4.1 RITUALE TERAPEUTICO PER FAVORIRE LA
DIFFERENZIAZIONE: LO ZAINO
Sto praticando da molti anni tecniche per favorire la psicoterapia di un
adulto, individuale o di coppia. Durante queste mie ricerche ho creato una
tecnica esperienziale (Canevaro 1999) per permettere di esprimere i
sentimenti riguardanti la fase di differenziazione di un giovane adulto dai
suoi genitori, che ho chiamato LO ZAINO.1
Durante la crescita di un individuo nel seno della sua famiglia, e per un
lungo periodo, è necessario proteggerlo e prendersene cura, per crescere e
sviluppare un senso di appartenenza e nel contempo un’identità originale,
prodotta dalla sua predisposizione filogenetica e dalle molteplici
identificazioni di base con i suoi oggetti primari. Sebbene l’uomo sia la
specie vivente più sviluppata, che culmina con l’acquisizione del
linguaggio, nel contempo è la specie più vulnerabile biologicamente.
Un cane o un gatto riescono ad essere adulti biologicamente tra uno e due
anni, e possono riprodursi ed acquisire il dominio del territorio.
Nell’essere umano sono necessari tra i quindici e i diciotto anni per avere la
maturità biologica, circa venticinque – trenta per avere una maturità 1 Durante una supervisione, la Dr.ssa Alessandra Gritti ha riportato un caso, dove di fronte all’impossibilità di
sperimentare questa tecnica con i genitori di un paziente poiché erano morti, lo fece con il fratello maggiore con ottimi
risultati prima che il suo matrimonio lo avesse portato a vivere altrove. Io non l’ho mai fatto, ma penso che possa
essere una variante utile e interessante purché esista una reale impossibilità di farlo con i genitori: non poter convocarli
perché non vogliono venire, non è ovviamente lo stesso, giacché non si può paragonare la relazione con un fratello a
quella con i genitori. Nel caso di morte dei genitori, l’elaborazione del lutto suppone la ricollocazione emozionale di
queste figure nel mondo interno del figlio e un eventuale spostamento sul fratello per effetto del transfert di certe qualità
e caratteristiche dei genitori, può far sì che la tecnica abbia buoni risultati.
Lo stesso mi è stato chiesto se si può applicare alla coppia.
In questo caso, mai fatto da me, può esserci la stessa spiegazione, fermo restando che la tecnica è sempre utile
per favorire la differenziazione soggetto - oggetto. La metafora del “lungo cammino nella vita” che può favorire il
distacco del figlio non è ovviamente applicabile alla coppia. L’unica indicazione possibile è che quando una coppia si
trova in un processo di separazione, non riesce a farlo perché rimangono inespressi gli aspetti positivi del legame che
mantengono l’attaccamento sofferto e ambivalente.
In questo caso adopero la tecnica promossa da Florence Kaslow (1987), quando prende dall’ebraismo antico
il rituale del divorzio (l’uomo davanti a tre rabbini può iniziare il processo del divorzio conosciuto con il nome di Beth
Din, rinnegando la moglie) per costruire ad hoc una cerimonia terapeutica. Fa venire in terapia ogni membro della
coppia che si separa, accompagnato ciascuno da un familiare o amico intimo. Accudiscono anche i figli, se vogliono. La
psicoterapeuta invita i membri della coppia a ricordare le cose positive che hanno condiviso durante il matrimonio. Ogni
testimone promette di sostenere il proprio amico o parente, in caso di bisogno, dopo la cerimonia.
“La cerimonia è abitualmente commovente e porta la gente oltre la rabbia, risentimento o voglia di vendetta,
ad affermare il valore che il matrimonio ebbe per molti anni e alla consapevolezza che non sono stati anni persi” (pag.
230).
Io propongo questo esercizio alle coppie nel mio studio quando avveratasi già la separazione, continuano a
soffrire perché in realtà non possono accettare che tutto sia stato negativo e invano. Chiedo allora ad ognuno
alternativamente di ringraziarsi reciprocamente per il bene che si sono dati.
Dopo che ciascuno enumera e descrive le cose buone ricevute dall’altro, chiedo loro di darsi un abbraccio, in
silenzio.
Questo esercizio, di solito molto commovente, permette loro di vivere con tenerezza questo incontro ed è molte
volte un balsamo per le loro sofferenze. “Ci sono anche lacrime dolci” diceva una paziente per descrivere questo
momento. Di solito quasi immediatamente riescono a continuare le fasi della separazione superando quella impasse.
psicologica, molti di più per una maturità emozionale, a volte mai raggiunta.
In una recente ricerca dell’OCSE (2003) i giovani di 30 anni che rimangono
a vivere in casa con i genitori raggiungono in Italia il 73,5% nei maschi e il
48,5% nelle femmine, in testa alla classifica europea davanti a Grecia,
Portogallo e Spagna.
In Francia e Gran Bretagna le cifre sono del 23% per i maschi e del 12,5%
per le femmine.
Come si vede, apparteniamo al bacino mediterraneo dove la tradizione di
vivere intorno alla famiglia di origine è molto più sviluppata che nei paesi
del Nord Europa, dove si stimola presto il movimento esogamico. Il
sentimento di appartenenza è molto importante e la famiglia gioca un ruolo
fondamentale nello sviluppo dell’identità, prodotto di un movimento
dialettico tra la fusionalità con gli oggetti primari e la complementarietà
reciproca e la differenziazione relazionale, che permette una buona
identificazione.
Buber (1958) concepisce l’uomo come definito dall’incontro con l’Altro:
“Io divengo attraverso le mie relazioni con il Tu, nel momento in cui dico
Tu divengo Io , ogni vita reale è un incontro”.
La transitorietà dalla fusione inter-soggettiva, non dialettica, alla
differenziazione che acquisisce nel dialogo la forma più sviluppata di
relazionalità, è stata ben studiata da Boszormenyi-Nagy (1976)
“L’individuazione o il significato del Sé possono essere accentuati sia
dall’antitetica contrapposizione all’oggetto, sia dalla fusione con un co-
soggetto. La contrapposizione soggetto - oggetto è uno dei requisiti di base
del dialogo, e una famiglia sana ha una rete di relazioni di tipo dialogico,
piuttosto che di tipo fusionale” (pag. 71).
“Il Noi amorfo si fonda principalmente sulla fusione inter-soggettiva di tutti
i membri della famiglia, il Noi differenziato, invece, su posizioni soggetto -
oggetto distinte (dialogo) fra membri di una famiglia sana” (pag. 76). Per
l’espletamento del bisogno di differenziazione, curiosità innata che permette
di acquisire il dominio del territorio extra-familiare, occorre il nutrimento
affettivo e la conferma del Sé che proviene dai familiari significativi,
fondamentalmente i genitori, ed anche la fiducia e la sicurezza con cui questi
genitori permettono e spingono i figli a realizzare il proprio progetto
esistenziale. Le carenze emozionali e psicologiche dei genitori o i conflitti
incombenti nell’area coniugale o genitoriale fanno sì che spesso la
differenziazione del figlio minacci l’equilibrio disfunzionale raggiunto,
provocando attive manovre per impedire quel movimento esogamico con
una gamma infinita di tonalità come la colpevolizzazione, il vittimismo ed
anche il sabotaggio economico o il ricatto. Senza arrivare a questi stadi
altamente disfunzionali, il momento del distacco da casa, o della vera e
propria differenziazione, è un momento agrodolce dove si mescolano
sentimenti di allegria con sentimenti di perdita.
Per agevolare questa fase l’esercizio esperienziale dello zaino permette
l’interscambio emozionale e la ridefinizione positiva della relazione genitori
- figli ridando a ciascuno quello che gli spetta: al figlio la conferma di sé e
il permesso per esplorare il mondo, al genitore il compimento di una
mansione inscindibile dal suo ruolo.
