il linguaggio che apre e fonda un’epoca delTes- sere, è a sua volta interpretazione, risposta ad un altro annuncio, già elaborazione di un altro linguaggio. Anche ciò che Heidegger dice sul greco come lingua originaria della nostra « epoca » delTessere va inteso in questo senso; si tratta di una originarietà che vale rispetto a noi e all’epoca che tale linguaggio fonda; ma anch’esso, peraltro, appartiene già a un’altra epoca, più vasta e comprensiva, e così via, senza che mai si possa ritenere d’essere pervenuti all’essere stesso nell’atto di aprire una epoca originaria, che sarebbe in rapporto solo con esso.

Ogni epoca, ogni apertura linguistica in cui Tessere si dà e si cela, è sempre interpretazione di altre epoche; ogni epoca appartiene sempre a un’epoca più comprensiva. Questo rapporto, sottolineiamolo ancora, non è tale da condurre, risalendo, all’essere; e tuttavia questo apparte­nersi delle epoche Tuna all’altra non è senza riferimento al rapporto che lega ogni epoca all’essere, nel senso che in questa struttura riman­dante si rivela Tunità inscindibile di appello e risposta che costituisce l’essenza del linguaggio e Tessere stesso. Ogni epoca è già interpretazio­ne di un’altra e proprio in ciò si rivela la sua struttura di essere sempre risposta a un appello; proprio perché non si può mai pervenire a un primo appello, è chiaro che la vera fondazione di tutta questa catena di appelli e risposte sta nel considerare il rapporto storico di ogni epoca con le altre non come il fondamento, ma come rivelativo del più originario rapporto che lega ciascuna epoca all’autentico appello del­Tessere.

Considerare la struttura ermeneutica come propria della storia del­l’essere, tuttavia, non significherà ritornare proprio allo storicismo che Heidegger ha dovuto superare per giungere all’ontologia? Ermeneuti­ca, in ultima analisi, non è proprio la storia dello Spirito hegeliano che si dispiega attraverso i vari momenti come piena autocoscienza?

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Questo problema è importante non solo per precisare il rapporto di Heidegger con Hegel, ma per chiarire lo stesso significato intrinseco del concetto di ermeneutica come struttura dell’essere. Anzitutto, nel concetto di struttura ermeneutica della storia dell’essere, l’accento va posto non sul termine storia, ma sul termine ermeneutica. Non c’è una storia dell’essere, come succedersi di momenti, i quali, poi, si scoprono legati fra loro da un nesso di interpretazione, per cui ciascuno è sem­pre l’esplicitazione e l’interpretazione di quello precedente. Solo così, e cioè presupponendo la storia dell’essere come successione e processo, si potrebbe ridurre Heidegger a Hegel. Se si mette invece l’accento sul termine ermeneutica, allora si ha che: la storia dell’essere è l’ermeneuti­ca; non c’è altra storia dell’essere (cioè, siccome l’essere non è qualcosa fuori della sua storia, non c’è essere), al di fuori dell’ermeneia come unità di annuncio e risposta. Non le epoche sono nel tempo — e quindi ogni epoca segue e svolge l’altra — ma il tempo è nelle epoche dell’esse­re; è l’epoca che definisce il tempo, non viceversa. Così, per esempio, in un’opera filosofica che noi collochiamo in un determinato tempo storico, l’opera di Hegel, il termine essere può venire adoperato in significati profondamente diversi tra loro : e ciò significa che « il discor­so concernente l’essere e l’ente non si lascia mai ridurre a una sola epoca della storia delle illuminazioni dell’ “essere” » (ID 47 [23]).

Un’epoca non è un tempo storico nel senso della storicità banale; essa è un certo mondo linguistico (definito, per esempio, dal significa­to che hanno in esso termini chiave come quello di essere). Dal punto di vista della storicità banale, che misura il tempo sul metro della temporalità inautentica, in uno stesso tempo storico possono coesistere diverse epoche dell’essere; così accade per la molteplicità dei significati di essere nel testo hegeliano.

E chiaro che questa constatazione mette fuori causa una riduzione della struttura ermeneutica dell’essere allo storicismo; ogni epoca è interpretazione di altre epoche, ma non nel senso storicistico del prima e del dopo, bensì nel senso (ontologico) dell’unità di appello e rispo­sta; ogni epoca è risposta ad un appello, e solo in tal senso essa è « interpretazione », Non quindi, anzitutto, nel senso di chiarificazione ed esplicitazione. Fra la struttura ermeneutica della storia dell’essere heideggeriana e lo svolgersi dello Spirito come autocoscienza di cui parla Hegel non ce, in questa prospettiva, nulla di comune.

Ciò è del resto confermato da una esplicita precisazione di Heideg­ger, di enorme importanza per delineare meglio il significato di struttu­ra ermeneutica della storia dell’essere e dell’essere stesso. La « contem­poraneità » (che appare tale solo alla mentalità banale, giacché in

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realtà di tempo si può parlare solo entro ciascuna epoca dell’essere; la stessa mentalità banale parla di contemporaneità secondo un concetto di tempo che appartiene a un’epoca dell’essere) delle epoche dell’essere è possibile proprio perché esse non derivano meccanicamente Puna dall’altra.

Le epoche non si lasciano mai dedurre l una dall’altra e costringere sulla via di un processo ininterrotto. Tuttavia c’è una tradizione da epoca a epoca. Ma essa non corre tra le epoche come un legame che le stringe l’una all’altra, bensì viene di volta in volta [jedesmal] dal nascosto [Ver­borgene’] del Geschick, così come da una sorgente nascono diversi ruscel­li, che alimentano un fiume, il quale è dovunque e in nessun luogo (SvG 154).

E questa la più chiara enunciazione che il rapporto interpretativo che lega ogni epoca a un’altra è sempre rivelativo di un rapporto più profondo come una sorgente originaria che regge e appella ciascuna epoca e tutte. La tradizione, il richiamarsi di un’epoca all’altra è un fatto innegabile, ma non sostituisce il rapporto diretto e fondante di ogni epoca con la sorgente, con quel Selbe che è l’essere stesso o l’essenza del linguaggio. La tradizione, cioè il richiamarsi di un’epoca all’altra, il suo essere elaborazione e interpretazione di un annuncio, si istituisce solo in base al rapporto originario che ogni epoca ha col Selbe\ anzi, la tradizione è il modo in cui si enuncia e si rivela questo rapporto più profondo. Il linguaggio, si è già detto, è sempre risposta a un altro linguaggio; questo storicamente significa che ciascuno è sem­pre gettato in un mondo linguistico già definito e in rapporto a cui solo può parlare; ma tale rapporto di appartenenza storica non spiega né fonda nulla (giacché un tentativo di fondare e spiegare in base ad esso dà luogo al risalire in infinitum), è solo rivelativo del rapporto originario che è l’essenza della Sage.

La struttura ermeneutica della storia dell’essere, nel senso che si è precisato, non riporta Heidegger allo storicismo e non rinnega quella visione della storia come illuminarsi istantaneo di mondi a cui Heideg­ger era pervenuto in base a Sein und Zeit e al saggio sull’origine dell’opera d’arte. Anzi: questa che chiamiamo per comodità struttura ermeneutica è proprio l’unica che possa permettere di pensare la storia in base ai risultati della polemica heideggeriana contro lo storicismo. Si tratta infatti, per Heidegger, di trovare un modo di concepire la storia che ne mantenga il carattere di aprirsi istantaneo (cioè non di svolgi­mento di ciò che già è verso un fine prestabilito) rendendo tuttavia ragione di quel qualcosa di identico che in essa in qualche modo si annuncia (da constatazioni, per esempio, del tipo di quella che si è

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vista su Hegel e sul sussistere in lui di diversi concetti di essere, cioè di diverse epoche). Ora, un modo di « esser presente » e di persistere del passato che non si riduce allo schema meccanico delle cause e degli effetti, delle concatenazioni processuali, secondo il cui modello pensa la mentalità storicistica, è il presentarsi della tradizione nella parola. Non è un caso che l’ermeneutica di Heidegger sia tutta modellata, anche là dove non ne fa uso esplicito, sulla ricostruzione etimologica. Nella parola pronunciata qui e ora è presente (nel senso in cui in tedesco Heidegger direbbe waltet o west) il passato, la tradizione, ma non come qualcosa da cui la parola derivi, sia posta o causata. Il passato della parola non c’è, non conta nulla, in fondo, finché la parola non è detta; la parola attuale e il suo passato sono entrambi posti nell’istante dalla forza del dire, dal linguaggio. La parola fa essere presente il suo passato nella stessa misura in cui riporta, colloca in tale passato il detto del presente. Heidegger non ha svolto esplicitamente e tematicamente questo modo di essere storica della parola, ma il peso che l’etimologia ha nel suo esercizio ermeneutico è significativo pro­prio in questo senso. Il modo di essere storica della parola, il far presente il passato e il riportare il presente dentro a questo passato come l’atmosfera di cui esso è nutrito, e in cui è conservato, protetto, e tutto in base all’atto istantaneo del dire, è il modello implicito in base al quale Heidegger pensa la storia dell’essere come ermeneia, come storia della parola. In quanto tutto dipende dall’atto del dire, il rappor­to con la tradizione è istituito sempre solo entro quest’atto: cioè ciò che apre e fonda ogni possibile rapporto con la tradizione è il rapporto originario con quel che Heidegger chiama, nel Satz vom Grund\ il « nascosto del Geschick », o anche il Selbe, l’identico, il linguaggio stesso nella sua essenza di Sage.

