Aspetti politico-ideologici della misurazione
della democrazia: il caso della Freedom House.*1
- di Diego Giannone** - per contatti: [email protected]
Abstract Nel corso degli anni ’70 le società occidentali hanno vissuto un periodo di crisi profonda, sul piano politico, economico e sociale. Il modello welfarista e keynesiano, su cui esse si erano sino a quel momento rette, è stato delegittimato, perché accusato di rendere ingovernabili le democrazie, ormai ritenute sistemi in crisi, incapaci di far fronte alle domande crescenti del corpo sociale (Crozier, Huntington e Watanuki, 1975). Al suo posto, un nuovo paradigma teorico, il neoliberismo, prospettando una diversa configurazione dei rapporti tra individuo e società, economia e politica, potere pubblico e potere privato (Harvey, 2007), definiva il framework valoriale e interpretativo entro cui trovare le soluzioni adeguate alla crisi. L’ipotesi del lavoro è che la costruzione degli strumenti di misurazione della democrazia oggi maggiormente utilizzati, la cui nascita è delimitabile nel periodo 1973-1984, sia collegata non solo ad esigenze di tipo conoscitivo, ma anche a una forte motivazione politico-ideologica, legata alla diffusione della dottrina neoliberista e alla giustificazione scientifica dell’egemonia occidentale. Questa duplice impronta ha permeato di sé gli strumenti, indirizzando sia la scelta delle dimensioni valoriali a cui fare riferimento, che la selezione degli indicatori da utilizzare per misurare la democrazia. La verifica dell’ipotesi viene fatta analizzando come caso paradigmatico la Freedom House (FH), considerata come il vero pattern-setter globale della democrazia. Dopo aver evidenziato gli elementi di criticità teorici e politici che la diffusione del modello di democrazia prospettato dalla FH determina, il paper analizza la metodologia e gli indicatori utilizzati dalla FH per misurare la democrazia, mettendo in rilievo come le trasformazioni subite dal suo strumento nel corso degli anni siano in linea con le ipotesi di una progressiva affermazione del paradigma neoliberale e di una costante legittimazione del predominio occidentale. Parole-chiave: democrazia, misurazione, Freedom House, neoliberismo, libertà, eguaglianza, diritti politici, diritti civili, egemonia occidentale. * Paper da presentare al XXII Convegno SISP, sezione “Democrazie e Democratizzazione”, panel “Concezioni di democrazia e qualità” (Chairs: Francesca Gelli, Leonardo Morlino), Pavia, 4-6 settembre 2008. ** Dottore di ricerca in “Sociologia e ricerca sociale”, Università degli Studi di Salerno.
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1. Introduzione
L’obiettivo di questo lavoro è verificare l’esistenza di una possibile relazione tra alcuni
cambiamenti macro-strutturali, di tipo storico-politico, registratisi tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso, e la contemporanea affermazione di specifici strumenti di misurazione della democrazia. L’ipotesi è che questi strumenti, oltre a rispondere ad esigenze di tipo conoscitivo, vale a dire fornire dati e informazioni sullo stato di salute delle democrazie, siano stati elaborati anche per rispondere a motivazioni di tipo politico-ideologico, volte all’affermazione di uno specifico paradigma conoscitivo e interpretativo della realtà sociale (il neoliberismo) e alla riproposizione, a livello internazionale, di relazioni di potere egemoniche favorevoli all’Occidente. Questo paradigma ha permeato di sé gli strumenti, indirizzando sia la scelta delle dimensioni valoriali a cui fare riferimento, che la selezione degli indicatori da utilizzare per misurare la democrazia.
La misurazione, fungendo da giustificazione scientifica della superiorità occidentale, è così venuta a far parte, più in generale, di quelle strutture del sapere che “costituiscono un elemento essenziale nel funzionamento e nella legittimazione delle strutture politiche, economiche e sociali del sistema[-mondo esistente]” (Wallerstein, 2007: 76). E l’elaborazione di specifici strumenti di misurazione è rientrata pienamente nella battaglia per “la realizzazione di un apparato egemonico, [dal momento che questa,] in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico” (Gramsci, 1997: 285, corsivo mio).2
La verifica dell’ipotesi avviene attraverso l’analisi di uno specifico caso, quello della Freedom House, il cui strumento di misurazione della democrazia, considerato come un vero e proprio metodo di conoscenza della democrazia, sedimentandosi nel corso degli anni nel discorso politico e scientifico a livello internazionale, ha preparato il terreno a una legittimazione “quasi scientifica” del modello di democrazia liberale.
Il paper è strutturato in questo modo: nella prima parte viene ricostruito il contesto storico-politico entro cui sono maturate le condizioni per l’affermazione di una specifica definizione della democrazia; di questa vengono poi delineate le caratteristiche riconducibili al neoliberismo. Nella seconda parte viene analizzato il caso della Freedom House attraverso la ricostruzione del suo profilo politico-ideologico e l’analisi delle checklist per la misurazione della democrazia.
2. Neoliberismo, democrazia e libertà
La democrazia è oggi alla prova. E la sua crisi non sembra semplicemente dovuta a una
riconfigurazione dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Si tratta, invece, di un processo di più lunga durata, le cui origini possono essere rintracciate intorno alla metà degli anni settanta del XX secolo, allorché un modello di società, con le sue regole, i suoi equilibri interni, i suoi valori, è stato messo in discussione da una serie di fattori concomitanti.
L’annus horribilis per la democrazia e il capitalismo è il 1973: una data naturalmente simbolica, ma nella quale si condensa un precipitato di eventi tale da giustificarne una simile valenza. Il 1973 è l’anno della crisi energetica, petrolifera e inflazionistica; è l’anno della terza guerra arabo-israeliana; è l’anno dell’altro 11 settembre. Martedì (ancora un martedì) 11 settembre 1973, con l’attacco alla Moneda i “nemici della libertà”3 pongono fine all’esperienza del governo socialista democraticamente eletto di Salvador Allende, dando vita al “primo esperimento di creazione di uno stato neoliberista” (Harvey, 2007: 17). Un esperimento che nel giro di pochi anni si trasformerà in discorso egemonico, un discorso “talmente pervasivo da costituire parte integrante del modo in cui molti di noi comunemente interpretano, vivono e comprendono il mondo” (Idem: 11). Il segnale lanciato sulla scena internazionale è forte: in
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Italia, ad esempio, si intensifica il dibattito sulla natura e i limiti della nostra democrazia, come dimostrano le famose riflessioni di Berlinguer sui fatti del Cile pubblicate in tre articoli su Rinascita.4
Nel 1973 nasce la Commissione trilaterale, un gruppo di privati cittadini costituitosi con l’obiettivo di studiare e proporre soluzione ai problemi di più stringente attualità.5 Due anni più tardi tre membri della Commissione, S. P. Huntington, M. Crozier e J. Watanuki, pubblicano un rapporto sullo stato delle democrazie occidentali (Crozier, Huntington e Watanuki, 1977). Le democrazie occidentali, essi affermano, sono in crisi per un cattivo funzionamento interno. La spinta alla partecipazione, il cambiamento sociale e culturale verificatosi negli anni sessanta (con un generale rifiuto dell’autorità politica, familiare, patriarcale, religiosa, scolastica, militare), le maggiori aspettative di un numero crescente di cittadini portano a uno squilibrio profondo tra attività governative crescenti e autorità
governativa decrescente. La vitalità della democrazia mette in crisi la governabilità delle democrazie, intendendo con questo termine “il rapporto tra l’autorità delle sue istituzioni di governo e la forza delle sue istituzioni di opposizione” (Huntington, 1977: 91). I sistemi democratici sono sottoposti a una “minaccia di entropia”, perché i sistemi decisionali subiscono un sovraccarico di domande a cui faticano a far fronte: il paradosso dello Stato moderno è dunque che più crescono le decisioni che esso deve prendere, più si indebolisce. Il problema, che è “politico o sistemico, non tecnico” (Crozier, Huntington e Watanuki, 1977: 30), consiste, secondo gli autori, in un “cedimento dei mezzi tradizionali di controllo sociale, una negazione di legittimità a quella politica ed altre forme di autorità, nonché un sovraccarico di richieste al governo, eccedente la sua capacità di risposta” (Iidem: 24-25).
L’accusa contro la democrazia “partecipativa” e dell’eguaglianza emersa dalle lotte degli anni sessanta è anche un invito a riportare l’ago della bilancia sul versante dell’autorità governativa. “Taluni dei problemi di governo […] scaturiscono da un eccesso di democrazia […]. Ciò che occorre alla democrazia è, invece, un grado maggiore di moderazione” (Huntington, 1977: 108). “Il funzionamento efficace d’un sistema politico democratico richiede, in genere, una certa dose di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi. In passato, ogni società democratica ha avuto una popolazione marginale, di dimensioni più o meno grandi, che non ha partecipato attivamente alla politica. In sé, questa marginalità da parte di alcuni gruppi è intrinsecamente antidemocratica, ma ha anche costituito uno dei fattori che hanno consentito alla democrazia di funzionare efficacemente. I gruppi sociali marginali, ad esempio i negri, partecipano ora pienamente al sistema politico. Però, rimane ancora il pericolo di sovraccaricare il sistema politico con richieste che ne allargano le funzioni e ne scalzano l’autorità. È necessario quindi sostituire la minore emarginazione di alcuni gruppi con una maggiore autolimitazione di tutti i gruppi” (Idem: 109).6
Il Rapporto alla Trilaterale costituì dunque la risposta puntuale sia al modello di società emerso dalla seconda guerra mondiale, sia alla critica da sinistra portata a questo modello dai movimenti e dalle lotte del ’68. Il modello welfarista era in crisi perché insostenibile sul piano economico-finanziario, ma la sua delegittimazione venne portata anche sul piano politico-ideologico, attraverso il sostegno convinto dato al nuovo paradigma economico-sociale del neoliberismo. Nella battaglia per l’instaurazione di una nuova egemonia, il neoliberismo, oltre a caratterizzarsi come il modello maggiormente in grado di corrispondere al tentativo di restaurazione del potere di classe messo in atto dalle élite economiche e politiche mondiali, ha realizzato, nel giro di pochi anni, un fondamentale ribaltamento degli equilibri esistenti nel rapporto tra individuo e società, economia e politica (Beetham, 1997), pubblico e privato, riuscendo ad imporsi su scala mondiale anche a livello di senso comune come nuova visione del mondo (Harvey, 2007, Przeworski, 1992, Turner, 2007).
Rientrava in questa operazione anche la ridefinizione delle coordinate politiche, culturali, sociali e normative del discorso sulla democrazia. Alla crisi del vecchio paradigma welfarista si
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accompagnava, infatti, anche una serie di interrogativi non solo sullo stato di salute delle democrazie, ma sulla stessa essenza della democrazia: quale strada devono intraprendere le democrazie in crisi? Che cosa le deve caratterizzare? Di quali elementi si può fare a meno? Queste domande politiche trovarono risposta su un duplice versante: quello teorico-politico e quello scientifico-metodologico.
Sul primo fronte il progetto neoliberista è stato piuttosto esplicito e deciso. Infatti, dal momento che un sistema di pensiero, per diventare dominante, deve saper articolare un apparato concettuale facendolo diventare senso comune e ponendolo al di là di ogni possibile discussione o critica, “the founding figures of neoliberal thought took political ideals of individual liberty and freedom as sacrosanct - as the central values of civilization. […] Such values were threatened, they argued, not only by fascism, dictatorships, and communism, but also by all forms of state intervention that substituted collective judgments for those of individuals set free to choose. They then concluded that without «the diffused power and initiative associated with (private property and the competitive market) it is difficult to imagine a society in which freedom may be effectively preserved»7” (Harvey, 2007b: 24).
