Giorgio Candeloro storico del fascismodi M arco Palla
Il nono volume della S to r ia d e ll’Ita lia m o d e rn a di Giorgio Candeloro (I lfa sc ism o e le su e g u erre, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 537, lire 20.000) ha vinto il Premio Acqui storia 1982, riconoscimento pubblico, tempestivo quanto meritato, di un’opera che sembra destinata ad un duraturo successo ma che sarebbe riduttivo considerare utile, anzi indispensabile, solo per il lettore comune. Il libro presenta infatti, a mio parere, un’occasione per un ripensamento della storia del fascismo anche da parte degli studiosi e degli specialisti, e fornisce anche in sede scientifica un contributo notevole: è in questo senso che mi propongo di discuterne alcuni dei giudizi e delle interpretazioni centrali. Si tratta, però, occorre subito avvertire, di uno di quei libri di fronte ai quali si prova una sensazione di rispetto e insieme di un qualche imbarazzo, perché non si riesce nell’ambito della recensione e della discussione scientifica a dar conto di tutto il suo valore, delle sue potenzialità didattiche, delle lezioni che può e potrà impartire, al pari degli altri volumi di questa grande opera storica. Se mi è consentito un ricordo personale, quando mi iscrissi all’università e nella mia facoltà di lettere cominciai a seguire i corsi di storia m oderna e contemporanea, mi trovai quasi immediatamente a dover misurare la mia ignoranza della storia e forse ancor più degli storici che scrivevano libri di storia: fra i pochi che non ignoravo era, tuttavia, “il Candeloro”. Avevo letto parti e brani di alcuni dei volumi dell’opera fino ad allora usciti, e mi ero formato l’opinione — indipendente dalla lettura, che avevo trascurato, della prefazione di Candeloro al
primo volume, una sorta di dichiarazione degli intenti della S to r ia d e l l’Ita lia m o d e rn a — che si trattasse effettivamente di un lavoro sui generis: non era davvero superficiale come i libri di divulgazione o schematico come i manuali che conoscevo, né si sarebbe dimostrato difficile o arido o frammentario come i saggi specialistici e le ricerche erudite di cui avrei ben presto fatto la conoscenza.
Quell’opinione avrebbe trovato conferma dalla lettura dei volumi successivamente usciti, emergendo come il carattere forse più originale e distintivo dell’opera di Candeloro. L’accuratezza, la chiarezza e l’ordine espositivo della narrazione, l’equilibrio critico contraddistinguono anche questo volume, il primo nel quale Candeloro affronta storiograficamente il periodo della storia italiana nel quale egli stesso si doveva formare come studioso, come antifascista che avrebbe poi partecipàto alla Resistenza nelle file del Partito d’Azione romano. L’esperienza diretta di quegli anni e la testimonianza che implicitamente ne deriva giovano al libro, e costituiscono forse uno dei pochi vantaggi che esso presenti sui precedenti volumi: vi guadagnano tutte le parti in cui viene rappresentata la realtà del fascismo, e non le sue formule propagandistiche, la realtà dell’economia e della cultura, della scuola e del consenso, della politica estera e delle avventure belliche. Candeloro non presta particolare interesse alle elucubrazioni mussoliniane, preferendo descrivere il duce reale, e la realtà del potere che egli esercitò, e dei poteri coi quali venne a patti, e delle forze politiche e sociali cui fece da mediatore, delle
“Italia contemporanea“, dicembre 1982, fase. 149
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classi e dei gruppi costretti, con la violenza e la coercizione, alla sconfitta e alla subalternità. Accanto a questo richiamo costante alla realtà storica di quegli anni, un altro dei parametri di giudizio fondamentali di Candeloro è il rapporto — di rottura e insieme di continuità — che il fascismo intrattiene con la storia d’Italia precedente e successiva, né manca un puntuale inquadramento della storia italiana nei grandi lineamenti politici ed economici di quella europea e mondiale.
In particolare, questo riferimento alla ‘storia universale’ spiega la stessa periodizzazione del volume (1922-1939), la scelta cioè della data finale del settembre 1939 come più rilevante e decisamente preferibile a quella del 10 giugno 1940, entrata in guerra dell’Italia, dato anche che il periodo della non belligeranza si lega più agli anni della guerra che ai precedenti (p. 7). Non è solo per esigenze narrative interne che Candeloro ha riservato al prossimo volume l’esame di alcuni temi come la politica coloniale dopo il 1936 o la formazione di nuovi gruppi antifascisti in Italia dopo il 1937, ma perché egli è convinto che tali temi siano appunto più collegabili al periodo della seconda guerra mondiale, della Resistenza e della Repubblica che sarà trattato nel prossimo e conclusivo volume dell’opera. Fra i temi posticipati, vi è anche quello della politica di riarmo e di preparazione militare dell’Italia, e questa scelta di Candeloro è meno convincente di altre: questo tema mi pare del tutto congruo e contestuale al quadro generale della crisi del sistema internazionale degli anni trenta, e a quello direttamente studiato del fascismo e delle sue guerre.
Anche il bel titolo del libro si presta forse a qualche discussione. Se è certamente vero che il fenomeno centrale della storia italiana dal 1922 al 1939 è “la formazione del regime fascista, i suoi caratteri, il suo sviluppo, la sua politica, le sue guerre” (p. 7), sembra poi troppo netta la distinzione che Candeloro traccia fra le guerre propriamente ‘fasciste’ (riconquista libica, Etiopia, Spagna) e la guerra intrapresa dal 1940 in poi, che rientrerebbe “nel fatto generale della
seconda guerra mondiale, cioè in un complesso urto di forze europee e mondiali, sul quale l’influenza del fascismo fu certo notevole ma non principalmente determinante” (p. 8). Da un lato, la stessa guerra civile spagnola con l’intervento fascista e nazista e l’attività delle brigate internazionali dell’antifascismo è fenomeno più complesso di quello di una guerra “propriamente fascista”, e, dall’altro, sarebbe difficile trovare un fattore “principalmente determinante” nello scatenamento della seconda guerra mondiale che non sia riferibile all’azione eversiva di quelle forze europee e mondiali fra le quali si pone, per così dire di diritto, il fascismo italiano, con la sua spinta imperialistica non meno pericolosa di altre (Germania, Giappone), certo meno deboli nel provocare l’urto generale di una conflagrazione quale mai il mondo aveva conosciuto. Al “fatto generale” della seconda guerra mondiale non è davvero estranea la responsabilità del fascismo italiano, che ne è agente particolare ma di primo piano, pur non essendo l’Italia una “grande potenza”: m a nessuno Stato di dimensioni medie al m ondo recitò, nel processo drammatico che sfociò nel conflitto, un ruolo determinante come quello dell’Italia fascista, e qui sta un altro dei caratteri essenziali della storia del fascismo italiano.
Candeloro sottolinea la diversità dei due decenni fra le due guerre mondiali e ne rintraccia le conseguenze nello sviluppo stesso della natura del regime fascista, nato nel 1922 da un governo “nazionale” dotato di pieni poteri (come altri governi dell’Italia liberale) e cresciuto, grazie anche alla stabilizzazione economica e diplomatica intemazionale, nella “nuova legalità faziosa e dittatoriale, ma regolare, del fascismo divenuto regime” (p. 29). Egli richiama giustamente l’importanza di un organo poco studiato come il Gran Consiglio, e non dimentica quella della Milizia, l’organizzazione militare di un regime autoritario che era nato dalla violenza e che con la violenza piegava gli oppositori (si veda anche l’esemplare ragionamento logico-storico che sulla base dei fatti
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accertati Candeloro compie della crisi Matteotti, in linea sostanzialmente con la ricostruzione a suo tempo compiuta da Salvemini e in contrasto con quella di De Felice). E fu in un quadro di violenza politica (in cui si sommavano le azioni squadristiche della “seconda ondata” e la repressione poliziesca) che nacquero fra il 1925 e il 1926 quelle leggi liberticide e autoritarie che “mirarono a modificare profondamente l’assetto costituzionale dell’Italia ereditato dal 'Risorgimento e consolidato in più di mezzo secolo di vita unitaria” (p. 136): ma anche qui Candeloro mostra le innovazioni e le violazioni dello Statuto albertino ricordando tuttavia che esso non fu mai abrogato e che le varie leggi fasciste accentuarono al massimo rautoritarismo statale preesistente al fascismo ma fino ad allora temperato dal Parlamento e dal pluralismo partitico. Egli nega quindi ogni compiuto e totalitario disegno reazionario all’azione pragmatica e a volte segnata da empirismo spicciolo di Mussolini, nella quale vede però — come nel caso della battaglia del grano — “un intreccio strettissimo tra i motivi di prestigio e di propaganda e la necessità di tutelare e favorire determinati interessi di gruppi sociali” (p. 119). Osservazione acuta, che si collega a quanto si precisa sul “blocco borghese” che sosteneva il fascismo: non una realtà “compatta o addirittura monolitica” ma un complesso di scelte fondamentali compiute in favore di Mussolini nel 1925-26 da parte della maggioranza dei vari strati sociali borghesi, e non più messe in discussione fino alla seconda guerra mondiale (p. 124). Parimenti, dopo aver analizzato i dati sulla composizione sociale del Pnf, Candeloro ricava una definizione del partito come più o meno esatta espressione del blocco borghese, ma subito aggiunge — mettendo in guardia contro ogni consequenziali- smo meccanicistico — che “non si deve dimenticare che il carattere di classe di una determinata organizzazione è dato dalla politica che questa concretamente svolge e dagli interessi che difende, assai più che dalla sua composizione sociale” (p. 142).
Anche la politica estera del fascismo negli anni venti si alimenta nella continuità della tradizione espansionistica prefascista (con la tendenza alla preminenza dell’iniziativa dello Stato sulla spinta finanziario-industriale, che pure non mancò verso i Balcani e l’Impero ottomano) e del nazionalismo, di cui fu largamente permeata la stessa diplomazia italiana nella quale si affievoliva il filone legato più al realismo e alla prudenza e si accentuava invece l’enfasi sulla “difesa degli interessi nazionali” sempre più intesa come “affermazione di un presunto diritto dell’Italia all’espansione nel Mediterraneo e in Africa, oltre che al dominio dell’Adriatico” (p. 159).
Le novità più importanti consistevano piuttosto nel modo di procedere personalistico e imprevedibile di Mussolini, sia che fosse inteso tatticamente a disorientare gli avversari, sia che fosse l’esito di contraddizioni soggettive e d’obiettiva impotenza, e soprattutto nell’esasperazione estrema del nazionalismo, “uno degli elementi costitutivi dell’ideologia fascista fin dalle origini, insieme aU’antisocialismo, all’aspirazione ad un governo autoritario e all’esaltazione della violenza come metodo di lotta politica”, cosicché l’imperialismo divenne anche “uno strumento di politica interna, che permise a Mussolini di mobilitare masse numerose in varie occasioni, ma specialmente al tempo della guerra d’Etiopia” (p. 161). L’imperialismo fascista si legava cioè non solo alle esigenze propagandistiche (come, fra l’altro, quella della diffusione del fascismo in Europa) ma anche alla questione demografica reale di un paese ove le tensioni sociali interne si facevano sempre più forti rispetto all’epoca precedente la prima guerra mondiale (gli sbocchi dell’emigrazione transoceanica erano ora quasi del tutto preclusi) e creavano masse di disoccupati e di poveri che, nel corso della durissima crisi del 1929-33, furono ingrossate dai giovani provenienti dalla piccola borghesia artigianale e commerciale e dal ceto impiegatizio che si aggiunsero a operai e braccianti (p. 162). Se il fascismo apparve ed anche fu effettivamente
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una forza di stabilizzazione della struttura capitalistica ed un argine anticomunista, esso cominciò dal 1925-26 a svolgere una funzione eversiva rispetto ai trattati di pace del 1919-20 e alla pace europea “non meno spiccata della funzione stabilizzatrice che ebbe nei riguardi della struttura capitalistica dell’Europa stessa” (p. 169). La spiegazione che Candeloro fornisce di una tale contraddizione merita di essere segnalata, perché situa comparativamente la portata storica complessiva del simultaneo ed interdipendente cambiamento della collocazione intemazionale dell’Italia e del mutamento “di campo” del suo sistema politico: “il mutamento nella politica estera delineatosi nel 1925-26 deve essere strettamente collegato al mutamento avvenuto negli stessi anni nella situazione interna dell’Italia. L’instaurazione della dittatura e l’inizio dell’organizzazione del regime fascista posero fine ad un periodo storico, durato più di mezzo secolo, nel quale era esistita un’affinità sostanziale tra i regimi politici che reggevano i paesi dell’Europa occidentale, ai quali si erano aggiunti dopo la grande guerra quelli dell’Europa centrale; in primo luogo la Germania di Weimar.[...] Ora invece l’Italia si presentava come portatrice di un’ideologia, più o meno confusa, ma di cui erano evidenti alcuni caratteri come il totalitarismo (cioè la tendenza ad assorbire nello Stato la società civile), il nazionalismo esasperato, l’antipacifismo, l’antipar- lamentarismo e l’antisocialismo” (p. 167).
La sconfitta della libertà e della democrazia in Italia derivarono, per vari gruppi sociali, non tanto dall’attrazione esercitata su di loro dall’ideologia negativa del fascismo quanto dal rassicurante rientro in una tradizione di apatia, di trasformismo e di conformismo insieme, che aveva radici antiche e consolidate. L’adesione, e più in generale il consenso degli intellettuali al regime, la “accettazione talvolta passiva e talvolta compiaciuta, di uno stato di fatto” (p, 197), “lo scarso impegno politico effettivo di masse molto vaste di professori e di studenti” (p. 203) che accettarono la fascistizzazione della scuola contribuendo tuttavia a svuotarla di un
reale contenuto positivo e costruttivo per un consenso che non fosse solo effimero o superficiale, possono attribuirsi al peso plurisecolare della “ideologia italiana” e della tradizione. Ma Candeloro non manca di considerare, in questa prospettiva, le conseguenze dei notevoli vantaggi recuperati dalla Chiesa con i Patti Late- ranensi, che “intaccarono fortemente in alcuni settori il carattere laico che lo Stato italiano aveva ereditato dal Risorgimento” (p. 234).
Sull’economia italiana degli anni trenta, Candeloro si affida certo agli studi più seri e solidamente documentati ed offre qualche spunto originale, sempre nell’ambito del suo attenersi ai dati della realtà più che all’analisi precaria e tutta “interna” delle motivazioni soggettive della propaganda fascista (corporativismo e ruralismo sono, come accenneremo, descritti in modo particolarmente realistico e disincantato, a dimostrazione di una perfetta padronanza critica delle fonti fasciste e del “pensiero mussoliniano”). Commentando l’istituzione delFImi e dell’Iri, Candeloro ricorda che l’intervento dello Stato nell’economia era stata una costante del processo di industrializzazione italiano, che assumeva ora il carattere nuovo contrassegnato dal ruolo di un “ente pubblico imprenditore” che tuttavia “non modificò il carattere capitalistico dell’economia italiana” (p. 282) e la sua base privatistica (la polemica con la tesi di Romeo è qui esplicita). La novità di maggior portata storica fu, però, rappresentata dall’enorme estensione del settore, pubblico, solo parzialmente attraverso la gestione diretta dello Stato, più spesso grazie alla costituzione di enti pubblici ed aziende autonome che dettero vita ad un’amministra- ziohe “parallela a quella dello Stato, che fu detta parastatale e che sopravvisse alla caduta del fascismo”, con “importanti conseguenze sulle vicende successive dell’amministrazione italiana fino ai nostri giorni” (p. 296). È questo un aspetto che la storiografia recente sul fascismo dovrebbe sottolineare di più, raccogliendo le indicazioni di Candeloro: il “parastato” si lega alla questione dei ceti medi, del loro
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consenso al regime, e dell’emergere o riemergere di forme di clientelismo e di “sottogoverno” che non quadrano con le frettolose analisi dei fautori dell’interpretazione del fascismo come “modernizzazione”.
È in nome della correttezza di una ricostruzione storica realistica che Candeloro opera una giusta riduzione della trattazione sul corporativismo, aggiungendo continue precisazioni che sono particolarmente utili al lettore più sprovveduto o disorientato da studiosi più simpatetici del fenomeno fascista e dei suoi “miti”. Le corporazioni, per esempio, oltre a non svolgere alcuna funzione reale di governo dell’economia, furono consigli perfino “privi di uffici propri” (p. 295), e dunque: “il termine burocrazia corporativa”, largamente usato negli scritti sul fascismo, è inesatto. Si dovrebbe parlare di ‘burocrazia sindacale’ o ‘confederale’, per indicare l’insieme degli uffici delle confederazioni, delle federazioni nazionali, delle unioni provinciali e dei sindacati” (p. 295). Inoltre, se la campagna di ruralizzazione aveva fondamenti utopistici e anacronistici di sapore ottocentesco, è comunque difficile stabilire quali fossero a questo proposito le ideali intenzioni di Mussolini: anzi, “poco importa saperlo. Interessano invece gli scopi politico-sociali, che egli si propose” (p. 300), e cioè il trasferimento in campagna di almeno una parte dei disoccupati urbani, alleggerendo la pressione di ceti che nelle città avrebbero dovuto fra l’altro subire le conseguenze dello sblocco generale dei fitti e riducendo insomma la minaccia delle “classi pericolose” verso gli equilibri del regime. Non dissimili, concretissimi scopi politico- sociali aveva avuto, nel 1929, la parola d’ordine fascista della “sbracciantizzazione”: Mussolini sapeva che il fascismo era penetrato superficialmente fra la classe operaia urbana e i braccianti agricoli, basi in passato della forza del movimento socialista e comunista che l’ex rivoluzionario intendeva liquidare con ogni mezzo. E insomma l’ineliminabile e indispensabile sostanza coercitiva, repressiva e di classe del “regime reazionario di massa” che ripresenta i suoi
problemi ad ogni studioso del “consenso”. La liquidazione politica del Pnf, il fallimento del tentativo fascista di creare una nuova classe dirigente, “il risultato pressoché nullo di tutto il gran discutere sui giovani che vi fu negli anni trenta su molti giornali e riviste del fascismo”, la accentuazione massima dei poteri di Mussolini e della sua dittatura personale, ebbero le loro radici in definitiva “nel fatto che il fascismo, malgrado le illusioni di tante persone in buona fede, in realtà non fu un movimento di rinnovamento, bensì di conservazione della struttura sociale esistente” (p. 312). Affermazione netta, ma valida; tentativo di spiegazione generale, ma non generico: Candeloro, del resto, sa bene che i veri semplicismi e le autentiche genericità degli storici si nascondono spesso diètro le loro professioni di obiettività (“lo storico deve capire, non deve giudicare ...”, eccetera).
