Processo accusatorio fra Due e Trecento,
processo inquisitorio e successive evoluzioni.
Il Processo Accusatorio
Il processo, nel medioevo, è solo una delle forme di soluzione di una controversia: è la soluzione
giudiziale, che convive con altre forme di reazione ad un torto o ad un danno, che si possono
definire extra-giudiziarie.
Il ricorso al giudice è solo un possibile sbocco di una situazione conflittuale.
La faida, che può dar luogo alla vendetta o alla pacificazione, è una giustizia privata e negoziata,
gestita dalle parti interessate e dalle loro famiglie, eventualmente con l’assistenza di mediatori, ma
sempre al servizio di logiche di gruppo, in cui a dominare è la volontà dei soggetti coinvolti nella
contesa.
I singoli possono anche rivolgersi all’autorità pubblica, chiedendo che si instauri un processo.
Questa richiesta di giustizia ad un organo pubblico (in quanto amministrata, dispensata da un
organo fornito di una legittimazione pubblica, superiore alle parti) ha avuto, nel medioevo, diverse
manifestazioni, diversi sbocchi. La prima è stata quella del processo accusatorio.
Premessa:
l’ordinamento giuridico comunale. Il processo accusatorio, come quello inquisitorio (la forma che ad esso si affianca e con esso
s’intreccia nel corso del Duecento) è regolato, infatti, parte dal diritto comune e parte dai diritti
locali (statuti e consuetudini locali).
In virtù di questa peculiare struttura, esso presenta ovunque determinate costanti, ma è soggetto
anche a numerose varianti, tante quante sono le differenti norme locali, scritte e non scritte.
L’illustrazione delle sue fasi e del suo rituale, pertanto, non dev’essere presa alla lettera, come un
modello applicabile rigidamente in tutte le situazioni locali: essa si propone, più semplicemente, di
dare un’idea dei binari entro i quali poteva scorrere, e solitamente scorreva, questo processo e dei
problemi che esso poneva.
Prima di fissare i caratteri essenziali del rito accusatorio, occorre analizzare i tratti costitutivi
dell’ordinamento giuridico in età comunale.
Gli elementi basilari di questo ordinamento giuridico, che qui descriviamo nella sua fase di sviluppo
compresa tra il XII ed il XIV secolo, sono le leggi, le consuetudini, la dottrina.
Le leggi sono costituite innanzitutto dal diritto romano giustinianeo, che nel corso del XII secolo,
secondo una cronologia variabile da città a città, si afferma come diritto generale, anche in virtù
della qualifica, ad esso dispensata dai primi interpreti medievali, di diritto imperiale.
L’operazione di collegamento del diritto romano con l’istituzione imperiale fu compiuta prima di
tutto dai glossatori e non richiese alcun atto ufficiale di conferma da parte dell’imperatore.
Il XII secolo è, per la verità, un secolo ancora di transizione.
Altri diritti contendono al diritto romano il primato di diritto generale in certi luoghi: il diritto
longobardo, ad esempio, ha ancora un peso rilevante a Pisa, a Milano, a Bergamo, nelle città
siciliane.
La stessa identificazione del diritto romano con il diritto comune, la sua qualificazione come ius
commune, non si affaccia, nel linguaggio giuridico, che nel Duecento.
Per tutto il XII secolo ius commune, per i giuristi di scuola, i glossatori, è qualcos’altro: è il diritto
naturale e non il diritto romano.
Il diritto romano è definito diritto comune solo nel tardo Duecento e poi nel Trecento, in cui si
chiarisce la dialettica tra il diritto romano, detto ius commune, e i diritti locali, detti iura propria,
con una terminologia che resterà alla base del sistema giuridico delle città italiane negli anni a
venire.
La terminologia usata per indicare le norme romane è quella di leges.
Leges sono anche, dove applicate, le norme del diritto longobardo.
Il sistema delle fonti più antico, ammesso dall’imperatore, è fondato su un binomio: leges (diritto
romano, diritto longobardo) e consuetudo.
I comuni conducono una lotta senza risparmio per il riconoscimento delle loro consuetudini, anche
nel campo pubblicistico, dove i poteri dovevano essere direttamente conferiti dall’imperatore ed in
cui era discusso dai giuristi se le più rilevanti funzioni pubbliche potessero essere acquisite per
consuetudine.
I comuni iniziano comunque a legiferare di buon ora per conto loro:
in primo luogo con i brevia, le norme che gli ufficiali giuravano di osservare durante il loro
mandato;
in secondo luogo con statuizioni varie in materia penale, civile, amministrativa.
Ad esse si dà il nome di statuta, decreta, ordinamento.
Erano normative destinate a far nascere un problema di legittimità.