Per definire la struttura ermeneutica della storia dell’essere c’è una « formula », che Heidegger enuncia nelle ultime pagine di Unterwegs zur Sprache, e che si può ben estendere a una portata più vasta di quella che egli stesso pare attribuirle, seguendo le sue stesse indicazio­ni. Tale « formula », che deve servire inizialmente solo come Leitwort del lavoro ermeneutico, e che tuttavia a un certo punto si allarga, non concerne più solo noi e il nostro fare, ma il movimento {Weg) del linguaggio stesso (cfr. US 261 [205-206]), è: « die Sprache als die Sprache zur Sprache bringen »: portare il linguaggio al linguaggio come linguaggio (US 242 e ss. [190 e ss.]). In tale formula (che, in connessione con l’allargamento del significato indicato in US 262 [206-207], Heidegger accentua non più solo come Leitfaden, ma co­me Wegformel, formula che definisce la via del linguaggio stesso) si

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può legittimamente vedere una specie di schema della « filosofia della storia » di Heidegger. La storia, che fin dal Brief si è venuta delinenan- do non anzitutto come storia dell’uomo e del suo agire e patire, ma come storia dell’essere, viene ora pensata — coerentemente col concetto di essere come illuminazione — come storia del linguaggio. Quel che accade, insomma, non è in realtà nulla di quanto normalmente si ritiene: non è anzitutto e autenticamente né lo svolgersi dell’umanità verso una condizione finale di coscienza tutta spiegata o di organizza­zione sociale perfetta; né un conflitto di forze regolato da leggi necessi­tanti o semplicemente probabilistiche; né, come sempre pensa lo stori­cismo arrivato a una condizione di delusione e di scetticismo, lo svol­gersi di tante microstorie di cui non si può indicare una unificazione generale, e la cui stessa unità interna è solo uno schema ipotetico. In tutto questo accadere, quel che autenticamente accade (geschieht) e fa storia (Geschichte) è il darsi (sich schicken - Geschick) del linguaggio come tale, il portare il linguaggio al linguaggio come linguaggio.

Nella illustrazione della lettera della formula che dà, Heidegger assegna al termine linguaggio tre significati: si tratta, nel lavoro erme­neutico e in generale nella storia delTessere, di portare il mondo del linguaggio (Sprachwesen = l’insieme dei fenomeni linguistici, il Wesen del linguaggio come darsi del linguaggio nei fatti e nelle strutture linguistiche) come linguaggio originario, come Sage, all’espressione ver­bale (zum verlautenden Wort) (US 261 [206]). Questo « processo » è la storia stessa dell’essere; Tuomo impegnato nel lavoro ermeneutico è « impiegato » d-AYEreignis, che è appunto il darsi del linguaggio, per Taccadere di questo evento: « L ’Ereignis appropria Tuomo [ereignet, dà Tuomo a se stesso; ma anche lo eventualizza, lo fa essere come uomo] nell’uso per sé [in den Brauch für es selbst] » (US 261 [205]).

La storia è il Weg del linguaggio, che muove dal linguaggio e torna al linguaggio, attraverso il parlare e l’interpretare delTuomo : « un parla­re del [von] linguaggio sarebbe possibile solo in quanto tale parlare fosse chiamato dal suo Wesen [von ihrem Wesen her gerufen] e guida­to verso di esso [dahin geleitet] » (US 149-50 [121]).

Le vie che YEreignis, come Be-w'ègung, apre, sono vie che conduco­no dal linguaggio al linguaggio. « UEreignis è il movimento della Sage che apre le vie [die Bewegung der Sage] verso il linguaggio » (US 261 [205-206]).

Il movimento del linguaggio verso il linguaggio è dunque la sostan­za stessa dell’evento dell’essere. La storia, così, e in un senso estrema- mente originario, è storia di parole; con ciò si capisce nel modo più chiaro ciò che Heidegger dice fin dalla Einführung in die Metaphysik,

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che la storia dell’Occidente dipende tutta dal modo in cui traduciamo la parola essere.

Nella formula sono accennati due movimenti che si tratta di mettere in luce. Da un lato, infatti, e diremmo a prima vista, la formula significa che per l’ermeneutica si tratta di portare alla parola, intesa come linguaggio articolato (verlautendes Wort), il linguaggio nella sua essenza vera di Sage; cioè, si tratta di mostrare esplicitamente, di dire, come nell’insieme dei fenomeni linguistici, nello Sprachwesen, sia pre­sente e agisca il linguaggio originario, la Sage, Con ciò, però, è già detto anche che il vero movimento indicato dalla formula non è un movimento discendente, dall’essenza del linguaggio all’enunciazione esplicita di esso, bensì un movimento rimontante, dal linguaggio come insieme di fenomeni linguistici al linguaggio come Sage originaria, cioè come essenza del linguaggio, come risuonare del silenzio. I movimenti sono però realmente due, anche se il secondo, per riprendere qui una distinzione di Sein und Zeit, costituisce la struttura autentica in base alla quale anche il primo soltanto si comprende. Il portare il linguag­gio alla parola è una sorta di ermeneutica discendente: è il darsi dell’annuncio, l’istituirsi di mondi linguistici. In quanto tale ermeneuti­ca discendente pretenda di esaurirsi in sé, essa è inautentica, non permane nella vicinanza di pensare e poetare, di appello e risposta. Il linguaggio {Sprach-wesen) va portato al linguaggio (parola articolata) come Sage: cioè non viene portato alla parola articolata nel senso che questa pretenda di essere esplicitazione totale, perché la Sage non si lascia mai esaurire ed esplicitare completamente; si porta il linguaggio al linguaggio come Sage solo riportando il linguaggio detto alla Sage come risuonare del silenzio. L 'Ereignis, l’evento dell’essere, è il darsi del linguaggio ma solo in questo senso, che comporta anche sempre un celarsi, connesso con l'indicibilità e inesauribilità della Sage. Non si può dunque pensare che nella storia come storia del darsi del linguag­gio come linguaggio ci sia un punto di arrivo, né che il portare alla parola articolata sia mai in qualche modo punto di arrivo. Anche qui, è opportuno marcare le differenze da una prospettiva di tipo hegeliano. Nella formula « die Sprache als die Sprache zur Sprache bringen », il culmine, per dir così, non è rappresentato dall’ultima espressione (zur Sprache), ma da quella centrale (als die Sprache); c’è un darsi del linguaggio che va riconosciuto come darsi della Sage; non si tratta tanto di portare, quanto di riportare il linguaggio come fatto umano al linguaggio come risuonare di un appello di cui l’uomo è solo ascoltato­re e messaggero. La struttura della storia che è sottintesa in questa prospettiva è quella del dono, che non ha niente da fare con una

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visione della storia come processo avviato al proprio compimento. Ancora una volta, un accostamento che pare semplicemente un gioco di parole, e che è appena accennato di sfuggita da Heidegger, trova il suo significato connesso con il centro stesso del suo pensiero; è infatti nella prospettiva della storia dell’essere come dono (sich geben come geben e come schicken) che si capisce perché il pensiero (Gedan­ke) sia in realtà ringraziamento (Dank) (US 267 [211] e cfr. WD 149 [II> 114]).

Se la storia dell’essere — cioè l’essere stesso — è ermeneia come unità di appello e risposta, in cui il linguaggio dona e chiama a sé, la formula della storia può anche essere trovata nel detto di Novalis secondo cui ciò che è proprio del linguaggio e che nessuno capisce è che esso « si prende cura soltanto di sé » (cfr. US 265 [209]). Il linguaggio, cioè, è monologo (ibid.). Ciò significa due cose: anzitutto, che il linguaggio soltanto è quello che davvero parla; il nostro parlare è già sempre un rispondere al linguaggio, il quale, proprio perché è prima di ogni discorso articolato, è silenzio. In secondo luogo, il lin­guaggio è monologo perché il linguaggio parla da solo; ogni rapporto si istituisce solo nel linguaggio, ma il linguaggio come tale non ha interlo­cutori. Questa non è un’affermazione di solipsismo. Proprio dalla soli­tudine e dal monologo del linguaggio vengono aperti e resi possibili tutti i dialoghi e tutti i rapporti. La Einsamkeit del linguaggio è infatti ciò che raccoglie e apre, a partire dalla loro originarietà, le vie su cui si muove il mondo. È la Sage come Welt-bewegende: il dire originario che muove il mondo in quanto ne articola le vie rendendo possibili i rapporti, il divenire, il movimento, cioè, la storia nel senso comune del termine. L ’autenticità di questa storia, tuttavia, non è il muoversi oblioso sulle vie nel senso dell’ermeneutica discendente; il muoversi della storia è un vero muoversi, in quanto conserva il fondo, il terreno da cui ogni nuova apertura storica è resa possibile, solo nella misura in cui si riporta, nel senso rimontante dell’ermeneutica, al dono che lo fonda e lo rende possibile, all’essere come Sage, come Selbe, come silenzio.