Mettendo l’accento su una delle due dimensioni sostantive della democrazia (Morlino, 2003), la libertà, a discapito della dimensione valoriale dell’eguaglianza, il neoliberismo ha prospettato una versione di democrazia completamente schiacciata sul concetto di libertà: una versione che, sul piano dei diritti, si è tradotta nella sostanziale sovrapposizione della democrazia con il rispetto dei diritti civili e politici (i diritti di libertà individuale) e la conseguente delegittimazione dei diritti economici e sociali (quei diritti che mirano a una fondamentale riduzione delle diseguaglianze socio-economiche).8 Nell’ottica neoliberista la democrazia è venuta a coincidere con la libertà formale: ma a ciò bisogna aggiungere che la libertà ha subito, proprio per effetto del neoliberismo e soprattutto dopo la “caduta del polo simbolico dell’uguaglianza” (Cassano, 2003: 26) registratasi con i fatti del 1989, una torsione di senso piuttosto significativa, sovrapponendosi a un certo tipo di libertà: la libertà di scambio, la libertà di mercato, la libertà di impresa, assunte al ruolo di uniche garanti legittime delle diverse libertà individuali. Come scrive Harvey (2007: 49) citando Polanyi, “l’idea di libertà [è] «degenera[ta] così in un mero patrocinio della libera impresa», che significa «piena libertà per coloro che non hanno bisogno di veder crescere i propri redditi, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e una vera e propria carenza di libertà per la gente che invano potrebbe cercare di far uso dei propri diritti democratici per trovare protezione dal potere di quanti detengono le proprietà»”.9 Una visione distorta della libertà determina dunque, per riprendere le parole utilizzate da Polanyi oltre sessanta anni fa, un effetto deleterio sulle possibilità e sulle capacità degli individui “di far uso dei propri diritti democratici”; in secondo luogo, occorre segnalare un ulteriore fattore di rischio che l’alterazione della proprietà può determinare nell’applicazione dei principi della democrazia e nei suoi stessi meccanismi di funzionamento.
Sul versante scientifico-metodologico, quelle domande sull’essenza della democrazia si sono tradotte in problemi teorici ed empirici per gli studiosi di scienze politiche e sociali. Infatti, pur nella molteplicità dei punti di vista e pur tenendo conto dell’esistenza di posizioni diversificate anche critiche (Held, 1997; Morlino, 2003), per gli studiosi del settore il neoliberismo diventa il paradigma con cui confrontarsi, quel paradigma egemonico in grado di dettare le coordinate per l’interpretazione della realtà sociale.10 E tra queste coordinate rientrano pienamente gli strumenti di misurazione della democrazia. Non solo. Il suo successo è dovuto anche al fatto che esso è riuscito a riprodurre il medesimo meccanismo egemonico anche al di fuori della comunità scientifica, influenzando la costruzione dei valori e delle priorità degli individui, imponendo un quadro interpretativo della realtà sociale, definendo le coordinate entro cui far apparire come legittime le ipotesi interpretative e le spiegazioni dei fenomeni osservati, individuando e selezionando i fatti rilevanti per definire la realtà e darle un senso.
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3. L’importanza politica della misurazione
Se all’interno di questo quadro storico-politico rintracciassimo la data di nascita degli
strumenti di misurazione della democrazia oggi più diffusi e utilizzati, un elemento balzerebbe subito agli occhi: questi strumenti (Freedom House, Polity, Vanhanen, Bollen) sono nati tra il 1973, anno in cui fu lanciata la prima survey annuale della Freedom House, e il 1984, anno in cui Vanhanen elaborò il suo indice. È la traiettoria temporale caratterizzata dall’affermazione del paradigma neoliberista e dalla crisi della democrazia. Una crisi a cui, come già detto, in qualche modo bisognava far fronte e il proliferare in un arco di tempo piuttosto breve di una serie di strumenti atti allo scopo, se non è una prova, costituisce certamente un indizio molto forte di un problema politico avvertito come impellente. Ricordando la massima “you can only manage what you can measure”, la misurazione è diventata lo strumento per gestire in termini scientifici questa complessa problematica. Essa infatti consentiva di dare forma all’oggetto “democrazia”, di gestirlo, classificarlo, categorizzarlo; all’interno dello Stato, essa permette di delimitare il terreno delle scelte politiche possibili e legittime; inoltre, fornendo informazioni e solida conoscenza sullo stato della democrazia, consente ai governanti che formulano tali politiche di essere percepiti dai cittadini come eletti responsabili (Munck, 2006), proprio perché le informazioni di cui i cittadini dispongono fanno apparire come coerenti con il sistema democratico le politiche adottate; sul piano internazionale, la misurazione giustifica relazioni e aiuti finanziari, stabilisce gerarchie, organizza e legittima le priorità di azione degli Stati.
La scelta di particolari indicatori, che è alla base della definizione degli strumenti, incide, tra le altre cose, anche sulla percezione della democrazia da parte della comunità dei cittadini. Infatti prediligere alcuni indicatori piuttosto che altri significa anche optare per una certa definizione e una certa misurazione della democrazia. Queste due ultime operazioni contribuiscono a loro volta a legittimare e rafforzare determinate scelte politiche o particolari rappresentazioni della realtà: per esempio, può avvenire che un’operazione di misurazione possa contribuire a rafforzare lo status quo, avallando pubblicamente una scelta politica potenzialmente impopolare (ad esempio, si fa la guerra all’Iraq perché è uno Stato non democratico, si aumentano le tasse perché i parametri di Maastricht – ancora una misurazione – lo impongono), o diffondendo l’idea che una data società sia retta da una democrazia di qualità perché garantisce particolari tipi di diritti.
L’impatto della misurazione, e di conseguenza dei processi correlati di valutazione e monitoraggio, supera dunque gli aspetti puramente tecnici e/o metodologici, per assumere rilevanza teorica e politica. Infatti, la costruzione di metodologie e di indicatori fonda (e si fonda su) una certa visione della democrazia: questa visione agisce come un vero e proprio framework politico-ideologico che opera per rafforzare se stesso, dando le coordinate principali per interpretare e legittimare scelte di tipo politico, economico, culturale, sociale, normativo. È la misurazione, dunque, a determinare il quadro di riferimento all’interno del quale alcune classi di diritti possono essere percepite come esigibili e altre no. Nel caso della democrazia, ad esempio, la scelta di utilizzare degli indicatori che misurano solo il riconoscimento dei diritti civili politici e non dei diritti sociali, opera a favore della costruzione di un framework di tipo liberal-democratico, all’interno del quale i diritti sociali sono considerati al più come “diritti secondari”, quando non addirittura semplici servizi sociali erogati soltanto a particolari categorie di utenti (Crouch, 2004).
Sul piano politico, l’adozione di un certo tipo di misurazione della democrazia può produrre almeno tre esiti, che sul piano teorico possono anche verificarsi simultaneamente:
1. giustificare le scelte politiche e/o economiche dei governi;
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2. legittimare le scelte politiche e/o economiche di enti e organizzazioni nazionali e sovranazionali;
3. condizionare le scelte politiche e/o economiche degli Stati nazionali. Il primo caso si verifica quando l’adozione di particolari ratings (pensiamo alle classifiche
della Freedom House), nei quali i vari Paesi vengono classificati come “liberi”, “parzialmente liberi”, “non liberi”, finisce con l’assumere un suo peso specifico almeno in fase di legittimazione a posteriori delle scelte politiche (come nel caso delle “giustificazioni” addotte dal governo degli Stati Uniti alla ricerca di una chiave di legittimità per le proprie iniziative di politica internazionale). In alternativa, si può innescare, ed è il secondo caso, un processo di auto-legittimazione delle politiche economiche e di sviluppo proposte da istituzioni e organizzazioni sovranazionali, quali ad esempio la World Bank, l’ONU o USAID, proprio grazie ai criteri e ai parametri che questi soggetti decidono di includere nelle proprie operazioni di misurazione, valutazione e monitoraggio della democraticità degli Stati. L’ONU, la World Bank, l’OECD (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) e gli altri attori internazionali devono, infatti, basare la propria azione su strumenti di comparazione e indicatori cross-national per effettuare cambiamenti di policy all’interno degli Stati e per legittimare le proprie attività (Brusis, 2006).
In realtà la posta in gioco qui è ancora più alta, perché, dopo aver deliberatamente scelto quali politiche economiche suffragare, queste organizzazioni agiscono condizionando le stesse politiche degli Stati sovrani (terzo caso), etichettandole come non legittime perché non rispondenti ai parametri e ai requisiti da esse stabiliti. Il paradosso a cui si giunge, e che è di fatto l’indizio più schiacciante della crisi del trinomio Stato-democrazia-sovranità, è che un processo di misurazione della democrazia, condotto da un attore internazionale non legittimato democraticamente (pensiamo alla World Bank), va ad incidere sulle scelte politiche ed economiche di Stati sovrani democratici, minandone di fatto l’autonomia democratica. Questi Stati, aderendo alle indicazioni della World Bank e mettendo in atto le linee strategiche da essa vivamente consigliate, rinunciano a parte della propria sovranità in cambio di finanziamenti, aiuti allo sviluppo, legittimazione e riconoscimento internazionale, con ciò garantendo proprio alla World Bank un ruolo centrale a livello internazionale.11 4. La Freedom House come pattern-setter globale della democrazia, ossia la
democrazia è libertà
4.1 I criteri di selezione
L’analisi dei processi di misurazione della democrazia deve partire dalle risposte ad alcune
domande: - chi misura, valuta, monitora? (soggetto della misurazione); - perché lo misura? (obiettivo della misurazione); - cosa misura? (oggetto della misurazione); - come lo misura? (strumento/i della misurazione). Sono domande, come è facile intuire, che riguardano aspetti sia di tipo metodologico che
politico-ideologico. Ogni processo di misurazione comporta infatti delle scelte di natura diversa che il soggetto misuratore deve prendere, scelte relative alle motivazioni, alla definizione dell’oggetto, alla costruzione dello strumento. Nel caso specifico dell’analisi di uno strumento di misurazione della democrazia, è necessario considerare altre due questioni problematiche: la prima è relativa alle caratteristiche del soggetto misuratore, del quale occorre tracciare un profilo (chi è? Come si finanzia? Come opera? Quali fini persegue? Quale impatto produce sul dibattito internazionale?, ecc.), dal momento che il “chi” della misurazione è inscindibile dal “cosa” e dal “come”; la seconda riguarda la valutazione di quali decisioni prende il soggetto che
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si occupa della misurazione. Infatti, se questo processo si riducesse a un mero esercizio accademico e non avesse un significato politico, allora non avrebbe senso. Se la valutazione viene isolata dal processo decisionale perde ogni significato (Munck, 2006). Essa ha senso solo nel momento in cui i risultati prodotti dallo strumento di misurazione hanno degli effetti sul piano politico, o comunque se influenzano in qualche modo la percezione dell’oggetto misurato da parte della collettività sociale. Questo significa che anche se una metodologia di misurazione fosse basata su indicatori considerati sufficientemente oggettivi, attendibili e validi, la sua utilità dipenderebbe in definitiva dai bisogni e dagli obiettivi dei suoi (potenziali) utilizzatori.