Il carattere conservatore del fascismo come movimento sociale finì poi, non tanto paradossalmente, per determinarne i connotati eversori in campo internazionale. Candeloro, in un ideale dibattito fra studiosi della politica estera fascista che sostengono i fattori “esterni” e quelli che sostengono i fattori “interni”, starebbe con questi ultimi. Egli respinge (p. 344 e 388) le interpretazioni di Quartararo e De Felice sulla casualità della conquista to ta le dell’Etiopia, che Mussolini non avrebbe volutored indica anzi il motivo determinante dell’aggressione fascista nel tentativo di mobilitare gli entusiasmi popolari che una politica di pace avrebbe al contrario sopito, nel tentativo cioè di “tenere, per così dire, sotto pressione le masse giovanili, che non potevano eternamente accontentarsi delle adunate, delle parate e delle pseudo riforme interne, come la legge sulle corporazioni dell’aprile 1934[...]. Inoltre [...] restava sempre molto alto il numero dei disoccupati e più ancora quello dei sottoccupati, e restavano nel paese vaste zone di arretratezza e di miseria, che solo una lunga e profonda trasformazione sociale, di cui il fascismo era costituzionalmente incapace, avrebbe potuto eliminare o almeno ridurre in
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misura notevole” (p. 345). Candeloro non ignora la ampiezza e l’entità del grande successo propagandistico conseguito dal fascismo con la conquista dell’Etiopia, ma osserva anche acutamente che tale successo — culmine del “consenso” popolare al regime — apparve al momento della proclamazione dell’impero ancora più grande di quello che effettivamente fu: i fatti, gli eventi successivi si incaricarono di rivelare i limiti di quel successo, che portò Mussolini ad accodarsi alla Germania hitleriana e ad una politica estera avventuristica, e che dunque condizionò la vita interna ed il destino stesso dell’Italia fino agli esiti catastrofici della seconda guerra mondiale (p. 395). Mussolini non poteva tutelare davvero gli interessi nazionali per i motivi, “derivati dal carattere al tempo stesso reazionario ed eversivo del fascismo”, che possono essere indicati come costanti della sua politica: “le velleità imperialistiche, la sopravvalutazione delle forze effettive dell’Italia, l’abitudine al bluff, l’idea che in ogni occasione e da ogni trattativa l’Italia dovesse sempre trarre vantaggi clamorosi, soprattutto di carattere territoriale, i pregiudizi ideologici antidemocratici, anticomunisti e filonazisti, il timore che un arresto della politica espansionistica potesse provocare una crisi del regime” (p. 420).
Candeloro scrive pagine penetranti, dove si avverte l’apporto della sua testimonianza vissuta oltre che la sicurezza della precisazione filologica e scientifica, sul fenomeno dell’imitazione del nazismo, che il fascismo estese dal campo propagandistico e ideologico fino a quello della legislazione dello Stato italiano. Si chiariscono le distinzioni fra ra zz ism o e a n tisem itism o , fenomeni entrambi generali e diffusi in vari paesi europei a partire dal secolo XIX, ma caratterizzati, il primo, da una concezione della diversità delle razze e della superiorità della cosiddetta razza ariana sulle altre, e il secondo da fondamenti razzistici (ma anche di altra origine politica e religiosa) che pongono la necessità di una lotta per isolare, cacciare e distruggere gli ebrei (e il riferimento ai semiti risulta così improprio, dato che gli ebrei sono
solo una parte dei semiti) (p. 447). Riguardo all’Italia, sia il razzismo che l’antisemitismo erano fenomeni di scarsissima consistenza (o addirittura quasi assenti) prima che il fascismo iniziasse la sua campagna: questa assenza di pregiudizi razzistici o antisemiti di massa costituiva anzi uno dei caratteri nazionali degli italiani e “uno dei non molti aspetti di superiorità morale e civile degli italiani rispetto ad altre nazioni europee” che proprio il fascismo avrebbe modificato o intaccato (p. 448), con Fintroduzione della legislazione razziale.
“Questa legislazione moralmente ripugnante, oltre che irrazionale e contraddittoria, non portò ad orrori paragonabili a quelli prodotti dalla legislazione razziale nazista [...], ma fu causa di dolori e di sopraffazioni per alcune decine di migliaia di cittadini italiani che dal Risorgimento in poi avevano goduto degli stessi diritti degli altri. Essa non fu certo utile al paese, perché intralciò l’attività economica ed intellettuale di molti cittadini solerti e capaci, dei quali non pochi emigrarono all’estero e furono perduti per molti anni o per sempre dalla comunità nazionale. In generale si può affermare che la maggioranza degli italiani accolse con un certo stupore misto a disgusto la campagna razziale e la legislazione antiebraica e che la propaganda antisemita dei fascisti fece poca presa perché non veniva incontro a pregiudizi radicati e a interessi fortemente consolidati. Ed è vero anche che essa turbò molte coscienze e contribuì a spingere parecchie persone, giovani soprattutto, ad allontanarsi ideologicamente e moralmente dal fascismo e a divenire in seguito antifascisti attivi. È vero d’altra parte che non mancarono intellettuali, che approvarono e sostennero attivamente la campagna razzista, sia per motivi di carriera, sia perché illusi che la campagna antiebraica fosse la prova di una svolta antiborghese del fascismo. Si deve ricordare inoltre che il razzismo e l’antisemitismo divennero componenti ideologiche essenziali del fascismo nella sua ultima fase; perciò non deve far meraviglia che i movimenti neofascisti dei nostri giorni siano in
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gran parte fortemente permeati di razzismo e di antisemitismo. In questo senso si deve ammettere che la “inoculazione” dell’antisemitismo “nel sangue degli italiani”, di cui parlava Mussolini a Ciano il 6 ottobre 1938, ha dato qualche frutto” (pp. 453-454).
È una citazione lunga, ma è anche un brano, come si vede, che si commenta da solo e che vale la pena rileggere più di una volta.
Il fascismo ed il nazismo, lungi dal presentare quelle differenziazioni che alcuni storici hanno dilatato arbitrariamente al di là delle ovvie differenze che chiunque potrebbe rintracciare fra Italia e Germania, furono accomunati dunque da ben solidi legami ideologici oltre che politici e diplomatici, e Candeloro giudica ravvicinamento id e o lo g ic o e m o ra le del fascismo al nazismo come del tutto conseguente ed impegnativo al pari se non più della convergenza diplomatica e poi dell’alleanza. La fase della “non belligeranza” non deve trarre in inganno i suoi interpreti: “il termine — si precisa — rispondeva bene alle esigenze propagandistiche del duce, ma può essere giudicato esatto anche storicamente in quanto non vi fu rottura o preparazione di rottura dell’alleanza con la Germania, né preparazione di un passaggio dell’Italia all’altro blocco di potenze belligeranti come era avvenuto tra l’agosto 1914 e il maggio 1915” (p. 490). La neutralità o il cambio di campo avrebbero rappresentato una svolta contraria non solo alla politica successiva al 1936 cui Mussolini si mantenne fedele ma anche ai caratteri essenziali del regime, che ne determinarono l’imperialismo. Un’Italia neutrale che si avvicinava alle potenze democratiche occidentali avrebbe dovuto, a scadenza più o meno breve, rivedere alcuni dei presupposti in tern i più consolidati del regime reazionario di massa, quali l’esasperazione nazionalistica e l’idea della necessità dell’espansione e della guerra “come mezzi di mobilitazione e di eccitazione psicologica delle masse” (p. 491). Ad una tendenziale trasformazione del fascismo in un regime conservatore-moderato puntavano, beninteso spesso in modo inconsapevole, le forze
che avevano stretto con Mussolini i compromessi di potere del 1922, del 1925 e del 1929: la monarchia, parte degli alti gradi delle forze armate, la Chiesa e parte dei gruppi capitalistici. Ma è un fatto che “nell’autunnno del ’39 e ancora per quattro anni fino al 25 luglio 1943 queste forze non ebbero la capacità e la volontà di liquidare Mussolini (primo passo indispensabile per rendere possibile la trasformazione del fascismo), sia per timore di aprire la strada alla riscossa della classe operaia e delle forze di sinistra, sia per mancanza di coesione tra di loro. La marcia del fascismo verso la catastrofe, cominciata con la guerra d’Etiopia, doveva pertanto concludersi col^crollo militare, con la rottura del blocco sociale che aveva sostenuto il fascismo stesso e con la riscossa popolare e nazionale della Resistenza” (p. 492).
Candeloro, in questa conclusione, sembra più che altrove affidare il suo giudizio storico alla memoria di quegli anni: non vi è gioco di storia “contro-fattuale” che tenga, l’ineluttabilità di quella marcia verso la catastrofe torna preminente ad imporsi attraverso la ricostruzione storica che conferma e riecheggia tante veritiere testimonianze degli uomini che dovettero, allora, assistere impotenti e angosciati a quell’esito terribile. Il volume sul fascismo e le sue guerre si chiude con un richiamo alla Resistenza che, tuttavia, non è rituale, ma inserito in una interpretazione che sottolinea i fenomeni di ripresa antifascista del 1937-39, tali Certo da non mettere in pericolo 1’esistenza del regime ma importanti storicamente per comprendere la lotta di liberazione nazionale: “il fatto storicamente importante fu il travaso di forze dal fascismo all’antifascismo che avvenne nel corso di sette od otto anni, dal 1937 circa all’inizio della Resistenza” (p. 471).
Questa insistenza di Candeloro nel presentare al lettore riferimenti continui al medio e al lungo periodo, queste connessioni fra fatti storici rilevanti che lo storico deve selezionare (per spiegarli) dal gran flusso caotico e indifferenziato degli eventi, mi paiono istruttivi. Non sta qui un esempio di equilibrio critico che non è vacua
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equidistanza da interpretazioni divergenti o diplomàtica conciliazione di risultati opposti? Questo equilibrio poggia in primo luogo sulla serietà della riflessione, cui si aggiunge anche il dato temperamentale di uno studioso schivo e paziente con una lunga esperienza del mondo della scuola e dell’università, poco incline ai protagonismi spesso futili di chi segue o promuove una moda ed alza la voce nei dibattiti per rafforzare la povertà o l’inconcludenza delle
sue argomentazioni. Ma al di là del temperamento e della coerenza intellettuale dell’uomo, mi sembra che questo volume dia molte lezioni su un modo di pensare e di operare concretamente, di praticare insomma questo mestiere di storico, che rappresenta un punto di riferimento per chiunque di noi non abbia ancora smarrito l’abitudine ad interrogarsi sulle motivazioni e sugli intenti del proprio lavoro.
M arco Palla
Rassegna bibliografica
Nuove riviste, nuova storia?di M assim o Legnani
Se si dovesse considerare quello delle riviste come parte integrante del mercato complessivo delle pubblicazioni di storia, si dovrebbe dedurre che anch’esso non può non mostrare segni tangibili di cedimento e restringimento. Si dovrebbe insomma concludere che lo spazio per nuove iniziative si assottiglia e che più esili si fanno i margini di sopravvivenza delle preesistenti. In realtà le cose stanno diversamente; e le ovvie analogie di contenuti e di linea che si possono riscontrare tra i periodici e le altre edizioni di storia non sono trasferibili sul piano delle strutture produttive e di mercato. Ché, anzi, uno dei dati centrali, sotto il profilo editoriale, della cultura storica italiana è rappresentato proprio dalla scarsissima circolazione delle riviste, dall’essere, queste ultime, largamente fuori da un mercato che pure — salvo eccezioni come la fiammata tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta — non si segnala per ampiezza e vivacità. Certo, questa tradizione di “autoconsumo” della pubblicistica di storia — che meriterebbe di essere attentamente indagata da chi studia i modi e le potenzialità di distribuzione del lavoro intellettuale — non è rimasta immobile nel tempo. La crescita della popolazione universitaria, l’impianto dei corsi di laurea in storia per quanto hanno significato in termini di proliferazione degli insegnamenti se non delle discipline, le sempre più fitte articolazioni periferiche nella gestione dei beni culturali hanno concorso, insieme con altri concomitanti fenomeni, ad allargare il numero degli utenti di queste riviste, ma è dubbio che abbiano mutato anche la natura e la composizione
dei destinatari. Pur essendo, nel bene e nel male, tra i meno professionalizzati, il mestiere di studioso di storia presenta, sia nella formazione di base che nella strumentazione operativa, uno dei tassi più alti di riproduttività, ed essenzialmente riproduttiva è anche la cerchia dei lettori delle riviste di storia. Non dunque un pubblico, ma piuttosto un momento di amplificazione del lavoro prodotto all’interno di un ambito assai ristretto e destinato ad un gruppo limitato entro il quale vengono per solito cooptati i nuovi ricercatori. Ed è forse superfluo sottolineare quanto questa condizione incida su problemi quali quello della “divulgazione” storica, che è di necessità vista come altro dalla ricerca e dalla elaborazione degli orientamenti storiografici, relegata ad un habitat governato da istituzioni, logiche di mercato ed aggregazioni di pubblico pregiudizialmente alternative.
A dispetto di queste sin troppo ovvie considerazioni, il panorama delle riviste tende, s’è detto, a dilatarsi. E le ragioni del fenomeno vanno quindi ricercate all’interno del mondo degli studi, delle sue strutture organizzative e della diversa dislocazione delle tendenze e degli interessi. Non v’è dubbio, ad esempio, che il fiorire delle riviste locali, se da un lato riflette l’estendersi dell’area di presenza della cultura storica negli anni sessanta e settanta (quasi il rifrangersi di u n 'on da lunga), dall’altro riflette anche — nei prodotti migliori — la volontà di reagire ad un’immagine unidimensionalmente nazionale della storia italiana, quasi che le grandi trasformazioni socio-economiche della metà di questo secolo dovessero spingere a
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valutare come semplici “residui” le diversità dei quadri locali. Il fatto, poi, che su questa reazione abbia inciso anche la voga della storia sociale come mezzo di riscatto e di emancipazione della microstoria, aiuta a misurare le distanze intercorrenti tra simile fioritura e le tradizioni anteriori di “storia municipale”.
Diverso è il caso delle riviste “nazionali” sorte nell’ultimo decennio e per le quali occorre riferirsi ora agli “specialismi” del settore in cui si collocano (da “Storia urbana” a “Memoria”, per limitarsi alle più recenti), ora al retroterra politico-scientifico al quale, più o meno esplicitamente, attingono, ora ad una mescolanza dei due ingredienti. Una valutazione panoramica — certo non surrogata da queste rapide osservazioni — porterebbe facilmente a individuare gruppi e tendenze di cui le diverse testate sono espressione, e soprattutto ad illuminare i collegamenti con aree accademiche, enti, settori delle comunicazioni di massa. Ma questo panorama porrebbe anzitutto in luce un aspetto navralgico e senz’altro paradossale per l’osservatore esterno: la scarsa, per non dire inesistente, comunicazione tra le riviste.
L’aumento delle testate, e dunque degli interlocutori, non si traduce in un incremento del dialogo e del confronto. Si potrebbe anzi affermare che la moltiplicazione delle voci sembra offrire nuova conferma della diffusa condizione di reciproca sordità. Prova ne sia che più di una rivista rinuncia a presentarsi con un profilo programmatico riconoscibile, così che quello che sarebbe interpretabile — attraverso il sottinteso rinvio ai contenuti specifici — come una rivendicazione della serietà del “fare” contro le velleità delle enunciazioni di principio, appare piuttosto solo una forma di mimetismo. Quando Franco Andreucci e Gabriele Turi, presentando “Passato e Presente”, la nuova rivista da essi diretta, affermano che “nessuna delle riviste esistenti sembra possedere [...] la volontà esplicita di rispecchiare il dibattito storiografico, di discutere gli orientamenti della storiografia”, colpiscono indiscutibilmente nel segno. V è semmai da osservare,
sul seguito dell’editoriale, che le cause di questa lacuna sono ricondotte ad un ambito parziale, addebitate ad una sorta di diffusa “mediocrità” intellettuale della cultura storica italiana e non anche alle condizioni concrete del suo farsi. Discorso sicuramente arduo, ma tanto più necessario per la contemporaneistica e su cui più di uno spunto è stato prodotto dalla discussione condotta da “Quaderni storici” nel 1972-73.
La comparsa di tre nuovi periodici di storia, da cui queste note prendono avvio, offre indicazioni almeno in parte nuove rispetto alle considerazioni sin qui svolte? Trattandosi di fascicoli d’esordio, la segnalazione non può che assumere carattere provvisorio, fondandosi più sul modo di presentarsi di ciascuna testata che sull’analisi di contributi ancora troppo limitati di numero per consentire valutazioni compiute. L’immagine più scontata sembra essere quella di “Storia della storiografia” (“Rivista internazionale” semestrale edita da Jaca Book), cui bastano nove righe “al lettore” per dichiarare la propria “novità”. Essa nasce infatti — leggiamo — come emanazione della omonima commissione istituita all’interno del Comitato internazionale di scienze storiche, “con la precisa ambizione di offrire agli storici una sede aperta e realmente internazionale, in cui dibattere i problemi relativi alla metodologia e alla storia della loro disciplina”. La rilevanza della specializzazione prescelta è, per così dire, obiettiva. L’assenza di dibattito prima richiamata non rivela forse, dopotutto, una insufficiente consapevolezza delle condizioni entro cui si genera la cultura storica? E gli ultimi anni non sono stati segnati — soprattuto da parte dei seguaci della “nuova storia” — anche dallo sforzo di passare dalle forme tradizionali della “storia della storiografia” ad una più aderente, comprensiva, “globale”, “storia della storia”? A fatica tuttavia si rintraccerebbero echi di tali interrogativi in questo primo numero, che allinea in modo occasionale contributi diversi, così come occasionale riesce la parte bibliografica, che proprio dalla internazionalità del periodico dovrebbe trarre uno spessore critico-infor
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mativo sicuramente non riscontrabile nella generalità delle riviste italiane. In realtà, il proclamato carattere internazionale di “Storia della storiografia” sembra riconducibile, più che al proposito di scandagliare le tendenze più vive della produzione dei diversi paesi, alla internazionalità istituzionale delforganismo cui l’iniziativa fa capo. Aiuto comunque prezioso per assicurare una maggiore circolazione di materiale, ma anche rinuncia ad una funzione culturale ben altrimenti incisiva.
Di “Passato e Presente” (“Rivista di storia contemporanea” semestrale edita da La Nuova Italia) s’è già intrawisto il proposito di presentarsi come “strumento di intervento, oltre che di ricerca”, ponendo al centro della propria prospettiva critica “una concezione della storia contemporanea capace di riscattarsi dalle ipoteche tematiche e ideologiche legate al breve periodo novecentesco”. E la lucida insistenza sul carattere di “intervento” della rivista è sotto- lineata dalle condizioni ritenute pregiudiziali per la realizzazione dei propri programmi: “un’attenzione costante per le tendenze delle storiografia, un’informazione internazionale il più possibile ampia e aggiornata, una riflessione sui modi di circolazione della cultura storica”. Il sommario del primo numero documenta con puntualità questo impegno non facile e, giova ripeterlo, inconsueto nella pubblicistica italiana, spesso subalterna, come opportunamente osserva ancora l’editoriale, a “quelle gerarchie nella conoscenza storica che privilegiano e assolutizzano, di volta in volta, questo o quel campo di ricerca, questo o quel metodo di lavoro”. Tuttavia, se su questi passaggi il discorso racchiude una indubbia forza persuasiva, su altri esso appare eccessivamente allusivo, tale da entrare in contraddizione con le proprie premesse. Come quando indica tra i mali della contemporaneistica italiana “la sordità nei confronti della storia sociale” e “l’insensibilità di vecchia data per i problemi generali della conoscenza storica che ha fra l’altro contribuito all’affrettata liquidazione del cosidetto storicismo e dell’apporto del marxismo alla storiografia”.
Quali sono i destinatari della denuncia? È possibile, movendo dalla confusione delle lingue manifestatasi in proposito, parlare di storia sociale, e massime per l’età contemporanea, senza ulteriori specificazioni? E perché mai definire “cosidetto” lo storicismo? E che significa parlare di “liquidazione [...] dell’apporto del marxismo alla storiografia” italiana come di un evento ormai passato in giudicato? A quali aree e a quali agenti si rimanda? Gli interrogativi, come si vede, si infittiscono di fronte a giudizi tanto fortemente ellittici da risultare difficilmente valutabili.