Passate le prime fasi della definizione del problema e della convocazione
dei familiari in seduta, siamo nel pieno della terza fase, centrale, del
protocollo, cioè dell’incontro terapeutico che permette il chiarimento dei
malintesi e il raggiungimento degli obiettivi terapeutici. Dopo questa
esplicitazione e quando c’è l’accordo dei genitori per aiutare il figlio/a a
superare le sue difficoltà, si invitano tutti e tre a fare l’esperienza. Per
meglio capire l’esercizio e contestualizzare l’esperienza, commenterò un
caso clinico, quello di Antonio, la sua famiglia consulta il terapeuta per i
comportamenti molto ansiosi del loro unico figlio, di 22 anni, che dopo aver
fatto un tratto di università nella corso di Disegno Industriale, abbandona gli
studi e passa un periodo di depressione, confusione e chiusura in se stesso.
Nel primo incontro, in cui sono venuti anche i genitori, molto in ansia, la
madre, di professione psicologa, porge al terapeuta un genogramma di più
generazioni familiari dove si vede una traccia che inizia nella generazione
dei suoi nonni: un fratello del nonno con diagnosi di psicosi, poi ripetuta
nella generazione seguente, fino ad arrivare a una sua cugina, trattata per
anni per schizofrenia.
Il padre, Cristiano, architetto, interviene poco e racconta piuttosto come la
loro famiglia nucleare sia stata sempre molto sotto l’ala della famiglia di
origine di sua moglie, e dove la figura di spicco è suo suocero, persona molto
stimata da tutta la famiglia e a cui sua moglie è molto attaccata. Cristiano,
grande lavoratore e piuttosto assente in famiglia, non ha avuto molti contatti
con Antonio, lasciandolo per lo più a carico di sua moglie.
Antonio ascolta i suoi genitori, interviene poco, e parla di un suo viaggio
all’estero dov’è stato colto da un attacco di panico che gli impediva di
visitare i posti scelti. Per il secondo incontro, il terapeuta chiede ad Antonio
e a suo padre di venire da soli e “permettere” così alla madre di fare un
piccolo viaggio con due sue colleghe.
Durante il secondo e terzo incontro, il terapeuta indaga sugli aspetti della
relazione padre - figlio e individua chiaramente la mancanza di complicità
tra di loro. Il padre, comunque, dice ad Antonio che l’unico a non
preoccuparsi durante il soggiorno all’estero è stato lui, dimostrando fiducia
nelle capacità di Antonio di cavarsela da solo.
Tra la seconda e la terza seduta, padre e figlio fanno un viaggio in una città
vicina dove il padre dirige un cantiere, e Antonio lo aiuta nel suo lavoro
facendogli dei disegni molto utili.
Cresce l’intimità tra di loro, e Antonio segnala come suo padre sia molto
stimato dai collaboratori e clienti, per lui un aspetto prima sconosciuto.
Arriviamo così alla quarta seduta, dove la madre commenta con grande
sollievo il suo viaggio con le colleghe, simultaneo a quello di Antonio e suo
padre, dicendo che le ha permesso di rilassarsi, confidando che suo marito
stava conducendo bene le cose con Antonio, che intanto trova grande
interesse nel riprendere gli studi in un campo complementare a quella di suo
padre.
In questa seduta, una volta stemperata l’ansia di Antonio e dei suoi genitori,
si incomincia a parlare del futuro di Antonio e arriva il momento giusto per
iniziare l’esperienza dello zaino. La formula è più o meno questa:
“In questo momento sarebbe molto utile fare un’esperienza insieme.
Mettetevi voi (i genitori) di fronte a vostro figlio/a e uno per volta inizierà
questa esperienza, mentre l’altro si siede accanto e aspetta il suo turno
guardando quanto succede, in silenzio.
Cominciamo da Lei, Laura. Si sieda di fronte a suo figlio,con le ginocchia
che si toccano e senza accavallare le gambe. Prendetevi le mani e guardatevi
negli occhi.
In questo momento Antonio sta per iniziare un lungo viaggio nella vita e
porta con sé uno zaino. Cerchi, Lei, di trovare due o tre cose importanti di
sé che Lei sia riuscita a coltivare, di cui ne sia orgogliosa, per darle ad
Antonio; lui le metterà nello zaino e quando ne avrà bisogno, nel lungo
cammino della vita (ripetere) le prenderà e le farà sue. Vediamo, per
esempio, un aspetto del Suo carattere che Le sia servito nella sua vita e di
cui Lei sia fiera.” Laura, allora, prendendo le mani di Antonio con molta
determinazione e guardandolo intensamente negli occhi, gli dice:
- Ti do il mio entusiasmo, perché nella vita mi ha permesso di superare le
difficoltà e intraprendere nuove strade.
(Il terapeuta prende un foglio, lo divide a metà e segna con cura quanto
Laura dice, da una parte il concetto e dall’altra le spiegazione dello stesso).
-Ti do la mia fiducia nella donna, perché mi è sempre parso giusto
l’equilibrio e la collaborazione tra i sessi.
-Ti do il mio amore per i figli, perché sempre ha guidato il mio
comportamento.
Il terapeuta dice “brava, Laura, ricapitoliamo di nuovo queste tre cose…”.
Ripete i concetti e li fa ripetere da Laura, cercando di definirli in una sola
parola, o in brevi parole per poi spiegare il perché di queste parole.
Una volta ripetuti i concetti, il terapeuta chiede ad Antonio, che intanto si è
molto emozionato e guarda sua madre con occhi lucidi, di lasciare di sé
qualcosa alla madre prima di partire per il lungo viaggio, qualcosa che lui
reputi possa far piacere alla madre di tenere per sé, sentimenti, hobbies,
aspetti del carattere,ecc.
Allora Antonio parla alla madre con voce commossa ,dicendole:
-Ti lascio la mia protezione che ci sarà sempre
-Ti lascio una sensibilità diversa, anche se entrambi abbiamo una creatività
simile.
E infine
-La mia capacità di osservare e intuire chi è davanti a me, una porta verso
il mondo.
Il terapeuta rilegge quanto detto da Antonio e glielo fa ripetere.
Dopodiché chiede ad entrambi di abbracciarsi senza parole, riposando la
testa di ognuno sulla spalla dell’altro. Così fanno, in un lungo abbraccio
che si conclude con un bacio. Cristiano guarda commosso e in silenzio
quanto è successo tra di loro e si appresta a sedersi di fronte ad Antonio. Il
terapeuta gli dice: “Adesso Cristiano, tocca a Lei. Si sieda di fronte ad
Antonio e come Laura scelga due o tre cose di sé di cui sia fiero per darle a
suo figlio, per il suo lungo cammino nella vita”.
Le parole scelte e le metafore utilizzate per questo esercizio svegliano
profonde emozioni in tutti i partecipanti che contribuiscono a creare
un’atmosfera molto calda e coinvolgente.
Il padre sceglie con cura le sue parole, aiutato dal terapeuta a definire
chiaramente i concetti.
-Ti do il mio senso di libertà intellettuale che mi ha permesso di non farmi
condizionare da niente e nessuno.
-Ti do il mio dubbio, perché nella vita mi ha permesso di analizzare meglio
le cose.
- Ti do il mio coraggio di spendermi nella vita per andare fino in fondo alle
cose.
Antonio, molto commosso, prende entrambe le mani del padre e - tremando
- se le porta verso la sua faccia, tenendole ferme sul viso, in un silenzio
molto pregnante.
Poi dice:
-Ti lascio un nuovo spazio in cui abbassare la guardia e divertirti
spensieratamente!
-Ti lascio il mio modo di vivere il tempo, lasciandolo fluire soavemente. Una
volta finito, il terapeuta gli fa ripetere i concetti, dopodiché chiede ad
entrambi di abbracciarsi, senza parole, appoggiando ciascuno la sua testa
sulla spalla dell’altro.
Così fanno, in un lungo ed emotivo abbraccio. Laura assiste in silenzio, con
gli occhi lucidi.
Poi interviene il terapeuta:
“Questi momenti che avete vissuto con intensa commozione, lasciateli fluire
dentro di voi, senza chiedervi spiegazioni e godendo di queste sensazioni…”
Circa un mese e mezzo dopo l’esperienza dello zaino, Antonio viene in
seduta, dopo le vacanze.
È molto più disteso e sorridente, e dice che è stato molto bene in campagna
con la sua famiglia e il nonno. Dopodiché è stato al mare con gli amici e si
è divertito molto.