Tenendo fede a questo assunto, più che chiedersi quali siano gli strumenti di misurazione metodologicamente più validi e affidabili, nella selezione del caso da analizzare si è operato ponendo in rilievo la dimensione politica dello strumento. Questo significa che, nella fase di selezione, si è fatto riferimento ai seguenti interrogativi-guida:
a) Quali sono gli attori globali che influenzano maggiormente il quadro interpretativo del discorso sulla democrazia oggi?
b) Quale approccio/metodologia questi attori utilizzano per definire la democrazia? c) Se la misurano, con quali strumenti lo fanno, a quali indicatori si affidano? Per rintracciare uno degli attori capaci di imporsi su questo specifico problema come
pattern-setters globali, vale a dire come costruttori di modelli validi per tutto il mondo, si è tenuto conto, come criteri di selezione, di tre caratteristiche dell’attore:
1. la sua (presunta) neutralità; 2. la sua capacità di condizionalità politica; 3. la portata internazionale della sua azione.12 L’applicazione di questi criteri ha consentito di identificare nella Freedom House il
pattern-setter globale della democrazia. 4.2 Il profilo politico-ideologico
Prima di analizzare dettagliatamente le checklist utilizzate dalla Freedom House per
misurare i livelli di democrazia nel mondo, è fondamentale tracciare anche un identikit di questa società. La ricostruzione del profilo storico-politico del soggetto misuratore costituisce, infatti, la prima indispensabile operazione da compiere nella valutazione del suo strumento di misurazione. Come ci ricorda Bollen (1993), le caratteristiche di chi deve giudicare possono condizionare le valutazioni soggettive sulle regole democratiche e le libertà politiche. L’orientamento politico e la nazionalità, il tipo e la qualità delle fonti di informazione alle quali può (o sceglie di) accedere, come pure gli interessi specifici del soggetto che finanzia questo tipo di attività, possono influenzare enormemente l’analisi, producendo una serie di errori sistematici (bias) nella misurazione, come ad esempio un pregiudizio favorevole alle democrazie occidentali, oppure alle democrazie liberali, o ancora la tendenza a sottostimare i valori per i Paesi del mondo islamico, o per quelli dei quali non si dispongono di informazioni sufficienti ed attendibili.
La società americana Freedom House (FH) si definisce come “an independent non-governmental organization that supports the expansion of freedom in the world”.13 Nata nel 1941 dalla fusione di due gruppi formati per rafforzare il sostegno popolare alla partecipazione statunitense alla Seconda Guerra Mondiale, rompendo dunque il fronte isolazionista, essa ha avuto sin dalle origini una duplice convinzione: 1) che la “American leadership in international affairs is essential to the causes of human rights and democracy” e 2) che “the spread of democracy would be the best weapon against totalitarian ideologies”;14 una convinzione concepita come vera e propria “mission […] to expand freedom around the world”.15 Insomma, i tratti distintivi della politica estera americana dell’era Bush erano stati delineati circa
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sessant’anni prima da questa organizzazione indipendente, con una piccola differenza, però: mentre il nemico principale della guerra di Bush è il terrorismo islamico, “Freedom House took up the struggle against the other twentieth century totalitarian threat, Communism”.16 Dalla fine della Guerra Fredda, la missione della Freedom House si è evoluta per far fronte alle nuove sfide; essa ha dunque operato per avere un ruolo più attivo: a) nell’espansione della libertà nelle società sottoposte a regimi dittatoriali e b) nella tematica della libertà religiosa. Dal 1995, grazie alla fusione con il Puebla Institute di una propria divisione autonoma, il Center for Religious Freedom creato nel 1986, essa ha rafforzato la propria incisività sul tema della libertà religiosa; e sebbene dal 2006 questo Centro non faccia più parte della FH, essa tiene comunque a precisare che continuerà “to ensure that religious freedom remains a core part of its analysis, advocacy, and action portfolio”.17 Una libertà religiosa declinata in modo molto particolare. Il Centro, infatti, “insists that U.S. foreign policy defend Christians and Jews, Muslim dissidents and minorities, and other religious minorities in countries such as Indonesia, Pakistan, Nigeria, Iran, and Sudan. It is fighting the imposition of harsh Islamic law in the new Iraq and Afghanistan and opposes blasphemy laws in Muslim countries that suppress more tolerant and pro-American thought”.18
Nel 1997, invece, dalla fusione con la National Forum Foundation, la FH ha rafforzato la propria capacità di condurre progetti e analisi sul campo, in particolare stabilendo delle proprie sedi permanenti nell’Europa dell’Est, ed assistendo i Paesi post-comunisti nella fase di transizione alla democrazia liberale.
Dopo l’11 settembre 2001, essa ha consolidato la propria presenza nei Paesi arabi, in particolare in Medio Oriente e nelle zone dell’Asia Centrale. Insomma, dove muovono gli interessi americani lì muove la Freedom House.
Sebbene dichiari sin dalla fondazione il suo carattere bipartisan, basta scorrere l’elenco dei membri del suo Board of Trustees (Consiglio degli amministratori fiduciari) per rendersi conto che le critiche di filo-conservatorismo non sono poi del tutto infondate: in esso figurano i nomi dell’ex-direttore della CIA R. J. Woolsey19 (dal 2002 al 2004 presidente del comitato esecutivo del Board), di Kenneth L. Adelman, un ex-funzionario dell’amministrazione Reagan, di Jeane J. Kirkpatrick, resident fellow all’American Enterprise Institute (Aei), uno dei bastioni della destra neoconservatrice americana,20 oltre che, assieme a Woolsey, consigliere direttivo di diversi comitati e fondazioni neocons,21 dello scrittore conservatore P. J. O’Rourke, dell’avvocato di destra Ruth Wedgwood, di Zbigniew Brzezinski (fino al 2003) e del teorico dello scontro delle civiltà, Samuel P. Huntington (fino al 2005). Insomma, un parterre
d’eccezione da fare invidia ai migliori think tank conservatori. Anche un’analisi meno centrata sulla dimensione culturale e più attenta invece ai flussi finanziari non conduce a conclusioni diverse. Come è possibile evincere dal grafico della figura 1, negli ultimi anni i finanziamenti della FH sono costantemente aumentati: dai quasi 11 milioni di dollari del 2001 agli oltre 26 milioni del 2006 (+241%). In particolare è da segnalare l’incremento esponenziale dal 2004 (18 milioni totali) al 2005 (quasi 27 milioni totali, +50%), dovuto quasi del tutto al forte incremento delle donazioni federali (da 12 a 20 milioni di dollari, +66%).
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I finanziamenti della Freedom House
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15
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30
2001 2002 2003 2004 2005 2006
Do
llari
(in
mil
ion
i)
Finanziamenti Federali
Finanziamenti totali
Figura 1. I finanziamenti alla Freedom House nel corso degli anni 2001-2006 (nostra elaborazione da: Freedom House, Annual Report, varie annate)
Analizzando più nel dettaglio il quadro delle entrate, nonché l’elenco dei donatori privati,
emergono altri dati interessanti. Innanzitutto, l’incidenza dei finanziamenti del governo americano è preponderante: nel 2006 essi hanno coperto l’80% delle entrate. Il sostegno da parte del governo americano, che è anche il segno più tangibile del livello di autorevolezza acquisito da questa società, si è manifestato non solo con il costante aumento delle donazioni, ma anche attraverso l’esplicito riconoscimento politico che è derivato da una recente visita del presidente Bush alla sede della Freedom House, nel corso della quale egli ha pubblicamente ringraziato i membri della organizzazione per il lavoro svolto, dicendo loro: “You’re making a significant contribution to the security of our country”.22 Del resto, la stessa FH sottolinea come i suoi rappresentanti siano spesso convocati in qualità di esperti davanti al Congresso americano, fornendo inoltre “briefings to Congress, the State Department, and other agencies”. Per quanto riguarda gli investitori privati, tra coloro che hanno elargito le donazioni maggiori figurano la Bradley Foundation e la Smith Richardson Foundation, grandi finanziatrici di vari think tanks conservatori, oltre al National Endowment for Democracy e all’Open Society Institute di George Soros.
Dopo aver tracciato a grandi linee il retroterra economico e culturale della FH, per capire dove e come si intrecciano i flussi di idee e di denaro, conviene adesso provare a fare una panoramica dei fruitori delle sue pubblicazioni, in particolar modo del Freedom in the World, il report annuale pubblicato per la prima volta nel 1973 da Raymond Gastil ed aggiornato annualmente dal team di esperti della società, nel quale i vari Paesi del mondo vengono classificati sulla base del loro livello interno di libertà politica e civile. Questa panoramica può infatti essere utile a spiegare perché oggi, in questo campo, la Freedom House sia la voce più citata, autorevole ed ascoltata, il vero pattern-setter globale della democrazia.
La funzione di advocacy nella mobilitazione di forze governative e non-governative per la promozione e la diffusione della libertà, a cui si richiama la FH, ha sortito i suoi effetti attraverso una serie di iniziative globali. Tra di esse va segnalata l’iniziativa governativa americana denominata Millennium Challenge Account (MCA), un programma avviato nel 2003, che promette aiuti economici ai Paesi che dimostrano di voler intraprendere la via verso la democrazia e il libero mercato. In particolare, il programma si propone di finanziare progetti per quei Paesi che “govern justly, invest in their people, and encourage economic freedom”.23 Il monitoraggio dei Paesi eligibili viene effettuato attraverso una serie di indicatori
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di performance, alcuni dei quali assumono come fonte proprio la FH. In particolare, viene stabilito di favorire quegli indicatori (vedi tabella 2) che: “(1) are developed by an independent third party, (2) utilize objective and high-quality data, (3) are analytically rigorous and publicly available, (4) have broad country-coverage and are comparable across countries”.24 Tutti requisiti, dunque, che a detta degli esperti nominati dal governo americano, sono propri delle fonti da cui essi ricavano gli indicatori per l’iniziativa MCA. Si tratta di assunti che, nel caso della FH, sono piuttosto discutibili, sia per quanto riguarda il punto 1 (requisito di indipendenza di una fonte terza), come si è potuto constatare dalla descrizione analitica testé fatta di questa organizzazione, sia per quel che attiene ai punti 2 e 3, come si avrà modo di approfondire in seguito analizzando la sua metodologia di misurazione della democrazia.
Dimensione Indicatore Fonte Civil Liberties Freedom House Political Rights Freedom House Voice and Accountability World Bank Institute Government Effectiveness World Bank Institute Rule of Law World Bank Institute
Governing justly
Control of Corruption World Bank Institute Total Public Expenditure on Primary Education
UNESCO/national sources
Girls’ Primary Education Completion Rate
UNESCO
Total Public Expenditures on Health
The World Health Organization
Investing in
People
Immunization The World Health Organization
Cost of Starting a Business World Bank Inflation IMF Fiscal Policy IMF/national sources Trade Policy Heritage Foundation Regulatory Quality World Bank Institute
Encouraging
Economic
Freedom
Days to Start a Business World Bank Tabella 1. Gli indicatori di performance del Millennium Challenge Account (MCA) con le rispettive fonti.25
Come si vede dalla tabella 1, il nome della Freedom House compare quale fonte autorevole al fianco di quelli della World Bank, del Fondo Monetario Internazionale (IMF), dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’Unesco, nonché di quello di una influente organizzazione neoconservatrice, l’Heritage Foundation. L’autorevolezza della fonte è stabilita dal governo americano, il quale trae legittimazione e credibilità nella sua azione di politica estera appellandosi proprio ad una fonte giudicata terza e indipendente. La FH, dal canto suo, vede rafforzarsi questa sua immagine di autorevolezza, indipendenza e credibilità sul piano internazionale proprio grazie al riconoscimento che gli viene da un soggetto politico così autorevole.
Anche l’agenzia governativa indipendente USAID, che lavora per uno sviluppo economico equo e per realizzare gli obiettivi di politica estera americana,26 sostenendo la crescita economica, l’agricoltura, il commercio, la salute globale e la democrazia e fornendo assistenza umanitaria, utilizza gli indici della FH per valutare i progressi nella democratizzazione dei Paesi verso i quali essa destina i suoi aiuti27 (Finkel et al., 2006).
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In un classico effetto di rimbalzo, per cui l’autorevolezza di una fonte istituzionale rende a sua volta istituzionali e credibili le fonti a cui essa si richiama, anche i mezzi di informazione finiscono per utilizzare indiscriminatamente e in maniera acritica l’indice della FH. È il caso, ad esempio, del Washington Post, che utilizza i report della Freedom House per contestualizzare la retorica politica dell’amministrazione Bush sulla democratizzazione del Medio Oriente28 o, in Italia, di riviste specializzate come Limes.29 Ma l’autorevolezza e la notorietà della Freedom House penetrano il senso comune soprattutto attraverso siti web e spettacoli televisivi d’impatto per il grande pubblico: per l’Italia su tutti, sempre a titolo esemplificativo, il blog del comico Beppe Grillo,30 uno dei siti web più visitati al mondo, e lo spettacolo televisivo Rockpolitik, condotto da Adriano Celentano e andato in onda sulle reti Rai nell’autunno 2005. E proprio gli ultimi due esempi citati, che fanno riferimento a personaggi non proprio collocati su posizioni conservatrici o moderate, non fanno altro che confermare il fatto che gli indici della Freedom House si sono ormai collocati al di là di ogni possibile critica politica, metodologica e ideologica, per essere utilizzati indistintamente da tutti come il metro di misurazione delle democrazie.