La terza segnalazione riguarda “Cheiron” (“ Rivista semestrale del centro di ricerche storiche e sociali Federico Odorici di Brescia”), che porta come sottotitolo “Materiali e strumenti di aggiornamento storiografico” e esordisce con un fascicolo dedicato a “Il potere di giudicare. Giustizia, pena e controllo sociale negli stati d’antico regime”. Il titolo a chiave vuole istituire un parallelo tra il centauro che, “amico degli uomini trasmise loro la sua profonda conoscenza dell’arte medica ma non fu capace di risanare se stesso” e gli storici che, “dalla loro approfondita conoscenza degli uomini e delle vicende passate non sono in grado di trarre alcun suggerimento per migliorare il presente e programmare un avvenire meno minaccioso”. Ad attenuare questo senso di disillusione — o di sconfitta? — intervengono una constatazione e un impegno. La constatazione investe la almeno potenziale maturità della storia, la sua dimostrata “vocazione di disciplina sociale”, che “attraverso le acquisizioni delle altre scienze umane, ha preso ad interessarsi delle società passate in una prospettiva globale”; l’impegno è quello di contribuire a ridurre la “distanza esistente tra le frontiere della ricerca... e quanti, appunto, in vario modo e in diversa misura, considerano la storia parte integrante e viva del loro bagaglio culturale”. Gli echi delle conclusioni cui è recentemente pervenuto Jacques Le Goff (si veda la chiusa della voce S to r ia nel XIII volume dell’Enciclopedia Einaudi) sono chiaramente percepibili e non v’è dubbio che la
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capacità di risposta degli storici alle sollecitazioni esterne si pongano oggi con una urgenza tanto particolare quanto, spesso, non facilmente decifrabile.
Nessuna pretesa di conclusione, ma più semplicemente l’impressione che sia “Passato e
Presente” che “Cheiron” possano contribuire, dall’osservatorio delle rispettive impostazioni, a rimettere in discussione alcuni degli aspetti più statici e ripetitivi della pubblicistica storica italiana.
M assim o Legnani
M etodologia e storiografia
P. Marcenaro - V. Foa, R ip re n d e re te m p o . Un d ia lo g o con p o s ti lla , Torino, Einaudi, 1982, pp. 117, lire 6000.
R ip ren d ere te m p o è un libro difficile da classificare: è la rielaborazione di un’intervista (in cui, però, il personaggio “più illustre” è l’ihter- vistatore); è un dialogo tra due amici di età diversa che parlano di sé e del mondo; è un saggio a quattro mani sulle categorie interpretative della politica. È un po’ di tutte queste cose e altre ancora. Vittorio Foa interroga Pietro Marcenaro sulla sua esperienza di fabbrica (nel testo definitivo le domande non compaiono, ma si indovinano, rendendo più scorrevole la narrazione); poi, sollecitato dai racconti e dai pensieri dell’amico più giovane, va a cercare nel proprio passato conferme e contraddizioni, rimuginando tra sé una grossa questione: “mi chiedo se certi modelli e strumenti sono impraticabili oggi perché la realtà li ha superati, oppure se essi erano sbagliati, impraticabili,
anche prima, quando sembravano validi” (p. 97).
I due personaggi del libro -r- i dialoganti — sono apparentemente molto diversi l’uno dall’altro: Marcenaro è un operaio di trentacinque anni di una media azienda metalmeccanica torinese, Foa ha superato i settanta anni, è stato uno dei massimi dirigenti sindacali e politici degli ultimi quarant’anni ed ora fa il docente unversitario. Eppure hanno molte cose in comune: una lunga amicizia: centinaia di dialoghi non scritti, un mestiere (Marcenaro prima di entrare in fabbrica ha fatto per dodici anni il politico a tèmpo pieno dentro e fuori il sindacato), e una profonda sconfitta politica alle spalle (entrambi hanno lavorato nell’area della nuova sinistra per un’ipotesi di trasformazione della società italiana).
Ma hanno soprattutto in comune alcune atipicità. Innanzitutto hanno fatto parte di un’élite, in rapporto con “la gente normale”, ma per definizione mai identificata con essa (i compagni di naja sono ricordati da Marcenaro come “persone così normali
come da anni non mi capitava più di frequentare”, p. 27).
I due autori condividono un’altra anomalia; questa volta rispetto al loro gruppo di riferimento. Entrambi sottolineano l’atipicità della propria reazione ad un periodo di crisi politica della sinistra; Marcenaro racconta e difende le ragioni dell’abbandono del lavoro politico a tempo pieno per entrare in fabbrica: “In alcuni, penso, il carattere ripetitivo, ritualizzato della politica finisce per prevalere. Molti altri invece, pur avvertendo il decadimento del proprio lavoro, pensano che nell’organizzazione, nel partito, nel sindacato stanno in ultima analisi le sole possibilità di impegno e così decidono di continuare in attesa di tempi migliori, quando l’organizzazione garantirà di nuovo un rapporto con la realtà capace di rimettere in moto le proprie energie [...]. Sono posizioni molto rispettabili ma per me la situazione era allora diversa: continuare quella vita era diventato per me insostenibile dato che non vi trovavo più alcun elemento costruttivo” (p. 4). Foa parla delle moti
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vazioni del libro: “Va subito chiarito che ho fatto questa intervista non soltanto per aiutare un amico ma anche, e soprattutto, per aiutare me stesso. Avevo ed ho delle serie ragioni personali. Quando si superano i settant’anni dopo averne passati cinquanta a “fare politica” e ci si trova in una tempesta che investe strumenti di analisi, modelli culturali e progetti di trasformazione praticati per decenni (marxismo, socialismo) è difficile fare finta di niente. Vi sono dei vecchi militanti che abbassano le saracinesche, rimuovono tutto e si chiudono in quel poco che resta del privato. Altri invece difendono l’insieme delle regole e delle analisi del passato ma sono poi costretti ad arrampicarsi sugli specchi per restaurare almeno i pezzi più logori [...] Per parte mia sento acuto il bisogno di salvare dalla liquidazione quello che del mio passato sembra a me un nucleo coerente, ma per fare questo devo interrogare il passato e verificarne la continuità col presente” (pp. 95-96).
Ho insistito sulle peculiarità dei due autori per arrivare a quello che a me pare il tema di fondo del libro: il rapporto con la “normalità”.
Si sa che il ricorso al concetto di normale spesso — anche all’interno del movimento operaio — copre l’esigenza di esprimere valutazioni negative verso la non uniformità. Qui, invece, ci viene proposto un capovolgimento di quella logica: la gente normale è quella “normalmente diversa”, fatta da tanti tipi strani, diversi non solo gli uni
dagli altri, ma ciascuno da sé stesso in momenti diversi; ma questo non è necessariamente un male a cui va trovato un rimedio. AI contrario, è ipotizzabile che una valorizzazione delle diversità individuali (le soggettività) possa contribuire a ridare fiato ad un progetto comune: “Oggi credo che una prospettiva di trasformazione possa venire non solo dall’autonomia delle forze organizzate ma dalla possibilità di libere scelte individuali al di fuori di canali e percorsi istituzionali predeterminati” (p. 67).
R ip r e n d e r e te m p o non fornisce soluzioni, né risposte univoche, ma suggerisce (anche con il titolo?) un modo di riprendere in mano vecchie e grosse questioni (che cos’è la classe operaia? che cosa significa governo del tempo? è sanabile la contraddizione tra libertà individuale e volontà generale?...) rimanendo adere- renti il più possibile alla realtà fatta di uomini concreti. E non è neppure solo il prodotto di un momento di spontaneità e immediatezza di testimoni intelligenti che raccontano brani del proprio passato (anche se nel libro ci sono bellissime pagine di narrazione). Sottolineare l’estraneità di questo testo rispetto alla formula del libro-documento è indispensabile se non si vuole cadere in facili fraintendimenti del messaggio politico in esso contenuto e soprattutto se non si vogliono perdere gli spunti teorici più originali che fanno di questo volume un importante contributo di riflessione per chiunque si occupi ancora di storia del mo
vimento operaio con un’ottica militante.
Elisabetta Benenati
Mila Busoni, Paola Falteri, A n tr o p o lo g ia e c u ltu ra . Q u es t io n i d i a n tr o p o lo g ia c u ltu ra le e, d id a t t ic a d e lle s c ie n ze s to r ic o - s o c ia l i , Milano, ’ Emme Edizioni, 1980, pp. 500, lire 10.000.
Il libro che Mila Busoni e Paola Falteri hanno pubblicato per la Emme Edizioni sotto il titolo A n tr o p o lo g ia e c u l tu r a rappresenta un’utile indicazione, per quanti oggi si occupano di ricerca didattica, non tanto nel senso dell’originalità e della novità delle proposte o in quello dell’architettura sistematica, ma per l’estrema onestà della puntualizzazione del percorso teorico ed operativo compiuto in dieci anni di collaborazione intensa tra gli insegnanti del gruppo nazionale Mce di antropologia culturale. Ciò comporta una serie di riferimenti teorici molto vasta, articolata in varie direzione tematiche, implicante rapporto di numerosi livelli specialistici del discorso sull’uomo, continua- mente ricondotta dagli spunti e dagli effetti della sperimentazione ad una dimensione o- perativa che ne esplicita il duplice senso politico e didattico.
Ne risulta un discorso molto denso ed estremamente problematico, ma in ciò appunto consiste l’utilità dell’indicazione metodologica. È più che mai necessario oggi, evitando sia la pura storicizzazione del
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le. esperienze che colloca conclusivamente nel passato le spinte innovative profonde, sia l’elaborazione di nuovi modelli di strumenti didattici, che risolvono i problemi in senso efficientista, compiere ancora una volta lo sforzo di rimettere in discussione l’oggetto ed i soggetti del “fare scuola” e, insieme, degli Orientamenti culturali.
11 filo conduttore di questo libro è costituito da un percorso tra le contraddizioni più profonde che caratterizzano l’asse delle scienze dell’uomo: natura e cultura, soggettivo e sociale, categorie marxiane ed antropologiche, egemonia e subalternità, conformità e devianza, e comportamento simbolico e prassi, trasformazione e permanenza, e, sul terreno specifico della didattica, spontaneismo degli spunti o sistematicità precostituita, l’asse Dewey-Bruner o Gramsci, trasmissione o produzione di cultura, oppure, dalla parte degli insegnanti, primato della politica e/o “nuova professionalità”.
La messa a fuoco delle questioni nodali del campo teorico-operativo implica, di conseguenza, la ricostruzione della logica interna delle risposte che ad esse sono state fornite nell’iter compiuto e, se si vuole, da questo punto di vista, l’assunzione di responsabilità precise, l’esposizione volontaria e vulnerabile ai richiami critici di nuove e diverse opzioni. In fondo, però, questo libro ha la connotazione forte di un impegno che non può essere eluso, sottolineando la necessità delle scelte: scuola e cultura non esistono se non ci
si espone al rischio di formulare ipotesi e, su queste, costruire nessi e produrre senso. L’ipotesi finale, ad esempio, dell’introduzione nella scuola dell’obbligo delle scienze sociali, inizia dall’assunzione esplicita di un punto di vista marxista, che si richiama ai “nessi dialettici di determinazione tra i vari piani di realtà e, in particolare, ai nessi tra produzione-riproduzione della vita materiale e processi sociali e culturali...”. Ma, d’altra parte, tale ipotesi presuppone l’intero percorso di ricerca dell’Mce, dal 1960 ad oggi, dai primi interventi critici sulla didattica tradizionale della storia, su posizioni di storicismo umanistico, alla ricerca d’ambiente in senso de- weyano, all’assunzione dei parametri della nuova storiografia e, dopo il ’69, all’obiettivo didattico di una storia delle “collettività agenti” e degli e- lementi strutturali, centrando l’interesse sul vicino e sul presente. La ricerca etnologica, in parallelo, attraverso ed oltre Bruner, promuoveva la consapevolezza della relatività culturale con lo studio di società “altre”, offrendo alla frammentarietà ed all’appiattimento delle prime ricerche storiche il correttivo di una metodologia articolata in progetti, basata su una visione globale, e quindi anche soprastrutturale, della società e su più articolate dimensioni cronologiche, fino al.punto di rifondare la stessa didattica della storia potenziandola ed, infine, aggregandosi ad essa come “u- no dei diversi strumenti utili alla comprensione del sociale”. Il nuovo ed ulteriore o
biettivo è, a questo punto, uno studio integrato dell’uomo che eviti la trappola della contraddizione, ancora,- tra storicismo e presentismo.
Aurora Lombardi
Vieri Becagli, Giovanni Cherubini, Giorgio Mori, Carlo Pazzagli, Simetta Soldani, Lez io n i d i s to r ia to scan a , a cura dell’Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana, Firenze, Le Monnier, 1981, pp. 141, sip.
L’Istituto Regionale per la Programmazione Economica della Toscana (Irpet) svolge ormai da molti anni un pregevole lavoro di ricerca e di documentazione statistica e geoeconomica sulla regione.
Rispetto a questa attività il volumetto in questione, che raccoglie un ciclo di lezioni ai ricercatori dell’Istituto, rappresenta una novità abbastanza rilevante.
Non si tratta solo di una novità “esterna”, e cioè l’affiancare allo studio della congiuntura economica una riflessione di più lungo periodo centrata su un riesame della produzione storiografica esistente. Si tratta anche, mi pare, di una novità sostanziale, inerente l’asse interpretativo dell’economia e della società toscana che l’Irpet ha fatto proprio.
Infatti il “modello di sviluppo toscano” individuato dall’Irpet in precedenti pubblicazioni ha come chiave di volta da un lato il rapporto immediato tra apparato industriale toscano e mercato este-
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ro, dall’altro l’assunzione della piccola dimensione industriale, prevalente settorialmente e territorialmente, come esempio di econom ia di scala esterne alla singola unità produttiva, ma interne al settore di industria. Non è questa la sede per riprendere la discussione teorica su questo tipo di modello, ma ciò che vorrei sottolineare, come sua conseguenza sul piano dell’analisi storica, è che in esso tutte le linee della storia regionale (dal moderatismo delle classi dirigenti postunitarie, alla persistenza del rapporto mezzadrile, ecc.) vengono sussunte come altrettante “particolarità” che spiegano, molto spesso in chiave di razionalizzazione a posteriori, le caratteristiche dello sviluppo eco- nomico-sociale della regione. Queste lezioni cercano invece di affrontare i problemi che stanno alla base della società toscana contemporanea come veri e propri “nodi storici”, con tutta la loro complessità, collocandoli in un arco cronologico compreso tra l’ascesa al trono mediceo del primo dei Lorena ai primi decenni successivi all’unità nazionale.
I vari saggi (efficaci dal punto di vista della sintesi descrittiva quelli di Giovanni Cherubini e di Vieri Becagli sulla demografia ed il paesaggio agrario fino al XVI secolo e sulla sovrapposizione tra vecchio e nuovo nelle istituzioni dello stato regionale toscano tra Cinquecento e Settecento; estremamente stimolanti per i numerosi problemi storiografici e metodologici sottolineati quelli di Simonetta Soldani e Giogio Mori sul
moderatismo toscano e sulle strutture industriali nel decennio postunitario) sembrano comunque rimandare, come nodo di fondo, alla valutazione ed alla comprensione delle caratteristiche dei rapporti mezzadrili e della loro evoluzione.
Su questo è centrata la lezione di Carlo Pazzagli “Questioni di storia dell’agricoltura toscana dal ’700 ad oggi”, che propone, mi sembra, gli spunti interpretativi più originali.
La storiografia marxista degli ultimi venti anni — questo rimpianto del discorso di Pazzagli — prendendo spunti dalle osservazioni di Sereni è riuscita a rovesciare l’immagine della Toscana agricola tramandata dal moderatismo ottocentesco, per il quale la preoccupazione della conservazione sociale e l’opzione per il sistema mezzadrile si ammantava di motivazioni ideali e morali.
Non è ancora riuscita, però, a risolvere la questione della valutazione reale da dare di questa struttura e del suo evolversi in termini di transizione o meno al capitalismo. Sono insomma ancora presenti due ipotesi di lavoro: quella che si basa sulla staticità del sistema mezzadrile (Mirri, lo stesso Pazzagli), capace di intensificare e razionalizzare la sua produttività, ma incapace di trasformarsi qualitativamente, e quella che individua nella mezzadria (Giorgetti), sotto un involucro giuridico immobile, una forma di transizione verso il capitalismo agrario. Le verifiche sul campo non hanno confermato nessuna di queste
due ipotesi, anzi hanno sotto- lineato uno “iato [...] tra l’ipotesi generale di un processo di transizione al capitalismo e la difficoltà di scandire i tempi e di cogliere i modi” (p. 103).
Infatti anche con l’accentarsi delle funzioni decisionali, commerciali, di investimento nelle fattorie, durante la seconda metà dell’Ottocento, “gli esiti produttivi dell’azien- de continuano a determinarsi non tanto sulla base di un piano globale [...] quanto caso per caso, in rapporto alle situazioni specifiche e alle esigenze dei singoli poderi e delle singole famiglie” (p. 109).
Rispetto a questo Pazzagli propone, per le campagne toscane tra Ottocento e Novecento, l’immagine di una “attivazione colturale” (p. Ili) che dà luogo ad un “nonsviluppo”, o meglio ad un processo “piuttosto di crescita che di sviluppo” (p. 113) che, oltre a lasciare inalterati i caratteri di fondo della conduzione mezzadrile, afferma sempre di più un “sistema [...] idoneo a garantire in ogni caso il minimo rischio e ad offrire, nei momenti critici, la possibilità di un facile disimpegno da parte del proprietario, pur sempre in grado di puntare sulla continuità, ovvero sul’incremento del lavoro dei mezzadri legati inesorabilmente al volume della produzióne, in ragione del rigido rapporto sussitenziale che li vincola all’azienda” (p. 117).
Due elementi di quest’analisi vanno sottolineati e costituiscono, a mio parere, gli spunti più interessanti: da un
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lato la definizione delle zone mezzadrili come sacche di non sviluppo, dall’altro la loro funzione equilibratrice non solo nel senso della stabilità sociale, ma anche della possibilità di assorbire i contraccolpi che gli investimenti del proprietario possono subire in altri settori.
Queste affermazioni sembrano infatti configurare un’indicazione tematica nuova, in parte travalicante l’ambito delle “particolarità” regionali, che cerchi di ricollocare la questione della mezzadria (ben oltre le ragioni della sua secolare sopravvivenza) all’interno del ruolo assegnato alla campagna nello sviluppo capitalistico, come zona “periferica” — e quindi caratterizzata da un intreccio di vecchio e nuovo, di considerazioni economiche ed extraeconomiche, ecc. — rispetto a zone e settori più tipicamente capitalistici e quindi sacca di “non sviluppo” funzionale all’ammortizzazione di tensioni e costi generati altrove.
Marco Da Vela
La s to r ia :fo n ti orali nella scuola , Atti del convegno “L’insegnamento dell’antifascismo e della Resistenza: didattica e fonti orali”, organizzato dal Comune di Venezia, dall’Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia, dagli Istituti associati e dall’Università di Venezia (12-14 febbraio 1981), Venezia, Marsilio, 1982, pp. 275, lire 16.000.
Del convegno svoltosi a Ve
nezia nel febbraio 1981 su “L’insegnamento dell’antifascismo e della Resistenza: didattica e fonti orali” si è già dato un resoconto nel n. 142 di “Italia contemporanea”, con la pubblicazione della relazione introduttiva di Guido Quaz- za. L’edizione degli Atti, arricchita da un’ampia ed esauriente bibliografia sulla didattica della storia, sulla storia orale e su quanto prodotto in questo ambito dagli istituti della Resistenza, permette ora una valutazione ulteriore e più attenta del significato e dei ri
sultati dell’iniziativa. Particolarmente efficace si conferma l’impostazione: l’obiettivo specifico, e cioè il vaglio critico delle esperienze di uso delle fonti orali nell’insegnamento della storia, s’innesta sul problema più generale del come insegnare storia oggi, in risposta a quale domanda e per quali motivazioni. Ed è problema su cui il convegno di Venezia aveva saputo coinvolgere pariteticamente insegnanti, ricercatori e operatori culturali, spezzando per una volta la barriera che separa scuola e comunità scientifica e prefigurando forme nuove di dialogo.