Nella storia come monologo in cui il linguaggio non si prende cura d’altri che di se stesso, l’uomo ha una funzione che Heidegger cerca continuamente di ridefinire. La difficoltà della definizione non è una difficoltà provvisoria, e non dipende nemmeno, come vorrebbe certa critica che ha assimilato solo gli aspetti periferici dell’esistenzialismo, dal fatto che nel « sistema » heideggeriano, come in quello di Hegel, l’uomo non trova più posto con la sua iniziativa e con la sua libertà. La difficoltà consiste proprio nel fatto che la libertà, in tale prospettiva,

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né è negata, né, però, è teorizzata e sistemata una volta per tutte. Proprio la libertà è ciò per cui l’uomo sta con Tessere in un rapporto diverso dagli enti intramondani: a lui, nel suo esserci, ne va di questo essere stesso. Per questo l’essere intrattiene con Tuomo un rapporto specialissimo, il quale fa sì che, come Tessere non sopporta definizioni e formulazioni conclusive, così anche Tuomo non trovi mai una posizio­ne definita e precisa. Anzi, ciò che si chiama libertà dell’uomo, nella sua radice più profonda, non può essere, dal punto di vista di Heideg­ger, che la sua ontologicità, cioè appunto il fatto che egli sta con Tessere in un rapporto diverso dagli enti intramondani. Questa è la ragione del nesso stabilito da Vom Wesen der Wahrheit tra verità e libertà: in quanto la libertà delTuomo è la sua ontologicità, la funzione aprente che esso ha rispetto all’ente intramondano, che solo nella luce dell’esserci viene alTessere, la verità coincide con la libertà (cfr. WW12 [144]). Sicché non ha senso porre il problema della libertà delTuo­mo, secondo Heidegger, se non come manifestazione, come modo di essere, meglio, della sua ontologicità. A questo modo di impostare il problema, naturalmente, corrisponde tutta l’apparente svalutazione, nell’opera heideggeriana, dei problemi morali. Non si tratta in realtà di una svalutazione o di una messa in mora, ma di una riduzione di essi alla loro prima radice, che per la mentalità moralistica comune (preoc­cupata dei precetti) è così remota da non venire neanche più in luce come tale.

Che ne è dunque delTuomo nella storia pensata come monologo del linguaggio, che si svolge (ma di uno svolgimento, a rigore, non si può parlare, perché le aperture delle epoche sono istantanee) secondo la formula « die Sprache als die Sprache zur Sprache bringen »? Tra il pensiero, come attività delTuomo, e il linguaggio, il rapporto tradizio­nalmente stabilito dalla mentalità metafisica va rovesciato: non è il linguaggio che è al servizio del pensiero, ma piuttosto il pensiero che è al servizio del linguaggio, e così pure la poesia (cfr. WPh 45 [47]). Pensare e poetare, come modi del Sagen originario, sono entrambi adoperati « al servizio del linguaggio per il linguaggio » {ibid.). L ’uo­mo è adoperato dall’essere come proprio messaggero; cioè, esso è il « luogo » in cui si attua il movimento che è la sostanza stessa della storia, il cammino del linguaggio verso se stesso nel dono, in quel monologo che apre le vie della storia e il mondo degli enti. Il fatto di aprirsi così nell’uomo e per mezzo di lui non è accidentale all’essere, ma lo caratterizza e ne qualifica lo stesso Geschick. Ecco perché non si può parlare di determinismo o di scomparsa delTuomo nell’uso che Tessere ne fa come proprio messaggero. Ciò varrebbe se Tessere fosse

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pensabile come un processo causale che si svolge secondo proprie leggi, che l’uomo non può fare a meno di seguire; ma ciò implichereb­be il ridurre sia Tessere che Tuomo al livello dell’ente intramondano, cioè il ricadere nella metafisica.

In quanto il Geschick [dono-destino] dell’essere si rivolge e si fa valere con l’appello di un destino [geschickhaft] sul pensare delTuomo storico, la storia del pensiero dipende dalla storia delTessere. La storia delTessere, perciò, non è per nulla lo svolgersi delle trasformazioni di un essere che sussiste assolutamente per sé. La storia dell’essere non è affatto un processo oggettivamente rappresentabile, su cui si possono raccontare delle « storie delTessere »... Come sottrarsi nel suo dono-destino, Tessere è già in sé stesso rapporto all’essenza delTuomo (SvG 157).

Sebbene dunque Heidegger parli di un « uso » delTuomo da parte dell’essere, questo uso è un Brauchen, che significa insieme aver biso­gno. L ’uomo non è affatto « alienato » dall’essere; o è alienato nella stessa misura in cui è appropriato a se stesso come uomo, cioè come esserci, come quell’ente a cui Tessere si dà come appello, che è il punto focale dell’apertura e non semplicemente un elemento o parte di essa. Non c’è una storia delTessere a cui Tuomo debba semplicemente adat­tarsi, in cui egli abbia già il suo posto definito. La storia delTessere è unità di appello e risposta; la risposta fa parte di questa storia come Tappello, ma non per questo è meno libera; anzi, essa qualifica la storia delTessere, sicché questa in qualche modo ne dipende, nella stessa misura in cui la risposta dipende dalTappello. Se si pensa poi che la storia dell’essere non si dà, nella sua totalità, che nelle illumina­zioni istantanee entro le quali, secondo il modello ermeneutico-etimolo- gico àeNEreignis, anche la tradizione si istituisce e si illumina, la decisione libera delTuomo, il suo corrispondere all’appello, viene ad assumere un’importanza difficilmente esagerarle. Sotto questo profilo, il punto di arrivo del pensiero di Heidegger sembra potersi accostare alla dottrina nietzschiana dell’eterno ritorno, almeno a uno dei sensi che a tale dottrina si possono attribuire. Nell’attimo della mia decisio­ne è in gioco tutto Tessere: non perché Tessere si riduca a me, ma perché io sono il messaggero dell’essere, o anche il pastore, quello a cui Tessere è affidato. L ’atto della libertà sta proprio nel rispondere all’appello riconoscendosi appellati; la mancata risposta equivale a una rinuncia alla libertà, nel senso in cui questa coincide con Tontologicità, cioè con Tessere messaggero e pastore.

Come si vede, un tale rapporto uomo-essere non si riesce a pensare con gli strumenti del pensiero metafisico. Su questo insiste ancora Heidegger quando, nelle ultime pagine del Satz vom Grund, teorizza il

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concetto di Spiel come capace di indicare in qualche modo l’essere e il suo rapporto con l’uomo. Anche questo concetto, tuttavia, corre il rischio di venir pensato metafisicamente:

appena essa (la metafisica) cerca di pensare, cioè di rappresentare, a proprio modo, il gioco, lo intende come qualcosa che è. Ora, all’essere di un ente, e quindi anche al gioco, appartiene l’avere un fondamento. L’essenza del gioco viene definita allora in generale, entro l’orizzonte del fondamento, della ratio, della regola, delle regole del gioco, del calcolo, come dialettica di libertà e necessità (SvG 186).

Non si deve dire, con Leibniz: « Cum deus calculât, fit mundus », ma: « mentre Dio gioca, il mondo diviene » [ibid.). Non il gioco va pensato secondo il principio di ragione sufficiente, ma viceversa: anche il principio di ragione appartiene a una certa epoca dell’essere, il quale, come tale, non è « sottoposto » a tale principio, non è pensabile in base ad esso, e perciò viene indicato come Spiel. Ogni tentativo di risolvere il problema della libertà dell’uomo e del suo rapporto con l’essere secondo il principio di ragione è destinato a fallire, restando nell’àmbito del pensiero ontico o metafisico.

Tutto ciò che si può dire è che il Geschick, il dono-destino dell’esse­re, è bensì fatum, ma nel senso etimologico di « parola detta », appello che si rivolge all’uomo chiedendo una risposta. La risposta, come si è visto, è lo Sprung, il salto che si realizza nell’ermeneutica, non più intesa come lavoro tecnico e specialistico, ma come disponibilità ad ascoltare il linguaggio nel suo richiamarci alla propria essenza di dono e di appello.

Ontologicità, esercizio di libertà ed esercizio ermeneutico nel senso ontologico sono quindi tutt’uno, e dispiegano fino alle estreme conse­guenze il concetto di esistenza autentica di Sein und Zeit. Il Geschick, non che negare la libertà, la fonda, invece, come Welt-bewëgende Sage, in quanto apre le vie su cui tale libertà, anche come concreta libertà di scelta, si esercita (SvG 158). Il Geschick dell’essere è un Gegen-einander-über di essere e uomo (SvG 157). Tale rapporto, co­me Heidegger dice anche a proposito del dialogo pensare-poetare, non implica una dualità, ma è lo scaturire dalla stessa origine, l’essere raccolti nel Selbe. Nel darsi di questo Selbe come apertura delle vie su cui si svolge l’esistenza storica dell’uomo e come appello a ritrovare, attraverso di esse, nel ricordo, l’identico entro cui ogni diverso è posto, la solitudine entro la quale ogni molteplicità di rapporti è collocata e protetta, si risolvono gli sforzi compiuti da Heidegger per riproporre nella filosofia contemporanea il problema del senso dell’essere.