La soluzione più facile era che il diritto di legiferare fosse concesso dall’imperatore, che si
collegasse quindi ad un permesso dell’imperatore.
Un tal permesso verrà individuato da alcuni giuristi del Duecento nella pace di Costanza (che in
realtà non diceva nulla al riguardo), mentre nel Trecento questo permesso sarà identificato in una
legge del Digestum vetus, la l. Omnes populi (D. 1.1.4).
La produzione statutaria urbana incomincia prima della pace di Costanza (1183), per ottenere poi un
decisivo impulso dopo di essa, ma non grazie ad essa, perché le città avevano ottenuto solo il
riconoscimento delle loro consuetudini, che sono cosa diversa dagli statuti.
Nel corso del Duecento ogni comune si dota di un liber statutorum, destinato a fare ordine nella
congerie di statuti precedentemente emessi.
L’ordine è in alcuni casi molto rudimentale, in altri più sofisticato: i singoli statuti vengono
sistemati in un volume separato, diviso in libri ed in rubriche.
Dei vari statuti, ora capitoli dello Statuto, si può perdere la datazione precisa, in altri casi essa viene
fortunatamente conservata.
I più antichi testi normativi cittadini sopravvissuti risalgono al XII secolo e sono un frammento di
statuto pistoiese (forse del 1177), il Breve consulum di Genova del 1143, il Constitutum usus di
Pisa del 1160, il Constitutum legis di Pisa, la cui prima redazione risale pure al 1160 e che ci è
pervenuto in una stesura del 1186, il Breve consulum e lo Statutum potestatis di Pistoia del 1140-
1180, il breve dei consoli di Pisa del 1162 e 1164.
I più antichi libri statutorum sono del Duecento: Lodi 1201-1228, Benevento 1207-1230, Treviso
1207-1218, Volterra 1210-1224, Verona 1228, Genova 1229 (non pervenuti), Vercelli 1241,
Bologna 1245-1267, Siena 1262, Vicenza 1264, Novara 1277-1286, Perugia 1279, Alessandria
1297, Spoleto 1296. Fra quelli non databili con precisione, ma ascrivibili al Duecento, vanno
ricordati gli statuti di Bergamo, Brescia, Como.
Dello stesso periodo sono le più antiche redazioni di consuetudini cittadine, come quelle di
Alessandria del 1178-1179, di Milano del 1216, di Como, Brescia, Bergamo, Reggio Emilia.
Lo statuto così formato non è, per tutto il Duecento ed il Trecento, qualcosa di chiuso ad ulteriori
aggiornamenti o integrazioni.
L’attività di normazione prosegue anzi febbrile, dando luogo a continue aggiunte ai capitoli
originari.
Lo statuto comunale di questo periodo assomiglia così più ad un mosaico di norme di varia
provenienza (vi confluiscono anche i brevia degli ufficiali e regole consuetudinarie messe ora per
iscritto), che non sempre prende le sembianze di un insieme bene ordinato di disposizioni.
Ad esempio, gli Statuti di Verona del 1228 non sono divisi in libri: per questo occorre attendere la
successiva redazione signorile del 1276 (Statuti di Alberto della Scala).
A chi spetta il potere legislativo nei comuni?
Esercitato ancora nella prima metà del Duecento dal collegio dei consoli, come a Pavia, si
consoliderà in capo al consiglio comunale e non al podestà, che era solo organo esecutivo e
giudiziario.
La legislazione statutaria cittadina è per certi versi generale, per altri speciale.
È generale perché si applica in tutto il territorio.
E’ speciale rispetto al diritto comune.
La legislazione statutaria, inoltre, è sempre limitata, nel senso che:
non è mai esaustiva o completa, soprattutto nel privato;
non è mai esclusiva: coesiste con altre fonti di creazione del diritto;
è limitata verso l’alto (diritto divino e naturale, che sono derogabili solo per giusta causa) e verso il
basso (le consuetudini sono vincolanti).
Gli statuti cittadini, inoltre, pur rappresentando la principale legge scritta della città, non sono la
fonte primaria del diritto.
E’ vero che inizialmente la dottrina civilistica è scettica di fronte alle norme statutarie, soprattutto di
fronte a quelle che derogano alle leggi romane (le leges per antonomasia).
Ma poi si adegua e riconosce la validità prima di tutto delle consuetudini contrarie alle leges e poi
agli ‘statuti’, categoria che si affaccia al pensiero giuridico solo in un secondo momento.
Se i giuristi, soprattutto dalla seconda metà del Duecento in poi, non rinnegano le esperienze
giuridiche particolari, permane sempre una differenza di fondo tra il diritto statutario ed il diritto
comune.
E’ vero che la norma statutaria è dotata di priorità, nel senso che prevale sul diritto romano, ma non
è comunque la norma primaria.
