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Malcolm Owen Slavin, Daniel Kriegman1
Ricerca Psicoanalitica, 2002, Anno XIII, n. 1, pp. 61-88.
Verso una teoria del conflitto, della negoziazione e della mutua influenza2
Traduzione dall’americano di Maria Luisa Tricoli.
SOMMARIO
Facendo riferimento agli interessi consci e inconsci del singolo, gli Autori descrivono con profondità le
motivazioni a volte divergenti presenti nella psiche dell’analista e del paziente. Ispirandosi al concetto
winnicottiano di “odio” interno per l’altro, esplorano la natura degli interessi individuali, che a vicenda
creano un conflitto mutuo, inevitabile, ma normativo tra analista e paziente.
SUMMARY
Why the analyst needs to change: toward a theory of conflict, negotiation, and mutual influence in
the therapeutic process
Malcolm Slavin and Daniel Kriegman use their understanding of a person’s conscious and unconscious
self-interest to give texture and depth to the sometime-diverging motivations residing within the psyches
of analyst and patient. The authors draw on Winnicott’s keen articulation of internal “hatred” toward the
other to explore the nature of the individual’s self-interested bias, which in turn creates a mutual,
inevitable, but normative conflict between analyst and patient.
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Se ci addentriamo nei meandri dei vissuti dei pazienti, inciampiamo nel grosso ostacolo dei nostri
interessi e lo stesso ostacolo ci si presenta quando tentiamo di capire il desiderio dell’altro (McLaughlin,
1995).
Lo scopo di questo articolo è di fare luce su un aspetto fondamentale del processo terapeutico, un
aspetto che ne costituisce il nucleo più profondo ed è contemporaneamente centrale in tutte le relazioni
umane: l’esperienza e il ruolo del conflitto interno e del conflitto interattivo (interpersonale) del paziente e
dell’analista. Non possiamo, tuttavia, parlare di conflitto senza occuparci nello stesso tempo della presenza
dell’inganno e dell’auto-inganno quali esperienze strettamente inerenti al problema. Cercheremo di
affrontare il conflitto, l’inganno e l’auto-inganno in una prospettiva generale che vada al di là del linguaggio
specifico della tradizione psicoanalitica. Il nostro punto di vista sarà così più comprensibile e accettabile per
quei lettori che non condividono più l’assunto classico che il conflitto e la difesa derivino da strutture
pulsionali e che non considerano più il transfert e la resistenza unicamente come distorsioni individuali e
intrapsichiche della realtà. Oltrepassando l’ottica relazionale e intersoggettiva proporremo, però, delle
considerazioni sulla natura del conflitto differenti anche dall’usuale punto di vista di quegli studiosi che
1 Malcolm Owen Slavin, Ph.D. è presidente del Massachussets Institute for Psychoanalysis in cui è analista supervisore
e docente. È, inoltre, Director of Training presso il Tufts University Counseling Center. Daniel Kriegman, Ph.D., è docente del Massachussets Institute for Psychoanalysis. è fondatore e coeditore della rivista psicoanalitica Self & Other: Critical Debates e fondatore del Psychoanalytic Institute for Couple and Family Therapy. 2 Questo articolo è stato pubblicato, in una versione più ampia, in Psychoanalytic Dialogues, 1998, 8, 2, pp. 247-284 con il titolo Why the analyst needs to change: toward a theory of conflict, negotiation, and mutual influence in the therapeutic process. Si ringraziano gli autori e l’Editore, The Analytic Press, per la gentile concessione.
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lavorano con paradigmi relazionali, intersoggettivi e costruttivisti. In particolare, tratteremo il tema del
conflitto nella relazione terapeutica facendolo derivare da interessi (identità e bisogni) intrinsecamente
divergenti dell’analista e del paziente. Descriveremo l’inganno e l’auto-inganno come fenomeni inerenti al
conflitto e il complesso processo di negoziazione necessario per affrontarli.
Il conflitto come costituente essenziale dell’essere in relazione
Consideriamo l’incredibile affermazione di Winnicott (1950): “La madre odia il bambino fin dall’inizio”
(p. 73). Winnicott non parlava di madri cattive o non adeguate, ma di madri dedite, “abbastanza buone”.
Non crediamo che abbia mai parlato semplicemente di “odio” (affetto o stati affettivi) in quanto tale;
certamente non di “un istinto distruttivo” primario. Crediamo, invece, che alludesse alla dimensione
affettiva di una realtà più ampia e fondamentale delle relazioni umane: il conflitto d’interesse
assolutamente ineludibile e presente anche tra due persone che condividono la più intima e mutua delle
relazione in cui la naturale empatia e l’amore costituiscono il legame affettivo predominante.
Nell’introdurre il termine “conflitto d’interesse”, “interesse per se stessi” intendiamo dire semplicemente
che, come esseri sociali, abbiamo sviluppato un complesso progetto naturale di costruzione di noi stessi
sulla base di una raffinata sensibilità per l’affermazione dei nostri interessi all’interno della matrice dei
legami e delle tensioni suscitati dagli interessi degli altri. Questo aspetto del nostro disegno umano,
funziona, consciamente e inconsciamente, da principio motivazionale superiore che governa l’organiz-
zazione di molti nostri desideri ed emozioni (vedi Slavin e Kriegman, 1992).
Nell’articolo, Hate in the countertransference, in cui afferma l’esistenza dell’odio della madre per il
bambino, Winnicott non parla solo dei rapporti tra madre e bambino, ma anche dell’analista affermando:
“L’analista deve considerare se stesso nella stessa posizione della madre con il neonato” (p. 73). Winnicott
introduce qui il concetto di “controtransfert obiettivo”, con cui si riferisce a quegli aspetti dei sentimenti del
terapeuta nei confronti del paziente che non derivano da una patologia del terapeuta, né da un patologia
del paziente e neppure dal particolare carattere del terapeuta o dallo stile con cui egli interagisce con il
carattere e lo stile del paziente. Il cosiddetto “controtransfert obiettivo” sembra riferirsi semplicemente a
sentimenti, spesso paura e odio, che coesistono con l’amore. La paura e l’odio, che secondo Winnicott sono
alla base delle relazioni umane, sembrano dipendere da ciò che appare come un “risucchio psichico” tra
due esseri distinti che interagiscono intimamente.
Con una determinazione spesso inconscia, ognuno dei due tenta di usare l’altro attraendolo nel suo
mondo soggettivo e nello stesso tempo resiste andando nella direzione opposta. Ognuno di noi ha bisogno
di “usare” l’altro per costruire la propria identità e pertanto vuole, e non può non volere, interessarsi alla
soggettività dell’altro. Ma ognuno tenta di ridefinire l’altro in funzione propria (e insieme di accettare e
resistere alla ridefinizione di sé da parte dell’altro). Definiamo queste tensioni, universalmente presenti
nelle relazioni “risacca”, perché come la forza della risacca è presente al di sotto dei movimenti della
marea, allo stesso modo queste tensioni operano inesorabilmente al di sotto di tutti i comportamenti
umani.
Winnicott osserva, inoltre, che: “C’è un nucleo profondo della personalità che non comunica con il
mondo degli oggetti percepiti e che l’individuo sa… non poter essere mai comunicato o influenzato dalla
realtà esterna” (p. 187).
Questo “nucleo profondo” non si riferisce solo ad un inevitabile sforzo di proteggere gli aspetti
vulnerabili del sé, ma anche a una capacità adattiva di creare e sostenere il sé di fronte a conflitti,
deviazioni e inganni normalmente presenti nella comunicazione e nei rapporti che, nonostante la
mutualità, includono sempre interessi significativamente competitivi. Esiste nel normale mondo relazionale
una continua tensione, una rete di scopi conflittuali e condivisi sostenuti e amplificati, come nota Havens,
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dalla nostra capacità umana di: “usare il linguaggio [non solo per esprimersi e comunicare, ma anche] con
lo scopo di nascondere i nostri pensieri… rendendoli conformi ai vari pregiudizi. Ogni incontro umano è per
questo uno scontro di punti di vista diversi in cui il linguaggio connette o cancella le differenze” (1997, p.