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Conclusione

Wer vermöchte es, einfach vom Schweigen zu schweigen? Dies müsste das eigentliche Sagen sein... (US 152 [123])

Una ricerca sul pensiero di Heidegger che si concluda, come questa, con la delineazione del concetto heideggeriano di ermeneutica ontologi­ca, cioè di un concetto di ermeneutica che intende rovesciare quello tradizionale e « metafisico » fondato e diretto dall’ideale dell esplicita- zione, non può cercare di raccogliere e giustificare conclusivamente i propri risultati rivendicando una oggettività storiografica intesa sul modello, presunto, delle scienze positive. Se è in generale poco fornita di senso, in filosofia, la distinzione fra ricerca storica e indagine teori­ca, ciò vale in modo speciale quando si parli di Heidegger. Non solo perché è ancora così aperto e attuale che non si offre facilmente a bilanci; non solo, anche, perché il pensiero heideggeriano, come quello di Nietzsche, è di quelli che non si lasciano conoscere dal di fuori, ma provocano una partecipazione e una risposta. Un tentativo di indagine storico-positiva sul pensiero di Heidegger, che cioè non implichi anche un dialogo teorico con lui, sarebbe, proprio in base al criterio dell og­gettività storiografica, destinato al fallimento, perché pretenderebbe di conoscere la filosofia heideggeriana cominciando con l’applicare un metodo che essa rinnega e nella cui distruzione, anzi, consiste in defini­tiva il suo stesso significato complessivo. È inconcepibile, cioè, nello spirito del pensiero heideggeriano in cui questa ricerca ha cercato di mantenersi, l’idea di una storiografia come immagine compiuta dei « fatti » storici (o dei testi) che si propone di descrivere e rappresenta­re. Se un criterio è possibile indicare per un tipo di indagine storica che non voglia implicitamente accettare il concetto metafisico della verità come conformità, esso va cercato nella struttura necessariamente dialogica del conoscere ermeneutico. La validità di un’indagine storica, cioè, va vista, più che nella sua conformità al fatto che prende a « oggetto », nel rendere possibile un dialogo ininterrotto con questo « fatto ». Le ipotesi che formulo nei confronti di un testo da interpreta­re sono vere e proprie domande che gli pongo. La domanda buona non

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è quella che costringe il testo a dire tutto di sé una volta per tutte, e che quindi rende inutile, e anche impossibile, ogni ulteriore dialogo. E vero che, di fatto, tutti gli storici sono d’accordo nel riconoscere che nessuna indagine storica può valere come definitiva: ciò, evidentemen­te, perché l’esperienza della storia è anche, anzitutto, esperienza della storiografia, cioè della provvisorietà e variabilità delle prospettive sto­riografiche. Tuttavia, la ragione che in genere si indica per giustificare questa inevitabile provvisorietà la svuota in realtà del suo vero signifi­cato. Sembra infatti che una ricerca storica non possa mai valere come definitiva perché è sempre possibile che « vengano in luce » fatti nuo­vi (documenti, reperti archeologici) finora ignorati che rendano neces­saria una revisione. In realtà, documenti e fatti nuovi non vengono alla luce come i funghi, sono sempre portati alla luce da interpreti che, entro una determinata prospettiva, li hanno ricercati e trovati; sono cioè nuovi momenti di un dialogo, non progressi o acquisizioni sulla via della conoscenza di un « oggetto » che si immagina dato come una miniera da esplorare o un continente da circumnavigare. Né l’ideale della conoscenza storica può essere dunque un enunciato o un gruppo di enunciati che pretendano di dare un ritratto esauriente dell’oggetto da conoscere; né, conseguentemente, il criterio di validità in questo campo può essere la « oggettività » positivisticamente intesa. Se si riconosce la natura dialogica del conoscere storico-ermeneutico, la vali­dità delle ipotesi storiografiche si giustifica solo in base al loro garanti­re la possibilità di un dialogo con il testo da interpretare. L ’ipotesi buona è quella a cui il testo risponde ponendo esso stesso, o facendo sorgere, nuove domande.

Il contributo specifico di Heidegger alla precisazione del concetto di ermeneutica, e quindi di storiografia, non è tuttavia ancora in que­sto riconoscimento della struttura dialogica della conoscenza storica, bensì nella fondazione ontologica di questo fatto, Fin qui, infatti, arriva anche una teoria della storia come crescita dello spirito su se stesso, una sorta di hegelismo aperto come ha voluto essere il crociane­simo. Una tale prospettiva è diametralmente opposta a quella heidegge­riana, nonostante le innegabili apparenti analogie. L ’inconcludenza del dialogo ermeneutico non è un crescere all’infinito, come sarebbe in una prospettiva idealistica; essa, conformemente alla mai rinnegata assun­zione heideggeriana della finitezza, è vera inconcludenza, nel senso che è un mantenersi e un rimanere sulla via, unterwegs, la quale è davvero via, dovrebbe condurre in qualche posto, a differenza del crescere dello spirito su se stesso che pretende di valere di per sé, senza alcuna nostalgia di un punto di arrivo (e quindi senza alcuna fondazione

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ontologica). La struttura dialogica del conoscere ermeneutico è fonda­ta, in ultima analisi, nella sua natura allusiva: « Che cos’altro è legge­re, se non raccogliere: raccogliersi nel raccoglimento in ciò che, in quel che è detto, rimane non detto? » \

Il conoscere storico è dialogo perché la finitezza rimane davvero finitezza e perché la differenza ontologica non è mai aufgehoben. Rima­nendo aperto, il dialogo ermeneutico si mantiene sulla via del linguag­gio, cioè del mistero del rapporto uomo-essere, che nel linguaggio è anzitutto presente. All’opposto, la visione che per comodità si può chiamare positivistica o oggettivistica della storiografia si distrugge da sé, come accade in genere al pensiero metafisico portato alle sue estre­me conseguenze nichilistiche; infatti, o l’interpretazione definitiva ren­de impossibile ogni altra interpretazione, o si è costretti a postulare il darsi di « fatti nuovi » come un evento naturale che imporrebbe im­provvisamente, dal di fuori, la revisione delle prospettive storiografi- che ritenute prima valide. Si intende che, nella prospettiva metafisica della esplicitazione totale, il lavoro ermeneutico nel senso dialogico che si è detto può apparire ozioso. Ma la conclusività è sempre sul piano della verità secondaria e derivata, quello in cui è vero ciò che è accertato in modo corrispondente a certi criteri prestabiliti, che defini­scono appunto una certa epoca storica. L ’inconcludenza è proprio ciò che garantisce all’ermeneutica la sua apertura ontologica.

In questa prospettiva di una indagine storica che miri non a fare bilanci, a dare delle valutazioni, a risolvere problemi interpretativi, a dire il perché psicologico o sociale di certe enunciazioni, ma ad aprire e a mantenere aperto il dialogo con il pensiero che si vuole studiare, va vista anche l’insistenza, nel corso di questo lavoro, sul concetto della continuità di sviluppo del pensiero heideggeriano. Questa continuità, che si è venuta chiarendo e arricchendo di significato nello svolgimen­to del lavoro, è anzitutto una ipotesi metodologica conforme al criterio dialogico dell’ermeneutica. Aprire e mantenere aperto il dialogo con un pensatore significa anzitutto prendere sul serio tutto ciò che egli dice, cercando di capire come i problemi si sviluppino l’uno dall’altro, met­tendosi a disposizione del corso del pensiero come esso si dà negli scritti che si studiano. Vale a dire, anche, non prescrivere al pensatore le vie che egli deve seguire. L ’interpretazione più valida di Sein und Zeit, da questo punto di vista, non è quella di chi isola quest’opera e la contrappone agli scritti successivi, ma quella che questi scritti stessi forniscono, in quanto delle premesse di Sein und Zeit sono lo sviluppo

1 Lettera a E. Staiger, in E. S t a ig i ì r , Die Kunst der Interpretation, cit., 48.

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e l’attuazione. Postulare una frattura significa sempre riconoscere, in un pensiero, una inspiegabilità, che apre la via a interpretazioni laterali e arbitrarie. La frattura, forse, non indica mai una incongruenza del pensatore ma una insufficienza dell’interpretazione. Tuttavia, nella mi­sura in cui l’unità di sviluppo del pensiero heideggeriano è stata intesa anzitutto come un principio metodologico capace di mantenere apertoil dialogo, essa non è stata concepita rigidamente e secondo schemi sovrapposti dall’esterno, come accade presso quegli autori che tendono a inserire Heidegger in una struttura dialettica di intonazione fonda­mentalmente hegeliana 2.

E secondo questi criteri, che era necessario almeno abbozzare, proprio e solo per collocare la ricerca su Heidegger nello spirito di Heidegger, che vorremmo fosse valutato questo lavoro. Il quale non si è proposto una Erklärung o una Erläuterung del pensiero heideggeria­no, ma, nei limiti del possibile, una autentica Er-'òrterung di esso. Si intende che, se vale ciò che si è detto finora, il principio del dialogo è

2 È questo in definitiva il senso della interpretazione di W. S ch ulz , Über den philoso­phiegeschichtlichen Ort Martin Heideggers, in « Philosophische Rundschau », 1953-54, 65-93 e 211-232 [ora in O. P ö g g e l e r , a cura di, Heidegger: Perspektiven zur Deutung seines Werks, 2“ ed., Königstein/Ts. 1984, 95-139], peraltro densa di spunti estremamente interessanti, che viene ripresa, almeno per ciò che riguarda il dialettico rovesciamento interno del pensiero heideggeriano dal nulla all’essere, da F. W ip l in g e r , Wahrheit und Geschichtlichkeit, cit. Il pensiero di Heidegger, secondo lo Schulz, si capisce solo inserendo­lo nella storia della metafisica moderna, da Fichte in poi, e come conclusione di questa storia (p. 68). Heidegger concluderebbe questa storia in quanto porterebbe all’estremo la metafisica della soggettività, pei- rovesciarla, dopo la Kehre, in una nuova metafisica dell’es­sere (cfr. per esempio p. 92). Si tratta di un vero e proprio rovesciamento dialettico di tipo hegeliano, che avviene nel concetto della funzione nullificante-aprente dell’angoscia, in Was ist Metaphysik?: «D alla negazione della vicinanza immediata nella lontananza si origina, attraverso la negazione di questa lontananza, una nuova vicinanza in cui quella lontananza è però conservata » (p. 81). L ’interesse della posizione dello Schulz consiste nel fatto che in essa viene in chiaro in maniera esplicita, il che non succede per esempio nella interpretazio­ne del Wiplinger, che la concezione della Kehre come rovesciamento dialettico all’interno del pensiero heideggeriano implica l’inserimento di Heidegger in uno schema generale della storia della filosofia moderna, schema di tipo sostanzialmente hegeliano. La Kehre avviene solo come risultato del venire a compimento della metafisica della soggettività (cfr. per esempio p. 85). La prospettiva dello Schulz non serve tuttavia molto a chiarire le opere di Heidegger posteriori a Was ist Metaphysik?, proprio perché, a mio parere, insiste troppo sull’aspetto dialettico di quello scritto, senza risolvere il problema di che cosa autenticamen­te significhi l’affermazione della finitezza dell’essere che pure vi si trova. Il senso di Das Ding è che Tesserci, avendo rinunciato all’assolutezza deil’estrema soggettività, può lasciarsi di nuovo be-dingen, condizionare e circondare dalle cose (pp. 221-23). La stessa posizione lo Schulz enuncia nei più recente Der Gott der neuzeitlichen Metaphysik, Pfullingen 1957, 43-56. Il senso del pensiero di Heidegger come affermazione estrema della metafisica relativistica e storicistica, senza rovesciamenti dialettici, però, e senza possibilità di fonda­zione di una ontologia, è affermato anche da H. M e y e r , Zur Ontologie der Gegenwart, nel « Philosophisches Jahrbuch » della Görres-Ges eil schaft, 1957, 251-93 (a Heidegger è dedi­cato il § 3, 276-88).