Anche in sede accademica, nonostante le notevoli critiche sul piano metodologico, l’indice viene utilizzato da numerosi autori. Una rapida rassegna, tutt’altro che esaustiva, comprende tra gli altri, J. Acuña-Alfaro, J. Bacher, R. Barro, R. Burkhart e M. Lewis-Beck, R. Duràn, M. S. Fish e M. Kroenig, J. Foweraker e R. Krznaric, W. Frisch, S. Goldberg, D. Grassi, A. Hadenius e J. Teorell, S. P. Huntington, R. Inglehart, S. Knack, T. Landman, W. Merkel e A. Croissant, A. Mungiu-Pippidi, E. Neumayer, H. O. Sano e L. Lindholt.31 Un aspetto rilevante è che gli autori citati si occupano di tematiche piuttosto diversificate, spesso non direttamente legate al problema specifico della misurazione della democrazia: dai cambiamenti della cultura politica ai processi di democratizzazione, dallo sviluppo economico al ruolo degli attori sovranazionali, dai processi di allargamento dell’Unione Europea al ruolo della condizionalità politica, dalla tutela dei diritti umani alla funzione delle organizzazioni di aiuto governative e non. In tutti questi studi l’indice della Freedom House viene presentato come una condizione di fondo, un dato di fatto su cui argomentare e articolare discorsi, effettuare ricerche, suffragare ipotesi interpretative.
L’autorevolezza della FH riceve comunque il suo suggello dall’utilizzo che dei suoi indici e dei suoi ratings fanno l’ONU (UNDP, 2002 e 2004) e la Banca Mondiale (Kaufmann, Kraay e Mastruzzi, 2006; Pritchett e Kaufmann, 1998; Gradstein e Milanovic, 2002). Infatti, in uno dei report annuali prodotti dal principale organismo di sviluppo delle Nazioni Unite, lo United Nations Development Programme (UNDP), specificamente dedicato al tema della democrazia, (UNDP, 2002) dopo aver solennemente affermato che “for politics and political institutions to promote human development and safeguard the freedom and dignity of all people, democracy must widen and deepen”, (Idem: 1) è possibile rintracciare, nella appendice metodologica al primo capitolo, una descrizione diversa della democrazia. Questa costituisce un indicatore soggettivo della governance e viene misurata prendendo in esame 5 indicatori più specifici (Idem: 37 e segg.):
1. Polity score (fonte: Polity IV), 2. Civil liberties (fonte: Freedom House), 3. Political rights (fonte: Freedom House), 4. Press freedom (fonte: Freedom House), 5. Voice and accountability (fonte: World Bank).
Il riferimento alle tre fonti, tutte più o meno esplicitamente americane, è diretto e argomentato. Il modello di democrazia racchiuso negli indicatori utilizzati (3 su 5 sono della FH) è facilmente intuibile: grande attenzione ai diritti politici e alle libertà civili, in particolare alla libertà dei media; focalizzazione sulla dimensione istituzionale del processo democratico e sulla capacità di selezione dei rappresentanti politici.
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Allo stesso modo la World Bank inserisce le scale della Freedom House tra le fonti privilegiate per la costruzione del suo strumento di misurazione della good governance (Kaufmann, Kraay e Mastruzzi, 2006).
Onu e World Bank, dunque, elaborano strategie, piani di azione e metodologie basandosi, per la rilevazione di alcune informazioni sullo stato di democraticità dei paesi oggetto delle stesse, sugli indici elaborati dalla FH. La funzione di pattern-setter globale è pertanto pienamente delineata. Occorre adesso addentrarsi più nello specifico nell’analisi della metodologia che questa organizzazione americana utilizza per misurare lo stato della democrazia nel mondo, per capire su cosa si fonda oggi il discorso internazionale sulla democrazia. 4.3 Il profilo metodologico
L’indice della FH fu lanciato per la prima volta da Raymond Gastil dell’University of
Washington di Seattle nel 1973. Per quasi venti anni Gastil ha praticamente lavorato da solo alla composizione del report annuale contenente la graduatoria del livello di libertà dei vari Paesi: soltanto dagli anni novanta è stato creato un team di esperti che lo ha prima affiancato e poi sostituito nel lavoro. L’obiettivo iniziale di Gastil era produrre una discussione sulla variazione dei livelli di libertà nel mondo. Col passare degli anni, però, nonostante nella comparazione continuasse ad essere utilizzata la parola libertà, “its author understood that the survey was essentially a survey of democracy” (Gastil, 1990: 26). Una misurazione della libertà si è dunque naturalmente trasformata in una misurazione della democrazia, mantenendo però inalterate le caratteristiche metodologiche di misurazione: ciò significa che, se dal punto di vista del suo autore libertà e democrazia sono sinonimi, concetti interscambiabili, altrettanto deve avvenire per gli utilizzatori dell’indice.
Come viene misurata la libertà/democrazia dalla Freedom House? Essenzialmente attraverso la creazione di liste di controllo (checklists) per l’analisi di due dimensioni: quella dei diritti politici e quella delle libertà civili. Per ciascuna di esse è stata costruita una scala a sette punti (1-7), creando poi una graduatoria dello status di libertà dei diversi Paesi: più i punteggi ottenuti sulle due scale sono bassi, più un Paese è considerato democratico. Per scopi euristici, legati soprattutto alla necessità di stampare delle mappe sulla diffusione della libertà nel mondo (le famose “Maps of Freedom”), all’interno di questa graduatoria è stata poi creata una ulteriore suddivisione basata sullo status di libertà dei vari Paesi, suddividendoli in “liberi”, “non liberi” e “parzialmente liberi” in base ai punteggi ottenuti (vedi tabella 2).
Questa suddivisione iniziale creava però non pochi problemi. Lo stesso Gastil non aveva infatti forti argomenti per giustificare perché ad esempio un Paese con un punteggio 2-3 (2 per i diritti politici, 3 per le libertà civili) dovesse essere considerato “libero”, mentre uno con un punteggio 3-2 solo “parzialmente libero”. Egli poteva dire che “the author had a picture in his mind” (Ibidem), con ciò però negando di fatto la possibilità per chiunque altro di replicare la misurazione ottenendo i medesimi risultati. Mancava uno dei presupposti metodologici di fondo: la possibilità da parte della comunità degli studiosi di disporre di informazioni dettagliate sulle regole di codifica.
Per ovviare a questa insufficienza, oggi si preferisce ricorrere ad una media combinata dei risultati ottenuti sulle due scale, che suddivide i Paesi come illustrato nella tabella 3.
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Diritti
politici
Libertà
civili Status di libertà
1 1 Libero 1 2 Libero 2 1 Libero 2 2 Libero 2 3 Libero 3 2 Parzialmente libero 3 3 Parzialmente libero 3 4 Parzialmente libero 4 3 Parzialmente libero 4 4 Parzialmente libero 4 5 Parzialmente libero 5 4 Parzialmente libero 5 5 Parzialmente libero 5 6 Parzialmente libero 6 5 Parzialmente libero 6 6 Non libero 6 7 Non libero 7 6 Non libero 7 7 Non libero
Tabella 2. Status di libertà di un Paese in base ai punteggi ottenuti sulle scale dei diritti politici e delle libertà civili (Fonte: nostra elaborazione da Gastil, 1990).
Media combinata dei
punteggi
dei diritti politici e delle
libertà civili
Status di libertà di un Paese
1.0 - 2.5 Libero
3.0 - 5.0 Parzialmente libero
5.5 - 7.0 Non libero
Tabella 3. Status di libertà di un Paese sulla base della media dei punteggi ottenuti sulle due scale dei diritti politici e delle libertà civili (Fonte: www.freedomhouse.org).
La scelta di utilizzare una media combinata è in parte giustificata dal fatto che le due scale
sono altamente correlate nei punteggi, per cui non è dato, ad esempio, di trovare Paesi con un punteggio alto nei diritti politici e uno basso nelle libertà civili (Banks, 1986).32 Per arrivare a definire i singoli indici, il team di esperti della Freedom House dispone di una checklist per ciascuna delle due dimensioni da analizzare. A ciascuna delle domande gli esperti devono dare una risposta in forma numerica da 0 (che significa che il diritto o la libertà sotto indagine è presente nel grado minimo) a 4 (che rappresenta invece la presenza al massimo grado del diritto o della libertà in questione). Dal momento che attualmente le domande per i diritti politici sono 10 e quelle per le libertà civili 15, i punteggi massimi ottenibili sono rispettivamente 40 e 60. Questi punteggi “grezzi”, “non elaborati” (“raw points”), vengono poi trasformati nell’indice numerico della scala secondo la seguente tabella di conversione:33
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Political Rights
(PR)
Total Raw Points
PR Rating Civil Liberties
(CL)
Total Raw Points
CL Rating
36-40 1 53-60 1
30-35 2 44-52 2
24-29 3 34-43 3
18-23 4 26-34 4
12-17 5 17-25 5
6-11 6 8-16 6
0-5 7 0-7 7
Tabella 4. Conversione dei punteggi grezzi ottenuti per i diritti politici e le libertà civili nei rispettivi indici delle scale (Fonte: www.freedomhouse.org)
Ma chi è che, praticamente, arriva a definire questi punteggi? Su questo punto, si può
senz’altro affermare che, da quindici anni a questa parte, il processo di elaborazione del report annuale ha raggiunto un certo grado di standardizzazione procedurale, realizzandosi secondo uno schema piuttosto consolidato. Al nucleo di ricerca centrale, di stanza a New York e composto da 8 membri della Freedom House, si affiancano mediamente 20-25 scrittori consulenti (“consultant writers”) esterni e 13 consulenti di alto profilo accademico (“senior-level academic advisors”). Il primo di questi due gruppi, utilizzando fonti diverse (“foreign and domestic news reports, academic analyses, nongovernmental organizations, think tanks, individual professional contacts, and visits to the region”)34 elabora un report per ciascun Paese e fa la sua proposta di rating per entrambe le scale. I ratings vengono poi riesaminati e riprocessati attraverso sei meeting regionali (le aree di suddivisione sono: Africa Sub-Sahariana, Asia-Pacifico, Europa Centro-Orientale ed ex Unione Sovietica, Medio Oriente e Nord Africa, America Latina e Caraibi, e Europa Occidentale) che coinvolgono gli scrittori e i consulenti accademici con dichiarate competenze sulla regione. Si procede poi, soprattutto per i ratings che hanno subito una modifica rispetto all’anno precedente, ad un’ulteriore discussione e approfondimento, oltre che a una valutazione cross-regional per fare in modo che i risultati ottenuti siano coerenti e comparabili. Da notare che tutti i soggetti appartenenti ai tre gruppi elencati (gli otto membri della Freedom House, gli scrittori esterni e i consulenti accademici) sono statunitensi, o comunque operano attivamente in centri di ricerca, istituti o università degli Stati Uniti: con ciò ponendo un serio problema di etnocentrismo nella valutazione che essi fanno del livello di libertà di Paesi distanti non solo geograficamente, ma soprattutto politicamente, culturalmente e linguisticamente dal modello americano. 35
Del resto, su questo punto la Freedom House è chiara. Pur sostenendo che essa “does not maintain a culture-bound view of freedom”,36 perché – asserisce – gli standard su cui si basa la sua metodologia si rifanno fondamentalmente ai diritti proclamati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dell’ONU,37 e dunque sono applicabili a tutti i Paesi indipendentemente da fattori economici, sociali, religiosi o etnici, essa abbraccia la causa della libertà declinata in chiave americana ed opera “from the assumption that freedom for all peoples is best achieved in liberal democratic societies”.38 Una libertà concepita essenzialmente come un requisito individuale (“freedom as experienced by individuals”) e definita come “the opportunity to act spontaneously in a variety of fields outside the control of the government and other centers of potential domination”.39 Quali caratteristiche hanno le “liberal democratic societies” a cui si richiama la Freedom House? Essenzialmente esse aggiungono una sostanziale gamma (“substantial array”) di libertà civili ai requisiti propri di una “democrazia elettorale”, che nella definizione della FH comprende: 1) un sistema politico multipartitico competitivo, 2) il suffragio universale per tutti i cittadini adulti, 3) elezioni regolari, segrete, competitive e ricorrenti, 4) un accesso pubblico significativo per i maggiori partiti politici verso l’elettorato, sia attraverso i media che tramite campagne politiche.
