IL MODELLO LATTE NOBILE
Un’altra via è possibile
a cura di Roberto Rubino
Proprietà letteraria riservata © 2014 Anfosc Onlus
Finito di Stampare 30/09/2014
ISBN 978-88-901965-7-7
Stampa Printer Group
Redazione e impaginazione Di Stefano & Partners
INDICE
PARTE PRIMA: IL MODELLO LATTE NOBILE IN ITALIA E MESSICO. LA
REAZIONE DEL SETTORE LE STRATEGIE DI TRASFERIMENTO, IL RUOLO DEI
CONSUMATORI. _________________________________________________________ 5 IL LATTE NOBILE: UN MODELLO IN VIA DI EVOLUZIONE ROBERTO RUBINO _________ 7 IL SIGNIFICATO DEI FORAGGI PRATIVI NEI SISTEMI ZOOTECNICI PER LA PRODUZIONE DEL
LATTE BRUNO RONCHI _____________________________________________ 36 RISORSE FORAGGERE, ALIMENTAZIONE ANIMALE E PAESAGGI AGRARI PER I PRODOTTI DI
QUALITÀ ANDREA CAVALLERO, GIAMPIERO LOMBARDI _____________________ 51 EL MODELO DE “LATTE NOBILE” UNA VÍA ALTERNATIVA PARA LA PRODUCCIÓN DE LECHE
DE CALIDAD EN MÉXICO DR. MIGUEL ANGEL GALINA _____________________ 73 IL PRIMO PASSO DI UNA LUNGA MARCIA. CADUTE, RIASSESTAMENTI, LINEE PER IL FUTURO
GIANFRANCO NAPPI ___________________________________________________ 89 STORIA BREVE DI UN PERCORSO ANNUNCIATO IL DETERMINANTE RUOLO DELLA REGIONE
CAMPANIA ADRIANO GALLEVI _____________________________________ 98
PARTE SECONDA: I RISULTATI DELLA RICERCA IL LATTE NOBILE STRUMENTO PER MIGLIORARE LA COMPETITIVITÀ DELLE AZIENDE
AGRICOLE DELL’APPENINO CAMPANO.S. LA TERRA1, G. CAMPISI
1, L. CORALLO
1, A. DI
FALCO1, G. FARINA
1, G. GIURDANELLA
1, C. GUARDIANO
1, M. OTTAVIANO
1, G. AZZARO
1, G.
LICITRA2. __________________________________________________________ 103
COMPONENTI SALUTISTICHE E AROMATICHE DEL LATTE NOBILE DELL’APPENNINO
CAMPANO S. LA TERRA1, V. M. MARINO
1, T. RAPISARDA
1, G. BELVEDERE
1, F. LA
TERRA1, S. CARPINO
1, G. LICITRA
2. ______________________________________ 108
RAPPORTO OMEGA6/OMEGA3 E GPA NEL LATTE NOBILE IN MOLISE GIAMPAOLO
COLAVITA, CARMELA AMADORO, ROSSELLA MIGNOGNA _______________________ 118 IL LATTE NOBILE DELLE ALPI PIEMONTESI COME STRUMENTO PER MIGLIORARE LA
COMPETITIVITÀ DELLE AZIENDE AGRICOLE MONTANE: PRIMI RISULTATI GIAMPIERO
LOMBARDI, LUCA BATTAGLINI, PAOLO CORNALE, CAROLA LUSSIANA, VANDA MALFATTO,
ANTONIO MIMOSI, MASSIMILIANO PROBO, SIMONE RAVETTO ENRI, MANUELA RENNA
LUCIA DECASTELLI, SARA ASTEGIANO, ALBERTO BELLIO, DANIELA MANILA BIANCHI,
SILVIA GALLINA, GRAZIA GARIANO _______________________________________ 129 UNA PROPOSTA DI MISURAZIONE DELLA QUALITÀ DEL FIENO F. INFASCELLI, S.
CALABRÒ, MONICA I. CUTRIGNELLI, R. TUDISCO, M. GROSSI, P. LOMBARDI ________ 139
PARTE TERZA: NUOVI INDICATORI E NUOVI PARAMETRI ESSENZE FORAGGERE E QUALITÀ AROMATICO- NUTRIZIONALE DEL LATTE
SALVATORE CLAPS E LUCIA SEPE _______________________________________ 153 LE COMPONENTI NUTRIZIONALI E AROMATICHE DEL LATTE: LA COMPLESSITÀ DELLE
MISURAZIONI E I POSSIBILI FATTORI DI VARIAZIONE LUCIA BAILONI E ROBERTO
MANTOVANI ________________________________________________________ 161 IL LATTE NOBILE NON È SOLO UNA BUONA IDEA, MA UN MODELLO CHE FUNZIONA
RONCORONI C.1, CALABRÒ S.
2, GALLI T.
1, MUSCO N.
2, GROSSI M.
2, FAGIOLO A.
173
QUANDO IL LATTE VALORIZZA IL TERRITORIO MAURIZIO RAMANZIN E ENRICO STURARO 181
Parte Prima
Il Modello Latte Nobile in Italia e
Messico. La reazione del settore, le
strategie di trasferimento, il ruolo dei
consumatori.
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Il Latte Nobile:
un modello in via di evoluzione
Roberto Rubino
Presidente Anfosc Onlus
Un giorno un tassista spagnolo mi disse:
mio padre aveva otto vacche, ma,
hombre, non ci faceva bere il latte di tutte
e otto ma solo quello della vacca più
grassa e che produceva meno latte.
Dal modello unico alla diversità
Il mondo zootecnico è attraversato da una serie di piccole e grandi
questioni che stanno agitando e non poco i sogni dei piccoli come
dei grandi allevatori di vacche da latte. In primis, la fine delle quote
latte, la scomparsa di quell’ombrello che ha permesso, negli ultimi
venti anni, alle grandi aziende di consolidare la propria posizione,
naturalmente a scapito dei piccoli allevamenti, che sono stati
decimati, e di spostare i problemi per almeno un ventennio. Problemi
che ora stanno venendo al pettine. Ci riferiamo alla direttiva sul
benessere animale, allo spandimento dei liquami e al nuovo metodo
di valutazione della disponibilità dei suoli agricoli, all’aumento
dell’inincrocio verso percentuali di non ritorno per un abuso
incredibile della F.A. e di semi di pochi tori, ed alla persistenza di
un’infertilità che ormai è l’unica causa di eliminazione delle vacche
dall’azienda. A tutto questo si è aggiunta, nel mese di luglio, la
notizia del crollo del 6%dei consumi di latte alimentare nei primi sei
mesi del 2014. Verrebbe da dire che il settore è in crisi, se non fosse
che questa parola era già all’ordine del giorno quando ero
all’Università agli inizi degli anni settanta e che l’ho sentita ripetere
per tutti questi anni. Questa volta però, più che di crisi c’è
un’atmosfera di panico, d’impotenza. Gli allevatori sentono che i
cambiamenti non saranno indolori, che i nuovi regolamenti dovranno
essere applicati, che la concorrenza sarà ancora più spietata, ma
non riescono a reagire. Una soluzione non si vede all’orizzonte, se
non la solita e oramai obsoleta litania: ridurre i costi per abbassare
ancora i prezzi. Curioso che un settore che ha avuto a disposizione e
che ha utilizzato a piene mani il massimo dell’innovazione
tecnologica e tutto il mondo della ricerca, non riesca nemmeno ad
elaborare un modello teorico di sviluppo per uscire dalla crisi. Il
miglioramento genetico continua stancamente a selezionare gli
animali più per perpetuare e tenere in piedi un impianto economico-
occupazionale che per migliorare un qualche aspetto
dell’allevamento e della vita dell’animale. Queste macchine da latte
così potenti dovrebbero almeno avere a disposizione
un’alimentazione in grado di salvaguardare prima la salute
dell’animale e poi la qualità del latte e della carne, ma entrambi sono
ai minimi termini perché la buona alimentazione costa troppo e non
possiamo permettercelo. E cosi spingiamo verso la monocoltura, i
sottoprodotti e gli integratori, e non ci accorgiamo che nel frattempo
sono scomparsi i prati permanenti, la foraggicoltura polifita, la
biodiversità floristica. Bel paradosso nel momento in cui la nuova
PAC mette il greening come obiettivo primario della politica europea.
Pregi (pochi) e limiti (molti) del modello “Alta
Qualità”
L’ultima àncora sembra il marchio di Alta Qualità, che può essere
preso a simbolo e paradigma della debolezza del settore e
dell’incapacità che questo ha di individuare nuove soluzioni. Questo
marchio fu fortemente voluto dagli addetti ai lavori dopo l’avvio delle
quote latte per frenare l’importazione di latte dall’estero,
notoriamente meno costoso. Poiché il latte impiegava più di qualche
giorno per arrivare sul mercato italiano e doveva anche essere
pastorizzato due volte, si scelse di individuare parametri che quel
tipo di latte non poteva rispettare. Per prima cosa il latte doveva
essere raccolto e imbottigliato dopo ventiquattro ore dalla mungitura,
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e poi doveva avere una carica batterica e un contenuto di cellule
somatiche talmente bassi da poter sostenere una sola
pastorizzazione senza che vi fossero conseguenze negative per la
qualità del latte. A questi due parametri vennero aggiunti anche
grasso e proteine, a quel tempo considerati determinanti per la
qualità del latte. A un latte così definito venne data la scadenza di 4
giorni, poi portata a 6 e fu dato il marchio di Alta Qualità. Il successo
fu enorme, non a caso l’Italia è fra i pochi paesi europei ad avere un
alto consumo di latte fresco pastorizzato. Ed è stato anche un bene
per il consumatore, perché, come si è visto in ricerche effettuate alla
fine degli anni novanta, il trattamento termico, la sterilizzazione,
deprimono la qualità aromatica e nutrizionale del latte. Però ogni
medaglia ha il suo rovescio e, nel nostro caso, gli effetti sono
rimbalzati come un boomerang sul settore latte. Nel momento in cui
si è preteso di produrre Alta Qualità con un sistema altamente
intensivo, in cui la selezione inseguiva la qualità e dava un premio
alla vacca che faceva più latte e che questa quantità veniva
supportata da un sistema alimentare pessimo, basato su una sola
erba e soprattutto su molti concentrati, nel momento cioè in cui si è
cercato di conciliare l’inconciliabile, allora il danno è stato
incomparabile e su più direzioni.
Il consumatore gradualmente ha perso la percezione del sapore del
latte e va verso l’elogio dell’insapore. Oggi grazie alla deriva della
qualità, i formaggi sono sempre più banali e caratterizzati da un
difetto di ossidazione che rimanda all’alimentazione squilibrata,
quando il latte è giallo i caseifici non lo vogliono e ricorrono allo
sbiancamento con clorofilla, i consumatori non vogliono i formaggi
gialli.
I trasformatori continuano a confondere la resa, e quindi il contenuto
di grasso e proteine, con la qualità. Spingono gli allevatori a tenere
alti questi parametri e non si accorgono che in questo modo la
qualità dei formaggi è drammaticamente crollata. Un esempio è
quello della ricotta. Per recuperarne il sapore, visto che era ridotto ai
minimi termini, i casari hanno ben pensato di aggiungere la panna. E
così la ricotta, che stranamente per la gran parte dei dietologi passa
per un formaggio magro, ora è più che grassa ma non certo più
aromatica. Sul mercato vi è una ricotta light che, pur essendo più
magra, ha, tra gli ingredienti, la crema, a dimostrazione che quel
latte di sapore e profumi ne aveva molto pochi.
E poi, l’industria che imbottiglia il latte per uso alimentare si è
adagiata sulla rendita del marchio dell’Alta qualità e si è limitata a
pretendere solo una qualità igienica del latte. Alla fonte il latte
raccolto viene miscelato, poi viene portato in azienda dove subisce
trattamenti vari per poter immettere sul mercato una gamma la più
variegata possibile( sottrazione di grasso, aggiunta di vitamine,
omega3, ecc.). E così il latte, alimento principe della dieta che
accompagna l’uomo dalla nascita alla morte, ha perso il legame con
il territorio, non ha una sua specificità, è tutto uguale, l’etichetta è
praticamente simile al Nord come al Sud, l’unica diversità la fa
l’industria. All’allevatore il latte, quando viene pagato in relazione alla
qualità, lo è solo in funzione di quei quattro parametri: grasso
proteine, carica batterica e cellule somatiche. Numerose ricerche
hanno dimostrato che questi parametri non hanno alcuna relazione
con la complessità aromatica e nutrizionale del latte. Ma a volte non
bisogna aspettare i risultati di ricerche costose e lunghe per arrivare
a considerazioni attendibili. Nel nostro caso basta vedere il burro. Un
burro di animali al pascolo ha la stessa quantità di grasso di un burro
di animali alla stalla. Se il grasso fosse sinonimo di qualità, i due
burri sarebbero simili. Invece le distanze sono enormi, e lo stesso si
potrebbe dire per la ricotta. Quindi, grazie a questo metodo gli
allevatori che hanno prodotto un buon latte, in questi anni, i piccoli
allevamenti di montagna e di collina, o quelli che testardamente
hanno deciso che con l’intensivo non volevano avere niente a che
fare, non hanno visto premiato i loro sforzi, al contrario quelli che
hanno adottato appieno il metodo intensivo, sono stati premiati. Le
conseguenze erano prevedibili, ma tutti hanno fatto finta di non
vedere: i piccoli allevamenti hanno chiuso, in Basilicata, dove vivo,
negli ultimi dieci anni hanno chiuso tremila stalle (se avesse chiuso
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la Fiat di Melfi ci sarebbe stata la rivoluzione) fra l’indifferenza
generale, la qualità del latte è quella che è, del benessere animale e
della qualità dell’ambiente ne abbiamo già parlato.
Infine, l’allevatore ha perso il contatto con i fattori della produzione e
la relazione che intercorre fra di essi. Continua a preoccuparsi di
grasso e di proteine, di carica batterica e di cellule somatiche, senza
rendersi conto che questi sono tutti parametri che niente hanno a
che fare con la qualità. Burro docet. Assiste inerme al crollo della
fertilità della mandria, a un turnover accelerato delle vacche, al
rischio continuo d’impatto ambientale all’anonimato del suo prodotto,
e all’impossibilità di intervenire nella formazione del prezzo. Continua
a produrre nella speranza che il prezzo salga per effetto di
congiunture internazionali favorevoli, non certo per un aumento della
qualità del suo prodotto, cosciente che la chiusura è dietro l’angolo
se “la situazione dovesse continuare”.
Di qui l’incapacità del settore di individuare strade nuove, un modello
diverso di sviluppo. La debolezza, culturale ed economica è tale da
lasciarsi impiccare sull’Alta Qualità piuttosto che rimettere tutto in
discussione e ricominciare daccapo.
Come diceva Einstein: non si risolve un problema utilizzando la
stessa logica che lo ha prodotto. Occorre cambiare modello e
soprattutto la logica che è stata alla base del sistema intensivo: la
riduzione dei costi e dei prezzi. Noi ci abbiamo provato.
Il modello Latte Nobile
Noi siamo partiti dalla considerazione che, in un mercato dove
esiste una variabilità più o meno ampia delle quasi totalità delle
produzioni alimentari e non solo, l’anacronismo del latte alimentare
che rinuncia ad una diversità dell’offerta basata sulla materia prima
fosse facilmente superabile e che non sarebbe stato difficile
intercettare consumatori non solo in grado di pagare di più ma felici
di accedere ad un prodotto di una evidente qualità elevata. Quale
mamma, ci chiedevamo, si farà condizionare da un prezzo più
elevato nella scelta di un alimento di cui conosce le caratteristiche
nutrizionali e aromatiche? La sfida era tutta qui: abbiamo dato per
scontato che ci fosse spazio per un prodotto più caro e che la
domanda fosse il minore dei problemi, anche perché il successo di
Slow Food e la vivacità con la quale le comunità locali si muovono
per promuovere e portare alla luce le specificità territoriali lasciavano
ben sperare in un consumatore attento e desideroso di un prodotto
con una personalità spiccata.
Messo da parte quello che ad altri sembrava un problema insolubile,
occorreva costruire il modello di sviluppo, immaginare e
programmare i vari segmenti della filiera, perché il latte alimentare,
contrariamente al vino o ai formaggi o all'olio, ha una sua
caratteristica dalla quale non si può prescindere: il giorno che viene
munto deve essere immesso sul mercato e venduto. Quindi, non
solo ci si deve preoccupare di produrre un buon latte, separarlo dalla
massa e imbottigliarlo a parte, ma occorre immediatamente
intercettare quel consumatore già informato che quella qualità merita
un prezzo abbastanza superiore a quello del latte più caro che al
momento trova sul mercato.
La Regione Campania ha subito sponsorizzato il progetto fornendo
all’Anfosc un finanziamento per attivare i vari segmenti della filiera.
Nella prima fase abbiamo individuato il nome, Latte Nobile(non
sapevamo come fare perché la legge 189 aveva già sbarrato la
strada a nomi che includessero la parola “qualità”), abbiamo
abbozzato un disciplinare di produzione, sondato eventuale partner
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per l’imbottigliamento e approfondito la bibliografia sulla qualità del
latte. In corso d’opera l’Anfosc ha messo insieme diversi attori fra cui
il Corfilac di Ragusa ed ha partecipato a un bando di ricerca della
Regione Campania(124HC). Questo progetto ha permesso di
monitorare e meglio definire il disciplinare di produzione e le
caratteristiche organolettiche del latte, di approfondire anche la
qualità dei derivati come yogurt e formaggi e, soprattutto, di affinare
le strategie di approccio con i vari attori della filiera. Siamo alla fine
del progetto, i risultati sono riportati in questo libro e li abbiamo
raccontati al Salone del Gusto di Torino alla presenza sia degli
allevatori partner del progetto e sia dei nuovi allevatori, ormai oltre
venti, che via via hanno chiesto di aderire al disciplinare del Latte
Nobile. Ma il risultato più soddisfacente è che il modello funziona e
che il Latte Nobile non solo è presente sul mercato ma che è
diventato un prodotto di élite, ricercato dai consumatori e dai
distributori. Ecco come è stato possibile.
Una qualità superiore certificabile
Se il latte non è tutto uguale e se io voglio offrire al consumatore un
latte di qualità, che deve essere pagato di più, che livello di qualità
devo produrre affinché l’evidente differenza sia tale da spingere il
consumatore a superare la barriera del prezzo più alto attualmente
sul mercato? E poi, che garanzie, oltre al sapore, do al consumatore
che quel latte risponde alle caratteristiche raccontate e riportate sulla
confezione?
Il primo passo è stato quello di individuare il livello di qualità e di
scegliere la cornice in cui inquadrare i vari fattori di produzione.
Insomma bisognava abbozzare il disciplinare di produzione e
verificarne i risultati. Questo percorso è stato abbastanza agevole
perché l’esperienza che ci derivava da oltre un ventennio di ricerche
sulla qualità del latte e da continui scambi con chi, soprattutto in
Italia e in Europa, si era occupato di qualità del latte, ci ha permesso
di portare a sintesi estrema i tanti studi fatti: la qualità del latte e dei
formaggi è l’espressione di una serie di molecole aromatiche:
terpeni, fenoli, flavonoidi e nutrizionali: antiossidanti, vitamine, acidi
grassi insaturi. Tutte queste componenti dipendono essenzialmente
dalla quantità di erba che l’animale ingerisce e, ancora di più, dal
numero di erbe, perché, come abbiamo notato in numerose ricerche,
ogni erba apporta componenti diverse al latte. Anzi, più le erbe sono
selvatiche, spontanee, naturali, direi persino infestanti e più questa
complessità è importante. Questa è stata l’unica certezza di tutto il
modello che avevamo ed è stato gioco facile metterla in pratica.
Dovevamo a questo punto fissare i paletti: quanta erba e quante
erbe il disciplinare dovesse prevedere per avere una qualità
percepibile, una diversità che il consumatore potesse cogliere,
sapendo che il latte è un liquido molto diluito e difficile da “leggere”.
Avevamo, negli anni novanta, effettuato alcune ricerche sull’uso dei
concentrati in animali al pascolo ed alla stalla. Avevamo capito che
in effetti questa tipologia di alimento aveva essenzialmente un effetto
diluente sulla complessità aromatica e nutrizionale del latte.
Avevamo anche visto che l’influenza sulla riduzione della produzione
non era automatica e costante, e che molto dipendeva anche dalla
qualità dei fieni. Sulla base di questi dati ci siamo orientati su un
rapporto foraggio/concentrati di 70/30, rapporto che si è rivelato
efficace sia per la qualità del latte, la cui diversità è percepibile dal
consumatore e dagli strumenti analitici e sia per il benessere
animale( i risultati sono riportati nella seconda parte del libro).
Più difficile e per certi aspetti più sorprendente si è rivelata la scelta
del numero di erbe. Se sappiamo che più alto è il numero e più la
qualità del latte allora si poteva partire subito con un numero elevato.
In fondo, qualsiasi prato permanente, anche il più scadente, ha
almeno una ventina di essenze. Però in Italia ci sono gli erbai,
spesso monocolturali o limitati a due sole erbe. Due però erano
troppo poche per dare una “scossa” al latte, occorreva partire
almeno con quattro, a costo di costringere l’allevatore a comprare o
seminare due tipologie di fieno. E così è stato. Siamo partiti con
quattro erbe e poi, mano a mano che si andava avanti e che si
accumulavano le conoscenze relative ai diversi territori italiani, si è
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visto che si può arrivare a sei, sapendo comunque che l’obiettivo
resta quello di spingere ogni allevatore ad avere almeno un
appezzamento a prato polifita in modo da poter allestire una razione
di fieno con diverse erbe. Purtroppo ci siamo subito resi conto che la
monocultura aveva fatto più danni di quelli che avevamo
immaginato. I prati polifiti sono quasi scomparsi, la stessa parola
prato dice poco a molti allevatori, le essenze foraggere sono ormai
ridotte a poche specie, la biodiversità è praticamente nulla. Allora
abbiamo cambiato strategia privilegiando questo aspetto negli
incontri con gli allevatori. Lo stato dell’arte sarà raccontato da
Cavallero in questo libro.
Abbiamo anche inserito il divieto degli OGM e degli integratori, inutili
se non dannosi con un’alimentazione ben equilibrata.
Infine restava da definire il livello produttivo. Occorreva prevederlo o
no? In fondo se ne poteva fare a meno, perché se un animale
utilizza quel tipo di razione per forza deve ridurre la produzione e poi
non tutti gli animali danno la stessa risposta e quindi per alcuni
poteva rappresentare una ulteriore limitazione. Abbiamo preferito
mettere comunque un limite a 5000 litri per lattazione, sapendo che il
disciplinare è qualcosa che può essere migliorato in itinere se i
risultati che si vanno conseguendo lo dovessero suggerire.
Ci siamo preoccupati anche di inserire alcune clausole relative
all’ambiente, come la lontananze da discariche e l’uso limitato di
concimi e diserbanti.
Gli indici di qualità
A questo punto si poneva il problema della tracciabilità. E’ vero che
la diversità del latte è abbastanza riconoscibile da tutti ma quali
parole ho a disposizione per raccontare questa diversità e come
posso garantire al consumatore che l’allevatore rispetta il
disciplinare? E poi, cosa posso scrivere in etichetta, visto che il
Regolamento 1069/2011 che va in vigore alla fine del 2014 è molto
rigoroso ed è stato concepito per l’industria, non certo per produzioni
di qualità?
Il latte, i formaggi e la stessa carne sono alimenti e, per questo,
vengono acquistati o per ragioni edonistiche, per il piacere di
mangiare qualcosa di buono e/o per ragioni squisitamente
nutrizionali. Il gusto è legato a una serie di molecole complesse, i
fenoli, i terpeni, gli idrocarburi aromatici, gli stessi flavonoidi; gli
esteri, gli alcoli, le aldeidi. Il valore nutrizionale dipende dalla qualità
dei grassi e non dal grasso, dalla presenza degli acidi grassi insaturi,
dalle vitamine, dagli antiossidanti. Stiamo parlando di centinaia di
molecole le cui analisi sono difficile e costose. Occorre pensare a
degli indici sintetici che facilitino il racconto e il cui controllo permetta
di monitorare il rispetto del disciplinare. Più facile a dirsi che a farsi,
ma non ci stiamo tentando.
Il rapporto omega6/omega3
In passato, in collaborazione con Laura Pizzoferrato e Pamela Manzi
dell’ex Inran ora CRA-Nut, avevamo iniziato a mettere a punto
qualche indice. Grazie ad alcune intuizioni di Laura Pizzoferrato,
avevamo lavorato sul Grado di Protezione Antiossidante(GPA) e sul
rapporto Omega6/omega3. Il primo è importante perché ci da la
misurare del grado di protezione del colesterolo dall’ossidazione dei
radicali liberi(a parità di contenuto di colesterolo la sua ossidabilità
aumenta con la diminuzione del GPA). Il secondo è molto studiato
nel mondo della medicina tanto che ormai ne è stato precisato anche
il valore raccomandabile per la salute umana. Una recente ricerca
americana ha fermato l’asticella su 2,8, ritenuto ideale e da
perseguire. Noi sapevamo, quando siamo partiti, che occorreva
restare al di sotto di 5. E questo abbiamo scritto nella prima stesura
del disciplinare. Poi, con l’entrata di altri allevatori e mano a mano
che arrivavano i risultati dei prelievi periodici, abbiamo visto che
quasi tutti si attestavano intorno a 3, per cui abbiamo abbassato a 4
il valore del rapporto omega6/omega3.
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Il GPA (Grado di protezione antiossidante) Più complicato rimane il GPA. Dai dati pubblicati insieme a Laura
Pizzoferrato sapevamo che questo indice varia da circa 4 negli
animali alla stalla a oltre venti in quelli al pascolo, ma dove
posizioniamo l’asticella? E poi stiamo parlando di beta-carotene e di
alfa-tocoferolo le cui analisi sono più complesse di quello che
potrebbe sembrare. Per fortuna, nel periodo in cui si andava
sviluppando il progetto in Campania, dove le ricerche venivano
effettuate dal Corfilac, altri due progetti sono stati avviati in Piemonte
ed in Molise. E’ stato così possibile mettere insieme l’Università di
Torino e quella del Molise per poter effettuare anche un ring test sul
GPA. In questo libro verranno presentati tutti i risultati ma ci siamo
accorti subito che mentre il beta-carotene è abbastanza stabile e
risponde all’alimentazione, la vitamina E risponde meno perché è
una vitamina liposolubile, perché ha diversi isomeri con diversa
biodisponibilità e, soprattutto, viene sistematicamente data come
integratore nei sistemi intensivi, quindi difficile sapere se la sua
presenza nel latte, al momento in vengono effettuate le analisi,
dipende dalle erbe o dall’integrazione.
MA questi due antiossidanti non sono importanti solo perché capaci
di bloccare l’ossidazione del colesterolo. Negli ultimi anni va
aumentando la frequenza e la percentuale di formaggi industriali e, a
volte, anche aziendali, caratterizzati da un retrogusto metallico
fastidioso e spesso molto persistente. Il responsabile di questo
difetto è un’ossidazione che, a sua volta, può dipendere da uno
squilibrio fra radicali liberi e vitamine antiossidanti presenti nel latte.
Jensen(1999) ha dimostrato che la produzione di beta-carotene e di
alfa- tocoferolo prescinde dalla quantità giornaliera di latte che un
animale produce. Quindi, se con la selezione alziamo sempre più il
livello produttivo, lo squilibrio fra molecole bersaglio dell’ossidazione
ed antiossidanti aumenta sempre più. E’ vero che si interviene con
gli integratori(il disciplinare del Latte Nobile li vieta perché questo
equilibrio deve avvenire naturalmente con i foraggi), ma
evidentemente ormai la situazione è fuori controllo, anche perché
per i nutrizionisti la razione deve rispondere solo alle esigenze del
metabolismo e della produzione di grasso e proteine, non della
qualità del latte e dei formaggi.
Quindi, noi continuiamo a pensare che questo indice sia fra i più
interessanti, ma al momento l’unica cosa che si può fare è quella di
continuare a studiare per avere dati più stabili, per comprendere il
ruolo degli integratori e per poter, infine, definire il valore del GPA da
inserire nel disciplinare.
Il GIR (Grado di isomerizzazione del retinolo) Pe restare agli aspetti nutrizionali, Laura Pizzoferrato aveva anche
definito un altro indice, il GIR (grado d’isomerizzazione del retinolo)
perché aveva visto che i trattamenti termici del latte determinavano
un aumento della forma cis con conseguente riduzione della
biodisponibilità. E’ certamente un Indice interessante, però nel nostro
caso inutile perché ci limitiamo alla qualità della materia prima in
azienda, tutto quello che viene dopo, attiene a un altro segmento, è
industria, è tecnica.
Forse si può fare a meno di un indice di complessità aromatica
E il gusto, il sapore, come lo raccontiamo, da cosa dipende,
possiamo individuare un indice di sintesi? Anche qui le cose sono
abbastanza complicate. Le molecole interessate sono centinaia e,
soprattutto, con soglie di percezione diverse non solo fra loro ma
anche fra i consumatori. Forse un aiuto potrà darcelo l’analisi Smart
nose, perché la presenza di un operatore addestrato vicino al Gas
massa permette di rilevare sole le note percepibili dall’uomo. Si
potrebbe in questo modo rilevare il numero di note aromatiche e
l’intensità. In questo libro il Corfilac presenta i risultati, certo non
definitivi, ma sapremo se almeno questa parte merita un ulteriore
approfondimento.
Al momento quindi abbiamo inserito nel disciplinare e si continua a
monitorare solo il rapporto omega6/omega3, che deve essere sotto
4. Le numerose analisi che sono state fatte e la variabilità dei dati ci
hanno confermato che questo dato è abbastanza sensibile alla
razione alimentare ed alla presenza di erba tanto è vero che ogni
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qualvolta è stato registrato un aumento del valore è stato possibile
accertare che l’allevatore aveva modificato la razione.
Un argomento in evoluzione Un solo indice è sufficiente per rassicurare il consumatore e la
stessa filiera? Certamente no, anche perché si può intervenire
artificiosamente, per esempio con l’uso di pannelli di semi oleaginosi,
per cambiare questo rapporto. Occorre quindi insistere per
individuare altri indici altrettanto efficaci.
Al momento due sono i punti fermi che ci permettono di guardare
con sufficiente tranquillità la filiera e la sua tracciabilità. Il primo fa
riferimento ai controlli che l’Anfosc effettua nelle aziende e che
riguardano il livello produttivo degli animali, l’uso dei concentrati e la
qualità dei fieni. Il secondo, il più importante, parte dal presupposto
che l’organismo è un sistema in equilibrio, dove “tutto si tiene” e,
quindi, se l’animale mangia un buon fieno, il latte deve essere di
buona qualità e le molecole saranno tutte in equilibrio fra loro.
Possiamo quindi anche non monitorarle. Sullo sfondo, la seconda
regola di Newton: due effetti devono avere sempre la stessa causa.
Tradotto per noi: se con una buona alimentazione migliora un indice,
tutti gli altri devono muoversi nella stessa direzione.
A questo punto avevamo gli strumenti per avviare la produzione di
un latte diverso, di qualità superiore a qualsiasi latte alimentare
presente sul mercato. Come ottenerlo? Avevamo a disposizione due
strade: provare a convincere qualche allevatore che, stanco e
disilluso dal modello intensivo, non avrebbe avuto molte remore a
provare il nuovo modello oppure individuare allevatori che, con
piccoli aggiustamenti, si trovavano già nelle condizioni previste dal
disciplinare. Per accelerare i tempi optammo per la seconda
soluzione. In accordo con il Sesirca, il Servizio di Sviluppo della
Regione Campania, facemmo un inventario dei modelli di
allevamento della regione e, dopo alcuni sondaggi, optammo per
Castelpagano, un Comune dell’alto beneventano, a vocazione quasi
esclusivamente zootecnica, con piccoli allevamenti prevalentemente
a gestione familiare.
Fra i tanti ne selezionammo 4 o 5, analizzammo il latte e ci
rendemmo conto che in quell’area vi erano tutte le condizioni per
avere la qualità che cercavamo. Una delle conditio sine qua non che
ci eravamo posti e che successivamente anche Slow Food ci pose
quando chiedemmo loro di collaborare al progetto, era che agli
allevatori fosse riconosciuto un prezzo alla stalla più equo, più
remunerativo. In quel momento il prezzo di mercato era intorno ai
40-43 centesimi/litro, decidemmo di tenero come punto fermo 0,60
centesimi/litro.
Avevamo il latte, avevamo gli allevatori, ma non bastava per poter
vendere bene un buon latte. Il percorso era ancora lungo. Occorreva
trovare un imbottigliatore, un trasportatore che si facesse carico di
far arrivare il latte all’industria, un distributore e dei negozianti
disponibili, tutti, ad entrare sul mercato con un prodotto più caro e
non meno caro come era ed è la prassi.
Attivazione dei vari attori della filiera
Il primo ostacolo fu l’imbottigliamento. In Campania, come nelle altre
regioni, i centri d’imbottigliamento sono pochi e, come abbiamo
potuto verificare anche per gli altri protagonisti della filiera, operano
quasi tutti con il proprio marchio, non hanno alcun interesse a
entrare in un’iniziativa che si configura, a prima vista, come un
concorrente per la propria produzione. In sostanza, mentre un
produttore di vino amplia la gamma dell’offerta puntando soprattutto
sulla diversità della materia prima, le uve, ricercando varietà
autoctone di uve oppure tecniche di raccolta particolari, l’industria del
latte si limita a variare l’offerta solo in funzione della tecnica di
imbottigliamento e ignorando la specificità della materia prima. Un
atteggiamento simile hanno avuto i raccoglitori del latte, che al Sud
hanno un ruolo determinante, in pratica gestiscono e controllano il
prezzo ed il rapporto con l’industria. La debolezza del sistema è tale
che un seppur minima variazione dello status quo crea il panico e
21
spesso siamo stati oggetto di un’accoglienza fredda, quasi
minacciosa. Un’analoga risposta avevamo ottenuto da un importante
ipermercato di Napoli quando abbiamo cercato di far capire al
responsabile degli acquisti che quel latte andava venduto a un
prezzo alto perché la qualità era di livello superiore : “noi vendiamo
scatole e non siamo interessati a quello che c’è nella confezione”.
Dopo un primo tentativo di imbottigliamento subito abortito, abbiamo
capito che se volevamo andare avanti non dovevamo dialogare con
gli attori della filiera tradizionale.
Per fortuna sulla nostra strada abbiamo incontrato la Compagnia
della qualità, una società appena formata e composta da piccoli
imprenditori neofiti, che ha “sposato” la filosofia del progetto e, pur
senza aver alcuna esperienza di latte, del mercato e della
distribuzione, ha accettato la sfida. Un piccolo imbottigliatore si è
impegnato a offrire questo servizio per conto terzi, essendo egli
stesso produttore di latte di Alta Qualità, e a questo punto il latte era
pronto. Nel frattempo avevamo definito il nome, Latte Nobile, perché
volevamo far capire subito al consumatore che si trattava di
qualcosa di diverso e di livello superiore a quello che si trova
normalmente sul mercato, e abbiamo registrato nome e marchio.
Naturalmente non era e non è nostra intenzione fare del Latte Nobile
un marchio commerciale. Noi volevamo offrire al settore un modello
di sviluppo alternativo a quello attuale che fosse più remunerativo
per l’allevatore, più rispettoso dell’ambiente e del benessere animale
e che potesse dare al consumatore la libertà di scegliere la qualità
del latte. In qualche modo vuole essere un marchio simile al
biologico con la differenza che il biologico è stato concepito per
ottenere un sistema di allevamento più compatibile per l’ambiente e
più rispettose della salute degli animali. Non si preoccupa della
qualità del latte, non a caso la sua diversità è difficile da dimostrare.
La filosofia che è alla base del latte nobile parte dalle qualità del latte
e dai fattori presi in considerazione per renderla diversa. Se un
animale mangia più foraggio e più erbe diverse, se l’allevamento è
lontano da fonti d’inquinamento, il latte è di migliore qualità, l’animale
mangia meglio, produce meno latte ed ha una qualità della vita
decisamente migliore.
A questo punto avevamo gli allevatori ai quali veniva riconosciuto un
prezzo interessante e decisamente incoraggiante, avevamo
l’imbottigliatore ed avevamo la confezione di latte, un altro passaggio
seppur meno importante ma comunque da fare, da pensare, da
formulare. Oggi le confezioni e le etichette sono tutte uguali. Noi
dovevamo raccontare non solo una diversità della materia prima ma
anche le motivazioni per le quali il consumatore avrebbe dovuto
pagare quel latte a un prezzo superiore a tutti i latti che si , trovano
sul banco dei supermercati. E poi, con la nuova legge
sull’etichettatura, per la cui interpretazione occorre una laurea
specifica, bisogna fare molta attenzione perché non si è mai certi su
cosa si possa o non si possa scrivere. Comunque abbiamo anche
dovuto ottemperare a quest’obbligo apparentemente secondario.
Avendo deciso, sulla base dell’esperienza precedente, che i
supermercati andavano evitati e che occorreva percorrere strade
nuove, non restava ora, a noi dell’Anfosc, di creare l’attesa presso i
consumatori per questo latte Nobile e, alla Compagnia della qualità,
di attivare il circuito della distribuzione.
La comunicazione L’Anfosc, all’interno del modello, ha assunto, nella fase iniziale, il
ruolo di animatore, di trascinatore dei protagonisti della filiera. Oltre
che di controllo e di diffusione delle conoscenze che mano a mano si
andavano acquisendo. La ricerca e gli studi sugli indici sono stati
prima effettuati dal Corfilac di Ragusa a cui si sono via via aggiunti
L’Università del Molise con Giampaolo Colavita, l’Università di Torino
con Andrea Cavallero e Giampiero Lombardi, l’Università di Napoli
con Federico Infascelli e Serena Calabrò e l’Istituto Zooprofilattico di
Lazio e Toscana con Antonio Fagiolo e Cristina Roncoroni. Avevamo
quindi tutti i supporti tecnico-scientifici per mettere a punto un
metodo di comunicazione e di diffusione del modello da far
conoscere prima ai consumatori e poi a tutti gli altri attori della filiera.
23
A chi rivolgersi e come?
Per il latte alimentare bevuto tal quale, il diretto interessato era il
consumatore. Come preparare l’attesa, sapendo anche che la
Compagnia della qualità, non avendo a disposizione un caseificio,
non poteva permettersi la tentata vendita e riprendere il latte non
venduto? Tutto il latte consegnato doveva essere venduto e, per
questo, gli ordini erano precauzionalmente bassi.
Per prima cosa attivammo il sito www.lattenobile.it ed
incominciammo a partecipare a tutte le manifestazione importanti:
Cheese (Bra), Salone del Gusto (Torino), Terra Felix (Napoli),
Agrosud (Napoli), Saperi e Sapori (Genova). Contemporaneamente,
a Napoli e nell’interland, andavamo organizzando seminari, serate di
degustazione, incontri nelle sedi più diverse in modo da coinvolgere
il maggior numero di consumatori e le categorie professionali le più
diverse. Dal mondo della medicina, con seminari alla Facoltà di
Medicina e di Veterinaria, alle scuole, ai Gas, al mondo della
ristorazione.