526).
Come Winnicott (1963) dice ancora: “Le persone sane comunicano e godono del comunicare, ma è
ugualmente vero che ogni individuo è un essere isolato, che non comunica mai e rimane sconosciuto, in
realtà non trovato” (p. 187).”
Ancora una volta Winnicott (ed Havens), nonostante la presenza di autentiche finalità condivise,
descrive la tendenza fondamentale dell’essere umano a costruire le comunicazioni inconsce in modo da
salvaguardare inevitabilmente i propri interessi, dando altrettanto naturalmente per scontato che le
comunicazioni degli altri siano ugualmente caratterizzate dalla stessa tendenza.
Il nucleo profondo di cui parla Winnicott, quindi, non è una roccaforte muta o irrigidita, ma un aspetto
adattivo della configurazione del sé, che dall’interno, naturalmente, ci sollecita con un messaggio di questo
tipo: “Controlla ogni comunicazione, ogni relazione; nonostante l’apparente coincidenza, il mio interesse
personale è unico e solo in parte condivisibile; gli altri, anche se mi amano, tenderanno ad agire più nei loro
interessi che nei miei”.
Il “nucleo profondo”, secondo la nostra opinione, non è una “cosa” o un contenuto fisso e immutabile
dentro di noi. È una metafora che cattura l’essenza di un processo attraverso il quale organizziamo ogni
esperienza interattiva, codificando selettivamente le comunicazioni in uscita e decodificando le
comunicazioni in entrata. Questo processo limita il potere modellante e l’influenza che l’esperienza
interattiva (sociale) potrebbe avere sulla plasticità della psiche umana. Il “nucleo profondo” fa emergere la
natura paradossale dell’adattamento umano al mondo relazionale: per creare e mantenere un senso del sé,
incluso il senso dei nostri interessi, dobbiamo continuamente apprendere e incorporare aspetti del mondo
relazionale. Dobbiamo essere influenzati e accettare questa influenza per diventare noi stessi. Eppure il
mondo relazionale, intrinsecamente ambiguo, tenderà, anche nelle migliori circostanze, a fare i suoi
interessi, a rappresentare le sue costruzioni come reali, a delineare dei fini e dei legami molto più vicini e in
apparenza altruisticamente rispondenti ai nostri interessi di quanto in realtà non sia.
Le osservazioni di Winnicott sull’”odio” presente “fin dall’inizio” e sul “nucleo profondo che non può
essere mai comunicato o influenzato dalla realtà esterna” si riferiscono ad aspetti fondamentali della nostra
realtà psicologica, essendo costituenti vitali della relazione. Dal nostro punto di vista, Winnicott non si
riferiva ad una sintonizzazione con la realtà del conflitto riducibile a “pulsioni interne che hanno bisogno di
scarica” in senso freudiano o kleiniano, sebbene la sua formazione kleiniana lo rendesse certamente
sensibile all’esistenza di un conflitto intrapsichico iniziale. Non si riferiva nemmeno a risposte difensive di
odio nei confronti dei fallimenti ambientali come sostengono la prospettiva della psicologia del sé e
l’indirizzo intersoggettivo (Kohut, 1972; Stolorow et al., 1987). E neppure si riferiva a quelle reazioni rivolte
alle inevitabili vicissitudini e delusioni relazionali che sono sottolineate dalla prospettiva relazionale
(Mitchell, 1988). Crediamo che si riferisse, invece, alla dialettica universale tra individuo e mondo
relazionale, che: a) è fondata sull’esistenza di un implicito conflitto d’interesse; b) riguarda affetti
fondamentali come l’odio, relativi a un nucleo profondo intimo del sé; c) è vitalmente legata alle complesse
strategie che impieghiamo per “usare” il mondo relazionale al fine di creare e mantenere la nostra
individualità.
Clinicamente la dialettica del conflitto interiore e interpersonale, presente nelle modalità intime di
relazione, opera fin dall’inizio “…in miriadi di forme e innumerevoli modi ingannevoli”. Il nostro mondo
soggettivo e i nostri interessi sono quindi inevitabilmente in conflitto con quelli dei nostri pazienti.
Il nucleo di questo conflitto è stato teorizzato in modalità diverse, se pure non necessariamente in
un’ottica di spiegazione causale: 1) la patologia del paziente, proiettata o spostata sul terapeuta quale
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schermo neutro o affettivamente partecipante, come sostengono gli psicoanalisti tradizionali o gli analisti
classici contemporanei; 2) la risposta controtransferale alla patologia del paziente, l’esperienza evocata
dall’identificazione proiettiva nel ruolo di altre persone del passato in relazione conflittuale con il paziente,
come i teorici delle relazioni oggettuali e gli interpersonalisti sostengono; 3) gli errori del terapeuta
nell’empatizzare o sostenere una sintonizzazione con la realtà soggettiva del paziente, come gli psicologi
del sé affermano.
Come in qualsiasi altra situazione tra due individui (estranei, parenti stretti, amici intimi, amanti, genitori
e bambini), terapeuta e paziente operano attraverso mondi, bisogni, programmi e, in ultima analisi,
interessi soggettivi che, in qualche modo, sono sempre divergenti e che inevitabilmente a volte si
scontrano. Sotto la copertura delle motivazioni più affettuose e generose (indipendentemente dal ruolo
professionale) ogni individuo organizza, e non può non farlo, il suo mondo soggettivo per comunicare e
promuovere i suoi interessi. Dalla nascita in poi la nostra soggettività è naturalmente rivolta a realizzare le
nostre esigenze vitali. In un mondo di interessi conflittuali, è questa una disposizione fondamentalmente
adattiva alla base delle motivazioni umane, che opera in modo conscio o inconscio.
La resistenza ad essere influenzati come atteggiamento adattivo. La situazione analitica aumenta
l’esperienza del conflitto e dell’inganno
Il trattamento analitico è un processo nel quale a un individuo sconosciuto (non un membro della
propria famiglia o un amico intimo) viene conferito un accesso straordinario e privilegiato ai livelli profondi
della propria mente, insieme al potere di influenzarli. In relazione a questa prospettiva relazionale, è
probabile che sia presente un intrinseco “scetticismo adattivo” tra paziente e analista, suscitato dallo
stabilirsi di un transfert intenso e dalla possibile ri-negoziazione dell’identità. Dal nostro punto di vista, lo
scetticismo del paziente è una capacità adattiva naturale che serve a bilanciare l’altrettanto vitale capacità
della “volontaria sospensione della sfiducia” e a valutare la coincidenza e la divergenza degli interessi (le
identità) di paziente e analista. Ciò significa che il paziente, pur trovandosi in una relazione sicura e
promettente, deve tenere conto della possibile attivazione comune di desideri arcaici e di altri aspetti
repressi o rifiutati.
È probabile che i pazienti cerchino di salvaguardare ciò che sperimentano come un fondamentale e
irrinunciabile senso del sé (e dei propri interessi) ed è anche probabile che si permettano di “usare” (o di
essere influenzati da) il loro analista quando lo sperimentano davvero alleato con i loro interessi (vedi
anche Weiss e Sampson, 1986). Eppure esiste una gamma di situazioni in cui gli interessi del paziente e
dell’analista regolarmente si scontrano. L’intrinseca tendenza di ogni uomo a costruire la propria
esperienza e a comunicarla in modo soggettivo implica che il paziente senta l’analista alleato con i suoi
interessi solo saltuariamente.