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Ci troviamo di fronte a una definizione perfino più ristretta di quella usata da Dahl per il concetto di poliarchia. Il criterio minimo richiesto dalla FH per classificare uno Stato come “democratico”, quello di essere appunto una “democrazia elettorale”, se da un lato è la base delle sue statistiche di successo, dall’altro è assolutamente insoddisfacente sul piano teorico e normativo. Infatti, “electoral democracy merely entails that the election of the ruling elite be based on the formal, universal right to vote, such that elections are general, free and regular. In general, fair and correct execution of elections is difficult to determine empirically. Although these factors are highly disputed in many of the electoral democracies, Freedom House does not take this problem into account in its large country sample” (Merkel, 2004: 34).
Nella prospettiva della FH, “political rights enable people to participate freely in the political process, including through the right to vote, compete for public office, and elect representatives who have a decisive impact on public policies and are accountable to the electorate. Civil liberties allow for the freedoms of expression and belief, associational and organizational rights, rule of law, and personal autonomy without interference from the state”.40 Si tratta di definizioni che attengono a un aspetto formale-procedurale della democrazia e che concepiscono la libertà prettamente in senso negativo (come libertà da) guardando con occhio critico qualsiasi forma di interferenza o intervento statale.
Dopo aver analizzato la doppia dimensione, procedurale e concettuale, entro cui si colloca il discorso della Freedom House, è giunto il momento di entrare in quello che, a mio avviso, costituisce il cuore del problema: vale a dire le più volte citate “liste di controllo”. È infatti dalle domande contenute in queste liste che poi scaturiscono i diversi punteggi, che a loro volta incidono sull’assegnazione a ciascun Paese di un indice e di una etichetta (“libero”, “non libero”, “parzialmente libero”) specifici. Pertanto è il caso di analizzare queste liste, sia sul piano diacronico, per vedere se e come cambiano nel corso del tempo, sia su quello più strettamente contenutistico, per verificare quali valori e quali dimensioni vi soggiacciono e, da ciò, tentare di ricostruire il modello di democrazia immaginato dalla Freedom House. 5. Le “liste di controllo” della democrazia
5.1 Il quadro descrittivo
Partiamo dalle origini, ossia dalle checklist elaborate da Gastil. Come egli stesso afferma, le categorie in esse contenute non sono state ideate partendo dalla teoria democratica, quanto piuttosto dall’esperienza e dai dati che erano disponibili. “The categories are developed not so much out of any theoretical understanding of democracy as from the experience that these were headings under which information relevant to the rating system has most often been available” (Gastil, 1990: 30). Una prospettiva di analisi, questa, completamente diversa ad esempio da quella che propone l’IDEA, che invece parte dalle fondamenta teoriche della democrazia per poi calarsi nella realtà empirica della loro realizzazione. Ma c’è di più: lo stesso Gastil confessa, potendogli essere riconosciuta come parziale giustificazione la circostanza di aver elaborato per quasi venti anni i ratings da solo, che uno dei criteri principali di selezione delle categorie fondamentali su cui costruire poi le liste di controllo era la disponibilità dei dati. Con ciò incorrendo in uno dei problemi metodologici (ma anche politico-ideologici) più spinosi: quello della data-driven research, vale a dire della ricerca guidata dai dati disponibili al ricercatore.
Le liste create da Gastil sono rimaste più o meno immutate fino a quando egli si è occupato in prima persona dell’elaborazione dei ratings: le poche modifiche subite sono state di tipo incrementale e per lo più legate alla disponibilità delle informazioni, non intaccando l’impianto metodologico di fondo su cui erano basate. Inoltre, occorre ancora evidenziare che, mentre nella versione ultima della Freedom House l’analista deve attribuire, come risposta a
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ciascuna domanda delle liste, un punteggio numerico (da 0 a 4), Gastil rifiutava risolutamente questa soluzione: “the deeper reason for avoiding numerical grading of subfactors is that every aspect we might wish to grade has a slightly different meaning within different countries” (Idem: 31). Nella sua analisi, dunque, egli preferiva dare conto delle variabili contestuali, politico-culturali, affidandosi principalmente alla soggettività, alla sensibilità e, in negativo, all’arbitrarietà del ricercatore. Quando la gestione del report annuale è stata affidata ad un team di esperti, naturalmente questa impostazione è stata modificata: per arginare la deriva
soggettivistica di ciascun analista sono stati definiti dei criteri più oggettivi, sintetizzati in un dato numerico. Ma, come avremo modo di constatare, l’impianto di fondo delle checklist create da Gastil, pur nelle modificazioni in alcuni casi anche sostanziali che ha subito, si è mantenuto intatto nella sua strutturazione logica. Pertanto le misurazioni odierne continuano a fondarsi sullo schema logico con cui Gastil, con scarsità di risorse tecniche, umane e finanziarie, ideò negli anni ’70 le sue checklist.
Per effettuare l’analisi ho fotografato le liste della FH in momenti differenti: 1990, anno in cui era ancora Gastil ad elaborare il report; 1993, anno in cui il report era già affidato ad un team di esperti; 2002 e 2003, gli anni immediatamente successivi agli attentati dell’11 settembre e gli anni 2005 e 2006, i più recenti nei quali si siano registrati dei cambiamenti. Per consentire una maggiore facilità di confronto, ho effettuato una serie di operazioni: dopo aver messo in colonna le liste per ciascuno degli anni indicati, ho affiancato gli item simili, mantenendo però al fianco di ciascuno di essi la numerazione originale di collocazione dell’item nella lista. In alcuni casi inoltre, quando ad esempio un item veniva sdoppiato nelle versioni successive in due domande, è stato necessario affiancare entrambe queste ultime all’item originario. Infine, sempre ai fini di una migliore fruibilità della comparazione, ho utilizzato quattro diversi colori per indicare rispettivamente: 1) gli item o parti di item eliminati nelle liste successive (colore rosso); 2) gli item modificati rispetto all’anno di riferimento precedente (giallo);41 3) gli item nuovi rispetto all’anno di riferimento precedente (verde); 4) gli item da me collocati, per una migliore fruibilità di lettura, in una posizione diversa rispetto a quella originaria (fucsia).
Un sguardo panoramico ad entrambe le checklist consente in via preliminare alcune considerazioni generali: il numero delle domande è rimasto più o meno immutato nel corso del tempo (11-10-10-12-12-1242 per i diritti politici e 14-13-14-15-15-15 per le libertà civili); la strutturazione delle liste è stata dapprima trasformata in una serie di interrogativi (1993) e poi ciascuna di esse suddivisa in sottogruppi tematici più specifici; per i diritti politici: a) processo elettorale, b) pluralismo politico e partecipazione, c) funzionamento del governo; per le libertà civili: d) libertà di pensiero e di espressione, e) diritti di associazione e di organizzazione, f) rule of law, g) autonomia personale e diritti individuali. Nella checklist dei diritti politici del 1993 possiamo inoltre notare l’aggiunta di due domande discrezionali sul livello di libertà politica nelle monarchie tradizionali e sul rispetto delle minoranze etniche e dei diversi gruppi sociali.
Affinché venga confermata l’ipotesi da cui siamo partiti, vale a dire che il neoliberismo ha condizionato gli strumenti di misurazione della democrazia, dovrebbero essere rintracciabili nelle checklist della FH una serie di elementi e di trend:
1. Centralità della dimensione valoriale della libertà; 2. Centralità dei diritti civili e politici a discapito di quelli socioeconomici; 3. Declinazione della libertà soprattutto in termini negativi (libertà da), in particolar modo
rispetto all’intervento statale, e come tutela dell’individuo (piuttosto che della società), soprattutto sul mercato (proprietà privata e libertà d’impresa rispetto ai poteri pubblici);
4. Tensione verso il riconoscimento formale piuttosto che sostanziale dei diritti; 5. Progressiva scomparsa o comunque scarsa rilevanza della dimensione dell’eguaglianza.
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Per quanto riguarda i primi due punti, essi sono già individuabili nell’impostazione teorica generale dello strumento, che nasce come “misuratore della libertà” e si propone di valutare lo stato dei diritti politici e delle libertà civili nel mondo (per i quali costruisce appositamente le due checklist). È interessante però notare, dall’analisi specifica delle liste, come nel corso del tempo questa centralità si sia non solo accentuata, ma sia stata sempre più associata al declino delle altre dimensioni della democrazia.
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- 22 -
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5.2 Il quadro analitico
Soffermandoci più specificamente sulla lista di controllo dei diritti politici, per quanto riguarda gli item del “processo elettorale” (“Electoral Process”), essi sono rimasti sostanzialmente immutati rispetto alla formulazione di Gastil, a parte il quesito n. 343 che nel 2006 ha subito una sorta di semplificazione e dunque risulta meno specifico, e il n. 4 di Gastil, riguardante il giusto riflesso (“fair reflection”) delle preferenze del votante sulla distribuzione del potere, che è stato cancellato nella versione del 1993, riproposto modificato nel 2002 e nuovamente cancellato nel 2003.
La sezione “pluralismo politico e partecipazione” (“Political Pluralism and Participation”), rimasta essenzialmente immutata sia nel numero di domande (4) che nel contenuto, ha subito però alcune cancellazioni importanti. Nella domanda n. 5 si è passati dalla verifica di un diritto sostanziale (anno 1993: “le persone si organizzano liberamente in differenti partiti politici…”) alla verifica di un diritto formale (anno 2002: “le persone hanno il diritto di
organizzarsi in differenti partiti politici…”); nella domanda n. 6 l’espressione “potere di opposizione de facto” è stata cancellata dal 2006; nella domanda n. 7 scompare il riferimento al diritto di autodeterminazione dei Paesi, mentre “la libertà dei cittadini” (1993) diviene “libertà del popolo” (2002) e poi “libere scelte politiche del popolo” (2003); la domanda n. 8 subisce nel 2006 una semplificazione: cade ogni riferimento al diritto all’autodeterminazione e all’autogoverno di gruppi etnici, culturali e religiosi, per i quali invece si parla più genericamente di “pieni diritti politici e opportunità elettorali”.
La sezione “funzionamento del governo” (“Functioning of Government”) è quella che ha subito le maggiori modifiche nel corso del tempo. Viene cancellato l’item di Gastil relativo a “recenti avvicendamenti al potere attraverso elezioni”, come pure, nella versione 2002, l’item concernente il decentramento del potere; al loro posto sono stati inseriti tre nuovi item: 1) sul potere decisionale dei rappresentanti eletti, 2) sull’assenza di corruzione governativa, 3) sull’accountability elettorale, l’apertura e la trasparenza governativa. Da sottolineare che fino al 2002 l’assenza di corruzione governativa ha fatto parte delle libertà civili: dal 2003 è diventata un indicatore dei diritti politici.
Infine, rispetto alla struttura originaria elaborata da Gastil, sono state aggiunte due nuove domande discrezionali, che vanno riferite a casi specifici.