Le informazioni che scaturivano dai seminari e gli articoli sulla
stampa nazionale che periodicamente facevano riferimento alla
nostra attività e al latte Nobile, hanno contribuito a determinare la
curiosità per questo nome altisonante, il desiderio di provare un latte
che per la prima volta diceva di essere diverso perché più gustoso e
nutrizionalmente importante.
Contemporaneamente, la Compagnia della qualità contattava tutti i
piccoli negozianti di Napoli facendo bene attenzione a non creare
concorrenza nella stessa area. Nel giro di pochi mesi le gastronomie
più importanti ne hanno fatto un motivo di prestigio poter vendere un
latte diverso, più costoso e che piaceva molto ai consumatori. Dopo
le gastronomie, l’attenzione è stata rivolta ai bar, alle pasticcierie e
alle cioccolaterie. In questo caso il racconto era quasi pleonastico. Il
latte ha un gusto delicatamente più marcato senza eccessi, il
contenuto di grasso è di poco più alto così come più elevato è il
contenuto di acidi grassi insaturi. Il barista ha potuto subito verificare
che il cappuccino ha un sapore e una consistenza diversa, resta
colpito dal fatto che il consumatore individua subito la differenza.
Alcune industrie selezionano e propongono per i bar latti con una
tensione superficiale e una schiumabilità più alta perché, come nel
caso dell’Alta Qualità, pensano che questo parametro permetta di
avere un cappuccino con più schiuma. I responsabili del marketing, e
forse anche molti baristi, sono convinti che un buon cappuccino si
caratterizza per la quantità di schiuma che lo ricopre e non per il
sapore e il gusto. Il Latte Nobile ha una schiumabilità non diversa
dagli altri latti, eppure il cappuccino è diverso e con più personalità.
Dopo i bar è venuta la volta dei gelatai, dei pasticcieri e dei
cioccolatieri. L’accoglienza, anche in questo caso, è stata entusiasta
soprattutto da parte dei gelatai, che trovano il gelato con un gusto
più deciso, più spatolabile, a parità di temperatura, perché più ricco
di acidi grassi insaturi. Inoltre, dal momento che il Latte Nobile ha
sempre un titolo in grasso più alto, il gelataio può usare meno panna.
Gelatai e pasticcieri, avendo verificato la diversità del latte, insistono
ora per avere la panna e il burro da latte Nobile.
Da parte sua, Slow Food Campania, partner nel progetto di ricerca
della 124 della Regione Campania, avvia la procedura per far
diventare il Latte Nobile dell’Appennino Campano, unico prodotto
liquido, un Presidio Slow Food. E, attraverso i suoi fiduciari
territoriali, avvia un’attività d’informazione sul territorio regionale e
nazionale.
All’inizio di questo percorso l’accordo fra la Compagnia della qualità
e gli allevatori era che solo il latte venduto come Nobile sarebbe
stato pagato al prezzo fissato di 0.60 a litro. La restante parte
sarebbe stata acquistata dall’imbottigliatore a un prezzo superiore a
quello di mercato di circa 5 centesimi/litro. Con questo meccanismo,
gli allevatori che hanno aderito al progetto e all’iniziativa non hanno
subito alcuna penalizzazione e la Compagnia della qualità ha potuto
affrontare l’avvio incerto senza costi aggiuntivi. In questo modo, nel
25
giro di un paio d’anni la totalità del latte di 8 allevatori di
Castelpagano è diventata ed è stata venduta come Latte Nobile, il
mercato si è allargato all’intera Campania, anche se Napoli resta il
bacino più importante. La gamma dell’offerta va dal latte, ai gelati,
allo yogurt, ai formaggi e a breve si passerà alla panna ed al burro.
Ma la cosa più curiosa è che il Latte Nobile, almeno a Napoli, è
diventato un cult, una moda, un prodotto che una buona salumeria
non può non avere, un pasticciere che si considera importante non
può non usare la Fuscella, una specie di ricotta tipica della zona.
A una domanda crescente normalmente si risponde con
l’adeguamento dell’offerta. E poi se, come ho detto all’inizio, il Latte
Nobile non è un marchio ma un modello di sviluppo e se il modello è
valido, questo si deve diffondere in tutto il territorio nazionale e non
solo. E se c’è bisogno di nuovo latte non dovrebbe essere difficile
trovarlo, visto anche che gli allevatori ricevono un prezzo superiore
al 50% rispetto a quello di mercato.
E allora, come si può attivare il modello in aree diverse da quella
iniziale, da dove si comincia e chi devono essere gli interlocutori?
I punti critici della filiera La debolezza di alcun segmenti della filiera
Alla fine dello scorso anno i punti fermi erano: l’alimentazione con
erba ed erbe diverse ed un livello produttivo al di sotto di 20 litri per
capo/giorno garantiscono un latte qualitativamente diverso ed in
linea con le nostre aspettative, il sistema permette di offrire agli
allevatori un prezzo significativamente superiore a quello di mercato,
gli utilizzatori intermedi e finali(baristi, gelatai, negozianti e
consumatori) mostrano di gradire questa diversità pur pagando un
prezzo che potrebbe essere anche di 50 centesimi/litro superiore al
prodotto di Alta Qualità.
La domanda incominciava a essere superiore all’offerta, bisognava
trovare altro latte.
Proviamo in Basilicata dove ci sono ancora piccoli allevatori che, con
piccole modifiche, avrebbero potuto adeguare il sistema di
allevamento al disciplinare del Latte Nobile. Incominciamo a
organizzare alcune riunioni con gli allevatori in due diversi bacini
lattiferi della regione: il Marmo-Melandro e il Vulture. La proposta era
abbastanza semplice: voi adeguate il sistema alimentare al nostro
disciplinare e la Compagnia della qualità vi riconosce un prezzo di
circa il 50% superiore a quello da voi oggi percepito. All’inizio ci
sembrava di essere i “portatori della buona novella”, in un settore in
crisi profonda, dove la prossima abolizione delle quote sta creando il
panico, la proposta di un prezzo decisamente superiore avrebbe
dovuto apparire come un’àncora di salvezza. Invece dopo qualche
riunione avemmo l’impressione di aver creato il panico, tanto che mi
venne in mente la frase che Freud pronunciò al momento dello
sbarco a New York: “gli americani non sanno che gli stiamo portando
la peste”. Le indicazioni che vennero da queste riunioni furono:
allevatori con al massimo 20 vacche in lattazione distribuivano agli
animali una quantità di mangimi talmente alta da creare forti
problemi di fertilità, oltre che evidenti danni economici; i raccoglitori
di latte, che nel Sud hanno in mano il mercato del latte perché
fungono da primi acquirenti, sono interlocutori privilegiati e possono
diventare l’elemento chiave della filiera.
Decidiamo allora di dialogare con alcuni di essi. Veniamo bene
accolti, rifacciamo alcune riunioni, ma quando capiscono che, in
questo modo, il loro ruolo potrebbe diventare secondario, visto che la
leva del prezzo passerebbe dalle loro mani a quelle della Compagnia
della Qualità, allora ci fanno terra bruciata e si pone fine agli incontri.
Ci rendiamo conto a questo punto che la strategia va cambiata.
Il raccoglitore di latte, almeno in molte aree del Centro e del Sud, dal
momento che è anche primo acquirente ed è quindi lui a decidere il
prezzo, non può accettare di raccogliere il Latte per una industria
disponibile a pagare prezzi superiore a quelli che lui sta garantendo
in quell’area. Occorre quindi scavalcare questa figura utilizzando
27
mezzi propri per la raccolta del latte. Come superare poi la sfiducia
innata e spesso giustificata degli allevatori verso chi ti offre un
prezzo più alto, visto che le truffe in questo settore sono all’ordine
del giorno? La Compagnia della qualità allora decide di dotarsi di
una cisterna per la raccolta del latte e di predisporre un contratto
chiaro con le modalità di pagamento e con le fideiussioni per
superare la diffidenza degli allevatori.
Resta ancora un elemento chiave da definire e lo faremo nei
prossimi mesi: il latte Nobile non è tutto uguale e il prezzo dovrebbe
premiare la qualità del latte. Nei prossimi mesi definiremo un metodo
di pagamento in base a parametri che riguardano il rapporto
omega6/omega 3 ed alla qualità sensoriale dei fieni. Tutto questo è
stato inserito nel contratto e solo la parte relativa ai fieni sarà decisa
a breve.
Con la cisterna e il contratto il dialogo con gli allevatori ha avuto il
risultato atteso. La Compagnia della qualità, proprio mentre scrivo
queste note, ha chiuso in Molise, nel bacino lattifero del Titerno,
alcuni importanti contratti con tre allevatori, uno dei quali ha appena
avviato una stalla con vacche Jersey e da subito ha voluto produrre
Latte Nobile. Un ottimo latte per avviare nel modo più appropriato la
produzione di panna e di burro.
Il settore della bufala è nelle stesse condizioni Ma il modello non ha interessato solo l’allevamento della vacca da
latte. Per motivi sostanzialmente simili, la bufala sta vivendo la
stessa crisi del bovino, anche se il problema non è l’abolizione delle
quote latte bensì la deriva della qualità del latte, che a sua volta
determina una concorrenza al ribasso, quindi una crisi del prezzo,
per molti non più remunerabile. Per alcuni allevatori il modello latte
Nobile è apparso l’ultima spiaggia. Nel settore della bufala non
avevamo alcuna esperienza ma la seconda regola di Newton ci
faceva dormire sonni tranquilli. Un allevatore in provincia di Caserta
ha voluto provare, destinando solo 15 bufale al Latte Nobile.
L’alimentazione è stata cambiata, adeguandola al disciplinare e dopo
un paio di mesi sono stati fatti i controlli analitici del latte. Come c’era
da aspettarsi, non solo il rapporto omega6/omega 3 è sceso sotto 4,
attestandosi intorno a 3, ma le mozzarelle hanno manifestato in
pieno la propria diversità: un gusto più persistente e variegato ed
una maggiore cremosità rispetto alle mozzarelle fatte con il latte del
gruppo di bufale alimentate con il sistema tradizionale. A quel punto
è intervenuta la Compagnia della qualità con il metodo ormai
consolidato: un contratto con un prezzo superiore a quello del
mercato locale con opzioni sull’attivazione di un meccanismo
premiativo della qualità.
La qualità dei fieni è precaria e modesta Se la qualità del latte dipende dal foraggio e dalle diverse erbe,
allora, quando ci chiedono di aderire al Latte Nobile, la prima cosa
che facciamo è una visita al fienile. Ormai l’esperienza è tale,
abbiamo fatto tante analisi in condizioni di alimentazione diverse e
con tanti livelli produttivi delle vacche, che ci basta una analisi
sensoriale dei fieni ed il riscontro della produzione media giornaliera
di latte per fare una ipotesi attendibile della qualità aromatica e
nutrizionale del latte. Tali visite però finiscono per confermare quello
che è diventato evidente già all’inizio di questo percorso, quando
abbiamo iniziato a dialogare con gli allevatori di vacche da latte e di
bufale: il fieno è un semplice foraggio abbandonato, se va bene,
sotto una tettoia, con un colore quasi mai verde, come dovrebbe
essere, ma variabile dal giallo al marrone e di variabilità di erbe e di
biodiversità nemmeno l’ombra. Mano a mano che il numero delle
visite aumentava, ci accorgevamo che oramai il fieno era diventato
un “male necessario”, lo si falcia e lo si raccoglie quando si ha
tempo, il ricovero non è necessario. Chi produce fieno sa che il
compratore è interessato alla quantità, l’allevatore che deve
distribuirlo agli animali è convinto che il fieno è solo un alimento che
deve apportare fibra e proteine. Può bastare una sola erba, anche se
di colore giallo. Non a caso l’unità di misura della qualità del fieno è il
“camion”, l’autotreno. Naturalmente non dappertutto la situazione è
29
come quella descritta. Al Sud è drammatica, al Centro un po’ meno,
al Nord, e soprattutto sulle Alpi, la tradizione è decisamente diversa.
D’altronde c’era da aspettarselo. Per anni il mondo della ricerca ha
incoraggiato la monocoltura con la motivazione che fosse meno
costosa e, soprattutto, che migliorasse la qualità del latte e del
formaggio. Erano e in parte sono, i tempi di grasso e proteina nel
latte e di fibra e proteine del fieno e con questi parametri si
esprimevano giudizi definitivi sulla qualità. Ero studente e
utilizzavamo il metodo Van Soest per valutare e misurare la qualità
dei foraggi. Sono in pensione, e questo metodo è ancora considerato
l’unico attendibile. Come se ci fosse una relazione fra la carica di
aromi e profumi e l’apporto in termini nutrizionali di un buon fieno e il
suo contenuto in fibra, cellulosa, e proteina. E allora, perché coltivare
i prati polifiti, che danno meno produzione, perché falciare in
anticipo, visto che si ha meno erba, perché raccogliere nei tempi
giusti il fieno e conservarlo in fienili costosi, visto che la proteina e la
fibra non ricevono grandi danni?
Un appunto per la prossima PAC e per la programmazione dei piani
di sviluppo regionali: la qualità del latte e della carne si recupera
essenzialmente attraverso il fieno e i fienili. Occorre quindi mettere in
atto azioni in questa direzione: finanziamenti ai fienili, nel greening
dovrebbe rientrare anche una classificazione della qualità dei fieni. In
Francia c’è persino un fieno DOP, le Foin de la Crue. E tutto questo
si potrà ottenere se il fieno sarà anch’esso pagato a qualità.
Per quello che ci riguarda, abbiamo messo a punto un metodo di
valutazione sensoriale dei fieni e i primi risultati saranno riferiti in
questo libro dal gruppo di Infascelli dell’Università di Napoli.
Inizia la lunga marcia Ma un modello non è tale se non può prescindere dai protagonisti
che ne hanno determinato lo sviluppo e se non può trovare
applicazione in altri territori e con altri soggetti. E siamo alla seconda
fase del modello Latte Nobile.
Finora il modello di sviluppo ha avuto due protagonisti chiave:
L’Anfosc e la Compagnia della qualità. Potrà sembrare un
paradosso, ma il successo del modello sarà totale e definitivo se il
settore potrà fare a meno dei soggetti che ne hanno avviato lo
sviluppo. In sostanza, se il modello potrà trovare applicazione in
qualsiasi parte del mondo, purché si rispetti il disciplinare di
produzione, allora vorrà dire che lo sviluppo sarà, come si diceva
negli anni ottanta, autopropulsivo.
L’Anfosc al momento svolge il ruolo di coordinamento, di
promozione, soprattutto di controllo e di certificazione. MA l’Anfosc è
un’Associazione senza fine di lucro e ha competenze soprattutto
tecniche. Mano a mano che le adesioni aumenteranno, il suo ruolo
diventerà sempre più marginale e limitato alla consulenza scientifica.
La funzione di controllo potrà essere e sarà effettuata dai tanti
organismi di Certificazione che già operano in tutte i sistemi
produttivi del mondo. Il raccordo fra i soggetti che operano nel
settore del Latte Nobile e di comunicazione e marketing sarà
facilitato e monitorato dalla SILN, una società che l’Anfosc ha
contribuito a creare e di cui non fa parte.
La Compagnia della qualità è una società privata per ora localizzata
in Campania e le regioni circostanti. Ha svolto un ruolo determinante,
continuerà a svolgerlo, ma in altre regione ed anche nella stessa
regione, altri soggetti potranno intervenire ed utilizzare il marchio
Latte Nobile per avviare e creare un’attività economica di successo.
E’ quello che sta avvenendo.
L’attivazione del sito web, i numerosi seminari organizzati in giro per
l’Italia e gli articoli apparsi sulla stampa nazionale hanno intercettato
non solo consumatori alla ricerca di novità gastronomiche e, nel
nostro caso, del latte di “una volta”, come è riportato sulla
confezione, ma allevatori stanchi di un modello che, almeno per loro,
appare senza futuro e senza prospettive. Siamo stati allora contattati
da allevatori del Piemonte, del Lazio, della Puglia, del Molise, della
31
Basilicata e della Sicilia. La caratteristica di tutti questi allevatori è
che possono agire in maniera individuale in quanto riescono a
chiudere la filiera in azienda. Non hanno cioè bisogno di vendere ad
intermediari per far arrivare sul mercato il latte per uso alimentare o
per la trasformazione. Ma sta cambiando anche la tipologia di
allevatore. In Campania e Molise si tratta di piccoli allevatori il cui
sistema di allevamento già si avvicinava al disciplinare del latte
Nobile, per cui le modifiche non sono state sostanziali. Adesso
invece entrano nel settore soggetti che vogliono drasticamente
cambiare, perché le prospettive non lasciano intravvedere sbocchi
positivi. Riporto a titolo esemplificativo due casi molto interessanti
anche per i risultati tecnico-scientifici che ci hanno permesso di
acquisire.
A volte ritornano. I prati polifiti in pianura padana A Villastellone, in provincia di Torino, i fratelli Masera gestivano la
classica azienda intensiva di Frisone basata, come la quasi totalità
delle aziende della pianura padana, su insilato di mais e concentrati.
La situazione era al limite, il modello non piaceva alla nuova
generazione che ha preso in mano l’azienda e, ad un seminario che
abbiamo tenuto a Bra in occasione di Cheese, ci sentono parlare di
latte Nobile. La richiesta di adesione arriva dopo qualche mese.
Senza remore e indecisioni, arano l’intera azienda e, sotto la
direzione del prof. Cavallero dell’Università di Torino(ne parlerà in
questo libro), seminano 25 ettari di prati polifiti, adottano il
disciplinare del latte Nobile, ottengono la certificazione dopo un anno
perché occorreva aspettare la formazione del prato permanente ed
ora producono e vendono Latte Nobile, gelati e yogurt a Villastellone
e nella gelateria al Centro di Torino.
La Frisona, una macchina da latte capace di
rallentare la corsa Nel Lazio, a Segni, l’agronomo Andrea Colagiacomo si trova a
gestire l’azienda familiare che è impostata sul modello intensivo con
Frisone che producono latte di Alta Qualità. Ha un piccolo
imbottigliamento e produce anche gelati e yogurt. E’ giovane,
dinamico, aperto alle novità. Viene a conoscenza del modello e
decide di provare. Alleva 150 vacche in lattazione, quindi un
allevamento non proprio piccolo, e avvia la prova separando un
gruppo di 48 vacche ed alimentandole secondo il disciplinare del
latte Nobile. Tutta la fase di preparazione e di controllo viene
effettuata dall’Unità diretta da Antonio Fagiolo dell’Istituto
Zooprofilattico di Lazio e Toscana e dal prof. Infascelli dell’Università
di Napoli. Il primo gruppo effettua il monitoraggio del benessere
animale, il secondo quello della qualità dei fieni e del latte. I risultati
sono riportati in questo libro. Io aggiungo solamente che l’allevatore
è soddisfatto, riesce a vendere contemporaneamente sia latte di Alta
Qualità sia Latte Nobile, naturalmente a prezzi diversi. Vedremo se
nel futuro tutta l’azienda sarà destinata a latte Nobile. Al momento
questo modello è per noi di grande interesse perché ci permette di
studiare e approfondire le tematiche e gli effetti del “ritorno” alle
tecniche di una volta sul benessere animale, sulla fertilità dei suoli e
sulla qualità del latte. Un campo scuola a cielo aperto, impagabile di
questi tempi. Il primo dato scientifico importante è che le Frisone,
contrariamente a quanto viene sentenziato dal mondo della
selezione, hanno ridotto il livello produttivo non solo senza problemi
ma recuperando quote di benessere.
Il Latte Nobile non è più una buona idea ma un
modello che funziona
La lezione che ci viene dal modello Latte Nobile è che lo sviluppo di
qualsiasi prodotto può essere possibile se la sua diversità, la sua
specificità, possono essere ripetibili, attraverso il disciplinare di
produzione, certificabili, attraverso controlli mirati e raccontabili,
attraverso l’estrapolazione e l’uso sia dei fattori che determinano tale
differenza e sia delle parole chiavi che permettono di raccontarla.
Spesso ci dicono che abbiamo scoperto l’acqua calda, che in fondo
lo sanno tutti che alimentando bene gli animali, che ritornando al
passato, la qualità del latte migliora. Certo, rispondiamo ma, a parte
che ancora adesso il mondo della vacca da latte pretende di
33
produrre latte di Alta Qualità con una selezione spinta degli animali e
con razioni alimentari basate su una sola erba ed una quantità
sproporzionata di concentrati e sottoprodotti ed integratori, e quindi,
per questo mondo, anche l’acqua calda è una rivoluzione, ma non
basta produrre un buon latte per vendere “bene” un buon latte.
Soprattutto quando non hai a disposizione risorse economiche da
destinare alla comunicazione. Questo modello ci dice che lo sviluppo
non lo ottieni se coinvolgi solo un segmento della filiera e che non ti
verrà riconosciuta la diversità se non fai diventare protagonista il
consumatore, l’unico in grado di stimolare e attivare la filiera,
permettendo di scavalcare i vari Ghino di Tacco che si trovano sul
percorso.
Negli anni ottanta si diceva -e per la verità molti lo dicono ancora
adesso- che agli allevatori della montagna va riconosciuto e pagato il
ruolo di presidio del territorio e di mantenimento delle frane e del
dissesto. Insomma un poco di elemosina per fare stare bene noi che
stiamo in pianura. Basterebbe invece che il consumatore pagasse
bene, il giusto, i prodotti di questi allevatori non per far vivere bene
loro, ma per vivere bene egli stesso, perché questi prodotti sono
nutrizionalmente e aromaticamente più importanti.
Non a caso il risultato finale di questo modello è un consumatore
felice di pagare un prezzo alto per un buon prodotto e un l’allevatore
felice di ricevere un prezzo giusto per il suo lavoro ed i suoi sforzi.
Aggiungo che questo modello, se dovesse avere successo, sarebbe
un’àncora di salvezza per tanti piccoli e grandi allevatori che sono
destinati a scomparire e, soprattutto, è l’unica alternativa per tutti
quei paesi in via di sviluppo dove il prodotto locale è penalizzato da
importazioni che vengono apprezzate di più e meglio dai
consumatori locali. Ma questa è un’altra storia che speriamo di
raccontare nel prossimo futuro. Non a caso il Latte Nobile ha avviato
i primi passi nello Stato di Colima in Mexico e Miguel Galina,
dell’Università di Città del Messico ne racconta il tentativo in questo
libro.
Se ogni lunga marcia presuppone un primo passo, il modello Latte
Nobile di passi ne ha fatti già più di uno.
Il gruppo di lavoro dell’Anfosc è composto dal sottoscritto e da:
Michele Pizzillo, Adriano Gallevi, Daniela Princigalli, Mimmo Pontillo,
Mariolina Boscarelli e Antonio Doronzio.
Bibliografia L’argomento trattato in questa nota affronta un argomento troppo
vasto e richiederebbe una bibliografia che mal si concilierebbe con la
voluta brevità del testo. Riporto solo qualche pubblicazione che è
stata determinante per la scelta di alcuni passaggi chiavi del
percorso che abbiamo intrapreso ed un libro che abbiamo scritto per
raccontare le motivazioni che ci hanno portato a concepire un
modello diverso di sviluppo della filiera da latte.
Soren Krogh Jensen, Anna Kirstin Bjornbak Johannsen, Jonn E.
Hermansen, 1999. Quantitative secretion and maximal secretion
capacity of retinol, beta-carotene and alfa-tocoferol into cows’ milk.
Journal of Dairy Research, 66: 511-522.
C.Agabriel, A.Cornu, C.Journal, C.Sibra, P. Groller, B. Martin,
2007.Tanker variability according to farm feeding practices: vitamins
A and E, carotenoids, color and terpenoids. J. Dairy Sci. 90: 4884-
4896.
L.Pizzoferrato, P.Manzi, S.Marconi, V.Fedele, S;Claps, R:Rubino,
2007. Degree of antioxidant protection: a parameter to trace the
origin and quality of goat’s milk and cheese. J.Dairy Sci. 90: 4569-
4574.
Pamela Manzi, Laura Pizzoferrato, Roberto Rubino, Michele Pizzillo,
2010. Valutazione di composti della frazione insaponificabile del latte
vaccino proveniente da diversi tipi di allevamento. Atti convegno
Ciseta, 482- 486.
Pamela Manzi, 2011. Come è cambiata la qualità del latte negli ultimi
venti anni. Caseus,
35
S.Claps, M.Pizzillo, R.Rubino, 2011. Dalle stalle le stelle, Caseus
Editrice, Potenza, pp.135.
Tesi di Laurea F. Manco, 2013. Diversamente uguali: Il progetto Latte Nobile.
Relatore Prof. Nicoletta Murru, Università di Napoli, Corso di Laurea
in Medicina Veterinaria.
F. Esposito, 2013. Lo sviluppo e il lancio di un nuovo prodotto. Il
caso del Latte Nobile. Relatore Prof. Andrea Runfola, Università di
Perugia, Corso di Laurea in Statistica ed Informatica per la Gestione
delle Imprese.
D. Furio, 2013. Una qualità “diversa” è possibile: il caso del latte
nobile. Relatore prof. Serena Calabrò, Università di Napoli, Corso di
Laurea in Tecnologie delle Produzioni Animali.
Il significato dei foraggi prativi nei sistemi
zootecnici per la produzione del latte
Bruno Ronchi
Universtità degli Studi della Tuscia
Presidente Associazione per le Scienze e le Produzioni Animali
(ASPA)
Introduzione Riscoprire il significato di quell’ampia varietà di foraggi proveniente
da pascoli e da prati può sembrare fare un tuffo indietro nel passato,
quando l’alimentazione degli erbivori di interesse zootecnico, ma
anche di molti altri animali che oggi non consideriamo più erbivori,
quali il suino, l’oca, l’anatra, etc., era prevalentemente o
esclusivamente basata sull’impiego di tali risorse alimentari, per lo
più mediante il pascolamento. La tematica risulta invece
estremamente attuale e oggetto di numerose ricerche anche nei
paesi che hanno sviluppato per primi le forme più intensive di
allevamento in condizioni di stabulazione. La rinnovata attenzione
verso forme meno intensive di allevamento è dettata in primo luogo
da ragioni economiche, a fronte di una sempre più evidente
insostenibilità dei sistemi intensivi che si sono diffusi negli ultimi
decenni. Ma esistono anche motivi legati alla possibilità, attraverso
l’impiego di foraggi di buona qualità e all’applicazione di buone
pratiche di gestione, di migliorare le condizioni del benessere
animale e la qualità dei prodotti di origine animale. La qualità dei
foraggi non è semplicemente il risultato di una naturale e casuale
combinazione di eventi, quanto piuttosto il risultato di un serio
programma di pianificazione e gestione delle risorse foraggiere per
le necessità degli animali allevati.
L’attenzione sui foraggi è anche giustificata dalla rilevanza che
assumono sulla superficie agricola mondiale. Basti pensare che,
considerando l’Europa, i prati e i pascoli coprono oltre il 33% della
superficie agraria (EUROSTAT, 2008). Tali aree assumono un
37
grande significato non solo per la possibilità che offrono di ricavare
biomassa foraggiera per gli animali domestici e selvatici, ma anche
per un’ampia pluralità di funzioni legate al loro valore estetico,
ambientale ed ecologico. Una corretta gestione della superficie
prativa fornisce, infatti, un contributo determinante alla prevenzione
dei fenomeni erosivi, alla prevenzione del degrado del paesaggio e
al mantenimento della fertilità del suolo.
In questa nota verranno presi in considerazione aspetti relativi al
significato dei foraggi per il benessere animale e alla valutazione
della qualità dei foraggi prativi per l’alimentazione del bestiame.
Verranno inoltre fatti alcuni cenni sul significato economico e sul
valore ambientale dei foraggi prativi.
Consumo di foraggi e benessere animale Aspetti generali
Il tema del benessere animale è sempre più frequentemente
all’attenzione dell’opinione pubblica e oggetto di ampia produzione
normativa in molte parti del mondo. I ricercatori che operano nel
campo delle produzioni animali lo stanno indagando nei molteplici
aspetti scientifici, dall’etologia, all’immunologia, al metabolismo, etc.
Forte attenzione è anche posta agli aspetti etici. Molto
frequentemente il tema si arricchisce di considerazioni che non
hanno solide basi scientifiche, ma sono sostenute da pregiudizi
ideologici o, più semplicemente, da false convinzioni. Molti sono i
luoghi comuni, quali il pensare che l’allevamento intensivo del
bestiame sia sempre e comunque sinonimo di grave perturbazione
del benessere animale e, sul fronte opposto, il credere che gli
animali che vivono allo stato brado godano indubbiamente di ottima
salute. Ma rimanendo nell’ambito più contenuto, riguardante la
valutazione dell’utilizzazione dei foraggi prativi sul benessere
animale, le questioni fondamentali da analizzare sono: l’effetto
dell’attività di pascolamento sul benessere animale, così come
influenzata dal movimento, dalle condizioni climatiche, dalla qualità
sanitaria dell’ambiente, dal tipo di gestione, etc.; l’effetto delle
disponibilità alimentari e di acqua rispetto alle esigenze nutrizionali
del bestiame. Si ritiene utile precisare che queste varie componenti
presentano un elevato livello di interazione tra loro, in quanto, per
esempio, la capacità di ingestione alimentare non è solo influenzata
dalla qualità del foraggio, ma anche dalle condizioni ambientali,
climatiche in particolare.
Ed è proprio sull’ingestione alimentare che occorre soffermare
principalmente l’attenzione, in quanto rappresenta uno dei parametri
più strettamente collegati con il benessere dell’animale. Tra i fattori
che influenzano la capacità di ingestione, ai primi posti vanno inseriti
l’appetibilità e la digeribilità del foraggio. L’appetibilità, che può
variare sensibilmente da una specie animale all’altra, è strettamente
collegata alla composizione botanica del foraggio e allo stadio di
sviluppo vegetativo. Nel caso dei foraggi conservati, si aggiungono
evidentemente altre importanti variabili, legate alle modalità di
raccolta e c di conservazione. I foraggi di alta qualità, siano essi
freschi o conservati, stimolano la capacità di ingestione e permettono
di soddisfare, in tutto o in buona parte, le esigenze nutrizionali degli
animali. Al contrario, foraggi di mediocre qualità risultano poco
appetibili e poco digeribili, determinando così carenze nutrizionali,
perdite di peso, cali produttivi e problemi metabolici. Nel caso di
bovini da latte diverse ricerche hanno permesso di prevedere il livello
potenziale di ingestione di foraggi e di produzione lattea in funzione
della qualità dei foraggi. A titolo di esempio, con foraggi di buona
qualità è possibile prevedere un livello di ingestione che si avvicina
al 3,5% di sostanza secca sul peso vivo dell’animale (Kolver &
Muller, 1998). Con foraggi di scarsa qualità il livello di ingestione non
supera il 2% del peso vivo (Noller, 1997). A questo punto entrano
chiaramente in gioco anche aspetti legati alla gestione agronomica e
alle modalità di pascolamento. Senza entrare nel merito degli aspetti
agronomici, vale solo la pena sottolineare come, nel caso di sistemi
zootecnici che sono basati fortemente sull’utilizzazione del
pascolamento, siano da preferire soluzioni che permettano di
ottenere un’ampia catena di foraggiamento, una buona permanenza
39
negli anni e una buona resistenza al calpestio del bestiame. Per
questo, risultano più idonee e sostenibili soluzioni agronomiche
basate sulla realizzazione di prati misti poliennali (Combs, 2001), i
quali presentano anche vantaggi sul fronte ambientale ed ecologico.
Sembra sempre più evidente che l’impiego di varietà foraggere locali
offra una maggiore resistenza ai contrasti dovuti alla variabilità
climatica, siccità in modo particolare, in quanto più facilmente
adattabili alle caratteristiche del suolo (Brunetti, 2003). La presenza
di una diversità vegetale permette di migliorare sensibilmente
l’offerta di nutrienti per le esigenze degli animali allevati.
Ma un grande vantaggio derivante dalla biodiversità dei foraggi
risiede anche nel fatto che ciò potrebbe consentire agli animali di
selezionare, a seconda delle necessità, piante dotate di proprietà
medicamentose, contenenti cioè sostanze utili per disintossicare
l’organismo o per svolgere una funzione antiparassitaria. I foraggi
contengono molto di più che energia e proteine per la nutrizione
animale. Molte piante contengono, infatti, composti bioattivi, definiti
anche metaboliti secondari, che possono svolgere delle interessanti
funzioni nutraceutiche o comunque benefiche per l’organismo
animale. È il caso di comuni piante foraggere, quali, ad esempio, la
sulla (Hedysarum coronarium), che presentano valori elevati di
tannini condensati, utili per contenere la carica di endoparassiti
(Niezen et al., 2002). Molte sono le segnalazioni pratiche di
comportamenti alimentari degli animali al pascolo orientati ad
assumere in alcuni periodi dell’anno particolari tipi di erbe. Restano
da comprendere, su base scientifica, le ragioni di questi
comportamenti, anche ai fini di un’eventuale applicazione.
Per sgomberare però il campo dall’idea che l’alimentazione degli
animali al pascolo o l’utilizzazione dei foraggi sia sempre e
comunque utile per garantire condizioni di benessere degli animali,
vanno sottolineati i seguenti aspetti:
- i foraggi vanno inseriti all’interno di un piano alimentare che possa
permettere di ottenere un equilibrato apporto di nutrienti per gli
animali, prevedendo l’impiego di idonei supplementi e integrazioni
quando necessario;
- i foraggi presentano una grande variabilità di composizione e valore
nutritivo, che deve essere attentamente valutata al fine di
considerare il loro corretto impiego alimentare;
- non sempre gli animali hanno la possibilità di “autoregolarsi” in
un’alimentazione basata esclusivamente sui foraggi;
- in alcune fasi del loro sviluppo i foraggi possono presentare una
composizione “critica”, favorevole per lo sviluppo di alcune
dismetabolie (sindrome uremica per esempio, da eccesso di
sostanze azotate).
Il contenuto vitaminico dei foraggi: carotenoidi e tocoferolo
Il consumo di foraggi prativi, specialmente se freschi, è
comunemente associabile a una colorazione giallastra del latte, del
burro, del formaggio e talvolta anche del grasso animale. Questo
fatto viene generalmente valutato dal consumatore e dall’allevatore
come una condizione di “naturalità” dell’allevamento e anche di
benessere animale. Tali colorazioni assunte dai prodotti di origine
animale dipendono essenzialmente dalla presenza nei foraggi di
pigmenti naturali, chiamati carotenoidi. Tali sostanze vengono
almeno in parte trasferite nella frazione lipidica dei prodotti di origine
animale. Alcuni carotenoidi, particolarmente il beta-carotene, sono
precursori della vitamina A propriamente detta (retinolo), che
solitamente è contenuta solo in alcuni alimenti animali, e svolgono
un’importante funzione antiossidante. Tale funzione non riguarda
esclusivamente proprietà nutraceutiche per il consumatore, ma
coinvolge anche la stabilizzazione di molti composti del latte
ossidabili, rendendo quindi il latte più stabile e gradevole. I
carotenoidi più importanti rinvenibili nei foraggi sono, in ordine
decrescente di concentrazione, la luteina, la zeaxantina e il trans-
41
beta-carotene. In minore quantità si rinvengono neoxantina,
violaxantina, anteraxantina e cis-beta-carotene (Kalac, 2012). Non
tutti i carotenoidi possiedono lo stesso valore biologico e
nutrizionale. Da ciò deriva che la determinazione del contenuto totale
di “carotene” nei foraggi non offre sufficienti informazioni di carattere
qualitativo. Sarebbe dunque preferibile differenziarle, per esempio
mediante cromatografia liquida ad alta risoluzione (HPLC), le singole
molecole e le differenti forme isomeriche. Particolare attenzione
deve essere posta alle modalità di campionamento dei foraggi, in
quanto i contenuti in carotenoidi sono influenzati, oltre che dalle
differenti specie botaniche, dalla fase vegetativa, parte della pianta e
addirittura dal momento del prelievo nell’arco della giornata.
Tab.1. Contenuto di carotenoidi (mg/kg-1
) in foraggi freschi (da P. Kalac,
parzialmente modificato).
Tipo di foraggio
Beta-carotene totale
Trans-beta carotene
Luteina
Epiluteina
Zeaxantina
Referenze
Pascolo Montano
29,0 47,3 193,0 36,0 49,8 Calderon et al., 2006
Trifoglio pratense (primo sfalcio)
29,9 16,0 136,0 40,0 -
Cardinault et al., 2006
Prato permanente
44,7 - 167,0 - - Muller et al., 2007
I trattamenti di conservazione dei foraggi determinano un forte
perdita del contenuto di carotenoidi. Le perdite nel corso della
fienagione sono tanto più pronunciate quanto più l’erba rimane in
campo, a causa dell’effetto negativo dei raggi ultravioletti. Anche
l’insilamento determina una riduzione del contenuto in carotenoidi e
del loro valore biologico, tanto più accentuata quanto più alterati
sono i processi fermentativi.
Il tipo e la qualità del foraggio consumato dai ruminanti condiziona
fortemente il contenuto di carotenoidi nel latte e nei grassi di
deposito. Con l’aumento della concentrazione ematica di carotenoidi
aumenta la quantità che viene catturata dalla ghiandola mammaria e
riversata nel latte. Altri fattori sono tuttavia da considerare, ivi
compresa ovviamente l’eventuale aggiunta di carotenoidi alla dieta
mediante integratori.
I foraggi freschi rappresentano, inoltre, una considerevole fonte di
tocoferoli, tra i quali l’isomero alfa-, la più importante forma di
vitamina E. Analogamente a quanto succede per i carotenoidi, i
trattamenti di conservazione dei foraggi determinano una forte
perdita di tocoferoli (Shingfield et al., 2005). Il trasferimento della
vitamina E nel latte è influenzato da fattori nutrizionali, dalla
stagione, dal management aziendale, dalla genetica e della fase di
lattazione. All’aumento del contenuto di tocoferoli nei foraggi si
verifica un aumento nel latte, anche se con un’efficienza di
trasferimento non particolarmente elevata, quantificata dagli stessi
autori sopra menzionati intorno al 2,8%. Ma più recentemente alcuni
autori svedesi hanno riscontrato valori prossimi al 6% (Hojer et al.,
2012). Ai cambiamenti di dieta, per esempio nel passaggio dal
regime alimentare a base di foraggi freschi al regime a base di fieni,
segue in pochi giorni (da una a due settimane) il cambiamento della
concentrazione di tocoferolo nel latte. Al di là degli effetti ben
conosciuti sulla salute dell’animale e dell’uomo, l’α-tocoferolo riveste
un ruolo di grande interesse come fattore antiossidante nella
prevenzione degli attacchi ossidativi a carico degli acidi grassi
insaturi (Juhlin et al., 2010).
L’alimentazione a base di foraggi, soprattutto se freschi, fornisce
dunque un grande apporto di nutrienti per l’animale e non soltanto in
termini di apporto energetico e proteico, ma anche in termini di
apporto di vitamine e sali minerali, non considerati nella trattazione.
43
Tali nutrienti hanno, in primo luogo, un significato positivo per il
benessere animale e, fatto non trascurabile, arricchiscono anche i
prodotti di origine animale. Si potrebbe dunque concludere, se pur
con una semplificazione, che benessere animale e benessere del
consumatore sono strettamente collegati, nel senso che in una
condizione di benessere, l’animale è in grado di produrre meglio, sia
in termini quantitativi che qualitativi.