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anche l’unico capace di garantire una conoscenza fedele dell’oggetto che si prende in esame in una indagine storica; e che, quindi, anche l’oggettività, nell’unica forma in cui si può concepire in questo campo, è raggiunta attraverso il dialogo. Entrare in dialogo teorico col pensie­ro heideggeriano è anche, cioè, l’unico modo di conoscerlo storicamen­te, per cui la ricerca condotta secondo queste intenzioni rivendica anche una validità storica nel senso comune del termine.

Occorre qui una precisazione, concernente l’origine storica del pen­siero heideggeriano, precisazione che è anche indispensabile per una valutazione complessiva del significato del pensiero di Heidegger per la filosofia odierna. Ci è parso utile e legittimo prender le mosse, per questo lavoro, dalla Auseinandersetzung di Heidegger con Nietzsche, non solo perché, come Heidegger dice nella conclusione di Zur Seins­frage, « nella sua “luce e ombra ognuno oggi, prendendo posizione ‘con lui’ o ‘contro di lui’, pensa” » (SF 43 [372]); ma anche e soprattutto perché, e questo è del resto il significato della affermazione di Zur Seinsfrage, il pensiero di Heidegger comincia davvero con Nietzsche, anche se la filosofia nietzscheana diventa per lui un tema esplicito e specifico solo a partire dal 1936. Il pensiero di Heidegger comincia con Nietzsche o, si può anche dire, dove quello di Nietzsche finisce, nel senso che Nietzsche è il punto finale della metafisica occidentale. Lo storicismo, che in essa è già sempre implicito fin dagli inizi, è giunto in lui alla coscienza della propria crisi come nichilismo. Dire dunque che Heidegger prende l’avvio da Nietzsche significa che egli prende l’avvio dalla dissoluzione dello storicismo (o della metafisica, nel senso specifico che egli dà a questo termine) compiutasi in Nietz­sche 3.

Si può domandare fino a che punto un tal ricollegare Heidegger a Nietzsche e alla dissoluzione dello storicismo tenga conto di quello che è stato « storicamente » lo sviluppo effettivo del pensiero heideggeria­no, e in particolare delle sue origini fenomenologiche. Via via che il pensiero di Heidegger si è venuto svolgendo, senza contraddizioni, ma anzi con un costante sviluppo delle premesse di Sein und Zeit, si deve riconoscere che è diventato anche parallelamente sempre più chiaro che l’incontro con Husserl, per quanto biograficamente decisivo per l’impegno filosofico di Heidegger, costituisce però, per la sostanza del suo pensiero, un fatto di portata relativamente limitata. Le pagine che

3 L ’importanza del rapporto con lo storicismo per la comprensione di Heidegger, in un senso però diverso da quello a cui noi ci riferiamo, è sottolineata da E. P aci, nel saggio L'esistenzialismo di Heidegger e lo storicismo, compreso nel volume Esistenzialismo e storici­smo, Milano 1950, 115-146.

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Heidegger dedica al ricordo degli inizi del proprio filosofare in Unter­wegs zur Sprache, sebbene non siano forse così esplicite da risolvere definitivamente il problema, sono però estremamente illuminanti (cfr. US 90 ss. [86 ss.]). Che cosa può significare infatti, l’affermazione di Heidegger sul peso dominante che, nel suo pensiero, aveva il problema ermeneutico fin dagli anni in cui egli preparava Sein und Zeit, se non semplicemente che egli fin da allora era al di fuori e oltre l’àmbito della fenomenologia come Husserl la pensava? Il problema della stori­cità, che costituisce un problema limite mai autenticamente impostato dalla fenomenologia, e che ogni tanto si annuncia negli scritti di Hus­serl, non solo negli ultimi4, senza trovarvi, per attestazione degli stessi fenomenologi, una soluzione 5, costituisce invece fin dall’inizio il cen­tro della speculazione heideggeriana, di fronte a cui il linguaggio « fe­nomenologico » delle analisi di Sein und Zeit è poco più che un aspet­to metodologico provvisorio e periferico, come dimostra il successivo sviluppo di Heidegger. Egli comincia cioè la sua speculazione proprio dal punto a cui la fenomenologia (cioè Husserl) arriva a conclusione di un lungo processo, sostanzialmente senza andare oltre.

La chiave di volta della posizione heideggeriana, in Sein und Zeit, èil riconoscimento e la teorizzazione del circolo comprensione-interpreta- zione. Qui, pare a noi, il problema della storia e della storicità dell es­serci si lascia alle spalle ogni residuo significato neokantiano (che aveva in Dilthey e anche in Husserl) per acquistare il tono specifica- mente ontologico che è merito di Heidegger avergli riconosciuto. Il circolo di comprensione-interpretazione toglie fin dall’inizio ogni signi­ficato al « sogno » husserliano della filosofia come scienza rigorosa. Di fronte alla riflessione ontologico-ermeneutica del successivo pensiero heideggeriano, ogni discorso fenomenologico sulla « costituzione » ri­mane o nell’àmbito di una prospettiva trascendentale neokantiana o in quello di una antropologia filosofica che suppone il progetto già sem-

4 Per la presenza del problema della storia lungo tutto il corso del pensiero di Husserl si veda, oltre alla Krisis der europäischen Wissenschaften (Husserliana, vol. VI), le Cartesiani- sche Meditationen (Husserliana, vol. I), 182, e la Erste Philosophie, a cura di R. Boehm, vol. II (Husserliana, vol. VIII), 505-6. Cfr. anche H.-G. G adam er , Die phänomenologische Bewegung, cit., e Wahrheit und Methode, cit., 230 ss. Al problema della storia nell’ultimo Husserl ha dedicato una densa ricerca H. H o h l , Lebenswelt und Geschichte. Grundzüge der Spätphilosophie E. Husserls, Friburgo i.B. 1962, che si fonda in gran parte sullo studio di manoscritti ancora inediti.

5 Cfr. per esempio E. F in k , Welt und Geschichte, nel vol. collettivo Husserl et la pensée moderne, L ’Aia 1959, 143-59. La difficoltà che incontra Husserl nel fondare la temporalità e la storicità deriva, secondo Fink, dalla sostanziale analogia tra la riduzione fenomenologica e il ritornare presso di sé dello Spirito hegeliano. Come presso Hegel, anche presso Husserl non si capisce perché e come si costituisce la finitezza umana (cfr. specialmente pp. 152-53).

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pre come gettato e non si pone il problema al livello di questa Gewor­fenheit stessa.

L ’origine « ideale » del pensiero heideggeriano da Nietzsche non solo non contraddice alla sua effettiva origine « storica », ma anzi serve a intendere tale origine nel suo vero significato, sostanzialmente limitato, e a situare così meno superficialmente tale pensiero che, in tal modo, appare come un itinerario dallo storicismo all’ontologia erme­neutica. In questa prospettiva, la definizione della filosofia che si trova in Sein und Zeit va letta, conformemente al vero senso dell’ulteriore pensiero heideggeriano, accentuando il concetto di ermeneutica a prefe­renza di quello di fenomenologia. « La filosofia è l’ontologia fenomeno- logica universale che muove dall’ermeneutica delTesserci, la quale co­me analitica dell’esistenza ha stabilito il capo del filo conduttore di ogni problematizzazione filosofica là donde essa parte e dove ritorna » (SuZ 38; it. 48 [99-100]).