Da questa analisi è possibile tracciare un trend nella composizione della lista di controllo dei diritti politici orientato a una progressiva semplificazione e generalizzazione di alcune questioni (item 3 e 8), alla eliminazione di problematiche rilevanti ma forse controverse (item 4 e 6 di Gastil e 7 e 9), a una definizione dei diritti politici sempre più caratterizzata dalla verifica della loro presenza formale più che sostanziale (item 5) e a una maggiore enfatizzazione di aspetti procedurali della democrazia (item 1, 2 e 3 del 2005 relativi al funzionamento del governo).
Per quanto riguarda la lista di controllo sulle libertà civili, mentre l’item sulla libertà e l’indipendenza dei media è rimasto praticamente inalterato (n. 1), se si eccettua la soppressione del riferimento alla libertà letteraria (presente nel 1993), quello sulla libertà religiosa ha subito nel 2006 una modifica apparentemente lieve, ma dalle ripercussioni invece rilevanti. Se fino al 2005 si faceva riferimento, oltre che alla libertà delle istituzioni religiose, alla “libera espressione religiosa pubblica e privata” (“is there free private and public religious expression?”), dall’anno successivo si introducono le “comunità religiose” come soggetto di questa libera espressione pubblica e privata, declinando dunque esplicitamente la libertà di religione come diritto di una comunità piuttosto che come diritto individuale.
Dal 2002, l’item n. 2 (presenza di una libera discussione pubblica e privata) viene scisso in due parti: il riferimento alla “discussione privata libera e aperta” (“is there open…free private discussion?”) viene inserito nella sezione “Personal Autonomy and Economic Rights”, mentre la parte dell’item relativa alla “discussione pubblica” viene collocata (n. 1, 2002) tra i “Diritti di associazione e di organizzazione” (“Association and Organizational Rights”). Dal 2003 poi, il riferimento alla “discussione privata libera e aperta” viene riposizionato nella sezione “Freedom of Expression and Belief”. Nella checklist del 2003 si introduce una domanda sulla libertà accademica e, più in generale, del sistema educativo rispetto a un “indottrinamento
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politico estensivo” (“extensive political indoctrination”). La declinazione della libertà è anche in questo caso fatta in negativo, come libertà da piuttosto che come libertà di. Il criterio di regolazione di fondo della lista di controllo sembra essere quello di limitare l’intromissione, l’interferenza e il controllo del potere pubblico (statale, governativo) nelle libertà dei privati (cittadini, organizzazioni, imprese).
Il tema dell’indottrinamento statale ritorna nella sezione denominata “Autonomia personale e diritti individuali” (fino al 2002 “Autonomia personale e diritti economici”). Nel 2003 esso è presente nell’item n. 1 di questa sezione (“Is there freedom from indoctrination and excessive dependency on the state?”), mentre viene cancellato nel 2006. Stessa sorte per l’autonomia personale: presente fino al 2005 (“Is there personal autonomy?”), cancellata nel 2006 (tra l’altro in una sezione che ha come titolo proprio “Autonomia personale”). Sempre all’interno di questa sezione, alla presenza di “imprese e cooperative libere” (n. 9) si sostituisce, nella lista del 2002, il diritto individuale alla proprietà e alla libera impresa privata: scompare ogni riferimento alle cooperative, mentre ancora una volta si aggiunge un limite all’indebita (“unduly”) influenza di governo, forze di sicurezza, crimine organizzato e, dal 2006, di organizzazioni e partiti politici nella attività dell’impresa privata. Nello specifico, la tutela del “diritto di proprietà”, che sembra essere dato per scontato nel 2002 (dove si chiede se “i diritti di proprietà sono sicuri?”), diventa più esplicita dal 2003 (“I cittadini hanno diritto a detenere proprietà?”). Da notare, per inciso, che non si fa alcuna distinzione tra gli attori che potenzialmente sono in grado di influenzare negativamente l’impresa privata: che siano rappresentanti democraticamente eletti o esponenti del crimine organizzato, secondo questo indicatore non vi è differenza alcuna. Il principio regolatore, in questo caso, è la tutela della libera impresa privata. A conferma di ciò vi è la cancellazione dell’item n. 13 di Gastil relativo alla “libertà da evidenti diseguaglianze socioeconomiche”: un requisito, quest’ultimo, riconducibile ad una dimensione sostantiva della democrazia che andrebbe di fatto ad incidere negativamente sul principio della libera impresa governata solo dalle leggi del mercato. Sono invece stati mantenuti, anche se con molte semplificazioni, sia l’item relativo alle libertà personali sociali (“personal social freedoms”), come l’eguaglianza di genere (n. 11), che quello inerente l’eguaglianza di opportunità collegata all’assenza di sfruttamento economico (n. 12).
Per quanto riguarda la sezione sui “Diritti di associazione e di organizzazione”, bisogna menzionare la modificazione dell’item sulla libertà delle organizzazioni politiche o quasi-politiche (n. 2, 2005), che nel 2006 viene riferito alle organizzazioni non governative: l’attenzione si sposta dunque dai partiti politici alle fondazioni e ai gruppi di interesse, dalla tutela di organizzazioni pubbliche o quasi-pubbliche a quella di gruppi di interesse privati. Dal 2003 (n. 3) viene inserito un riferimento alla presenza di contrattazioni collettive efficaci.
Infine, la sezione denominata dapprima “Rule of Law and Human Rights” (2002) e poi semplicemente “Rule of Law” (2003) intende indagare sul generale rispetto del principio di legalità, dell’indipendenza del giudiziario e dell’eguaglianza dinanzi alla legge. Questa eguaglianza è dapprima riferita ai “cittadini” (“citizens”) (n. 5, 1993), poi alla “popolazione” (“population”) (2002, 2003 e 2005), quindi ai “vari segmenti di popolazione” (“various segments of the population”) (2006). Dal 2002 si introduce, inoltre, un principio generale di dominio della rule of law e di controllo dei civili sulle forze di polizia. Molto interessante è anche la continua modifica della domanda n. 6 relativa alla protezione “dal terrore politico ingiustificato” (“unjustified political terror”, versione del 1993), che diventa protezione dal “terrore politico” (“political terror”, 2002), “terrore di polizia” (“police terror”, 2003 e 2005), per poi tramutarsi ancora in protezione dal “terrore politico” (“political terror”, 2006).
5.3 Neoliberismo e Freedom House: un quadro di sintesi
Dalla comparazione diacronica delle due liste dei diritti politici e delle libertà civili emerge
la possibilità di una duplice chiave di lettura: da un lato, una sostanziale continuità e persistenza della struttura delle due checklist, rimaste grosso modo immutate nel corso di oltre trent’anni; dall’altro, tratti di discontinuità tendenti ad accentuare e a delimitare il campo di azione dello strumento ad aspetti di natura formale-procedurale, spesso semplificando questioni problematiche complesse con formulazioni di domande piuttosto
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generiche, e soprattutto enfatizzando la tutela della libertà privata e di impresa rispetto al ruolo delle istituzioni pubbliche. I cambiamenti vengono giustificati dalla Freedom House con la duplice necessità di “riscrivere” alcune domande per renderle più chiare e di riadattarle alle idee in evoluzione sui diritti politici e le libertà civili.44 Probabilmente è proprio per far fronte alle difficoltà che questa generalizzazione ha procurato allo stesso team di esperti nel processo di valutazione che dal 2006 sono state inserite per ciascun item delle domande più specifiche che fungono da linee-guida per il valutatore.45
Per quanto riguarda la verifica degli elementi e dei trend in qualche modo riconducibili alla impostazione ideologica neoliberista, è possibile evidenziare quanto segue:
1. Quello della FH si configura come uno strumento di misurazione della libertà; la libertà, per la FH, è del tutto equivalente alla democrazia.
2. La libertà viene declinata quasi sempre in negativo, con riferimento soprattutto al ruolo dello Stato, accusato di intervento indebito, di indottrinamento, e equiparato addirittura alle organizzazioni criminali quale ostacolo alle attività economiche private (n. 1G e 2G, 2005); inoltre, la tutela della libertà di quelle associazioni pubbliche o quasi pubbliche che sono i partiti politici viene sostituita dalla tutela delle fondazioni e dei gruppi di interesse; i partiti, dal 2006, fanno parte di quei fattori che ostacolano l’impresa privata (2G, 2006).
3. La libertà dell’individuo è declinata in chiave distorta: scompare dal 2005 il riferimento all’autonomia personale, come pure il diritto alla libertà religiosa, individuale fino al 2005, diventa comunitario dal 2006; l’individuo è soprattutto libero di intraprendere l’iniziativa economica. Su questo fronte, infatti, la tendenza è contraria, con la cancellazione del riferimento alle cooperative (dal 2002) e la forte tutela della libera iniziativa economica privata e del diritto di proprietà.
4. I diritti socioeconomici, alla base della dimensione sostanziale dell’eguaglianza, sono presenti solo nella versione originaria di Gastil (n. 13 LC); ricompaiono almeno in parte come sezione nel 2002 (“Personal Autonomy and Economic Rights”), per riscomparire del tutto nel 2003 (anno in cui la sezione viene rinominata “Personal Autonomy and Individual Rights”); le due checklist, del resto, mirano esplicitamente a misurare la diffusione dei diritti politici e civili, quei diritti individuali alla base di una concezione liberale della democrazia.
5. Nelle checklist vi è la tendenza a considerare e valutare l’esistenza solo formale di alcuni diritti e non anche sostanziale. Si veda, ad esempio, per quanto riguarda i diritti politici, il passaggio da “Do the people organize” a “Do the people have the right to organize”, come pure la cancellazione, dal 2006, del riferimento al “de facto opposition power”. Nella checklist delle libertà civili, invece, è emblematica la semplificazione dell’item sull’eguaglianza di opportunità (12), dal 2003 collegata semplicemente all’assenza di sfruttamento economico, senza indicare, come fatto fino all’anno precedente, le categorie potenzialmente in grado di realizzare tale sfruttamento.
6. Conclusioni
Le analisi condotte da diversi studiosi sulla validità e l’attendibilità dell’indice della
Freedom House hanno messo in evidenza una serie di criticità sia metodologiche che politico-ideologiche. Ad esempio, Landman e Häusermann (2003) hanno sottolineato come l’indice della FH sia stato utilizzato come strumento di misurazione della democrazia, della buona governance e dei diritti umani, producendo in questo modo quello stiramento del concetto (“conceptual stretching”) che, come scrive Sartori (1970: 1035), è una delle cause principali della perdita di precisione connotativa dello stesso: insomma, uno strumento utilizzato per misurare tutto alla fine non è capace di discriminare alcunché. Se, sul piano strettamente tecnico, l’indice si presenta come una misura della libertà, di fatto l’utilizzo che se ne fa, come abbiamo visto avallato dallo stesso Gastil, è di misura della democrazia. È del tutto evidente la scorrettezza metodologica di un simile modo di procedere. Basti solo considerare con quale facilità vengano equiparati e utilizzati in maniera interscambiabile i due termini di libertà e democrazia, ai quali vengono negate la complessità semantica e la densità concettuale che gli sono propri. Il concetto di democrazia, in particolare, viene ridotto a una sua sotto-componente, mentre gli viene misconosciuta qualsiasi caratteristica di multidimensionalità.
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Viste le numerose falle metodologiche, il successo della Freedom House può trovare una valida spiegazione solo se guardiamo al contesto storico-politico in cui è maturato. E qui, tra le ragioni della sua crescente affermazione, ritroviamo l’enfasi posta sulla libertà (in una declinazione tutta distorta in chiave economico-privatistica) dal processo storico di affermazione del neoliberismo (si noti, ancora una volta, la coincidenza degli anni: nel 1973 si realizza il “primo esperimento” di Stato neoliberista e Gastil pubblica il suo primo report sulla diffusione della libertà nel mondo); il crollo dell’idea e dell’ideale dell’eguaglianza simbolicamente rappresentato dal 1989 (anno in cui, tra l’altro, la Freedom House affida la stesura del report a un team di esperti); la perfetta coincidenza con le strategie di politica estera americana di diffusione della libertà e esportazione della democrazia messe in atto dagli anni novanta e, con vigore maggiore, dopo l’11 settembre 2001.