Come definire la qualità dei foraggi
La definizione della qualità del foraggio è tematica largamente
affrontata da specialisti sia del settore foraggiero, sia
dell’alimentazione e nutrizione animale. Nel corso del tempo molti
sono stati i contributi rivolti a comprendere sempre meglio il
significato da attribuire alla qualità del foraggio per le diverse
destinazioni. La qualità del foraggio è stata soprattutto associata alla
composizione chimica e alla stima del valore nutrizionale,
riguardando quindi il “valore nutritivo del foraggio”. I parametri
usualmente indagati sono: umidità, energia, proteine grezze, fibra.
Da altri punti di vista la “qualità del foraggio” è intesa come un
termine più ampio del semplice valore nutrizionale, includente, per
esempio, anche aspetti relativi all’interazione con l’animale
(ingestione volontaria, performance produttive). Per tentare di tenere
conto sia del valore nutrizionale, sia della capacità di un foraggio di
essere assunto dagli erbivori, alcuni ricercatori americani hanno
proposto il calcolo della “qualità relativa dei foraggi” (relative forage
quality – RFQ) e hanno proposto una scala di valori idonei per le
diverse categorie funzionali di animali (Undersander et al., 2010).
È ormai abbastanza evidente che la qualità di un foraggio non può
essere unicamente definita sulla base di analisi di composizione
chimica. Basti pensare che uno dei parametri di composizione
chimica più largamente utilizzato per definire la qualità di un
foraggio, la fibra grezza o NDF, viene messa sempre più
frequentemente in discussione. Il tradizionale assunto “la digeribilità
diminuisce con l’aumentare del contenuto di fibra (NDF)” non sempre
è dimostrabile, poiché non tutta la fibra presente nei foraggi presenta
uguali livelli di digeribilità, e addirittura ciò riguarda anche la frazione
ligninica (Mandebvu et al., 1999).
Riteniamo che sia necessario considerare, ai fini di una corretta
valutazione della qualità dei foraggi, il loro significato per il
benessere animale, preso in esame nel capitolo precedente, e il loro
significato per le produzioni, sia in termini di “quantità”, sia in termini
di “qualità”. A partire dal tradizionale detto popolare “non fare di tutta
l’erba un fascio” la qualità del foraggio, fresco e conservato,
dovrebbe pesare e considerare tutti questi aspetti, in modo che il
valore del foraggio sia strettamente legato al suo significato per la
salute dell’animale, per le produzioni che è in grado di sostenere e
per la qualità dei prodotti di origine animale.
Va evidenziato, a questo proposito, il modello “latte nobile”,
sviluppato di recente nel nostro paese a partire da alcune esperienze
condotte in Campania e poi riprodotte in altre regioni (Rubino, 2014).
Tale modello è fortemente incentrato sul ruolo dei foraggi di alta
qualità nell’alimentazione dei bovini da latte, foraggi freschi da
pascolo in modo particolare, ai fini di ottenere una qualità superiore
del latte certificabile.
Qualche considerazione economica In diversi paesi del Mondo dove è diffuso l’allevamento del bovino da
latte, tra i quali gli Stati Uniti, si sta sviluppando un crescente
interesse per sostituire in tutto o in parte l’alimentazione in stalla del
bestiame con l’utilizzazione del pascolamento intensivo (Fontaneli et
al., 2005). Il concetto di base è quello di sostituire l’animale nel
complesso e dispendioso sistema di raccolta, conservazione,
preparazione e distribuzione dei foraggi. Dove il pascolamento fino a
pochi anni fa veniva considerato come l’antitesi dello sviluppo
tecnologico, ora sta diventando pratica diffusa. La tecnica di
pascolamento che viene adottata è tuttavia a carattere intensivo, di
tipo parcellare. È prevista l’utilizzazione di piccole superfici di
45
pascolo, che vengono cambiate giornalmente, e di alti carichi
istantanei.
La gestione dell’animale al pascolo avrebbe dunque anche il
significato di aumentare i margini di reddito dell’impresa zootecnica,
sia riducendo considerevolmente alcune voci di costo (strutture,
macchine, carburanti, personale, gestione delle deiezioni), sia
migliorando le condizioni di benessere e di efficienza riproduttiva del
bestiame (Staples et al., 1994). Oltre a contribuire, in buone
condizioni di gestione, alla riduzione del rischio economico, il
pascolamento avrebbe anche il significato di aumentare la flessibilità
dell’impresa zootecnica. Condizioni di base per una razionale
utilizzazione del pascolamento per l’allevamento da latte sono: una
regolare disponibilità di foraggio nel corso dell’anno, una buona
appetibilità del foraggio con modeste variazioni della qualità e
mancanza di importanti fenomeni di stress termico, da caldo in modo
particolare. Man mano che ci si scosta da tali condizioni, allevando
animali a medio-alto livello produttivo, aumenta il rischio di squilibri e
carenze alimentari, con comparsa di problemi di salute del bestiame
e riduzione consistente delle produzioni.
I sistemi intensivi di allevamento dei bovini da latte sono stati
fortemente basati su una foraggicoltura orientata verso due principali
produzioni: l’erbaio di mais per l’insilamento e il prato di erba medica
per la fienagione. In molte aree, anche a livello nazionale, queste
colture risultano sempre meno sostenibili, sia per le condizioni del
suolo, sia per le condizioni climatiche e, soprattutto nel caso del
mais, per la forte richiesta di acqua di irrigazione (Chase, 2012).
Vanno dunque ricercate o recuperate altre soluzioni, più economiche
e a più elevato grado di adattabilità all’ambiente di produzione.
Una ulteriore considerazione potrebbe riguardare la relazione tra
qualità del foraggio e costo dell’alimentazione animale, la voce più
importante del costo di gestione dell’impresa zootecnica. È
ampiamente dimostrato che all’aumentare della qualità del foraggio
si riduce la necessità di ricorrere all’impiego dei concentrati, con una
sensibile miglioramento della redditività e anche del benessere
animale. In prove recenti condotte su vacche da latte in condizioni di
pascolamento intensivo è stato dimostrato che è possibile, con
l’impiego di foraggi di alta qualità, ridurre in lattazione l’apporto di
concentrato fino al 12% sulla sostanza secca complessivamente
ingerita, senza compromettere il benessere animale e il livello
produttivo (Daley et al., 2010).
Va anche sottolineato che l’impiego di foraggi di buona qualità può
contribuire a migliorare sensibilmente alcuni aspetti della qualità dei
prodotti, latte in modo particolare. Ciò può e dovrebbe tradursi in un
maggiore valore e in una maggiore remunerazione del prodotto.
Si evidenzia, infine, che la PAC 2014-2020 prevede il cosiddetto
“pagamento ecologico” (greening). Per accedere a tale misura gli
agricoltori dovranno rispettare alcune pratiche agricole benefiche per
il clima e per l’ambiente: la diversificazione delle colture; il
mantenimento dei prati permanenti; la presenza di aree ecologiche.
Fig. 1: chiavi di successo della produzione del latte mediante il pascolo
Quantità di
foraggio
disponibile
Valore nutritivo del
pascolo
Ingestione
di foraggio
Gestione agronomica e
tecnica pascolamento
Supplementi
di foraggio
Supplementi di concentrati
integratori
Benessere animale Performance produttive
Qualità dei prodotti
47
Il significato ecologico dei foraggi prativi
Una riserva di biodiversità I pascoli e i prati permanenti presentano, in aggiunta agli effetti
positivi sul bestiame e sui prodotti di origine animale, un grande
significato ecologico e ambientale. Ciò è legato alla grande ricchezza
floristica che, oltre ad offrire un quadro estetico di grande attrazione,
richiama anche una grande presenza di artropodi e di tanti altri
esseri viventi. Molto interessante è anche il significato della rizosfera,
che rappresenta un substrato straordinario per batteri, funghi,
artropodi, vermi, etc. (Brunetti, 2003). Il valore biologico del suolo
aumenta notevolmente man mano che si passa dalla monocoltura al
mosaico, come nel caso dei pascoli, e risente ovviamente anche
delle modalità di gestione del bestiame allevato e di eventuali
interventi agronomici.
La corretta valutazione dell’impatto ambientale Gli allevamenti estensivi degli erbivori, ruminanti in modo particolare,
che sono basati prevalentemente sull’utilizzazione dei foraggi,
vengono sempre più frequentemente chiamati in causa per
responsabilità sull’emissione di gas serra. Nel caso specifico si tratta
di emissioni di metano. È evidente che se si considera solo un
aspetto della complessa questione “impatto ambientale”, allora è
facile dimostrare che i ruminanti al pascolo rappresentano un grande
danno ambientale. Ma considerare un solo aspetto appare
estremamente scorretto e fuorviante. È d’altra parte dimostrato,
prendendo in considerazione più aspetti dell’impatto ambientale, che
il bilancio finale dell’allevamento estensivo su superfici foraggiere sia
addirittura positivo, nel senso che riesce a catturare più gas serra-
equivalenti di quanti ne emette. I prati contribuiscono infatti a
sequestrare una notevole quantità di carbonio atmosferico (CO2)
attraverso le foglie e gli apparati radicali.
Conclusioni I foraggi hanno un significato fondamentale per l’alimentazione e per
il benessere degli animali erbivori, ruminanti in modo particolare. È
sempre più diffuso l’impiego dei foraggi prativi per l’alimentazione dei
bovini da latte, anche mediante forme intensive di pascolamento. I
contenuti nutrizionali dei foraggi freschi giovano alla salute
dell’animale e possono essere trasferite nel latte e in altri prodotti per
la salute del consumatore.
La qualità dei foraggi non può essere completamente valutata e
misurata solamente attraverso le classiche analisi chimiche. Ulteriori
parametri di composizione meritano di essere considerati, così come
il valore del foraggio per la capacità produttiva e il benessere
animale, nonché per la qualità dei prodotti. Di particolare interesse
appare il recente modello “latte nobile”, orientato all’ottenimento
mediante l’impiego di foraggi di alta qualità di un valore nutrizionale
superiore certificabile del latte bovino.
Poiché la qualità dei foraggi non è il risultato di una fortuita
combinazione di eventi, vanno messe a punto, anche con un forte
supporto delle ricerca, le soluzioni agronomiche più idonee per
ciascun contesto produttivo e per i diversi sistemi di allevamento,
unitamente alle tecniche ottimale di utilizzazione.
I foraggi prativi presentano anche un grande valore ecologico ed
ambientale, contribuendo ad arricchire la biodiversità vegetale ed
animale, il valore paesaggistico del territorio e contribuendo,
attraverso buone pratiche di gestione, alla mitigazione dei fenomeni
di inquinamento ambientale.
L’impiego dei foraggi prativi nella alimentazione del bestiame, anche
mediante il pascolamento, può concorrere a migliorare la redditività
dell’impresa zootecnica, riducendo i costi di gestione, migliorando il
valore commerciale dei prodotti e permettendo di accedere alle
misure di carattere ambientale previste dalla PAC 2014-2020.
49
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51
Risorse foraggere, alimentazione animale e
paesaggi agrari per i prodotti di qualità
Andrea Cavallero, Giampiero Lombardi
Università degli Studi di Torino
Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari
La lettura attenta di un paesaggio agrario segnala la potenzialità del
luogo alla produzione agraria e zootecnica di qualità. Quanto più il
paesaggio presenta coperture vegetali e colture diversificate, tanto
più è probabile che siano esaltati dall’attività umana le diversità e i
contrasti che ogni ambiente può esprimere, garantendo le migliori
produzioni vegetali e animali derivate. Soprattutto in questi ultimi
decenni, in molti luoghi, dalle pianure alle Alpi, dagli Appennini ai
sistemi collinari, non si riscontrano più queste condizioni di
potenziale eccellenza e quindi spesso il paesaggio “tace”, secondo
un’efficace espressione di Pandakovic (1).
Le “forme” dei luoghi e la vegetazione spontanea e antropizzata che
li ricoprono non comunicano più a ciascuno di noi e alla comunità le
ragioni della loro diversità e dei loro segni, che modellano e
differenziano il paesaggio stesso. Si osserva frequentemente la
perdita di significati un tempo espliciti, lo svuotamento dei
“messaggi” dei territori stessi a favore di una omologazione
produttiva, che tende alla standardizzazione dei prodotti e quindi
anche del paesaggio.
Si va forse perdendo anche la nostra capacità di cogliere e
comprendere i vari messaggi dei territori, spesso così
profondamente alterati rispetto alla tradizione locale, ma è indubbio
che il paesaggio “tace” per la scomparsa o la riduzione di molte delle
“diversità” che le tradizionali attività agricole avevano indotto.
Osserviamo sempre più l’omologazione delle forme, delle scelte e
dei comportamenti, imposta dallo sviluppo economico degli ultimi
decenni, applicato con troppa leggerezza.
La diversità e la ricchezza del paesaggio sono sostanzialmente il
risultato del processo di insediamento dell’uomo sul territorio e della
sua occupazione di tanti spazi particolari, di tante nicchie. Le nicchie
hanno nutrito la diversità e i vari gruppi umani hanno trovato in esse i
propri adattamenti, dando vita a tante comunità e alla loro cultura (2).
I sistemi produttivi così introdotti e affermati erano fondati sulla
valorizzazione delle diversità e dei contrasti delle risorse
caratterizzanti i territori, con una grande varietà di soluzioni
adattative. Oggi, invece, molti dei sistemi produttivi agricoli sono
sempre più intensivi, specializzati, sempre più orientati alla
monocoltura o quasi, sempre più difficilmente sostenibili dal punto di
vista ambientale, ecologico e fruitivo, privi di originalità e spesso di
autenticità.
L’allevamento degli animali si è in gran parte allineato a questa
impostazione produttiva, unificando sistemi di allevamento e
soprattutto di alimentazione, specie e razze allevate. Anche i prodotti
ottenuti, magari ancora formalmente diversi per nome, forme,
stagionatura e confezioni, sono sostanzialmente simili per
caratteristiche qualitative intrinseche, perché l’alimentazione è
fondamentalmente basata su una o due colture foraggere come il
mais insilato, integrato con importanti quantità di mangimi composti
di elaborazione industriale.
In questo contesto, i consumatori sembrano sempre più apprezzare i
prodotti animali (latte, trasformati caseari e carni) derivanti da animali
alimentati tradizionalmente con l’erba o il fieno dei prati e dei pascoli.
Gli animali che alleviamo per il latte e la carne sono erbivori e in gran
parte ruminanti, capaci di trasferire nei loro prodotti molte delle
sostanze di pregio ritrovate nei foraggi, alimenti che per natura sono
prevalentemente derivanti da formazioni erbacee polifite, utilizzate
naturalmente con il pascolamento o, attraverso l’intervento umano,
con il più antico sistema di conservazione che è l’essiccamento
all’aria e al sole del foraggio precedentemente sfalciato.
53
Le caratteristiche di queste risorse foraggere, che definiamo semi-
naturali perché derivanti dalla combinata azione degli ambienti e dei
processi di utilizzazione da parte degli animali domestici allevati,
sono molto varie e la diversità è il risultato dell’interazione appena
descritta. Ogni ambiente, per la posizione geografica, l’altitudine,
l’esposizione, le caratteristiche climatiche e del suolo, e i possibili e
differenti processi di utilizzazione delle stesse risorse erbacee,
esprime foraggi diversi per composizione vegetazionale (numero e
caratteristiche delle specie presenti), per stagionalità del ciclo
produttivo, per produttività complessiva.
A fronte di tipologie di risorse foraggere così diverse fra loro, è facile
spiegare la differente gamma di prodotti caseari ottenuti in passato,
in combinazione con le svariate tecnologie casearie messe a punto
nei secoli e nei territori. Tali prodotti sono ancor oggi ottenibili a
determinate condizioni di alimentazione degli animali.
Dalle pianure, ai colli, alle montagne, le risorse foraggere tradizionali
impiegabili nell’alimentazione animale sono così numerose e diverse
che è in pratica impossibile descriverle compiutamente, se non in
opere specializzate e riferite a settori territoriali ben definiti, anche se
piuttosto ampi. Può essere esempio un volume redatto per le Alpi
piemontesi (3).
Tutte le risorse foraggere semi-naturali degli ambienti italiani, prati e
pascoli, alle differenti latitudini e altitudini, sono caratterizzate dal
polifitismo, ovvero da una complessità compositiva più o meno
accentuata, con specie diverse, appartenenti ad alcune o a molte
famiglie botaniche, fra loro integrate nella valorizzazione delle risorse
naturali espresse dall’ambiente e da quelle indotte dalla stessa
presenza degli animali utilizzatori con la brucatura diretta, lo sfalcio
per l’intervento dell’uomo, l’apporto di fertilità al suolo diretto con le
deiezioni, o tramite l’intervento antropico con le letamazioni.
Le pianure, per la maggiore uniformità ambientale che in genere le
caratterizza, esprimono formazioni polifite prative e pascolive meno
ricche di specie, ma non per questo meno interessanti, anche per la
più elevata produttività. Il loro foraggio è comunque sempre in grado
di trasferire ai prodotti animali derivati, sostanze e molecole dette
funzionali, di gran pregio per l’alimentazione umana (aromi,
antiossidanti, CLA, acidi grassi a catena corta, vitamine A ed E ecc.).
Non è poi trascurabile la ricaduta ambientale (vere colture di
protezione delle falde acquifere per il modestissimo rilascio di
nutrienti) e paesaggistica della prateria permanente che, con le sue
fioriture e il verdeggiare nelle diverse stagioni, connota
positivamente determinati ambienti di pianura atti alla sua
coltivazione e a una fruizione multiuso del territorio che la include.
Nella collina e soprattutto nella montagna alpina e appenninica, le
vegetazioni prative e pascolive sono un patrimonio di grande valore
dal punto di vista eco-sistemico, del paesaggio e della fruibilità
turistico-ricreativa, per le molteplici valenze compositive e
cromatiche. Molti hanno vissuto e vivono la bellezza di questi luoghi,
ma non tutti, forse, hanno avuto l’opportunità di correlare le
caratteristiche delle vegetazioni prative e pastorali alla loro genesi
semi-naturale e comprenderne l’importanza paesaggistica ed
economico-produttiva. Quelle praterie sono testimoni e archivi viventi
della storia dell’insediamento umano sugli Appennini e sulle Alpi
(prima ancora che nelle pianure malariche): veri segni d’erba di un
passato, anche produttivo, ormai lontano, ma che abbiamo oggi il
dovere di conservare o far rivivere nel nostro interesse generale.
Le vegetazioni prato-pascolive di monte esprimono al massimo il
polifitismo, accentuando nei prodotti animali derivati le caratteristiche
di pregio di cui si è detto.
E’ dunque possibile cogliere il collegamento fra il paesaggio agricolo
di un territorio e la potenziale qualità dei prodotti animali derivati e
lavorati in loco. In un territorio, la presenza rilevante di formazioni
prative e pascolive, esprime una disponibilità di foraggi,
potenzialmente di qualità, in grado d’influire positivamente sui
prodotti zootecnici, anche in funzione di un auspicabile e razionale
55
collegamento fra lo stesso territorio e il suo prodotto. Il paesaggio
può essere la bandiera di un prodotto di pregio derivato, così come
un prodotto può essere la bandiera di un territorio.
Principali formazioni prato-pascolive polifite semi-
naturali italiane Una breve disamina, anche se un po’ scolastica, sulle formazioni
prato-pascolive più importanti nell’ambiente italiano, riassunta da
una più completa trattazione (4), consente di comprendere le
notevoli diversità e i contrasti sfruttabili nella produzione lattea e
casearia del Paese.
Al nord, tra le formazioni polifite semi-naturali delle pianure,
segnaliamo i Lolieti permanenti, a Lolium multiflorum, prati pingui
dalla vegetazione fortemente influenzabile dal livello di
intensificazione produttiva. Quanto più è equilibrata la gestione
colturale, tanto più aumenta il polifitismo, con numerose altre
graminacee, espressione di differenze ambientali fra le praterie,
alcune leguminose di pregio, composite, plantaginacee,
ranuncolacee, labiate. La tempestiva utilizzazione di queste risorse
offre ottimo foraggio fresco per l’alimentazione verde, per il
pascolamento, che arricchisce il cotico erboso di altre specie, se
ripetuto costantemente, o per la fienagione, che può essere
effettuata 3 o 4 volte nella stagione.
Nelle aree collinari e nella bassa montagna si afferma l’Arrenatereto,
derivante da inerbimento naturale condizionato dalle operazioni di
sfalcio e letamazione. Sono molte le specie che caratterizzano
questa formazione, graminacee, leguminose, asteracee,
ombrellifere, labiate, cariofillacee, con uno spettro floristico
veramente ampio. Anche in questo caso la tempestiva utilizzazione
offre foraggi di alta qualità e ricchissimi di componenti di pregio e
molecole funzionali.
Nella media montagna si afferma in buone condizioni di fertilità il
Triseteto, ottimo prato subalpino ricchissimo di specie, anche di
grande valore estetico-paesaggistico, in grado di produrre dell’ottimo
foraggio per il pascolamento o la fienagione.
Nella collina e nella montagna sono anche presenti su terreni poveri
e a volte mal gestiti, formazioni prato-pascolive oligotrofiche a
Bromus erectus, che possono in parte evolvere verso Arrenatereti e
Triseteti, se sottoposti a razionali interventi di fertilizzazione organica
e tempestive utilizzazioni pascolive. Si tratta senza dubbio di
formazioni foraggere più adatte ad animali meno esigenti di quelli in
lattazione.
Le formazioni sommariamente descritte assumono, passando dalla
bassa, alla media e all’alta montagna delle Alpi e dell’Appennino
centro settentrionale, connotazioni gradualmente più pascolive in
funzione delle condizioni di giacitura e di prevalente utilizzazione. La
diversificazione vegetazionale si accentua notevolmente con il
moltiplicarsi delle situazioni ambientali e gestionali. I tipi
vegetazionali riscontrabili sono moltissimi, con varianti locali ancor
più numerose a costituire un “unicum” fra i vari massicci montuosi
del mondo. Le vegetazioni alto-montane per le loro caratteristiche
particolari, per l’incomparabile polifitismo che generalmente
esprimono, sono in grado di sostenere produzioni casearie
particolari, ad alto valore aggiunto, perché ottenute da foraggi
naturali con qualità uniche, in grado di conferire, ai prodotti derivati,
caratteristiche di pregio e di identificazione (5).
Negli ultimi decenni, le notevoli trasformazioni sociali ed economiche
verificatesi nel mondo rurale e montano hanno modificato in parte la
situazione con l’abbandono o la gestione inadeguata di vaste
superfici, determinando una graduale involuzione vegetazionale
verso forme impoverite a più ridotta biodiversità. Tuttavia, anche se
ridotte per superficie, rispetto a quella occupata nella metà del
secolo scorso, sono ancora in gran parte riscontrabili sul territorio
vegetazioni di gran valore e diversità, mentre s’intravede, in questi
ultimi anni, una ripresa d’interesse per la loro conservazione e
maggiore valorizzazione.
57
Si ricordano soltanto alcune delle formazioni più importanti per
superficie occupata, iniziando dalle formazioni pascolive delle basse
altitudini e via via passando a quelle degli ambienti sommitali:
i brachipodieti, formazioni impoverite su suoli a modesta
fertilità, a ridotto polifitismo, ma sicuramente migliorabili in
molti ambienti con una razionale gestione del loro potenziale
produttivo;
i lolieti-cinosureti, formazioni pastorali d’elezione della bassa
montagna e collina, produttivi, ricchi di specie e adatti ad
animali esigenti;
i festuceti a Festuca gr. rubra, formazioni tra le più
significative della fascia altitudinale montana e sub-alpina,
dal corteggio floristico molto vario ed equilibrato, adatto a
tutte le utilizzazioni e dal notevole significato ambientale;
nelle situazioni meno favorevoli domina la Festuca gr. ovina
con inferiori livelli di produttività, ma sempre con un ricco
corteggio floristico;
i nardeti secondari, formazioni derivanti prevalentemente
dalla degradazione gestionale dei festuceti; comunque
interessanti per il corteggio floristico, in parte anche
arbustivo, e suscettibili di miglioramento con adeguate
pratiche gestionali.
Al limite superiore della vegetazione forestale, la gamma delle
tipologie pastorali si amplia ulteriormente, in relazione ad una
crescente influenza delle condizioni ambientali e in particolare
dell’esposizione.
Tra le formazioni più estese e più adatte all’utilizzazione pastorale
con animali da latte si ritrovano, nelle aree meno acclivi, ancora
festuceti particolarmente ricchi di specie e produttivi (festuceti a F.
nigrescens), trifoglieti a Trifolium alpinum dal particolare significato
pastorale e paesaggistico, formazioni a Poa alpina, Phleum alpinum
e Taraxacum alpinum, molto utilizzate e in grado di esprimere ottimi
prodotti caseari. Sui pendii soleggiati e su rocce calcaree,
interessanti sono le formazioni a Onobrychis montana, riconoscibili
dalle splendide fioriture rosa intenso, ed eccellente alimento per gli
erbivori di tutte le specie e le categorie. Ancor più in alto, nella fascia
altitudinale alpina e nivale, si riscontrano formazioni di elevato
significato pastorale oltre che ambientale: quelle a Plantago alpina e
Festuca gr. rubra, dal ricco corteggio floristico con vari trifogli e
Leontodon hispidus, sicuramente tra i migliori pascoli della fascia
altitudinale superiore; più discontinue per l’articolata morfologia alto-
alpina sono le formazioni a Nardus stricta e Plantago alpina
arricchite da T. alpinum, Ligusticum mutellina e altre specie ancora;
quelle sempre a Plantago alpina, con Alopecurus gerardi, Poa
alpina, Carex foetida, che, nonostante il nome, presenta
caratteristiche foraggere di elevato interesse, già note da secoli.
Le formazioni naturali di prateria degli ambienti a influenza
mediterranea, per la più accentuata variabilità climatica e per il
maggior influsso antropico, sono più frammentarie e quindi più
difficilmente definibili rispetto a quelle alpine e appenniniche centro-
settentrionali. Dal livello del mare verso le fasce altimetriche poco più
elevate, si ritrova tipicamente la steppa mediterranea con molte
specie del genere Stipa (capensis, gr. pennata, offneri) e altre
graminacee per lo più annuali, appartenenti ai generi Bromus,
Vulpia, Avena, Hordeum, Aegilops, Laguru, in grado di assicurare a
fine inverno-inizio primavera, a seconda dei luoghi, un periodo
relativamente breve di foraggi di qualità. Nelle macchie
mediterranee, più fresche, si possono trovare andropogoneti ad
Adropogon distachyus con Dasypyrum villosum, Avena barbata,
erbe mediche e trifogli annuali, con un polifitismo non trascurabile. Di
maggior valore pabulare sono le associazioni a leguminose
autoriseminanti che su terreno siliceo sono essenzialmente a
Trifolium subterraneum, , T. yanninicum, T. hirtum, T. cherleri, T.
nigrescens, T. glomeratum, Ornithopus compressus, Scorpiurus
muricatus, mentre su terreni subalcalini o calcarei sono a T.
brachycalycinum, Medicago polymorfa, M. orbicularis, M. murex, M.
rigidula, M. truncatula, M.tornata, M. litoralis e affini. Le due serie di
59
leguminose sono sempre accompagnate da alcune graminacee
(Lolium rigidum, Phalaris sp.pl., Avena sp.pl., Bromus spp, Hordeum
sp.pl.) secondo gli andamenti termo-pluviometrici). Il polifitismo delle
formazioni è sempre assicurato dall’autunno alla primavera, mentre
in estate sono disponibili residui secchi con molti legumi maturi
appetiti soprattutto dagli ovini.
Nelle aree collinari a suoli calcareo–argillosi, ritroviamo formazioni a
Phalaris coerulescens, Ph. truncata, Festuca gr. ovina e Cynosurus
echinatus con molte leguminose appartenenti ai generi Hedysarum,
Melilotus, Trigonella, Vicia, Lotus e Lathyr,. e specie dei generi
Crepis, Inula, Cichorium, Echium, Geranium. Adeguatamente gestite
queste formazioni possono offrire foraggi di qualità medio-elevata, in
grado di esprimere prodotti caseari particolari. In certe situazioni
inoltre, la moltiplicazione degli ecotipi locali di Hedysarum spp. e
Onobrychis spp. con un’adeguata produzione di semente, potrebbe
offrire un ricco contributo alla qualità dei cotici descritti, migliorati con
l’apporto di tali ecotipi, adatti ai diversi ambienti.
Sull’Appennino meridionale e in Sicilia, nella fascia altitudinale
superiore, dominano i seslerieti a Sesleria nitida, con Bromus
erectus e Dactylis hispanica, unitamente a diverse specie foraggere
mediocri.
Negli areali di altitudine dell’Appennino centrale le vegetazioni
pastorali si avvicinano a quelle descritte per l’Appennino
settentrionale con alcune formazioni caratteristiche come i seslerieti-
cariceti a Sesleria tenuifolia e Carex Kitaibeliana, con presenze
irregolari di Alopecurus gerardii e Trifolium thalii. Nell’insieme le
vegetazioni sono sempre polifite e assai complementari fra loro.
In questi ambienti non si può dimenticare il ruolo delle specie
legnose, costituenti pascoli arborati con essenze quercine
caratteristiche della Sardegna, o con componenti arbustive a
costituire pascoli a macchia evoluta (Mirthus communis, Pistacia
lenticus, Arbutus unedus, Phillirea latifolia, Erica arborea, Olea
europea, alcune specie di quercia), in grado di assicurare agli
animali un complemento alimentare importante, oltre alle specie
erbacee presenti. Le formazioni a macchia bassa con rosmarino,
lavanda, cisti e ginestra offrono invece foraggio d’interesse solo per
la componente erbacea, nel complesso piuttosto povera.
In generale tutte le formazioni descritte presentano un assortimento
di specie importante con differenti specializzazioni funzionali
(produttiva, anti-erosiva, difensiva dall’eccesso di prelievo da parte
degli erbivori mal gestiti, complementari per la presenza di
leguminose che rilasciano nutrienti, di fiori o di piante aromatiche che
richiamano pronubi, ecc), in equilibrio con le sollecitazioni esterne
provenienti dagli animali utilizzatori, che a loro volta influenzano il
cotico per l’azione di brucatura, di calpestamento e per l’apporto di
deiezioni solide e liquide.
Ai fini della qualità dei prodotti di origine animale, in particolare per il
latte, le formazioni pascolive seminaturali utilizzate correttamente e
nella stagione appropriata assicurano le migliori qualità ottenibili.
Formazioni foraggere artificiali polifite Non tutti gli allevamenti però possono sostenersi con sole risorse
semi-naturali. Condizioni ambientali diverse, situazioni aziendali,
fondiarie, agronomiche, soggettive dei conduttori, possono rendere
necessarie altre scelte tecniche più intensive, con l’introduzione
dell’avvicendamento delle diverse colture proponibili in un
determinato ambiente. Anche in questi casi, per l’allevamento
animale di qualità sono utilizzabili colture diverse, ma sempre
rispondenti alla caratteristica di base necessaria, espressa dal
polifitismo, con le migliori specie e varietà adatte, consapevolmente
consociate per ciascun ambiente.
Assume quindi importanza la coltivazione di prati polifiti avvicendati
di differente durata da 2 a 5 o 6 anni, secondo le condizioni
ambientali e le esigenze dell’allevamento, costituiti da consociazioni
di varietà selezionate delle migliori specie prative, appartenenti alle
famiglie botaniche delle graminacee e delle leguminose. Lolium
61
multiflorum, L. perenne, L. hybridum, Festulolium, Dactylis
glomerata, Festuca pratensis, F. arundinacea, Phleum pratense,
Bromus inermis, Poa pratensis, sono le diverse specie graminacee
più regolarmente impiegabili nei prati avvicendati di pianura del
centro-nord; regolarmente consociate con alcune varietà di specie
leguminose in funzione di ambiente, tipo di suolo, esigenze aziendali
e dell’allevamento (Trifolium repens, T. pratense, T. hybridum,
Medicago sativa, M. Lupulina, Onobrychis viciifolia, Lotus
corniculatus).
I miscugli da predisporre con le diverse specie e varietà di
graminacee e leguminose possono prevedere per le specie da
consociare differenti rapporti in termini di numero di semi per m2 di
suolo; rapporti che devono tener conto della competitività delle
specie e varietà impiegate per ottenere una massa foraggera,
consumabile dagli animali nelle diverse forme (erba pascolata, erba
sfalciata e somministrata fresca agli animali, erba sfalciata e
affienata), il più possibile polifita nei diversi periodi stagionali.
Nelle aree collinari, montane e subalpine del centro-nord, si possono
impiegare, oltre alla maggior parte delle specie indicate, per le
graminacee, Arrenatherum elatius e, in zone collinari siccitose, B.
willdenowii, evitando in genere l’impiego di loiessa e loglio ibrido; tra
le leguminose si può aggiungere Anthyllis vulneraria.
Per un’utilizzazione prevalentemente pascoliva le consociazioni
polifite saranno formulate escludendo Lolium multiflorum, L.
hybridum, Festuca pratensis, scegliendo per le altre specie varietà
adatte al pascolamento.
Negli ambienti mediterranei, la scelta dei miscugli per i prati
avvicendati è più complessa per la necessità di far fronte a periodi
critici di siccità normalmente più pronunciati. Per l’utilizzazione a
sfalcio, la scelta delle specie da consociare dovrà necessariamente
prevedere, in tutti i casi con particolare attenzione alle varietà
impiegate, Festuca arundinacea, Dactylis glomerata, Bromus
willdenowii, Phalaris aquatica, Festulolium, fra le graminacee, e
Medicago sativa, Onobrychis viciifolia, Hedysarum coronarium, fra le
leguminose. Per un’utilizzazione pascoliva è possibile aggiungere fra
le graminacee Lolium rigidum, Cynodon dactylon, Eragrostis curvula;
fra le leguminose: Trifolium subterraneum, T. brachycalycinum,
T.yanninicum e Medicago polymorfa.
L’impiego di questo tipo di risorse non è così generalizzato e
generalizzabile nelle zone di allevamento centro-meridionali, dove
spesso le esigenze alimentari sono invece soddisfatte con erbai
annuali per differenti ragioni.
Gli erbai annuali, più frequentemente inseriti nel sistema colturale-
foraggero centro-meridionale, spesso non presentano le
caratteristiche del polifitismo, essendo prevalentemente formulati
con Avena sativa consociata a Vicia sativa, o con altre specie
sempre consociate in formazioni bifite (Trifolium incarnatum, oppure
T. alexandrinum, oppure T. squarrosum, e altri ancora).
L’impiego di più specie da erbaio consociate può, in analogia con il
prato avvicendato, consentire la produzione di foraggio polifita con
sufficiente equilibrio fra i componenti e con caratteristiche di qualità
generalmente superiori. In certe situazioni poco adatte alla semina
diretta di erbai polifiti e in attesa di acquisire le conoscenze
necessarie, è possibile, in alternativa, assicurare un‘alimentazione
polifita agli animali direttamente in mangiatoia, moltiplicando negli
appezzamenti aziendali alcuni tipi di erbaio costituiti da differenti
consociazioni bifite fra le specie potenzialmente più adatte all’areale
di coltivazione.
Il modello produttivo foraggero razionalmente
imposto dal Latte Nobile
Tutti i dati analitici e tecnologici sulla qualità del latte Nobile
concordano sul ruolo primario e irrinunciabile del foraggio polifita
utilizzato dagli animali. Tale requisito s’impone nel relativo
disciplinare produttivo come il principale condizionatore del risultato
63
qualitativo atteso. Le risorse polifite permanenti esistono ancora e
potranno anche migliorare ed espandersi nuovamente; le risorse
polifite avvicendate sono ovunque coltivabili, ma non è comunque
immediato un rapido e diffuso ritorno a una foraggicoltura di qualità.
Nel momento in cui la produzione di un latte di qualità superiore
come il Latte Nobile si afferma come alternativa produttiva, si
evidenziano nettamente i molti problemi da risolvere nel settore
foraggero in tutte le aree interessate, per giungere ai necessari
adeguamenti in termini di polifitismo delle risorse impiegabili, siano
esse risorse permanenti, avvicendate prato-pascolive, o erbai.
Problematiche della foraggicoltura permanente e
avvicendata italiana L’agricoltura italiana risente, da alcuni decenni, degli orientamenti,
per ora vincenti, di una parte della ricerca, di molti tecnici e del
mercato, verso la monocoltura maidicola anche in campo foraggero.
Ne sono derivate la semplificazione produttiva e la
standardizzazione dei relativi processi (e dei prodotti), che hanno
sottratto interesse per la praticoltura in genere, assai più complessa
da gestire, riducendone drasticamente l’importanza in termini di
superficie occupata e trascurando gli effetti positivi sulla qualità dei
prodotti zootecnici, intesa, questa, nei termini, radicalmente diversi,
proposti da ANFOSC.
Sono state invece assai poco ascoltate altre acquisizioni della
ricerca ottenute negli ultimi 50 anni, che hanno indicato opportunità,
scelte tecniche e criteri operativi nei diversi areali italiani, a favore
del polifitismo in foraggicoltura e della gestione conservativa delle
risorse seminaturali. Le ragioni dell’insuccesso sono molteplici e di
diverso peso. Nei paragrafi seguenti saranno esaminati gli aspetti più
significativi del problema.
1) Assistenza tecnica alle Aziende
Nel mancato sviluppo di una foraggicoltura nuova orientata
prevalentemente alla qualità dei prodotti ottenibili, ha indubbiamente
ha avuto un ruolo molto importante l’insufficiente trasferimento delle
conoscenze acquisite dalla ricerca. È mancata sostanzialmente in
tutte le Regioni, un’assistenza tecnica aziendale competente e
adeguata, non legata a interessi mercantili, come si osserva in
alcune Nazioni confinanti l’Italia, in grado di accompagnare, nelle
stesse aziende interessate, l’evoluzione tecnica per comprendere e
conservare la foraggicoltura prato-pascoliva permanente e
l’avanzamento della foraggicoltura da prato avvicendato e da erbaio.
Anche negli areali montuosi, dalle Alpi agli Appennini, dove
predominano per ragioni ambientali le formazioni permanenti (prati e
pascoli), analogamente, non c’è stata la diffusione a livello aziendale
delle conoscenze tecniche per interpretare le diverse risorse,
apprezzarne le diversità e i contrasti e quindi conservarle in funzione
di una razionale valorizzazione. Nel sud della penisola, dove il mais
non è entrato in modo preponderante fra le colture,
fondamentalmente per ragioni climatiche, sono gli erbai autunno-
primaverili monofiti o bifiti ancora a prevalere, quale conseguenza di
orientamenti produttivi verso la semplificazione produttiva e per
insufficienti conoscenze sulle possibilità alternative e sui risultati
attendibili in termini di qualità del latte.
Alla mancata assistenza tecnica, si aggiunge la tradizionale
diffidenza degli imprenditori anziani nel recepire innovazioni più
impegnative nella gestione aziendale, che trova giustificazioni
nell’abbandono in cui spesso è stata lasciata l’agricoltura, soprattutto
quella condotta da piccole aziende, e spesso anche da medie e
grandi aziende che evidenziano insufficienti conoscenze tecniche nel
settore della foraggicoltura al di fuori della monocoltura maidicola,
del prato di erba medica, dell’erbaio di loiessa o dell’erbaio di avena
e veccia o poco altro.