Di conseguenza, riteniamo che un aspetto centrale dell’azione terapeutica consista in un continuo
processo di negoziazione bidirezionale attraverso il quale i pazienti arrivano a sperimentare, e poi
inevitabilmente a dubitare, perdere, cercare e ricreare la sensazione che l’analista vuole ed è capace di
allearsi adeguatamente con i loro interessi.
Al di là della sfiducia patologica che il paziente a volte porta nella relazione analitica, rimane il fatto che,
in tutte le normali relazioni umane, il “potere di influenzare”, riconosciuto a coloro che sono fuori delle più
strette relazioni familiari, normalmente dipende dalla convinzione di una tangibile reciprocità avvertita
come reale, duratura e stabile. Possiamo cambiare molto e profondamente nell’ambito di un matrimonio,
di un’amicizia intima di vecchia data e, a volte, di una relazione con un insegnante, con un gruppo o in un
rapporto d’affari. Eppure, in ciascuna di queste relazioni, è presente un investimento importante e/o forti
rischi. In ogni sfera della vita, operiamo attraverso una reciprocità sperimentata, accuratamente controllata
e valutata (Trivers, 1971). Eppure l’analista è un individuo estraneo che chiede al paziente di pagare, a volte
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molto, per qualcosa che è stato sempre sperimentato (a volte persino dai pazienti più riconoscenti) come
un investimento relativamente piccolo in termini di costi visibili da parte dell’analista. Infatti, gli scambi
reciproci con l’analista sono poco tangibili; i risultati, per lunghi periodi, sono di solito ambigui e di lieve
entità.
Prendiamo in considerazione in questa luce, quindi, il messaggio implicito che inviamo ai nostri pazienti:
“Sebbene come analista ti dia qualcosa di tangibile e ti chieda di pagarmi, mi aspetto che ti fidi di me, che ti
apra alla mia influenza, comunicandomi le tue fantasie e i tuoi desideri. Rimane implicito che il potere di ri-
negoziazione interpersonale, dipendente dall’attivazione delle tue comunicazioni, qualora si realizzasse, ci
condurrà alla fine alla tua riorganizzazione in modalità più consone ai tuoi reali interessi di quanto tu possa
ora immaginare (e di quanto, in questo momento, possiamo realmente sapere)”.
Il transfert terapeutico come “imitazione” della relazione tra genitore e bambino
Prendiamo ora in considerazione alcuni significati importanti per l’analista che si propone di suscitare un
intenso attaccamento transferale e una regressione. Ci aspettiamo che si sviluppi il transfert: creiamo il
setting e le modalità di relazione affinché il paziente possa rivivere aspetti delle prime esperienze nel
contesto delle quali ha costruito chi è lui e che cosa si può aspettare dalle interazioni con gli altri. La
relazione analitica è designata ad essere soprattutto una imitazione, come se fosse l’unico ambito di
accesso agli aspetti emotivi e all’influenza che i primi legami familiari esercitano sul bambino. Attraverso
questa “imitazione” il transfert crea una situazione umana fortemente emotiva in cui è possibile rivedere
qualcuna delle conclusioni iniziali su se stessi e sul mondo.
Dal momento che viviamo e respiriamo ogni istante della nostra vita nella dimensione evolutiva della
nostra specie, non dovremmo dare per scontato che i bambini “permettano” facilmente ai loro genitori e
all’ambiente familiare di esercitare, quali presenze internalizzate (introiezioni), la loro influenza e il loro
potere sull’organizzazione del sé infantile, per esempio nella definizione infantile di sé e del proprio
interesse. Eppure, nonostante “l’odio per il bambino [che la madre prova] fin dal primo momento”, vale a
dire gli interessi conflittuali e la risacca psichica tra genitore e bambino, ci si può aspettare che i genitori
condividano profondamente gli interessi dei figli e, in prospettiva, investano su di loro molto più di
chiunque altro (Trivers, 1974). Per questo la “personalità profonda” (in senso winnicottiano) del bambino è
in realtà predisposta a permettere una comunicazione e un’influenza maggiori di quanto non avvenga in
qualsiasi altro momento del suo ciclo vitale. La relazione terapeutica di transfert imita le relazioni evolutive
seppur molto differenti dalla situazione analitica. È quindi impensabile che i nostri pazienti non colgano che
l’intensificarsi del transfert, delle aspettative e dei desideri li espone in qualche modo a inganni e a
autoinganni pericolosi. Kindler (1995) si riferisce al “diritto all’intimità” del terapeuta e Friedman (1991) al
concetto di “seduttività” intrinseca della situazione analitica.
Pensiamo naturalmente al significato e alla funzione del transfert: il paziente può riprodurvi la possibilità
di un investimento reciproco, seduttivamente simile a una relazione naturale ed evolutiva. Eppure,
nonostante nella relazione analitica ci sia molto di sincero e genuino, il transfert non è la stessa cosa. La
sofferenza di dover pagare per l’interesse dell’altro, il costante ricordo, alla fine di ogni ora, dei limiti del
coinvolgimento del terapeuta sono tutti segnali di una realtà più significativa della situazione analitica: la
relazione terapeutica non comporta un investimento sugli interessi del paziente simile a quello della
parentela o delle altre relazioni naturali. Il paziente e il terapeuta devono negoziare i modi in cui il paziente
può arrivare a sperimentare che, nonostante la sua dolorosa “irrealtà”, la relazione analitica è in effetti
abbastanza reale da giustificare il pieno coinvolgimento del paziente (Slavin, 1996b).
Qual é in realtà l’investimento dell’analista sul paziente? In riferimento al contesto familiare di odio e
amore in cui è normale che la “personalità profonda” del bambino sia più esposta ad influenze, fin dove
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può arrivare l’investimento dell’analista? Gli analisti non si preoccupano molto di definire i propri interessi
rispetto alla personalità e agli interessi di uno specifico paziente.
Consideriamo l’esperienza del terapeuta e del paziente rispetto all’interruzione dell’analisi. In relazione
ai rischi che essa comporta per il paziente e alla relativa sicurezza dell’analista, è difficile immaginare
un’altra situazione umana che implichi maggiormente conflitto e inganno. Nonostante questa evidenza,
l’analista tende spesso a ritenere che il suo punto di vista sia la realtà e che costituisca anche un vantaggio
per il paziente.
Il “naturale” scetticismo del paziente
Tutti i pazienti tendono, in fin dei conti, a farci prendere atto che, nella struttura relazionale della
situazione analitica, c'è qualcosa che li rende sospettosi.
Di fronte alla complessità davvero unica del transfert e del controtransfert, tendiamo ad ignorare che il
processo di negoziazione terapeutica porta la naturale capacità umana di auto-revisione ad un estremo
insolito e, forse, in un certo senso, innaturale. Ciò avviene perché si attiva, nella maggior parte dei pazienti,
qualcosa che si potrebbe definire un “naturale” scetticismo nei confronti di un estraneo che offre
deliberatamente se stesso come veicolo per influenzare e modificare profondamente l’identità dell’altro.
Questo scetticismo adattivo è lo sfondo su cui inserire tutte le discussioni sulla “resistenza”. Si riferisce a un
nucleo profondo, presente in tutte le forme di resistenza, che va distinto (sebbene vi sia spesso intrecciato)
dal “timore” di ripetere (Ornstein, 1974) particolari, dolorosi scenari relazionali che hanno ostacolato lo
sviluppo in passato.