Questi biases ideologici sono stati provati anche sul piano metodologico. Bollen e Paxton (2000) hanno sottolineato, ad esempio, come l’indice della FH favorisca sistematicamente i Paesi cristiani e occidentali, mentre tende a codificare negativamente i Paesi islamici e marxisti-leninisti:46 questo trend è del resto in linea con il “pensiero politico” della Freedom House che, come si è visto, è incline sul piano religioso a sostenere i dissidenti musulmani e su quello politico a contrastare il comunismo. Inoltre, critiche sono state fatte anche all’attendibilità dell’indice (“it has never been clear how its checklists translate into the 7-point scores”) (Landman e Häusermann, 2003: 10) e alle modalità di aggregazione (ad esempio la somma di un punteggio 4 per i diritti politici e di 2 per le libertà civili è veramente uguale alla somma di un punteggio 2 per i diritti politici e 4 per le libertà civili?) e alla sua scarsa trasparenza e replicabilità (“there is the treatment of additional discretionary questions, about which nothing is said. The level of transparency is inadequate throughout. Outsiders cannot replicate the process.”) (Hadenius e Teorell, 2005: 17). Insomma, da qualsiasi punto la si guardi, la scala della Freedom House ha delle lacune enormi, a fronte di un altrettanto enorme successo globale dell’indice, utilizzato come fonte di dati sulla democratizzazione da giornalisti, pubblicisti, saggisti, scienziati politici, organizzazioni sovranazionali, organizzazioni non governative, rappresentanti dei governi. Un successo senza dubbio accentuato dalla disponibilità on line dei dati, accessibili gratuitamente da chiunque, e dal fatto che essi, espressi in forma numerica o in etichette semplici, sono facilmente utilizzabili sul piano della retorica politica.
Per le loro carenze metodologiche i dati della Freedom House potrebbero essere utilizzati al più per verificare delle ipotesi iniziali o scoprire delle linee di tendenza. Essi non sono assolutamente in grado, proprio perché scarsamente rifiniti, di fornire informazioni utili per analisi comparative in profondità. Ma il rischio maggiore è che anche studiosi apertamente critici del neoliberismo finiscano inconsapevolmente per avallarne la linea di pensiero, dal momento che l’utilizzo delle scale della Freedom House equivale anche ad una implicita accettazione dell’impostazione politico-ideologica sulla quale esse sono costruite. Come si è tentato di dimostrare, sono, infatti, molti i punti di collegamento tra il pensiero politico neoliberista è la direzione di cambiamento a cui sono state soggette, nel corso degli ultimi venti anni, le checklist della Freedom House.
Il ruolo avuto dall’ideologia neoliberista nel plasmare un nuovo senso comune della concezione del rapporto pubblico-privato, individuo-società, economia-politica, è stato determinante ed ha avuto conseguenze enormi sulla stessa interpretazione del modello di democrazia liberale, come pure sulla strutturazione dei suoi strumenti di misurazione. Questi ultimi non hanno potuto non risentire del clima politico entro cui sono stati generati. Con la sua capacità paradigmatica di farsi “visione che orienta”, il neoliberismo ha infatti innervato la strutturazione teorica degli strumenti di misurazione, nei quali alla forte attenzione riservata alla dimensione della libertà fa da riscontro un quasi completo disinteresse per la dimensione dell’eguaglianza, con la sottolineatura degli aspetti formali e procedurali della democrazia a discapito di quelli sostanziali e un accentuato interesse per la tutela dell’individuo in quanto attore economico privato.
Pertanto, al di là delle problematiche di tipo metodologico (difficoltà nella operativizzazione del concetto di democrazia, difficoltà nel costruire indicatori per i diritti economici e sociali) o politico-ideologico (prevalenza di un modello di democrazia liberale o, comunque, risposta ad
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un paradigma che si faceva dominante), la funzione degli strumenti di misurazione della democrazia è anche quella di legittimare “scientificamente” il modello di democrazia liberale per cui sono stati elaborati, garantendo una sorta di sostegno “imparziale” ai suoi convinti propugnatori. Basandosi su determinate metodologie e indicatori, questi strumenti posizionano i diversi Paesi in graduatorie di democraticità, le quali generano, a livello strutturale, ripercussioni profonde sulle relazioni internazionali, sulle politiche umanitarie e di aiuto allo sviluppo, sulla politica estera dei governi, mentre a livello degli attori producono, tra le altre cose, una griglia interpretativa che delimita il campo dei diritti considerati esigibili.
Il loro successo, anche in termini di durata temporale, si spiega almeno in parte con l’intreccio inestricabile che li avviluppa al paradigma teorico di fondo che li ha generati: finché quest’ultimo resterà dominante e avrà la capacità di riprodursi, difficilmente altri strumenti di misurazione potranno soppiantare (o perlomeno competere con) quelli esistenti quanto a diffusione, autorevolezza, utilizzo.
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1 Un sentito ringraziamento al prof. Leonardo Morlino per i preziosi suggerimenti nell’impostazione generale della mia tesi di dottorato, dal titolo “Modelli di misurazione e diffusione della democrazia. L’Unione Europea nel contesto internazionale” (tutor prof. F. Amoretti), dalla quale questo paper, con le dovute rielaborazioni e i necessari aggiornamenti, prende origine.
2 La citazione è tratta dal quaderno 10, parte II, paragrafo 12. 3 È l’espressione utilizzata dal presidente americano G. W. Bush all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle per
etichettare i terroristi antiamericani; il regista Ken Loach, nell’episodio da lui diretto del documentario “11
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settembre 2001”, riprende la dichiarazione di Bush (“L’11 settembre i nemici della libertà hanno compiuto un atto di guerra contro il nostro paese e la notte è calata su un mondo diverso, un mondo dove la libertà stessa è sotto attacco”) alternandola alle immagini del golpe cileno, organizzato dalle élite economiche nazionali e sostenuto attivamente dalle grandi società americane, dalla CIA e dall’allora Segretario di Stato americano Henry Kissinger.
4 E. Berlinguer, “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”, Rinascita, 28 settembre, 5 e 12 ottobre 1973. 5 Vedi il sito www.trilateral.org per un elenco aggiornato dei membri e delle attività della Commissione. 6 Su questo problema vedi anche S. M. Lipset, L’uomo e la politica, Edizioni di Comunità, Milano, 1963. 7 http://www.montpelerin.org/mpsabout.cfm. 8 L’interpretazione neoliberista della libertà e della proprietà spiega inoltre, almeno in parte, anche perché oggi
la retorica e la pratica dei diritti umani siano declinate in maniera smaccatamente parziale, associando i diritti umani in via quasi esclusiva ai diritti di libertà (civili e politici), (cfr. Bollen, 1990), e trascurando invece gli altri tipi di diritti (sociali, economici, culturali), che pure nelle Dichiarazioni solenni (Dichiarazione dei diritti dell’uomo, 1948; Conferenza di Vienna, 1993) fanno parte dei diritti umani e, come tali, vengono considerati “universali, indivisibili, interdipendenti e interconnessi” (Nazioni Unite, Conferenza Mondiale Sui Diritti Umani. Dichiarazione
e Programma d’Azione. Vienna, 14-25 giugno 1993. Il punto 5 della Dichiarazione continua affermando che: “La comunità internazionale ha il dovere di trattare i diritti umani in modo globale e in maniera corretta ed equa, ponendoli tutti su un piano di parità e valorizzandoli allo stesso modo”).
9 Le citazioni dell’autore sono tratte da K. Polanyi, 2000. 10 Riprendendo la classica definizione data da Kuhn, il paradigma “designa una prospettiva teorica: a) condivisa
e riconosciuta dalla comunità di scienziati di una determinata disciplina; b) fondata sulle acquisizioni precedenti della disciplina stessa; c) che opera indirizzando la ricerca in termini sia di c1) individuazione e scelta dei fatti rilevanti da studiare, sia di c2) formulazione di ipotesi entro le quali collocare la spiegazione del fenomeno osservato, sia di c3) approntamento delle tecniche di ricerca empirica necessarie” (rip. in Corbetta, 1999: 18)
11 La centralità di questo ruolo, soprattutto a seguito dei fallimentari esperimenti sudamericani (in particolare la crisi argentina), è stata negli ultimi anni comunque messa in discussione.
12 Il primo criterio fa riferimento alla (presunta o reale) neutralità/imparzialità dell’attore: essa può essere dichiarata, e dunque esplicita, o ricavata dal fatto che il soggetto si fa portatore di interessi definiti come “globali” o “non-partisan”. Questo criterio permette di escludere a priori tutti gli Stati nazionali, i quali, per loro natura, definiscono una visione parziale della democrazia, corrispondente a posizioni storiche e ideologiche consolidate, ma anche alla stessa specificità della maggioranza politica che in un dato momento è alla guida del Paese. “I governi e i rappresentanti eletti vengono visti come sospetti proprio perché sono ritenuti responsabili dal loro elettorato e, dunque, sono percepiti come portatori di interessi «particolari», ostili agli interventi basati su principi etici” (Chandler, 2002: 218). Il primo criterio ci indirizza dunque verso quegli attori e/o organizzazioni che, dietro una apparente ma decisiva facciata di neutralità e di imparzialità, agiscono influenzando le scelte politiche, economiche e sociali degli Stati. L’imparzialità è un elemento decisivo sia per il soggetto promotore della politica che per gli Stati che decidono di (o sono costretti a) aderirvi. È dall’imparzialità che l’organizzazione trae una sua legittimazione ad agire su determinate materie: se lo fa, questo è l’elemento sottinteso, non è per sostenere una posizione politica o ideologica, ma semplicemente perché, riconosciutagli sul piano internazionale una competenza tecnica per aver voce ed agire su determinate questioni, essa ritiene, alla luce di queste competenze, che la via indicata sia la più proficua ed efficace per raggiungere un determinato obiettivo. Ed è sempre all’imparzialità dell’organizzazione che gli Stati nazionali si richiamano quando devono giustificare determinate scelte politiche anche impopolari, ma che sono in linea con i programmi di aggiustamento strutturale, o con l’apertura alla competitività globale: privatizzazioni di beni pubblici essenziali, riduzione della spesa pubblica, apertura agli investitori stranieri, ecc. Il secondo criterio adoperato nella selezione del pattern-setter è la condizionalità politica dell’attore, vale a dire la sua effettiva capacità di condizionare le politiche degli Stati: è da questa infatti che deriva l’importanza dell’attore sul piano internazionale, che si traduce anche nella sua capacità di determinare una riconfigurazione degli impianti giuridico-istituzionali delle democrazie. Chiaramente, questo secondo criterio di selezione è legato a numerose variabili: dalla portata internazionale su cui è in grado di operare l’attore, al rimando a questi soggetti che gli attori politici nazionali fanno nella definizione di policies o nella scelta di metodi di analisi delle politiche pubbliche. Il terzo criterio, in realtà abbastanza implicito nel discorso sinora fatto, è relativo alla portata internazionale dell’attore, la cui terzietà e la cui condizionalità devono essere riconosciute e fatte valere sul piano globale. La sua capacità di pattern-setting deve pertanto esercitarsi a livello mondiale ed essere riconosciuta sia a livello accademico che a livello politico.