Tutti gli aspetti di programmazione del sistema foraggero prato-
pascolivo permanente o avvicendato prativo o con erbai polifiti, con
valutazione dei risultati e individuazione degli interventi correttivi a
tutto campo, richiedono specifiche conoscenze raramente
riscontrabili per ora fra gli operatori del settore e anche in molti
65
tecnici agricoli (dal semplice riconoscimento delle specie a tutti gli
stadi vegetativi, al rilievo dei rapporti quantitativi fra le specie
consociate, agli effetti delle diverse pratiche agronomiche e
gestionali sui rapporti vegetazionali). Occorre quindi un’integrazione
fra attività: l’apporto qualificato di tecnici preparati, eventualmente a
tal fine formati, per impostare gli accertamenti tecnici e trasferire le
conoscenze necessarie e la volontà e la disponibilità di imprenditori
aperti e interessati a recepire l’innovazione.
Alcune recenti iniziative incoraggianti con giovani imprenditori del
“Consorzio Formicoso Alta Irpinia - Agricoltura e Sviluppo
Sostenibile”, che hanno accettato di provare e verificare i risultati
ottenibili, inducono a proseguire celermente nelle attività di
integrazione delle diverse risorse e di trasformazione dei sistemi
foraggeri.
L’eccellente qualità di alcuni prodotti caseari ottenuti in un’azienda
del Consorzio Alta Irpinia con l’integrazione foraggera fra erbai e
pascoli permanenti, pone l’accento sull’importanza della
valorizzazione di risorse diverse nello stesso ambiente.
Con personale preparato occorre poi sviluppare le conoscenze per
migliorare i numerosi sistemi foraggeri in conformità ai parametri di
qualità del latte prodotto, da definire come “parametri obiettivo”.
Nelle diverse situazioni occorre dunque organizzare e controllare il
sistema foraggero al fine di stabilizzare il più possibile, durante le
diverse stagioni, le caratteristiche compositive e nutrizionali del latte,
prendendo come riferimento i valori delle produzioni primaverili, ma
sempre rispettando le differenze indotte dal mutare dei foraggi con le
stagioni. Differenziare i prodotti caseari con le stagioni potrebbe
anche aumentare i motivi d’interesse per gli stessi prodotti.
L’integrazione fra le differenti tipologie di risorse può ulteriormente
contribuire al miglioramento della foraggicoltura nei termini indicati.
2) La scelta varietale nella foraggicoltura avvicendata
Oggi più che in passato, è rilevante il problema della scelta varietale
per le diverse specie foraggere suggerite, sia da prato, sia da erbaio.
L’unico strumento proponibile per porre rimedio al problema è
l’organizzazione, in numerosi ambienti e ad altitudini diverse, di un
sistema di adeguati confronti varietali, di specie, varietà differenti,
coltivate in purezza e variamente consociate. Solo così si potrà
offrire supporti tecnici importanti per il miglioramento diffuso dei
sistemi foraggeri italiani. I criteri di valutazione non devono esaurirsi
con la produttività delle cultivar, ma occorre che sia valutata la
persistenza, la precocità, la capacità di ricaccio, la rispondenza alle
diverse modalità di utilizzazione e le caratteristiche qualitative in
termini di abbondanza di composti funzionali (caroteni, polifenoli,
vitamine, ecc.). Volendo poi attuare delle consociazioni fra alcune
specie, occorre valutare nelle stesse condizioni indicate, il
comportamento delle specie e cultivar variamente consociate, per
verificare tutti gli aspetti tecnici necessari a stabilizzare, nei prati, il
più possibile nel tempo, i rapporti fra le specie scelte, pur con le
variazioni stagionali immodificabili e negli erbai per garantire nel
prodotto finale l’apporto complementare desiderato fra le varie
specie incluse nel miscuglio.
L’abbandono in molte aziende della praticoltura avvicendata è anche
la conseguenza d’insuccessi derivanti da scelte errate indotte dal
settore commerciale, senza altri adeguati supporti tecnici. Analogo
discorso può essere fatto per gli erbai, dove prevalgono quelli
monofiti o bifiti proprio per la difficoltà di ottenere foraggi polifiti
equilibrati fra le specie seminate.
Le singole aziende possono o potranno saggiare il comportamento di
specie e cultivar nel proprio ambiente, ma non potranno mai
sostituirsi a un programma di assistenza tecnica, adeguatamente
programmato e condotto da esperti.
3) Valorizzazione degli ecotipi locali
Nel contesto indicato, deve essere anche considerato
adeguatamente il valore di molti ecotipi locali, di grande significato
foraggero, che richiederebbero soltanto una verifica
comportamentale e la produzione di adeguate quantità di seme
nell’areale di provenienza per un utile impiego aziendale.
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Quest’aspetto, già oggetto di significative ricerche specialmente
nell’areale sardo, non può che essere affrontato da enti di ricerca per
l’individuazione delle specie pregevoli, per organizzare la raccolta
semi e la moltiplicazione della semente, da utilizzare nello stesso
ambiente o in ambienti similari, fino alla eventuale costituzione di
nuove cultivar a più ampia valenza ambientale.
Sono molte le specie che si presentano nei vari ambienti con ecotipi
spontanei interessanti. Tra le leguminose più interessanti si citano
Onobrychis viciifolia e O. montana, Hedysarum coronarium, Trifolium
pratense,Trifolium subterraneum, T. brachycalycinum, Medicago
sativa, Medicago polymorfa; tra le graminacee Lolium perenne, L.
rigidum, Dactylis glomerata, Festuca arundinacea.
4) Meccanizzazione della semina delle consociazioni polifite.
Spesso nelle aziende zootecniche che desiderano tornare alla
praticoltura o agli erbai polifiti si aggiunge, al problema varietale,
quello della semina dei miscugli con semi di differenti dimensioni e in
percentuali definite fra le specie e le varietà seminate. Si riscontra,
infatti, la ridotta diffusione nelle aziende delle seminatrici adatte a
due tramogge, mentre è poco conosciuto il rimedio del diluente
secco (segatura di legno setacciata) per stabilizzare il miscuglio
durante le operazioni di semina. Sono inoltre assai rare nelle
aziende le seminatrici a doppio rullo scanalato, anteriore e posteriore
alla caduta del seme, per ottimizzare il ricoprimento dello stesso e
migliorare l’emergenza delle plantule anche in terreni soggetti alla
formazione di crosta. Considerando il modesto impiego temporale di
queste macchine in azienda, il loro acquisto cooperativo o consortile
potrebbe contribuire a risolvere il problema.
5) Lotta alle specie infestanti dei prati avvicendati
La lotta alle infestanti nella coltura dei prati polifiti avvicendati è assai
più complessa che in quella di altre colture annuali, soprattutto se il
prato polifita segue colture maidicole ripetute. Volendo escludere il
diserbo in presemina per evidenti ragioni di salubrità dell’ambiente e
dei foraggi ottenuti, l’unica soluzione proponibile è la tecnica della
falsa semina con distruzione meccanica delle plantule infestanti
germinate prima della vera semina delle foraggere.
6) Gestione del manto erbaceo nella praticoltura avvicendata.
A semina riuscita del prato polifita, assume notevole importanza la
valutazione periodica del manto erbaceo (in termini di copertura e
rapporti quantitativi fra le specie), per poi correggere le cause di
eventuali squilibri vegetazionali determinati da scelte specifiche e
varietali, da scorretti rapporti in fase di semina o di emergenza fra i
componenti, da modalità e severità delle utilizzazioni, da pratiche
colturali scorrette (concimazione e irrigazione eventuale). Solo così
sarà possibile prevedere anticipatamente gli interventi correttivi e
conservare nel tempo la tipologia vegetazionale desiderata e
rispondente ai diversi ruoli previsti per il prato (produttivi, ambientali,
paesaggistici), sempre considerando che modeste variazioni
compositive stagionali sono da ritenersi normali. La tecnica colturale
da applicare ai prati deve essenzialmente assumere il carattere di
tecnica correttiva degli squilibri vegetazionali precocemente
osservati. Modalità di utilizzazione, integrazione fra differenti
tecniche (dal pascolamento, allo sfalcio in differenti stadi delle specie
presenti), concimazione organica ed eventualmente minerale, con
funzioni prevalentemente correttive, trasemina delle specie di pregio
diradatesi precocemente o di altre interessanti in aggiunta, sono tutte
tecniche che, in combinazione fra loro, possono allungare la vita di
un prato avvicendato. È anche possibile, in certe condizioni,
procedere “all’invecchiamento guidato dei cotici consociati” per
trasformare il prato avvicendato in permanente, migliorando
ulteriormente la gamma delle risorse disponibili. Questo è ottenibile
con periodici interventi di miglioramento con specie, varietà ed
ecotipi di pregio traseminati, accettando via, via, l’inserimento di
specie spontanee di buona qualità e in grado di esaltare nel latte i
contenuti di alcune sostanze aromatiche e nutrizionali di pregio.
Nella valutazione periodica del manto vegetale, la struttura delle
specie di un prato assume un significato diagnostico importante.
Quando la dimensione dei cespi delle graminacee a lamina larga e
produttive è notevole e questi appaiono gradualmente sempre più
spaziati fra loro, l’equilibrio vegetazionale è compromesso, in quanto
le altre specie sono destinate ad un progressivo diradamento.
69
Occorre intervenire con utilizzazioni più frequenti, con il
pascolamento anticipato, per contenere la competitività delle specie
dominanti, ridurre o eliminare gli apporti azotati, incrementare quello
fosfatico a favore delle leguminose, intervenire con la trasemina di
specie adatte. Se questo non fosse sufficiente, nella ricostituzione
successiva del prato dovrà essere riconsiderata la composizione
della consociazione, la scelta varietale delle specie dominanti e
dominate, le quantità rispettive di seme, la tecnica di semina, che
potrebbe aiutare a conservare l’equilibrio seminando a file separate
le graminacee e le leguminose (è anche possibile una semina a file
doppie separate fra i due gruppi di specie, per ridurre ulteriormente
la competitività interspecifica).
7) Valutazione del manto erbaceo negli erbai per la corretta
formulazione delle consociazioni.
Nel caso degli erbai, esaminare correttamente il manto vegetale
assume essenzialmente il significato di valutare la riuscita dell’erbaio
polifita; eventuali variazioni compositive sono logicamente da
introdurre nell’erbaio successivo. Durante il breve ciclo dell’erbaio è,
infatti, molto difficile intervenire per modificare i rapporti quantitativi
delle specie consociate, salvo il caso in cui siano carenti le
graminacee, favorite da un modesto apporto azotato in copertura a
fine inverno.
8) Gestione delle formazioni prato-pascolive permanenti
Per queste risorse ancora esistenti, di grande significato produttivo e
ambientale, si potrebbe suggerire prioritariamente un’analisi
accurata per Regione, secondo modelli già applicati per le Alpi
occidentali (3) e più recentemente per le praterie francesi (6), con lo
scopo di evidenziare le tipologie più promettenti e suscettibili di
miglioramento e conservazione, da integrare con le risorse
avvicendate. A livello aziendale, sia per le praterie sfalciate, sia per
quelle pascolate, valgono le precedenti considerazioni sulla
valutazione del manto vegetale al fine di individuare gli interventi
gestionali correttivi. L’interpretazione delle variazioni vegetazionali e
l’individuazione degli squilibri che le determinano in tutti gli ambienti
non sono facili da accertare, richiedendo conoscenze ecologiche
generali e specifiche per le principali specie del cotico.
L’applicazione dei suggerimenti correttivi è poi alla portata dei singoli
imprenditori soltanto con adeguati supporti tecnici iniziali.
Possibili ricadute degli interventi per il miglioramento
della foraggicoltura Il superamento delle carenze tecniche riguardanti l’impianto dei prati
polifiti, potrebbe dunque favorire in molti areali il passaggio da una
foraggicoltura a ciclo breve o brevissimo, a una foraggicoltura polifita
di più lunga durata o stabile.
Gradualmente i prodotti caseari derivati potrebbero migliorare per
qualità intrinseche, gustative e anche visive, come il colore giallo che
assumono alcuni derivati (burro, ricotta, formaggi) quando il foraggio
consumato fresco è ricco di caroteni. I prodotti di qualità superiore,
così distinguibili, potrebbero ritornare a essere universalmente
apprezzati, innescando il ritorno a una nuova foraggicoltura di
qualità.
Ricadute economiche importanti potrebbero essere l’autonomia
foraggera aziendale a supporto di prodotti di qualità superiore, con
valore aggiunto in gran parte trasferibile agli attori primari della
filiera.
Le ricadute ambientali attese sono essenzialmente collegate al
miglioramento dell’azotofissazione in molte consociazioni, alla
protezione delle falde acquifere per i modesti rilasci di nutrienti delle
praterie, alla conservazione e all’incremento delle formazioni
permanenti seminaturali prato-pascolive, pregevoli per l’aspetto
paesaggistico e per la loro fruibilità, senza dimenticare il collegato e
notevole incremento di biodiversità.
Le nuove e attese risposte del comparto agricolo foraggero-
zootecnico di molti ambienti potrebbero dunque riconciliare
efficacemente aspetti economici produttivistici con aspetti socio-
ambientali sempre più importanti.
71
Realtà operative in evoluzione Dalla Campania al Molise, dal Lazio al Piemonte, alcune Aziende
pilota hanno avviato la trasformazione del proprio sistema foraggero.
Nelle prime due Regioni, gli erbai saggiati con 4 o 6 specie hanno
fornito risultati incoraggianti per l’importante opera del citato
Consorzio Formicoso Alta Irpinia - Agricoltura e Sviluppo Sostenibile,
mentre sono in fase di definizione gli inserimenti di prati avvicendati
polifiti da trasformare eventualmente in permanenti. In provincia di
Benevento nove aziende producono Latte Nobile per alcuni negozi di
Napoli. Nel Lazio sono in fase di programmazione i tipi di erbaio e
prati proponibili, possibilmente in integrazione fra loro. In Piemonte,
un’Azienda della pianura torinese ha abbandonato la monocoltura
maidicola e l’allevamento intensivo per passare a una foraggicoltura
prato-pascoliva avvicendata polifita, seminando sull’intera superficie
aziendale (20 ha) miscugli appositamente formulati per prati-pascoli
a 5-7 specie di graminacee e leguminose. Nell’anno in corso,
durante il quale gli animali hanno iniziato a pascolare dalla primavera
e si è iniziato a produrre Latte Nobile, una serie di accertamenti sul
manto vegetale ha consentito di valutare i differenti miscugli seminati
e di predisporre gli interventi correttivi per fronteggiare le difficoltà
della trasformazione colturale attuata, prevalentemente da ricondurre
al difficile controllo della vegetazione infestante dopo decenni di
monocoltura maidicola. Nei prossimi anni sarà controllata la
longevità dei differenti cotici polifiti con l’obiettivo di farli evolvere,
con l’invecchiamento controllato, in permanenti, con un significativo
contributo di specie spontanee. Sempre in Piemonte, ma nella zona
alpina, quattro Aziende in alta Valle Susa, Val Chisone e Val Sesia
hanno iniziato il percorso di valutazione del latte prodotto con i
foraggi e con il pascolamento di prati e pascoli di differente altitudine.
Tutte le tipologie dei cotici permanenti polifiti utilizzati hanno risposto
positivamente in termini di qualità del latte ottenuto, garantendo la
produzione di Latte Nobile e confermando per quest’aspetto le
notevoli possibilità delle aziende montane. La spinta all’innovazione
nella tradizione continua.
Sembra dunque emergere timidamente nell’agricoltura italiana anche
la necessità di affrontare la scelta dei sistemi foraggeri aziendali su
basi nuove, ponendo operativamente al primo posto la correttezza
produttiva, la valorizzazione delle diversità e il trasferimento delle
conoscenze, considerando vecchie e nuove risorse foraggere e
l’integrazione fra queste con quelle naturali, da recuperare almeno in
parte, con l’obiettivo finale di un netto incremento della qualità e della
qualificazione dei prodotti caseari e carnei nazionali.
Originata da attente intuizioni e considerazioni (7), ha forse inizio
una piccola rivoluzione tecnica e culturale, verso la tradizione, la
genuinità, la sostenibilità ambientale, la fruibilità dei territori e il loro
paesaggio, il collegamento degli stessi prodotti ai territori, ma con
ben altre conoscenze rispetto al passato e più precisi e concreti
obiettivi.
Bibliografia principale 1. Pandakovic’ D., 1996. Il disagio della rimozione. In:
Paesaggio Perduto. Disagio e progetto. Quattroventi, Urbino.
2. Turri E., 1996. Viaggio verso Atopia. In: Paesaggio Perduto.
Disagio e progetto. Quattroventi, Urbino.
3. Cavallero A., Aceto P., Gorlier A., Lombardi G., Lonati M.,
Martinasso B., Tagliatori C., 2007. I tipi pastorali delle Alpi
piemontesi. Perdisa Editore. Bologna.
4. Autori vari. Coltivazioni erbacee. Foraggere e tappeti erbosi,
a cura di Baldoni R. e Giardini L., 2002. Pàtron Editore.
Bologna.
5. Cavallero A., Contarini G., Piano E., 2011. Progetto Pro-
Alpe: conclusioni e prospettive sulla tracciabilità e sulla
conservazione del sistema alpeggio negli anni 2000. Pascoli
e Formaggi d’Alpe. Progetto FISR. CRA, Roma.
6. Launay F., Baumont R., Plantureux S., Farrié J.P., Launay
F., Michaud A., Pottier E., 2011. Prairies permanentes. Des
références pour valoriser leur diversité. Edité par l’Institut de
l’Elevage. Paris.
7. Rubino R., 2014. Il Latte Nobile: un modello in via di
evoluzione. Stesso volume.
73
El modelo de “Latte Nobile” una vía
Alternativa para la producción de leche de
calidad en México
Dr. Miguel Angel Galina
FES-Cuautitlán Universidad Nacional Autónoma de México
Situación de la Producción de Leche en México,
Problemas fundamentales y desarrollo de modelos
alternos
La leche representa la quinta parte del valor total de la producción
pecuaria, en México siendo la tercera en importancia, en nuestro
país se ordeñan 11 millones de litros de leche diariamente, de los
cuales el 80% se proviene de las altas o medianas productoras, en
aproximadamente 50 mil establos, de 100 vacas o más, solo el 20%
lo producen estacionalmente ganaderos de menos de 50 vacas
principalmente en los trópicos. El sistema de manejo tradicional de
lechería no especializada concentra al 67 % del hato lechero
nacional y participa tan sólo con el 20% de la producción del lácteo a
nivel nacional. Este sistema utiliza ganado Cebú criollo o con cruzas
con Suizo, Holstein y/o Simental, las vacas son ordeñadas
principalmente en las épocas de lluvia. El ganado criollo se
encuentra en praderas siendo ocasionalmente alimentado con
suplementos alimenticios. Los hatos en las unidades productivas
tienen entre 30 y 40 cabezas. La infraestructura es escasa y la
rentabilidad baja. La producción es estacional y se destina
fundamentalmente a la venta directa al consumidor. La dispersión de
la oferta, la presencia de la leche rehidratada, los costos del
combustible y la inseguridad en el campo, hacen que este sistema
de producción sea muy vulnerable (SAGARPA, 2014).
Las políticas gubernamentales en México y en mayoría de los
países de América Latina, quizás con la excepción de Argentina,
Uruguay, Brasil y Cuba es mantener un estricto control a la baja, del
precio de la leche mediante la importación de leche en polvo, de
Estados Unidos y Nueva Zelanda, en México prácticamente de los
16 millones de litros que se consumen al día, por los más de 100
millones de mexicanos, 5 millones provienen de la importación o sea
el 31.7% mientras que se producen 11 millones o sea el 68.3% del
consumo nacional, con una politica de subsidio para las clases
marginadas a costa de lo productores, que no tienen sostenibilidad
económica, por ello a las grandes industrializadoras de leche, se les
dan cuotas de importación de leche en polvo, para regular la oferta,
con perjuicio de los productores del lácteo. Si los ganaderos exigen
un mejor precio los industrializadores recurren a sus cuotas de
importación de leche en polvo, manteniendo los precios bajos a los
productores, que en ocasiones han tirado volúmenes importantes de
leche para demostrar su descontento.
En México el 95% de los ganaderos tienen menos de 50 vacas y
muchos de ellos las tienen básicamente en pastoreo,
particularmente en los trópicos, donde se ordeñan alrededor de 2
millones de litros de leche diarios, con enormes desviaciones
estándar, dependiendo de la época del año, en el invierno sube el
precio que se le paga al ganadero, pero pocos tienen leche,
mientras que en el verano baja cuando todos los productores
dependientes de los pastizales se ordeñan, las vacas en promedio
dan 10 a 15 litros diarios, en lactancias de 150 a 210, días se calcula
que son más un millón de ganaderos que emplean entre 3 a 4
millones de trabajadores fijos o eventuales, (CONILEC, 2014).
Pese a que no existe en México un estudio con un enfoque de
organización empresarial para el mercado de la leche, con el objeto
de determinar su estructura, es claro que ésta tiende a observar un
cierto grado de concentración por la industria. Las decisiones de
localización de las transformadoras dominantes han determinado la
concentración de la producción en algunas regiones productivas del
país (Comarca Lagunera, Jalisco, Guanajuato, Querétaro e Hidalgo)
cerca de las grandes urbes. Sin embargo, pese a que la
disponibilidad de los insumos de producción a través de una
integración horizontal de diferentes empresas se ha desarrollado
acorde con las necesidades de la industria, la intensidad con la que
75
el sistema productivo de la leche, tecnificado o familiar, utiliza
recursos naturales; plantea una seria limitante para un incremento
sostenido de la escala de la producción (CONILEC, 2014).
Uno de los problemas estructurales es la importación de leche en
polvo, En nuestro país se hidratan diariamente 5 millones de litros
de leche en polvo, lo que en los últimos 5 años ha mantenido el
precio de la leche de vaca con moderados incrementos, que no son
comparables a los aumentos en los insumos. El modelo es
totalmente dependiente de los forrajes de corte y un altísimo uso de
concentrados, que son más del 50% del alimento de los bovinos, el
precio de los suplementos se ha incrementado 45% en los últimos
cinco años, la gasolina 75% mientras que la leche solamente un
15%. Lo márgenes de rentabilidad se han disminuido por lo que los
ganaderos sobrevivientes tienden a incrementar el número de vacas
o la producción de las mismas, que se traduce generalmente en
bajos índices de fertilidad, las vacas literalmente son usadas dos o
tres años y remplazadas por novillas gestantes (CONILEC, 2014).
Recientemente el Dr. Roberto Rubino de ANFOSC en Italia,
cuestionaba el sistema de cuotas de leche que ha beneficiado a los
grandes productores (en México a los industrializadores), pero que
ha dañado severamente a los pequeños ganaderos, que cada día
con mayor frecuencia abandona la actividad, a pesar de las
diferencias entre sistemas y productores los problemas son muy
similares, los costos se incrementan los beneficios disminuyen, hay
desaliento y abandono de la actividad por los pequeños productores.
(Rubino, 2014).
En México no tenemos a la vista una solución o una propuesta
alternativa, sino la letanía habitual y ahora obsoleta: “reducir los
costos de producción, para disminuir los precios a la venta, para
poder competir con los precios de la leche en polvo rehidratada, que
en Estados Unidos, cuenta con un importante subsidio
gubernamental, decía Albert Einstein “si aplicamos la misma
solución para el mismo problema, tendremos el mismo resultado”.
Curioso que una industria que ha estado en permanente desarrollo y
que utiliza hasta el máximo de la innovación tecnológica y el mundo
de la investigación, ni siquiera ha sido capaz de desarrollar un
modelo teórico para salir de la crisis, del 95% de los ganaderos en
México, que esperan alternativas, abandonando la actividad,
desapareciendo gradualmente. La mejora genética continúa con la
misma premisa para seleccionar los animales, para perpetuar y
mantener vivo un sistema económico, que ha llevado a la ganadería
a una crisis permanente, que en el principal de los escenarios,
mejora algún aspecto de la producción animal (Rubino, 2014). Estas
vacas altas productoras, al menos deberían tener acceso a una
fuente de alimentación capaz de salvaguardar la salud del animal,
mejorando la calidad de la leche y la carne, pero ni este objetivo
tiene viabilidad económica, debido a que una buena nutrición es
demasiado cara, siendo lo más importante la rentabilidad, que en
México se hace viable solo con 500 vacas, en línea de ordeña, de
producciones de 8 o 10 mil litros por lactación, recordamos cuando
iniciamos nuestra práctica profesional en los 60´s un establo de 100
vacas era un buen negocio, con animales de 4 o 5 mil litros ordeña,
por lo tanto han desaparecido miles de ganaderos, concentrando la
producción en un menor número de operarios, que se encuentran
también en “crisis” por el precio de la leche, que deja márgenes muy
pequeños de rentabilidad y que no puede competir con los precios
subsidiados de la leche en polvo de importación, en nuestro caso
particularmente de los Estados Unidos, los ganaderos siguen en la
producción porque no encuentran quién les compre las unidades de
producción, los establos eventualmente por la urbanización,
producto del constante fenómeno de migración del campo a las
ciudades, venden sus ranchos como terrenos urbanos, para el
desarrollo de las grandes metrópolis, abandonando la actividad. El
equilibrio económico es por lo tanto, de baja rentabilidad, debido al
precio de la leche, para sobrevivir, se mantienen por las enormes
cuotas de producción, dependientes de forrajes de corte y
concentrados lo que les crea una deuda impagable a los
proveedores, lo que ha reducido la calidad de la leche, de la carne y
el número de ganaderos en el campo mexicano. Los grandes
productores no abandonan el negocio porque no encuentran quién
77
les compre mil o más vacas, se mantienen con múltiples deudas y a
su vez con aparentemente muchos ingresos, sin embargo los
márgenes de ganancia se reducen por los altísimos costos de la
alimentación. Y así nos han empujado hacia el monocultivo
principalmente de alfalfa, con altas cuotas de subproductos y
suplementos, en detrimento de las praderas y la biodiversidad
florística. Paradoja cuando la nueva ecologización a nivel global,
busca el mantenimiento de la biodiversidad (Rubino, 2014).
Nuestros Gobiernos, incluyendo el Mexicano pregona que debemos
producir “amigablemente con cuidado de los animales y el medio
ambiente” sin dar herramientas por lo que los condena por la vía de
costos de producción y precios de la leche, a su extinción. Es
curioso observar que en la Italia meridional y en México, países
distantes con economías distintas, los problemas de los pequeños
productores en el campo son muy similares.
El pequeño ganadero, no es solamente en nuestra apreciación un
ser económico, es un ente social, el abandono del campo
incrementa la inseguridad, afecta las vías de comunicación,
disminuye la mano de obra de los campesinos, que se van en la
obligación de migrar hacia el extranjero o hacia las grandes urbes en
busca de trabajo. La mayor parte de las fuentes de trabajo en el
campo en México la genera los pequeños ganaderos, siendo en
muchas ocasiones mano de obra familiar.
Antecedentes de la calidad de la leche de pastoreo
en México
Se han realizado por el presente grupo de trabajo una serie de
investigaciones sobre la calidad nutricional de la leche en México,
que nos han permitido certificar las bondades del pastoreo tanto en
vacas, como en cabras y recientemente en borregas (Galina et al.,
2012; 2013). Un contenido mínimo de ácidos grasos saturados
(AGS) se observó en la leche procedente de los animales en
pastoreo, contrastado con una presencia significativa de AGS en
leche de animales en estabulación (Galina et al., 2012; 2013; 2014).
Recientemente ha sido probado en la literatura que un menor
contenido de AGS favorece la salud humana, debido a su papel en
las enfermedades coronarias (Pfeuffer., Schrezenmeir., 2000). Los
resultados de nuestro equipo de investigación en México, permiten
suponer que el sistema de alimentación, en general, y en particular
el pastoreo libre, en un ambiente silvopastoril, permite que cada
vaca como individuo, componer una dieta de acuerdo a sus propias
necesidades, que tienen un efecto positivo sobre el aroma, sabor y
características nutricionales de la leche (Galina et al., 2012; 2013).
Un resultado interesante fue que se demostró un mayor contenido
de ácidos grasos trans, presentes en la leche de pastoreo. Hasta
hace poco un efecto negativo de los ácidos grasos trans en la salud
fueron considerados similares a los documentados para los ácidos
grasos saturados (Pedersen, 2001; Sicchiari, 2008). Los efectos
negativos de los ácidos grasos trans en patología coronaria y
citotoxicidad, se determinó a partir de observaciones de los ácidos
grasos hidrogenados producidos durante la manufactura de
alimentos industriales. Los trans derivados de los procesos de
biohidrogenación ruminal, como los producidos por el rumen, han
mostrado en cambio, efectos positivos sobre la salud humana
(Váradyová et al., 2008). Por lo tanto, a la luz de este conocimiento
relativamente novedosos, el papel de los ácidos grasos trans en el
sistema de alimentación de los rumiantes en pastoreo libre tienen
que ser revaluados en el marco de producir una “mejor” leche desde
el punto de vista de la salud del consumidor. Salud, que en México,
es una gran preocupación debido a que una parte significativa de la
población del 65% al 70% sufre de obesidad o sobrepeso (ENSNUT,
2014), que se traduce en las enfermedades crónico degenerativas,
particularmente los trastornos coronarios.
Nuestro primer paso en México, era certificar si la leche de pastoreo
tenía calidad similar a la reportada en numerosos estudios en
Europa, particularmente en Italia donde habían probado el nivel de
calidad de la leche y queso como la expresión de una serie de
moléculas aromáticas: terpenos, fenoles, flavonoides, antioxidantes,
vitaminas y ácidos grasos insaturados (Galina et al., 2007). Todos
estos componentes dependen esencialmente de la cantidad de
79
pasto que el animal ingiere, y, aún más, el número de hierbas, ya
que, como hemos señalado en numerosos estudios, cada hierba
trae diferentes componentes de la leche. De hecho, la mayoría de
las hierbas son silvestres, denominadas genéricamente "malas
hierbas", esta complejidad es importante porque se refleja en una
leche “diferente”, de calidad superior, el consumidor poco a poco
empieza a diferenciar entre una leche de pastoreo y una de
estabulación, por su aroma y sabor.
Una primera premisa demostrada es que los sistemas de producción
ganaderos que se manejan en pastoreo, pueden impactar en forma
positiva en la salud de la población, produciendo leche, queso o
carne de mejor calidad nutricional para el consumidor (Galina et al.,
2019a; 2009b). Los alimentos de origen animal provenientes de
estos sistemas, pueden ser considerados como alimentos
funcionales y/o como fuente de compuestos nutracéuticos (Galina et
al., 2007; 2014). En segundo lugar ha sido ampliamente demostrado
en la literatura científica la insostenibilidad de los sistemas
productivos de estabulación con vacas productoras de 40 litros o
más por día, desde el punto de vista de calidad de la leche, o de
bienestar animal, para lograr una oferta de mayor calidad nutricional
a los consumidores, evitando paralelamente la destrucción y
degradación de los ecosistemas.
En trabajos previos se ha demostrado que los sistema
silvopastoriles son una alternativa biosostenible de producción que
permite una repoblación vegetal de gramíneas y leguminosas dentro
de un entorno biodiverso que contribuye a la protección y
mejoramiento del medio ambiente (Galina et al., 2012). Otra premisa
estudiada sería la producción orgánica, que ha surgido como
respuesta a la degradación del medio ambiente, para sostener los
sistemas hemos desarrollado una alternativa orgánica con formación
de proteína de los microorganismos ruminales y liberación de la
energía de los forrajes fibrosos, con sistemas de soporte, debido al
natural desbalance de energía de los sistemas silvopastoriles
producto de la alternancia de una producción abundante de biomasa
forrajera en la época de lluvias, contrastada con la escasez de la
época de secas (Galina et al., 2009a; 2009b).
Otro mecanismo que pudiera contribuir a la producción de leche de
calidad sería la suplementación con probioticos de bacterias lácticas
(LAB). Esto se debe a su efecto sobre la biohidrogenación (BH)
ruminal, que se traduce en una saturación de los ácidos grasos no
saturados, abundantes en las plantas, para ello suplementamos con
LAB, que no BH, o lo hacen en menor volumen (Galina et al., 2012;
2013). Los resultados de biohidrogenación con LAB fueron similares
a los obtenidos en dietas suplementadas con ácidos orgánicos o
plantas con aceites (Váradyová et al., 2008) lo que permite suponer
que las bacterias lácticas es una forma de fermentación ruminal que
permite tener el mismo efecto, que se traduce en una mejor calidad
de la leche, (Galina et al., 2012). Para ello hemos realizado varias
observaciones comparando sistema de alimentación en estabulación
o pastoreo con o sin el uso de suplementos de bacterias lácticas.
Las diferencias significativas en el perfil de ácidos grasos benéficos
entre las leches de pastoreo con la adición de un suplemento de
bacterias lácticas comparados con la leche comercial, demuestra la
importancia de la biohidrogenación en el metabolismo ruminal, para
la calidad de la leche, en relación a la salud del consumidor, desde
luego los animales en sistema silvopastoril con suplementación de
promotores de la fermentación y probioticos, fueron las que
significativamente produjeron una leche de mejor calidad
comparadas con las de pastoreo sin probioticos o las de
estabulación con o sin probióticos, (Galina et al., 2013).
Otros factores como la presencia de flavonoides, antioxidantes y
ácidos aromáticos aumentan significativamente en pastoreo,
particularmente en sistemas silvopastoril. Cuando se habla de
calidad de la leche, la ordeñada de animales en pastoreo presenta
un contenido variado, pero en general más bajo en elementos como
el colesterol, porque proviene de un origen vegetal diverso
comparado con productos de animales en estabulación, contenido
que se podría sintetizar en:
81
i) La Leche de animales en pastoreo tiene un contenido de
ácidos grasos no saturados mayor que el de animales en
estabulación. Los ácidos grasos saturados son los implicados en la
mayor parte de las enfermedades cardiovasculares asociados con la
obesidad, disminuyendo la concentración de alfa tocoferol en los
tejidos de los animales en pastoreo. La calidad de los productos
pecuarios, leche o carne es superior cuando los rumiantes son
manejados en pastoreo, superando significativamente a los
animales en estabulación (Sima et al., 2000; Rubino, 2002).
ii) El ácido linoleico conjugado que tiene propiedades
antitumorales, y anticolesterémicas, se encuentra solamente en
productos de origen animal, particularmente en la leche y carne de
animales en pastoreo, en concentraciones cuatro veces mayor que
en animales en estabulación. Se acumula particularmente en el
queso. (Rubino, 2002; Rubino et al., 2012).
iii) Siempre la leche de pastoreo contiene un nivel inferior de
colesterol y un nivel mayor de antioxidantes. Esto se traduce en una
capacidad antioxidante mayor, uno de los elementos probados
contra el crecimiento de tumores, acompañados de derivados del
alcohol como los monoterpenos que reducen la formación de células
tumorales (Cuchillo, 2005).
iv) El componente aromático es mucho más fuerte en la leche
de pastoreo.
Modelo de “Latte Nobile” en México
“Latte Nobile” México es un sistema de identificación de calidad de
producto de pastoreo que iniciamos en asociación con “Latte Nobile”
Italia, desarrollando un reglamento de acuerdo a los niveles de
producción y sistemas de manejo de praderas de nuestro país,
respetando los principios del reglamento italiano, pero sobretodo
tiene el objetivo de aumentar el valor de la leche de los ganaderos
en el proyecto, para incentivar la producción de leche y queso por
los productores de menos de 50 vacas. La pequeña ganadería en
México está en crisis “permanente” mientras los investigadores y
técnicos no hemos sabido desarrollar alternativas para los
productores de leche y carne.
Alternativamente “Late Nobile” México es un proyecto que trabaja en
dos direcciones, aumentar el precio de la leche para los ganaderos y
ofertar un producto de alta calidad a los consumidores.
La leche en México se paga actualmente en relación con la calidad
que pide la industria, esta es sólo en función de cuatro parámetros,
proteínas, grasa, carga bacteriana y células somáticas, que no
tienen prácticamente ninguna relación con la calidad aromática y el
perfil nutricional de la leche. Numerosos estudios han demostrado
que estos parámetros no tienen relación con la complejidad
aromática y/o calidad de leche desde el punto de vista de contenido
de elementos benéficos para la salud (Rubino, 2014).
Estábamos convencidos de dos preceptos, primero era necesario
producir una leche de mayor calidad, producto de pequeños
ganaderos con menos de 50 vacas que tuvieran como base de
alimentación la pradera, preferentemente el sistema silvopastoril,
con el incentivo de agregar plusvalía a la leche de pastoreo,
segundo era necesario encontrar un grupo de ganaderos que
quisieran participar en el proyecto, ambas cosas las encontramos
con la Unión Ganadera de Colima y particularmente la Asociación
Ganadera de Cuauhtémoc en Colima que tiene a ganaderos que
producen leche en pradera. El incentivo con el que partimos es que
venderían su leche un peso mexicano más del que les pagaban los
acaparadores del lácteo.
El trabajo científico que lo probaba lo habíamos iniciado con el Dr.
Fernando Pérez Gil y la Dra. Claudia Delgadillo Puga del Instituto
Nacional de Ciencias Médicas y Nutrición Salvador Zubirán, Los
Dres Fernando Osnaya, Ma. de los Angeles Ortíz y Magdalena
Guerrero de la UNAM, el Dr. Jorge Pineda de la Universidad de
Colima y lo continuamos con el Dr. Pedro A. Vázquez Landaverde
Investigador el CICAT del Instituto Politécnico Nacional de
Querétaro en México, con ellos demostramos la calidad de la leche
de pastoreo en vacas y cabras era comparativamente similar al
observado en Italia.
83
A los productores los invitamos a participar obteniendo el “Logo
Internacional de Latte Nobile” porque el poder pertenecer a un
proyecto internacional y aparecer en las páginas de internet de Italia
era un gran incentivo, para ello teníamos que certificar igualmente la
calidad del producto, para ello elaboramos un manual de
procedimientos que contenía una serie de reglas que garantizarán el
nivel de producción no mayor a 5 mil litros y el sistema de
alimentación 80% en pradera. La certificación mediante el logo
¨Latte Nobile¨se otorga por un año a los productores que reúnen los
requisitos de la reglamentación de ¨Latte Nobile¨México.
En una primera fase La Universidad de Colima y La Universidad
Nacional Autónoma de México mediante la Facultad de Estudios
Superiores Cuautitlán participaron en la elaboración del reglamento
mediante el Dr. Carlos Izquierdo y el Dr. Jorge Pineda de la
Universidad de Colima y la Dra Ma de los Angeles Ortíz, el Dr.
Fernando Osnaya y la Dra Magdalena Guerrero de la UNAM. La
UNAM y la U de C, son las dos instituciones que mediante sus
estudiantes certifican las unidades de producción como ¨Latte
Nobile¨.
Contamos por parte de la Asociación Ganadera de Cuauhtémoc,
pequeño municipio de Colima, México, con la entusiasta
participación del Dr. José María Rodríguez Preciado Presidente de
la Asociación y varios ganaderos, los problemas a resolver son
similares, a los discutidos por Roberto Rubino en Italia, por el
momento encontrar un mecanismo de embotellamiento de la leche
de los productores participantes o la elaboración de un queso que
garantice la calidad del producto.