Secondo noi, questo naturale scetticismo del paziente è un fenomeno adattivo, quello stesso che
Winnicott tenta di descrivere come “quel nucleo che non deve mai essere influenzato”. Esso rimanda a
quella forma fondamentale e universale di “resistenza all’influenza dell’altro” che non mira affatto a
impedire tutte le influenze, ma, piuttosto, a sottoporle ad un test relazionale: qual è la coincidenza e la
divergenza tra l’interesse dell’altro e il mio? Questa relazione si adatta a sufficienza ai miei interessi così da
risvegliare i miei più profondi desideri? L’analista è capace di adattare la relazione in favore dei miei
interessi più autentici ed è in grado di mantenere l’attenzione su di me in modo che io possa far emergere
quegli aspetti della mia esperienza e dei miei desideri più profondi che in passato ho pensato che non fosse
sicuro esporre all’influenza dell’altro?
In effetti analista e paziente avvertono profondamente, poiché l’analista è Altro, che qualsiasi cosa
possa offrire sarà sempre mediata da ciò che egli è, dai suoi bisogni, dalla sua identità, dalle sue
inclinazioni. Inevitabilmente, nel processo di adattamento obbligato all’analista, il paziente perderà parti di
sé, farà compromessi sui suoi interessi e verrà ferito.
Il transfert come investigazione adattiva
Lo sviluppo e l’uso interattivo del transfert può condurre ad esprimere e investigare la possibilità di
riconoscere e negoziare l’ambigua mescolanza, nelle relazioni umane, di conflitto e mutualità.
Il terapeuta deve prestare una delicata attenzione all’autoinganno e all’evitamento dell’inganno. La
relazione analitica è caratterizzata dalla stessa complessità di conflitto e inganno propria di tutti i legami
umani, ma essa deve, in ultima analisi, perseguire la sua efficacia senza lo stesso tipo di investimento reale
che il paziente vive naturalmente negli altri legami reciproci. La negoziazione tra paziente e analista serve a
trasformare continuamente la parte ingannevole della relazione, quella non reale, nella sua forma positiva;
si tratta di qualcosa che viene sperimentato come gioco e illusione creativa (Winnicott, 1969). In pratica
l’analista deve essere il più reale possibile nelle sue parole e nei suoi modi (Greenberg, 1986) così da
giustificare il fatto che il paziente lo usi per porre interrogativi e rivedere le proprie conclusioni su se stesso
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e sui suoi modi di interazione.
Uno dei modi con cui il terapeuta respinge il paziente è l’uso di strategie di autoinganno per proteggere
o favorire i propri interessi facendo credere di voler favorire gli interessi del paziente. Secondo noi, il
pericolo che molti pazienti avvertono in questa “confusione di interessi” è il ripetersi di esperienze
traumatiche legate alla confusione di confini maggiore del passato. In molti inganni della vita di ogni giorno
c’è la possibilità di un’ulteriore perdita e diminuzione della capacità vitale di definire, conoscere e
promuovere i propri interessi. La tendenza a generare la confusione di interessi è, forse, l’aspetto centrale
di molti ambienti familiari traumatizzanti e patogeni. Purtroppo non è inconsueto che questa tendenza sia
presente in molte terapie camuffata da ciò che i terapeuti codificano come “tecnica”.
Edward e la sua analista
Edward era l’individuo più gravemente e tenacemente depresso che la sua analista avesse mai
incontrato. Tentativi di cura con praticamente tutti i farmaci conosciuti si erano rivelati quasi totalmente
inefficaci.
Dopo alcuni anni di trattamento, l’analista si accorse che di tanto in tanto c’erano piccole e
momentanee schiarite nel suo umore, brevi periodi di migliore concentrazione e, di tanto in tanto momenti
di interesse, forti emozioni ed insight. In questi momenti sembrava alla sua analista notevolmente più vivo.
I momenti positivi, i barlumi di speranza e di entusiasmo erano legati ai persistenti tentativi dell’analista
di rimanere fortemente sintonizzata col mondo soggettivo di Edward, di ricordare cioè a se stessa che, più
di ogni altra cosa, egli aveva bisogno di stabilire e riparare continuamente la sensazione che qualcuno
potesse capire la sua esperienza di morte e l’impossibilità, l’intrappolante inconsistenza in cui
costantemente viveva. Erano arrivati a costruire un quadro della sua vita, del suo essere cresciuto come
bambino non voluto, figlio di una madre lontana e depressa e di un padre distante e critico, un figlio che
esisteva solo per corrispondere e convalidare qualsiasi aspettativa su di lui. Era torturato da un irresolubile
dilemma: sebbene avesse un gran desiderio di intimità, di relazioni strette, invariabilmente finiva col
sentirsi perduto, intrappolato in ciò che egli chiamava “buco nero”, l’esperienza della perdita di significato,
del senso di sé, di essere reale e vivo.
Sebbene la relazione analitica fosse diventata per lui una specie di legame di mantenimento in cui si
sentiva più capito di quanto non gli fosse mai successo in altre relazioni, Edward ritornava sempre ad una
sensazione profonda di disperazione mortale. Sentiva che non avrebbe mai potuto provare quel senso di
vitalità che provavano gli altri. Né avrebbe mai potuto tollerare l’illusorietà, l’ipocrisia, l’ingannevole
“meccanico rituale sociale” che con molto acume scorgeva nella vita degli altri. E quanto più si allontanava
dagli “insignificanti contatti sociali”, tanto più si sentiva solo.
Col passare del tempo, l’analista di Edward si rese conto di un forte timore anticipatorio che si portava
dentro, il timore di ciò che lei avvertiva come eliminazione e disprezzo per tutti i buoni sentimenti.
All’inizio di una seduta, Edward sembrava combattere contro l’orribile sensazione di scivolare nella
disperazione. Per un istante l’analista colse la tacita sintonia con cui avvertiva lo sforzo di Edward di non
scivolare una volta ancora in uno stato di rabbiosa disperazione. Si sforzò invece di seguire attentamente
l’esposizione di un problema di lavoro come sempre frustrante. Man mano che il tempo passava, divenne
chiaro, però, che la disperazione di Edward stava arrivando al massimo. Niente era d’aiuto. Qualsiasi cosa
potessero arrivare a capire, egli era come morto.
“Non si accorge che muoio ogni giorno un po’ di più? Tutto è inutile” disse.
Mentre parlava, l’analista ebbe l’impressione che qualcosa dentro di lei cominciasse a parlare. Sentì se
stessa che diceva:
“A volte, come in questo momento, sento che tutto quello che posso fare è essere qui con lei nella sua
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disperazione.” Quando si accorse di ciò che aveva detto, aggiunse: “Sì, c’è qualcosa di più. Forse più
importante. Io… devo cercare di entrare in rapporto con quella parte di me che non vuole sentirla.”
La seduta successiva, Edward disse che qualcosa di strano era accaduto: “La Sua immagine ha dato un
senso differente a tutto. Differente dai modi in cui penso di solito a noi… a Lei come persona che sopporta
la disperazione… ciò la mette dentro l’immagine più che fuori. Comprende quello che dico?”
“Credo di sì.”
“Da una parte ci sono io disperato, dall’altra lei che tenta di capire che fare e io con la mia convinzione
che lei non possa fare nient’altro che condividere la mia disperazione. Probabilmente questo è l’unico
conforto che lei possa darmi.”
In molti momenti come questo diveniva chiaro all’analista che i suoi solleciti ma ardui tentativi di
rimanere in sintonia con il mondo soggettivo di Edward si scontravano dolorosamente con il proprio senso
di vita e di speranza. Ad un livello molto profondo la speranza per Edward si radicava nel suo bisogno di
mantenere una visione fondamentalmente positiva di se stessa e della vita, ed insieme di nutrire speranza
nell’analisi stessa. Nella misura in cui Edward sembrava avvertire questo loro conflitto e, in particolare, la
tendenza dell’analista ad ingannare se stessa su chi fosse l’oggetto della speranza, la sua disperazione e la
sua rabbia si intensificarono. Da notare che “chi fosse l’oggetto della speranza” è di per sé un’espressione
molto ambigua, persino paradossale. L’analista di Edward sentiva il bisogno di nutrire speranza nell’analisi
in un modo che la portava a riconoscere che lo faceva per se stessa; l’analisi era parte della sua identità.