Sotto questo profilo le relazioni, come pure i risultati dei lavori di commissione, pur nella diversità tematica, presentano un orientamento comune: l’individuazione di un mutamento nel “senso storico”, che induce ad una prassi storiografica, ma anche didattica, di segno diverso dal passato; di qui la necessità di ridefinire supporti teorici e metodologici e obiettivi formativi, senza tecnicismo, ma an
che fuori da scorciatoie ideologiche o da sperimentazioni improvvisate. Non casualmente la ricognizione critica viene estesa all’ambito dei mass-media, a considerare l’apporto nella storia dei mezzi audiovisivi o della comunicazione museale.
Che il principale tema in discussione sia stato la “storia orale”, con quanto ancora di innovativo e non istituzionalizzato o addirittura di polemico comporta questo terreno di ricerca, ha favorito l’emergere di questa tensione problematica.
In un momento di crisi della progettualità politica, di contrapposizione tra “privato” e “pubblico” — afferma Quaz- za — in cui alcuni approcci della nuova storiografia, come il ricorso all’oralità, sembrano caricarsi di significati contestativi rispetto alla storia “tradizionale”, s’impone u- na verifica dello stesso rapporto tra politica e storia. Si tratta allora di creare momenti di confronto e, senza nascondere divergenze d’impostazione pure profonde, elaborare una tipologia di ricerca il più possibile ampia e rispondente alle trasformazioni politiche e culturali in atto.
Rispetto alla dialettica, è preliminare l’analisi degli attuali destinatari dell’insegnamento storico, a partire dal quadro problematico in cui si collocano oggi insegnanti e studenti. All’attuale difficoltà dei primi di risolvere la loro identità professionale nella coincidenza tra impegno sociale e insegnamento, si contrappone la obiettiva difficoltà di rapportarsi al passato dei secon
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di, l’apparente modificazione delle loro coordinate temporali. Se si tiene ferma la rilevanza della forma conoscitiva offerta dalla storia — afferma Raffaella Lamberti — il problema didattico è oggi quello di indurre una domanda di storia assente o non immediatamente decifrabile. A livello generale, è necessario ripensare l’intera organizzazione dell’insegnamento storico, spezzandone la ciclicità ripetitiva, superando la tendenza delle storie a disegno e della loro “forma narrata”, costruendo curricoli che precisino analiticamente la trasmissione e l’elaborazione della disciplina. E trasmissione ed elaborazione implicano che anche nell’insegnamento della storia si assuma una prospettiva da “laboratorio”, che si elabori cioè una tecnica didattica capace di evidenziare i momenti di costruzione dell’operazione storiografica. Non si tratta, evidentemente, di formare a scuola dei piccoli storici, ma di combinare insieme, per quanto possibile, trasmissione dei risultati e riproduzione del modo in cui vi si è pervenuti.
L’obiettivo, indicato da Piero Brunello e da Ivo Mattoz- zi, è quello di fornire coscienza storica come “dimensione culturale che potenzia le capacità di osservazione e di analisi dei livelli in cui è scomponibile là realtà”. L’uso delle fonti orali, in particolare delle storie di vita, appare utile per la formazione dei prerequisiti stessi del senso storico, per abituare a contestualizzare eventi ed esperienze nello spazio e nel tempo, attraverso la ricostruzione del pas
sato personale o di quello familiare o collettivo, in un passaggio progressivo dal “vicino” al “lontano”, dal “prossimo”, al “remoto”, dal “locale” al “nazionale”, sviluppato a partire dalla scuola elementare.
11 curricolo di storia orale così tracciato può suscitare alcune perplessità, per un eccesso di fiducia e di compiti di cui le fonti orali vengono caricate. D’altra parte l’approssimazione di molte delle esperienze compiute, che si riducono a tentativi di controstoria su singoli periodi o avvenimenti, di antropologia retrospettiva o di “eventogra- fia” volgare, richiede di sottoporre le fonti orali ad una critica attenta della loro peculiarità.
Luisa Passerini, affrontando il tema V ita q u o t id ia n a e p o te r e n e lla r ic e r c a s to r ic a , in particolare rispetto a fascismo e antifascismo, sottolinea il rischio di trascurarne “il carattere doppiamente secondario, di interpretazione soggettive di esperienze parziali del reale”. Le fonti orali possono aiutare a dipanare la complicata matassa dell’intreccio tra soggettività e potere, tra vita quotidina e sfera pubblica, a patto di analizzarle con strumenti adeguati al campo specifico della memoria e tenendo conto che la memoria del singolo ha sempre a che fare con momenti di organizzazione e controllo istituzionale. Sul piano della ricerca il dibattito è tra chi, nella polarizzazione storica tra privato e pubblico, afferma la necessità di un’analisi che ne privilegi la separatezza, e chi
indica la ricca potenzialità di ricerche, che sappiano mettere a confronto ciò che di specifico emerge dalle fonti orali con i risultati storiografici acquisiti.
Rispetto alla ricerca didattica, tener conto della peculiarità delle fonti orali significa sgombrare il campo da una serie di equivoci, che possono essere generati dal rapporto simpatetico tra studenti e testimoni. Daniele Jallà, entrando nel merito della raccolta e della produzione delle fonti, ne individua il ruolo nell’es- plicitare alcune operazioni fondamentali del “fare storia”: l’analisi delle condizioni di produzione del documento, il procedimento di “costruzione” da cui nasce la storia, che le fonti orali (prodotte per la ricerca e non preesistenti ad essa) hanno il vantaggio di evidenziare più di altre.
Quest’ultimo aspetto torna ad emergere anche nella relazione di Peppino Ortoleva su L 'im m a g in e te le v is iv a e l ’in s e g n a m e n to d e lla s to r ia : l’interesse di una narrazione filmica della sforia è anche nella possibilità che il mezzo audiovisivo offre allo studioso di “proporre allo spettatore il lavoro di ricerca nel suo farsi, di costruire un racconto che ripercorra, insieme, la vicenda storica da ‘insegnare’ e il cammino del ricercatore che la analizza”.
Anche e soprattuto rispetto ai mass-media, il problema che affiora è quello del mutare della percezione del passato, dell’alterazione della domanda di storia, che porta a ripensare il modo di concepire e comunicare il prodotto
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intellettuale. Ed è in questa luce che Pietro Clemente, attraverso una lucida esemplificazione, propone di riconsiderare il discorso museografico, la sua potenzialità comunicativa, senza trascurare l’analisi delle tensioni ideologiche che, anche in questo caso, si sono riflesse nelle esperienze museali più recenti, in quanto a recupero del soggettivo, dell’originario, del rurale.
Ciò che si propone, insomma, quale obiettivo di ricerca, ma anche come problema interno alla didattica, è di individuare la potenzialità di strumenti specifici d’indagine e di conoscenza, tenendo contemporaneamente conto della valenza culturale e sociale che assumono nel presente, nella prospettiva di quella che Enzo Forcella ipotizza come possibile sintesi tra “ricerca” e “socializzazione” del sapere.
Rossella Ricci
Econom ia e società
Antonio Prampolini, A g r ic o ltu ra e s o c ie tà ru ra le n e l M e z z o g io r n o a g li in iz i d e l '900. L ’in c h ie s ta p a r la m e n ta r e su lle c o n d iz io n i d e i c o n ta d in i n e lle p r o v in c ie m e r id io n a l i e n e lla S ic ilia . Voi. 1°: L ’a g r ic o ltu ra . Milano, Franco Angeli, 1981, pp. 319, lire 14.000.
Si tratta del primo volume di una scelta antologica — che si prevede in complessivi tre volumi — degli atti del- l’“Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nella Sicilia”, svoltasi tra il 1907
e il 1911, comunemente conosciuta anche col nome di “Inchiesta Faina”. Antonio Prampolini, che ne è il curatore, correda l’antologia con un saggio introduttivo e con un’utile appendice statistica di Ghino Valenti tratta dal volume collettivo del 1919 “L’Italia agricola e il suo avvenire”.
L’inchiesta Faina è uno dei prodotti della vasta e consolidata prassi governativa delle inchieste parlamentari. Essa si caratterizza come punto d’incontro e fusione di due dei filoni d’indagine più prolifici per la quantità e la qualità delle informazioni raccolte, e più rappresentativi del climq politico e sociale dell’Italia postunitaria: le inchieste sull’agricoltura e il mondo rurale e quelle sul meridione. Basta ricordare a proposito gli illustri precedenti dell’inchiesta Jacini e di quella sul brigantaggio.
La genesi dell’inchiesta Faina è stréttamente legata all’iter legislativo dei “Provvedimenti per le provincie meridionali e per la Sicilia”, presentati da Sonnino durante il suo primo breve governo e fatti in seguito propri da Gio- litti per motivi di strategia politica. I provvedimenti, coniugando la riforma e il miglioramento dei patti agrari con gli sgravi fiscali nei confronti della grande proprietà, miravano ad assestare la società rurale su basi conservatrici. Prampolini nell’introduzione tende a dimostrare che Gio- litti, apportando come motivazione la necessità di attendere la raccolta di materiale conoscitivo sull’argomento, varò l’inchiesta nel tentativo di
allungare i tempi di attuazione della legge — specialmente per quanto riguardava la riforma dei patti agrari. In questa maniera riusciva a dimostrare un interesse formale del governo nei confronti dei contadini meridionali, venendo incontro alle richieste di alcuni settori meridionalisti e socialisti. Nello stesso tempo, appropriandosi della riforma son- niniana attraverso una gestione in tempi lunghi che la rendeva monca dei suoi aspetti più progressivi, ne devitalizzava l’incidenza politica. Fu la convergenza di trame così ambigue che permise di mantenere all’inchiesta Faina — a differenza di quanto era avvenuto con quella Jacini — il carattere formale d’indagine sui contadini. Gli stessi risultati conclusivi non tradirono del tutto qusta impostazione iniziale. Troviamo così accanto a dati sulla produzione e sulla proprietà, interessanti notizie e denunce più o meno velate sulle condizioni di vita dei contadini e sulla durezza dei patti agrari.
L’inchiesta fu affidata ad una commissione parlamentare presieduta dall’onorevole Faina, ma fu condotta da sei delegati tecnici, uno per regione, coordinati nella loro opera da Francesco Coletti. Essa fu svolta attraverso monografie regionali redatte sulla base di un questionario comune programmato da Coletti e che Prampolini allega in appendice.
L’inchiesta, nata quindi in una contingenza che vedeva l’intreccio tra il progetto di Sonnino, imperniato su un ru- ralismo di stampo conserva
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tore, e il sostanziale disinteresse di Giolitti nei confronti dei contadini meridionali, sacrificati alle esigenze sindacali degli operai settentrionali, e al recupero clientelare della proprietà fondiaria, venne in realtà funzionalizzata ad un terzo programma, quello nit- tiano. Nitti riuscì ad egemonizzare le conclusioni indirizzandole sulla sua politica di “ricostruzione del territorio” basata sul risanamento idraulico e forestale. Tutto sommato,. come nota Prampolini, se le conclusioni dell’inchiesta suscitarono scarsissimo interesse nell’opinione pubblica e nel parlamento, andrebbero invece‘valutati in maniera più approfondita i segni che questa esperienza lasciò sui protagonisti che la condussero a termine. Si tratta infatti di quei delegati tecnici, Bordiga, Azimonti, Lorenzoni, per fare i nomi più significativi, che ritroveremo presenti nel dibattito politico e scientifico nel dopoguerra e nel fascismo. Di questi personaggi Prampolini offre nell’introduzione degli u- tilissimi profili biografici che fanno luce sulla loro formazione scientifica, sulle competenze e sui metodi d’indagine utilizzati nel lavoro. Queste ultime indicazioni permettono peraltro una lettura critica più attenta dei risultati ottenuti. Si tratta quindi di un utile punto di partenza per un proseguimento delle loro biografie nel periodo successivo, che permetterebbe di recuperare certe radici e contraddizioni del dibattito sul meridione svoltosi negli anni venti e trenta.
In realtà, per quanto sotto-
valutati dai contemporanei, i dati raccolti nell’inchiesta hanno rappresentato una fonte estremamente ricca per la più recente e qualificata storiografia. Basti pensare all’uso assiduo che ne ha fatto Giorgetti in C o n ta d in i e p r o p r ie ta r i n ell'Ita lia m odern a , o all’avveduta utilizzazione che ne è stata fatta per la ricostruzione di spaccati di storia economica e sociale regionale, si tenga presente ad esempio l’ampio uso che da più parti si è fatto della monografia di Lorenzoni per la storia della Sicilia in età giolittiana. La raccolta di Prampolini ha quindi il merito di presentare i materiali della inchiesta ad un pubblico più vasto e meno specialistico.
È diffìcile d’altronde entrare nel merito della cernita dei brani fatta dal curatore, tenendo anche conto che il materiale conclusivo ammontava a più di cinquemila pagine, tutte di un discreto livello scientifico. Prampolini, piuttosto che assecondare la divisione originale in monografie regionali, ha preferito considerare “l’agricoltura meridionale intesa come realtà d’insieme”. In questo senso ha seguito come traccia discriminante la distinzione verticale, che attraversa tutta l’agricoltura meridionale, tra mezzogiorno arborato e mezzogiorno cerealicolo pastorale. Questa scelta trova una sua giustificazione nella stessa impostazione che Coletti volle dare a tutta l’inchiesta. Egli infatti imponendo un questionario standard a tutti i delegati mirava allo scopo di rendere omogenea la rilevazione. In
questo modo, pur emergendo le peculiarità delle diverse regioni agricole, si sarebbe potuta facilitare una lettura sia comparativa sia complessiva dei dati raccolti. Seguendo questo criterio l’antologia si divide in tre sezioni. Nella prima si presentano le descrizioni geoagrarie che i vari delegati stilarono delle rispettive regioni; nella seconda le diverse articolazioni regionali della proprietà fondiaria, dal latifondo alla piccola proprietà; nella terza i vari tipi di contratti agrari. All’interno delle tre sezioni vengono privilegiate tre regioni chiave, intese come stereotipi di quella distinzione verticale trà Mezzogiorno pastorale e Mezzogiorno arborato cui prima si accennava. La Puglia intesa “come realtà emblematica del Mezzogiorno arboraro”; la Sicilia “che rappresentava esasperati i caratteri del latifondo estensivo”; la Campania dove i caratteri agrari del meridione si intrecciavano e confondevano. Questa scelta di muoversi sul doppio binario della divisione verticale e per stereotipi regionali, che presenta una sua validità metodologica e pratica, finisce però col penalizzre la comprensione di alcune dinamiche tipicamente regionali e interzonali che emergerebbero da una lettura meno stereotipata e più omogenea delle realtà regionali. Per quanto riguarda la Sicilia ad esempio (stereotipo del latifondo) non emerge il ruolo della agricoltura costiera arborata che proprio in quel periodo, come notava lo stesso Lorenzoni, era soggetta ad un interessante processo di ristrutturazione
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aziendale e di commercializzazione che finiva per riflettersi su alcune zone del latifondo. Al di là degli inevitabili privilegi ed esclusioni impliciti in ogni antologia, Pram- polini scegliendo alcuni tra i brani più interessanti e rappresentativi delle varie monografie, riesce a stimolare il lettore interessato ad un approfondimento diretto sulle fonti.
Nelle previsioni del curatore il secondo volume avrà come tema di fondo la società rurale, il terzo l’emigrazione.
Salvatore Adorno
Carlo Felice Casula, G u id o M ig lio li . F ro n te d e m o c r a t ic o p o p o la r e e C o s t i tu e n te d e lla te r ra , Roma, Edizioni Lavoro, 1981, pp. 179, lire 10.000.
Questa ricerca contribuisce notevolmente alla ricostruzione della figura di Miglioli. L’A. ne studia la partecipazione al Fronte popolare del 1948 e.alla Costituente della terra, la quale precedette il Fronte e gli sopravvisse fin oltre il cinquanta. Si avvale di fonti inedite: carteggi tra protagonisti, carte private, nonché quel periodico “Nuova terra” che Miglioli condiresse con Grie- co, e che è pressoché introvabile. Il reprint consentirebbe una interpretazione in gran parte nuova della storia delle lotta agrarie del secondo dopoguerra (non sembra però che abbia potuto tener conto degli atti del convegno su Miglioli, tenutosi a Cremona nell’ottobre 1979 a cura di quella Amministrazione provinciale
e della Regione Lombardia, ora editi con il titolo L a f i g u ra e l ’o p e r a d i G u id o M ig l io l i 1 8 7 9 -1 9 7 9 a cura di Franco Leonori, Roma, ed. Quaderni del Centro di documentazione “Cattolici Democratici”, 1982, pp. 279).
Di particolare interesse le notizie sul Movimento cristiano per la pace, che aderì al Fronte, ma non vide eletto nessun suo esponente. Il Movimento non fu come tale sconfessato dalla autorità ecclesiastica; il colloquio Miglioli- .Tardini (principio del ’48) è inedito. Nell’agosto dello stesso anno il Movimento si oppose allo scioglimento del Fronte, (qui il Casula (a p. 40 nota 81) commette una lieve inesattezza, affermando che “Guido Miglioli e Ada Alessandrini rappresentanti del movimento cristiano per la pace si trovarono del tutto isolati nel sostenere la necessità della prosecuzione dell’alleanza frontista”; in realtà anche i socialisti di sinistra Cacciatore, Lizzadri e Morandi, rimasti nella presidenza del Fronte in rappresentanza degli organismi che li avevano delegati, votarono contro; così almeno secondo Lizzadri, Il s o c ia l is m o i ta l ia m o d a l f r o n t i s m o a l c e n tr o s in is tra , (Roma, Lerici, 1969, p. 92).
La seconda parte dell’opera (pp. 65-179) contiene scritti e discorsi di: Miglioli sulla questione agraria. Emerge la vastità della sua visione. Interessano anzitutto la ricostruzione delle occupazioni nel ’20 delle aziende padane, gli apporti su consigli di cascina e sul lodo Bianchi (pp. 102-111); ma assume notevole valore
documentario l’analisi dei fatti coevi: la crisi dei contratti agrari parziari, i rapporti tra riforma fondiaria e investimenti, nonché le lotte dei salariati 'e braccianti, tanto padani quanto meridionali. Senza dubbio le proposte di Miglioli
-contengono elementi populisti e talvolta confusi; ma la sua concreta collocazione storica
-pegli ultimi anni di vita (morì •nel- 1954) fu interamente nel movimento contadino, nel vivo della lotta, vennero le gratificazioni'di “classista” (“bolscevico bianco” nel ’21) addotte contro di lui dalla De e motivo reale della sua esclusione dalla rappresentanza ufficiale del mondo cattolico.
Emanuele Tortoreto
Matteo Pizzigallo, A lle o r ig in i d e lla p o l i t i c a p e tr o li f e r a i ta liana, 1920-1925, Milano, Giuf- fré, 1981, pp. 332,
In questo volume si ricostruiscono i primi passi della politica petrolifera italiana negli anni che precedettero la fondazione dell’Agip (1926). Sebbene l’incidenza degli idrocarburi nell’ambito del consumo energetico totale del paese continuasse a mantenersi su livelli complessivamente modesti rispetto ad altri paesi industrializzati (nel periodo 1916-1925 il consumo medio espresso in potere calorico o- scillò tra il 4,07% e il 3,89%), fu a partire dalla guerra che da parte degli ambienti tecnici e amministrativi più lungimiranti emerse per la prima volta l’esigenza di affrontare in modo' organico la questio
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ne degli approvvigionamenti petroliferi. 1 problemi da risolvere erano in questo senso molteplici: dalla riorganizzazioni dell’apparato burocratico (al fine di evitare la dispersione delle competenze e favorire una centralizzazione nel settore delle importazioni) allo sviluppo di imprese nazionali di ricerca e di raffinazione, dalla creazione di rapporti diretti tra l’Italia e i paesi produttori all’erosione delle posizioni di monopolio detenute sul mercato da due grandi compagnie nordam ericane (S tan dard OH) e anglo-olandesi (R o y a l D u teh -S h e ll).