Sono soprattutto le ultime parole che vanno sottolineate per capire come la filosofia di Heidegger è fin dall’inizio anzitutto ermeneutica: costruita intorno al progetto gettato e al circolo di comprensione-inter­pretazione, essa non solo muove dall’ermeneutica, ma anche sempre vi ritorna. Tenendo presente questa centralità dell’ermeneutica dell’esser­ci — che si preciserà come ermeneutica del linguaggio, nel quale sem­pre Tesserci è gettato — si può comprendere il nesso tra il motto di Sein und Zeit: « zu den Sachen selbst! » e, per esempio, una teorizzazione della cosa quale si trova nel saggio Das Ding attraverso il concetto di Geviert. L ’andare alle cose stesse non ha nulla di banalmente « oggetti­vistico » per Heidegger; l’ermeneutica del Dasein non è solo il punto di partenza della filosofia, ma anche il suo punto di arrivo. La filosofia si prospetta come ermeneutica di quell’ente per cui tutte le cose sono quello che sono, che ha come caratteristica Tessere nel mondo; ma quest’ente ce (è nel mondo), cioè è in rapporto con Tessere, solo in quanto ha un linguaggio, è sempre gettato in un linguaggio. Questo passaggio, che si esplicita nel saggio sull’origine dell’opera d’arte, non fa che precisare la centralità che l’ermeneutica ha già in Sein und Zeit,Il senso di esso è il mostrare che, quando si intraprenda rigorosamente la ricerca del senso dell’essere — avendo esperito fino in fondo come insufficienti le soluzioni che la metafisica, fino alla sua forma estrema di storicismo, è venuta proponendo del problema (esperienza che costi' tuisce il senso del pensiero di Nietzsche) — il problema non può essere posto se non al livello del linguaggio. Non, come hanno fatto altre filosofie del Novecento, nel senso di ridurre la filosofia a logica e metodologia o anche terapeutica del linguaggio : questa posizione impli­

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ca ancora sempre, più o meno esplicitamente, l’accettazione di certi dogmi metafisici, come il concetto di verità come conformità, al servi­zio dei quali si vuol mettere uno strumento logico-linguistico più per­fetto di quelli impiegati fino ad ora. Con la sua opera più matura, specialmente quell 'Unterwegs zur Sprache che più violentemente pare contraddire, nella forma del suo procedere e nella « logica » del suo argomentare, all’ideale di chiarezza e di formalizzazione perseguito dalle varie scuole analitiche, Heidegger si afferma proprio come il pensatore che ha dato un senso autenticamente filosofico, e non solo logico-tecnico, al venire in primo piano del problema del linguaggio nella filosofia del Novecento.

L ’itinerario del pensiero heideggeriano, come si è venuto così deli­neando, si svolge quindi tra due dei problemi più tipici della filosofia del nostro secolo, quello della storia e quello, anche se l’indicazione è un po’ generica, del linguaggio. Essi non costituiscono solo o anzituttoil punto di partenza e il punto di arrivo, ma i due termini di una sintesi che, proprio in quanto li mette in rapporto e li chiarisce reciprocamen­te, dà loro anche un senso più ricco e decisivo. Da un lato, infatti, il linguaggio viene riconosciuto come il « luogo » in cui la storia autenti­camente accade, e in ciò si condensa il significato nuovo che il proble­ma della storia assume nel pensiero heideggeriano. Che il linguaggio sia il luogo autentico e originario dell’accadere della storia — cioè che la storia dell’essere sia un illuminarsi di aperture linguistiche all’interno delle quali soltanto si svolge la storia nel senso comune del termine — significa, anzitutto, che la storia, più e prima che sul modello del divenire meccanico regolato dal rapporto di causa ed effetto, va pensa­ta sul modello del divenire etimologico delle parole. La vera storia è la storia delle parole, ed è nelle parole che si eventualizza anzitutto l’essere, che le cose diventano cose. L ’etimologismo, che spesso è considerato come un aspetto periferico e paradossale dell’opera heideg­geriana, ha invece un significato centrale difficilmente esagerabile per la sua ontologia. Il linguaggio e le parole sono prima di ogni altro rapporto, pongono e garantiscono tutti gli altri rapporti ma non sono a loro volta posti e garantiti. La storia non è un processo regolato da leggi indicabili: anche le « leggi » dello sviluppo del linguaggio non sono che generalizzazioni statistiche a posteriori, le quali, soprattutto, non riguardano la parola come parlante, ma la parola divenuta oggetto di discorso, e quindi svuotata del suo senso originario. Il divenire etimologico è sempre arbitrario, in fondo. Così la storia è un illuminar­si di mondi che, nel linguaggio, si danno, cioè si donano, e in quanto la libertà dell’uomo è posta in essi, sono destino {Geschick). Ma questo

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darsi e questo destino non ha la forma del « derivare » o dell’essere determinato dal passato come crede la mentalità storicistica. Il passato vive nel presente proprio come la storia di una parola è presente nella parola quando essa viene pronunciata. Il rapporto col linguaggio vale come modello per pensare la storia proprio in quanto esso è il rapporto costitutivo e originario, da cui e in cui tutti gli altri sono posti. La storia non c’è se non come un appello che ci si rivolge e a cui noi rispondiamo pronunciando le parole, usando il linguaggio che, in quan­to non è mai totalmente posto nel nostro arbitrio, a sua volta ci usa. Questo rapporto di appello-risposta, che è condensato nel concetto heideggeriano di Geschick il quale va tradotto così come dono-destino, è il rapporto più estremamente originario a cui il pensiero possa perve­nire e nel quale deve mantenersi, proprio riflettendo sul linguaggio nella sua essenza.

D’altro lato, il problema del linguaggio, posto in questo modo, acquista un peso e una portata metafisica che non conosce quando si ponga solo al livello della tecnica logica e della terapeutica. Il linguag­gio è davvero l’unico problema della filosofia; ma non perché, essendolo strumento degli strumenti, sia quello che merita anzitutto di essere perfezionato, come più o meno presuppongono le cosiddette filosofie del linguaggio del nostro secolo, bensì perché è riconosciuto come la sede autentica dell’accadere della storia dell’essere. Ogni discorso sul linguaggio è anche discorso dal (o del, nel senso soggettivo del termi­ne) linguaggio, e vale ontologicamente, cioè filosoficamente, nella mi­sura in cui non dimentichi mai questa sua duplice fisionomia e si sforzi di interpretarla.

Che tipo di « rigore » si può pretendere da una filosofìa che concepi­sca in modo così originario il linguaggio e il suo nesso con Tessere ? La difficoltà nasce dal fatto che, in quanto la filosofia vuole essere una problematizzazione originaria, cioè porsi al di qua di ogni progetto precostituito di comprensione dell’ente, cercando invece di raggiungere in qualche modo l’essere che è la radice e la possibilità di tutti i progetti, essa non può avere quell’evidenza che è implicita nel nostro concetto del « rigore » e che può essere raggiunta sempre soltanto come conformità a certe regole preliminarmente accettate (quando non la si voglia dissolvere in un concetto puramente psicologico). Il doman­dare originario implica l’accettazione di una situazione di ricerca in cui non si può presupporre nessuna idea di « rigore », per il fatto che la logica stessa deve essere messa in questione e, alla fine, riconosciuta nel suo carattere eventuale. Se un rigore è possibile al discorso filosofi- co esso è, per Heidegger, il rigore del discorso ermeneutico, strutturato

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secondo il modo del dialogo, il quale però vale proprio in quanto non pretende di concludere e accetta di mantenersi unterwegs.

E chiaro che a una filosofia così concepita non si può chiedere di adempiere a compiti storici nel senso comune del termine 6. Heidegger è, in questo senso, il critico più radicale di ogni filosofia come engage­ment. E tuttavia, bisogna sottolineare (riprendendo la conclusione del capitolo primo, a cui mi permetto di rimandare), la sua critica dell '‘enga­gement è tanto più radicale in quanto è condotta dal punto di vista di un impegno più originario e totale. Se il linguaggio è la vera sede delFaccadere della storia, l’autentico impegno storico è l’ermeneia. Non solo o prima di tutto perché dal linguaggio dipendono tutte le altre manifestazioni storiche, sicché agire nel linguaggio sia solo un modo indiretto e più efficace, perché più radicale, di agire su queste realtà derivate 7 ; ma, più fondamentalmente, perché la vera storia è quella delle parole, le cose sono cose e l’uomo è uomo, autenticamente, solo nel linguaggio. Si può anche dire che questo è mistica 8. Ma una mistica a cui si perviene con una riflessione niente affatto arbitraria, su una via in cui il pensiero è davvero pensiero. E certo difficile rendersi conto di che cosa significhi questa accentuazione del linguaggio come sede autentica della storia; essa va presa molto alla lettera, perché incombe il pericolo di inserirla troppo pacificamente nella visione meta­fisica che intende la realtà come data anzitutto nella presenza spazio­

6 Come sembra pensare M. M anno nel suo peraltro preciso commento alPhe ideggeriano Was ist das - die Philosophie?: il Manno parla addirittura, a proposito di Heidegger, di una « filosofìa progressista, positiva » {Heidegger e la filosofia, Roma 1962, 59).

7 Questa sembra essere l'interpretazione di H. K u h n , Philosophie in Sprachnot. Zu Mar­tin Heideggers «Einführung in die Metaphysik », in «M erkur», n. 68 (1953, fase. 10), 935-49, che premette al suo scritto una affermazione tradizionalmente attribuita a Confucio, sulla necessità di riformare anzitutto il linguaggio per stabilire nel mondo rapporti di giustizia. Kuhn mette tuttavia in giusto rilievo il nesso che c’è in Heidegger tra la Kehre e il problema del linguaggio, anche se per lui la Kehre ha un senso sostanzialmente negativo: dopo Sein und Zeit « con il linguaggio concettuale legato, attraverso la fenomenologia, alla tradizione, si perde anche il linguaggio in generale come quadro entro cui il pensiero ha la sua consistenza. Chi scrive, o meglio ancora chi parla, lotta con il linguaggio, e non sempre ha la meglio » (p, 936). La radice della Sprachlosigkeit di fronte a cui urta il maturo pensiero heideggeriano è nella affermazione della assoluta storicità dell’essere (p. 941), e questa ha già i suoi presupposti in Sein und Zeit, per cui si può anche dire che Sein und Zeit sta alle posteriori indagini heideggeriane sulla storia della metafisica come la Logica di Hegel sta alle sue lezioni sulla storia della filosofia (p. 944).

s Cfr. K u h n , Heideggers Holzwege, in « Archiv für Philosophie », 1952, 253-69. Il pensiero di Heidegger, secondo Kuhn, non è che una fase della storia dell’hegelismo; e, come la filosofia hegeliana, anch’esso ha profonde radici mistiche, tradotte in un àmbito di pensiero sostanzialmente storicistico. Anche i concetti heideggeriani di Welt e Erde non sono altro, per Kuhn, che una ritraduzione mitica della dialettica hegeliana. Di una heideg­geriana « teologia » (storicistica) della storia parla anche R. S c h a e ffle r , Martin Heidegger und die Frage nach der Technik, in « Zeitschrift für philosophische Forschung », 1957, 117-27.