“Ero aggrovigliato su me stesso. Ho superato aspetti molto complessi di
autosservazione che mi portavano a una crudezza e a una frammentazione.
In quest’ultimo periodo c’è stato un recupero.”
Terapeuta: “E i tuoi come stanno?”
“Mi sembra bene. Le cose sono sensibilmente migliorate. Il rapporto con
loro si è disteso, c’è più accettazione. Dopo la seduta dello zaino ho messo
due giorni per riprendermi. Avevo bisogno di elaborare quanto mai detto
prima. C’è stata come una virgola, che mi ha fatto cambiare tema. È stato
molto violento. Ho amato e odiato questo momento. Mi sono reso conto che
sono una persona delicata, non forte, ma molto emotiva. Quello che mi ha
più colpito è stato un barlume d’amore negli occhi di mio padre. L’ho visto
in un modo in cui non l’avevo mai visto. Vedo che sta attingendo a riserve
fisiche, mentali ed economiche che non può più andare avanti. Spero che
con la mia partenza riesca a ritrovare gioia e leggerezza” (si riferisce a un
suo progetto di andare a vivere da solo nel suo studio).
E’ tornato un mese dopo per l’ultimo incontro e ha raccontato che ha
intrapreso Disegno Grafico con molta dedizione. Sente di aver trovato la
sua strada, studia
È molto contento dell’esperienza terapeutica e molto riconoscente col
terapeuta che gli ha permesso di passare a una tappa molto più autonoma e
creativa della sua vita.
Le sfumature tecniche di questo esercizio sono tante e bisogna che il
terapeuta sia vicino, non solo emozionalmente, ma anche fisicamente (la
distanza è quella che permette al terapeuta di toccare con la mano la spalla
del figlio quando dice:” e porta con sé uno zaino...”) rimanendo in un ascolto
attento e silenzioso mentre scrive su un foglio quanto essi dicono.
1) È importante aiutare il genitore ad esprimere un concetto chiaro dentro
il fiume di parole che a volte dice, cercando di afferrare il concetto o di
sintetizzarlo in una parola, per poi chiedere il perché di ogni cosa. Ad
esempio:se il padre dice al figlio: “Devi essere te stesso senza pensare agli
altri e avere una personalità forte, non intaccata”, lo si porta a definire:
“Ti do la mia determinazione ad essere me stesso, perché ti serva per avere
una personalità forte non intaccata dagli altri”.
2) Cercare di evitare che diano raccomandazioni o suggerimenti, ma si
sforzino per tenersi in contatto, per trovare una qualità o un aspetto del
carattere per donarlo al figlio. Anziché dire: “Devi essere forte nella vita”,
dire “Ti do la mia forza perché nella vita ti serva per superare momenti di
sconforto e superare momenti di difficoltà ecc...”. O anziché dire:”Spero che
tu possa rivolgerti a me in momenti di difficoltà, il padre che hai perso
fisicamente da piccola c’è, è qui”, dire: “Ti do la mia presenza, perché possa
servirti nei momenti importanti e di difficoltà”.
3) Cercare di essere attento a che si guardino negli occhi mentre si parlano,
ricordando questo, anche se sorgono le lacrime e cercano di evitare questa
effusione.
4) Evitare il parlare in terza persona, per esempio rivolgendosi al terapeuta
parlando del figlio, ma parlarsi reciprocamente.
5) Far ripetere una o due volte quanto ognuno ha detto e, se necessario, far
leggere quanto il terapeuta ha trascritto sul foglio diviso verticalmente in
due, la prima parte a sinistra con quanto il padre o la madre danno in dono,
e a destra quanto il figlio lascia di sé.
Quando finiscono, gli si chiede di “abbracciarsi, in silenzio, il tempo
necessario, riposando ognuno la testa sulla spalla dell’altro.
Questo è un momento importante, di solito molto emotivo, che oltre ad
essere molto rilevante per i partecipanti, fornisce numerose informazioni al
terapeuta.
C’è chi a stento si abbraccia e scioglie immediatamente l’abbraccio. In
questo caso, se possibile, chiedere di stare più a lungo a contatto.
In un caso, un padre mi disse: “Dottore non mi faccia fare queste cose che
non mi piacciono, preferisco parlare a una certa distanza!”. In questo caso,
a dire il vero poco frequente, non si insiste, ma si segnala che questa è una
difficoltà di contatto del padre, che è molto diverso di non farlo per rifiuto
verso il figlio, con la conseguente disistima di costui.
La forma di come si produce l’abbraccio, le mani che possono accarezzare
la schiena o la testa, il movimento del respiro o le lacrime sono informazioni
preziose per il terapeuta.
L’effetto di questo esercizio è di solito molto grande, non solo
nell’espressione di sentimenti (a volte per la prima volta) di questa intensità
e significato simbolico, ma anche nell’effetto duraturo di demarcazione dei
confini relazionali. È come una lente sfocata che dopo che i confini
interpersonali diventano più netti e le funzioni vicarianti non hanno più
senso di continuare, si mette a fuoco.
Si vede chiaramente come i genitori danno al figlio quello di cui ha bisogno
per completare la sua crescita e “partire per il lungo viaggio nella vita”. È
altrettanto chiaro vedere come le cose che il figlio lascia di sé, sono gli
aspetti complementari che il padre o la madre non hanno e che il figlio
produce, la stragrande maggioranza delle volte in forma inconsapevole, per
sostenere il genitore o compensare le sue carenze.
Mariano, ragazzo di 28 anni, è stato due anni all’estero cercando un lavoro
diverso da quello che aveva nell’azienda familiare dei nonni, dalla quale è
uscito scoraggiato per la mancanza di cambiamento. Tornato in Italia,
continua la ricerca di un progetto proprio, mettendo in piedi un’attività
creativa imperniata sul suo lavoro autonomo. Il padre gli dà la sua speranza
nel futuro perché “ti serva per avere una meta da raggiungere per il gusto di
vivere e il valore di vivere”. “Ti do la mia fede, perché ti dia la forza e il
motivo di vivere”. “Ti do il mio carattere non intaccato dagli altri”. In realtà
sono cose che il padre sente inconsciamente, che a Mariano mancano per
realizzare i suoi progetti esistenziali. La fede che lui ha e Mariano no, e il
carattere autonomo non intaccato dagli altri che in realtà Mariano stenta ad
avere, sempre molto sensibile e influenzato dalla madre e dalla sorella.
Quando Mariano lascia di sé al padre la fiducia negli altri, per vivere meglio,
la forza psicologica di combattere fino alla fine e il rispetto per le altre
persone... gli sta dando cose che reputa manchino al padre, il quale ha
sostenuto psicologicamente il figlio mentre svolgeva un mestiere opaco e
senza entusiasmo che l’ha portato a chiudersi in se stesso, in una fase
depressiva della sua vita (figura 2).
figura 2
Dopo l’esercizio, la tendenza è quella di riappropriarsi dei sentimenti,
funzioni psicologiche e valori propri, depositati nell’altro in una funzione
vicariante (figura 3).
figura 3
In questo modo, l’invischiamento silenzioso che toglieva energie a Mariano
per il suo progetto e al padre per fare un’autocritica della sua posizione nella
vita, diminuisce, dando luogo a un dialogo che continua una relazione con
una più grande differenziazione inter-generazionale e con una reciproca
solidarietà senza confusione. L’importanza di questo lavoro esperienziale è
che si fa dentro alla relazione e che la metafora del “lungo cammino della
vita” non suppone necessariamente una separazione fisica, ma solo
psicologica, quanto basta per permettere un dialogo che può durare sempre.