L’A., sulla base di una documentazione tratta dall’Archivio centrale dello Stato e dagli Archivi storici del ministero degli Esteri, della Marina Militare, della Camera dei deputati, nonché dagli Atti parlamentari e dalla pubblicistica dell’epoca, ha inteso ricostruire l’atteggiamento dell’amministrazione dello Stato nei confronti del problema petrolifero, gli interventi in sede legislativa, le iniziative intraprese in sede diplomatica, i difficili esordi di un’industria nazionale nel settore. E proprio in riferimento ai primi due aspetti della questione, è dato cogliere gli spunti più interessanti della ricerca (il lato diplomatico per il periodo dell’immediato dopoguerra era già stato affrontato dal Webster). 11 quadro generale che ne emerge, appare quanto mai incerto e contraddittorio. Da parte delle autorità politiche si oscillò infatti tra la predisposizione affrettata di piani grandiosi ma del tutto irrealizzabili dato lo scarso peso
dell’Italia nel concerto delle grandi potenze (tipico il tentativo di accordo con la Romania), ed una sostanziale incomprensione della centralità del problema nel nuovo assetto internazionale emerso dalla guerra, e del complesso intreccio di interventi e di iniziative che esso comportava. Di conseguenza a partire dal 1921, crollato l’ambizioso progetto di una politica petrolifera di grande prestigio, si ricorse da parte dell’amministrazione statale a una serie di provvedimenti contrastanti discontinui e settoriali, in cui si sovrapponevano ritardi burocratici, pluralità di competenze, interessi privatistici e mancanza di visione d’insieme in sede politica. Ad una prima fase in cui si tentò di incentivare l’attività di ricerca di nuovi giacimenti nel sottosuolo italiano da parte di imprese nazionali prive delle necessarie basi tecniche e finanziarie, fece seguito nel 1924 la decisione (ben presto rientrata) di affidare al gruppo Sinclair un peso determinante nel settore. D’altra parte, le iniziative avviate all’estero da imprese italiane (Polonia, Albania, Messico) ebbero un’importanza del tutto trascurabile, né progressi rilevanti (a parte il caso isolato di Fiume) si registrarono sul terreno della creazione di un’industria di raffinazione, deposito e distribuzione che liberasse il paese da un’esclusiva dipendenza dai gruppi multinazionali stranieri. Per la verità in sede tecnica era stata proposta sin dal 1920 la formazione di un Ente per i petroli che, di fronte alla tendenza delle grandi po
tenze e di poche compagnie petrolifere di controllare il mercato mondiale degli approvvigionamenti, avrebbe dovuto provvedere direttamente al fabbisogno del paese, avviando programmi di ricerca e di concessioni all’estero, ed impiantando un’industria petrolifera direttamente gestita dallo Stato. Ma questo progetto, lasciato cadere sul momento, venne ripreso in sede politica soltanto nel 1923 dal ministro dell’Agricoltura De Capitani, per essere quasi immediatamente abbandonato in virtù degli orientamenti “liberisti” che presiedevano alla politica economica del governo Mussolini. Soltanto nel 1926, con il varo dei nuovi indirizzi “dirigisti” collegati alla nuova manovra di stabilizzazione della lira, la fondazione dell’Agip avrebbe creato le premesse di una “politica del petrolio” in Italia.
Si tratta di una tesi argomentata in modo convincente, anche se forse avrebbe giovato alla ricerca un maggior equilibrio tra la parte descrittiva e documentaria e la parte più propriamente interpretativa. L’A. inoltre segnala all’attenzione degli studiosi un altro tema suscettibile di ulteriori approfondimenti, e cioè l’atteggiamento del mondo industriale e finanziario italiano di fronte alla questione petrolifera, unitamente ai risvolti affaristici e di vera e propria corruzione politica che attorno ad essa non mancarono di venire alla luce, coinvolgendo ambienti e personaggi assai vicini all’area del potere.
Claudio Natoli
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Cesco Chinello, P o r to M a r g h e ra 1 9 0 2 -1 9 2 6 . A l le o r ig in i d e l “p r o b le m a d i V enezia" , Venezia, Marsilio, 1979, lire 8.800.
La storiografia contemporanea su Venezia, già ricca di una notevole pubblicistica apparsa negli ultimi anni, si è accresciuta recentemente per un nuovo contributo; a firmarlo è Cesco Chinello, militante comunista veneziano che nel 1975 pubblicò la S to r ia d i u n o sv ilu p p o ca p ita lis tico . P o rto M a r g h e ra e V en ezia 1951- 1973, un testo decisamente politico che centrava l’attenzione sullo sviluppo della seconda 'zona industriale di Porto Marghera. In questo sàggio l’A. mantiene sostanzialmente inalterato il quadro di indagine occupandosi della nascita del porto in terraferma. Il trait d’union tra i due lavori è rappresentato dalla volontà di ricercare nelle vicende relative alla nascita di Porto Marghera i “nodi” essenziali che hanno contribuito e contribuiscono a caratterizzare questa aggregazione industriale. Pare all’A. che i fili comuni che uniscono la prima alla successiva zona industriale siano individuabili non solo nell’estraneità, nella violenza, nella omogeneità di Porto Marghera, ma soprattutto nel suo essere il nuovo porto di Venezia, cioè l’elem ento che da sempre ha avuto un’importanza primaria nella storia delle città. Il tema centrale di quest’ultimo contributo del Chinello è quindi il porto di terraferma e, com’egli lo chiama, il “problema di Venezia”.
Questa scelta stimola subi
to alcune riflessioni; se è vero come affermano molti, tra cui lo stesso Chinello, che “Venezia è il suo porto”, è altrettanto certo che la città, come realtà storica, presenta tante diverse caratterizzazioni da vanificare molte schematizzazioni. Il considerare perciò come centrale il problema del porto, anche se rispondente a questa storia urbana, finisce pur sempre col determinare una eccessiva limitazione delle analisi a scapito degli altri problemi collegati.
Tale angolatura è riscontrabile anche nella prima parte del volume che analizza la storia veneziana dal 1797 al 1891 soffermandosi sulle tappe del rovesciamento di fronte di Venezia dal mare alla terra.
Il problema economico è, in questa parte, estesamente affrontato soprattutto per quel che riguarda la nascita di alcune imprese collegate al settore ferroviario, siderurgico e navale. Sembra comunque rilevabile la necessità di un approfondimento di alcuni fenomeni tipicamente veneti (il settore tessile, per esempio) e, soprattutto, l’ulteriore chiarimento delle integrazioni esistenti tra questi settori e la politica economica nazionale. A questo proposito si può osservare che certamente l’A. ha individuato i disegni del capitalismo finanziario, il suo essere traino dello sviluppo industriale giolittiano e gli stretti rapporti da esso intessuti con il potere politico, ma spesso l’attenzione rimane fissa sul problema iniziale e sul dibattito sviluppatosi a Venezia nel primo Novecento ri
guardante l’opportunità di ampliare il porto.
La scelta di Chinello è giustificata dalla consapevolezza che con questa querelle si decide il “problema di Venezia” cioè la localizzazione del nuovo porto in terraferma. Questa analisi rappresenta poi il contributo originale dell’A. che utilizza per la prima volta l’archivio di Piero Foscari, una delle figure più rilevanti nella vita politica ed economica veneziana fra l’Otto e il Novecento. Il Foscari fu infatti uno dei più influenti sostenitori del progetto Marghera sia in città, come consigliere comunale, che nella capitale in qualità di deputato del gruppo nazionalista e di sottosegretario dei governi Boselli e Orlando.
Dal volume emerge un quadro completo del personaggio e soprattutto viene chiarita in modo esemplare la sua visione lungimirante dell’importanza economica del nuovo porto sia per la città che per il retroterra italiano e centroeuropeo. Da un lato, questa figura del Foscari e, dall’altro, il pullulare delle idee e dei progetti per l’ampliamento del porto alla fine dell’Ottocento convincono Chinello a modificare uno degli schemi di approccio al “problema Venezia” negli ultimi cento anni.
Il “neoinsularismo”, come tendenza di Venezia a chiudersi in se stessa in un isolamento che ricerca con ostinazione una sua funzione guardando ai mercati del levante, sembra infatti al Chinello un concetto troppo ristretto, soprattutto per il periodo 1866- 1914. Chinello rivede questa
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impostazione, tipica ad esempio il W ladim iro Dorigo (U n a le g g e c o n tr o V enezia . N a tu r a s to r ia in te r e s s i n e lla q u e s t io n e d e lla c i t tà e d e lla la g u n a , Roma, 1973), dando spazio e giusta collocazione alla strategia antiinsularista di un ceto emergente formato da una grossa borghesia industriale-finanziaria con saldi agganci politici che si contrappone sempre più al vecchio ceto mercantile. Allo sviluppo della prima zona industriale di Porto Marghera ad opera del nuovo gruppo dei Volpi, dei Foscari, dei Papado- poli, degli Stucky e altri, è dedicata l’ultima parte del libro che ripercorre le tappe della realizzazione del porto dal 1917 al 1926. In essa vi si sottolinea come questa zona portuale fosse costruita con le finanze dello stato per essere gestita da un gruppo economico molto intraprendente che sfruttando i meccanismi dell’economia bellica e post-bellica, riesce a trarre e a favorire profitti impensabili.
Questa parte si presta però ad una lettura “Veneziocen- trica”, per cui Volpi sembra operare quasi unicamente in Venezia e con altri operatori veneziani. Certamente l’A. non trascura l’analisi complessiva del problema, dal filo diretto tra Volpi e la Banca commerciale italiana a quello tra il gruppo Sade e gli altri gruppi elettrici nazionali. Si tratta, ad ogni modo, di riferimenti o di elementi dati quasi per scontati e che invece, a volte, meriterebbero più spazio per convalidare l’interpretazione di Porto Marghera come momento dell’affermazione di nuove
concezioni economiche e portuali concretizzate da nascenti gruppi industriali e finanziari; interpretazione, che è comunque presente.
L’indagine ci porta infatti a scoprire “che Marghera costituisce uno sbocco dei processi di riorganizzazione economi- co-industriale, portuale e urbana che hanno investito Venezia nell’Ottocento e nel primo Novecento e che, da questo punto di vista, Marghera è, dunque, un’operazione tut- t’altro che improvvisa, ma lungamente sedimentata e maturata”. È, in pratica, il prodotto di un disegno di gruppi capitalistici che hanno attuato strategie vincenti creando un’occasione di profitto congeniale al sistema di potere vigente.
L’analisi non si limita però alla ricerca di questo storico filo comune tra il periodo napoleonico e quello attuale della storia veneziana; la chiave di volta di Porto Marghera viene così individuata nella “violenza”. Secondo Chinello il porto di Venezia in terraferma ha un carattere di base, rimasto immutato: è un insediamento traumatizzante il tessuto regionale e, pur essendo congeniale alla strategia del potere vigente ha contribuito a metterlo in crisi acuendo gli aspetti negativi e facendo maturare la classe operaia.
Congenialità e alternativa sono perciò gli aspetti più evidenti di questo aggregato industriale e ci sembra che questa puntualizzazione, da un punto di vista storiografico, sia estensibile a tutta la storia veneziana dal periodo napoleonico ai giorni nostri.
Il volume di Cesco Chinello offre perciò non pochi spunti per una riflessione sugli ultimi centocinquanta anni di storia veneziana: pare che i più interessanti si possano individuare nella visione complessiva della portualità veneziana, nel ruolo del Foscari come teorico del porto di terraferma, nel rapporto esistente tra le scelte economico- finanziarie e quelle urbanistiche, tra le politiche veneziane e quelle riguardanti l’Italia e l’Europa.
Da un punto di vista storiografico va osservato poi che questo testo ha il pregio di saper filtrare gran parte della letteratura su Venezia degli ultimi cento anni in un resoconto discorsivo e armonico; il tutto senza trascurare i contributi più recenti della storiografia economica e politica italiana.
Giovanni Formenton
Antifascism o e Resistenza
Pierluigi Pallante, Il P .C .I . e la q u e s t io n e n a z io n a le . F riu li- V en ezia G iu lia 19 4 1 -4 5 , Udine, Del Bianco, 1980, pp. 283, lire 9.000 (Collana dell’Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione. Studi e documenti).
Quanto mai opportuna la pubblicazione a cura dell’Istituto friulano di questo studio di P. Pallante. Non solo perché rappresenta la definitiva rottura di una dicotomia di studi riscontrabile nella produzione dei due istituti per la storia del movimento di liberazione, quello regionale di
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Trieste e quello appunto di Udine, per cui le questioni delle nazionalità e dei rapporti interstatali, erano e sono più al centro delle ricerche condotte attorno al polo triestino, mentre quelle promosse in Friuli sembravano prevalentemente indirizzate alle ricche sollecitazioni che vengono da una società regionale in rapida trasformazione.
11 lavoro di Pallante rappresenta anche una precisa in-, dicazione di contenuto (e parzialmente, come vedremo, di metodo). Infatti la questione delle nazionalità, i rapporti interstatali e lo “scambio internazionale” nella più larga accezione culturale-economi- ca-politica, investe una regione storica, tra Italia e Jugoslavia, molto ampia che va almeno dal Tagliamento sino ai territori interni dei litorali sloveno e croato (una questione ancor più complessa si pone per la società marittime gravitanti sulle coste centromeridionali dell’Adriatico). Qui, tra l’altro, si pongono in modo precipuo e peculiare i problemi di rapporto tra storia locale e “storia nazionale”. L’analisi della politica dei comunisti italiani nei confronti delle realtà e dei destini politico-civili e amministrativi delle terre nordorientali — nell’interazione tra centri decisionali nazionali e periferia, tra strategie terzinternaziona- liste e tattiche legate alle diverse situazioni storiche che maturano, tra programmi, dirigenze, militanti in carne ed ossa e concretezza di lotte, rapporti di classe e di massa che si stabiliscono — non può emarginare, specialmente nei
cinque anni presi in considerazione da Pallante, il ruolo svolto dal movimento garibaldino friulano.
Certamente ad entrare nel contenzioso interstatale tra Italia e Jugoslavia saranno soprattutto i territori e le popolazioni della ex Venezia Giulia, ma i rapporti di forza più consistenti, i confronti più decisivi che uniscono e anche dividono — appaiono essere stati quelli tra la resistenza friulana, con la sua forte componente comunista (e attorno ad essa gravitano le zone più calde del goriziano) e la resistenza slovena. Gli agglomerati urbani, la stessa Trieste, sembrano emarginati da tale dialettica interna allo schieramento antifascista. Il capoluogo dà un contributo molto consistente di uomini e mezzi alla lotta di liberazione che oggi forse si tende a sottovalutare di fronte allo spessore che assumono fenomeni come l’attesismo, il cosmopolitismo indipendista, il collaborazionismo aperto o strisciante. Trieste è però in qualche modo tagliata fuori dalle linee di tendenza decisionale.
La storia della città in quegli anni, quando le prospettive stesse aperte dal regime di occupazione tedesco offuscano ulteriormente il riferimento ai nessi statali prebellici, è una storia di “separatezza” non solo dal Friuli ma dalla stessa penisola istriana. Separatezza, s’intende, relativa rispetto all’ineliminabile circolazione di uomini e modi di vita nelle pieghe della società regionale. Ecco: questo accostamento più puntuale all’apporto dei comunisti friulani
nella vicenda del confine orientale è un dato offerto da Pallante che fa riflettere ed è di per sé già una lezione di metodo. Ma c’é la linea complessiva di partito, la decisione di vertice, l’immagine del centro dirigenziale comunista che conta, e come! Pallante ha il merito di riunire Una serie di sparsi elementi conoscitivi venuti alla luce in questi ultimi anni dalla storiografia e dalla memorialistica, non solo di partito, in merito ai rapporti tra comunisti italiani e jugoslavi. Ed è uno strumento di grande utilità vedere raccolti e messi a confronto gli sparsi contributi sul problema di Massola, Secchia, Togliatti, Longo, Amendola e quelli ricostruttivi di Spriano, Ragionieri, Catalano, per fare solo alcuni nomi.
Di fronte alla storiografia jugoslava, e a quella slovena in particolare (e di fronte a materiale documentario non sempre inaccessibile), le indicazioni metodologiche di Pallante (soltanto implicite, per la verità, nel taglio complessivo del volume) sembrano venire meno. Non mi fiderei a questo punto delle traduzioni soltanto provvisorie di prese di posizioni ufficiali o ufficiose di parte jugoslava. Nel caso poi della lettera che Kar- delj invia a Tito nel maggio del 1942 si impone qualche considerazione più generale. Non mi scandalizzerei troppo delle pesanti considerazioni che il dirigente sloveno fa (p. 53) sul conto di Massola e della vedova di Martini, in stile vetero stalinista ai nostri occhi di lettori d’oggi. Ma proprio nel caso di Kardelj —
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e non solo suo — sarebbe quanto mai necessario rapportarci allo svolgimento delle linee di pensiero e programmatiche dei comunisti jugoslavi sui problemi delle nazionalità. Forse non scopriremmo minore rigidità nelle scelte operate nel fuoco della lotta tra 1942 e 1944 sui problemi di sistemazione statuale delle terre adriatiche, ma capiremmo meglio articolazioni e posizioni successive. Caso mai dallo studio di Pallante esce accresciuto il dubbio sui livelli di reciproca conoscenza, tra italiani e jugoslavi, delle reali condizioni di sviluppo democratico delle rispettive società, sulle alleanze stabilite, sui metodi di lotta in Italia e Jugoslavia.
Avrei francamente respinto la tentazione in cui l’autore cade di voler stabilire “una coerente linea di continuità” (p. 267) nella storia del Pei su questo versante di problemi. Tanto più quando si sono a- dombrate — magari nel caso specifico della vicenda di Vincenzo Bianco — le “contrattazioni e le ambiguità del Pei sul problema giuliano” (p. 263). E si è aperta invece un’ipotesi soltanto, ma più produttiva, e cioè che “la posizionejugoslava fosse condivisa e sostenuta anche da altri membri all’interno della Direzione del Pei Alta Italia” (ibid.). Tutto da verificare, d’accordo, ma su questa strada eviteremmo le secche delle “contraddizioni e delle ambiguità” e coglieremmo una dialettica di posizioni presenti all'interno del partito che conosciamo ancora poco e male. Ricordate il cenno di Ragio
nieri, desunto da verbali di riunioni successive .alla Conferenza dei Triumvirati insurrezionali del novembre 1944 (qui p. 215), alle posizioni di chi auspicava “che gli Jugoslavi arrivassero fino al Po o quanto meno Che ad esssi venissero assegnate le due città ( T ries te e G o r iz ia )?
Teodoro Sala
Camilla Ravera, L ettere a l p a r t i to e a lla fa m ig lia , Roma, Editori Riuniti, 1979, pp. 265, lire 4.500.
Il contributo più significativo fornito dalle L e tte r e a l p a r t i to e a lla fa m ig l ia , curate con felice intuizione da Rosa Rossi, è quello di permettere la conoscenza più approfondita, dopo la lettura del suo D ia r io , non solo dell’attività politica di una grande dirigente comunista negli anni bui del fascismo, a partire dal 1926, ma anche degli aspetti riguardanti la sua dimensione specifica di donna.
È un contributo che ci mette in condizione di seguire il formarsi di una intellettuale comunista come dirigente, attraverso le prove della clandestinità, del carcere, del confino.