Eppure sentiva anche una esigenza etica che non poteva mancare di attribuire ad una identificazione
proiettiva (o ad una spinta verso un enactment) permettendo alla disperazione e al senso di inutilità di
Edward di riempirla: non avrebbe ingannato il suo paziente se avesse perduto la speranza? Una grande,
paradossale ambiguità minacciava profondamente la sua identità, aggiungendosi alle difese che già aveva
contro la sua disperazione nei riguardi dell’esistenza umana.
Si andava configurando un conflitto molto complesso tra due realtà: 1) il bisogno di Edward che
l’analista rappresentasse per lui la possibilità di decentrarsi da sé e che potesse sperimentare la legittimità
della propria soggettività (la sua disperazione); 2) il bisogno dell’analista di trovare la via per uscire dalla
disperazione.
Quando l’analista si permise di confrontare questi due aspetti del conflitto reale (superando la tendenza
a tenere il conflitto fuori dalla coscienza) poté “sentire se stessa” dire qualcosa al paziente che risuonava in
lei in maniera molto differente dalla sua solita attenzione empatica, per quanto attenta e costante. In
questo modo riuscì a comunicare al paziente la battaglia che stava combattendo per rimanere unita a lui in
modo da non patologizzare né lui né se stessa. Il suo intervento fu spontaneo ed autentico perché rifletteva
il loro conflitto; riuscì a trasmettere qualcosa di significativo rispetto alla capacità e alla volontà di essere
toccata, cambiata da lui, nonostante la tendenza opposta che avvertiva dentro di sé.
Di fondo aveva dimostrato la sua volontà di affrontare la lotta interna tra speranza e disperazione, il
conflitto interiore che, in parte, era suscitato dal conflitto tra loro.
Aveva bisogno di impegnarsi ancora per fare i conti fino in fondo con il dolore e la disperazione che
aveva provato nella sua vita. Il prezzo da pagare per avere una relazione autentica con Edward era stato
quello di immergersi nuovamente nelle realtà dolorose per cui aveva già trovato una soluzione operativa.
Aveva trasmesso ad Edward la sua disponibilità e volontà di abbandonare qualcosa che si era sedimentato
nella sua identità.
Approfondire i conflitti relativi all’identità dell’analista
Nonostante questi momenti di maggiore “realtà” psicologica, Edward avvertiva che quanto più la loro
relazione diveniva stretta, tanto più si sentiva condannato a provare un desiderio amaro e frustrato di
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appartenere alla vita dell’analista, alla sua vita reale, come le persone “reali” della sua vita, la sua famiglia e
i suoi amici. Era particolarmente doloroso riconoscere e parlare del suo bisogno di essere sostenuto, pur
sapendo che l’analista non poteva sostenerlo davvero.
Il suo più antico ricordo era di essere tra le braccia di sua madre, indistinta e distratta. Sua madre lo
teneva, ma egli sentiva che non voleva realmente tenerlo.
La problematica dell’analista lo rendeva ora più penosamente convinto che, come in ogni relazione
precedente, poteva avere qualcosa, ma non ciò che realmente voleva. Le si aggrappava, ma lei aveva la sua
vita reale e lui le era soltanto al fianco.
Era però anche vero che, se lei lo avesse realmente (fisicamente) accolto, ciò avrebbe distrutto la sua
vita. Così l’unico modo in cui avrebbe potuto sentirsi sostenuto da lei consisteva nell’ammettere e accettare
la sua disperazione, la loro comune disperazione, vale a dire la disperazione nei confronti dell’analisi e della
vita stessa. Dovevano smettere di impegnarsi in un processo inutile. Che cosa poteva raggiungere con la
comprensione analitica? Non aveva una sua realtà. L’analista non si accorgeva che stava morendo un po’ di
più ogni giorno? Voleva morire. Capiva, quando glielo sottolineava, che questo circolo vizioso era il
problema centrale che finiva con lo sperimentare ogni volta, il “buco nero” di tutte le relazioni? Aveva
disperatamente bisogno di sentire la propria autenticità, ma avrebbe potuto sentirla solo se lei avesse
accettato la sua realtà, la sua convinzione che l’analisi fosse inutile. Se lo avesse fatto, la loro relazione
sarebbe finita.
L’analista sapeva che si trattava di un circolo vizioso, di un paradosso legato al conflitto tra i loro bisogni:
il bisogno del paziente che lei avvertisse la sua disperazione e il bisogno opposto di mantenere
contemporaneamente la propria speranza, così da sostenere anche quella del paziente. Doveva riconoscere
il conflitto interno del paziente, ma doveva anche comprendere il conflitto reale, non sorvolare sul fatto
che realmente l’analisi è una seduzione che porta a sperimentare intensamente i propri bisogni senza
peraltro fornire quel reale sostegno affettuoso di cui si ha bisogno.
Lentamente, con il passare degli anni, l’analista si rese conto che quel rapporto comportava grandi rischi
ai quali il suo training e la sua lunga e positiva analisi personale non l’avevano preparata. I rischi e i pericoli
a volte sembravano esterni. Quando il paziente sembrava più disperato ed emergevano tendenze suicide,
temeva di essere accusata, continuando a proporre un trattamento analitico ad una persona che non
sembrava sopportarlo, di spingere Edward alla follia. Sapeva che alcuni dei colleghi che stimava di più o dei
suoi insegnanti l’avrebbero probabilmente incolpata di voler continuare un trattamento analitico intenso
con una persona così disturbata. Un conflitto che si configurava sia come mancanza di lealtà (il distacco da
loro e dai loro insegnamenti) sia come danno nei propri confronti (la sua reputazione professionale e la sua
fonte di sostentamento). Non solo avrebbe potuto fallire nel suo intento di aiutarlo, ma avrebbe potuto
danneggiarlo e anche danneggiare profondamente se stessa.
Attraverso innumerevoli riproposizioni di questo tema l’analista giunse ad una lacerante e profonda
comprensione di ciò che Edward stava cercando di farle vedere. In numerose occasioni provò a
comunicargli ciò che cominciava a capire. Da una parte non voleva dargli ciò di cui aveva bisogno:
sostenerlo, facendo sì che diventasse una parte “reale” della sua vita. Il suo metodo analitico non glielo
permetteva. Dall’altra non poteva neppure accettare la disperazione di Edward, né fondersi
empaticamente con la sua disperazione. Fin tanto che fosse stata la sua analista non avrebbe mai accettato
che il loro lavoro analitico fosse inutile. Queste erano certamente limitazioni dipendenti dal suo metodo,
non si trattava solo di una sua incapacità di adattarsi o di un suo fallimento a sintonizzarsi direttamente e
stabilmente con il paziente. La realtà della sua vita e il suo modo di lavorare creavano dei limiti nella loro
relazione. La vita di Edward avrebbe potuto non migliorare e i desideri suscitati dall’analisi avrebbero
potuto essere così insopportabili che egli avrebbe potuto uccidersi.
In diverse occasioni Edward le aveva comunicato che avrebbe sentito accettazione e sollievo se avesse
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riconosciuto la disperazione e l’inutilità del loro lavoro: “Mi darebbe un vero sollievo la sensazione di essere
impegnata in qualcosa che mi porta vantaggio, mentre forse la danneggia e porta a Lei (e a me) molto
dolore e poco guadagno. Ma in certi momenti sento la vita in Lei, qualcosa che mi risponde e suscita un
sentimento di vita in me e, quando lo sento, non vedo solo disperazione e inutilità. Non posso ignorare
questa sensazione di vita, nonostante la mia incertezza sull’esito finale.”