CONCLUSIONE 231

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temporale. Quando la filosofia ha parlato di esperienza e di muovere dall’esperienza ha sempre pensato fondamentalmente a questo. La ri­flessione di Heidegger, invece, implica anche anzitutto un rovesciamen­to di questo tradizionale concetto di esperienza.

Zu den Sachen selbst! Le cose sono cose, quello che davvero sono, anzitutto nel linguaggio. Andare ad esse vuol dire ricollocarle nell’aper­tura dell’essere in cui divengono visibili nella loro autentica cosalità. Alle cose non si va raggiungendole, ma riportandole là donde esse vengono e dove possono apparire come cose, nel linguaggio.

Col rovesciamento del concetto empiristico o più in generale metafi­sico dell’esperienza, anche il concetto della verità viene rovesciato. Si intende che la verità come conformità, la verità secondaria o derivata, rimane quello che è: all’interno delle singole aperture che costituisconoi mondi storici e il mondo della nostra vita quotidiana, il vero è ciò che concorda con la « realtà » secondo certi criteri di verifica. La verità originaria si eventualizza sempre, come ci è parso di dover leggere nell 'Ursprung des Kunstwerkes, come messa in atto di criteri specifici per distinguere il vero dal falso. Tutte le forme di conoscenza che funzionano secondo questi criteri hanno una loro validità, ma apparten­gono all’apertura e si muovono all’interno di essa. Lo stesso accade, dal punto di vista della filosofia, per i criteri morali. Ecco perché, se una morale è possibile ricavare da Sein und Zeit, essa deve fondarsi sulle poche righe in cui Heidegger parla del destino come destino di un popolo e di una generazione (si veda il § 74) 9, e tali accenni possono anche essere intesi come affermazione di una sorta di « mora­le provvisoria » di tipo cartesiano (almeno nei suoi risultati pratici). La morale come insieme di precetti, di criteri, per la distinzione del bene dal male, non è nulla di originario, è anch’essa una articolazione del­l’apertura dell’essere che rimane all’interno di questa (cfr. il già citato passo di WD 34 [I, 84]). Il filosofo appartiene anche lui a una certa epoca dell’essere, e quindi a una certa messa in atto di criteri di distinzione tra vero e falso, bene e male, ecc. In quanto appartenente all’epoca, egli non dispone, per giudicare, se non dei criteri storicamen­te dati. Anche quando diversi criteri entrino in conflitto, o quando si propongano dei criteri nuovi, la soluzione dei conflitti e la proposta

9 Per questa interpretazione dell etica di Heidegger, su cui si hanno scarsissimi studi, si veda N. A bba g n a n o , Storia della filosofia, vol. II, parte II, Torino 1954, 684-85. Per un’in­terpretazione invece di tutto il pensiero di Heidegger come « ascesi » si vedano: T. M o r e t ­t i C o sta n z i, L ’ascetica di Heidegger, Roma 1949; E. M ir r i, Ontologismo crìtico e ascesi di coscienza, in « Giorn. crit. filos. ital. », 1957, fase. 3; G. Sem er a r i, Storicismo e ontologismo critico, Bari 1960, 217-82.

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CONCLUSIONE 233

delle innovazioni non viene mai dalla filosofia nel suo senso rigoroso di ontologia; è sempre il reperimento, messo alla prova storicamente, cioè alPinterno dell’apertura specifica dell’essere, di un nuovo criterio che è un nuovo articolarsi di questa apertura stessa. Solo nell’opera d’arte, e cioè, più tardi, nel linguaggio in quanto non è semplice iniziativa dell’uomo, ma risposta a un appello, accade un nuovo aprirsi di aperture delTessere e non solo uno sviluppo e un ulteriore articolar­si dell’apertura già data. Ma l’opera d’arte, il linguaggio e la poesia sono proprio, conformemente al detto di Hölderlin, la più innocente di tutte le attività; l’accadere autentico della storia, nel senso originario - in quanto non sia solo elaborazione interna dell’apertura dell’essere, sogno che, sempre secondo Hölderlin, vive nel ricordo di un attimo di pienezza divina (l’aprirsi dell’epoca) — si dà proprio nella meno « stori­ca » delle attività umane, nell’arte, e proprio per il carattere ambiguo di essa, in quanto non è mai pura iniziativa, ma anche sempre, come tutte le teorie dell’ispirazione, dalla mania platonica a Schelling, hanno sottolineato, un agire mettendosi a disposizione di un appello più alto che trascende la decisione dell’uomo. E questo carattere di a-storicità, che è poi la storicità più autentica e originaria perché apre e fonda la storia, che conferisce alla poesia quella posizione privilegiata che la filosofia (o il pensiero) le riconosce mettendosi in dialogo con essa quando vuole cercare di accostarsi al mistero dell’essere. Tutto ciò che invece è decisione, messa in atto di criteri di verifica o di scelta, si muove sempre alPinterno delle aperture storiche e, nella misura in cui pretende di valere davvero come decisivo, dimentica l’essere come origine ed eventualizzarsi dell’apertura.

Ciò non implica tuttavia la semplicistica conseguenza che il filosofo debba assumere davanti a tutto ciò che è storia nel senso dell’iniziativa e della decisione un atteggiamento scettico. Le aperture dell’essere non sono mai collocabili in serie l’una accanto all’altra, in modo che si possa stare davanti ad esse in un atteggiamento di indifferenza. Anchelo scetticismo, in questo senso, implica sempre un presupposto storici­stico. L ’evento dell’essere è sempre uno, e perciò niente affatto fungibi­le, tale che si possa prendere o lasciare. In quanto è /'apertura dell’esse­re, la mia epoca (in senso non storicistico, ma anzitutto ontologico) è ciò che di più serio mi concerne, il mio compito storico (morale, scientifico, politico, ecc.) è il compito che merita la dedizione di tutte le mie forze, perché in esso ne va dell’essere stesso, in quanto questo non è mai pensabile come situato in un al di là imperturbabile e separato dalla sua storia. La filosofia, tuttavia, come anche Parte, non appartiene a questo genere di impegni storici; si potrebbe dire, se non

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fosse troppo equivoco, che ne è la coscienza rammemorante, in quanto accompagna Pimpegno storico come sforzo costante di non dimentica“ re, nel senso autentico, la sua storicità (epocalità, e quindi, ontologici- tà). Ma non ha niente da dire circa il muoversi e l’articolarsi interno delle singole aperture dell’essere, delle epoche. In questo senso, rima­ne una riflessione trascendentale; sempre al di qua di ogni particolare determinarsi di aperture, delle quali cerca la possibilità originaria e il senso.

Se non è impegnata concretamente nel divenire della storia, nel senso che è piuttosto uno sforzo di ritornare alle origini (non cronologi­che, ovviamente) della storia, la filosofia non è nemmeno, e per le stesse ragioni, riflessione nel senso di una presa di coscienza sempre più chiara del significato dell’esperienza; per il fatto di non aver un significato pratico, non ha però neanche il significato « speculativo » che ha, per esempio e principalmente, in Hegel. Anzi, il richiamarsi a Hegel come a colui che ha esplicitato a pieno il significato della specu- latività del filosofare serve proprio a vedere come un tale concetto speculativo della filosofia — inteso come dispiegarsi dell’autocoscien­za — non sia l’opposto della visione della filosofia come attività impe­gnata nello sviluppo della storia, ma semplicemente un grado ulteriore di questa. In quanto lo sviluppo della ragione fino all’autocoscienza èil senso stesso del divenire storico, la filosofia è attività storica in sommo grado. È vero che, per Hegel, il risultato coincide col princi­pio, e parrebbe quindi che la visione heideggeriana della filosofia come ritorno all’origine non sia poi così opposta a quella hegeliana. E tutta­via merita sottolineare ancora — tenendo presente quanto di Hegel è ancora vivo e operante nella filosofia contemporanea, anche in quella che non confessa, o rifiuta esplicitamente, questa parentela — che, quali che siano le analogie, ciò che distingue la filosofia di Heidegger e ne fa, in un certo senso, l’unico vero modo di uscire dall’hegelismo, è il mantenimento radicale del finito come tale e, in connessione con que­sto, il rifiuto del concetto hegeliano dell’autocoscienza o, che è lo stesso, dell’ideale metafisico dell’esplicitazione totale. Il pensiero è ritorno all’origine in un senso ben più letterale di quel che non sia in Hegel; l’esplicitazione e la presa di coscienza sono invece attività che non riconducono mai al principio in quanto si muovono nell’apertura dimenticandola come tale. È vero che suona hegeliana la conclusione fondamentale a cui, almeno secondo quanto ci è parso, Heidegger è giunto fino ad ora, e cioè che la storia dell’essere è essa stessa erme­neia, ossia processo di interpretazione. Ma - e in ciò sta il fascino e la ricchezza del pensiero heideggeriano, perché proprio questo costituisce

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CONCLUSIONE 235

forse l’autentico modo di uscire dalThegelismo senza ritornare a pri­ma di Hegel — è il concetto stesso di ermeneia che viene rovesciato e rinnovato, proprio in base al riconoscimento (e in ciò Heidegger rimane esistenzialista, nel senso autentico e kierkegaardiano) della finitezza. L 'Erörterung heideggeriana non ha più nulla da fare con il chiarimento e la presa di coscienza storicistica, cioè con l’ideale meta­fisico dell’esplicitazione. L ’ermeneutica, come puro e semplice sforzo di risalire all’aprirsi dell’apertura, è impegno storico solo nel senso che, ricollocando l’ente nell’essere che lo dà, raccogliendosi nel non­detto, è il vero modo di proteggere l’ente, salvandolo dalla nullifica- zione a cui è condannato nell’àmbito della metafisica e dello sto­ricismo.