Dalle lettere raccolte nella prima parte, scritte a Togliatti durante il periodo del lavoro nel centro interno clandestino del partito (1926-37), emerge subito come la Ravera sappia far uso, chiaramente di proposito, di una essenzialità d’informazione, di una precisione e concisione nelle espressioni, di un “codice del
la politica”, tanto più necessari in momenti in cui l’aggressione del fascismo costringe alla clandestinità e alla resistenza.
Naturalmente queste lettere offrono anche un quadro della ispirazione e prospettiva politica dei comunisti italiani, espresso con intensità, entusiasmo ed immedesimazione dalla Ravera, anche in un momento così difficile: “ci stiamo conquistando fra gli operai quella fiducia e quel prestigio che occorrono per poter guidare la rivoluzione proletaria” (p. 44).
Un ultimo elemento di questo primo gruppo di lettere è la loro minuziosità e problematicità. Si nota, infatti, la capacità dell’autrice di passare con disinvoltura e precisione da un problema all’altro — la situazione politica regione per regione, il bilancio del partito, il lavoro sindacale nelle fabbriche — con la severità e, al contempo, l’equilibrio e l’umanità di giudizio, nel riferire, ad esempio, nella lettera dell’ 1 gennaio ’27 il colloquio avuto con un compagno in crisi (pp. 53-56).
Il secondo gruppo di lettere, quelle scritte dal carcere nel periodo 1930-35, rappresenta dal punto di vista delle possibilità espressive e della narrazione di sé come donna, una situazione opposta a quelle della clandestinità. Infatti, i legami profondi e i buoni rapporti familiari nell’isolamento del carcere fanno rivivere alla protagonista tutto un mondo di ricordi e di speranze, sicché l’intreccio tra “personale” e “politico” si fa strettissimo e la Ravera potrà scrivere al
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fratello: “E tu, caro Cesare, dimmi qualche cosa di te... e su tutte le cose tue che m’interessano, e tu lo sai, più delle mie personali” (p. 85), intendendo con quel “tue” le cose di un altro essere e le cose di tutti.
La scrittrice diviene così rivelatrice, attraverso accenti di rara intensità espressiva, "di una interiorità a cui forse non sarebbe arrivata in condizioni diverse.
Un altro elemento di intensa rivelazione della personalità della Ravera è la riscoperta del mondo vegetale e animale, costretta com’é dalla separazione violenta dall’azione a guardare con rinnovata attenzione questo mondo. Già nelle lettere da Roma e poi in particolare da Trani, questo tema è costante nelle lettere alla famiglia: con gioia rivede “il verde e le piante”; vengono poi le notazioni sul giardino delle monache e sugli oleandri di Trani; sulle oche, sui polli e sugli uccelli (pp. 115-127).
Inoltre, è da sottolineare la capacità dell’autrice, che, pur nella drammaticità della sua situazione di carcerata e segregata, alimenta continuamente il “dentro” di sé, non solo attraverso la memorizzazione della lotta politica, ma attraverso i canali della meditazione, dell’osservazione, della lettura, di cui sottolinea in particolare la funzione importantissima nella lettera del 28 agosto 1930 (p. 87).
E sorprendente come riesca sempre a ritrovare il valore dell’esperienza in sé, a riscoprire la funzione della solitudine e del silenzio, e addirit
tura a trovare l’allegria, in una indomabile capacità di rivolta contro l’ingiustizia.
Nel terzo ed ultimo gruppo di lettere, quelle scritte dal confino di Ventotene nel periodo 1940-43, si ritrovano, in forma più distesa e matura, il tema della lettura, la visione ampia del rapporto tra politica e cultura, tra creazione artistica e intervento diretto nella realtà, e soprattutto la capacità di questa donna, praticamente isolata dalla famiglia e dalla politica da tredici anni, di essere “ indomabile” . Nella lettera scritta dopo il 25 luglio riafferma: “Io mi ostino a sperare, a credere nella mia liberazione prossima” (p. 251).
Il dato che emerge, attualissimo, dalle sue “Lettere al partito e alla famiglia” è l’uso degli strumenti — culturali, affettivi, morali e ideali — per costruirsi, nelle peggiori difficoltà, come dirigente completa e anche come donna.
Ilaria Lasagni
Primo De Lazzari, E u g en io C u rie! a l c o n f in o e n e lla lo t ta d i l ib e r a z io n e , Milano, Teti, 1981, pp. 184, lire 10.000.
Primo de Lazzari si era già ampiamente occupato di Eugenio Curiel quando, nel 1972, aveva pubblicato la S to
r ia d e ! F ro n te d e lla g io v e n tù n e lla R e s is te n za ; vi torna ora, proponendo una biografia politica che tiene conto, ovviamente, dell’ampio dibattito accesosi in anni successivi, anche a partire dall’edizione amen- doliana degli S c r itti (1973), con una serie di considerazioni che, da molti punti di vista,
sono di buona utilità per comprendere meglio le complesse vicende dell’antifascismo e della resistenza armata italiani. Non dunque la “caccia all’inedito”, quanto invece una puntualizzazione e una rimeditazione su un personaggio forse non ancora studiato adeguatamente se non per certi aspetti della sua riflessione sul tema della “democrazia progressiva”, o a causa di alcuni “problemi” recentemente sollevati in relazione alla sua militanza in Gl e nel Psi, prima di approdare definitiamente al Pei. Né vanno dimenticate le polemiche del 1978-79, dopo il ritrovamento presso l’Archivio centrale dello stato dei verbali dell’interrogatorio subito da Curiel all’atto del suo arresto del 1939 (polemiche acriticamente e scandalisticamente riprese da Sergio Bertelli nel suo // G r u p p o del 1980).
Primo de Lazzari riprende i vari temi, esponendoli sinteticamente e sistematicamente, dandoci così un quadro d’assieme rapido ed estremamente utile. Certo con ciò non si chiude la riflessione su Curiel; anzi, forse-restano ancora da esaminare con serenità gli aspetti del pensiero del giovane triestino in quegli anni trenta che fino ad ora sono stati solo oggetto di polemiche e di s c o o p più giornalistici che storici. Quale “socialismo” si prefigurava per il giovane militante, è una domanda ancora in parte priva di risposta. Tuttavia questo volume mette un punto fermo. E non è poco allo stato attuale della riflessione.
Luciano Casali
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Rolando Cavandoli, A n tifa sc is m o e r e s is te n z a a N o v e lla ra 1 9 19-1946 , Novellara, Anpi, 1981, pp. IX-313, lire 10.000. Rolando Cavandoli-Pietro Pirondini, P a r tit i a n tifa s c is ti e C ln n e lla B a ssa R e g g ia n a , ¡91 9 -1 9 4 6 , Reggio Emilia, Tecnostampa, 1981, pp. 280, lire10.000.Antonio Zambonelli, L ’ó v a lu- n éin a . S to r ia d i R u b ie ra d a l 18 0 0 a l 1946, Rubiera, 1980, pp. 221, lire 8.000.
Ancora tre volumi sulla storia più recente del Reggiano dovuti ad autori che già hanno affrontato la ricostruzione delle vicende di varie località della loro provincia con sicurezza e “mestiere”. La ricerca, con il passare degli anni, va sempre più approfondendosi ed ormai regolarmente scavalca i rigidi termini cronologici della resistenza armata che aveva, in altri casi, limitato il respiro e l’analisi. Ricca di documentazione, attentamente ricercata ed usata, si tratta di una ricostruzione scrupolosa, resa pregevole dalla capacità di inserire le vicende locali nella più ampia trama provinciale e regionale, tanto da evitare nel modo più assoluto qualsiasi tentazione di cadere nel localismo e nel campanilismo, troppo spesso presenti in certe “storie locali”. Pur nella loro ristrettezza territoriale, i tre studi vanno segnalati e non confusi nella marea dei troppi libri emiliani, inutili e da dimenticare, sulla Resistenza.
Luciano Casali
llario Rasini, P a r tito c o m u
n is ta e lo t t e a g ra r ie n e l R a v e n n a te . C o l le t t iv i e c o o p e r a z io n e a g r ic o la n e lla B assa R o m a g n a (1 9 4 5 -1 9 4 8 ). Ravenna, Cooperativa culturale ricreativa Libera stampa romagnola, 1982, pp. 145, lire 6.000.
La nascita del “collettivo agricolo” come proposta locale di “soluzioni” della questione agraria nel Ravennate negli anni fra Resistenza e ri- costruzione era già stata al centro dell’attenzione di numerosi studiosi, anche se la limitata documentazione disponibile aveva costretto a soffermare l’analisi più sugli aspetti politici che su quelli sociali ed economici del problema. La sistemazione e l’apertura al pubblico dell’archivio della federazione comunista di Ravenna (oltre che una minuziosa ricerca in piccoli archivi locali) ha ora permesso a llario Rasini di affrontare globalmente la questione, in tutta la sua complessità e di analizzarne sistematicamente forme e contenuti nelle dieci località della Bassa Ravennate che videro l’espansione e l’affermazione della gestione collettiva dei terreni da parte bracciantile.
La nuova documentazione mette in grande evidenza il carattere “spontaneo” del fenomeno, le remore da parte del partito comunista (cui del resto i collettivisti fecero capo) ad accettare una esperienza fin troppo direttamente collegata al “vecchio” riformismo baldiniano, la “continuità” ideale fra cooperazione prefascista e nuova gestione collettiva, sia pure con un riferimento politico che vedeva
nei soviet russi un preciso “modello”.
Luciano Casali
M iss io n e “ S im ia " . H a r o ld W. T ilm a n . Un m a g g io r e in g le se tra i p a r t ig ia n i , Belluno, Comune-Istituto storico della resistenza, 1981, pp. 82, sip.
Il volumetto costituisce la traduzione della terza parte delle memorie autobiografiche che H.W. Tilman pubblicò nel 1946 per la Cambridge University Press (W h e n M en M o u n ta in s M e e t) . Quando, sul finire dell’estate 1944, l’A. raggiunse i partigiani sulle montagne del Bellunese, aveva alle spalle alcune ascensioni famose, come quella sul Nanda Devi (1936) e sull’Eve- rest (1938) e una vita avventurosa di esploratore in Africa ed Asia; e il suo costume non mutò negli anni successivi tanto che, a quasi 80 anni, nel 1978, Tilman scomparve mentre navigava fra Rio de Janeiro e le Lalkìand.
Le “avventure” sulle Alpi, dal Cansiglio alla liberazione del Veneto, sono raccontate con piglio secco e vivace, con abili descrizioni di luoghi e persone. Di particolare interesse le vicende della divisione “Nanetti” e la sua riorganizzazione dopo il grande rastrellamento subito nell’autunno 1944, ma non vanno dimenticate neppure le pagine nelle quali viene accuratamente descritta (ed apprezzata) la vita quotidiana e l’azione militare dei partigiani garibaldini: “È generalmente accettato il fatto che la rapidità e tota
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lità della disfatta tedesca in Italia siano dovute in non piccola misura ai partigiani”.
Luciano Casali
R a sseg n a d e lle r iv is te
D em ografia , storia soc ia le , storia politica
Un nuovo contributo all’or- mai ricco dibattito teoricometodologico attorno alla storia sociale, è quello pubblicato sul primo numero del 1982 di “Social History”. Riprendendo la vecchia critica alle “Annales” formulata da Ge1- novese nel 1976 e i più recenti interventi di T.Judt su “ History Workshop” e di G. Ely e K. Nield su “Social History” (1980), Steve Hochstadt, col suo S o c ia l H is to ry a n d p o li- tics: a m a teria lis t v iew (“Social History”, voi. 7, january 1982, n. 1) aggiunge un approccio specialistico, quello di un demografo storico, alla discussione sui rapporti tra storia politica e storia sociale. Hochstadt polemizza con gli autori prima ricordati sulla pertinenza dell’affermazione che il luogo privilegiato del lavoro storico sia la politica, idea che egli attribuisce ad una visione teorica marxista fortemente influenzata dal gramscismo. Pur non difendendo i modelli sociologici o strutturalisti che sottendono gran parte della produzione di storia sociale, Hochstadt rivendica ad essa dei risultati e delle potenzialità non colte da critici troppo preoccupati a demolire le tecniche quantitative o l’introduzione di con
cetti-guida generici ed ambigui come quello, ad esempio, della modernizzazione. La demografia storica, accusata spesso di aggiungere poco o niente alla “spiegazione” storica, può invece — per Hochstadt — collegarsi a temi più generali del potere, della coscienza di classe, della lotta politica, proprio perché'interessata a descrivere le strutture familiari e sociali di un’epoca (riproduzione, matrimonio, morte, malattie, relazioni personali, emigrazione) e il processo dinamico che le altera. Il problema è comprendere in qual modo la politica influenzi i diversi aspetti della vita, scoprire, ad esempio, che connessione vi possa essere tra i mutamenti politici e la trasformazione della struttura familiare delle classi lavoratrici. Hochstadt sostiene che è possibile studiare in qual modo i rapporti sociali influenzino i processi demografici: ma non prima di aver stabilito che relazione vi sia, ad esempio, tra salari e mortalità o tra lavoro infantile e struttura della famiglia. È quindi essenziale collegare lo studio della demografia ai mutamenti tecnologici e materiali avvenuti. Precondizione per poter parlare di coscienza di classe e lotta politica è infatti, per il periodo della prima industrializzazione, la conoscenza delle migrazioni temporanee, del loro effetto nella creazione del proletariato urbano, del loro ruolo nel favorire le differenze interne alla classe operaia. Se è vero che “il controllo della natalità, l’età del matrimonio e le migrazioni sono indicatori demo
grafici essenziali della costruzione umana dei rapporti sociali”, è anche vero che la demografia storica può “servire” teorie differenti. Prendendo spunto dagli studi recenti sulla storia della famiglia, Hochstadt rifiuta l’ipotesi che nel periodo dell’industrializzazione vi sia una risposta agli stimoli esterni per soddisfare bisogni tradizionali, affermando invece che la reazione della popolazione a- gricola non dimostra né una resistenza né una accettazione, ma un’attiva partecipazione alla trasformazione: la famiglia contadino-operaia, cioè, non seguirebbe i modelli e i valori familiari borghesi né semplicemente si opporrebbe ad essi come generalmente ritenuto.
Pur se reali, comunque, i legami tra demografia e politica andrebbero esaminati con cautela. Né la dialettica né il concetto gramsciano di egemonia possono infatti offrire una chiave per comprendere il declino della fertilità o il livello della mobilità geografica. E se categorie come la modernizzazione sono forse troppo spesso usate in maniera approssimativa, è anche vero che esse includono esplicitamente i problemi demografici ignorati invece da chi focalizza la ricerca storica sui rapporti di classe, intesi per lo più come lotta di classe o lotta politica tout court. I critici “politici” della storia sociale non spiegherebbero, in sostanza, se la sfera politica risulti importante come oggetto di studio o acquisti addirittura il carattere di fondamentale categoria esplicativa del
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processo storico. E la riduzione della coscienza di classe alla lotta politica degli operai impedirebbe di prendere in esame altre forme di coscienza non originate da rapporti di potere (l’aspettativa di una vita breve, l’alta mortalità infantile, l’alta vulnerabilità alle malattie). Secondo Hochstadt la ricerca della coscienza “di classe” ha'dominato troppo a lungo lo studio della coscienza: e se è vero che il passaggo ad una società urbana e industriale ha avuto effetti su tutte le classi e che lo sviluppo materiale ha abbassato la mortalità in tutte le categorie sociali, occorre riprendere in considerazione come fattore determinante del mutamento non la politica, ma la vita materiale. Perché, si chiede Hochstadt, si sostiene che lo stato sia come organizzatore della vita sociale più importante che non il livello dello sviluppo tecnologico? L’identificazione della lotta politica come centrale categoria storica, teoricamente sostenuta dal gramscismo, risulterebbe così una concezione diam etralmente opposta a quella di un materialismo storico “rivisitato” in cui la demografia dovrebbe riconquistare — a dispetto del disinteresse per essa mostrato da Marx e dai marxisti — un ruolo centrale di raccordo tra lo studio delle forze produttive e l’analisi dei rapporti di produzione.
Marcello Flores
Le “A nnales” nella storiografìa degli anni ottanta
Nel dibattito critico, la sto
riografia francese delle “Annales” ha una presenza discontinua ma ricorrente, quasi definibile nella dimensione della ‘lunga durata’. In genere, mentre negli anni settanta prevalente era il momento descrittivo dei paradigmi interpretativi fondamentali, in questi ultimi anni si è posta l’esigenza di prospettare bilanci più o meno complessivi di questa corrente storiografica. In particolare alcune opere, come P en se r la R é v o lu t io n f ra n ç a ise di Furet e M o n ta il- lo u : s to r ia d i un p a e s e di E. Le Roy Ladurie, hanno suscitato dibattiti e interventi tendenti a porre in discussione l’impostazione metodologica complessiva delle “Annales”. Seguendo “l’avventuroso viaggio nelle regioni di quella che un tempo si chiamava filosofia della storia”, L. Guerci nel saggio F u re t e la r iv o lu z io n e f ra n c e se ("Quaderni storici”, 1980, n. 2), analizza le tappe di P en se r la R é v o lu t io n f r a n ç a ise mettendone in rilievo la dimensione esclusivamente ideologica: in una sorta di ‘paese di ombre’ ove non appaiono mai riferimenti precisi di tempi e di luoghi, i conflitti di classe si configurano come conflitti tra rappresentanti delle varie ‘società di pensiero’ per conquistare “quella posizione simbolica” che è la volontà popolare. Lo svolgersi del discorso di Furet nella dimensione di una astratta “sociabilité démocratique” è in definitiva un invito, secondo Guerci, a “precipitarsi negli archivi e sfogliare carte e documenti”, rivalutando anche eruditi come R. Cobb. L’interpretazione dell’opera di Fu-
ret non è però sempre così negativamente univoca: nell’ultimo numero di “Quaderni di storia” (1982, n. 15) B. Bongioanni nel saggio R iv o lu z io n e b o r g h e s e o r iv o lu z io n e d e l p o l i t i c o ? N o te a p a r t i r e d a F u ret e d a l r e v is io n is m o s t o r io g ra f ic o , dopo aver passato in rassegna le interpretazioni ‘neogiacobine’ della rivoluzione francese da Aulard a Le- febvre, mettendone in rilievo la dimensione ideologica a- stratta e monocorde, si sofferma, rivalutandone gli aspetti di novità, sul ‘revisionismo storiografico’ che ha come principali esponenti Furet e Ri- chet.
La peculiarità del ‘revisionismo storiografico’ sta nel- l’aver individuato accanto ad altri aspetti fondamentali della rivoluzione francese, la “rivoluzione del politico”, ossia il costituirsi di una dimensione politica autonoma che si stacca dalla società civile per divenire patrimonio esclusivo dei clubs e dei partiti e infine dello stato. In modo forse troppo rapido e poco convincente, Bongioanni conclude con la citazione di alcuni passi della S a c ra F a m ig lia destinati a dimostrare che già K. Marx aveva compreso questa ‘rivoluzione del politico’, anche se i marxisti hanno preferito spesso dimenticarsene.