El queso ya lo hemos elaborado y lo presentamos en Bra en Italia en
el 2012, tenemos ya una pequeña quesería en Colima y el proyecto
de embotellamiento estamos buscando fuentes de financiamiento en
la actualidad,
Para ello iniciamos un sistema de promoción y certificación de
calidad de producto, la certificación se llevará a cabo con el Dr.
Pedro Vázquez Landaverde investigador del CICATA perteneciente
a una de las instituciones más prestigiadas en México, el Instituto
Politécnico Nacional. Los productores que reciben la certificación
Latte Nobile México tienen que tener sus instalaciones abiertas a los
certificadores que pueden tomar muestras de leche o queso en
cualquier momento y llevarlas al laboratorio, la certificación es anual.
Uno de los problemas fundamentales que hemos encontrado en
Latte Nobile México es la dispersión de productores que hasta el
momento ha dificultado el embotellamiento de leche para su venta y
certificación, el costo de transporte y la manutención de la cadena
de frío en los trópicos dificulta la empresa, una alternativa sería que
en México es tradicional la elaboración de quesos directamente en
la unidad de producción, con una pasteurización lenta 63°C por
media hora con cuajado con bacterias lácticas, por ello hemos
hecho una serie de investigaciones para garantizar la calidad y
persistencia del patrón de ácidos grasos particularmente omega 3
en los quesos elaborados bajo esas circunstancias en caprinos y
bovinos (Galina et al., 2007).
Buscamos con la banca de desarrollo (FIRA, FIRCO) nacional, los
organismos gubernamentales SAGARPA y SEDER y las
instituciones UNAM, IPN infraestructura y financiamiento para el
proyecto.
Otras Instituciones internacionales como Slow Food podrían jugar un
papel importante en la difusión de productos artesanales de calidad
nutricional permitiendo expandir a futuro el mercado de la “Latte
Nobile”. Podría colaborar financiando la participación de miembros
del proyecto en Ferias Nacionales, Cursos de capacitación,
Congresos y otros eventos, además de la difusión a través de la
infraestructura en México ya existente de Slow Food, para poder
presentar las bondades del proyecto.
Este es un pequeño resumen de un trabajo de varios años, que
inicia a dar frutos.
Proyecto financiado con fondos de PAPIIT IT202014 y Cátedra
PIAPIVC05 de la Universidad Nacional Autónoma de México y
de la FES-Cuautitlán UNAM.
85
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89
Il primo passo di una lunga marcia. Cadute,
riassestamenti, linee per il futuro
Gianfranco Nappi
Presidente de La Compagnia della Qualità
L’esigenza di un modello alternativo
L’esperienza del Latte Nobile, a saperle vedere, propone tante cose.
E davvero, ex post, si può apprezzare ancora di più tutto il valore
della ricerca e dell’impegno di Anfosc unito ad una dose importante
di coraggio.
La prima e più importante in termini di riflessione per la mia
sensibilità culturale è che un’alternativa al produttivismo applicato
all’agroalimentare, a questo ‘fordismo’ alimentare che ha piegato
tutto alla logica delle quantità prodotte è possibile ed è praticabile.
Se guardassimo solo all’esperienza del Latte Nobile sarebbe poca
cosa, certo.
Ma il Latte Nobile si inserisce a pieno titolo in un percorso di
sperimentazione e innovazione di processo e di prodotto che
traguardando pienamente il postfordismo potremmo dire supera
l’anonimato e riafferma la personalità.
Supera l’anonimato e la serialità di prodotti tutti uguali a se’ stessi,
senza gusto o con gusto aggiunto. Supera l’anonimato di processi
produttivi in campo agroalimentare in cui la chimica diventa più
importante della natura.
E restituisce un valore alla diversità, alla differenza : di origine, di
territorio, di alimentazione, di gusto, di cultura. Anzi, fa della
differenza un punto di forza, un plus per prodotti a cui restituisce
,insieme al lavoro in essi incorporato , un valore aggiuntivo fino a
prima sconosciuto. Costruisce ‘cittadinanza’ potremmo dire e non la
nega in una massa indistinta e uniformemente indirizzata.
Insomma questo è uno dei terreni dove più esplicitamente si può
misurare quanto il cambio di paradigma produttivo, se agito con
coerenza e determinazione, possa avere effetti benefici per aree,
soggetti, produzioni che invece erano considerati, fino al perdurare
dei luccichii della modernità produttivistica, marginali, puri residui di
un passato finito, destinati ad essere superati.
Se non esagero la lezione che pure viene dal Latte Nobile, possiamo
prendere questa esperienza come pietra di paragone di questo
cambiamento che ha indicatori più vasti e articolati ma che qui mi
appare in un’evidenza solare.
In altri termini è di modelli di sviluppo che stiamo discutendo.
Stiamo lasciando, si spera, un modello di sviluppo che assorbiva
dentro le sue logiche e dentro le sue priorità tutto e tutto subordinava
ad esse: territori, vecchie produzioni e modalità produttive, settori
diversi.
E’ anche da questo modello che è nata una lettura del dualismo nello
sviluppo del paese per il quale c’è un Nord che tira ed un Sud che
segue e che è in ritardo esattamente perché non riesce a riprodurre
fino in fondo il modello del Nord. E dunque una lettura del “ritardo”
del Mezzogiorno come ‘ritardo’ nell’imitazione’ di un modello di
sviluppo altrui. Determinando in questo modo la stessa irresolubilità
della questione del Mezzogiorno: se il problema del Sud è sempre
quello di fare come altri fanno risulta evidente che il Sud sarà
sempre un passo indietro a quelli che ‘fanno’.
A me, produzioni di qualità, eccellenze agroalimentari, riscoperta
delle culture enogastronomiche e con esse crescere di un nuovo
appeal dei territori e delle comunità che le esprimono parlano di
questo nuovo paradigma in formazione. E dentro c’è un’attenzione
nuova per il valore del territorio, del paesaggio, per la sua bellezza, e
dunque per la sua conservazione dinamica, per la sua sicurezza. E
c’è un recupero di centralità per le mille storie dei borghi, le mille
91
abilità, i mille saper fare, i mille prodotti, i mille modi di cucinarli, i
mille modi di raccontarli... tutto questo s’incontra con una domanda
del tutto moderna di qualità, di conoscenza, di senso persino, di
curiosità nei confronti del mondo che è l’effetto diretto di questo
stesso mondo più interconnesso, nel quale le informazioni si
scambiano su scala planetaria e le distanze pure si accorciano nel
quadro di una mobilità crescente. Solo a saper fare leva su tutto ciò,
ad organizzarla questa domanda, a veicolarla s’immagina cosa
potrebbe rappresentare per milioni di persone potenzialmente
desiderose di ‘imparare’ e fare esperienze nel paese più ricco del
mondo da questo punto di vista, l’Italia, e, se ci è consentito, in
questo Sud dove è nata la Dieta Mediterranea?
In un paesaggio di collina e di montagna segnato dallo
spopolamento, dalla chiusura di tutte le attività e da uno
scivolamento a valle drammatico, sotto forma di frane e disastri
ambientali, di tanta parte di territorio alto, i pascoli e gli allevamenti di
Latte Nobile possono rappresentare una delle vie per restituire
centralità a territori invece destinati appunto all’abbandono con
conseguenze sociali ed economiche che già oggi sono pesantissime.
Insomma, nel crescere di un’attenzione grande per il cibo, per la sua
qualità, per la sua produzione, di cui l’esperienza di Slow Food
rimane un riferimento imprescindibile e di valore assoluto, non ci
vedo il vagheggiamento di un bel tempo che fu, di un nostalgico
richiamo ad un mondo e ad un tempo che mai ci fu: il rapporto con la
terra sempre è stato espressione di crudi e duri rapporti di forza. Di
servaggio anche delle persone per tutta una fase. E poi di
dipendenza vitale legata al raccolto, alle condizioni atmosferiche e
poi, con l’industrialismo, è venuta la fase invece dello
sradicamento...
E bene ha fatto Roberto Rubino nel suo saggio iniziale a mettere in
luce quanto il modello produttivistico, continuiamo a chiamarlo così
per sintesi di ragionamento, abbia inciso nel profondo nella
coscienza degli stessi allevatori che in alcuni casi, pur lamentandosi,
preferiscono rimanere ‘prigionieri’ dei vecchi rapporti nei quali
centrale è la figura del mediatore...
Di tutto questo parla a noi l’esperienza del Latte Nobile. Un processo
produttivo la cui riflessione è maturata nel Sud del paese e che
diventa ora, con il concorso di tante e qualificate esperienze ,
compiutamente nazionale.
Ma se il tema del Latte Nobile è quello di territori che si riappropriano
di temi e tempi produttivi di cui erano stati privati e che per questa
via danno corso ad elementi di uno sviluppo più solido, fondato su un
più alto livello di remunerazione e un più alto livello di dignità del
lavoro, risulta anche immediatamente evidente che siamo in
presenza di un modello replicabile ovunque nel mondo ci siano da
recuperare storie, culture, capacità di sviluppo radicate sul territorio:
in questo senso davvero il suo è un valore più generale.
Io penso che ci sia una ‘politicità’ profonda in questa esperienza. Ci
siano messaggi e richieste per la politica. Proprio in questi anni di
crisi acuta, di caduta dell’economia reale, di ricerca di vie nuove per
lo sviluppo per le quali prevalentemente ci si ostina a battere strade
già note e inconcludenti, troviamo su questo terreno indicazioni
importanti. Esse reclamano e sollecitano un orientamento del
"pubblico", delle sue ‘politiche’ capace di investire su questa
prospettiva, di assumerla come prioritaria per lo sviluppo del paese,
un paese che abbia voglia di puntare sulla emersione delle sue mille
energie positive, aiutandole a mettersi in rete e ad acquisire quella
forza capace di parlare al mondo intero.
L’esperienza de La Compagnia della Qualità Quando cominciammo circa quattro anni fa a lavorare con il Latte
Nobile sicuramente non avevamo chiare tutte queste implicazioni.
Sentivamo però che c’era molto di nuovo e di corrispondente a
domande attualissime.
E così, anche con l’orgoglio di chi ama la propria terra, ci siamo
buttati a capofitto nel promuovere e organizzare la
93
commercializzazione del latte imbustato e poi a far nascere una linea
completa di latticini e formaggi derivati.
Partendo dal lavoro primario degli allevatori, con la capacità di
comunicare contenuti nuovi che veniva dall’Anfosc e dal suo lavoro
di ricerca che ha incrociato del resto via via tante Università, e con la
spinta decisiva che è venuta dalle scelte di Slow Food, abbiamo dato
corso ad un lavoro di costruzione quotidiana di una rete
commerciale ex-novo che oggi serve in Campania oltre 200 punti
vendita con la sua gamma di prodotti a Latte Nobile: una piccola
cosa, certo. Ma concreta e vitale.
Ed oggi, questa realtà pensa ad una sua espansione: nascono i
formaggi e latticini nobili fatti ad Agerola e secondo la tradizione
casearia agerolina, realizzati con ICLA Agerolatte. Agerola è famosa
per il suo fior di latte, per il Provolone del Monaco.
E’ stato siglato un accordo con l’importante, coraggiosa e nuova
esperienza di Eccellenze Campane che porta a produrre
direttamente lì una quota dei prodotti agerolini nobili.
In accordo con una delle più importanti e storiche cioccolaterie
napoletane, Gay Odin, si sta andando alla produzione di gelati nobili.
E proprio in accordo con pasticcieri e gelatai si sta lavorando ad un
appuntamento sui dolci e sui gelati fatti a latte nobile che coinvolge
direttamente anche gli Istituti Alberghieri del territorio.
In intesa con un altro appartenente alla Comunità in crescita del
Latte Nobile, la Fattoria la Frisona a Segni nel Lazio, si va alla
produzione di yogurt e panna nobili.
I nostri stessi locali di ristorazione, ne gestiamo uno nel centro
storico di Napoli, la Taverna a Santa Chiara, ed uno nel centro antico
di Castellabate, in Cilento, il Chiostro, sono diventati luoghi di
racconto e degustazione del Latte Nobile. E il riscontro è stato così
significativo che abbiamo deciso di trasformare il nostro locale di
Napoli nel primo Ristorante-Latteria-Sala degustazione interamente
dedicato a tutta la gamma dei prodotti a Latte Nobile. Senza
rinunciare al meglio della tradizione culinaria e pasticcera
napoletana... preparate uno zito spezzato a mano con il ragù
napoletano e fuscella nobile (la sorella... nobile della ricotta proprio
perché fatta direttamente dal latte), e vedrete che intensità e
delicatezza di sapori... oppure preparate una crema pasticcera con
latte nobile...
Quattro anni in salita e in crescita nei quali si è rafforzata la
collaborazione con imprese già operanti nel settore del Latte, come
la Vallepiana di Eboli. E quattro anni nei quali si è dovuto anche
contrastare quello che molto spesso uccide la capacità del Sud di
risollevarsi pienamente: le furbizie, l’idea che ‘fregando’ chi ti è più
vicino cresci di più. Non nascondiamocelo, c’è stato già e ci sarà
ancor di più nel futuro il tentativo di comportamenti agli antipodi
rispetto allo spirito e alla lettera del progetto di inserirsi, di insinuarsi.
Occorrerà essere sempre vigili per sconfiggerli.
E’ anche per questo che abbiamo costruito un modello contrattuale
che prevede il rapporto diretto con i singoli allevatori a cui si chiede
di stare sul livello di qualità del disciplinare; nei cui confronti ci si
impegna ad un miglioramento di prezzo in presenza del
raggiungimento dei nuovi standard di qualità che Anfosc via via
delineerà; a cui si riconosce, per quello che vale oggi, un prezzo di
0.60 euro a litro + iva e senza alcun gravame per i costi di trasporto
nel raggio di 200 chilometri dal nostro centro di trasformazione.
Nasce la SILN
Oggi siamo ad un cambio di fase. Ad un passaggio. Da esperienza
sostanzialmente ‘locale’, il Latte Nobile diventa compiutamente
nazionale. Sicilia, Lazio, Molise, Piemonte sono partiti e sono in
procinto di farlo, in Veneto, in Emilia Romagna in Friuli se ne sta
discutendo concretamente.
In questo cambio di passo c’era bisogno anche di una capacità di
gestione del progetto, non nelle sue chiavi culturali e scientifiche
95
perché lì il tutto è in ottime mani, ma proprio in chiave commerciale e
di valorizzazione piena del marchio. Un marchio che a breve
‘parlerà’: si sta implementando, infatti, il progetto di realtà aumentata
che consentirà, oltre l’esperienza del QRCode, ad ogni etichetta di
ciascun prodotto a Latte Nobile di raccontare direttamente, tramite lo
smartphone, la sua storia.
Ed anche qui, per impulso sempre dei nostri noti di Anfosc (quanto
possa la determinazione di un gruppo seppur piccolo nel perseguire
un obiettivo giusto in termini di risultati è davvero sorprendente...), è
stata sollecitata la creazione di un nuovo soggetto, la Società Italiana
del Latte Nobile, nata in queste settimane, a cui è stata affidata la
gestione del marchio Latte Nobile e la sua valorizzazione
commerciale.
E la SILN è costituita proprio da alcuni dei protagonisti del percorso
sin dai suoi inizi.
La SILN dovrà dare vita alla Comunità del Latte Nobile, qualcosa di
più di un semplice Consorzio di tutela.
L’idea è quella di far vivere alcune regole semplici che facciano
crescere la filiera tenendola al riparo di ogni intento rapace; di
realizzare una strategia comune e integrata di comunicazione che
sostenga lo sforzo dei singoli produttori in ogni parte del paese
collocati; di costruire la rete nazionale di commercializzazione del
Latte Nobile e dei suoi derivati, fino a costituire un vero e proprio
Paniere Nobile con tutti i prodotti italiani così realizzati
promuovendone la commercializzazione sia a livello nazionale sia
all’estero; di offrire un supporto ai singoli produttori in termini di
servizio e di logistica; di produrre anche direttamente per le aree
dove nasce la domanda di mercato ma non è ancora presente
l’offerta produttiva. Il tutto a partire da un’idea base: esaltare il
presupposto di fondo del progetto, non un grande operatore che
ingloba tutti i soggetti e i ‘piccoli’ in modo particolare, ma una forte
rete all’interno della filiera per fare in modo che l’insieme dei ‘piccoli’
si muova e ragioni con un’ambizione grande sollecitando di continuo
nuovi protagonismi.
La sfida continua.
Forse sta partendo l’esperimento più bello ... Proprio in queste ore sta muovendo un’esperienza che nasce
sempre dall’incrocio di capacità di ricerca e conoscenza in rapporto
diretto con i produttori e disponibilità a investire in nuovi progetti da
parte di un soggetto che opera sul mercato.
Sta nascendo la nostra sfida alla Terra dei Fuochi, perché non è
giusto che una Terra come quella di Lavoro sia penalizzata
ulteriormente.
Ovviamente qui non c’è da chiudere gli occhi di fronte a niente: la
camorra, in associazione con poteri locali spesso infiltrati e con la
partecipazione a distanza di imprese del Nord in cerca di risparmi
facili nello smaltimento dei propri rifiuti, ha devastato un pezzo di
territorio della provincia di Caserta. Un fazzoletto di territorio rispetto
alla vastità della provincia. Non cambia la gravità del fatto fosse stato
anche un solo metro quadro. Il tutto poi si ritrova aggravato da un
male antico dei meridionali: lo scarso amore per tutto ciò che non è
privato o proprio ed è invece pubblico. Laddove invece per quello
che è ‘fuori’, che è poi lo spazio dove lavoriamo, passeggiamo,
giocano i nostri figli, dovremmo coltivare la stessa religiosa cura che
dedichiamo alle nostre case, perché quello ‘pubblico’ di spazio è
‘nostro’ quanto la nostra casa, e più, e dovremmo essere noi i primi
a tutelarlo in quanto nostro spazio di vita... Ma qui il discorso ci
porterebbe lontano...
Ebbene a Caserta, nasce uno dei nostri prodotti a più alto grado di
riconoscibilità nel mondo : la Mozzarella di bufala. Ovviamente l’altro
polo produttivo parimenti importante è nella piana del Sele.
Ma è qui che il contraccolpo è stato forte.
97
Ed è proprio da qui, da Caserta, che nasce il progetto della prima
Mozzarella di Bufala Nobile, prodotta cioè applicando il disciplinare
del Latte Nobile adattato alle Bufale. E di questa mozzarella si saprà
tutto : il terreno dove hanno pascolato le bufale, le sue caratteristiche
ambientali, le caratteristiche delle erbe e dei fieni che le hanno
alimentate, il trasformatore e i processi di qualità che adotta. Tutto.
Anche questo è il segno di un processo che va avanti e ci fa piacere
farlo proprio qui, in questa terra così carica di storia e di cultura che
deve trovare la forza di recuperare una dimensione di futuro.
Storia breve di un percorso annunciato
Il determinante ruolo della Regione Campania
Adriano Gallevi
ANFoSC Se, in un tempo relativamente breve, il modello Nobilat è riuscito ad
assumere l’importanza attuale, molto lo si deve alle disponibilità
finanziarie che è stato possibile attingere dalla Regione Campania.
La scintilla che ha innescato il corto circuito è partita nel 2010 da una
telefonata tra il Presidente Anfosc e la Dirigente dell’allora Sesirca,
dr.sa Mariella Passari e poi da un colloquio con l’allora Assessore
all’Agricoltura dr. Nappi, ai quali Rubino espose le sue tesi in tema di
cosa dovesse intendersi per qualità del latte e di come fosse
possibile ottenerla. Il messaggio fu immediatamente recepito ed al
primo bando della Misura 124 HC l’Anfosc, in qualità di Capofila,
presentò il suo Progetto, denominato Nobilat, che aveva, come
protagonisti, 6 allevatori di Castelpagano, 2 trasformatori, il
Consorzio di allevatori di Castelpagano, Slow Food Campania e, in
qualità di Ente scientifico, il Corfilac di Ragusa.
Il Progetto fu valutato positivamente e risultò primo con 85 punti del
lotto dei progetti presentati. La dotazione finanziaria iniziale è stata di
circa 750 mila euro ed il Progetto prevedeva azioni di Campo presso
gli allevatori con interventi volti a migliorare sia le attrezzature di
gestione dell’allevamento che di miglioramento delle tecniche
foraggere con impianto di erbai e prati polifiti; azioni di Laboratorio,
totalmente affidate al Corfilac, per l’esame diagnostico del latte e dei
foraggi tesi alla ricerca, man mano che procedevano le azioni di
miglioramento in Campo e presso gli allevamenti, dei parametri che
permettessero al latte, secondo il Disciplinare varato, di essere
qualificato come Nobile; tali parametri venivano poi ricercati anche
sui prodotti della trasformazione del latte conseguiti dai due
trasformatori i quali avevano anche il compito, attraverso esperti
casari messi a loro disposizione dal Progetto, di ricercare anche
99
prodotti innovativi a più elevato valore aggiunto come yogurt, creme
spalmabili, ecc. A tal fine, il Progetto ha reso anche possibile che
venisse studiato un prototipo, il “Mininobilat” che, dopo un travagliato
lavoro di messa a punto, ha di recente iniziato a funzionare.
Gran parte del budget di Progetto faceva capo alle attività di
Diffusione e Divulgazione dei risultati, completamente affidate a
Slow Food Campania e all’Anfosc la quale, peraltro, era anche
impegnata nell’attività di Assistenza Tecnica presso gli allevatori e
nel lavoro di raccordo e sintesi delle attività svolte dagli altri partner.
L’intenso e produttivo lavoro svolto da questi due partner, possiamo
dire che è stato il vero motore che ha consentito di far arrivare la
conoscenza del metodo Nobilat ad una vasta e variegata platea di
persone, come in altra parte del libro è descritto. Complessivamente
l’Anfosc ha compiuto più di 400 gg di missioni su e giù per la
Campania ed il resto d’Italia al fine di presentare il metodo Nobilat a
consumatori, studiosi ed esperti del settore, attraverso riunioni,
convegni scientifici, laboratori, partecipazioni a fiere e mostre, ecc. In
questo ultimo scorcio di anno l’attività si è vieppiù intensificata in
quanto il lavoro propedeutico di Divulgazione ha cominciato a
produrre effetti concreti presso gli allevatori, uno degli obiettivi
primari del Progetto, per cui ora non esiste più il solo latte Nobile
Campano ma vi è quello Piemontese, Molisano, Laziale e dal latte
vaccino siamo ora passati anche a quello bufalino. Anche in questo
settore, il Progetto ha reso possibile, accanto al funzionamento del
sito www.lattenobile.it , anche lo studio e la messa a punto della
Realtà Aumentata, attraverso la quale ogni prodotto a marchio Latte
Nobile potrà raccontare, avvicinando un tablet o uno smartphone,
oltre la filosofia di fondo del prodotto, anche la storia di chi e come lo
produce.
Dal canto suo, Slow Food Campania con il suo budget destinato alla
Divulgazione, ha dapprima creato il Presidio del Latte Nobile e,
quindi, attraverso i suoi laboratori e le attività delle Condotte, ha
contribuito significativamente alla diffusione del prodotto fra i
consumatori. La sintesi di tutto questo lavoro l’avremo al Salone del
Gusto di Torino, quando tutti i protagonisti di questo esaltante e
corale lavoro, italiani ed stranieri, presenteranno i risultati raggiunti e
le prospettive future.
Durante tutto questo percorso, iniziato il 21 gennaio 2011 e che
terminerà il 22 novembre 2015, l’Assessorato all’Agricoltura della
Regione Campania, attraverso la sua qualificata Struttura tecnico-
amministrativa, ed anche l’INEA, non ci hanno mai fatto mancare il
loro appoggio aiutandoci a muoverci tra leggi e regolamenti che,
molte volte loro malgrado, appesantiscono non poco il lavoro di chi è
abituato, come l’Anfosc, a guardare più alla sostanza che alla forma.
Pensiamo e speriamo, però, che l’andamento di questa esperienza
possa essere servita perché, già nella prossima programmazione
che inizierà il primo gennaio 2015, alcuni punti del Regolamento più
intransigenti e che molte volte frenano l’azione, vengano riadattati
alla realtà con la quale ognuno di noi operatori deve fare i conti.
101
Parte Seconda
I risultati della ricerca
103
Il Latte Nobile strumento per migliorare la
competitività delle aziende agricole
dell’Appenino Campano.
S. La Terra1, G. Campisi
1, L. Corallo
1, A. Di Falco
1, G. Farina
1, G.
Giurdanella1, C. Guardiano
1, M. Ottaviano
1, G. Azzaro
1, G.
Licitra2.
1Consorzio Ricerca Filiera Lattiero Casearia, Regione Siciliana.
2 DISPA, Università degli Studi di Catania.
Il progetto “Un nuovo modello per rivitalizzare la filiera del latte
bovino-NOBILAT”, supportato dalla Regione Campania ha avuto
come scopo la caratterizzazione del latte “Nobile” dell’Appennino
Campano. In questo capitolo vengono riassunti i risultati relativi alle
attività svolte nelle aziende oggetto di studio che sono state
monitorate per l’intera filiera, dal management aziendale,
all’alimentazione animale ed alla qualità del latte prodotto, mediante
formulazione e applicazione di piani agronomici ed alimentari ad hoc,
analisi fisico-chimiche, aromatiche e microbiologiche del latte, per
tutta la durata (2012-2014) del progetto. Sono stati effettuati controlli
sulla filiera produttiva (tabella 1) al fine di migliorare il management
aziendale e di monitorare i punti critici su cui effettuare eventuali
azioni correttive.
Tabella 1: controlli effettuati nella filiera
Materiali e metodi
Analisi foraggi
Analisi foraggi con Foss XDS near-infrared acquisendo gli
spettri tra 400 e 2498 nm;
Sostanza secca 103°C (ISO 6496: 1999);
Fibra insolubile in detergente neutro – NDF;
Fibra insolubile in detergente acido – ADF;
Lignina – ADL;
Analisi latte con MilkoScan™
Grasso;
Proteine (TN);
Analisi latte con Fossamatic
Cellule somatiche;
Analisi microbiologiche latte
Staphylococcus aureus;
Escherichia coli AOAC 991.14 (2010);
S. aureus UNI EN ISO/TS 6888-2: 2004;
Analisi microbiologiche con BAX
E. coli O157:H7;
L. monocytogenes;
Salmonellae spp.
Filiera Produttiva Controlli di Filiera
Allevamento e Qualità Latte
1 - Body Condition Score (BCS)
2 - Controllo impianto di mungitura misurazione del numero delle pulsazioni
utilizzo di un prodotto schiumogeno pre-dipping
corretta applicazione del gruppo di mungitura
applicazione del post-dipping
4 - Cellule somatiche individuali controllo mediante prelievi individuali
5 - Modello epidemiologico individuazione vacche subcliniche e croniche
Alimentazione
6 - Qualità foraggi: anticipazione sfalcioCampionamento e valutazione foraggi in azienda
7 - Verifica razionamento modello CNCPS (CPM-Dairy V. 3.10)
3 - Fase di mungitura
105
Risultati e discussione La figura 1 riporta i valori medi di proteina grezza rilevati nei fieni. I
campioni presentano un tenore proteico medio compreso tra 4.68 e
10,95 %. I valori più bassi sono correlabili ai campioni con un più alto
contenuto di NDF (> 60 %). Valori proteici più elevati sono stati
registrati nei campioni appartenenti alle aziende B ed H, indicando
una migliore qualità del foraggio di partenza e presumibili buone
condizioni di raccolta e di conservazione. In generale, i risultati
ottenuti sono in linea con valori di medio/alta qualità dei fieni.
Figura 1: Valore medio proteine grezze
La figura 2 riporta i risultati delle frazioni fibrose, NDF, ADF e ADL,
rilevati nei campioni di fieno. I valori di NDF sono risultati pari o
maggiori del 60 % SS in 5 aziende, questo probabilmente è dovuto
ad uno sfalcio più tardivo dei foraggi da destinarsi alla fienagione che
consente di massimizzarne le rese. Le aziende E e L hanno
mostrato valori più bassi di NDF (53,31 e 50,07 %). Simili
considerazioni vanno fatte per le frazioni ADF e ADL.
Proteine % SS
6,76
10,95
4,68
7,188,12
9,03
7,30
A B D E G H L
Figura 2. Valori medi NDF, ADF e ADL % SS
I campioni di latte di tutte le aziende monitorate durante il periodo di
studio hanno mostrato valori medi di grasso, proteine equiparabili a
quelli riferiti al latte di buona qualità (tabella 2).
Tabella 2: valori medi grasso, proteine campioni di latte
Il controllo del management di tutte le aziende ha migliorato le
condizioni igenico-sanitario del latte presentando valori di cellule
somatiche nei limiti consentiti dalla legge.
La determinazione dei patogeni Stafilococcus aureus, Salmonella,
Listeria monocytogenes ed E. coli O157:H7, hanno permesso di
63,38
50,07
60,0862,46 62,00
53,31
60,76
38,61
32,29
37,6639,81
37,9434,75
37,81
6,80 6,82 5,907,38 6,86 6,47 6,65
A B D E G H L
NDF % SS ADF % SS ADL % SS
Aziende grasso% proteine% cellule*1000
A 3,45 3,26 542
B 4,1 2,5 558
C 3,87 3,40 938
D 3,73 3,47 149
E 4,19 3,22 546
F 3,65 3,29 957
G 4,13 3,53 527
H 3,79 2,49 179
I 4,1 3,37 198
L 3,25 3,23 322
107
rilevare la buona qualità microbiologica del latte Nobile di tutte le
aziende sottoposte a monitoraggio: Stafilococcus aureus è risultato
essere inferiore a 1 (UFC/ml); Salmonella, Listeria monocytogenes
ed E. coli O157:H7 assenti (UFC/25 ml).
Conclusione Le indagini effettuate sul latte Nobile hanno permesso di valutare la
qualità dei foraggi impiegati negli allevamenti e dei campioni di latte
dal punto di vista nutrizionale e microbiologico. I mangimi e i foraggi
impiegati nell’alimentazione animale sono risultati di buona qualità, i
campioni di latte hanno mostrato valori di grasso, proteine molto
simili tra loro nei differenti prelievi mensili. Dal punto di vista igienico-
sanitario si è visto che tutte le aziende sono rientrate nei limiti
consentiti dalla legge.
In conclusione possiamo affermare che il controllo di filiera e le
azioni correttive applicate al management aziendale hanno
permesso il miglioramento dello stato di benessere animale e della
qualità finale del latte.
Componenti salutistiche e aromatiche
del Latte Nobile dell’Appennino Campano
S. La Terra1, V. M. Marino
1, T. Rapisarda
1, G. Belvedere
1, F. La
Terra1, S. Carpino
1, G. Licitra
2.
1Consorzio Ricerca Filiera Lattiero Casearia, Regione Siciliana.
2 DISPA, Università degli Studi di Catania.
Il latte è considerato un alimento funzionale perché, oltre a
possedere un elevato valore nutrizionale, contiene sostanze con
proprietà benefiche per la salute umana. Tra queste ultime troviamo
acido coniugato linoleico (CLA) gli omega 3 e gli omega 6 e le
vitamine liposolubili (tocoferoli, vitamina A e il suo precursore beta-
carotene). L’alimentazione dei ruminanti svolge un ruolo importante
sulla produzione quali-quantitativa del latte influenzando fortemente
le caratteristiche chimico-fisiche, organolettiche e salutistiche dei
prodotti lattiero caseari, che ne derivano. In questo capitolo si
focalizza l’attenzione sulle proprietà salutistiche del latte Nobile
illustrando sia i risultati relativi al rapporto omega 6/omega 3, al
contenuto di CLA, alle vitamine, agli antiossidanti ed un confronto tra
latte Nobile ed Alta Qualità Campano (sia crudo che pastorizzato).
Materiali e metodi Determinazione degli acidi grassi PUFA e CLA.
Per l'estrazione degli acidi grassi polinsaturi (PUFA) e del CLA dal
latte è stata utilizzata la metodica descritta da Banni et al. (1996).
Determinazione delle vitamine liposolubili.
L’estrazione del β-carotene è stata eseguita in accordo al protocollo
di Palozza and Krinsky (1992). L’estrazione dell’alfa tocoferolo
(vitamina E) è stata eseguita in accordo al protocollo di Palozza and
Krinsky (1992) modificato da Marino et al. (2010).
109
Determinazione sostanze volatile: Smart Nose GCO e GC massa
L’estrazione delle componenti volatili con SmartNose è stata
effettuata come riportato in Rapisarda et al., 2013. L’analisi delle
profilo volatile è stata effettuata mediante gas cromatografia
olfattometrica e spettrometria di massa, previa estrazione delle
componenti volatili con odore attivo (OACs) mediante distillazione in
corrente di vapore come riportato in Rapisarda et al. 2014.
Latte Nobile verso Alta Qualità
Nel valutare la qualità del latte oggetto di studio si è voluto
analizzare la qualità di origine e l’influenza dei trattamenti termici.
Sono stati, quindi, messi a confronto campioni di latte crudo
destinato all’Alta Qualità, latte Alta Qualità, latte Nobile crudo e
pastorizzato.
Risultati e discussione
Latte Nobile – 6/3. Nella tabella 1 sono riportati i valori medi di
omega 6/omega 3 dei campioni di latte di massa prelevati, nelle
aziende oggetto di studio, durante il periodo sperimentale (2012 al
2014). Dall’osservazione dei dati possiamo affermare che il rapporto
6/3 per le singole aziende ha subito un’evoluzione positiva
durante gli anni del progetto rientrando nel limite raccomandato dalla
FAO/WHO (1994) inferiore a 5.
Tabella 1: valori medi di 6/3 dal 2012 al 2014
6/3
Aziende 2012 2013 2014
A 5,2 4,4 2,8
B 7,0 5,0 3,1
D 6,0 5,0 3,2
F 4,7 8,3 2,4
G 4,0 3,6 3,5
H 4,0 4,0 3,0
I 4,0 4,4 4,2
L 5,1 4,8 2,7
Latte Nobile - Vitamine e PUFA
Nei campioni di latte analizzato i livelli di -carotene e -tocoferolo
(Figure 1 e 2) hanno mostrato un andamento stagionale con picchi
nel mese di Aprile.
Figura 1: andamento beta carotene nei campioni di latte (2013)
beta-carotene
0
0.01
0.02
0.03
0.04
0.05
0.06
dicembre gennaio aprile maggio
mg/
L
111
Figura 2: andamento alfa tocoferolo nei campioni di latte (2013)
Parallelamente alle vitamine liposolubili, anche i livelli dei precursori
degli omega 3 e 6 (18:3 e 18:2, rispettivamente ) e dell’isomero 9,11
del CLA (Figura 3) variano durante l’anno con un picco nel mese di
Aprile.
Figura 3: andamento di PUFA e CLA nei campioni di latte (2013)
La concentrazione di molecole nutraceutiche dipende infatti da
diversi fattori come la specie, la stagione, l’alimentazione. Questi dati
confermano, anche in accordo con quanto riportato in letteratura,
alfa-tocoferolo
0
0.4
0.8
1.2
dicembre gennaio aprile maggio
mg/
L
Andamento dei PUFA nel latte
0
1
2
3
4
Gennaio Aprile Maggio Giugno Settembre Ottobre
g/1
00
g d
i g
rass
o
n3 18:3
n6 18:2
9,11 CLA
che la tipologia e la qualità del foraggio influenzano la qualità
nutrizionale del latte. Il pascolo fresco disponibile soprattutto in
primavera arricchisce il latte di queste vitamine liposolubili di CLA
incidendo su un basso rapporto (2:1), principalmente attribuibile a
una maggiore presenza nel foraggio di acido alfa-linolenico (18:3).
Latte Nobile – GCO e GC Massa e SmartNose
L’analisi olfattometrica e di spettrometria di massa effettuate su
campioni di latte Nobile prelevato dalle diverse aziende oggetto di
studio hanno permesso di identificare molecole con odore attivo
appartenenti alle seguenti classi chimiche: acidi grassi, alcoli, aldeidi,
chetoni, esteri, idrocarburi, pirazine, pirroli, sulfurei, terpeni e tiazoli.
In tabella 2 sono riportati i risultati.
113
Tabella 2: componenti volatili con odore attivo campioni di latte prelevati
Nei campioni di latte oggetto di studio sono state identificate
specifiche classi chimiche volatili la cui presenza può essere
imputabile alla dieta animale. E’ il caso ad esempio delle aldeidi e
nello specifico il decadienale la cui origine è dovuta al processo di
ossidazione degli acidi grassi insaturi presenti nelle piante. La classe
chimica dei terpeni, la cui presenza è stata rilevante nei campioni
analizzati, deriva dai processi metabolici secondari. Come
Compound Chem Class Odour perception LRIa
Identb A B D E F G H I L M
butyric acid acid rancid 818 PI x x x x x
phenyl acetic acid acid soap,spicy 1267 PI x x
methyl-2-butenol alcohol herbaceous 779 PI x x
heptanol alcohol onion 926 PI x x
2-ethyl hexanol alcohol green 1032 PI,MS x
2-phenyl ethyl alcohol alcohol honey,floral 1116 PI x
2,6-nonadienol alcohol cucumber 1163 PI x x x
2-octenal aldehyde green 1061 PI x x
3,6-nonadienal aldehyde floral 1096 PI x
perilla aldehyde aldehyde spicy 1274 PI x
decadienal aldehyde rancid,fat 1322 PI x x
o-amino acetophenone aromatic hyd sweet 1313 PI x x
ethyl butyrate ester apple 798 PI x x x x x
butyl acetate ester pear 816 PI x x x x x x x x x x
ethyl methyl butyrate ester apple 848 PI x x x x
methyl-2-(methylthio)-acetate ester fried,potato 891 PI x x x x
ethyl isohexanoate ester fruity 967 PI x x
ethyl hexanoate ester honey,floral 1001 PI x
hydroxy pentanone ketone mushroom,earth 824 PI x x x x
octadienone ketone floral 980 PI x x
2-nonanone ketone hot milk 1104 PI x x
ethyl dimethyl pyrazine pyrazine potato 1087 PI x x
acetyl pyrroline pyrrole fried,nut 924 PI x x
propionyl pyrrole pyrrole roast 1026 PI x
dimethyl disulfide sulfur garlic 777 PI x x
mercapto pentanone sulfur onion 899 PI x x
thenylthiol sulfur sulfur 1077 PI x x
sulfurol sulfur garlic 1260 PI x
methylfuranthiol sulfut garlic 865 PI x x
limonene terpene floral 1035 PI x x x
(Z)-linalool oxide terpene soap,floral 1070 PI x x x x
(E)-rose-oxide terpene green 1132 PI x
(Z)-limonene oxide terpene citrus 1136 PI x x x x x
carveol terpene fresh 1198 PI x
linalool oxide terpene floral 1214 PI x x x x x x x
myrtenal terpene floral,spicy 1235 PI x
1,3-p-menthadien-7-ol terpene spicy 1292 PI x
acethyl thiazole thiazole green,earthy 1019 PI x
Totale 9 8 6 10 11 17 14 4 10 7a LRI, Linear Retention Index, capillary column HP-5.
b Identification: MS (Wiley library);
PI (Internet database:flavornet); ST (standard solution); * LRT calculated on the normal alkans RT
dimostrato da precedenti studi, il profilo aromatico del latte è
influenzato dall’alimentazione animale. Le sostanze aromatiche
ingerite con la dieta possono infatti essere assorbite e trasferite
inalterate dal sangue all’apparato mammario e quindi al latte.