“Passare dall’intimidazione inter-generazionale all’intimità inter-
generazionale” è una frase felice di Donald Williamson (1982) che illustra
molto bene questo passaggio. Quando questo esercizio si fa con entrambi i
genitori presenti, c’è un gioco interrelazionale diverso di quando si fa con
uno solo dei genitori. Nei primi anni di esperienza di questa tecnica, la
facevo sempre e comunque con la presenza di entrambi i genitori. Diverse
situazioni in cui l’inesistenza di uno dei genitori o in cui c’era una
separazione coniugale mi hanno portato a farlo separatamente, e quando c’è
la possibilità di avere il tempo sufficiente per una programmazione
terapeutica, preferisco farlo alternativamente, per dare il tempo di
elaborazione che chiarifichi la relazione interpersonale. La presenza di
entrambi i genitori dà una “blindatura” al ruolo genitoriale che diluisce la
relazione “persona a persona”, che conviene stimolare. Quando sono
presenti entrambi i genitori è importante, con la coda dell’occhio, registrare
il comportamento dell’altro genitore, che a volte si commuove
silenziosamente, a volte esprime fastidio o gelosia di quell’interazione, a
volte rimane indifferente. Questo esercizio è nel contempo un test che
permette di avere informazioni non verbali preziose, per confermare o
smentire le dichiarazioni espresse di solidarietà genitoriale nel compito di
favorire la differenziazione del figlio. Questo esercizio ci dà ovviamente
informazioni molto importanti sul funzionamento mentale dei partecipanti.
Per esempio, il padre di una mia paziente, facoltoso imprenditore
considerato da tutti onnipotente, di fronte alla figlia e alla richiesta di dare
qualcosa di sé in dono, balbetta e non trova di sé niente di valido da dare
alla figlia, o un giovane depresso che può solo ripetere quanto il padre gli
ha dato senza trovare in sé niente di originale. Gli stati depressivi, la bassa
autostima o i disturbi del pensiero si evidenziano chiaramente in questo
esercizio. L’esperienza dello zaino, fatta in quel momento del percorso
terapeutico, ha un effetto sinergico che abbrevia il passaggio a volte molto
sofferto di quella fase del ciclo vitale della famiglia, giacché coinvolge tutti
i partecipanti alla relazione e permette di sperimentare le intense emozioni
legate a quel vissuto di differenziazione che è a doppia via. I genitori
sentono che possono assolvere il loro compito e hanno il permesso di
mostrare i loro sentimenti senza ritegno, il che è senza dubbio una spallata
molto importante per il figlio/a che ha bisogno di una conferma,
dell’approvazione dei suoi genitori per la sua crescita.
Aiuta anche i genitori a reimpostare la loro vita meno in funzione del figlio
e ad affrontare la fase del nido vuoto, probabilmente il momento più difficile
della vita della coppia genitoriale, giacché nella nostra cultura mediterranea
la coppia vive quasi esclusivamente in funzione della capacità di
procreazione e molto meno in funzione di un’intimità che va costruita ed
insegnata. Solo negli ultimi due decenni si sta mettendo più enfasi su questo
aspetto della coppia, aiutati forse da una più grande longevità (è aumentata
nel secolo scorso di 25 anni!) che mette la coppia di fronte all’eventualità,
dopo l’emancipazione dei figli, di vivere ancora venticinque – trenta anni
da soli. Si assiste, grazie a una mancata prevenzione di ogni tipo di
patologia, a crisi coniugali, separazioni, malattie, infedeltà, dissesti
economici che segnano questa fase a volte dolente della vita di una coppia
che sarebbe molto mitigata se solo si facesse più attenzione Ogni persona
più o meno informata sa che se non porta la macchina a un collaudo, ogni
tanto, rischia di rimanerne senza. Quante volte si suggerisce a una coppia di
fare un collaudo almeno una volta all’anno? Invece no. È forse l’istituzione
più castigata della vita umana, giacché non solo deve affrontare le peripezie
della vita condivisa senza fiatare, (coniugi deriva dal latino Cum-iugo, col
giogo…come i buoi che portano la carretta finché uno dei due non cade). E,
invece, deve essere la trave portante dell’intero sistema trigenerazionale.
Proprio la fase dello svincolo dei figli coincide con la fase del declino della
prima generazione, quella dei nonni, in cui o già qualcuno è morto o malato
e pesa sulla seconda generazione, quella della coppia, che si vede sollecitata
sia da una generazione che dall’altra che chiedono, dando poco. In sostanza,
il lavoro terapeutico con i sistemi familiari di origine contiene un elemento
altamente paradossale: “ritornare per partire meglio”. La ricerca di una
migliore differenziazione si ottiene nutrendosi fino a raggiungere la
maturità, come un frutto quando si distacca dall’albero al momento giusto e
non, per continuare con la metafora, come quando lo si taglia ancora verde
per conservarlo meglio nel frigorifero: “Fare un passo indietro per farne due
avanti”, significa prendere forza da quella energia usata male per tentare di
neutralizzare le disfunzioni dei legami relazionali e utilizzarla per un
inserimento creativo nella società. L'elemento centrale di una simbiosi è un
mancato incontro emozionale. La frustrazione del passaggio da una
generazione all’altra di elementi affettivi, psicologici e funzionali, che
caratterizzano reciprocamente la conferma dell’identità dell’altro, è ciò che
contribuisce al blocco transgenerazionale, fonte di numerosi conflitti.
Questo blocco è ciò che toglie funzionalità a un sistema, impedendogli di
avanzare nel processo della vita.
Nell’armonia intergenerazionale, nella quale ognuno compie il ruolo
assegnato dal suo momento evolutivo, sta il segreto della funzionalità di un
sistema familiare. La trasmissione generazionale dei valori affettivi e
culturali è ciò che garantisce la sopravvivenza delle persone oltre la morte
fisica. Come tutte le persone in età avanzata in questa scala generazionale
hanno diritto a questa sorta di “trascendenza”, così anche tutti coloro che
seguono hanno diritto a sentirsi nutriti da quella forza che proviene dalle
proprie radici. Quando un uomo e una donna formano una coppia, in realtà
uniscono i due sistemi familiari di appartenenza, i quali interagiscono
attraverso questo vincolo, lo influenzano e lo modificano in un patto sancito
dalla società. Questo vincolo di alleanza ha un valore antropologico e
culturale, ed è diverso dal vincolo di filiazione che unisce i coniugi con i
propri genitori e con i figli che insieme a loro formeranno una famiglia.
Questi due vincoli sono essenzialmente differenti, antitetici e allo stesso
tempo complementari fra loro (figura 4): uno è biologico ed endogamico,
l’altro è culturale ed esogamico. Tutti e due esistono in una relazione
inversamente proporzionale, e cioè più il vincolo di alleanza si consolida
creando una serie di regole proprie, transazionali, in un certo clima di
complicità propria di quella coppia, più tendono a indebolirsi i legami che
uniscono i due coniugi ai rispettivi sistemi familiari di origine e la
complicità sviluppata con questi attraverso tanti anni di convivenza. Con la
nascita dei figli si estende il vincolo di filiazione in un asse diacronico che
consente il passaggio transgenerazionale di quel filo conduttore biologico e
culturale che permette la sopravvivenza della specie. La tensione dinamica
che esiste tra questi due assi, in una complementarietà degli opposti,
costituisce il punto nodale del sistema trigenerazionale (figura 4).
Dicevamo prima che il vincolo di alleanza è inversamente proporzionale al
vincolo di filiazione. E perciò che la coppia, nello stabilire questo vincolo
di alleanza e stringerlo ogni volta di più, va marcando una maggior distanza
prima con ambedue le famiglie di origine e poi con i propri figli. Questo è
ciò che segna la differenziazione intergenerazionale che, come tutti
sappiamo, quando è turbata provoca quei sintomi disfunzionali per i quali
siamo consultati.
figura 4. Intersezione degli assi di alleanza e di filiazione. Punto nodale del
sistema trigenerazionale
La chiave del nostro lavoro è capire come questo asse di vincolo regola il
fluire del tempo e la crescita sia dei sistemi come delle persone che li
compongono. Il rafforzamento di questo vincolo di alleanza è fondamentale
per la differenziazione dei sistemi intergenerazionali nella linea del vincolo
di filiazione, tanto con una generazione come con l’altra permettendo la
progressiva autonomia dei figli. Quando questo sistema è inverso, cioè
quando s’indebolisce il vincolo di alleanza e si rinforza il vincolo di
filiazione, si producono le coalizioni intergenerazionali, espressione di un
appiattimento o di una scissione di questo asse primario descritto, e
l’emergenza di sintomi in una qualsiasi delle tre generazioni, secondo il
problema predominante. La mancanza di armonia tra le generazioni e la
presenza di certi blocchi evolutivi impediscono il vissuto del fluire del
tempo e la trasmissione di sistemi di valori attraverso le persone stesse
Quando siamo capaci di favorire lo sblocco e la fluidificazione di questo
asse, i sintomi scompaiono, poiché sono l’espressione della perturbazione
del flusso della vita stessa e della conseguente difficoltà dell’inserimento
creativo degli individui nella cultura circostante, scopo essenziale della
famiglia. Per questi motivi ritengo che l’obiettivo terapeutico dell’armonia
intergenerazionale dei sistemi osservati sia anche etico, dato che una terapia
deve essere anche un beneficio per tutti e non per alcuni a discapito di altri.