Una tematica più generale viene affrontata da I. Waller- stein nel saggio B ra u d e l e la s to r io g r a f ia c o n te m p o r a n e a (“Studi storici”, 1980, n. 1), ove propone una interpretazione delle “Annales” alla luce di uno schema interpretativo proprio di Braudel e centrato sui termini di struttura, con
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giuntura e evento. Significativa è la ricostruzione della congiuntura socio-culturale che ha favorito la diffusione dei paradigmi delle “Annales” e l’adesione ad essi di numerosi studiosi provenienti dal marxismo negli anni 1945- 1967. Innanzi tutto la situazione di debolezza della Francia successivamente alla seconda guerra mondiale e la sua esigenza di porsi anche sul piano culturale in una posizione di autonomia rispetto agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica, permisero a L. Febvre e a F. Braudel di trovare nei governi sufficienti consensi per costituire apparati istituzionali duraturi, quali la Maison des Sciences de l’hom- me. Anche la crisi del marxismo, spesso confluito su posizioni staliniste, spinse molti intellettuali interessati al.‘reale empirico’ ad uscire da una situazione ideologica sclerotiz- zata e a far proprie le posizioni di quegli storici che pure si occupavano di ‘struttura e congiuntura’. Mentre la situazione veniva mutando, intorno al 1967 le “Annales” sviluppando tematiche affini alla storia quantitativa e alla psicostoria elaborarono un sistema di pensiero “più congeniale”, secondo Wallerste- in, “al punto di vista mondiale dominante”, allontanando così gli storici marxisti. Quindi, conclude Wallerstein, le “Annales” nate da problemi congiunturali più che strutturali, esaurita la congiuntura favorevole, sembrano destinati ad assumere una identità culturale diversa. Mentre nella gran parte delle riviste storiche francesi la storiografia
delle “Annales” sembra dimenticata o rimossa a livello di dibattito, nel primo fascicolo del 1982 delle “Annales” C.S. Ingerflom nella nota L e p r o c è s d e s A n n a le s discute di due libri usciti a Mosca (J. Afanesev, L ’h is to r is m e c o n tre l'e c le c tism e , Moscou, 1980 eM.N. Sokolova, l ’h is to r io g r a
p h ie f r a n ç a is e c o n te m p o r a i ne).
Ingerflom mette in rilievo l’impostazione di Afanesev e Sokolova sostenendo che alla grave disinformazione aggiungono pregiudizi sull’intera storiografia occidentale, considerata borghese e asservita agli interessi nemici. Ma se gli storici russi paiono ispirarsi ad una visione statica della storia, anche le obiezioni di Ingerflom hanno le stesse caratteristiche di astrattezza e suggeriscono in modo molto vago il contenuto delle opere discusse.
In una prospettiva di decisa valorizzazione, quasi di scolastica delle “Annales”, si configura il saggio di G. GemelliF. B ra u d e l e le m e ta m o r f o s i d e l te m p o s to r ic o (“Intersezioni”, 1982, n. 2), che costruisce una complessa riflessione sui vari momenti della teoria di Braudel inquadrandola da una parte in una prospettiva interpretativa unitaria e dall’altra riconducendola alle matrici concettuali proprie del pensiero storico ed economico. In questa complessa ermeneutica, fitta dei più diversi riferimenti alla cultura francese, un particolare rilievo assumono le teorie economiche di F. Simiand e F. Per- roux. Perroux in particolare, nella sua definizione di spazio
qualitativo originato dalla crisi del mercato autoregolato e dal prevalere di una economia sempre più controllata dagli interventi dello stato, accentua la dimensione del decentramento delle aree economiche e “della destabilizzazione dei poli dominanti”, influendo largamente sulla nozione di spazio di Braudel. In complesso la storiografia delle “Annales ”, nonostante alcune isolate riproposizioni, sembra attraversare un momento di difficoltà in cui fronteggia gli attacchi critici precisando e ridefinendo le proprie posizioni a livello teorico (cfr. Burguière, del comitato direttivo delle “Annales”, T he F ate o f th è H is to r y o f M e n ta l i té s in th è A n n a le s " (Comparative Studies in Society and History”, 1982, n. 3).
Paola Pirzio
Narrazione e “nuova storia”
Tradotto in italiano è comparso sia pure con relativo ritardo l’interessante saggio di Lawrence Stone, Il r i to r n o a lla n a r r a z io n e : r if le s s io n i su un a n u o v a vecch ia s to r ia (“Comunità”, 1981, n. 183, pp.l- 25) già uscito su “ Past and Present” (novembre 1979, n. 85, pp. 3-24) e tradotto anche in francese su “ Le débat” (1980, n. 3).
Si tratta di un saggio che è opportuno illustrare nelle sue linee essenziali per la chiarezza e l’ampiezza dell’indagine metodologica e per il dibattito che ha suscitato fra gli studiosi. Seguace di una tra
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dizione storiografica che non disdegna le grandi sintesi, Sto- ne esamina la parabola di alcune metodologie storiche e la crisi che gli sembra si manifesti ormai chiaramente in alcune delle correnti storiografiche del secondo dopoguerra e in particolare nella metodologia economico-m arxista, che aveva raggiunto i suoi maggiori risultati fra gli anni trenta e gli anni sessanta; nella scuola francese delle “An- nales” e nella scuola americana di cliometria, fiorite ambedue fra il sessanta e il settanta. In questo quadro vengono anche affrontati i problemi posti dalla scuola strutturalista e funzionalista, che si configurano come derivazioni e varianti metodologiche delle grandi esperienze del dopoguerra.
Ma gli esiti dei grandi modelli di storiografia scientifica sono stati sostanzialmente deludenti, e Stone sottolinea con particolare acutezza l’inadeguatezza delle ipotesi monocausali o demografiche nel definire l’oggetto della ricerca stessa e delle contraddizioni che si manifestano fra vita sociale e vita culturale utilizzando gli strumenti offerti dalla sociologia, dall’economia e della scienze sociali.
Ancora più pungenti sono riserve che Stone avanza sulla cliometria alla luce dei risultati raggiunti: “Conosciamo tutti relazioni di dottorato, o saggi o monografie a stampa che si sono serviti delle tecniche più raffinate per dimostrare l’ovvio, o per cercare di provare l’implausibile, ricorrendo a formule o a linguaggi che rendono incontrollabile la
metodologia da parte dello storico medio. I risultati associano a volte i vizi dell’inattendibilità e quelli della banalità” (p. 10-11).
La sostanziale inadeguatezza del modello quantitativo ha indotto alcuni storici francesi a servirsi degli strumenti offerti dall’antropologia, più che di quelli offerti dalle scienze sociali: di qui ha origine lo studio attento di mentalità, di riti, famiglia, scuola, emozioni, moralità ecc. che sono fra gli aspetti più vivaci e stimolanti della nuova storiografia francese ed anglosassone, e che trovano anche in Italia qualche esponente di prestigio, come C.Ginzburg. Questo fenomeno segna, secondo Stone, una profonda trasformazione della metodologia storica per la necessità di utilizzare nuovi modelli, di elaborare nuovi strumenti concettuali e di impiegare nella ricerca le scienze umane, dalla psicologia alla linguistica.
Ma lo studio della mentalità, con il recupero della soggettività, segna anche un ritorno alla narrazione “quanto a contenuto, metodo e forma” (p. 16). Certo questo ritorno alla storia narrativa non si configura come un semplicistico ritorno al passato; esso si realizza utilizzando ampiamente gli strumenti analitici, cercando nuove fonti e nuovi soggetti, come per esempio le classi subalterne. Tuttavia questo ritorno alla narrazione non è esente da rischi (localismo, particolarismo ecc.) e pone una serie di problemi di non facile soluzione. Esso sembra indicare più un superamento della storia analiti
co-scientifico-quantitativa-strut- turale che una via univoca e praticabile di fare storia. L’indagine di Stone tende quindi a porre in evidenza uno spostamento del centro della ricerca storica dalla natura all’uomo.
Questa ipotesi ha aperto nelle pagine di “Past and Pre- sent” una polemica a cui hanno partecipato rappresentanti della rivista stessa. È intervenuto dapprim a Eric Hob- sbawm, The R ev iva l o f N arra tive : S o m e C o m m en ts (febbraio 1980, n. 86, pp. 3-8) che affronta anch’egli il problema dello sviluppo e della trasformazione della ricerca storica nel periodo seguente la seconda guerra mondiale, e anch’egli concorda sul profondo significato innovativo rappresentato dalla scuola storiografica occidentale negli ultimi anni. Tuttavia questa trasformazione non gli sembra che possa essere considerata come un ritorno alla narrazione; infatti anche se alcuni storici hanno preso in considerazione personalità, eventi o mentalità questo tipo di produzione si configura come un m e zzo per esaminare questioni di più ampio respiro. L’interesse di questi storici continua ad essere rivolto ai “grandi perché” della storia e quindi all’interno dei temi della ‘nuova storiografia’.
Il mutamento di interessi e di soggetti storici può trovare una spiegazione nell’ampliamento del campo storiografi- co dalla storia sociale alla brau- deliana “storia oscura di tutti”, che aumenta le difficoltà tecniche ma “non è necessariamente in contrasto con il
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tentativo di dare una spiegazione corente del passato” (p.5).
1 risultati sostanzialmente positivi conseguiti dalla ricerca sulla realtà socio-economica ha permesso d’altronde un ritorno alla storia politica, arricchita però dagli strumenti di ricerca forniti dalla storia sociale, come accade all’opera di Jacques Le Goff.
Secondo Hobsbawm per capire il passato si può esaminare una situazione, per giungere a comprendere la struttura di una società. Lo stesso problema può ovviamente essere affrontato anche con altri modelli, poiché la storia della mentalità non esclude altri me-
doti. a parere di Hobsbawm quindi il saggio di Stone, se ha il pregio di esaminare le linee di sviluppo della storiografia, giunge ad una conclusione inadeguata perché è errata la premessa sulle motivazioni dei cambiamenti.
Va segnalato anche un successivo intevento Philip Abrams, H istory, S ocio logy , H is to rical S oc io logy (“Past and Present”, maggio 1980, n. 87, pp. 3-16): che esamina in particolare il rapporto storia/socio- logia nell’intento di verificare se sia possibile definire un “terreno comune” alle due discipline. Pur senza entrare nella polemica sulla “ narrazione” Abrams osserva co
me la tendenza a superare i limiti tradizionali sulla scienza storica e di quella sociologica siano espressione di una volontà di risolvere in modo meno rigido i problemi del- l’agire umano.
Caduti i tradizionali limiti della ricerca, l’apporto della sociologia ha permesso agli storici di poter meglio analizzare le strutture sociali; mentre d’altra parte lo scambio di metodologie più propriamente storiche ha consentito ai sociologi di servirsi del concetto di te m p o nel suo fluire costante.
Nanda Torcellan
Spoglio dei periodici stranieri 1981di Franco Pedone
Sono stati presi in considerazione i seguenti periodici:A u stria : “Zeitgeschishte”;Bulgaria: “Etudes balkaniques”; C ecoslovacch ia : Studia histórica slovaca. F rancia: “Actes de la recherche en sciences sociales”, “Annales économies, sociétés, civila- tions”, “Annales de démographie historique”, “Cahiers d’histoire”, “Cahiers du monde russe et soviétique”, “Cahiers Léon Trockij”, “Le Débat”, “Etudes rurales”, “L’Homme et la société”, “Milieux”, “Le Mouvement social”, “Recherches”, “Relations internationales”, “Les Révoltés logiques”, “Revue d’histoire de la deuxième guerre mondiale”, “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, “Revue française de science politique”, “Revue historique”; G erm an ia R d t: “Beiträge zur Geschichte der Arbeiterbewegung”; “Zeitschrift für Geschichtswissenschaft;G erm ania R ft: “Geschichte und Gesellschaft”, “Historische Zeitschrift”, “Militärgeschichtliche Mitteilungen”, “Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte”;G ran B retagn a: “Comparative Studies in Society and History”, “Critique”, “The Economic History Review”, “The English Historical Review”, “History Workshop”, “The Historical Journal”, “Journal of Contemporary History”, “Journal of Social Policy”, “New Left Review”, “Oral History”, “Past and Present”, “Social History”, “Socialist Review”; Ju goslavia : “Casopis za Suvremenu Pojest”, “Vojnoistorijski Glasnik”;
O lan da: “International Review of Social, History”;P olon ia : “Acta Histórica Poloniae”, “Dzieje Najnowsze”, “Studia z Dzjajow Zssr i Europij Srodkowej”;R o m a n ia : “Revue des etudes sud-est européennes”, “Revue roumaine d’histoire”;S p a g n a : “Estudios de historia social”, “Revista de estudios internacionales”;S vez ia : “The Scandinavian Economic History Review and Economy and History”, “The Scandinavian Journal of History”;U ngheria: “Acta histórica”;U n ion e S o v ie tica : “Istorija Sssr”, “Novaja i noveisaja istorija”, “Voprosij Issorij”, “Vopro- sij Istorij Kpss”;S ta ti U niti: “The American Historical Review”, “Family History", “Journal of Asian Studies”, “Journal of Economic History”, “Journal of Interdisciplinary History”, “Journal of Latin American Studies”, “Journal of Modern History”, “Journal of History of Ideas”, “Labour History”, Political Science Quarterly”, “Proceedings of the Academy of Political Science”. “Radical History Review”, “Review”, “Science and Society”, “Telos”.
Lo spoglio che è stato effettuato da Franco Pedone, con la collaborazione, di Enzo Collotti e Aldo Albonico, non comprende gli ultimi numeri di alcuni periodici che, al momento della stampa, non erano ancora usciti. Ne comprende invece altri che, per gli stessi motivi, non erano stati inclusi nel precedente spoglio.
146 R asseg n a b ib lio g rafica
STORIOGRAFIAA. Agosti, S ta lin ism o : e l d eb a te s to riogrà fico , in “Estudios de historia social”, (1980), n. 14, pp. 107-133.
Rochard Ashcraft, P olitica i T heory a n d P o litica i A c tio n in K arl M a n n h e im ^ T h o u g h t: R é fe c t io n s u p o n "1- d e o lo g y a n d U to p ia ” a n d I ls C ri tics, in “Comparative Studies in Society and History”, voi. 23, n. 1, pp. 23-50.
Horst Bartei, E rbe u n d T ra d itio n in G e s c h ic h tsb ild u n d G e sc h ic h ts fo r sc h u n g der D D R , in “Zeitschrift für Geschichtswissenschaft”, a 29, n. 5, pp. 387-394.
Hans-Rainer Baum, Z u r ita lien ischen H is to r io g ra p h ie ü b e r d en F asch ism u s, in “Zeitschrift für Geschichtswissenschaft”, a 29, n. 7, pp. 604-610.
Brigitte Berlekamp — Gerhard Lo- zek, In h a lt u n d M e th o d e n k o n s e rv a tiv e r G e s c h ic h tsa u ffa s su n g in d e r B R D , in “Zeitschrift für Geschichtswissenschaft”, a 29, n. 8, pp. 683698.
Rafael Calduch Cervera, L as relac io n es in te rn a c io n a le s en la o b ra de los d irig en tes so v ié tico s: u n a re fle x ió n teòrica , in “ Revista de estudios internacionales”, n. 3, pp. 543-597.
Antoni Czumbiski, L 'e v o lu z io n e d e lle o p in io n i d e i p u b b lic is t i e d eg li s to rio g ra fi p o la c c h i su lle cause della ri- c o s tru z io n e e d e ll 'in d ip e n d e n za dello S ta to della n a zio n e po lacca , in “Dzie- je Najnowsze”, a XIII, n. 1-2, pp. 37-61.
Nicola De Ianni, Per un a s to r ia eco- n o m ico -so c ia le d e l m o v im e n to o p e raio n a p o le ta n o 1914-1943, in “Cahiers internationaux d’histoire économique et sociale”, n. 12 (1980), pp. 344-365.
Celestino Del Arenal, La g én esis de las re lac iones in te rn a c io n a les c o m o d isc ip lin a c ien tífica , in “ Revista de estudios internacionales”, n. 4, pp. 849-892.
Robert Deutsch, La "n o u v e lle h is to ir e " D ie G esch ich te e ines E rfo lges, in “ Historische Zeitschrift”, voi. 233, n. 1, pp. 107-129.
John Patrick Diggins, P ow er a n d A u to r i ty in A m er ica n H isto ry : the
C ase o f C harles A . Beard, in “The American Historical Review”, vol. 86, n, 4, pp. 701-730.
Giuseppe Di Taranto, S o c ie tà e sv i- tu p p o n e ll’opera d i J o s u è d e Castro, in “Cahiers internationaux d’histoire économique et sociale”, n. 12 (1980),pp. 1-110.
William Fierman U zbek F eelings o f E th n ic ity . A S tu d y o f A tt i tu d e s E x p re ss e d in R ecen t U zbeck L itera ture , in “Cahiers du monde russe et soviétique”, a. XXII, n. 2-3, pp. 187-229.
François Furet, En m a rg e des " A n na les". H is to ire e t sc iences socia les, in “Le Débat”, n. 17, pp. 112-126.
Ronald Gielke, H a n s F reyer - vo m präfaschistichen Sozio logen zu m Theore tik e r der " In d u s trieg ese llsch a ft" , in “ Zeitschrift für Geschichtswissenschaft", a. 29, n. 7, pp. 597-603.
Leon Hollerman, A S a m p lin g o f Ja p a n ese E c o n o m ic Issues, in “Journal of Asian Studies”, vol. 40, n. 4, pp. 735-743.
Gerhard Jagschitz, A u d io v isu e lle M ed ien f ü r Z e itg esch ich te u n d p o litisch e B ildung im U nterricht. A n sp ru c h u n d W irk lich ke it, in “Zeitgeschichte”, a. 9, n. 3, pp. 90-97.
J. Karpàt-L. Bianchi, L ’h i s to r io g ra p h ie d u d ro it en S lo va q u ie après I960, in “Studia Historica Slovaca”, völ. XI (1980), pp. 301-310.
Michael B. Katz, S o c ia l C lass in N o r th A m e r ic a n U rban H isto ry , in “Journal of Interdisciplinary History”, vol. 11, n. 4, pp. 579-605.
Samuel Kinser, A n n a lis te P aradigm ? The G eo h is io r ica l S tru c tu r e o f F ern a n d ' B raudel, in “The American Historical Review”, vol. 86, n. 1, pp. 63-105.
Jürgen Kocka, O tto H in lze , M a x W eber u n d das P rob lem d er B üro
k ra tie , in “ Historische Zeitschrift”, vol. 233, n. 1, pp. 65-105.
W. R. Lee, Past L egacies a n d F u ture P rospects: R ecen t R esearch o n the H is to ry o f th e F a m ily in G erm any, in “Journal of Family History", vol 6, n. 2, pp. 156-176.
D. Lehotskà, S c ien ces a u x ilia ires h is to r iq u es en 1960-1977, in “Studia Historica Slovaca” vol XI (1980), pp. 229-273.
Yves Lequin, J a lo n s p o u r u n e h is to ire de ta cu ltu re o u vr iè re en France, in “Milieux”, n. 7-8, pp. 70-79.
Kwang-Ching Liu, W o rld V iew a n d P ea sa n t R e b e ll io n : R e f le c t io n s o n P o st-M a o H is to r io g ra p h y , in “Journal of Asian Studies”, vol. 40. n. 2, pp. 295-326.
Richard Löwenthal, V om A u sb le ib en der R e v o lu tio n in d en In d u s tr ie gese llsch a ften . V erg leichende Ü berleg u n g e n z u e in em " d e u tsc h e n P rob lem " , in “Historische Zeitschrift, vol 232, n. I, pp. 1-24.
Czeslak Luczak, II c o n tr ib u to del p ro fe sso r e C zeslaw M a d a jc zyk allo sv ilu p p o d eg li s tu d i sc ien tiflc i della s to r ia m o d ern a , in “Dzieje Najnowsze”, a. XIII, n. 1-2, pp. 17-28.
Roger Martelli, N o tio n de stra tég ie et h is to ire d u PCF, in “Cahiers d’histoire de l'Institut de recherches marxistes”, N.S., n. 5, pp. 8-42.
M a rx ism e et h is to ire . Débat entre Claudie Amado, Jacques Annequin, Claude Gindin, Jean-Paul Scot et Lucien Seve, in “Cahiers d’histoire de l’Institut de recherches marxiste", N.S., n. 7, pp. 3-40.