Latte Nobile verso Alta Qualità Campano - Vitamine e PUFA
In tabella 3 sono riportati i risultati delle analisi di due tipologie di
latte crudo e pastorizzato: latte Nobile e latte Alta Qualità Campano.
I valori analitici riguardano in particolare il contenuto nel latte di -
tocoferolo, -carotene, colesterolo e del rapporto 6/3.
Tabella 3: valori medi di -tocoferolo, -carotene, colesterolo e 6/3
I risultati mostrano che nel latte di Alta Qualità Campano l’alfa-
tocoferolo e il beta-carotene sono più alti nel latte pastorizzato
rispetto al crudo, mentre nel latte Nobile non c’è variazione tra crudo
e pastorizzato. Anche se i campioni di latte presentano valori molto
diversi in contenuto vitaminico e di colesterolo, il latte Nobile
presenta un rapporto 6/3 simile tra latte crudo e latte pastorizzato.
Il trattamento termico non ha avuto effetti sul rapporto 6 e 3
confermando i dati riportati in bibliografia. Il latte Nobile però mostra
un valore di 2.7 rispetto ai limiti raccomandati dalla FAO/WHO
(1994) di 5, di contro il latte campano di Alta Qualità sia crudo che
pastorizzato mostra un valore superiore al limite massimo
raccomandato. Il valore del rapporto 6/3, è un valore importante
e dimostra la qualità del latte Nobile, rappresenta l'equilibrio infatti di
questi due acidi grassi essenziali è importante per la prevenzione e il
trattamento di diverse patologie: l’eccessiva assunzione di -6 può
Tipologie latte -tocoferolo
(μg/100 g)
-carotene
(μg/100 g)
colesterolo
(mg/100 g)
6/ 3
Crudo destinato Alta Qualità
Campano 47.2 5.1 18.5 7.2
Alta Qualità Campano 52.0 5.7 20.8 7.1
Nobile crudo 28.6 2.1 15.3 2.6
Nobile pastorizzato 29.4 2.1 16.1 2.7
115
compromettere la formazione degli -3 a partire da acido Linolenico
e viceversa.
Latte Nobile verso Alta Qualità Campano -SmartNose
Andando a valutare i risultati relativi alle componenti volatili ottenute
con l’analisi allo SmartNose possiamo osservare che una differenza
tra le componenti volatili dei campioni di latte analizzati (Figura 4) è
dovuta al processo di termizzazione (PC1 88,14%; PC2 10,13%) a
differenza di ciò che avevamo osservato per le componenti
salutistiche.
Figura 4. Score plot dei campioni di latte (AQ_C= Alta Qualità Campano (past =
pastorizzato).
Focalizzando poi l’attenzione sulle due tipologie di latte (Nobile e
Alta Qualità Campano), nel grafico si nota una vicinanza tra le due
tipologie di latte indicandone un’analoga composizione volatile. Tale
andamento è stato registrato sia nei campioni di latte crudo che
Nobile crudo
pastorizzato. Questi risultati mostrano che in generale per quanto
riguarda le componenti aromatiche il latte Nobile ha un profilo simile
a quello del latte Alta Qualità Campano.
Conclusioni I dati presentati in questo capitolo, relativi al latte Nobile analizzato
sia sotto il profilo salustico che aromatico hanno mostrato un latte
qualitativamente buono soprattutto se si fa riferimento al rapporto
6/3 del latte Nobile che è molto al di sotto dei valori massimi
raccomandati dalla FAO/WHO (1994). I risultati relativi alle
componenti aromatiche del latte Nobile mostrano inoltre un latte
ricco di sostanze attribuibili alla dieta degli animali ed una
significativa similitudine al latte Alta qualità Campano per le sue
componenti volatili.
117
Bibliografia
Banni S., Carta G., Contini M.S., Angioni E., Deiana M., Dessi M.A.,
Melis M.P., and Corongiu F.P. 1996. Characterization of conjugated
diene fatty acids in milk, dairy products, and lamb tissues, J. Nutr.
Biochem., 7:150-155.
Palozza P., Krinsky N.I. 1992a ß-Carotene and tocopherol are
synergistic antioxidants. Arch. Biochem. Biophys., 297:184-187.
Marino, V. M., La Terra, S., Licitra, G. and Carpino S. Effetto del
trattamento termico sulle sostanze nutraceutiche del latte. 2010.
Scienza e Tecnica Lattiero Casearia. 61(1) :19-27.
Rapisarda, T., Pasta, C., Belvedere, G., Schadt, I., La Terra, F.,
Licitra, G., Carpino, S. 2013. Variability of volatile profiles in milk
from the PDO Ragusano cheese production zone. Dairy Sci.
Technol. 93, 117–134.
Rapisarda, T., Pasta, C., Carpino, S.Caccamo, M., Ottaviano, M.,
Licitra, G. 2014. Volatile profile differences between spontaneous
and cultivated Hyblean pasture. Anim. Feed Sci. And Tech. 191, 34-
96.
Rapporto omega6/omega3 e GPA nel Latte
Nobile in Molise
Giampaolo Colavita, Carmela Amadoro, Rossella Mignogna
Università del Molise - Campobasso
Premesse
Gli acidi grassi polinsaturi (PUFA) sono anche acidi grassi
essenziali, in quanto il nostro organismo deve necessariamente
assumerli con la dieta. Quelli di maggiore interesse alimentare sono
gli omega-3 e gli omega-6, che differiscono tra di loro per la
posizione dell’ultimo (omega) doppio legame della catena. Nei primi,
che sono dei derivati dell’acido α-linolenico (18:3 - ω3), l’ultimo
doppio legame è in posizione 3, mentre nei secondi, derivati
dell’acido α-linoleico (18:2 - ω6), in posizione 6. Nel latte questi acidi
grassi non sono molto abbondanti rispetto ad altri alimenti.
Il nostro organismo è in grado di trasformare l’acido α-linoleico in
acido eicosapentanoico (EPA) ed in misura minore in acido
docosaesaenoico (DHA). Il primo è il principale precursore delle
prostaglandine della serie 3 (attività antiaggregante) e che insieme al
DHA ha un’azione protettiva contro l’arteriosclerosi e nella
prevenzione delle malattie cardiovascolari.
Dal metabolismo degli omega-3 e degli omega-6 si formano
prostaglandine, trombossani, leucotrieni, eicosanoidi ed
endocannabinoidi, sostanze importanti nella stabilità delle membrane
cellulari, nella coagulazione del sangue, nella flogosi e nella
riparazione delle ferite.
Diversi studi epidemiologici e sperimentali suggeriscono che gli
omega-3 PUFA (Polyunsaturated fatty acids) possono espletare un
effetto favorevole nel controllo e nella prevenzione delle malattie
119
cardiovascolari e dell’arteriotrombogenesi, riducendo il livello di
colesterolo LDL e aumentando quello HDL.
Importanza di un corretto rapporto omega-6:omega-3
Ci sono evidenze scientifiche che dimostrano come l’interazione tra
omega-6 e omega-3 nella dieta abbia dei riflessi sulle malattie
metaboliche tra cui l’obesità. Negli ultimi decenni nella nostra dieta
è incrementato il rapporto omega-6:omega-3, che è passato da 6:1
nel 1998, a 12:1 nel 2006, fino a valori, in alcune diete, di 17:1. Si è
visto che il largo utilizzo di oli vegetali porta ad una maggiore
assunzione di omega-6, così pure nel fastfood dove gli oli vegetali
sono frequentemente aggiunti alle preparazioni.
Una elevata assunzione di omega-6 favorisce i fattori della flogosi
derivanti dall’acido arachidonico, molto probabilmente l’omega-6 più
importante per le nostre difese contro le infezioni e in diversi
processi metabolici.
Una elevata assunzione di omega-6 comunque può contribuire allo
stato infiammatorio che caratterizza diverse delle malattie legate allo
stile di vita. L’acido arachidonico stimola la trasformazione degli
adipociti intervenendo nell’eziopatogenesi dell’obesità nei bambini.
Alcuni studi riportano elevati valori ematici di omega-6 e bassi livelli
di omega-3 nei bambini obesi,. Prove sperimentali sugli animali da
laboratorio hanno dimostrato che quando dopo la nascita i piccoli
assumono con la dieta omega-6 e omega-3 in rapporto 9:1,
frequentemente da adulti sviluppano obesità, pressione alta,
trigliceridi aumentati, insulina alta (Simpoulos, 2002).
Negli ultimi anni dati scientifici riportano lo stesso fenomeno nei
bambini. (Strandvik, 2011). Risulta , quindi, di grande interesse
produrre alimenti, e nello specifico latte e formaggi, che abbiano un
corretto rapporto omega-6:omega-3, aderendo in tal modo agli
orientamenti e al parere dell’Accademia della Nutrizione e Dietetica
(2014).
Materiali e metodi Il presente lavoro è stato svolto nell’ambito del progetto Aria di
Molise, inserito nel PSR Molise 2007/1013, Mis. 124, per lo sviluppo
di metodologie produttive tese alla produzione di un latte con elevate
proprietà salutistiche. Il progetto è stato svolto nell’azienda Di Vaira
di Petacciato (CB). Dopo una “ristrutturazione” del management
aziendale e la stabilizzazione dei fattori produttivi, si è proceduto al
prelievo (con cadenza mensile) di campioni di latte massale, nella
prima fase per ottenere dei dati baseline e successivamente
collezionare dei dati sperimentali inerenti il tenore in acidi grassi
polinsaturi essenziali, i composti antiossidanti ed il colesterolo.
Al fine di effettuare un’analisi comparativa, sono stati raccolti
campioni di latte di alta qualità in aziende da latte del Molise.
Determinazione della capacità antiossidante
idrosolubile con il metodo TEAC Il metodo TEAC (Trolox Equivalent Antioxidant Capacity) selezionato
per la determinazione della capacità antiossidante totale è basato
sulla neutralizzazione del catione radicalico ABTS+, formato
dall’ossidazione di un cromoforo di origine sintetica, l’ABTS, dalla
forte capacità assorbente (700-750nm), in accordo con la reazione
ABTS – e-
=> ABTS
+. Il radicale è preparato a partire da una
reazione di ossidazione dell’ABTS con il persolfato di potassio. Il
radicale reagisce velocemente con un donatore di elettroni/ioni
idrogeno a formare l’ABTS incolore. Un aumento della
concentrazione di ABTS
è linearmente dipendente dalla
concentrazione degli antiossidanti, incluso il Trolox (6-hydroxy-
2,5,7,8,-tetramethylchromane-2-carboxylic acid), standard usato per
la calibrazione. I risultati finali sono espressi come nmoli di Trolox/g
campione.
Determinazione degli acidi grassi in latte e formaggio
Per la determinazione degli acidi grassi del latte e del formaggio è
stata utilizzata un’idrolisi basica per il latte e un’idrolisi acida per il
121
formaggio, seguita poi da estrazione con solvente della frazione
lipidica secondo il metodo riportato in Gazzetta Ufficiale delle
Comunità Europee n° L407/92: Decisione del Consiglio del
14/11/1992 e nella Gazzetta Ufficiale n°229 del 2/10/1986, che
prevede un’analisi gascromatografica.
L’identificazione degli acidi grassi è stata effettuata mediante
confronto dei tempi di ritenzione dei composti rivelati con quelli di
una miscela standard di acidi grassi. Per la quantificazione i dati
sono stati espressi come rapporto percentuale tra l’area del singolo
acido grasso e l’area totale degli acidi grassi.
Determinazione delle vitamine liposolubili e del
colesterolo Le vitamine liposolubile e il colesterolo sono state determinate
secondo il metodo cromatografico (HPLC) secondo Manzi et al.,
1996, previa estrazione con metodo Panfili et al., 1994. I risultati
sono stati elaborati tramite un computer provvisto di software
Chromeleon 6.60.
Determinazione del Grado di Protezione
Antiossidante (GPA) Il grado di protezione antiossidante (G.P.A.) è stato calcolato come
rapporto molare tra le molecole antiossidanti (M.A.) beta-carotene +
alfa-tocoferolo ed il bersaglio dell’ossidazione del colesterolo (B.O.):
M.A. n° moli+B.O./n° moli (Manzi e Pizzoferrato, 2006).
Risultati
Nella tabella n.1 sono riportati i risultati relativi ad alcuni (per ragioni
di spazio) campioni di latte massale dell’azienda Di Vaira. Come è
possibile rilevare i valori della composizione centesimale possono
rientrare nei parametri di un latte che, in base al D.M. 185/89, può
essere definito di “alta qualità”. Tali valori sono coerenti con un
management aziendale e un’alimentazione sostanzialmente corretti
della mandria. Il tenore in grasso e proteine si è stabilizzato su valori
piuttosto elevati e stabili negli ultimi mesi, a testimonianza del
raggiungimento degli obiettivi produttivi conseguentemente alla
ristrutturazione aziendale e al nuovo regime alimentare, che ha visto
un rapporto foraggio/concentrato arrivare a 80/20.
Nella tabella n. 2 sono riportati i tenori in composti antiossidanti del
latte di massa, i cui valori si sono dimostrati ampiamente nella media
riportata in letteratura per il latte bovino. Gli stessi valori sono mano
mano aumentati nel prosieguo dell’attività sperimentale. Anche i
valori del GPA risultano soddisfacenti e stante la stabilità del tenore
in colesterolo del latte, presentano un andamento parallelo a quello
degli antiossidanti, da cui evidentemente sono fortemente
dipendenti.
Nella tabella n. 3 sono riportati i dati relativi al tenore in acidi grassi
polinsaturi (PUFA) della serie omega-6 ed omega-3. Come è
possibile evincere dalla tabella, anche se i valori assoluti non sono
molto elevati, risulta ottimale il rapporto omega-6:omega-3,
significativamente al di sotto del valore soglia di 5:1. I dati
dimostrano come da valori baseline di 7,5:1 (all’inizio del progetto), il
rapporto sia sceso e si sia stabilizzato su valori compresi tra 2,48 e
3,31, che certamente si possono definire ottimali.
Nelle tabelle n. 4 e n. 5 sono riportati i dati (ancorché poco
rappresentativi), relativi a campioni di latte di “Alta qualità” prelevati
presso alcune aziende molisane. Si può rilevare come a dei tenori in
grasso certamente ragguardevoli, corrispondano tenori in PUFA
alquanto eterogenei, ma soprattutto il rapporto omega-6:omega-3
risulta molto elevato rispetto a quello riscontrato nel latte nobile,
oscillando tra 6,67 e 11,25, ben oltre il valore soglia di 5:1.
E’ verosimile che tali differenze siano riconducibili ai diversi regimi
alimentari delle bovine, che negli allevamenti considerati avevano un
rapporto concentrati/foraggi su valori di 60 : 40.
Dalla tabella n. 7 è possibile rilevare come la scarsa presenza di
foraggi nella razione delle lattifere incida negativamente sul tenore in
composti antiossidanti nel latte di “Alta qualità” e, di conseguenza,
anche sui valori del GPA. Questi dati dimostrano che per ottenere un
123
latte nobile è fondamentale un regime alimentare delle bovine basato
sulla preponderanza dei foraggi.
Considerazioni conclusive I dati ottenuti nel corso dello studio dimostrano che si può produrre
un Latte nobile con un corretto management dell’allevamento e con
una alimentazione in gran parte basata sui foraggi e rispettosa della
fisiologia e del biochimismo ruminale. Inoltre appare evidente che a
parità di tenore in grasso, la differenza tra i latti risiede nel contenuto
in sostanze antiossidanti e nella composizione acidica, soprattutto
per quanto riguarda il rapporto omega-6:omega-3, per cui il concetto
della qualità si sposta dal parametro qualità a quello di un corretto
equilibrio dei vari costituenti, in particolare acidi grassi polinsaturi e
antiossidanti quali tocoferoli e beta-caroteni. Questi ultimi trovano la
loro fonte primaria nei foraggi e possono contenere
significativamente i processi ossidativi del colesterolo.
Se gli integratori a base di omega-3 e di antiossidanti rappresentano
la risposta “chimica” per un’alimentazione moderna, il Latte nobile ne
rappresenta la via naturale.
Data prelievo Umidità Proteine% Grasso % Ceneri% Lattosio % pH Densità
07.02.13 86,82± 0,03 3,38 ± 0,01 4,2 ± 0,02 0,80 ± 0,01 4,8 6,63 1.030
14.01.14 86,63 ± 0,19 3,57 ± 0,02 4,30± 0,20 0,80 ± 0,02 4,7 6,6 1.030
12.02.14 86,49 ± 0,23 3,65 ± 0,30 4,35± 0,07 0,81 ± 0,01 4,7 6,68 1.031
14.04.14 86,30 ± 0,21 3,80 ± 0,07 4,40± 0,14 0,80 ± 0,00 4,7 6,64 1.030
09.06.14 86,46 ± 0,11 3,70 ± 0,4 4,34± 0,22 0,80 ± 0,02 4,7 6,66 1.031
Tab.1: Composizione centesimale di campioni di latte di massa (Latte Nobile) dell’azienda Di Vaira
Data prelievo μg/ml di latte μg/100g di grasso GPA
09.03.14
β-carotene 19.50 ±0,21 437,50±5,1
α-tocoferolo 130,30±1,70 3080,72 ±21,3
13-cis-retinolo 22,60 ±0,12 532,2± 17,1
Trans-retinolo 22,10 ±1,50 540,54± 18,2
Colesterolo mg/ml 10,9±0,10 _ 18,57
14.04.14
β-carotene 18.70 ±0,11 419,55±3,1
α-tocoferolo 121,50±1,70 2862,66 ±13,1
13-cis-retinolo 21,7 0±0,09 511,00± 14,3
Trans-retinolo 22,10 ±1,50 535,65± 16,2
Colesterolo mg/ml 10,7±0,8 _ 17,7
Tab. 2: Contenuto in antiossidanti nel latte di massa (Latte Nobile)
dell’azienda Di Vaira
β-carotene: range letteratura 3,4-29,0 µg/100ml (Lucas et al., 2006)
α- tocoferolo: range letteratura 16,9-143,7 µg/100ml (Lucas et al.,2006)
trans-retinolo: range letteratura 15,6-29,2 µg/100g (Panfili et al., 2006)
125
Data prelievo μg/ml di latte μg/100g di grasso GPA
06.05.14
β-carotene 20,20 ±0,13 453,20±5,2
α-tocoferolo 132,3±2,30 3113,08 ±11,7
13-cis-retinolo 21,7 ±0,09 511,0± 14,3
Trans-retinolo 23,3 ±1,90 548,67± 10,2
Colesterolo mg/ml 10,9±0,11 _ 18,9
09.06.14
β-carotene 21,70 ±0,10 486,85±6,1
α-tocoferolo 139,3±1,90 3066,01 ±9,2
13-cis-retinolo 22,2 ±1,03 522,77± 10,6
Trans-retinolo 23,8 ±1,20 560,44± 8,9
Colesterolo mg/ml 10,7±0,20 _ 20,32
Tab. 2: Contenuto in antiossidanti nel latte di massa (Latte Nobile)
dell’azienda Di Vaira
β-carotene: range letteratura 3,4-29,0 µg/100ml (Lucas et al., 2006)
α- tocoferolo: range letteratura 16,9-143,7 µg/100ml (Lucas et al.,2006)
trans-retinolo: range letteratura 15,6-29,2 µg/100g (Panfili et al., 2006)
Campione media Ac. linoleico ω6 Ac. linolenico ω3 ω6 : ω3
07.02.13 media 2,12±0,04 0,28±0,01 7,5
13.03.13 media 1,87±0,02 0,36±0,01 5,2
17.05.13 media 1,71±0,03 0,38±00,0 4,5
03.06.13 media 1,73±0,04 0,41±0,04 4,2
18.07.13 media 1,53±0,09 0,46±0,04 3,2
02.09.13 media 1,60±0,00 0,63±0,00 2,54
03.10.13 media 1,43±0,04 0,52±0,01 2,75
05.11.13 media 1,52±0,06 0,60±0,01 2,53
10.12.13 media 1,57±0,03 0.55±0,01 2,85
14.01.14 media 1,47±0,03 0,59±0,00 2,49
12.02.14 media 1,59±0,02 0,48±0,01 3,31
09.03.14 media 1,49±0,01 0,51±0,00 2,92
14.04.14 media 1,53±0,02 0,49±0,02 3,12
06.05.14 media 1,62±0,00 0,62±0,01 2,6
09.06.14 media 1,59±0,01 0,64±0,02 2,48
Tab. 3: Contenuto in omega-6 e omega-3 in campioni di latte di massa
(Latte Nobile) dell’azienda Di Vaira
Data prelievo Umidità Proteine% Grasso % Ceneri% Lattosio % pH Densità
17.12.13* 87,4 ± 0,37 3,60 ± 0,07 4,10 ± 0,07 0,74 ± 0,01 4,2 6,55 1.031
14-01-14* 87,6 ± 0,37 3,20 ± 0,01 3,90 ± 0,12 0,72 ± 0,01 4,6 6,52 1.030
10.02.14* 86,72 ± 0,01 3,30± 0,40 4,60 ± 0,26 0,78 ± 0,01 4,6 6,61 1.030
21.03.14** 87,50 ± 0,08 3,2 0± 0,10 4,3 0± 0,13 0,70 ± 0,01 4,3 6,56 1032
24.04.14*** 87,60 ± 0,13 2,70 ± 0,03 4,60 ± 0,15 0,63 ± 0,03 4,5 6,6 1.031
Tab. 4: Composizione centesimale di campioni di latte di Alta Qualità di aziende molisane (* azienda A; **
azienda B; ***azienda C) utilizzati come confronto con il Latte Nobile
127
Bibliografia
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Dietetics, 114, 1, 136-153.
Campione Ac. linoleico ω6 Ac. linolenico ω3 ω6/ ω3
17.10.13 media* 3,15±0,03 0,28±0,00 11,25
14.01.14 media* 2,88±0,08 0,31±0,03 9,29
10.22.14 media* 2,95±0,18 0.31±0,01 9,51
21.03.14 media** 2,30±0,04 0,40±0,01 5,75
24.04.14 media*** 3,20±0,08 0,48±0,01 6,67
Tab. 5 : Contenuto in omega-6 e omega-3 in campioni di latte di Alta qualità di
aziende molisane (*azienda A; **azienda B; *** azienda C)
Re R., Pellegrini N., Proteggente A., Pannala A., Yang M., Rice-
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129
Il Latte Nobile delle Alpi piemontesi come
strumento per migliorare la competitività
delle aziende agricole montane: primi risultati
Giampiero Lombardi, Luca Battaglini, Paolo Cornale, Carola
Lussiana, Vanda Malfatto, Antonio Mimosi, Massimiliano Probo,
Simone Ravetto Enri, Manuela Renna
Università degli Studi di Torino
Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari
Lucia Decastelli, Sara Astegiano, Alberto Bellio, Daniela Manila
Bianchi, Silvia Gallina, Grazia Gariano
Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte,
Liguria e Valle d'Aosta
Premesse Nelle montagne piemontesi la superficie agricola utilizzabile è per il
90% circa costituita da prato-pascoli permanenti e pascoli
(187000 ha; ISTAT, 2013). Essi sono utilizzati da 7.800 aziende
agricole, 3.000 delle quali dedite all’allevamento di bovini e, tra esse,
il 50% dedite all’allevamento di vacche da latte. Queste ultime
ammontano a circa 19.300 (Sistema Piemonte, 2009) e
corrispondono al 10% del patrimonio bovino regionale. Le bovine
allevate in tali aziende forniscono il 9% della produzione regionale di
latte, quasi completamente trasformato in circa 2800 t anno-1
di
prodotti caseari (oltre l’80% della produzione casearia piemontese;
Brun et al., 2005), mentre la produzione di latte destinato al consumo
diretto, in termini quantitativi e di impatto economico, è al momento
poco rilevante.
Anche in Piemonte è però in continua crescita l’interesse verso il
latte alimentare proveniente da allevamenti estensivi, quali sono
quelli montani. I consumatori sono alla ricerca di un latte il più
possibile simile a quello che esce dalla mammella della bovina,
come testimoniato dalla diffusione dei distributori di latte crudo, il cui
successo non dipende esclusivamente dal più ridotto costo per litro.
Inoltre il latte di allevamenti non intensivi nei quali è più rispettata la
fisiologia dell’animale, gode presso i consumatori di un’immagine di
naturalità ed evoca il ricordo della tradizione. Da parte dei produttori
la riscoperta dell’interesse verso la produzione di latte per il consumo
diretto è legata alla necessità di differenziare le produzioni al fine di
far fronte alle fluttuazioni della domanda di prodotti tipici, contrastare
la riduzione dei prezzi all’ingrosso, che talora scendono sin sotto il
punto di equilibrio tra costi e ricavi per effetto di disponibilità di
prodotto spesso superiori alla domanda (almeno stagionalmente),
ridurre il capitale immobilizzato sotto forma di formaggio nelle celle di
stagionatura, ridurre l’onerosità delle lavorazioni, soprattutto nei
momenti di picco della produttività della stalla, e disporre di un bene
primario di largo consumo che richiami il consumatore presso il
punto vendita, spingendolo ad acquistare anche altri prodotti.
Tuttavia, tanto le esigenze dei produttori quanto le aspettative dei
consumatori possono essere soddisfatte solo con difficoltà
nell’attuale situazione del comparto latte. Infatti il latte, come bene
primario, ha sul mercato un valore che dipende in larga parte dalla
quantità e solo in piccola parte da parametri qualitativi (grasso,
proteine, carica batterica e cellule somatiche), che non sono quasi
mai l’espressione di una qualità nutrizionale. Quest’ultima invece può
variare molto in funzione dell’alimentazione degli animali produttori,
della loro razza, delle condizioni di allevamento e mungitura, dei
processi di lavorazione attuati dopo la mungitura, ecc. (Chilliard et
al., 2007; Dewhurst et al., 2006). In particolare la ricerca ha
evidenziato che l’alimentazione delle bovine con foraggi freschi o
con foraggi conservati secchi da prati polifiti (fieni) è in grado di
conferire al latte un profilo in acidi grassi, vitamine e molecole
antiossidanti più favorevole per l’alimentazione e la salute umana
rispetto al latte di animali alimentati a unifeed, insilati o mangimi
(Van Dorland et al., 2006). Il latte ottenuto impiegando soprattutto
131
erba fresca e foraggi provenienti da prato-pascoli a elevata
biodiversità si propone quindi come mezzo sia per superare le
difficoltà del mercato, sia per migliorare la dieta e la salute di chi lo
consuma.
In questo contesto il marchio Latte Nobile nasce nell’Appennino
campano con l’obiettivo di promuovere un modello di produzione del
latte alimentare che parte dal presupposto che il latte prodotto da
animali alimentati prevalentemente a fieno e erba ha caratteristiche
intrinseche che lo rendono riconoscibile e superiore sotto il profilo
nutrizionale e salutistico da quello normalmente presente in
commercio. Tale modello ha già trovato applicazione in diverse
regioni del centro e sud Italia, ma finora non è stato adottato nelle
regioni temperate. In questo lavoro sono presentati i primi risultati del
progetto Làit Real, finanziato nell’ambito del Programma di Sviluppo
Rurale 2007-2013 di Regione Piemonte, che mira ad adattare il
modello proposto alla realtà montana piemontese che, rispetto a
quella campana, presenta evidenti differenze di sistemi di
allevamento e gestione delle bovine, caratteristiche delle risorse
foraggero-pastorali utilizzate, razze animali allevate e relativo
potenziale produttivo.
Le filiere del Latte Nobile in Piemonte Le imprese potenzialmente interessate alla produzione di Latte
Nobile in Piemonte sono sostanzialmente organizzate secondo due
filiere: una che fa riferimento ad aziende agricole in grado di
eseguire in proprio i processi di lavorazione e di commercializzare
direttamente il latte e una con aziende che conferiscono la propria
produzione a imprese casearie di trasformazione, quali caseifici
industriali o caseifici cooperativi, per la lavorazione in forma
associata. Per entrambe le tipologie, il progetto ha valutato tutte le
fasi della filiera, dalle risorse alimentari utilizzate per l’allevamento, al
prodotto finito ed è stata verificata la risposta dei consumatori nei
confronti del prodotto stesso. Le attività hanno coinvolto due imprese
in provincia di Torino (piccoli allevamenti riconducibili al primo tipo di
filiera) e tre in provincia di Vercelli (due piccoli allevamenti e il
caseificio cooperativo al quale essi conferiscono).
La base delle filiere: risorse foraggere ad alta
biodiversità ed estremamente diversificate La vegetazione destinata alla produzione di fieno per l’alimentazione
in stalla e/o al pascolamento delle vacche da latte è stata
caratterizzata in termini di composizione e potenzialità foraggera.
L’analisi dei dati provenienti da 156 rilievi effettuati con il metodo
fitopastorale (Daget e Poissonet, 1972) su 200 ha di prato-pascoli
delle quattro aziende ha consentito di riconoscere 15 differenti tipi di
vegetazione. Quelli maggiormente rappresentati sul territorio sono a
Festuca gr. rubra e Agrostis tenuis (28% della superficie), a
Brachypodium rupestre (13%) e a Bromus erectus (10%). Nel primo
caso si tratta di una vegetazione fertile e fresca tipica dei pianori,
delle pendici moderate e degli alti fondovalle. Gli altri due tipi sono
tipici dei ripidi versanti esposti a Sud, soggetti a forti escursioni
termiche, a importanti variazioni della disponibilità idrica e con
moderata disponibilità di nutrienti del suolo. Tutti i tipi sono
caratterizzati da un’elevata biodiversità: complessivamente sono
state rilevate circa 340 diverse specie vegetali, peraltro in ambienti
tra loro simili, e una media di 27 specie per rilievo (con un massimo
di 51 in un brachipodieto del piano subalpino). Di ogni tipo sono state
valutate la produttività e la qualità foraggera, determinate sia con
analisi chimico-bromatologiche, sia con il Valore Pastorale (VP), un
indice che consente di esprimere un giudizio sintetico sul potenziale
foraggero ed è in grado di stimare in modo accurato la qualità e la
produttività della vegetazione complessa. I fieni e l’erba di pascolo
con i quali gli animali sono alimentati sono in media di buona qualità
(VP medio 31), oltre che ricchi di specie (soprattutto dicotiledoni).
Dal foraggio al latte: le vacche e la loro dieta Nelle quattro aziende zootecniche del progetto sono allevati da 20 a
45 capi di diverse razze (Valdostana Pezzata Rossa, Grigio Alpina,
Bruna Alpina, Montbéliarde, Abondance). Di questi 15-35 sono in
133
lattazione e producono quotidianamente 15-20 kg per capo di latte
(20-27 kg al momento del picco di lattazione), corrispondenti a 4000-
6000 kg per lattazione. Nel periodo invernale queste produzioni sono
ottenute con una razione prevalentemente composta da fieno, con
limitate integrazioni a base di mangime e/o materie prime (mais,
orzo) in quantità inferiore al 20% s.s.. Nel periodo estivo di alpeggio
le bovine si alimentano esclusivamente al pascolo o talora con
limitate integrazioni a base di mangime e/o materie prime. Nel
periodo primaverile di passaggio da alimentazione secca a verde si
verifica una contemporanea assunzione di foraggi conservati ed erba
di pascolo aziendale di fondovalle (in varie proporzioni e con o senza
integrazioni, a seconda dell’azienda). Nel periodo autunnale si
verifica nuovamente una contemporanea assunzione di foraggi
conservati ed erba di pascolo aziendale di fondovalle, per il
passaggio da alimentazione verde ad alimentazione secca invernale.
Il latte: qualità microbiologiche e nutraceutiche Del latte prodotto dalle bovine delle quattro aziende sono stati
valutati i parametri generali di qualità per verificare il rispetto dei limiti
fissati dalla normativa europea vigente (Reg. CE 853/2004). In
particolare sono state valutate la carica batterica totale e le cellule
somatiche del latte crudo. Questi due parametri sono utilizzati come
indicatori rispettivamente delle condizioni igieniche di allevamento,
mungitura e conservazione del latte e delle condizioni sanitarie della
mammella. La normativa nazionale, inoltre, fissa alcuni parametri
merceologici (tenore in grasso e proteine) che vengono utilizzati
come indicatori di qualità del latte in termini di valori nutritivi. Le
aziende sono state monitorate durante tutto il periodo in cui hanno
prodotto latte alimentare, in particolare sono stati eseguiti almeno
due prelievi al mese di latte massale. Al fine di valutare la salubrità
del prodotto è stata valutata l’assenza di aflatossina M1 e di
microrganismi patogeni quali Salmonella spp., Lysteria
monocytogenes, Escherichia coli verocitotossici, Campylobacter
termofili e stafilococchi coagulasi positivi. I risultati ottenuti hanno
mostrato il rispetto dei limiti fissati per i parametri indicatori di igiene
e di stato sanitario della mammella. Nella maggior parte dei casi i
parametri merceologici hanno mostrato valori superiori a quelli fissati
per il latte Alta Qualità. Tutti i campioni di latte crudo analizzati sono
risultati negativi alla ricerca di aflatossina M1 e dei microrganismi
patogeni, mentre hanno mostrato livelli accettabili di stafilococchi
coagulasi positivi.
Dato che il regime alimentare ha un effetto rilevante sulla
composizione della materia grassa del latte, per le quattro aziende è
stato determinato il profilo completo in acidi grassi del latte massale
nei diversi periodi dell’anno. La composizione in acidi grassi del latte
è stata determinata tramite analisi gascromatografica (Renna et al.,
2012) e i dati ottenuti sono stati trattati statisticamente mediante
analisi della varianza al fine di individuare le differenze tra periodi. A
titolo di confronto le stesse analisi sono state effettuate anche per
campioni dei principali tipi di latte reperibili presso la grande
distribuzione.
Nel periodo estivo (figura 1) il Latte Nobile presenta le maggiori
concentrazioni medie di acidi grassi polinsaturi della serie omega-3 e
di acido linoleico coniugato (CLA). Rispetto al latte invernale, anche
il latte prodotto in primavera e autunno presenta concentrazioni
mediamente più elevate di omega-3 e CLA. Questi risultati
dipendono senza dubbio dall’impiego di erba nella razione delle
bovine (Couvreur et al., 2006). Rispetto al Latte Nobile del periodo
estivo, la concentrazione degli stessi acidi nel latte commerciale è
mediamente 3-4 volte inferiore e comparabile a quella del Latte
Nobile prodotto in inverno. Nel Latte Nobile il rapporto tra acidi grassi
polinsaturi delle serie omega-6 e omega-3 (PUFA n6/PUFA n3),
nonché il rapporto tra acido linoleico e acido α-linolenico (LA/ALA),
non variano significativamente in funzione della stagione e si
avvicinano a valori auspicabili da un punto di vista nutrizionale e
salutistico (1:1–4:1), che erano tipici delle diete dei nostri
predecessori (Simopoulos, 2011). Il latte in commercio invece ha
rapporti decisamente meno favorevoli (3.82-5.50).
135
Il latte dalla stalla al consumatore: nasce Nobile ma… … solo con un trattamento termico, un imbottigliamento e una
conservazione adeguati conserva tutte le qualità nutrizionali che
derivano dalla particolare alimentazione delle vacche. Per definire le
lavorazioni che meno alterano le caratteristiche del latte nel corso
del progetto sono stati verificati gli effetti di diversi tempi e
temperature di pastorizzazione, utilizzando come indicatore
parametri microbiologici (Enterobatteriaceae: < 10 ufc/mL) ed
enzimatici (Fosfatasi alcalina: negativa; Perossidasi: positiva). La
pastorizzazione a bassa temperatura e per un tempo prolungato
consente di ottenere un prodotto sicuro e idoneo alla
commercializzazione come latte Alta Qualità secondo la vigente
normativa. Il latte è stato imbottigliato utilizzando diversi tipi di
Figura 1 – Contenuto di acidi grassi del
latte (PUFA: acidi grassi polinstaturi; LA:
acido linoleico; ALA: acido α-linolenico;
CLA: acido linoleico coniugato).
Valori espressi in g/100 g di grasso.
Lettere uguali identificano trattamenti tra
loro non significativamente differenti.
bottiglia (vetro e PET) e diverse temperature di imbottigliamento e
sono state monitorate nel tempo la carica batterica psicrofila e
mesofila. Questi batteri, se presenti in cariche elevate, possono
determinare alterazioni organolettiche in termini di gusto, odore e
aspetto limitando la vita commerciale del prodotto (shelf-life). I
risultati ottenuti evidenziano come tali parametri sono inferiori ai limiti
considerati accettabili, durante l’intera shelf-life dichiarata dal
produttore, nonostante le bottiglie siano state conservate ad una
temperatura di leggero abuso termico (+ 8°C).
Le risposte dei consumatori Nella proposta di un nuovo prodotto, quale il Latte Nobile in
Piemonte, la capacità dei consumatori di percepire le differenze
rispetto a prodotti simili normalmente disponibili in commercio è un
elemento fondamentale per il successo del prodotto stesso. Con
l’obiettivo di valutare tale capacità, nell’ambito del progetto sono
state organizzate due giornate dedicate alle valutazioni sensoriali.
Due differenti panel non addestrati di circa 120 persone ciascuno
hanno effettuato oltre 450 test triangolari di confronto tra campioni di
latte pastorizzato delle quattro aziende partecipanti al progetto e
campioni di un latte Alta Qualità proveniente dalla grande
distribuzione. Tra i campioni proposti anonimamente l’88% degli
assaggiatori ha correttamente individuato il Latte Nobile, al quale
sono stati attribuiti maggiori intensità del gusto, persistenza,
freschezza e sapidità rispetto al latte di riferimento, oltre a note
lattiche, animali, di burro e di crema più intense.
Conclusioni Gli allevamenti piemontesi estensivi dispongono di foraggi con una
composizione diversificata, un’elevata diversità specifica e, in
generale, una buona qualità foraggera. Tutti questi aspetti sono ben
valorizzabili soprattutto attraverso il pascolamento che consente di
ottenere un latte con valori nutrizionali indiscutibilmente superiori a
quello prodotto da sistemi intensivi. Grazie all’abilità degli allevatori si
ottiene un latte di ottima qualità non solo nutrizionale, ma anche
137
igienica e queste qualità possono essere conservate per diversi
giorni dopo la vendita del prodotto confezionato con semplici
pratiche in fase di lavorazione. Esse sono adottabili anche in aziende
o caseifici di piccole dimensioni, cioè anche senza impiego di
impianti di pastorizzazione-imbottigliamento di tipo industriale.
La conclusione delle attività del progetto Làit Real permetterà di
ottenere maggiori informazioni in merito alle diverse fasi delle filiere
e di valutare gli effetti della variabilità stagionale. I risultati ottenuti
evidenziano fin da ora la possibilità di utilizzare la produzione del
Latte Nobile come strumento per aumentare la competitività e
diversificare le produzione delle aziende di montagna. Inoltre i
modelli che saranno messi a punti per le zone montane potranno,
dopo adeguate verifiche, essere trasferiti anche ad altri allevamenti
gestiti estensivamente.