Per questo è necessario l’incontro emozionale che dia calore e forza al
processo di differenziazione, giacché le simbiosi occultano una profonda
mancanza d’incontro.
Dice un vecchio proverbio cinese che si può distaccare solo ciò che è stato
precedentemente unito. Questo è l’obiettivo terapeutico: permettere di
ritornare per poter partire meglio. L’esercizio dello zaino è un’esperienza
terapeutica che facilita la differenziazione e nel contempo un test che ci
mostra l’andamento della relazione genitoriale e la capacità di
funzionamento mentale del figlio. Dalla loro capacità di simbolizzazione
(una sola volta, nelle decine di volte fatto, mi capitò che dei genitori
mettessero nello zaino del figlio un po’ di salame e affettati vari!) e di
accettazione di questo congedo reciproco può dipendere l’andamento futuro
della loro relazione e del progetto esistenziale del figlio/a. Ci sono situazioni
in cui emergerà più chiaramente, dopo questo esercizio, una crisi nel sistema
genitoriale, dopo l’assestamento prodotto; ma in generale non occorre un
intervento terapeutico, giacché i sistemi familiari sono molto forti e si
ricompongono rapidamente dalle perturbazioni terapeutiche
(contrariamente a quanto temono molti terapeuti, e in quei rari casi si può
fare un invio a un collega della stessa filosofia terapeutica). Un’altra
metafora convincente, in questi casi, è chiedere ai genitori se hanno mai
visto come gli uccelli insegnano ai loro figli a volare : “I genitori passano
insieme in volo radente, una, due, cinque volte, finché il piccioncino inizia
a stento a volare, le volte necessarie finché spicca il volo dietro ai genitori.
Ma devono volare insieme…” Si sottolinea così l’importanza dell’accordo
genitoriale perché questo passaggio abbia una valenza positiva per il figlio.
A volte solo durante questa esperienza si mettono in evidenza problemi
irrisolti che stanno alla base della disfunzionalità. Per esempio, come nel
caso di Mattia, un giovane studente di 21 anni che viene in terapia a causa
di un intenso sentimento di ansia che lo blocca negli studi che segue in una
città vicina. Figlio unico di due genitori anziani, viene concepito ad hoc per
rimediare al vuoto lasciato da Antonio, un fratello morto a 12 anni di
leucemia. Il grande dolore dei genitori viene parzialmente lenito con la
nascita di questo bambino, che cresce bene e non mostra particolari
problemi, finché deve partire per l’università. In quel momento si blocca e
non riesce a progredire negli studi, né a stabilire contatti con i sui coetanei.
Fatta qualche seduta e affrontato il tema del fratello morto, dopo un certo
miglioramento di Mattia, e nonostante l’ansia invadente del padre Pasquale,
che lo controlla nei minimi dettagli, arriviamo alla proposta di fare
l’esercizio dello zaino. Inizia Aurora, donna molto pacata e tranquilla, che
dà al figlio la sua correttezza, la sua onestà e la sua perseveranza nella lotta
per la vita. Quando tocca al padre, costui inizia a piangere disperatamente e
cammina per la stanza senza potersi sedere di fronte al figlio. Calmatosi,
dopo alcuni minuti di pianto straziante, Pasquale riesce a sedersi dopo
avermi detto: “Dottore, non mi potevo sedere, perché di fronte a me vedevo
Antonio!” Malgrado avessimo affrontato il tema di Antonio in sedute
precedenti, solo l’esercizio esperienziale ha permesso di evidenziare il
grande travaglio emotivo di questo padre per la perdita del figlio.
Ogniqualvolta scompariva Mattia dalla sua presenza, il padre iniziava una
frenetica ricerca e gli telefonava parecchie volte al giorno per sapere più che
altro dove stava. Dopo l’esperienza dello zaino fu più chiaro per tutti la
sostituzione di una figura con un’altra, nel vano tentativo di placare il
dolore. Solo dopo essersi guardati negli occhi ed essersi obbligati a ri-
conoscersi, Mattia e Pasquale iniziarono una nuova tappa delle loro vite più
impostata sulla conoscenza reciproca, offuscata per tanti anni dalla
presenza-assenza di Antonio.Riporto qui, di seguito, parte di un articolo2 di
Ilenia Adamo, scelto come la tesi migliore dell’anno 2002 del Centro Studi
di Terapia Familiare e Relazionale diretto dal Prof. Luigi Cancrini. Descrive
la psicoterapia di una ragazzina di 17 anni con comportamenti
autolesionistici e caratteriali che denotano un grande disagio per il quale ha
abbandonato gli studi, con grande sofferenza della sua famiglia.
La storia di Silvia:voglio avere l’anima come se non l’avessi”
Intervento sulla famiglia nucleare
Il caso vuole che debba tenere un Seminario presso il nostro centro il prof.
Alfredo Canevaro per proporci un intervento sulle famiglie trigenerazionali.
In altra occasione avevo potuto apprezzare la validità del suo originale
contributo allo sviluppo di un contesto terapeutico trigenerazionale.
In accordo con il mio supervisore, colgo allora l’occasione per avere una
sua consulenza (temo che il sistema mi stia mangiando...). L’incontro
diventa un’occasione di verifica di tutto il lavoro terapeutico fatto sino ad
adesso: quanti messaggi sono arrivati, se sono state acquisite nuove letture,
quali risorse sono state attivate.
Siamo presenti io, il supervisore ed il prof. Canevaro oltre che la famiglia al
completo.
Alla presenza di questa nuova figura si chiede una definizione del problema
della famiglia dal punto di vista di ciascuno.
La madre afferma di provare un’enorme sofferenza nel vedere interrotto o
mai iniziato il rapporto con la figlia, sostenendo che in lei questa situazione
ha fatto riaprire le ferite della sua infanzia e la fatica a resistere a questo
misconoscimento di ruolo. Dice di essere preoccupata per l’insofferenza che
Silvia ha nei suoi riguardi e della famiglia in generale, e della
preoccupazione che possa fare scelte sbagliate determinate da risentimento
o rabbia. Afferma ancora che Silvia considera i comportamenti di entrambi
i genitori come interferenze nella sua vita mentre essi sono motivati dal
desiderio di sostenere bene la sua crescita.
Parla il linguaggio delle emozioni e della relazione, le sue parole sono
congruenti con il suo vissuto così come lo è tutto il suo aspetto. Pasquale
riferisce invece della difficoltà nel rapporto che si è venuto a creare negli
ultimi due anni, da quando non ha più cominciato ad essere corretta e leale
con lui. Dice che hanno difficoltà di dialogo e che Silvia non si fida
dell’esperienza dei genitori ma vuole sperimentare tutto in prima persona.
Afferma ancora la difficoltà a riconoscere in Silvia la presenza di un
problema, che con l’uso della ragione potrebbe rivelarsi tutto quanto. Questa
posizione del padre – più volte emersa nel corso degli incontri precedenti e
spesso duramente ed esplicitamente contestata dalla moglie (Tu non vuoi
vedere il problema e non sei convinto di venire) – viene ancora una volta
confermata: la “malafede” rappresenta una controindicazione alla terapia
perché nel padre non sembra esserci un genuino desiderio di cambiare la
situazione e Silvia lo ha molto idealizzato sin da bambina.