Gregor McLennan, The " L a b o u r A r is to c ra c y " a n d " In c o rp o r a tio n " : N o tes o n S o m e T erm s in th e S o c ia l H is to r y o f th e W o rk in g Class, in “Social History”, vol. 6, n. 1, pp. 71-81.
Peter Malina, D ie V erm ittlu n g von Z eitgeschichte im U nterrricht. H erausfo rd eru n g u n d C hance f ü r G esch ich tsw issen sch a ft u n d G esch ich tsd id a k tik . in “Zeitgeschichte”, a. 8. n. 6, pp. 228-24!.
Richard L. McCormick, The D isco very th a t " B u s in e ss C o rru p ts P olitic s" : a R ea p p ra isa l o f th e O rig ins o f P rogressiv ism , in “The American Historical Review", vol. 86, n. 2, pp. 247-274.
Wolfgang Mock, ”M a n ip u la tio n von o b e n ” o d er S e lb s to rg a n isa lio n an der Basis? E in ige neu ere A n s ä tz e in der en g lischen H is to r io g ra p h ie zu r Ge-
R asseg n a b ib lio g rafica 147
schichte des deutschen Kaiserreichs, in “ Historische Zeitschrift”, vol. 232, n. 2, pp, 358-375.
Wolfgand J. Mommsen, Die antinomische Struktur des politischen Denkens Max Webers, in “Historische Zeitschrift”, vol. 233, n. I, pp. 35-64.
H.F. Moorhoouse, The Significance o f the Labour Aristocracy, in “Social History”, vol. 6, n. 2, pp. 229-233.
New (The) History 1980s and Beyond (1). Scritti di Peter H. Smith, Jacques Julliard, Peter Clarke, Jacques Revel, Lawrence Stone, Miles F. Shore, David Herlihy, Allan C, Bogue, in “Journal of Interdisciplinary History”, vol. 12, n. 1; (II). Scritti di Peter Temin, Barry Supple, E.A. Wrigley, Bernard S. Colm, John W. Adams, Natalie Z, Davis, Carlo Ginzburg, William J. Bouw- sma, Joel Colton, Arnold Thackray, Theodore K. Rabb, vol. XII, n. 2.
Gerard Noiriel, L'histoire sociale du Pays-Haut lorraine, in “Le Mouvement social”, n. 115, pp, 77-87.
James Obelkevich, “ Past and Present". Marxisme et histoire en Grande-Bretagne depuis la guerre, in “Le Débat”, n. 17, pp. 89-III.
Paddy O’ Donnell, Lucien Seve, Althusser & the Contradictions o f the PCF, in “Critique” n. 15, pp. 7-29.
Vlado Ostric, Contributo per la pre- parazione di una sintesi della storia della Lega dei comunisti jugoslavi, in “Casopis za Suvremenu Poijest”, a. XIII, n. 1, pp. 57-70.
Jean-Claude Perrot, Le présent et la durée dans l'oeuvre de Fernand Braudel, in “Annales économies, sociétés, civilisations", XXXVI a., n. 1, pp. 3-15.
David H. Pinckney, American Historians on the European Past, in “The American Historical Review”, vol. 86, n. 1, pp. 1-20.
Pompiliu Teodor, La "Revue historique du sud-est européen " e il mo- dello degli "Annali", in “ Revue roumaine d’histoire”, a. XX, n. 4, pp. 773-782.
Problemi di storiografta contempo- ranea. Scritti di Mircea Musat, Eugen Stanescu, Nicolae Fotino, Ale- xandru Cernatoni, Hermann Grossi, Valentin Georgescu, Werner Gum- pel, Mircea N. Popa, Hans Hartl, Luru Marcu, E. Turczynski, Cari Gô'll- ner, in “ Revue des études sud-est européennes", a. XIX, n. 2.
Walter Schimdt, Nationalgeschichte der DDR und das territorialstaatliche historische Erbe, in “Zeitschrift für Geschichtswissenschaft”, a. 29, n. 5, pp. 399-404.
Walter Schmidt, Neue Tendenzen nationalistischer Deutung der deutschen Geschichte in der bürgerlichen BRD - Historiographie, in “Beiträge zur Geschichte der Arbeiterbewegung”, a. 23, n. 3, pp. 365-373.
A. Skorupova, Revues et recueils périodiques interessant ¡'histoire de la Slovaque en 1961-1977, in “Studia Historica Slovaca”, vol. XI (1980) pp. 311-318.
Joan W. Scott, Dix ans d’histoire des femmes aux Etats-Unis, in “Le Débat”, n. 17, pp. 127-132.
James J, Sheehan, What is German History? Reflections on the Role o f the "Nation" in German History and Historiography, in “Journal of Modern History”, vol. 53, n. 1, pp. 1-23.
L. Tejtak-M. Potemra, L'historiogra- phie slovaque à l’époque de ¡’oppression nationale accentué, in “Studia Historica Slovaca”, vol. XI (1980), pp. 181-227.
Maivio Tommila, Studies in the History o f Society in Finland before World War Two, in “Scandinavian Journal of History, vol. 6, n. 2, pp. 143-160.
Rolf Torstendahl, Minimum Demands and Optimum Norms in Swedish Historical Research 1920-1980. The " Weibull School" in Swedish Historiography, in “Scandinavian Journal of History”, vol. 6, n. 2, pp. 117-141.
Germaine Willard, Regards sur l’histoire de la France contemporaine, in “Cahiers d’histoire de l’Institut de recherches marxistes”, N.S., n. 6, pp. 7-13.
Yong-Ho Ch’Oe, Reinterpreting Traditional History in North Korea, in “Journal of Asian Studies”, a. 40, n. 3, pp. 503-523.
Anna Zarnowska, La classe ouvrière à la fin du X IX e siècle et au début du XXe siècle (avant 1939) dans les recherches historiques en Pologne, in “ Le Mouvement social”, n. 115, pp. 89-125.
M E TO DO L O G IA E O R G ANIZZAZIO NE DEL LA RICERCA
James William Anderson, The Methodology o f Psychological Biography, in “The Journal of Interdisciplinary History”, vol. 11, n. 3, pp. 455-475.
Peter Dusek, Mediendidaktik fü r den Historiker, in “Zeitgeschichte”, a 8, n. 4, pp. 150-157.
John Edwards, Subjectivist Approaches in the Study o f Social Policy Making, in “Journal of Social Policy”, vol. 10, n. 3, pp. 289-310.
Ivo Goldstein, Obiettività e soggettività della ricerca storica nelle nuove edizioni tedesche, in “Casopis za Suvremenu Poijest”, a. XII (1980), pp. 131-138.
Hinz Heitzer, Ziele und Methoden der bürgerlichen DDR-Forschung in der BRD, In “Beiträge zur Geschichte der Arbeiterbewegung”, a. 23, n. 5, pp. 658-666.
Marie Jahoda, Aus den Anfängen der sozialwissenschaftlichen Forschung in Österreich, in “Zeitgeschichte”, a. 8, n. 4, pp. 133-141.
Ailleen Kelly, Empiriocriticism: a Bol- schevik Philosophy?, in “Cahiers du monde russe et soviétique", a. XXII, n. I, pp. 89-118.
Esther Kengston-Mann, Marxism and Russian Rural Development: Problems o f Evidence, Experience, and Culture, in “The American Historical Review", vol. 86, n. 4, pp. 731- 752.
Richard H. Kohn, The Social History o f the American Soldier: a Re
148 R asseg n a b ib lio g rafica
view and Prospectus fo r Research, in “The American Historical Review”, voi. 86, n. 3, pp. 553-567.
Jaroslav Kudrna, Ideologische Aspekte und meihoiodogische Grundlangen der französischen "Annales" -Schule, in “ Z eitschrift für G eschichtswissenschaft”, a. 29, n. 3. pp. 195204.
D. Lehotska, Historiographie de l’ar- chivistique slovaque en 1960-1977, in “Studia Histórica Slovaca”, voi. XI (1980), pp. 275-300.
Sonya Michel, Feminism, Film and Public History, in “Radical History Review”, n. 25, pp. 47-61.
Paul-Louis Pelet, L"‘archeologie industrielle", science ou fiction? Une question de definition, in “Schweizerische Zeitschrift für Geschichte”, a. 31, n. 1, pp. 32-42.
Janko Pieterski, Osservazione sul dualismo del generate e de! particolare dal punto di vista jugoslavo-nazionale (repubblica-provincia autonoma), in “Casopis za Suvremenu 'Poijest”, a. XIII, n. 2, pp. 63-72.
Alessandro Portelli, The Pecularity o f Ora! History, in “History Workshop”, n. 12, pp. 96-107.
Günther Rose, Modernisierungstheorien und bürgerliche Sozialwissenschaften. in “Zeitschrift für Geschichtswissenschaft”, a. 29, n. 1, pp. 5-21.
Ellen Ross-Rayana Rapp, Sex and Society: a Research. Note from Social History and Anthropology, in “Comparative Studies in Society and History”, voi. 23, n. I, pp. 51-72.
Linda Shopes, The Baltimore Neighborhood Heritage Project: Ora! History and Community Involvement, in “ Radical History Review”, n. 25, pp. 27-44.
Ulf Sjodell, The Structure o f a Historian's Reasoning. Historical Explanations in Practice, in “Scandinavian Journal of History”, voi. 6, n. 2, pp. 91-116.
Anne-Marie Shon, Les roles fémi- nins dans la vie privée: approche méthodologique et bilan de recherches, in “Revue d’histoire moderne et
contemporaine”, a. XXVIII, n. 4, 597-623.
Jerzy Topolski, Sulle difficoltà metodologiche delta storia recente, in “Dzieje Najnowsze”, a. XIII, n. 1, pp. 313-318.
Michael Wallace, Visiting the Past. History Museums in the United States, in “Radical History Review”, n. 25, pp. 63-96.
Al. Zub, N. Jorga e il metodo regressivo nella storiografia, in “Revue roumaine d’histoire”, a. XX, n. 4, pp. 765-772.
STORIA FINO ALLA PR IM A G U ER R A M O N D IA L E
Generali
Robert Brécy, Les chansons du Premier Mai, in "Revue d’histoire moderne et contemporaine”, a. XXVIII, n. 3, pp. 393-432.
Europa
Generali
Georgi Borbolov, Il problema transilvano durante gli anni 1896-1914, in “Etudes balkaniques”, a. XVII, n. 4, pp. 92-110.
Rüdiger vom Bruch, "Deutschland und England. Heeres - oder Flottenverstärkung?" Politische Publizistik deutscher Hochschullerhrer 1911-12, in “ Militärgeschichtliche M itteilungen”, n. 29, pp. 7-35.
Tedeusz Cieslak, I piani balcanici di Churchill, in “Studia z Dziejov Zsrr i Europy Srodkowej”, a. XVII, pp. 65-73.
Keith Neilson, Joy Rides? British Intelligence and Propaganda in Russia. 1914-1917, “The Historical Journal”, voi. 24, n. 4, pp. 885-906.
Vlado Ostric, / socialisti croati e la Macedonia alla fine del X IX secolo e al principio de! X X secolo, in “Casopis za Suvremenu Poijest”, a. XII (1980), n.. 3, pp. 85-98.
Andrew Porter, Britain, thè Cape
Colony, and Natal, 1870-1915: Capital, Shipping, and the Imperial Connection, in “The Economic History Review”, vol. 34, n. 4, pp. 554-577.
Heide-Irene Schmidt, Wirtschaftliche Kriegsziele Englands und interalliier- le Kooperation. Die Pariser Wirtschafts- konferenz 1916, in “Militargeschichs- tliche Mitteilungen”, n. 29, pp. 3754.
Thomas Schramm, La question polonaise et la premiere guerre mondiale, in “ Revue historique”, a. CV, n. 538, pp. 439-448.
Topic Education Policy and Social Change, in “Scandinavian Journal of History”, vol. 6, n. 1.[contiene: Martti T. Kuikka, Society and the Development o f an Elementary School System in Finland, 1866- 1968: Ginnar Richardson, Education and a National Resource. Strategies in Swedish Education and Economic Policy during the Nineteenth Forties: Vagn Skovgaard-Petersen, Towards and Education Policy in Denmark. Danish Education Planning in the Nineteenth Forties: Rolf Torstendhal, Relevance o f Education. Swedish Secondary Schools during the Period o f Industrialization].
John Zerzan, Origins and Meaning o f World War I, in “Telos”, n. 49, pp. 97-116.
Francia
Guy Martinière, Aux origines de la coopération univesitaire entre la France et l’Amérique latine: Georges Dumas et le Brésil (1900-1914), in “Relations internationales”, n. 25, pp. 41-66.
Gérard Baal, Un salon dreyfusard des lendemains de ¡’Affaire à la Grande Guerre: la marquise Arconati-Vi- sconti et ses amis in “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, a. XXVIII, n. 3, pp. 439-463.
Frédéric Barbier, Le commerce internationale de la librairie française au XIXe siècle (1815-1913), in “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, a. XXVIII, n. 1, pp. 94-117.
Jean-William Dereymez, Les usines de guerre (1914-1918) et le cas de la
R asseg n a b ib lio g rafica 149
Saône el Loire, in “Cahiers d’histoire”, a, XVi, n. 2, pp. 151-181.
Christian Guérin, Le scoutisme français: une expérience pédagogique parallèle, in “ Revue d’histoire moderne et contemporaine”, a. XXVIII, n. 1, pp. 118-131.
Steven, C. Hause-Anne R. Kennedy, The Limits o f Suffragist Behavior: Legalism and Militancy in France, 1876-1922, in “The American Historical Review”, vol. 86, n. 4, pp. 781 - 806.
James F. McMillan Clericals, Anticlericals and the Women's Movement in France under the Third Republic, in “The Historical Journal”, vol. 24, n. 2, pp. 361-376.
Yannick Maree, Au carrefour de l'économique et du social: l’histoire du Mont-de pitié de Rouen (1778-1923), in “Le Mouvement social”, n. 116, pp. 67-94.
Leslie Page Moch, Marriage, Migration, and Urban Demographic Structure: a Case from France in the Belle Epoque, In “Journal of Family History”, vol. 6, n. 1, pp. 70-88.
Philip Nord. Le mouvement des petits commerçants et la politique en France de 1888 à 1914, in “Le Mouvement social”, n. 114, pp. 35-55.
Peter Paret, The Tschudi Affair, in “Journal of Modem History”, vol. 53, n. 4. pp. 589-618.
Jean Louis Parisis-Miche! Peraldi, La ligne bleue des alpillesde mouvement excursionniste à Marseille (1870- 1914), in “ Recherches”, n. 45, pp. 15-35.
Giles Postel-Vinay, Pour una apologie du rentier ou que font les propriétaires fonciers?, in “ Le Mouvement social", n. 115, pp. 27-50.
Antoine Prost, Mariage, jeunesse et société à Orléans en 1911, in "Annales économies, sociétés, civilisations", XXXVI a., n. 4, pp. 672-701.
Jean Louis Robert, La CFT et la famille ouvrière, 1914-1918: première approche, in “ Le Mouvement social”, n. 116, pp. 47-66.
Jacques Thobie, La France a-t-elle une politique culturelle dans ¡‘Empire ottoman à la vieille de ¡a première guerre mondiale?, in “Relations internationales”, n. 25, pp. 21-40.
Germania
Georg Adler, Neues zur Biographie Rosa Luxemburgs, in “Beiträge zur Geschichte der Arbeiterbewegung”, a 23, n. 1, pp. 79-83.
Gerd Fesser, Ausnahmegesetz in der Schublade. Zu den internen Entwürfen eines preussichen Vereinsgesetzes vom Jahre 1906, in “Zeitschrift für Geschichtswissenschaft, a 29, n. 1, pp. 34-52.
Willibald Gutsche, Monopolbourgeoisie, Staat und Aussenpolitik vor dem ersten Weltkrieg. Zu einigen Forschungsproblemen der deutschen Bourgeoisie bis zum ersten Weltkrieg, in “ Zeitschrift für Geschichtswissenschaft”, a. 29, n. 3, pp. 239-253.
Elke Keller, "Es gehl nicht um ihre guten Vorsätze" (W. 1. Lenin). Vom revolutionären Sozialdemokraten zum Zentristen. Hugo Haase, in “Beiträge zur Geschichte der Arbeiterbewegung”, a 23, n. 4, pp. 583-596.
Jürgen Kocka, Capitalism and Bureaucracy in German Industrialization before 1914, in “The Economic History Review”, vol. 34, n. 3, pp. 453-468.
Jürgen Kocka, Grossunlernehmen und der Aufstieg des Manager-Kapitalismus in späten 19. und frühen 20. Jahrhundert: Deutschland im internationalen Vergleich, in “ Historische Zeitschrift”, vol. 232, n. 1, pp. 39-60.
Annelies Laschitza, Thesen zu einigen Forschungsergebnissen und - Problemen über die Herausbildung der Krise der deutschen Sozialdemokratie (1910 bis 1914), in “Beiträge zur Geschichte der Arbeiterberwegung”, a. 23, n. 4, pp. 528-542.
Eckhard Müller, Zum politischen Wirken der Revisionisten Eduard David in der deutschen Sozialdemokratie 1894-1907, in “Beiträge zur Geschichte der Arbeiterbewegung”, a. 23, n. 4, pp. 569-582.
Sandro Segre, The State and Society in Impérial Germany (1870-1914), in “Cahiers internationaux d’histoire économique et sociale”, n. 12 (1980), pp. 323-344.
Gran Bretagna
M.J. Daunton, Down the Pit: Work in the Great Northern and South Wales Coalfields, 1870-1914, in “The Economic History Review”, vol. 34, n. 4, pp. 578-597.
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M. Degl’Innocenti, M. Ganci, A. Riosa, G. Sabbatucci, B. Vegezzi, Storia del partito socialista, dalle origini all’avvento del fascismo. Introduzione di Claudio Signorile a cura della Fondazione Brodolini, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 173, lire 3.800.
Orazio Pugliese, Storia del partito socialista. Immagini 1872-1978 a cura della Fondazione Brodolini, Venezia, marsilio, 1981, lire 7.000.
Peter Burke, Sociologia e storia, Bologna, 11 Mulino, 1982, pp. 169, lire6.000.
Angelo Costa, Scritti e discorsi, Voi. VII. Giugno 1966-maggio 1968, Mi
lano, Angeli, 1982. pp. 698, lire38.000.
Eugenio Gallavotti, La scuola fascista di giornalismo (1930-1933). Prefazione di Renzo De Felice, Milano, Sugarco, 1982, pp. 141, lire 7.000.
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L’Immagine de! socialismo nell'arte, nelle bandiere, nei simboli. Mostra per il 90° della fondazione del PSI, a cura della Fondazione Brodolini e del Comune di Roma, Assessorato alla cultura. Venezia, Marsilio, 1982, pp. 156.
Istituto storico della resistenza in Cuneo e provincia. Gli italiani sul fronte russo, Prefazione di Guido Quaz- za, Bari, De Donato, 1982, pp. X- 570, lire 24.000.Contiene gli atti del convegno tenuto a Cuneo nel 1979. Le relazioni sono di: Collotti, Schreiber, Groehler, Schu- mann, Reinhardt, Ceva, Ranki, Cruc- cu, Forster, Porcari, Zilli, Lamberti, Gambetti, Cadcddu, Isnenghi, Beimondo, Bertello, Bologna, Calandri, Ca- vaglion, Mana, Rochat.
Ivo Lizzola-Elio Manzoni, Dall’azione sociale al sindacato. Proletariato bergamasco e leghe bianche. L'età giolittiana. Introduzione di Francesco Malgeri e Ruggero Orfei, Roma, Edizioni Lavoro, 1982, pp. 214, lire10. 000.
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