Queste penose considerazioni, che venivano trasmesse al paziente dall’analista man mano che arrivava
a capirle, le davano la sensazione che ingannava meno se stessa e che questo era importante per lui. Dopo
questo tipo di comunicazioni, l’analista scorgeva, all’inizio della seduta, un insolito sorriso sul volto del
paziente, un sorriso che immediatamente egli reprimeva. Una volta che gli chiese di parlargliene, Edward
disse:
“Mi affaccio sulla porta, guardo nei Suoi occhi e vedo che Lei sorride, allora è come se fossi nel suo
sorriso. Se io non “sono nel Suo sorriso”, non ho nulla da dire. Se io “sono nel Suo sorriso” e sorrido anch’io,
allora mi perdo in Lei. Ma se non La vedo sorridere, allora sono completamente solo e perduto.”
Attraverso questi episodi, l’analista arrivò a comprendere che, al di là della frustrazione legata al fatto
che i limiti professionali e personali venivano mantenuti, la stessa vita, i sentimenti, la speranza, i bisogni,
erano per Edward pericolosi. Aveva un disperato bisogno di sentire l’analista viva e, contemporaneamente,
questo diventava una minaccia di furto di se stesso, di essere ucciso. Esisteva in lei un continuo, inevitabile
autoinganno sulla sua tendenza inconsapevole a confondere i loro interessi, che lo gettava in una
trattenuta, ma forte disperazione. L’aperta comunicazione che ogni volta faceva al paziente della sua
comprensione recuperava il senso di realtà e di autenticità della loro relazione.
Verso il settimo anno di analisi, in una seduta Edward osservò che l’analista aveva cominciato a muovere
le mani molto di più. Solo dopo l’analista si rese conto di non essersi accorta di questo cambiamento.
“È vero?” chiese Edward.
“Sì. Ora che lo dice, me ne accorgo.”
“Che significa?”
L’analista rispose che si sentiva come se, al buio, cercasse a tentoni lui e se stessa, che cercava di
esprimergli cose che in realtà non capiva, che ci stava provando.
In seguito Edward cominciò a far notare all’analista tutte le volte in cui ella si tirava indietro. Disse di
desiderare che lo “sollecitasse di più”.
“Forse Lei non sa che fare per sollecitarmi di più?”
“Sento che La sto sollecitando quando Le rispondo manifestandole la mia fiducia nell’analisi, ma Lei
sente che ciò che le dico vale per me, non per Lei”. Sorprendentemente, sembrò che Edward a quel punto
non si preoccupasse più del problema.
“Spesso - gli disse - sembra che una sollecitazione sia per Lei ed io capisco che è, invece, per me. E ce n’è
un’altra che mi fa sentire di correre dei rischi per me stessa.”
“Per Lei? Che intende con rischio?”
A questo punto muovere le mani l’aiutò molto. Edward distolse gli occhi, come se non potesse
sopportare di vederla fare un passo falso.
“Qualche volta sento di preoccuparmi perché facciamo le cose che devo fare, ma che per Lei potrebbero
essere troppo. Posso capire quanto ciò sia crudele, quanto La ferirà, La farà “regredire”, La renderà meno
capace di lavorare e funzionare. Il rischio arriva quando mi dico di non lasciare che questo timore prenda il
sopravvento. Mi dico, sempre più, che ciò che faccio è di fondo giusto. Mi dico di essere più attiva, di
andare avanti, di esprimere ciò che sento, di provare qualsiasi cosa. Credo che quando assumo il rischio di
ferirla, avvenga qualcosa che sembra una buona sollecitazione.”
Il volto di Edward si andava aprendo man mano che l’analista parlava. Egli annuì. Era chiaro che qualcosa
stava avvenendo, come però avveniva spesso. Dopo una pausa, esplose:
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“Quindi, in tutti questi anni, ho pensato che Lei se ne stava seduta lì pensando a me… e in realtà Lei
stava pensando a se stessa!”
Entrambi risero di cuore.
“Questa è una relazione proprio strana - disse - siamo qui per capire me, ma dobbiamo capire Lei per
capire me.”
Lentamente, nel tempo, attraverso questo tipo di comprensione negoziata, Edward cominciò a
sviluppare un senso di realtà nella relazione che, per la prima volta, sembrava durare nonostante
l’annichilente attrazione del “buco nero”. Riferiva di sentire che qualcosa di più solido fosse entrato nella
sua esperienza e di pensare che forse aveva scelto di vivere.
La relazione tra Edward e la sua analista era carica di profonde esperienze di conflitto e della continua
scoperta di una rete di inganni ed auto-inganni non voluti. Nessun dubbio che la patologia di Edward, la
fragilità dell’organizzazione del suo sé e le sue consolidate implacabili credenze sulla pericolosità delle
relazioni e l’impossibilità di credervi, contribuivano pesantemente all’estrema difficoltà di raggiungere una
maggiore vicinanza con lui. Era però altrettanto vero che alcuni aspetti della battaglia che combatteva la
sua analista derivavano da rigidità e punti ciechi nell’organizzazione del suo sé. In realtà alcuni aspetti
significativi del conflitto, dell’inganno e dell’auto-inganno, non erano attribuibili di per sé alla patologia del
paziente, né ad ostacoli controtransferali o a significative errori tecnici dell’analista.
Edward e la sua analista sfidavano a molti livelli e reciprocamente le loro identità. Il transfert risalente
alle relazioni precoci, sia negli aspetti patologici, sia in quelli adattivi creava e manteneva una serie di
implacabili sfide all’identità dell’analista. Sfide che erano e dovevano essere proprio reali, nel senso che
comportavano un profondo e continuo interrogarsi sul modo in cui egli organizzava il suo mondo personale
e su come operare una conseguente revisione. Solo nel corso del rapporto continuamente negoziato con
Edward questi aspetti della sua identità assunsero il significato di “ostacoli controtransferali” da superare.
In altre parole, questi aspetti della sua identità personale e analitica avevano bisogno di essere riaperti, non
perché fossero particolarmente problematici nella sua vita personale o professionale, ma per negoziare una
relazione autentica con Edward.
Searles (1975) ha provato ad esprimere il processo di cambiamento nel terapeuta sostenendo che il
paziente ha bisogno di “curare” il terapeuta. Ma, come abbiamo visto, il problema non è la malattia o la
patologia del terapeuta. La nostra idea è che il cambiamento nell’analista va posto al di là dell’ambito
dell’elaborazione degli ostacoli rappresentati dal controtransfert patologico, anche perché questa ottica
probabilmente porterebbe ad una posizione “neutra” e idealizzata dell’analista. Il problema del mutuo
cambiamento è più ampio del concetto di “cura”, sia per il paziente sia per l’analista. Si tratta di una
negoziazione necessaria che riguarda le inevitabili differenze e i conflitti presenti in tutte le relazioni
umane.
Pizer (1992, 1996) ha sviluppato una prospettiva interessante in cui la negoziazione e l’”aggiustamento
mutuo” sono elementi centrali nel processo analitico. Il suo interesse verte sul processo di negoziazione dei
molti aspetti paradossali dell’esperienza tra paziente e analista. Crediamo che la “negoziazione del
paradosso” si riferisce a un processo soggettivo che invariabilmente ha luogo all’interno del più ampio
contesto della negoziazione degli interessi in conflitto.
La sfida e la negoziazione nel trattamento di Edward non erano semplicemente un enactment nel senso
di una ripetizione dello scenario relazionale patologico indotto o riacutizzato per identificazione proiettiva
nella mente dell’analista. La negoziazione andava al di là del conflitto reale tra l’identità di Edward e
l’identità personale e professionale dell’analista, un conflitto reso più acuto dalla naturale, fortissima
seduttività (Friedman, 1991) e dalla possibilità di inganno legate alla situazione analitica. Si trattava di un
conflitto indispensabile per il processo di negoziazione significativa.