L’influenza che lui esercita su Silvia è ancora molto forte e la moglie non
riesce a contrastarlo.
Queste le parole di Silvia alla domanda “Secondo te qual è il problema?”
“È che alla fine ciascuno di noi ha un suo mondo, papà il suo, mamma il
suo, io il mio e sono tutti separati, anche quando dico qualcosa non so se
non capiscono loro o sono io a non sapermi esprimere”.
Canevaro comincia a proporre una lettura dei problemi legata al momento
dello svincolo ed alla difficoltà della coppia di accettare questa nuova
organizzazione. La madre afferma che la nascita di Silvia e la sua crescita
hanno messo in evidenza le molte diversità esistenti tra lei ed il marito e che
probabilmente senza questa presenza ci sarebbe stata meno tensione.2
Si propone una rilettura di questa osservazione ma a volte due persone non
hanno tensioni perché ognuno è sul proprio binario, quindi non si
incontrano. Conoscete la leggenda del re Salomone? Dato che Silvia non si
può spezzare in due può però farlo con la sua testa, metà mamma e metà
papà e questo potrebbe essere parte di quello che succede, una parte è
quando sta insieme a voi, l’altra quando è lontana da voi.
2 2 ADAMO;I“La storia di Silvia: voglio avere l’anima come se non l’avessi”.
Ecologia della mente, vol.25, n° 1, Giugno 2002.
Come possiamo fare perché questa Silvia si unifichi? I figli mettono
inevitabilmente in luce le nostre contraddizioni, noi cresciamo i figli perché
possano permetterci di migliorarci.
Durante questa parte dell’incontro Silvia muove nervosamente una gamba
Vedo che la tua gamba non è d’accordo con tutta questa pacatezza e
razionalità, cosa vorrebbe dirci?
Silvia risponde che lei non ha mai avuto un buon rapporto con la psicologia,
che questa è stata sempre un’esigenza della madre che è stata sempre fissata
e noi abbiamo cominciato a litigare quando io avevo 15 anni perché lei
aveva letto che a quell’età i figli litigano con i genitori;le si chiede allora di
avvicinarsi alla madre e di prenderle la mano. Silvia si avvicina e si siede
sulle sue gambe. La madre è pronta a scoppiare in lacrime, c’è un lungo e
commovente abbraccio.
La madre dice sono così contenta, vorrei urlare a Silvia quanto la amo.
Anche il padre è emozionato, guarda intensamente la figlia negli occhi
penso a come potrebbe essere gratificante questo rapporto se non si
trattassero come cani e gatti...io ho difficoltà ad esprimere le mie emozioni.
Canevaro sottolinea la necessità che il padre sostenga la madre malgrado le
difficoltà: sarebbe importante che lei mettesse un braccio attorno alle spalle
di sua moglie per farle sentire la sua presenza.
È in questa scena, in questi corpi che entrano in contatto, in questa emozione
condivisa, in questo sentire l’urgenza delle lacrime e della commozione che
riconoscono appieno il bisogno di Silvia, l’angoscia della madre, la
posizione difensiva del padre. È un attimo magico in cui le isole nell’oceano
della solitudine si incontrano. Ma per fare una frittata bisogna rompere le
uova... e questa realtà affettiva per poter continuare nel tempo comporterà
che ciascuno di loro ceda qualcosa. Si propone quindi un’esperienza con
questa consegna: Facciamo finta che Silvia debba partire per la vita,
l’aspetta un lungo cammino e ciascuno di voi può darle tre cose che lei
porterà nello zaino per esserle d’aiuto. Quindi Silvia lascerà qualcosa di
sé.
La madre dice tenendole le mani e guardandola negli occhi: Io ti do la mia
capacità di riflessione, il mio amore per l’umanità, la mia capacità di non
dissipare quello che ho dentro, affetti e conoscenze.
E Silvia alla madre: Ti lascio la mia voglia di trovare un equilibrio nella
vita e l’amore per la vita; ti lascio il desiderio di cercare di fare molte più
cose per te stessa che per gli altri.
Quindi il padre dice a Silvia: Io ti lascio la mia lealtà, la capacità di pensare
più di una volta alle scelte importanti della vita e la serietà con cui le
affronto.
E la figlia al padre: Io ti lascio un po' del mio istinto, ti lascio la mia capacità
di comprensione e ti lascio soprattutto il mio amore per l’aria.
Segue un lungo, intenso abbraccio tra il padre e la figlia, che la madre
commenta: tra loro c’è sempre stato un rapporto particolare.
L’intensità e la qualità di questa interazione fisica confermano in noi
l’ipotesi di un’erotizzazione del legame tra padre e figlia che motiverebbe
almeno alcuni dei comportamenti di Silvia, come la sua difficoltà di vivere
a casa. Compiuto il rituale del saluto, Silvia viene invitata a cambiare posto,
sedendosi accanto ai terapisti e lasciando di fronte a sé i genitori seduti
vicini. Questa concreta manovra spaziale segna il cambiamento dei rapporti
di prossimità fra i membri della famiglia. L’utilizzo di questa tecnica di
demarcazione del confine consente di segnalare l’appoggio al sottosistema
figli, contenendo la paura di Silvia di lasciare i genitori da soli ed inviando
a questi ultimi il messaggio della loro possibilità di avere una buona qualità
di vita anche lasciando andare via Silvia. Il farla collocare tra i terapisti
costituisce inoltre uno sbilanciamento, un’associazione terapeutica che
mette in risalto le forze di Silvia e diviene per lei una significativa fonte di
autostima. Sostenendo la solidarietà dei terapisti, infatti, Silvia potrà
cominciare a contrastare la posizione che le è prescritta in seno al sistema.
Viene pertanto contestato il suo ruolo di paziente designata, proponendola
agli occhi dei genitori come colei che sta aiutando l’intero sistema familiare
ad entrare in una nuova fase. Il messaggio inviato da questi movimenti è
subito colto dai genitori, in particolare il padre afferma Lo so che adesso
siamo soli! Abbracciando la moglie. Alla domanda Sei fiduciosa che
mamma e papà siano in grado di occupare quella parte di affetto che tu stai
lasciando? Silvia annuisce consentendo di offrirle una nuova lettura del suo
comportamento disfunzionale; allora se sei tranquilla sulla loro capacità di
stare insieme non c’è bisogno di creare tanti problemi. Infatti i processi
relativi alla mutua separazione ed alla “negoziazione” di nuove posizioni
nel sistema familiare concernenti l’autonomia e lo svincolo da parte dei figli
adolescenti possono essere resi difficili da modelli rigidi di funzionamento
descritti da Stierlin (1979) come “patterns centripeti e centrifughi” per
indicare appunto due “costellazioni” familiari tipiche del periodo
dell’emancipazione dell’adolescente. Essi riflettono le forze delle famiglie
che sono dirette all’interno (centripete) o all’esterno (centrifughe). In
particolare nelle situazioni “centripete” le difficoltà alla separazione ed allo
svincolo emotivo sono legati al fatto che spesso i genitori hanno comunicato
tra loro attraverso il figlio.
L’inizio del processo di individuazione del figlio minaccia l’unità e la
coesione del sistema familiare ed il ragazzo può “stabilizzare” la sua
famiglia sviluppando “un qualche problema instabilizzante che ne faccia un
fallito” (Haley, 1980). In altre parole ciò che rende così arduo realizzare i
compiti di sviluppo specifici dell’adolescenza è ciò che Haley chiama
“triangolo perverso” tra i genitori e figlio, in quanto con tale modalità di
relazione l’adolescente introietta la regola di dover continuare a fare da
tramite nei rapporti tra i genitori per evitare la frattura della coppia
genitoriale. Per tutto questo tempo la gamba di Silvia è rimasta irrequieta,
malgrado il clima emotivo di vicinanza che si è venuto a creare. Il prof.
Canevaro glielo fa notare dicendo: L’unico problema è la gamba! Se tu la
lasciassi andare cosa direbbe? Silvia dice che non è significativo, lei muove
in continuazione le gambe, poi - cambiando espressione – afferma di essere
preoccupata perché vede nei suoi genitori una certa malinconia e mestizia.