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27-43
139
Una proposta di misurazione della qualità del
fieno
F. Infascelli, S. Calabrò, Monica I. Cutrignelli, R. Tudisco, M.
Grossi, P. Lombardi
Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni animali
Università di Napoli Federico II
L’aumento delle produzioni unitarie nel comparto bovino da latte,
oltre che frutto del miglioramento genetico, è ascrivibile all’adozione
di piani alimentari caratterizzati da basso rapporto
foraggi/concentrati. Tali diete, tuttavia, per l’influenza negativa
esercitata sul benessere animale, sono ritenute responsabili dello
scadimento qualitativo delle derrate e del peggioramento del ritmo
riproduttivo. Il disciplinare di produzione del latte Nobile prevede,
invece, diete con rapporti foraggi/concentrati pari a 70/30 ed
eliminazione degli insilati; risulta evidente quindi che, per soddisfare i
fabbisogni nutritivi degli animali, è necessario disporre di ottime
risorse foraggiere. In merito, nell'ambito delle attività previste dal
protocollo di collaborazione tra la Cattedra di Nutrizione e
Alimentazione animale del Dipartimento di Medicina Veterinaria e
Produzioni Animali dell'Università Federico II di Napoli e i promotori
del Progetto Nobilat, si è ritenuto utile lavorare su diversi aspetti. In
primis si è pensato di fornire agli allevatori e ai tecnici una scheda di
facile interpretazione (figura 1) per operare una valutazione di campo
dei fieni.
Figura 1 - Scheda Valutazione Fieno (punti)
1) Colore
Marrone scuro: 2; Marrone chiaro: 5; Giallo paglierino: 6;
Verde chiaro: 7; Verde: 8; Verde intenso: 10
2) Numero di essenze presenti
da 1 a 3: max 3 da 4 a 7: max 7; da 8 a 10: max 10
3) Polvere
Assenza: 10; poca: 8-9; media: 5-7; molta: 1-4
4) Valutazione tattile
Morbido: 8-10; croccante: 5-7; rigido: 1-4
5) Valutazione flaoviur
odore di fresco: 8-10; odore medio: 5-7; odore scarso: 1-4
6) Rapporto Graminacee/Leguminose
50/50: 10; 60/40: 8; 70/30: 6; 80/20: 4; 100/0: 2; 0/100: 5
7) Fogliosità
scarsa: 1-3; media: 4-6; molto foglioso: 7-10
Valutazione totale punti: ____________
Valutazione di Campo Nel corso degli ultimi due anni, le schede sono state utilizzate
sempre dallo stesso panel di operatori in diverse aziende
zootecniche delle province di Avellino e Benevento. Nelle tabelle 1 e
2 vengono riportate le correlazioni significative ritrovate tra i diversi
parametri della scheda e i valori di alcune caratteristiche chimiche
determinate presso i nostri laboratori (AOAC, 2000; Van Soest et al.,
1991) di fieni polifiti prodotti nelle due province.
141
Tabella 1. Correlazioni parametri scheda/composizione chimica (Avellino)
Ceneri PG NDF PG/NDF
colore 0.6507* 0.8171* -0.6551* 0.8106*
essenze 0.1955 0.4556 -0.3720 0.4804
polvere -0.0351 0.3213 0.0825 0.1980
tattile 0.6733* 0.6377* -0.3423 0.5809*
odore 0.0109 0.4724 -0.1723 0.4202
L/G 0.7693* 0.5322 -0.8442* 0.6975*
fogliosità 0.9324 0.8283 -0.8119 0.9595
Totale 0.7874 0.8283 -0.7193 0.8595
* P<0.05
Tabella 2. Correlazioni parametri scheda/composizione chimica,
(Benevento)
Ceneri PG NDF PG/NDF
colore -0.0797 -0.3048 0.6324* -0.4387
essenze 0.2932 -0.3729 0.4354 -0.4457
polvere 0.4609 0.1067 -0.0220 0.0755
tattile -0.3570 -0.2287 0.4004 -0.3545
odore 0.1966 -0.1410 -0.0184 -0.1385
L/G 0.5628 0.5322 -0.6331 0.5175
fogliosità -0.3518 -0.4115 -0.4625 0.9776*
Totale 0.0906 -0.4115 0.5780* -0.5315
* P<0.05
Come si evincere dalla lettura delle tabelle, mentre per la provincia di
Avellino buona parte dei parametri soggettivi è risultato correlato con
le caratteristiche chimiche, per Benevento soltanto per il colore e la
fogliosità dei fieni sono stata trovate correlazioni significative,
rispettivamente con il contenuto di NDF e con il rapporto protidi/NDF.
Il non soddisfacente risultato di Benevento e soprattutto le differenze
tra le due province, ci ha indotto ad apportare alcune modifiche alla
scheda impiegata che sono attualmente in corso di effettuazione.
Indice di metanogenicità Un altro aspetto su cui si è ritenuto utile indagare – e che vuole
essere la proposta di cui al titolo della presente relazione - è
rappresentato dalla misurazione del metano di origine ruminale
prodotto dall'impiego di diversi fieni, consci che la produzione di
questo gas oltre a diminuire l’efficienza di utilizzazione dell’energia
dell'alimento, rappresenta un problema ambientale e la sua riduzione
rientra nelle finalità delle produzioni zootecniche eco-sostenibili,
quale il latte Nobile si prefigge di essere. Il metano, infatti, è
responsabile del 20% dell'incremento dell'effetto serra (Moss, 1993).
A confronto dell’anidride carbonica, la sua presenza in atmosfera è
molto inferiore; tuttavia, il metano ha un potenziale di riscaldamento
globale 23 volte superiore. In particolare, la quota derivante dagli
allevamenti è considerata, significativa: autori diversi hanno stimato
che il metano prodotto dai microrganismi ruminali incide con
percentuali comprese tra 7.4 e 23.3%. L’energia per la crescita
microbica in ambienti anaerobi deriva dall’ossidazione dei substrati,
con trasferimento di elettroni ad accettori finali diversi dall’ossigeno
molecolare e spesso derivati dagli stessi substrati. Nel rumine i
principali prodotti che ne derivano sono gli acidi grassi volatili ed il
metano. L’energia ancora disponibile nel metano può essere liberata
da un’ossidazione, con il trasferimento degli equivalenti riducenti
all’O2. La produzione e l’eliminazione del metano dunque se da un
lato concorre a mantenere condizioni ossidative in un ambiente
anaerobio attraverso la riossidazione dei cofattori trasportatori di
elettroni, come il NADH, il FADH2 e la ferredossina, dall’altro
rappresenta una perdita di energia per il ruminante (dal 2 al 12% in
funzione del rapporto foraggio/concentrato). I responsabili della
metanogenesi sono degli archeobatteri, gruppo di microrganismi
unico dal punto di vista filogenetico caratterizzati da lento sviluppo e
stretta anaerobiosi. I metanogeni nell’ecosistema ruminale
143
rappresentano uno dei passaggi conclusivi della catena di
degradazione dell’alimento, di cui sono responsabili tre differenti
gruppi di microrganismi:
1° stadio – degradazione dei polisaccaridi: dovuto all’azione di batteri
che idrolizzano cellulosa, emicellulose, pectine, amido e altri polimeri
a mono ed oligosaccaridi, successivamente metabolizzati ad acidi
grassi volatili, idrogeno, anidride carbonica e alcoli;
2° stadio – produzione di idrogeno molecolare: ne sono responsabili i
batteri acetogenici (degradano i prodotti del primo stadio in acido
acetico, idrogeno ed in alcuni casi in anidride carbonica), i protozoi e
i miceti che possiedono gli idrogenosomi.
3° stadio – metanogenesi: i batteri metanogeni utilizzano i prodotti
ottenuti nei primi due stadi, soprattutto idrogeno e anidride
carbonica.
I tre stadi risultano strettamente collegati tra di loro: l’efficienza
metabolica di un gruppo dipende da quella degli altri due. Gli
zuccheri semplici derivati dalla degradazione dei polisaccaridi,
attraverso la glicolisi sono trasformati in piruvato che occupa una
posizione chiave da cui prendono avvio reazioni chimiche che
differiscono sia per le specie batteriche anaerobiche coinvolte sia per
le differenti condizioni ambientali di crescita delle popolazioni
ruminali. Il piruvato può essere metabolizzato ad acetato, anidride
carbonica, idrogeno, oppure a butirrato o etanolo o ancora a
propionato tramite lattato e succinato. Parte del propionato, degli
acidi grassi a catena lunga e degli acidi aromatici vengono ossidati
anaerobicamente fino ad acetato oppure ad acetato e anidride
carbonica, o formiato, a seconda dei diversi substrati. I metanogeni
utilizzano come substrato principalmente idrogeno molecolare e
anidride carbonica, secondo la seguente equazione: 4 H2 + CO2 →
CH4 + 2 H2O. Essi, tuttavia, sono anche in grado di utilizzare
formiato ed altri precursori di minore importanza, come l’acetato e
gli alcoli primari a catena corta, fra cui il metanolo che si forma nella
degradazione delle pectine, e l’n-butanolo. Il formiato può essere
utilizzato dai batteri metanogeni direttamente o previa degradazione
ad anidride carbonica ed idrogeno da parte di altri batteri. In vitro, gli
alcoli primari di basso peso molecolare (fino all’n-butanolo) e
soprattutto il metanolo, possono essere efficienti donatori di elettroni
nella metanogenesi, ma in vivo, mano a mano che la digestione della
pectina procede, il metanolo tende piuttosto ad accumularsi e
l’etanolo a donare i propri elettroni nella sintesi di acidi grassi volatili.
Il Methanobacterium subossidans ossida il butirrato ad acetato in
presenza di anidride carbonica e idrogeno molecolare, formando
contestualmente CH4: 2 butirrato + CO2 + 2 H2 → 4 acetato +
CH4
Non solo il metano non è utilizzabile per il metabolismo dell’animale
ospite, ma la metanogenesi e la produzione di acidi grassi volatili
sono antagoniste. I principali meccanismi responsabili
dell’eliminazione di metano sono due: il primo legato alla quantità di
carboidrati della dieta che fermentano nel reticolo-rumine ed al
rapporto tra questa e la velocità di passaggio dell’alimento. Il
secondo meccanismo regola la disponibilità di idrogeno e la
conseguente produzione di metano dagli AGV. E’ principalmente il
rapporto acetico/propionico (A/P) ad influenzare la produzione di
metano; generalmente A/P è compreso tra 0.9 e 4. Diversi fattori
esogeni intervengono nella regolazione della produzione di metano:
l’ingestione di alimento, il tipo di carboidrati ingeriti, i foraggi
somministrati, l’aggiunta di lipidi alla razione, la manipolazione della
microflora. Il tipo di carboidrati fermentati influenza la produzione di
metano principalmente attraverso l’impatto che essi hanno sul pH
ruminale e sulla popolazione microbica. La fermentazione dei
carboidrati della parete cellulare produce più acetato rispetto al
propionato e quindi più metano (Moe e Tyrrell, 1979). La
fermentazione dei carboidrati solubili, produce meno metano rispetto
ai carboidrati di struttura e allo stesso amido. Indipendentemente dal
tipo di carboidrati, il metano prodotto diminuirebbe all’aumentare
della sostanza organica fermentata. Moe e Tyrrell (1979) riportano
che, al di fuori di un certo range di ingestione (20.7-22.9 kg s.s./d) la
145
produzione di metano/grammo di cellulosa digerita è pari a 3 volte
quella delle emicellulose e a 5 volte quella della frazione solubile.
Thomson e Lamming (1972) hanno registrato una maggiore
produzione di metano in una dieta a base di cereali combinata con
un fieno grossolano probabilmente perchè la presenza di particelle
più grossolane nel rumine aumenta la velocità di passaggio di quelle
più piccole favorendo così favorendo la produzione di acetato a
scapito del propionato. La gascromatografia risulta il metodo
maggiormente impiegato per misurare la composizione dei gas
prodotti nel rumine. Tra le tecniche in vitro in grado di accumulare
gas durante il processo di fermentazione per poterlo poi iniettare nel
gas cromatografo, quella a nostro avviso maggiormente vantaggiosa
risulta la tecnica della produzione cumulativa di gas (IVGPT)
descritta da Theodorou et al. (1994). Questo sistema si basa sul
presupposto che la fermentazione anaerobica dei carboidrati da
parte dei microrganismi ruminali produce acidi grassi volatili, anidride
carbonica, metano e tracce di H2; quindi la misurazione della
produzione di gas durante la fermentazione in vitro degli alimenti, in
bottiglie da siero, in condizioni di anaerobiosi con un opportuno
inoculo può essere usata per studiare la velocità e l’entità del
processo fermentativo (Calabrò et al., 2001, Calabrò et al., 2009).
Un campione rappresentativo del gas prodotto viene prelevato con
una siringa in vetro a tenuta, munita di un sistema (valvola o
rubinetto) che consente di chiuderne l’uscita una volta prelevato il
gas e conservare il campione al suo interno. Il campione di gas può
essere prelevato direttamente dallo spazio di testa della bottiglia di
fermentazione; assumendo che il campione prelevato ha una
composizione uguale a tutto il gas prodotto. Successivamente, il gas
è iniettato nel gas-cromatografo.
Di seguito vengono discussi i risultati di una prova (Guglielmelli et
al., 2011) che abbiamo effettuato, con la IVGPT, incubando (48 h)
con liquido ruminale bovino quattro campioni di fieno di lupinella
(Onobrychis viciifolia Scop.) raccolti a stadi fenologici diversi - inizio
fioritura con fusti in accrescimento (LUP_1); comparsa
dell’infiorescenza (LUP_2); infiorescenza senza fiori aperti (LUP_3);
fine fioritura con comparsa dei semi (LUP_4) - e un fieno di medica.
Su tutti i campioni, oltre alla composizione chimica (AOAC, 2000;
Van Soest et al., 1991) sono stati determinati i tannini condensati
(CT) poiché diversi autori hanno descritto il ruolo svolto dai tannini
sulla produzione di metano (Woodward et al., 2001; Puchala et al.;
Patra et al., 2005; Waghorn e McNabb, 2003). Il contenuto in
proteine grezze è risultato superiore nel fieno di medica rispetto al
valore medio del fieno di lupinella nel quale esso è andato
diminuendo con l’avanzare dello stadio vegetativo. Trend opposto ha
mostrato il contenuto in NDF (tabella 3).
Tabella 3. Composizione chimica (% s.s.) fieno i lupinella e di medica
LUP_1 LUP_2 LUP_3 LUP_4 Medica
Proteine grezze 21.9 20.7 17.5 12.2 22.6
NDF 39.1 43.3 44.1 51.4 52.3
NSC (carboidrati non strutturali) 28.8 27.2 29.72 28.8 12.8
Mentre sul campione di fieno di medica non sono stati rilevati tannini
condensati, il fieno ottenuto dalla lupinella raccolta ad inizio fioritura
(LUP_1) ha mostrato valori significativamente (P<0.01) più elevati
rispetto a quello da stadi successivi (fig. 2).
147
Figura 2.
Contenuto in
tannini
condensati nel
fieno di lupinella
espresso in CT
eq mg/g
Nel fieno di lupinella, durante le 48 h di incubazione il metano
prodotto in funzione della sostanza organica sia incubata che
degradata è aumentato, sebbene in maniera non significativa, con il
progredire dello stadio vegetativo; per il fieno di medica sono stati
registrati valori minori (20.4 mL g−1
iSO e 39.4 mL g−1
dSO) rispetto
alla lupinella (28.2 mL g−1
iSO and 45.49 mL g−1
dSO) e le differenze
sono risultate significative (P < 0.01) in funzione della SO incubata
(tabella 3). Molto interessante appare la correlazione negativa quasi
significativa (r = −0.932; P = 0.068) tra il contenuto in tannini e la
produzione di metano, che indica una consistente diminuzione di
CH4 all’aumentare del contenuto in CT. Inoltre, nei campioni di
LUP_1 sono state rilevate contestualmente produzioni basse di CH4
ed elevate di AGV, ad indicare che, nonostante una iniziale riduzione
di produzione di gas, non sono avvenute inibizione delle
fermentazioni. Pertanto, in vivo una bassa produzione di metano non
riduce la disponibilità di energia per l’animale. Negli stadi vegetativi
successivi, la relazione tra CT e produzione di CH4 non sembra
altrettanto diretta. La elevata produzione di metano registrata con il
LUP_4 è probabilmente dovuta alla bassa quantità di CT m anche
allo scarsa qualità del fieno. Lovett et al. (2006) riportano una
correlazione positiva tra produzione di CH4 e contenuti in NDF; nella
nostra indagine è stato riscontrato simile trend (r = 0·766)
probabilmente non significativo a causa della numerosità non
sufficientemente elevata dei dati. L’avanzamento dello stadio
vegetativo e la presenza di tannini condensati hanno, in conclusione,
mostrato effetto significativo sulla fermentazione dei carboidrati e la
produzione di metano in vitro. A nostro avviso risulta molto
interessante il fatto che quest’ultima sia risultata inferiore nel LUP_1
(con contenuto in CT significativamente superiore) rispetto ai due
stadi successivi, che hanno mostrata maggiore degradabilità della
sostanza organica. Resta da stabilire entro quale limite di impiego i
tannini, peraltro noti come fattori antinutrizionali, possano avere un
effetto benefico sull’attività dei microrganismi ruminali e quindi sulle
produzioni animali. La tecnica in vitro della produzione cumulativa di
gas, infine, è apparsa strumento utile per la valutazione del valore
nutritivo degli alimenti e per la stima della produzione di metano.
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151
Parte Terza
Nuovi indicatori e
nuovi parametri
153
Essenze foraggere e qualità aromatico-
nutrizionale del latte
Salvatore Claps e Lucia Sepe
Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura
Unità di Ricerca per la Zootecnia Estensiva – CRA-ZOE
Alimentazione dell’animale e qualità del latte Tra i fattori in grado di influire sulla qualità del latte, l’alimentazione
riveste un ruolo fondamentale. Negli ultimi 30 anni, l’equipe del CRA
– ZOE (ex Istituto Sperimentale per la Zootecnia) di Bella (PZ) ha
studiato dapprima il sistema produttivo foraggero, per passare quindi
all’influenza dell’erba e della singola specie sulla qualità nutrizionale
e sensoriale del latte e del formaggio. I risultati qui presentati si
riferiscono soprattutto all’erba allo stato fresco, così come la può
brucare al pascolo l’animale, ma con le opportune riflessioni, li
potremo traslare anche al foraggio affienato.
Quali sono le classi di molecole che caratterizzano il latte? È stato
già accennato nelle pagine precedenti. Ma qual è la loro origine? C’è
un legame diretto o indiretto fra molecole e caratteristiche del latte?
Vediamone alcune un po’ nel dettaglio, mettendole subito in
relazione all’origine e all’influenza sulla qualità del latte.
Legame diretto e indiretto
Ben poche molecole, fra quelle ingerite dall’animale con l’erba, e col
foraggio in generale, passano direttamente dall’apparato dirigente al
latte, attraverso il flusso sanguigno. Fra queste molecole, nei
numerosi studi effettuati sui possibili marcatori di un pascolo o di
un’area specifica, è stato verificato un legame diretto per i caroteni e
per alcuni composti volatili.
I caroteni sono i principali responsabili del colore giallo del latte, che
è direttamente proporzionale al contenuto di caroteni nell’erba e del
foraggio, a parità di specie animale e di razza [a tale riguardo,
ricordiamo che il latte di capra è più bianco di quello ovino o bovino,
per la sua limitata capacità di trattenere il beta-carotene nel latte]. Di
conseguenza, la biodiversità del pascolo o erbaio è fondamentale
per contribuire alla quantità di beta-carotene ingerito. Se, da un lato,
le graminacee sono note come grandi apportatrici di fibra e zuccheri,
e le leguminose sono i carrier privilegiati di proteina, le cosiddette
“Altre”, considerate quasi specie neglette, definite agronomicamente
“infestanti” delle coltivazioni intensive, proprio queste specie sono la
fonte più interessante di “molecole della qualità”.
Oltre alla biodiversità, la stagionalità (periodo di comparsa della
pianta e suo decorso fenologico) gioca un ruolo cruciale nella qualità
del foraggio e quindi del latte. Al ricaccio primaverile ed autunnale,
essa si presenta ricca di acqua e zuccheri, passando ad uno stadio
maturo, latore di fiori, semi e foglie ricche in sali minerali, vitamine e
polifenoli. Avremo così, ad esempio, un latte con un colore più
intenso, con riflessi avorio, da una vacca di razza Pezzata Rossa,
che produce circa 15 litri di latte al giorno e si alimenta su un pascolo
polifita in tarda primavera-inizio estate.
Un altro componente del latte, l’alfa-tocoferolo (precursore della Vit.
E), è influenzato dalla stagione sia in termini di composizione
botanica del pascolo e sia di stadio fenologico delle piante ingerite
(Fig. 1). In un’alimentazione in stalla, a base di unifeed, il contenuto
è pressoché costante nel corso dell’anno, e sempre inferiore rispetto
all’alimentazione al pascolo. Per il consumatore è un vantaggio
questa monotonia o non è meglio credere, come dicono i Francesi,
“Vive la différence”?
155
Fig. 1. Stagione e
alfa-tocoferolo nel
latte
Ponendo a confronto 5 sistemi alimentari, di cui uno in stalla, con
fieno e concentrato (ZG), due al pascolo (collina, GH, e montagna,
GM) e due al pascolo di collina ma con livelli diversi di integrazione
con concentrati (600 e 900 g rispettivamente), è stato osservato che
fino a 600 g di concentrato non peggiorano il contenuto di tocoferolo
nel formaggio, portando il suo livello poco al di sotto di quello del
pascolo di collina; al contrario, 900 g riducono il tocoferolo al di sotto
del sistema alla stalla (Fig. 2). Come a dire che un’adeguata e mirata
integrazione con concentrati è necessaria per non “vanificare”
l’effetto dell’erba sul suo contenuto.
Fig. 2. Alfa-tocoferolo
nel formaggio di capra
da diversi sistemi
alimentari
Passando dall’erba verde allo stato secco (erba affienata) si ha una
perdita di “molecole della qualità”, in percentuale diversa. Si stima,
ad esempio, una perdita del 65-75% delle vitamine. E non solo
quelle. Si ha un calo fino al 50-60% dei composti volatili, detti così
0
200
400
600
800
1000
1200
1400
ZG GH GM G600 G900
g/
100
mg
SS
0,0
50,0
100,0
150,0
200,0
250,0
300,0
Mar
Fin
Apr
In
Mag
In
Mag
Fin
Giu
Met
Giu
Fin
Lug
In
Lug
Met
ug
/100
g
Pascolo
Stalla
perché vengono rilasciati facilmente dal substrato, liberandosi
nell’aria e contribuendo in buona parte all’odore dell’erba e, quindi,
del latte e del formaggio.
Un altro caso di legame diretto fra ingestione e qualità dell’erba e del
latte riguarda alcune molecole volatili, responsabili in gran parte
dell’aroma del latte. Si tratta, ad esempio, dei terpeni (come il
limonene, odore dell’erba tagliata). L’apporto cambia a livello di
singola specie e, in particolare, sono le specie “selvatiche”, come ad
es. la cicoria e l’asperula, che contribuiscono maggiormente al
contenuto di terpeni nel latte (Fig. 3).
Fig. 3. I Terpeni nel latte
variano per effetto della pianta
e della quantità di erba ingerita
Ben più complesso è l’effetto dell’alimentazione quando esiste un
legame indiretto: le piante ingerite dagli animali subiscono delle
trasformazioni ad opera della microflora ruminale durante la
digestione, e influenzano significativamente sia il metabolismo (sono
capaci di fare la differenza fra disequilibrio alimentare o benessere
dell’animale) sia nella composizione del latte, e quindi del formaggio.
Basti pensare al contenuto in fibra, al profilo degli acidi grassi (ac.
linoleico, linolenico, ecc.) o al contenuto in polifenoli o proteine, che
attraverso la lipolisi e la proteolisi, danno luogo al profilo di acidi
grassi del latte e a quelle molecole aromatiche come esteri, aldeidi e
alcoli, che caratterizzano l’odore del latte.
Gli acidi grassi presenti nelle essenze foraggere sono metabolizzati
e bio-idrogenati nel rumine. La bio-idrogenazione, combinata con la
Loietto Cicoria Asperula Caglio giallo 0
50
0
100
0
150
0
200
0
250
0
300
0
350
0
400
0
450
0
Erba
mazzolina
Erba
Latte
Unità
are
a
157
lipogenesi mammaria e l’attività della Δ-9 desaturasi, modifica
considerevolmente il profilo acidico della dieta ingerita dall’animale e,
di conseguenza, la composizione del latte. Nel formaggio entrano in
scena altri protagonisti importanti, i batteri: lattici o caseari, essi
rivestono un ruolo chiave nella caratterizzazione del sapore, della
struttura e dell’odore di un formaggio.
Specie foraggera e qualità nutrizionale del latte
Alla luce delle recenti sperimentazioni, il profilo acidico dell’erba
costituisce un valido strumento per discriminare la qualità del latte
proveniente da diverse specie ingerite.
Fig. 4. Il contenuto
percentuale di ALA (ac. alfa-
linolenico), LA (ac. linoleico) e
ac. palmitico varia in sette
specie da erbaio allo stato
fresco
La composizione acidica del latte varia in modo significativo in
funzione, ad esempio, del contenuto nell’erba dell’acido alfa-
linolenico (Fig. 4). Mettendo a confronto otto essenze foraggere allo
stato fresco (quattro graminacee e quattro leguminose), è stato
osservato il variare del contenuto di omega6 e omega3, e quindi il
loro rapporto (Fig. 5). In generale, le leguminose (erba medica,
ginestrino, veccia) danno luogo ad un rapporto omega6/omega3 nel
latte inferiore al 3.
Contenuto % di ALA, LA e Acido palmitico
0%
20%
40%
60%
80%
100%
Avena
Loiet
to
Med
ica Orzo
Trifog
lio
Tritica
le
Veccia
C16:0
LA
ALA
Fig. 5 e 6. Il latte di capre, alimentate in purezza con ciascuna delle otto specie allo
stato fresco, presenta valori diversi rispettivamente di omega3, omega6 e CLA
Un altro composto, il CLA (acido linoleico coniugato, che
contribuisce alla protezione dallo sviluppo di neoplasie), varia in
base alla specie ingerita, con valori più elevati per orzo e trifoglio
incarnato (Fig. 6). Pur stimando una riduzione del 50% del CLA nel
latte qualora le specie siano ingerite come fieno, un “piatto misto” di
buon fieno contribuisce alla qualità nutrizionale del latte.
Nel corso degli studi, il CRA-ZOE ha collaborato con la compianta
Laura Pizzoferrato dell’ex INRAN (ora CRA-NUT di Roma) per
studiare e validare il Grado di Protezione Antiossidante (GPA),
inteso come la capacità di una sostanza (ad es. l’alfa-tocoferolo del
latte) di proteggere dall’ossidazione un’altra molecola (ad es. il
colesterolo). È stato rilevato che il GPA varia sensibilmente in base
al sistema alimentare e che un’opportuna integrazione può
migliorarne il valore. Ad esempio, nel latte è stato osservato che in
un sistema al pascolo integrato con un concentrato a base di mais e
favino, il GPA è maggiore di quello del solo pascolo (Fig. 7). Come a
dire che non solo la scelta del fieno o del pascolo (quando
disponibile) è determinante per la qualità del latte, ma anche la
scelta del concentrato, in termini di materie prime e la loro qualità
nutrizionale, oltre che alla quantità. A questo punto, non ci sorprenda
sapere quanto è anche più saporito e avvolgente un bicchiere di latte
o un formaggio ottenuto da animali alimentati al pascolo e con
foraggi di qualità!
0
0,5
1
1,5
2
2,5
3
3,5
4
4,5
5
Ave
na s.
Ginest
rino
Lolie
tto
Erb
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ica
Orz
o se
lv.
Trif. I
ncarn
ato
Seg
ale
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cia
Omega-3
omega-6
w6 / w3
0
0,1
0,2
0,3
0,4
0,5
0,6
0,7
0,8
0,9
1
g/1
00
g F
A
Avena Ginestrino Loietto Erba medica Orzo
selvatico
Trif. Incarnato Segale Veccia
159
Fig. 7. Grado di protezione antiossidante del latte di capre allevate secondo quattro sistemi alimentari (S = stalla, P = pascolo, PMF = pascolo + concentrato mais-favino, POC = pascolo + orzo-ceci)
I test sensoriali hanno evidenziato una maggiore “personalità”
olfattiva e gustativa del latte proveniente da animali al pascolo
rispetto al sistema alla stalla, ed un maggiore grado di accettabilità
globale.
Risultati della ricerca consolidati L’esperienza degli allevatori ci raccontava della diversa qualità del
latte e del formaggio se gli animali pascolavano su un prato piuttosto
che un pascolo o mangiavano fieno d’inverno nella stalla. Oggi
quelle affermazioni sono avvalorate da risultati della ricerca ormai
consolidati, e anche se la parola fine non è stata scritta, essi danno
una buona misura di come una specie foraggera arricchisca in
determinate molecole il latte, dando il giusto risalto alla biodiversità e
alla qualità della dieta della lattifera.
E la ricerca della biodiversità, unita a salubrità e qualità nutrizionale
delle produzioni, fanno ormai parte delle aspettative del consumatore
informato di oggi, che sarà disposto a riconoscere il giusto prezzo al
prodotto, contribuendo così ad una filiera zootecnica sempre più
sostenibile.
----------------§§§----------------
Il gruppo di ricerca del CRA-ZOE (ex Istituto Sperimentale per la
Zootecnia di Potenza) ha visto coinvolti molti collaboratori, a vario
titolo, nel corso del tempo: oltre ai sottoscritti, ricordiamo Roberto
Rubino, Vincenzo Fedele, Michele Pizzillo, Emilia Agoglia, Emilia
Cogliandro, G. Francesca Cifuni, Anna R. Caputo, Maria Antonietta
0 0,002 0,004 0,006 0,008 0,010
POC
PM
F PMF
S
Gru
ppi
Grado di protezione antiossidante
a
b
b
b
di Napoli, Giuseppe Morone, Francesco Paladino, Domenico
Rufrano.
Per approfondimenti, si riporta una selezione bibliografica:
Claps S., Rubino R., Fedele V., Morone G., Di Trana A. 2005. Effect
of concentrate supplementation on milk production, chemical
features and milk volatile compounds in grazing goats. Options
Méditerranéennes, A67, p. 201-204.
Fedele V., Rubino R., Claps S., Sepe L., Morone G. 2005. Seasonal
evolution of volatile compounds content and aromatic profile in milk
and cheese from grazing goats. Small Rum. Res. 59, 273-279.
Pizzoferrato L., Manzi P., Marconi S., Fedele V., Claps S., Rubino R.
2007. The degree of antioxidant protection (DPA): a parameter to
trace goat milk and cheese origin and quality. J. Dairy Science 90, p.
4569-4574.
Claps S., Sepe L., Annicchiarico G., Fedele V. 2011. Prodotti caseari
migliori da ovicaprini al pascolo. L'Informatore Agrario 67: 48, p. 55-
59.
Di Napoli M.A., Di Trana A., Caputo A.R., Sepe L., Claps S. 2012.
Effect of fresh and dry forage of two grasses and two legumes
species on fatty acid profile and nutritional index of milk and cheese.
Book of Abstract XI International Conference on Goats, Las Palmas,
Gran Canaria, Spain, 23-27 September p. 249.
Autori:
Claps Salvatore, direttore incaricato
Sepe Lucia, ricercatore
Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura
Unità di Ricerca per la Zootecnia Estensiva – CRA-ZOE
Via Appia, Bella-Scalo, sn, 85054 Muro Lucano (PZ), www.entecra.it
161
Le componenti nutrizionali e aromatiche del
latte: la complessità delle misurazioni e i
possibili fattori di variazione
Lucia Bailoni e Roberto Mantovani
Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione - BCA
Dipartimento di Agronomia Animali Alimenti Risorse Naturali e
Ambiente – DAFNAE Università di Padova
Riassunto
Diverse prove sperimentali sono state effettuate presso l’Università
di Padova per la messa a punto di metodi per la determinazione
delle componenti nutrizionali e aromatiche nel latte bovino e nei
derivati e per la definizione dei fattori alimentari che possono
influenzare queste caratteristiche. In particolare, per quanto riguarda
gli aspetti nutrizionali, i principali studi hanno riguardato la
componente lipidica e, in particolare, i coniugati dell’acido linoleico
(CLA), il rapporto fra gli acidi grassi della serie omega 6:omega 3 e,
infine, il contenuto di alfa-tocoferoli (vitamina E). Per quanto
concerne invece il flavour, sono state identificate alcune sostanze
aromatiche che possono essere percepite favorevolmente dal
consumatore e, infine, sono stati valutati alcuni componenti,
appartenenti al gruppo dei sesquiterpeni, da utilizzare come possibili
marcatori di tracciabilità del prodotto. Sulla base dei risultati ottenuti
da queste ricerche pluriennali, si può affermare che il tentativo di
definire un indice sintetico in grado di caratterizzare il latte e i derivati
dal punto di vista nutrizionale e aromatico, valorizzando anche il
territorio di produzione, è un obiettivo auspicabile, raggiungibile però
con tecniche analitiche innovative (rapide e poco costose).
Gli aspetti nutrizionali del latte I coniugati dell’acido linoleico (CLA)
Gli isomeri dell’acido linoleico coniugato (CLA) rappresentano
componenti bioattive del latte, particolarmente interessanti per
l’uomo dal punto di vista nutraceutico considerati i loro effetti, ormai
accertati, sull’inibizione della carcinogenesi, sulla riduzione della
deposizione lipidica e dei trigliceridi ematici, per l’attività antidiabetica
e antiaterogenica (Secchiari, 2014). Da un’indagine effettuata su 250
aziende del Veneto è emerso che il contenuto di CLA nel latte è
legato al livello produttivo degli allevamenti, con valori che passano
da 0.415 a 0.522 g/100 g di acidi grassi rispettivamente per aziende
che producono oltre 3000 q.li/anno di latte, caratterizzate da sistemi
di allevamento intensivi e per quelle con una produzione inferiore ai
200 q.li/anno, collocate prevalentemente nelle aree montane e
pedemontane (Figura 1) (Bailoni et al., 2005b).
Figura 1.Contenuto di CLA nel latte in aziende con diversi livelli produttivi (Bailoni et
al., 2005b)
Prove effettuate invece in Valle d’Aosta (Figura 2) hanno evidenziato
come l’altitudine del pascolo delle bovine influenzi il contenuto di
CLA nel latte e quindi nel formaggio, dove aumenta da 1.65 a 1.90,
fino a 2.13 g/100 g di acidi grassi quando le bovine passano
163
rispettivamente dal piede d’Alpe a 1600 m s.l.m. a tramuti via via più
alti (T1 a 2300 e T2 a 2550 m s.l.m.) (Mantovani et al., 2003). Va
però ricordato che i CLA possono aumentare nel latte e nel
formaggio anche attraverso opportune strategie alimentari come
l’impiego di alimenti ricchi di precursori (acido linoleico), quali ad
esempio la soia estrusa (Bailoni, 2004a).
Figura 2.Contenuto di CLA in formaggio Fontina prodotto in pascoli a diversa altitudine
(Mantovani et al., 2003).
Il profilo acidico e il rapporto fra gli acidi grassi insaturi omega
6:omega 3
Come è noto, il profilo acidico del latte e dei derivati si discosta molto
da quello raccomandato dai nutrizionisti nella dieta giornaliera
dell’uomo, che prevede un apporto di acidi grassi saturi non
superiore al 25% ed un elevato apporti di acidi mono- e polinsaturi.
L’impiego del pascolo e di diete ad alto contenuto di foraggi può
migliorare il rapporto saturi/insaturi nel latte come dimostrato in molte
ricerche (Bailoni et al., 2005a; Secchiari, 2014).
Nel latte, inoltre, l’apporto di acidi grassi della serie omega 3, e
specificamente dell’EPA e del DHA, che svolgono importanti azioni
nell’uomo, con particolare riguardo alla riduzione del rischio di
0
0,5
1
1,5
2
2,5
PA T1 T2
1,65 1,90
2,13
CLA
(%
of
tota
l FA
)
malattie cardio-vascolari, è molto basso. L’adozione di strategie di
ordine nutrizionale in grado di modificare il rapporto omega 6:omega
3 nel latte rappresenta una tematica di ricerca attuale e di grande
interesse. Il rapporto omega 6:omega 3 è più favorevole nel latte
ottenuto da allevamenti di montagna rispetto a quello rilevato in
aziende più grandi e con più alto utilizzo di concentrati (1.692 e
5.155 in aziende di piccole e grandi dimensioni rispettivamente,
Bailoni et al., 2005b) e nel latte ottenuto nei pascoli più alti (da 1.64 a
1.31 al piede d’alpe e ai tramuti più alti, Mantovani et al., 2003).
L’impiego di alimenti ricchi di omega 3 può migliorare il contenuto di
questi acidi grassi sia nel latte che nel formaggio, come
recentemente dimostrato da Cattani et al. (2011, 2014). In questa
prova l’aggiunta alla dieta di vacche in lattazione di 500 g/d di lino
estruso ha ridotto nel latte il rapporto fra acidi grassi omega 6 e
omega 3 che è passato da 9.68 a 5.54 rispetto alla dieta di controllo
(Figura 3).
Figura 3.Contenuto di acidi grassi omega 6, omega 3 e rapporto omega 6:omega 3
nel latte ottenuto con la supplementazione di 0 (CTRL), 500 (L500), e 1000 (L1000)
g/d di lino estruso (Cattani et al., 2014).
Livelli di inclusione di lino estruso più alti (1000 g/d) non hanno
prodotto un ulteriore miglioramento di questo rapporto, indicando
come il trasferimento degli acidi omega 3 dall’alimento al latte non
sia linearmente correlato alla quantità di omega 3 introdotti con la
0,0
1,5
3,0
4,5
6,0
7,5
9,0
10,5
Omega 6 Omega 3 Omega 6:Omega 3
CTRL L500 L1000
165
dieta. Risposte del tutto sovrapponibili a quelle ottenute nel latte
sono state osservate nel formaggio ottenuto con processi di
caseificazione standardizzati dopo 90 giorni di stagionatura. Va
considerato che sia nel latte che nel formaggio, la supplementazione
di lino non ha però mai permesso di raggiungere i livelli minimi di
acidi grassi omega 3 (0.3 g di acido alfa-linolenico per 100 g di
alimento) indicati dal Regolamento UE n. 116/2010 per poter
riportare sulla confezione il claim “Fonte di acidi grassi omega-3”.
Gli alfa tocoferoli (vitamina E)
La vitamina E svolge diverse funzioni biologiche nell’’organismo
umano ma è conosciuta prevalentemente per il suo ruolo di sostanza
antiossidante. Mediamente il latte alimentare prodotto in Italia
contiene 0.70 µg/g di vitamina E (INRAN, 2014). In prove effettuate
presso 16 aziende zootecniche e 3 caseifici collocati nell’area
montana veneta (altopiano del Cansiglio) sono state monitorate nel
corso di un intero anno le caratteristiche qualitative, tra cui il
contenuto di vitamina E, del latte di vacche allevate con metodo
biologico e convenzionale. Il contenuto di vitamina E, sia nel latte
pastorizzato che nel formaggio proveniente da aziende biologiche, è
risultato significativamente più elevato rispetto a quello dei prodotti
ottenuti in allevamenti convenzionali (0.83 vs 0.78 µg/g, P<0.05 per il
latte e 7.23 vs 5.13µg/g, P>0.01 per il formaggio). Tuttavia nei
campioni di latte (sia latte alimentare che latte di caldaia) provenienti
da aziende biologiche, dove non sono consentite integrazioni
vitaminiche nei mangimi, sono stati evidenziati dei livelli di vitamina E
molto variabili nel corso dell’anno e più alti nel corso del periodo
primaverile-estivo, quando gli animali usufruivano del pascolo, che in
autunno-inverno, come risulta dalla Figura 4 (Miotello et al., 2008). Il
ruolo delle essenze foraggere assunte con il pascolo
sull’arricchimento del latte di questa vitamina è quindi ulteriormente
confermato.