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Implicazioni
Abbiamo dedicato la prima parte di questo articolo a presentare il conflitto interno e intersoggettivo
come qualcosa di radicato in una normale tendenza adattiva della nostra soggettività, inevitabilmente in
contrasto con la soggettività degli altri. Questo “conflitto esistenziale evoluto” è un aspetto antico e attuale
dello sviluppo umano e della vita adulta. Esso spiega l’esistenza della concomitante tendenza a nascondere
(agli altri e a noi stessi) aspetti delle nostre tendenze soggettive sebbene anticipiamo e valutiamo le
tendenze motivate nella soggettività degli altri. In effetti, siamo designati ad aprirci (ma solo parzialmente e
selettivamente) all’enorme potere plasmante, del rapporto con il mondo relazionale.
Abbiamo deliberatamente scelto di parlare di conflitto, inganno e auto-inganno da un punto di vista che
sta un po’ fuori dal linguaggio e dagli schemi abituali di transfert-controtransfert, enactment,
identificazione proiettiva, ecc. in cui gli analisti contemporanei sono soliti discutere la complessa
intersezione del mondo soggettivo di analista e paziente. Da questa prospettiva più ampia, solleviamo
questioni davvero fondamentali sulla relazione terapeutica, intesa come qualcosa verso cui l’essere umano
tende. Questi problemi sono trattati in molti degli scritti contemporanei relazionali e intersoggettivi,
eppure, ci sembra, il linguaggio delle nostre abituali narrazioni teorico-cliniche ci trattiene dall’arrivare a
questa più ampia realtà relazionale. Il problema è quello di tradurre ciò che abbiamo fin qui descritto in un
linguaggio piuttosto nuovo, in concetti analitici e in un linguaggio più familiare.
La nostra visione del conflitto, dell’inganno e dell’auto-inganno diverge da quella che riteniamo sia
l’attenzione classica al conflitto (in ultima analisi pulsionale) che proviene da distorsioni motivate della
realtà. Ma ci muoviamo anche ben al di là del modello relazionale e intersoggettivo che attribuisce il
conflitto esclusivamente alle sfortunate vicissitudini dell’esperienza relazionale problematica del singolo.
Pensiamo che la nostra prospettiva permetta di focalizzare l’attenzione sul tema del conflitto e
dell’inganno inevitabile e motivato, presenti in tutte le relazioni, incluso il trattamento analitico.
Accentriamo la nostra attenzione su un aspetto del conflitto che è funzione della soggettività
reciprocamente influenzata di paziente e analista. Sempre invischiati come siamo nei significati derivati
dall’esperienza passata (transfert) e nel controtransfert, perdiamo un elemento centrale di questa
situazione di conflitto e inganno reali quando lo riduciamo a: 1) “responsività di ruolo” (Sandler, 1976),
enactment dell’antica realtà patogena del paziente, attraverso la necessaria considerazione dell’inevitabile
controtransfert; 2) complessità e difficoltà per il terapeuta di trattare i propri bisogni di oggetto sé (Bacal e
Thomson, 1996; Stolorow e Atwood, 1993) nello sforzo di sostenere un punto di vista empatico,
sufficientemente orientato sull’altro.
Passiamo, quindi, in rassegna alcune implicazioni derivanti dal considerare i consueti concetti analitici di
identificazione proiettiva, enactment, empatia e autenticità secondo questa visione più ampia e universale
del conflitto, dell’inganno e dell’auto-inganno che chiamiamo conflitto esistenziale di secondo livello.
Identificazione proiettiva e enactment
Si parla spesso di dinamiche relazionali in cui il conflitto è indotto nell’altro come “identificazione
proiettiva”. Per noi il termine è problematico se si riferisce a un processo attraverso il quale certe
esperienze del sé o di conflitti profondi sono “messe dentro” il terapeuta o anche semplicemente
finalizzate a suscitare una risonanza affettiva nella vita personale del terapeuta. Simili esperienze, e la
responsività di ruolo che inducono (Ogden, 1995; Sandler, 1976), possono certamente verificarsi, ma non
esprimono il processo di negoziazione interattiva ed interna cui ci riferiamo. Si possono dire le stesse cose
del concetto di enactment, come se il transfert e il controtransfert attualizzati (e, si spera, alla fine
compresi) fossero una specie di scenario “come se”, in cui i partecipanti rivivono emotivamente il mondo
fantasmatico del paziente (non il mondo reale e fantasmatico del terapeuta) così come viene attivato nella
13
loro relazione (Bollas, 1987; Jacobs, 1991).
Ci riferiamo a un processo vicino al richiamo che il paziente fa e alla sintonia che esprime con la vita
reale interna del terapeuta (Hoffman, 1983, 1991; Aron, 1991; Blechner, 1992; Davies,1994; Lichtenberg et
al, 1992; Pizer, 1992, 1996; Searles, 1975; Rogers, 1994). Per la comprensione di questi processi interattivi
proponiamo di far riferimento d’ora in avanti ad una visione “evolutiva biologica” dell’inevitabilità del
conflitto in tutte le relazioni umane. L’esperienza di negoziazione nella relazione analitica è attivata dalla
tendenza adattiva di paziente e analista ad ingaggiare un conflitto reale (molteplicità reale e divisione
interna) nel terapeuta (vedi Slavin, 1996).
La tensione del conflitto nell’analista e il riconoscimento dello scontro tra l’identità dell’analista e quella
del paziente crea le condizioni per una autentica rinegoziazione delle rappresentazioni interne (credenze,
introiezioni, attesa di schemi d’interazione) formatesi nel contesto della mutualità, del conflitto e
dell’inganno nelle relazioni primarie. I pazienti sono molto sensibili al modo in cui il terapeuta affronta
l’inevitabile conflitto di interessi all’interno della sua identità e tra la propria identità e quella del paziente.
Diamo per scontato di essere tutti forniti di una sensibilità evoluta e intuitiva circa il naturale auto-inganno
e gli inganni in cui siamo immersi e che, specialmente nell’ambito della seduta, dobbiamo districare in noi
stessi e negli altri.
Prendiamo ora in considerazione in che modo questa naturale sensibilità adattiva abbia a che fare con
l’uso dell’empatia da un punto di vista analitico.
L’intrinseca ambiguità dell’empatia
L’analista di Edward fece un grande sforzo per mantenere un coerente punto di vista empatico (Kohut,
1984; Ornesten, 1979) o una “viva indagine empatica” come dicono gli intersoggettivi (Stolorow et al.,
1987). Questo le serviva a mantenere il conflitto in limiti tollerabili per entrambi, minimizzando l’esperienza
della divergenza tra i due mondi soggettivi sperimentati dal paziente. Ma, contrariamente alle affermazioni
di gran parte della letteratura della psicologia del sé, la comprensione empatica dell’esperienza di Edward
aveva risultati limitati. Pensiamo che ciò fosse dovuto al fatto che la sintonia con il mondo soggettivo di
Edward, in se stessa, non avesse il valore di segnale della capacita dell’analista di allearsi con gli interessi
del paziente. A momenti ella arrivava persino a trascurare fraudolentemente il conflitto che sapeva esistere
tra loro.
Se collochiamo il significato dell’empatia nel contesto del conflitto e dell’inganno nella relazione
terapeutica, riteniamo che, da una parte, sia una effettiva comunicazione della posizione dell’analista
riguardo i reali interessi del paziente; eppure, dall’altra, dobbiamo prendere atto che la vera sorgente degli
effetti dell’empatia è da collocarsi nella comunicazione interpersonale problematica che richiede modalità
di relazione diverse.
L’empatia è di fondo un segnale interpersonale che permette ai pazienti di sapere che un’alleanza
autentica è una possibilità reale.