Il problema è tuttavia se, conformemente al principio dell’erme­neutica ontologica, il pensiero di Heidegger lasci, in conclusione, aperta la possibilità di un dialogo; se cioè dopo Heidegger, e in quanto ci si sia sforzati di capirlo, ci sia ancora qualcosa da dire. Certo il pensiero heideggeriano non è, e non potrebbe essere, di quelli che indicano delle prospettive di ricerca, richiedono e orienta­no indagini ulteriori per confermarsi e « svilupparsi ». In realtà, questo vale di ogni pensiero filosofico, nella misura in cui rimane autenticamente filosofia e non diventa altro, antropologia psicologia sociologia economia. Si aggiunga a questo il fatto che tutte le grandi prospettive filosofiche danno l’impressione, a chi si sforzi di intender­le nella loro verità, di chiudere definitivamente il discorso, suscitan­do sempre una certa coscienza di epigonismo. Per Heidegger c’è, di specifico, il tono indiscutibile di « teologia negativa » che la sua filosofia ha assunto soprattutto dopo il Brief. È difficile dire se, dopo Heidegger, filosofare debba voler dire solo più etimologizzare, giocare con le parole (anche senza il valore negativo che i critici danno a questa espressione). Forse è un radicale mutamento della visione della filosofia quello che è richiesto. Per tale mutamento, è essenziale capire e assimilare anzitutto la lezione heideggeriana: il che vuol dire non solo leggere e studiare i suoi scritti, ma anche esercitarsi a ripercorrere la storia della filosofia nella sua prospettiva, dispiegare dettagliatamente il significato del suo pensiero come pun­to risolutivo delle principali problematiche filosofiche del nostro tem­po (storicismo, fenomenologia, esistenzialismo, filosofia del linguag­gio). Inoltre, è tutt’altro che chiuso, anzi solo iniziato, il discorso heideggeriano sulla portata ontologica del linguaggio e sulle forme che deve assumere un’ermeneutica dell’implicito.

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Può darsi davvero che, in quanto non si esprime in Aus-sagen, in enunciazioni, la filosofia debba essere, dopo Heidegger, un esercizio del tacere, proprio nel senso dell’ultima proposizione del Tractatus di Wittgenstein 10; ma solo in quanto, in una prospettiva in cui l’essere non coincide con l’esplicito, il silenzio è la sede di ogni discorso e il problematizzare originario deve cercare di pervenirvi. « Chi potrebbe riuscire a tacere semplicemente sul silenzio? Questo dovrebbe essere l’autentico dire, e valere costantemente come preludio ad un autentico discorso che muova dal linguaggio e voglia parlare di esso ».

10 Non si può non segnalare, a questo proposito, il tono indiscutibilmente heideggeriano (al di là del problema di un rapporto effettivo, che forse non si può porre) di certe pagine delle Philosophische Untersuchungen di Wittgenstein, a cominciare dalla prefazione, il cui concetto deirindagine filosofica come preparazione di una serie di Landschaftsskizzen richia­ma a Unterwegs zur Sprache. Una più sostanziale analogia potrebbe forse essere documenta­ta, a mio parere, dallo studio del concetto di Spiel come Wittgenstein lo impiega in quel­l’opera.

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Indice dei nomi

Abbagnano N., 232 n.Alìason B .} 48 n.Allemann B., 13 n., 99 n.Amoroso L., 12 Anassimandro, 23-4, 42, 179 n. Angelino C., 12 Apel K.O., 180 n.Aristotele, 35, 37-8, 107

Bagetto L., 11Biemel W., 13 n., 99 n., 100 n.,

135 n.Binswanger L., 188 n.Boehm R., 227 n.Bolin W., 60 n.Bosch R., 99 n.Bröcker W., 178 n., 193 n.Brüning W,, 13 n.Buddeberg E., 99 n.Bulle O., 135 n.Bultmann R., 24 n., 77 n., 78 n.,

194 n.

Caracciolo A., 12, 100 n.Caracciolo Perotti M., 12 Carnap R., 180 n.Cartesio, 39, 193 Casalone P., 13 n,Chiodi P., 10, 12, 13 n., 18 n.,

56 n., 64 n., 99 n., 114 n., 180 n. Confucio, 231 n.Cristin R., 99 n.

De Boer W., 54 n.Dilthey W., 57.-8, 62, 83, 208, 227Dondeyne A., 165 n.

Eckhart, Meister, 200 n.

Fabro C., 13 n., 99 n.Feuerbach L., 49 e n., 59, 60 n.Fichte J.G ., 225 n.Fink E., 178 n., 227 n.Freud S., 188 n.Fürstenau P., 18 n., 33 n., 129 n.,

150 n.

Gadamer H.-G., 99 n., 121 n., 178 n., 179 n., 227 n.

George S., 143, 173, 197, 209Gray J.G., 13 n.Grimm 135 n.Gründet K., 181 n.Guzzo A., 10-1Guzzoni A.L., 13 n., 49 n.

Hegel G.W.F., 26 n., 40, 48, 55, 56 n., 59 e n., 96, 183-5, 186 e n., 188 e n., 189 n., 190 n., 213, 215, 218, 227 n., 234-5

Heiss R., 188 n.Hohl H., 227 n.Hölderlin F., 14, 47-8, 52 n , 99 n.,

106, 116, 125-8, 132, 134, 136, 138-40, 146, 162, 207-8, 233

Husserl E., 226, 227 e n.

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238 INDICE DEI NOMI

Jaeger H., 99 n.Jaspers K., 14 e n.Jodl F., 60 n.

Kant I., 183Kierkegaard S., 48, 49 n.Kojève A., 59 n.Körner J., 77 n., 78 n.Krockow C. von, 181 n.Kuhn H., 231 n,

Landgrebe L., 13, 18 n., 57 Langan T., 13 n., 33 n., 37 n. Leibniz G.W., 39-40, 183-4, 200 n.,

221Lohman J., 178 n.Lowith K., 13 n., 14 e n., 18 n.,

24 n , 31, 54 n., 56 n.Lübbe H., 10, 13 n.Lukâcs G,, 91 n.

Marino M., 231 n.Marié R., 77 n.Marx K., 26 n., 49 Marx W., 54 n., 59 n., 66 n., 93 n.,

137 n., 165 n.Masi G., 12 Meyer H., 225 n.Mirri E., 232 n.Moretti Costanzi T., 232 n.Morris Ch., 180 n.Müller G., 194 n.Müller M., 13 n., 137, 194 n. Munson T.N., 180 n.

Nietzsche F., 13, 14 e n., 15, 16 e n , 17, 25-31, 32 e n., 33-4, 40-4, 46-52, 59, 83 e n., 106 n., 161 e n., 179 n., 185, 221-2, 226, 228

Novalis, 218

Oberti E., 99 n.Oison R.G., 129 n.Ott H., 13 n., 18 n., 26 n., 33 n.,

77 n.

Paci E., 226 n.Pareyson L., 10, 13 n., 49 n., 91 n.

100 n., 109 n.Parmenide, 168 Paumen J., 13 n.Platone, 13-4, 35, 36, 38, 184 Piguet J.-C., 56 n.Pöggeler O., 10, 13 n., 34 n.

137 n., 150 e n., 158 n., 159 n. 161 n., 162 n., 178 n , 191 n. 192 n., 194 n., 196, 202 n. 225 n.

Quint J., 200 n.

Ralfs G., 181 n., 198 n.Ravera R.M., 99 n.Richardson W.J., 165 n.Rigutini G., 135 n.Rilke R.M., 59 Rossi P., 13 n., 18 n.

Sartre J.P., 17, 120, 132 Schaeffler R., 231 n.Schelling F.W.J., 40, 233 Schlawin H., 13 n., 18 n.Sehöfer E., 77 n., 93 n., 114 n. Schräg C.O., 180 n,Schulz W., 225 n. Schweppenhäuser H., 197 n. Seiffert J.E., 49 n.Semerari G., 232 n.Serini P., 59 n.Siewerth G., 178 n.Silesio A., 200 e n.Spiegelberg H., 13 n., 179 n. Staiger E., 195 n., 224 n. Stambaugh J., 16 n.Strauss D E ., 52 Suarez F., 37

Theunissen M., 180 n.Tomatis F., 11 Trakl G., 133, 146

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INDICE DEI NOMI 239

Ugazio U.M., 12 Ulmer K., 16 n.

Van der Meulen J., 188 n, Van Gogh V., 111-3, 116 Vattimo G., 12, 121 n. Vico G.B., 13 Vigolo G., 52 n.Volpi F., 12, 36 n. Vycinas V., 198 n.

Waelhens A, de, 10, 13 n., 108 e n., 109, 135 n., 186 n., 188 n., 189 n., 190 n.

Wahl J., 13 n., 32 n., 99 n. Wittgenstein L., 179 n., 180 n., 236

e n.Wiplinger F., 55 n., 92 n., 137 n.,

165 n., 168 n., 225 n.

Yorck von Wartenburg, 57

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Finito di sta7npare nel marzo 1989 con i tipi della Casa Editrice Marietti

presso il Consograf di Genova