Figura 4. Contenuto di vitamina E nel latte biologico prelevato in caldaia e in
confezioni di latte pastorizzato da marzo 2007 a marzo 2008 (Bailoni et al., 2008)
Le componenti aromatiche del latte Profilo aromatico
Le componenti aromatiche del latte (“flavour” nella dizione
anglosassone) comprendono sia l’odore che il gusto, caratteristiche
sensoriali legate rispettivamente alla presenza di sostanze volatili (di
basso peso molecolare) e non volatili (con peso molecolare più
elevato). Le prime sono sostanze liposolubili, presenti in quantità
generalmente molto basse (ppb) caratterizzate ciascuna da una
specifica soglia di percezione odorosa che dipende non solo dalla
concentrazione della sostanza ma anche dalla matrice,
dall’interazione con altri composti volatili e dalla sensibilità
individuale (Bailoni et al., 1998). L’approccio metodologico agli studi
dell’aroma del latte, utilizzato presso l’Università di Padova, è stato
di tipo strumentale ed ha previsto la messa a punto di metodi di
estrazione e concentrazione delle sostanze aromatiche (Purge and
trap) e di successiva quantificazione (gascromatografia, GC) (Bailoni
et al., 1998). La sperimentazione pluriennale condotta in
collaborazione con il Parco Adamello-Brenta su bovine di razza
167
Rendena, ha avuto come obiettivo la valutazione del contenuto di
sostanze aromatiche in campioni di latte prelevato durante l’alpeggio
e durante la permanenza in stalla. Fra le diverse sostanze
identificate (chetoni, alcoli, aldeidi, esteri, composti solforati),
l’esanale e il dimetilsolfuro, che sono responsabili di un piacevole
odore di erba fresca appena tagliata, sono stati rilevati in
concentrazioni tali da poter essere percepite all’olfatto solo nei
campioni di latte prelevati in alpeggio (Figura 5) (Bailoni et al.,
2000a; 2000b).
Figura 5. Livelli di esanale e di dimetilsolfuro in campioni di latte raccolti in stalla (8
giugno e 16 ottobre) o durante l’alpeggio (3 e 30 luglio, 20 agosto). SP= soglia di
percezione olfattiva (Bailoni et al., 2000a; 2000b).
Basandosi su esperienze precedentemente effettuate sui vini,
Versini et al. (2000) hanno messo a punto una tecnica di
determinazione delle sostanze aromatiche più complessa, basata
sulla Solid-Phase Micro-Extraction (SPME) e successiva analisi in
cromatografia abbinata a spettrometria di massa (HRGC-MS). Le
analisi effettuate sui formaggi Puzzone di Moena e Nostrano hanno
rilevato nei due formaggi sia analogie (tenore elevato in acido
propionico e, in generale, in acidi grassi) che differenze in alcune
sostanze (nel Puzzone maggior presenza di acido alchilico ramificato
a C6 e acido isovalerianico) (Figura 6).
Figura 6. Profilo acidico del formaggio Puzzone di Moena e Nostrano (Versini et al.,
2000)
Altri approcci agli studi dell’aroma del latte sono stati effettuati
considerando l’analisi sensoriale o tecniche miste (strumentali e
sensoriali) in grado di quantificare le sostanze aromatiche,
caratterizzandole anche direttamente dal punto di vista della
percezione odorosa.
La tracciabilità del latte Contenuto di terpeni
I terpeni, oltre a conferire al latte un odore gradevole, possono
essere considerati a tutti gli effetti dei “marcatori endogeni” in quanto
sono in grado di trasferirsi dagli alimenti (essenze foraggere,
specialmente degli areali alpini) al latte (e ai derivati) senza subire
sostanzialmente alcuna modificazione chimica. Dopo le prime
esperienze condotte da Bosset (Bosset et al. nel 1994), molte
169
ricerche sono state pubblicate per verificare la possibilità di
identificare, attraverso l’analisi dei terpeni, l’origine del latte e il
sistema di allevamento adottato. In questo ambito presso l’Università
di Padova sono state condotte alcune prove per valutare i terpeni in
campioni di latte di diversa provenienza. Dal confronto fra latte
prelevato in diverse malghe dell’altopiano di Asiago e da aziende di
pianura che praticavano l’unifeed è emerso un diverso profilo dei
terpeni (Bailoni et al., 2004b) (Figura 7).
Figura 7. Contenuto di terpeni (aree evidenziate) nel latte prodotto in pianura
(Agripolis) e in due malghe dell’altopiano di Asiago (Laste Manazzo e Mandrielle)
(Bailoni et al., 2004b)
Un lavoro successivo sul formaggio Asiago ha identificato fra i
diversi composti presenti nelle essenze foraggere (Tabella 1), due
terpeni, il -cariofillene e l’ α-umulene, che sono in grado di trasferirsi
dalle essenze foraggere, al latte e al formaggio, costituendo anche
degli ottimi marcatori di tracciabilità per il formaggio d’alpeggio
(Favaro et al, 2005).
Conclusioni Sulla base dei risultati ottenuti in questi anni, si può affermare che il
tentativo di definire un indice sintetico in grado di caratterizzare il
latte e i derivati dal punto di vista nutrizionale e della loro
componente aromatica, valorizzando anche il territorio di produzione,
è un obiettivo assolutamente auspicabile, ma sarà raggiungibile solo
attraverso l’impiego di tecniche innovative, rapide e poco costose,
applicabili su vasta scala.
Bibliografia
BAILONI L., BATTAGLINI L. M., GASPERI F., MANTOVANI R.,
BIASIOLI F., MIMOSI A. (2005a). Qualità del latte e del formaggio
d’alpe, caratteristiche sensoriali, tracciabilità e attese del
consumatore. In “L’alimentazione della vacca da latte al pascolo:
riflessi zootecnici, agro-ambientali e sulla tipicità delle produzioni”
Quaderni SoZooAlp. No. 2, p 59-88.
BAILONI L., BORTOLOZZO A., MANTOVANI R., SIMONETTO A.,
SCHIAVON S., BITTANTE G. (2004a). Feeding dairy cows with full
fat extruded or toasted soybeans seeds as replacement of soybean
meal and effects on milk yield, fatty acid profile and CLA content .
ITALIAN JOURNAL OF ANIMAL SCIENCE, vol. 3, p 243-258.
BAILONI L., MANTOVANI R., BITTANTE G. (1998). Determinazione
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173
Il Latte Nobile non è solo una buona idea, ma
un modello che funziona
Roncoroni C.1, Calabrò S.
2, Galli T.
1, Musco N.
2, Grossi M.
2,
Fagiolo A.1
1Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni
Lazio e Toscana M. Aleandri 2Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animali,
Università di Napoli Federico II
Introduzione La preparazione, la lungimiranza e l’entusiasmo di un allevatore
hanno consentito al team di ricerca costituito da ANFoSC, Istituto
Zooprofilattico Sperimentale delle Regioni Lazio e Toscana e
Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni Animali (DMVPA)
di realizzare una prova sperimentale in un’azienda agro-zootenica
sita a Segni (Roma), che produce e commercializza da quasi cinque
anni Latte di Alta Qualità. In particolare, è stato effettuato un
confronto in termini di benessere animale e qualità nutrizionale del
latte, tra due sistemi di produzione del latte: il Latte Nobile ed il Latte
di Alta Qualità.
L’azienda interessata si estende su una superficie di circa 110 ha,
dove alleva 340 capi bovini di razza Frisona Italiana; gli animali sono
tenuti a stabulazione libera e per sei mesi l’anno le vacche in
asciutta dispongono di quattro ha di pascolo su prato polifita. Le 150
vacche in lattazione hanno una produzione media di stalla pari a 25
litri/die. L’azienda è autosufficiente per la produzione di silomais,
fieno di medica e alcuni erbai che contengono numerose essenze
foraggiere (triticale, loietto, avena, medica, trifoglio spp.); per quanto
riguarda i concentrati ne acquista l’80% tra mais granella e fonti
proteiche.
Materiale e metodi La prova sperimentale è stata realizzata tra marzo e agosto 2014,
utilizzando 40 animali omogenei per tipo genetico, numero di parti,
stadio di lattazione e produzione di latte, nonché stabulati e gestiti
nelle stesse condizioni di allevamento. In particolare, sono stati
individuati due gruppi di 20 animali ciascuno (A: gruppo aziendale;
LN: gruppo Latte Nobile), omogenei per numero di parti (media
gruppo A: 3.3; media gruppo LN: 3.4), distanza dal parto (media
gruppo A: 122 gg; media gruppo LN: 131 gg) e produzione di latte
individuale (media gruppo A: 27,8 litri; media gruppo LN: 28,9 litri).
Durante il periodo sperimentale, gli animali sono stati stabulati in due
recinti adiacenti con pari densità (1 cuccetta/capo); tuttavia, per
rispettare le indicazioni del Disciplinare, il gruppo LN aveva
saltuariamente a disposizione anche un paddock esterno (m
200x100).
Il piano di razionamento sperimentale (formulato previa analisi del
fieno aziendale) è iniziato in seguito ad un periodo di adattamento
della durata di 15 gg, dopo il quale è iniziata la raccolta dei campioni
(latte, sangue, alimenti), ripetuta con frequenza mensile fino ad un
totale di quattro controlli.
Le analisi effettuate vengono di seguito riportate:
– latte: parametri qualitativi ed igienico-sanitari (residuo secco
magro, grasso, proteine, lattosio, cellule somatiche, carica
batterica totale, pH, caseina e urea, aflatossina M1), profilo
acidico del grasso;
– sangue: esame emocromocitometrico, profilo glicolipidico
(glucosio, NEFA, beta-idrossibutirrato o BHB, trigliceridi,
colesterolo), profilo proteico (proteine totali, albumina, azoto
ureico, creatinina), minerale ed elettrolitico (Ca, P, Na, K,
Mg, Zn), stress ossidativo (metaboliti reattivi dell’ossigeno o
d-ROMs e barriera all’ossidazione o OXY), profilo
immunitario (battericidia, lisozima, complemento,
aptoglobina, CD4 e CD8);
175
A LN
Silomais 25 -
Fieno misto 7.0
Fieno di medica 6.0 8.5
Crusca di frumento 1.6 1.0
Farina di mais 3.5 3.0
Triticale 1.5 1.0
Favino - 2.0
Girasole panello 1.6 -
Soia f.e. 1.8 -
Gruppo
– alimenti: composizione chimico-nutrizionale (sostanza secca,
proteine grezze, estratto etereo, fibra grezza, NDF, ADF,
ADL, ceneri) e valore nutritivo (UFL).
Risultati e discussione La razione del gruppo LN è stata preparata seguendo le indicazioni
fornite dal Disciplinare e si differenzia da quella del gruppo A per il
rapporto foraggio:concentrato pari a 70:30 (60:40 nel gruppo A) e
per l’assenza di alcuni alimenti (insilato di mais, farina di estrazione
di soia e panello di girasole), vietati dal disciplinare (tabella 1). Di
conseguenza, come era previsto, il livello proteico e la
concentrazione energetica della razione LN risultano inferiori rispetto
al gruppo A (Tabella 2).
Tabella 1:Ingredienti delle razioni (kg t.q.) impiegate in azienda durante la sperimentazione
Tabella 2: Composizione chimica delle diete impiegate in azienda durante la sperimentazione
% s.s. Ceneri Proteine Estratto Fibra NDF ADF ADL Amido UFL
grezze etereo grezza /kg s.s.
Gruppo A
6.36 15.01 2.91 19.27 38.64
26.26
7.92 13.79 0.86
Gruppo LN
7.89 12.09 1.88 28.19 49.06
40.25
10.30
9.64 0.76
Per quanto riguarda la produzione di latte, come c’era da attendersi,
essa è fisiologicamente calata in entrambi i gruppi col progredire
della lattazione (Tabella 3); il gruppo LN ha mostrato in tutti i prelievi
un calo rispetto al gruppo A, anche se statisticamente significativo
(P<0.01) solo nel terzo prelievo. Per quanto riguarda il tenore lipidico
del latte, la maggiore quantità di foraggio della razione del gruppo
LN, nonché il calo produttivo, ne hanno di certo favorito un maggior
contenuto in tutti i prelievi, che risulta statisticamente apprezzabile
(P<0.01) in corrispondenza del terzo prelievo. La percentuale di
proteina del latte nei due gruppi non ha mostrato differenze
significative durante tutto il periodo sperimentale, a differenza del
contenuto in urea. Quest’ultima, infatti, si è mostrata inizialmente
(primi due prelievi) più elevata nel latte del gruppo LN, probabilmente
a causa di una minore concentrazione energetica della razione o di
una prolungata fase di adattamento della popolazione microbica
ruminale al cambio di dieta. Quest’ultima ipotesi sarebbe rafforzata
dalla maggior possibilità di scelta degli alimenti da parte degli animali
del gruppo LN, il cui unifeed, in virtù della sua minore umidità
potrebbe aver causato ripercussioni sulla stabilità del pH ruminale.
Comunque, già al terzo prelievo si è registrata una sensibile
diminuzione, per arrivare a valori significativamente (P<0.01) più
bassi rispetto al gruppo A al quarto prelievo. Inoltre, è stato
osservato che, la condizione corporea degli animali (BCS) degli
animali, anche se lievemente calato negli animali del gruppo LN, si è
mantenuto complessivamente soddisfacente.
Per quanto riguarda l’aspetto igienico-sanitario del latte, non si sono
evidenziate differenze significative fra i due gruppi in termini di
cellule somatiche e carica batterica totale.
Il profilo acidico del grasso del latte, riportato in tabella 4, risulta
alquanto interessante mostrando, in media, valori minori di acidi
grassi saturi (SFA) e maggiori di acidi grassi mono-insaturi (MUFA) e
poli-insaturi (PUFA) nel gruppo Latte Nobile rispetto al gruppo
aziendale, anche se non sono emerse differenze statisticamente
significative. Questi risultati, molto importanti dal punto di vista
177
nutrizionale, sono di certo una conseguenza del maggior contenuto
in foraggio della razione somministrata al gruppo Latte Nobile (70%)
rispetto a quella del gruppo Aziendale (60%).
Tabella 3. Produzione quanti-qualitativa di latte nei due gruppi nei quattro
prelievi
Produzione
Kg
Grasso
%
Proteine
%
Urea
mg/dl
Gruppo A LN A LN A LN A LN
I 15.5 13.9 3.44 3.82 3.29 3.37 23.1B 38.2A
II 10.1 8.96 3.62 3.73 3.23 3.28 23.3B 38.2A
III 11.0A 7.98B 3.39B 3.83A 3.20 3.16 27.6 27.1
IV 9.23 7.63 3.36 3.40 3.22 3.24 29.0A 21.6B
Per ciascun parametro, lungo le righe: A,B differiscono per P<0.01.
Tabella 4. Profilo acidico del latte nei due gruppi
SFA
%
MUFA
%
PUFA
%
Gruppo A LN A LN A LN
I 74.54 73.00 21.39 22.83 4.07 4.17
II 74.80 72.74 21.24 23.02 3.96 4.24
III 73.95 74.39 22.45 22.03 3.60 3.58
IV 70.11 67.64 23.45 27.78 4.43 4.58
Riguardo il profilo metabolico (Tabella 5), tutti i parametri hanno
mostrato valori medi fisiologici in entrambi i gruppi probabilmente
perché l’azienda già adottava un tipo di razione non con
concentrazione energetica non elevata. L’azoto ureico conferma
l’andamento dell’urea del latte con valori significativamente più
elevati nei primi prelievi nel gruppo LN. I valori del BHB (Beta-
idrossibutirrato) indicano che l’eventuale deficit energetico del
gruppo LN nelle prime fasi sperimentali non abbia comunque
determinato squilibri metabolici, il che viene confermato dai valori dei
NEFA (acidi grassi non esterificati) che non indicano una
lipomobilizzazione e non significativamente diversi dal gruppo A,
nonostante le differenze elevate. Anche colesterolo, nonchè
trigliceridi, calcio e glucosio (dati non riportati) sono risultati compresi
nei range fisiologici in entrambi i gruppi.
I parametri relativi allo stress ossidativo e alla competenza
immunitaria, sono stati valutati perché intimamente connessi allo
stato di welfare dell’animale. Per quanto riguarda lo stress
ossidativo, la capacità ossidante del siero (d-ROMs), più
comunemente nota come radicali liberi, si innalza, fra le altre cose, in
caso di diete sbilanciate e sindromi metaboliche, mentre, la capacità
antiossidante del siero (Oxy), rappresenta la difesa dell’organismo
contro i danni causati dai primi. Si tratta di parametri che vanno
valutati contestualmente (Tabella 6); nella presente sperimentazione,
i livelli di d-ROMs si mantengono bassi nel corso della prova con un
significativo, ma non cospicuo, aumento nel tempo, nel gruppo A;
tuttavia, non si sono evidenziate differenze significative fra i gruppi;
di contro il potere antiossidante (Oxy), partendo da uguali livelli nei
due gruppi, si innalza significativamente solo nel gruppo LN al
secondo prelievo e subisce un calo consistente al terzo e ancora al
quarto prelievo. L’andamento degli Oxy nel gruppo LN potrebbe
essere dovuto ad un’iniziale azione di efficace contenimento dei
radicali liberi seguita da una normalizzazione. Invece, nel gruppo
aziendale l’andamento degli Oxy manifesta una tendenza alla
diminuzione. Tuttavia, nel gruppo A i valori sono sempre
significativamente (P<0.01) più elevati rispetto al gruppo LN. Tali
differenze, nei prelievi II e III, rispecchiano l’andamento di alcuni
parametri relativi all’immunità aspecifica, ossia alla capacità
dell’organismo di reagire ad insulti di varia natura (chimica, fisica,
infettiva). Tali parametri sono utilizzati nella valutazione del
benessere perché influenzabili dall’azione immuno-depressiva dello
stress.
Lo zinco è un parametro comune alla valutazione dello stress
ossidativo, in quanto cofattore di antiossidanti enzimatici (SOD), e
della risposta immunitaria aspecifica perché influenzante la capacità
fagocitaria dei leucociti. L’andamento dello zinco, pur senza
differenze significative fra gruppi, è sovrapponibile a quello degli
179
antiossidanti con differenze significative fra il secondo e il terzo
prelievo. Un analogo andamento hanno mostrato la battericidia, il
lisozima e l’attività del complemento, che per semplicità di
esposizione non vengono mostrati tutti ma che denotano anch’essi
una iniziale difficoltà di adattamento degli animali che si traduce in
immunodepressione.
Tabella 5. Alcuni parametri del profilo emato-chimico nei due gruppi
nei quattro prelievi
Produzione Grasso Proteine Urea
Kg % % mg/dl
Gruppo A LN A LN A LN A LN
I 15.5 13.9 3.44 3.82 3.29 3.37 23.1B 38.2A
II 10.1 8.96 3.62 3.73 3.23 3.28 23.3B 38.2A
III 11.0A 7.98B 3.39B 3.83A 3.20 3.16 27.6 27.1
IV 9.23 7.63 3.36 3.40 3.22 3.24 29.0A 21.6B
Per ciascun parametro, lungo le righe: A,B differiscono per P<0.01.
Tabella 6. Alcuni parametri immunitari nei due gruppi nei quattro
prelievi
d-ROMs Oxy Zn Battericidia
U CARR HclO/ml %
Gruppo A LN A LN A LN A LN
I 52 49 412 404 107 105 94 95
II 52 31 396B 478A 95 85 86 88
III 78 73 334A 250B 161 166 93 93
IV 78 65 300A 98B 113 101 94 93
Per ciascun parametro, lungo le righe: A,B differiscono per P<0.01.
Conclusioni Gli animali hanno reagito positivamente ed in linea con le
aspettative; i primi dati ottenuti da questa prova sperimentale
mostrano che, a fronte di un irrilevante calo di produzione
quantitativa di latte nel gruppo Latte Nobile, la qualità nutrizionale del
prodotto ottenuto rispetto a quello aziendale risulta migliore,
soprattutto in termini di grasso e del suo profilo acidico. Per quanto
riguarda gli indicatori di benessere alcuni parametri, l’Oxy primo fra
tutti, hanno risposto in maniera interessante.
Un ultimo aspetto da considerare è la convenienza economica del
sistema Latte Nobile, che ha visto per ora un minor costo della
razione, ma che si prevede porterà anche ad una maggiore longevità
degli animali che vengono allevati con un sistema meno spinto.
In futuro, si auspica di poter migliorare la qualità dei fieni prodotti in
azienda, che prevedibilmente porterà ad un miglioramento di tutti i
parametri relativi alla qualità del latte. Al momento della stesura della
presente pubblicazione, i dati relativi al comportamento animale
erano ancora in corso di elaborazione.
Complessivamente, solo prolungando il periodo di osservazione e
applicando il protocollo in altre aziende tali risultati potranno essere
confermati.
Ringraziamenti Si desidera ringraziare il personale tutto dell’Azienda “Fattoria la
Frisona” per la collaborazione entusiastica e competente e la
Dott.ssa Maria Ferrara del DMVPA per la sua collaborazione tecnica.
181
Quando il latte valorizza il territorio
Maurizio Ramanzin e Enrico Sturaro
DAFNAE-Dipartimento di Agronomia Animali Alimenti Risorse
Naturali e Ambiente Università degli Studi di Padova
Qualità del latte: diverse prospettive (finora)
Nel corso degli anni, il concetto di qualità del latte si è evoluto, anche
in funzione delle aspettative del consumatore e delle esigenze della
filiera di trasformazione. Tra i parametri di qualità intrinseca del
prodotto gli aspetti igienico-sanitari e la composizione chimica
rappresentano gli indicatori di riferimento più utilizzati per i sistemi di
pagamento latte-qualità, e gli studi condotti in questi anni hanno
permesso di migliorare tali parametri lavorando sulla genetica e sulla
gestione aziendale. Per quanto riguarda la filiera di trasformazione,
negli ultimi anni è stata prodotta una ricca letteratura scientifica sulle
caratteristiche tecnologiche del latte, con studi approfonditi sui
parametri lattodinamografici e sullo sviluppo di metodologie
innovative per studiarli (Bittante et al., 2012) Infine, sta aumentando
sempre più l’interesse sul ruolo del latte e dei prodotti alimentari in
genere sulla salute umana, nell’ambito del settore della nutraceutica
(Bava et al; 2013; Spietsberg, 2005).
Con il termine qualità estrinseca si identificano invece quei parametri
non oggettivabili attraverso l’analisi del prodotto, che finora sono stati
riferiti soprattutto alla percezione che il consumatore ha di aspetti
particolari del suo processo produttivo. Per il latte i fattori considerati
sono stati soprattutto la “qualità di filiera”, con l’attenzione ai modi di
produzione e alla tracciabilità lungo le fasi di produzione. In questo
senso, lo sviluppo di marchi certificati, come ad esempio il biologico
(Krystallis e Chryssohoidis, 2005) o i presidi Slow Food (Petrini e
Padavoni, 2007) va incontro alle esigenze di un mercato sempre più
attento all’origine dei prodotti. Anche l’attenzione all’ambiente,
nell’accezione più ampia del termine, rientra nelle caratteristiche
estrinseche di un prodotto, e per quanto riguarda il latte i principali
aspetti ambientali considerati finora sono stati il rispetto delle
normative e dei limiti vigenti (vedi ad esempio la Direttiva Nitrati).
Solo di recente gli studi si sono focalizzati su approcci integrati per la
valutazione della sostenibilità dei sistemi di produzione, ponendo
particolare attenzione alla quantificazione delle emissioni in
atmosfera e alla definizione delle “best practices” per aumentare
l’efficienza del sistema e ridurre l’impatto ambientale (De Vries and
De Boer, 2010), anche nel nostro Paese (ASPA, 2012). Nell’ultimo
decennio, tuttavia, l’approccio all’”ambiente” è stato rivoluzionato dal
riconoscimento che i diversi ecosistemi sono in grado di fornire
diversi tipi di benefici (MEA, 2005), denominati “ecosystem services”
o servizi ecosistemici, al genere umano. Questi servizi sono stati
codificati in servizi di approvvigionamento che forniscono i beni veri e
propri, quali cibo, acqua, legname e fibra, servizi di regolazione, che
regolano il clima e le precipitazioni, l'acqua (ad es. le
inondazioni), i rifiuti, la diffusione delle malattie e la produzione
primaria, servizi di supporto, che comprendono la formazione del
suolo, la fotosintesi e il ciclo nutritivo alla base della crescita e
della produzione, servizi culturali, relativi alla bellezza, all'ispirazione
e allo svago che contribuiscono al nostro benessere spirituale. La
loro valutazione può essere applicata a tutti gli ecosistemi, quindi
anche agli agro-ecosistemi (Giupponi et al., 2009). L’approccio
seguito per definire i “servizi ecosistemici” è stato poi integrato
nell’analisi e nella pianificazione territoriali (de Groot et al., 2010),
dato che ogni “territorio” (un’area relativamente omogenea per
caratteristiche ambientali e socio-economiche) si caratterizza per
comprendere diversi ecosistemi naturali, semi-naturali o artificiali.
Tramite i suoi ecosistemi, un territorio può svolgere diverse funzioni
per l’umanità (dette “landscape functions”), che in maniera molto
simile ai servizi ecosistemici sono generalmente raggruppate in
quattro categorie (de Groot, 2006): la funzione produttiva (alimenti
per l’uomo da fauna e piante selvatiche ma soprattutto da agricoltura
e zootecnia, legname e prodotti forestali, energia da fonti fossili e
rinnovabili, risorse genetiche animali e vegetali allevate e coltivate,
183
ecc.), la funzione di regolazione (del clima, tramite la
fissazione/liberazione di CO2, CH4 e altri gas serra, dei rischi
naturali, tramite la protezione da inondazioni, valanghe, frane,
incendi, ecc., idrica, tramite la disponibilità/sottrazione di acqua per
le varie esigenze naturali e umane, di depurazione da inquinanti
dell’aria, del suolo e delle acque, di prevenzione dall’erosione, di
controllo biologico, come l’impollinazione, il controllo di parassiti e
specie invasive, ecc.), la funzione di conservazione degli habitat
naturali, della loro biodiversità animale e vegetale e dei processi
evolutivi naturali, la funzione culturale, tramite la fruizione estetico-
ricreativa, culturale e artistica del paesaggio naturale e culturale.
Queste funzioni sono fortemente influenzate dall’azione dell’uomo
sull’uso del suolo e sulle attività produttive, e interagiscono tra loro,
potendo risultare a seconda dei casi antagoniste (ad esempio la
massimizzazione della produzione di cibo tramite l’agricoltura
intensiva è in antagonismo alla conservazione di habitat naturali), o
sinergiche (ad esempio la conservazione di un particolare habitat
naturale può migliorare la godibilità estetica e la fruizione culturale di
un’area). Il ruolo della zootecnia nel determinare le funzioni di un
territorio non è certo trascurabile: il 46% della SAU italiana è gestito
da aziende con allevamenti o è costituito da prati/pascoli (il 78% in
montagna). In questa prospettiva, i sistemi di produzione del latte,
per i quali il rapporto con il territorio e le materie prime che se ne
ricavano è fondamentale, dovranno porre sempre più attenzione alle
funzioni che essi sono in grado di fornire in relazione con gli agro-
ecosistemi in cui si inseriscono. E’ infatti il complesso di queste
funzioni che, in sostanza, definisce la qualità estrinseca del prodotto.
Produzione di latte e funzioni del territorio La tabella 1 riporta una sintesi, necessariamente semplificata, delle
principali forme con cui i sistemi di produzione del latte possono
contribuire alle funzioni del territorio. La distinzione tra sistemi
intensivi ed estensivi si basa sul concetto generale per cui nei
sistemi estensivi l’animale si adatta all’ambiente (uso di risorse
foraggere locali, livelli produttivi adattati alle risorse disponibili,
pascolamento, etc) mentre nei sistemi intensivi è l’ambiente che si
adatta all’animale (alti livelli produttivi con forti input esterni
all’azienda e al territorio). Tab. 1 – potenziale ruolo dei sistemi zootecnici di produzione del latte per le “funzioni
del territorio”
Sistemi di produzione
Tipo di funzione
Servizi forniti Intensivi Estensivi
Produttiva Produzione di latte e derivati +++ +
Salvaguardia della biodiversità genetica allevata
-- +++
Regolazione Emissioni di gas serra e nutrienti ? ?
Protezione dagli incendi -- ++
Protezione dai dissesti idrogeologici ?/+ ?/++
Conservazione Conservazione di habitat e specie prioritari ?/+ +++
Culturale Conservazione della qualità estetica e degli elementi tradizionali del paesaggio
?/+ +++
Conservazione di saperi tradizionali e folklore
?/+ +++
Offerta di elementi per la fruizione turistico-ricreativa
?/+ +++
? = effetto potenzialmente negativo
-- = servizio molto limitato o assente;
+, ++, +++ = servizio di crescente livello di importanza
Non c’è dubbio che la gran parte della produzione nazionale di latte
deriva dai sistemi intensivi, senza i quali la domanda interna del
prodotto sarebbe ancora meno soddisfatta dalla già deficitaria
offerta, e che questa produzione avviene con crescente efficienza
(ASPA, 2012). Tuttavia, sono i sistemi zootecnici estensivi, basati
sull’utilizzo di prati e pascoli, quelli che possono maggiormente
contribuire ad una conservazione in situ, integrata in allevamenti
economicamente sostenibili, della biodiversità animale domestica
(Panella, 2011).
185
Considerando la funzione di regolazione, per il latte la letteratura
scientifica più recente è incentrata soprattutto sul tema della ”Carbon
footprint” e, meno, su quello della “Water footprint”, analizzate
utilizzando l’approccio LCA (life cycle assessment, o “valutazione del
ciclo di vita” in italiano). Si tratta di un metodo oggettivo di
valutazione e quantificazione dei carichi energetici ed ambientali e
degli impatti potenziali associati ad un prodotto/processo/attività
lungo l’intero ciclo di vita, dall’acquisizione delle materie prime al fine
vita (“dalla Culla alla Tomba”). A livello internazionale la metodologia
LCA è regolamentata dalle norme ISO della serie 14040’s in base
alle quali uno studio di valutazione del ciclo di vita prevede: la
definizione dell’obiettivo e del campo di applicazione dell’analisi, la
compilazione di un inventario degli input e degli output di un
determinato sistema, la valutazione del potenziale impatto
ambientale correlato a tali input ed output e infine l’interpretazione
dei risultati (ISPRA, 2014). L’applicazione di questa metodologia agli
allevamenti è comunque ancora controversa (Pirlo, 2012), e, anche
se le strategie per ridurre l’impronta ecologica della zootecnia sono
numerose (ASPA, 2012), per implementarle efficacemente è
necessario un approccio che consideri i diversi flussi e le loro
interazioni a scala territoriale (de Vries e de Boer, 2010). Inoltre,
mancano soprattutto studi sugli allevamenti estensivi, che, se da un
lato sono svantaggiati dalla limitata produttività individuale, dall’altro
sono favoriti dal ricorso a prati e pascoli invece che seminativi, dal
minore input di alimenti extra-aziendali e di energia fossile, dalla
densità di animali/ha più bassa. Invece, gli allevamenti, soprattutto
quelli estensivi, possono contribuire positivamente ad altre funzioni
di regolazione. Le superfici a prateria (non abbandonate) hanno un
ridotto potenziale d’incendio rispetto alle aree coperte da arbusti o da
foresta, e quindi riducono il rischio d’innesco e l’estensione degli
eventi (Hocthl et al., 2005). L’abbandono delle pratiche di gestione
delle praterie e di manutenzione di prati e pascoli posti in aree
morfologicamente a rischio aumenta il rischio di dissesti
idrogeologici, che si riduce solo quando, e se, la vegetazione
arbustiva alta o quella arborea colonizzano i versanti abbandonati,
stabilizzandoli (Newesely et al., 2000; Tasser et al., 2003). D’altra
parte, la gestione zootecnica se mal condotta può essere negativa: i
fenomeni di sovrapascolamento predispongono all’erosione e ai
dissesti (Newesely et al., 2000).
Figura 1. Correlazione
tra carico (UBA per
ettaro) e ricchezza di
specie sedentarie di
farfalle su malghe
pascolate da vacche da
latte in Provincia di
Trento (Klimeck et al.,
2013)
Ai fini dei servizi di conservazione degli habitat e della biodiversità il
ruolo principale che possono svolgere i sistemi di produzione del
latte è il mantenimento di praterie gestite in maniera estensiva, che
sono fortemente diminuite negli ultimi decenni in tutte le aree rurali
del Paese, e rappresentano spesso habitat prioritari per la Rete
Natura 2000 che offrono inoltre ospitalità a invertebrati e vertebrati,
fra cui vari anfibi, farfalle e uccelli anch’essi prioritari (EEA, 2010).
Un recente lavoro condotto in provincia di Belluno tramite approccio
GIS (Geographic Information Systems) (Cocca et al., 2012), ha
evidenziato come, tra il 1980 e il 2000, circa il 40% delle aree aperte
siano state rimboschite, in particolare nelle zone di versante dove
esse sono maggiormente importanti per il paesaggio e più ricche di
biodiversità. Il principale fattore in grado di contenere l’avanzata del
bosco, fra una serie di fattori socio-economici, è stato il
mantenimento di allevamenti bovini da latte tradizionali (mandrie di
medie dimensioni, produzione moderata, utilizzo di prati e dei
pascoli), mentre sia l’abbandono che la trasformazione in intensivi di
0
5
10
15
20
25
0 0,5 1 1,5 2
ricchezza m
edia
carico (UBA/ha)
187
questi allevamenti non hanno contribuito a rallentare la perdita di
aree aperte. Analisi più focalizzate dimostrano, inoltre, come
l’intensità di gestione delle praterie sia legata anche alla biodiversità
a scala locale di specie vegetali e animali. Ad esempio, in figura 1
viene riportato quanto osservato in un recente studi condotto su un
campione di malghe trentine, dove emergeva che il pascolamento
con vacche da latte condotto con carichi bassi garantiva una
maggiore ricchezza di specie di farfalle rispetto a un carico elevato.
In molte aree del Paese, gli assetti socio-economici, i moduli
architettonici, i modelli culturali e i metodi di utilizzo delle superfici
agro-forestali si sono storicamente definiti sulle esigenze
dell’allevamento, costituendo un variegato patrimonio tangibile
(architetture e manufatti tradizionali, caratteristiche e integrazione
degli elementi naturali e semi-naturali del paesaggio, strumenti e
attrezzi di lavoro, ecc.) e non-tangibile (conoscenze e saperi empirici
tradizionali, linguistica, folklore, ecc.). Questo patrimonio è
ovviamente in rapida evoluzione, ed è stato nell’ultimo cinquantennio
fortemente intaccato sia dall’abbandono che dall’intensivizzazione
delle forme tradizionali di allevamento che lo avevano creato.
Quanto di esso rimane è però una ricchezza culturale per l’identità
delle popolazioni locali e per tutta la comunità in genere, ma anche
un valore economico per l’attrattiva turistica di molte aree. Al
contributo della zootecnia per la gestione del “Paesaggio
Zootecnico” l’Associazione per la Scienza e le Produzioni Animali
(ASPA) ha dedicato recentemente un volume (Ronchi et al., 2014),
cui rinviamo il lettore desideroso di approfondimenti.
Come evidente dalla tabella 1, i sistemi intensivi sostengono la
funzione produttiva, ma le loro forme attuali di utilizzo delle risorse
del territorio ne riducono la possibilità di offrire altri tipi di servizi. In
realtà, riteniamo che in futuro anche questi sistemi potranno, e
dovranno, svolgere un ruolo maggiore per le funzioni di
conservazione e culturale del territorio. Essi, infatti, sono diffusi in
paesaggi molto antropizzati dove, se aumentassero l’attenzione
verso gli elementi che possono migliorare la naturalità e fruibilità
estetico-ricreativa degli agro-ecosistemi, potrebbero fornire quei
servizi di agricoltura urbana o periurbana la cui richiesta è in
continua crescita (Biasi, 2014). E’ per questo che in tabella 1 viene
indicata una potenziale funzione positiva anche per gli allevamenti
intensivi. Inoltre, va rilevato come la suddivisione in sistemi intensivi
ed estensivi, ancorché necessaria per la discussione in questa sede,
semplifichi notevolmente la realtà Ad esempio, uno studio condotto
nella provincia di Trento (Sturaro et al., 2013) ha messo in luce come
le 610 aziende da latte esaminate possano essere suddivise in
almeno quattro sistemi, che presentano diverse interazioni fra
numerosità della mandria, livello produttivo, biodiversità delle razze
impiegate, capacità di gestione delle risorse foraggere locali e del
paesaggio, output di nutrienti per litro di latte, capo allevato e unità di
superficie, destinazione e valorizzazione economica del latte
prodotto.
Conclusioni
Le relazioni tra allevamento, territorio e ambiente finora sono state
considerate principalmente in funzione delle normative finalizzate
alla mitigazione dell’impatto ambientale. Con l’evoluzione delle
politiche comunitarie (vedi svolta verso il Greening della PAC 2014-
2020) e la crescente attenzione dell’opinione pubblica nei riguardi
della sostenibilità ambientale delle produzioni, diventa importante
considerare anche le esternalità positive sugli agro-ecosistemi in cui
gli allevamenti operano. Nonostante il crescente interesse per i
servizi ecosistemici, sia a livello scientifico che politico, è ancora
poco chiaro come misurarli e quantificarli. Ciò richiede infatti un
approccio sistemico che consideri come essi sono generati dalle
interconnessioni fra sistemi sociali ed ecologici, come interagiscono
fra loro a scala globale e locale, e come un cambiamento nell’offerta
complessiva influenzi il nostro benessere (Reyers et al., 2013). E’
anche necessario integrare diversi approcci e strumenti di analisi,
come ad esempio analisi geo-statistiche (Burkhard et al., 2009),
misurazione e/o stima di indici di biodiversità animale e vegetale
189
(Swift et al., 2004), valutazioni della qualità estetica e del significato
culturale degli ecosistemi (Schaich et al., 2010), ecc. Non c’è però
dubbio che, dopo la definizione dell’impianto teorico, si sta ora
rapidamente passando alla fase della implementazione dei servizi
ecosistemici nella pianificazione territoriale e nelle valutazioni
economiche. L’individuazione di indicatori attendibili e possibilmente
non troppo complessi da misurare deve essere sviluppata con una
prospettiva che, oltre all’approccio tipico della ricerca applicata,
tenga conto anche del processo di trasferimento della conoscenza al
settore produttivo. Per un effettivo coinvolgimento di tutti gli “attori”
della filiera, è necessario che la ricerca individui degli indicatori per i
servizi ecosistemici, che gli enti preposti alla pianificazione
territoriale li utilizzino e li propongano ai produttori come riferimento,
e che il consumatore sia educato ad apprezzare e ricercare il latte “a
servizio del territorio”.
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