Racconta di loro, che nessuno dei due ha avuto una vita molto facile, ma che
soprattutto sente la tristezza della madre e questo la fa soffrire. La sua
gamba, per tutta la durata di questa interazione, rimane immobile.
La madre conferma questa visione della figlia, dicendo di non essere stata
particolarmente fortunata sin dall’infanzia: alla sua nascita ci sono state
delle complicazioni al momento del parto (forse un’anossia cerebrale) per
cui ha riportato conseguenze I miei genitori non si sono accorti subito di
questa cosa, hanno fatto il possibile.
Per diverso tempo non aveva potuto camminare bene e questa diversità
rispetto agli altri l’aveva fatta sentire “diversa” soprattutto durante
l’adolescenza. Racconta della sua disperazione e totale solitudine in questa
fase della vita tornando poi a parlare del penoso vissuto della madre ala sua
nascita e del suo senso di responsabilità rispetto a tutto questo. La gamba di
Silvia riprende ad agitarsi, non riesce a tollerare la sofferenza della madre e
quindi deve necessariamente tenerla lontana pur avendo bisogno del suo
sostegno. Chiudiamo la seduta con la proposta di incontrarci dopo due
giorni, alla presenza delle donne della famiglia e delle tre generazioni. Silvia
è molto perplessa sulla possibilità di portare lì la nonna materna (è malata e
sofferente) e sull’utilità di quell’incontro (La nonna è inutile che venga, non
lo capirebbe!). E invece...
Intervento sulla Famiglia Trigenerazionale
Il consulto tra terapeuti ci vede concordi sulla necessità di attivare altre
risorse in questa famiglia, partendo dalla comune opinione
dell’inadeguatezza del padre da un punto di vista affettivo e
dall’impossibilità di fare esclusivo riferimento alla madre considerato il suo
vissuto del rapporto genitoriale. In particolare il padre ha provocato in tutti
noi sentimenti di rifiuto, dobbiamo fare i conti con questo dato ed utilizzarlo
a fini terapeutici.
L’idea che ci viene in mente è quella di attivare un “fluido
intergenerazionale femminile” (nonna ↔ madre ↔figlia) per consentire a
Silvia di riscoprire la possibilità di essere adeguatamente compresa,
sostenuta e contenuta. Nell’apertura di questa nuova possibilità decidiamo
di “servirci” del padre: il suo ruolo sarà quello di farsi portavoce della nostra
richiesta a suocera e cognata, di accompagnarle lì ed aspettare per tutta la
durata dell’incontro.
In tal modo ci prefiggiamo di ridimensionare il potere che lui ha nei riguardi
di Silvia che – sostenuta dalle altre donne della famiglia e da un punto di
vista femminile – finalmente potrà iniziare a contestarlo funzionalmente.
All’incontro la nonna si presenta appoggiandosi ad un bastone,
dichiarandosi contenta di essere stata invitata perché avrebbe potuto
rendersi utile alla nipote e – soprattutto – alla figlia. È presente anche Gina,
unica sorella di Marta, più piccola di 15 mesi, madre di due figlie
adolescenti.
La definizione del problema che la nonna fornisce è centrata su Silvia, sul
suo comportamento disobbediente e non riconoscente in merito a ciò che
per lei è stato fatto. La sua forza e determinazione nell’iniziare a muovere
accuse alle nipoti, e particolarmente a Silvia, ci fa quantomeno dubitare
delle sue effettive precarie condizioni di salute! Assistiamo alla capacità di
manipolazione di questa donna nei confronti delle figlie che vengono lodate
per quella fase della loro vita in cui – essendo più semplice per loro
organizzarsi – andavano spesso a trovarla (facevano il dovere di figlie)
mentre adesso... Dopo tanti sacrifici per le figlie non c’è più unione con il
crescere di queste ragazze! (piangendo).
Questo gioco ha congelato il tempo nei rapporti tra queste generazioni: la
nonna è inamovibile perché sofferente e perché, per definizione, è colei che
adesso dovrebbe ricevere e non dare di più, le figlie sono caricate dalla
doppia responsabilità della madre e delle loro stesse figlie in crescita, le
nipoti – tutte e tre in fase di svincolo – hanno difficoltà a differenziarsi da
queste madri con un vissuto così penoso. L’incontro con tre generazioni
consente il superamento della visione di interazione della rete relazionale
appiattita in una dimensione orizzontale per privilegiarne una nuova,
articolata su tre dimensioni, lungo due assi orizzontali ed uno verticale.
Questa nuova visione tridimensionale offre la possibilità di cogliere le
differenze, nonché di creare le connessioni tra le varie dimensioni storiche
delle relazioni. È infatti possibile una lettura del sintomo quale prodotto
finale di una storia non solo personale, ma trans generazionale, che si
mantiene ed elabora nel tempo, sulla base di debiti e crediti
intergenerazionali di cui ogni individuo diventa portatore. È necessario
sbloccare questa staticità dei rapporti: il prof. Canevaro fa alzare la nonna
dicendole
Questo bastone lo prendo io! e la fa alzare e sedere di fronte alle figlie
dandole la consegna di parlare a cuore aperto con ciascuna di loro dopo
aver preso le loro mani tra le sue.
Nonna, lei ha messo il freno a mano nella vita! Deve toglierlo per aiutarle
ad andare verso la vita! dice Canevaro mentre Marta comincia a piangere...
La ascolti questa figlia, adesso lei sta soffrendo, le chieda il perché...
Nonna: “Perché da una parte è dispiaciuta per me, e dall’altra per questa
figlia con cui non va d’accordo”.
Marta: “Io voglio essere consolata, mamma! Mi aiuti? Io ti ho dato
dispiaceri, ma poi tutto è passato, e vorrei che tu mi dicessi così...che tutto
è passato...una volta è stato il tuo turno, ora è il mio: la crescita è dolore,
mi devi dire passerà.
Madre e figlia si abbracciano: non so perché mi viene in mente una storia
letta in un libro (La morale della favola?) intitolata “Una volta al polo nord”,
in cui si narra che un giorno questo piccolo essere sconosciuto ed
incomprensibile a tutti gli abitanti del polo nord era spuntato sull’enorme
distesa di ghiaccio, sterile e inutile, a segnalare – con il suo profumo e la sua
straordinaria bellezza e semplicità – l’arrivo della primavera e della
speranza. Così Silvia per lungo tempo ha parlato un’altra lingua cercando di
portare la speranza di un cambiamento in questo mondo familiare così
segnato dall’amarezza e dalla solitudine. La nonna prende l’impegno di fare
qualcosa di piacevole con le figlie cercando di condividere con loro un
“tempo buono”, ritagliandosi degli spazi di serenità per tutte loro. Silvia la
coinvolge nell’organizzazione della festa del suo diciottesimo compleanno:
prima di concludere l’incontro le facciamo prendere per mano: Io penso che
la nonna ha una tale grinta da andare via di qui senza bastone!
Gina e Marta non credono che questa madre sia così forte: ma Marinella
(la nonna) quando non può prendere lo scettro in mano si mette a
piagnucolare, così voi vi disperate e lei trionfa. Oggi invece esce da qui
senza bastone e camminerà sola, e dovrete imparare a capirla e chiederle
il segreto della sua forza. Prendetevi tutte per mano e passatevi le energie.
Alla fine della seduta, mentre ci salutiamo, il prof. Canevaro nasconde dietro
alle spalle il bastone della nonna...che a un certo punto lo reclama: Ora però
il bastone me lo dà...
Però cammina benissimo anche senza!
Il tentativo di recuperare il rapporto nonna - madre ci sembra fondamentale,
perché è possibile leggere gli acting-out di Silvia come un raccogliere le
fantasie suicide della madre: Silvia non è in pericolo immediato, ma
raccoglie come un radar questo pericolo nella madre. Dal “manifesto di
Whitaker”: Penso che la depressione, che viene considerata una patologia
individuale, sia invece la risposta alla concreta percezione della patologia
negli altri. È il riconoscimento dell’inutilità di qualsiasi sforzo per alleviare
il dolore del mondo...