Una viva comunicazione empatica manda il messaggio che il terapeuta è molto probabilmente capace,
anche da un punto di vista emotivo, di decentrarsi dalle proprie tendenze adattive personali per arrivare a
vedere le cose dal punto di vista del paziente. Il costante decentramento dell’analista o l’abbandono dei
suoi punti di vista soggettivi, per lui più adattivi, anche se solo temporaneamente e mai pienamente
raggiunti, segnala la possibilità di un investimento autentico che potrebbe essere emotivamente
paragonato con l’investimento sperimentato fuori della situazione analitica con un vero amico o con un
parente stretto.
Eppure nessun terapeuta può arrivare ad una persistente immersione empatica con l’altro. Di fondo per
la nostra psiche ciò è difficile da raggiungere, così come è difficile da mantenere una duratura disposizione
14
empatica.
In una recente discussione su una situazione empatica molto strutturata dell’analista Evelyne Schwaber,
Lawrence Friedman (1992) ha notato come nella lotta persistente per condividere il punto di vista del
paziente, Schwaber “ci mostra qualcosa che possiamo non aver visto con la stessa chiarezza di Kohut: non
solo l’empatia è potente, ma lo sono anche il desiderio e lo sforzo di esserlo. Schwaber punta i riflettori su
ciò che nella teoria kohutiana rimane in ombra: “L’aspetto negativo dell’essere empatici è altrettanto
importante di quello positivo, la volontà di chi vuole stabilire una relazione empatica di annullare il proprio
investimento… il naturale modo di pensare dell’analista per… farsi più vicino al paziente. Riconoscendo la
grandezza del sacrificio, il paziente probabilmente può sentire quasi fisicamente quanto l’analista tenda a
stabilire una vicinanza. Nella vita di ogni giorno solo la devozione di un amore straordinario produrrebbe un
simile sacrificio. (…) La maggior parte degli analisti vuole conoscere bene i propri pazienti. Ma non tutti
vogliono ugualmente sottoporsi a un simile disagio, che del resto non tutte le posizioni teoriche
incoraggiano.”
Pensiamo che Friedman abbia ben compreso alcuni degli importanti significati espressi dalla lotta (vedi
Schwaber, 1983) per mantenere una posizione empatica. Pensiamo che Kohut e gli psicologi del sé hanno
lasciato nell’ombra, come Friedman rileva, il significato di questa lotta. C’è una tendenza nella psicologia
del sé a parlare dell’empatia soprattutto come manovra tecnica.
Attribuire il fallimento dell’empatia al controtransfert individuale o a un errore tecnico (e il successo a
tecniche appropriate e alla mancanza di interferenza controtransferale) può essere molto fuorviante.
Si tratta solo di una versione della storia, una versione limitata che codifica come deviazione dalla
costante responsività empatica, di solito positivamente accolta, ciò che è virtualmente normativo in tutte le
relazioni umane, non semplicemente in quelle relazioni in cui siamo stati respinti. Ogni bambino è
preparato, dal momento del concepimento in poi, ad aspettarsi che il mondo relazionale sia pieno di
conflitti difficili da riconoscere, nascosti dietro norme e punti di vista presentati come più corrispondenti ai
suoi interessi di quanto non lo siano in realtà.
Una durevole disposizione empatica è, da questo punto di vista, semplicemente innaturale.
Il tentativo di comunicare sempre con il paziente adottando il suo mondo soggettivo, sebbene
importantissimo, tenderà ad essere accettato solo con molta cautela da alcuni pazienti, mentre, per altri,
sarà solo una strategia per nascondere il sé del terapeuta. Alcuni terapeuti, infatti, possono far uso della
posizione empatica per rimanere difensivamente nascosti ai pazienti. Oppure, al di là e al di sopra delle
difese individuali del terapeuta, l’uso obbligatoriamente prolungato dell’empatia sarà avvertito da alcuni
pazienti come una modalità per nascondere alcuni suoi aspetti o per perseguire i suoi interessi. Spesso, la
sintonia con il mondo soggettivo del paziente deve essere completata con l’espressione visibile della realtà
del terapeuta (Fosshage, 1995).
Come fa notare Modell (1991) siamo davanti ad una serie di paradossi. Il terapeuta si prende cura
profondamente del paziente, lo ascolta, eppure, quando l’ora finisce, lo congeda in gran fretta. Il paziente
deve credere ai forti sentimenti che nascono nella relazione e tollerare, però, che nello stesso tempo ci
siano limiti e confini all’espressione di questi sentimenti, cosa che sarebbe inconcepibile in una relazione
naturale. Un paziente una volta espresse tutto questo con la sensazione continua di vivere la terapia con un
tabù, un preciso tabù verso la realtà. Molti aspetti della relazione reale sono presenti, ma non si possono
toccare e ciò rende la situazione precaria. Per alcuni pazienti questa prospettiva è insopportabile. Per la
maggior parte dei pazienti, e dei terapeuti, a volte è appena sopportabile. C’è sempre una tensione di
fondo.
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“Buttare via il libro”, l’interesse per se stessi e il processo di raggiungimento dell’”autenticità”
Inevitabilmente alcune volte, come dice Hoffman (1994), il terapeuta deve buttare via il libro per
dimostrare l’autentica volontà di mettere il paziente dinanzi a certe regole della terapia. I pazienti sentono
che i terapeuti si allontanano da quegli insegnamenti e da quei sistemi di credenze offerti implicitamente
da regole e rituali. Si prova una palpabile soddisfazione, forse un’esperienza emozionale correttiva, per la
“spontanea deviazione… condivisa da paziente e analista… quando si allontanano da una qualsiasi
convenzione interiorizzata”. Si rompe il “tabù del reale” e si afferma la validità della relazione quando la
battaglia per entrare in rapporto con un particolare paziente mette in questione rituali, regole e credenze
importanti per il terapeuta (in genere codificati nello stile e nel tenore della relazione).
Prima che le due parti arrivino ad una ri-inegoziazione all’interno della loro relazione specifica, la
relazione non può essere reale poiché un solo stile si adatta a tutte le strutture, le regole e le aspettative.
Gettare via il libro, però, può essere ed è, in certi ambienti, “diventare il libro” (Hoffman, 1994)! C’è il
rischio che subentri una certa idealizzazione della spontaneità del terapeuta o della self-disclosure come se
diventasse un nuovo dovere, un dovere che, come si può constatare, viene influenzato dai bisogni e dai
punti di vista di coloro che lo propugnano. Ogni volta che emerge un nuovo approccio terapeutico (una
nuova prospettiva e versione tecnica) assistiamo a un movimento contrario alle precedenti convinzioni
dell’analista e al suo rispetto per la soggettività del paziente. Il nuovo approccio, una volta codificato, tende
sempre più ad acquisire per il terapeuta un valore identitario e ad essere quindi fedelmente seguito. La
stessa cosa avviene per i membri di un nuovo gruppo o di una nuova scuola.
Ponendosi in una prospettiva un po’ più storica di quella cui gli analisti sono normalmente abituati, si
può vedere come ogni approccio analitico codificato produca potenzialmente un nuovo complesso di
rituali. In altre parole, il fatto che “gettare via il libro significa divenire il libro” risiede precisamente nella
continua, naturale tendenza dei terapeuti a influenzare il processo nella direzione dei propri fini. Hoffman
sembra toccare proprio questi problemi, che nascono dalla tendenza alla deviazione, quando raccomanda il
mantenimento di una “dialettica” tra l’accettazione del terapeuta dell’autorità e neutralità rituale da una
parte e la “deviazione spontanea” (inclusa la self-revelation) da quei rituali dall’altra. Dalla tensione
dialettica e dal riconoscimento della paradossale realtà e irrealtà della situazione analitica ci si aspetta che
emerga una maggiore “autenticità” nella partecipazione dell’analista al processo.
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