13 www.freedomhouse.org/template.cfm?page=2. 14 Ibidem. 15 www.freedomhouse.org/template.cfm?page=249. 16 Ibidem. 17 Ibidem. 18 www.freedomhouse.org/template.cfm?page=136 (corsivo mio). 19 Di per sé essere stato direttore della CIA non implica alcuna presa di posizione politico-ideologica. Il nome di
Woolsey però figura tra i firmatari di una pubblica missiva del 26 gennaio 1998 all’allora presidente americano Clinton in cui, deprecando l’insuccesso della politica “di contenimento” americana in Iraq e in Medio Oriente, si sollecitava l’adozione di una nuova strategia, volta alla rimozione di Saddam Hussein, accusato di produrre armi chimiche e biologiche di distruzione di massa. Nella lettera, inoltre, si considerava con tono preoccupato “that if Saddam does acquire the capability to deliver weapons of mass destruction, as he is almost certain to do if we continue along the present course, the safety of American troops in the region, of our friends and allies like Israel and the moderate Arab states, and a significant portion of the world’s supply of oil will all be put at hazard”. La
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nuova strategia doveva essere incentrata su “a willingness to undertake military action as diplomacy is clearly failing. In the long term, it means removing Saddam Hussein and his regime from power. That now needs to become the aim of American foreign policy”. Un obiettivo che doveva essere raggiunto senza preoccuparsi troppo delle risoluzioni delle Nazioni Unite, perché “[the] American policy cannot continue to be crippled by a misguided insistence on unanimity in the UN Security Council”. Tra gli altri firmatari della missiva: John Bolton, Francis Fukuyama, William Kristol, Richard Perle, Donald Rumsfeld e rispettivamente l’ex e il neo presidente della Banca Mondiale, Paul Wolfowitz e Robert B. Zoellick. Una copia della lettera è reperibile sul sito del Project for the New American Century, all’indirizzo: http://www.newamericancentury.org/iraqclintonletter.htm. Woolsey, comunque, è anche tra i consiglieri di Avot (Americani per la vittoria sul terrorismo) e co-fondatore della Coalition for Democracy in Iran.
20 “L’influenza dell’Aei sulle politiche dell’attuale amministrazione [statunitense] emerge chiaramente dal discorso pronunciato dal presidente Bush alla cena annuale dell’Aei, il 28 febbraio 2003. Prima di presentare la sua strategia, introdurre la democrazia in Iraq e portare la pace in Medio Oriente, Bush ha affermato: «All’Aei, alcuni dei migliori cervelli del nostro paese sono al lavoro su alcune delle maggiori sfide che si presentano alla nostra nazione. Fate un così buon lavoro che la mia amministrazione ha preso in prestito venti di questi cervelli»”. Riportato in Lobe, J. e Oliveri, A. (a cura di), I nuovi rivoluzionari. Il pensiero dei neoconservatori americani. Feltrinelli, Milano, 2003, p. 149.
21 Tra gli altri, il Center for Security Policy, The Committee for the Liberation of Iraq, The Foundation for the Defence of Democracies, The Jewish Institute for National Security Affairs.
22 “President Discusses Democracy in Iraq with Freedom House”, Hyatt Regency Capitol Hill, Washington, D.C., Office of the Press Secretary, March 29, 2006, www.whitehouse.gov/news/releases/2006/03/print/20060329-6.html.
23 President George W. Bush, Monterrey, Mexico, March 22, 2002, www.whitehouse.gov/infocus/ developingnations/millennium.html
24 “Millennium Challenge Account – Indicator Descriptions”, documento reperibile sul sito www.mcc.gov. 25 Da notare che nel corso del tempo alcuni di questi indicatori, soprattutto nella dimensione economica e sociale,
sono stati modificati, come pure le rispettive fonti: ad esempio, oggi compaiono l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e l’Unesco al posto della World Bank per alcuni indicatori socio-sanitari. Inoltre, dal 2006 sono stati aggiunti due ulteriori requisiti: il “Natural Resource Management Index”, per valutare la gestione delle risorse naturali, e il “Land Rights and Access Index”, per valutare gli investimenti governativi in termini di sicurezza dei terreni, allo scopo di facilitare la produttività degli stessi ed evitare rischi di impatti ambientali negativi. Per un approfondimento si rimanda al sito: www.mcc.gov.
26 www.usaid.gov/about_usaid/. 27 Gli autori del report evidenziano come i 10 milioni di dollari investiti dall’agenzia tra il 1990 e il 2003 nelle
politiche di promozione e assistenza alla democrazia abbiano prodotto un incremento medio di 0,25 punti nelle misurazioni della Freedom House per i Paesi coinvolti.
28 Vedi ad esempio “Rice Limits Rhetoric, And Maybe Impact”, Washington Post, June 24, 2005. 29 Vedi ad esempio “L’America in panne”, Limes, 1, 2007, p. 184. 30 www.beppegrillo.it/2007/02/una_repubblica.html. 31 J. Acuña-Alfaro, “Measuring Democracy in Latin-America (1972-2002)”. Working paper for the “Political
Concepts. A Working Paper Series of the Committee on Concepts and Methods”, www.concepts-methods.org, 2005; J. Bacher, “Oil and Dictatorship”, Peace Magazine, 14 (8), 1998; R. Barro, Determinants of Economic Growth. Cambridge, MA: M.I.T. Press, 1997; R. E. Burkhart e M. S. Lewis-Beck, “Comparative Democracy: The Economic Development Thesis”, American Political Science Review, 88 (4), 1994, pp. 903-910; R. Duràn, “Reshaping State-Society Relations: Democratization In Southern And Eastern Europe”. Working paper n. 277, 2000; M. S. Fish e M. Kroenig, “Diversity, Conflict and Democracy: Some Evidence from Eurasia and East Europe”, Democratization, 13 (5), 2006, pp. 828-842; J. Foweraker e R. Krznaric, “Constitutional Design and Comparative Democratic Performance”. Paper presented at the ECPR Joint Sessions of Workshops, Mannheim, Germany, 27-31 March 1999; W. Frisch, “Co-Evolution of Information Revolution and Spread of Democracy”. Paper on line, 2003; S. Goldberg, “Democratic Conditionality and Western Integration: A regional comparison”. Working paper on line, 2001; D. Grassi, “La globalizzazione della democrazia: transizioni e consolidamento democratico agli albori del XXI secolo”. Rivista Italiana di Scienza Politica, XXXII, 1, 2002, pp. 3-29; A. Hadenius e J. Teorell, “Cultural and Economic Prerequisites of Democracy: Reassessing Recent Evidence”, Studies in Comparative International Development, 39 (4), 2005b, pp. 87-106; S. P. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo. Il Mulino, Bologna, 1995; R. Inglehart, La società postmoderna. Mutamento, ideologie e valori in 43 Paesi. Editori Riuniti, Roma, 1998; S. Knack, “Does Foreign Aid Promote Democracy?”, International Studies Quarterly, 48, 2004, pp. 251-266; T. Landman, M. Larizza e C. McEvoy, “State of Democracy in Mongolia. A Desk Study”. Paper prepared for ‘Democracy Development in Mongolia: Challenges and Opportunities’, National Conference, Ulaanbaatar, Mongolia 30 June to 1 July 2005; W. Merkel e A. Croissant, “Conclusion: Good and Defective Democracies”, Democratization, 11 (5), 2004, pp. 199-213; A. Mungiu-Pippidi, Eu Enlargement and Democracy Progress. In Emerson, M. (ed.), Democratisation in the European Neighbourhood, Brussels: Centre for European Policy Studies, 2005, pp. 15-37; E. Neumayer, “The Determinants of Aid Allocation by Regional Multilateral Development Banks and United Nations Agencies”, International Studies Quarterly, 47, 2003, pp. 101-122; H. O. Sano e L. Lindholt, Human Rights Indicators. Country data and methodology 2000. Danish Centre for Human Rights, 2001.
32 Vedi anche Freedom House, “Methodology”, www.freedomhouse. org/template.cfm?page=35&year=2005, 2005. 33 Questa tabella è stata ufficialmente adottata dall’edizione del 2003; fino al 2002 i punteggi erano diversi sia
per le libertà civili che per i diritti politici; l’aggiunta di tre nuove domande (compensate dalla cancellazione di una domanda del 2002) ha portato il punteggio massimo ottenibile per i diritti politici da 32 a 40 (4x10); mentre una domanda in più per i diritti civili porta il punteggio massimo a 60. Tra il 2002 e il 2003 comunque le checklist
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subiscono un cambiamento strutturale importante: alcune domande scompaiono, molte sono riformulate, altre passano da libertà civile a diritto politico, altre sono aggiunte ex-novo.
34 Freedom House, “Methodology”, www.freedomhouse.org/template.cfm?page=35& year=2005, 2005. 35 Si tratta di un problema centrale sia sul piano politico sia su quello metodologico, che ha origini antiche: già in
alcune tragedie di Eschilo, ad esempio, i nemici Persiani potevano parlare solo attraverso la voce del narratore greco, che li descriveva e gli attribuiva pensieri e sentimenti. L’esclusione del punto di vista dell’altro, associata al presunto universalismo della prospettiva occidentale, si fondano sul presupposto ideologico della superiorità e dell’autosufficienza della civiltà occidentale rispetto a tutte le altre, quanto a cultura, valori, economia, progresso, vita di società, ecc. Su questi temi si rimanda al lavoro ormai classico di E. W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente. Feltrinelli, Milano, 20043 e al più recente I. Wallerstein, op. cit., 2007. Per una ricostruzione dello specifico caso europeo mi permetto di rimandare a D. Giannone, “«L’Europa delle maree». Viaggio tra gli intellettuali italiani del XX secolo”, in D’Angelo, G. (a cura di), Aspetti e temi della storiografia italiana del Novecento, Edizioni del Paguro, Mercato San Severino, 2007, pp. 175-193. Nel caso specifico della scienza politica statunitense, è da notare come già negli anni ’50 si conducessero ricerche ed esperimenti sul livello di democraticità degli altri Paesi affidandosi esclusivamente ad esperti americani. Cfr. R. H. Fitzgibbon, “Measurement of Latin-American Political Phenomena: A Statistical Experiment”, The American Political Science Review, 45 (2), 1951, pp. 517-523.
36 Freedom House, “Methodology”, www.freedomhouse.org/template.cfm?page=35& year=2005, 2005. 37 Oltre che ai diritti civili e politici, nella Dichiarazione Universale si fa riferimento anche ad altri tipi di diritti
(economici, sociali, culturali), sui quali però la Freedom House tace. 38 Ibidem. 39 Ibidem. 40 Freedom House, “Methodology”, www.freedomhouse.org/template.cfm?page=35& year=2006, 2006. 41 Non si è adottato l’accorgimento del colore giallo per il confronto tra il 1990 e il 1993 dal momento che la
formulazione degli item, trasformati in interrogativi, ha subito sempre delle modifiche, pur restando in molti casi immutato il contenuto sostanziale di ciascun elemento di controllo. Sono stati invece utilizzati il rosso e il verde per indicare cancellazioni complete o introduzioni ex-novo di item.
42 Questo numero non è in contraddizione con quanto riferito poc’anzi sulla lista di domande dei diritti politici (10), dal momento che qui vengono conteggiate anche due “domande discrezionali”.
43 Da questo momento in poi, quando non diversamente specificato, farò riferimento alla numerazione dell’anno 1993.
44 Freedom House, “Methodology”, www.freedomhouse.org/template.cfm?page=35& year=2006, 2006. 45 Ad esempio, per l’item n. 1 della checklist sui diritti politici, tra le tante domande ve ne è una riguardante la
possibilità per i candidati di tenere discorsi pubblici e di accedere ai media (“Can candidates make speeches, hold public meetings, and enjoy media access throughout the campaign free of intimidation?”), mentre per l’item n. 1 delle libertà civili una domanda-guida è relativa all’indipendenza dei media dalla censura del governo (“Does the government directly or indirectly censor print, broadcast, and/or internet-based media?”).
46 Davvero esemplare è il caso di Israele, Paese considerato come l’unica democrazia di tipo occidentale presente in Medio Oriente, e classificato dalla Freedom House come “democratico”, nonostante studi approfonditi abbiano dimostrato come ad alcuni suoi cittadini (gli arabo-israeliani) vengano negati i fondamentali diritti civili e politici. Cfr. D. Mchenry Jr. e A. F. Mady, “A Critique of Quantitative Measures of the Degree of Democracy in Israel”, Democratization, 13 (2), 2006, pp. 256-282.