4.2 EVENTUALE RIENTRO DEL PAZIENTE COME
COTERAPEUTA NEL SISTEMA FAMILIARE
Passate le prime fasi della psicoterapia, è molto frequente che il paziente,
ormai detriangolato da situazioni disfunzionali, la maggior parte conflitti
tra i genitori o tra i genitori e un fratello, “rientri” nel sistema familiare per
collaborare meglio. Questa volta lo fa in una dimensione coterapeutica,
giacché si discute in seduta la strategia più adeguata per rientrare senza
rimanerci invischiato.
Uscito da una posizione che io chiamo di “terapeuta fallito”, in cui ogni
tentativo di riuscita nell’aiuto spesso veniva disarticolato dagli stessi attori
del conflitto (come se la richiesta di aiuto fosse stata in realtà il bisogno di
avere un depositario delle proprie ansie ), vive la conseguente frustrazione
come motivo per tentare e ritentare la missione impossibile.
Quando, invece, è “addestrato” dal terapeuta, il paziente riesce a rimanere
vicino a chi soffre ma senza invischiarsi, rimanendo se stesso e con una
posizione affettuosa ma distaccata, adempie a un ruolo positivo senza
soffrire un’ennesima frustrazione.
Non è una posizione semplice da raggiungere, e soprattutto da mantenere,
poiché il non invischiarsi viene criticato come egoismo e abitualmente
colpevolizzato. Se il nostro paziente riesce a spiegare la sua posizione senza
entrare in una lite quando viene provocato, bensì metacomunicando il
proprio parere e la propria posizione, possiamo dire che svolge una funzione
positiva di aiuto e di conforto.
Molte volte, soprattutto le mamme, “distinguono” un figlio con questo ruolo
terapeutico, scegliendolo come confidente, quando in realtà, e molte volte
inconsapevolmente, lo trattengono dalle sue giuste necessità di
emancipazione.
Federica, per esempio: Venuta in terapia con il manifesto desiderio di
lavorare sulla sua famiglia di origine, abbastanza disfunzionale, e facendo
di professione la psicologa, si lamenta dei suoi fallimenti come terapeuta
dei suoi.
Primogenita, sette anni più grande del fratello, prova sentimenti di vergogna
riguardo a sua madre che nella famiglia di origine passa come diversa e un
po’ matta.
Federica, senza rendersi conto, si è associata alla lettura della situazione che
il padre dà, appartenendo ad una famiglia più ricca che svaluta e critica
permanentemente sua moglie, di famiglia contadina e meno abbiente.
Federica cresce con la sensazione di avere questa madre diversa, e malgrado
il suo affetto per lei, non la considera molto. Il padre critica in Federica
aspetti della madre e la madre critica in lei aspetti del padre (sei orgogliosa
come loro...).
Questa difficile posizione fa piangere Federica, che si sente molto
impotente. Nel primo incontro con la madre è molto importante la
ridefinizione che il terapeuta dà delle stranezze della signora dicendo che è
molto furba e fa finta di essere matta per controllare meglio la situazione.
La donna accusail colpo e si apre di più confidando che, sebbene critichi in
Federica l’orgoglio paterno, la vede simile a lei e con buone possibilità di
essere mamma, criticando invece le ragazze di oggi che pensano solo alla
professione. Descrive alcuni conflitti col marito e la sua famiglia di origine,
ma emerge un chiaro affetto positivo tra entrambe, che finisce con un
abbraccio molto emotivo.
Dopo una seduta di elaborazione, facemmo l’incontro con il padre. Ci ha
parlato molto del suo conflitto di coppia, della sua frustrazione come
marito, ma non come padre (“Mia moglie vorrebbe riavvicinarsi, io no.
Dicevo sempre che quando i figli fossero diventati grandi me ne sarei
andato...”).
Sia in questa seduta che in quella con la madre, il terapeuta connota la
posizione di Federica tra i genitori, con il tentativo di aiutarli, come
“missione impossibile”, e suggerisce una riflessione di coppia senza
coinvolgere i figli.
Federica, dopo l’incontro con la madre, dice che la seduta è stato un punto
di svolta. È più genuina nella relazione e si prende più libertà con la madre,
essendo più spontanea nel contatto. Considera il comportamento della
madre di provocatrice passiva come una risposta all’atteggiamento del
marito.
Dopo l’incontro col padre si è resa conto che non può essere terapeuta dei
genitori. “I miei bisogni vengono sempre dopo quelli degli altri. Non posso
parlare delle mie sofferenze”.
Dopo questi incontri si deprime un po’, sentendo che i genitori non hanno
uno spazio mentale per lei.
Se ne va per qualche giorno a casa di un’amica, provando come si sente
lontana dai suoi. Pian piano si riprende, concentrandosi molto sul lavoro e
sullo studio. Dopo alcune sedute dedicate a lei e al suo progetto esistenziale,
va avanti bene in una relazione sentimentale ed è più forte riguardo alle crisi
familiari. Di fatto, dopo una grande litigata dei suoi genitori, la madre tenta
di coinvolgerla e lei non entra nel merito, defilandosi dalla posizione
abituale, ma chiarendo questo alla madre, con un buon tono affettivo.
Questo la fa sentire meglio. Il padre, per un po’ di tempo si cucina da solo,
ma - a differenza di altre volte - non se la prende con i figli. Riesce a parlare
da sola con il padre dei suoi progetti, e quando lui tenta di parlare dei suoi
problemi di coppia, lei riesce a spiegargli che malgrado l’amore che ha nei
loro confronti, non li può aiutare come farebbe un altro professionista, non
coinvolto come lei nella relazione.
Così, lentamente, inizia a mettere i suoi progetti in primo piano, mentre i
genitori stanno considerando la possibilità di una terapia di coppia. Nei mesi
seguenti, Federica intensifica molto la sua relazione affettiva con il
fidanzato e insieme fissano una data di matrimonio. Federica parla con i suoi
di questo progetto e di come avrebbe bisogno di un aiuto per comprarsi una
casa, aiuto che loro le promettono.
In tutto questo ribaltamento strategico riguardo alla problematica dei suoi
genitori e “all’egoismo” di occuparsi dei fatti suoi, Federica viene molto
sostenuta dal terapeuta che la aiuta con piccoli “compiti a casa” in relazione
con i suoi, riuscendo a sviluppare una relazione personalizzata con ognuno
dei suoi genitori; e, pur rimanendo affettivamente nella relazione, riesce ad
introdurre argomenti riguardanti la sua vita e i suoi progetti.
Contrariamente a quanto pensava, i genitori sono più tranquilli e
apparentemente migliorano la loro comunicazione.
In questo ribaltamento della strategia, Federica riesce a rientrare nel sistema
familiare come coterapeuta, senza rimanere invischiata ed essendo più
affettuosa nei loro riguardi.
La differenziazione si produce rimanendo lei nel sistema familiare e non
mettendo ulteriore distanza fisica o emozionale. Riuscire a detriangolarsi
dopo il lavoro terapeutico permette di trovare un’adeguata distanza
emozionale, e addirittura essere più efficaci nell’aiuto ai familiari, giacché
si può essere solidali, dando affetto e sostegno, senza il compito di dover
risolvere i problemi degli altri, altrimenti si prova ansia e ci si sente
inefficaci .
Quando il problema presentato da uno dei familiari è importante si può fare
una seduta congiunta, a richiesta del familiare, per affrontarlo insieme con
il paziente in qualità di coterapeuta
Se il problema non si risolve, si suggerirà un collega competente a cui
ricorrere e mai il terapeuta dovrebbe prendere il familiare in cura giacché
verrebbe meno la fiducia del suo paziente. Questa strategia non solo evita
eventuali manipolazioni da parte del familiare, ma è anche utile per attutire
loro frequenti colpevolizzazioni, quando sentono che il figlio o fratello
migliora “solo per sé”, egoisticamente.
Proporzionare un valido aiuto terapeutico al familiare può essere il
complemento giusto per avviare e consolidare un processo terapeutico di
cambiamento del sistema familiare che, a volte, si avvera con successive
“onde terapeutiche”, come quando si getta un sasso nello stagno.