I giuristi trecenteschi, quando il sistema è ormai al suo apogeo, diranno che lo statuto dev’essere
sempre interpretato secondo il diritto comune ed in modo da ledere il meno possibile il diritto
comune.
Ciò consente alla norma statutaria di operare, ma sempre in un ambito di fatto dominato dal diritto
comune.
Corrisponde ad una visione semplicistica del diritto medievale, il pensare che le norme statutarie
potessero essere applicate autonomamente dal diritto comune.
Gli statuti generano sempre problemi interpretativi.
Sono quelle che, nel gergo dei doctores, si chiamano quaestiones statutorum.
Per risolvere questi problemi, i giuristi facevano uso del diritto comune.
Quindi occorre distinguere tra applicazione ed uso del diritto comune.
Tutto ciò permette alla dottrina, che gestisce il diritto comune, di mantenere un ruolo decisivo
all’interno del sistema delle fonti, nei cui confronti esercitano un ruolo di controllo.
Questo atteggiamento dipende in buona sostanza anche dalla fondamentale convinzione che il
diritto romano sia espressione non provvisoria di razionalità, il vero deposito dei princìpi generali
del diritto, il campo del certo e del vero, di contro agli statuti, espressione di politiche del diritto
provvisorie e contingenti, evanescenti come ombre lunari e mutevoli come la luna, secondo la felice
immagine calzante di Boncompagno da Signa, un retore che la esprime agli inizi del Duecento nella
sua Retorica novissima: “Queste leggi municipali e questi plebisciti sbiadiscono come ombre lunari
e a somiglianza della luna si accrescono e decrescono secondo l’arbitrio dei legislatori”.
Il dinamismo della legislazione statutaria diventò addirittura proverbiale: Legge fiorentina fatta la
sera è guasta la mattina, Legge di Verona non dura da terza a nona.
Ed anche Dante, nel Purgatorio, avrebbe rimproverato a Firenze, la pletora di leggi: “… fai tanto
sottili provvedimenti, ch’a mezzo novembre non giugne quel che tu d’ottobre fili”.
Nessuna raccolta di testi di legge per quanto autoritativa sarebbe stata da sola sufficiente.
La forza acquistata dal diritto comune dipese in misura determinante dalla metodologia specifica
adottata nell’applicazione dei testi medesimi.
Fu la tecnica introdotta all’inizio del XII secolo dai glossatori bolognesi a rendere ineludibile la
conoscenza della legge romana (Padoa-Schioppa, Legislation and Justice).
L’opinione dei giuristi divenne così il motore essenziale del sistema.
Di più: divenne anche fonte del diritto, dal ‘300 al ‘500, nella veste tecnica di communis opinio, la
cui osservanza consentiva di non incorrere nel sindacato per errore di diritto.
Sul continente la complessità del diritto romano e del diritto canonico, ma via via anche le esigenze
di applicazione di consuetudini scritte, statuti cittadini, ordinanze regie imposero uno standard di
capacità tecnica che solo il giurista formato sui banchi di uno Studio generale era in grado di
raggiungere in misura piena.
Solo in età moderna lo Stato diventa la fonte esclusiva della legge e la legge a sua volta la fonte
prevalente del diritto.
Dal diritto come limite dello Stato al diritto come prodotto dello Stato.
Quindi diritto non è solo legge, nel medioevo e nell’età moderna.
E la consuetudine è un limite per la legge, come si vede bene nel penale.
Ogni ordinamento giuridico non primitivo conosce il trinomio legge-dottrina-consuetudine, e
dall’età moderna, giurisprudenza (la giurisprudenza delle corti centrali: Senati, Rote, Consigli,
Parlamenti).
Nel modello medievale colpisce la consapevolezza del ruolo ineliminabile di ciascuno dei tre
elementi: la concezione della “onnipotenza” della legge, considerata quale fonte pressoché esclusiva
del diritto, nascerà molto più tardi, nell’epoca delle riforme settecentesche.
Essa sarà superata solo in anni vicini.
Così come solo in questi ultimi anni, in virtù dell’ordinamento comunitario europeo, si sta
riaffermando la concezione, familiare all’Europa del medioevo, di un ordinamento legislativo a più
livelli.
La fiducia nella giurisprudenza (dottrinale o giudicante) come elemento di controllo del sistema e
strumento di certezza cade solo nel Settecento, con la formazione delle correnti
antigiurisprudenziali.
All’interno dei regni vi era poi il diritto regio, in certi ordinamenti fin dalla fine del XII secolo: basti
pensare ai regni d’Inghilterra o al regno di Sicilia, mentre all’interno del regno d’Italia, la cui
corona spettava all’imperatore, da questo punto di vista la normativa regia è assente.
Nelle città del regno d’Italia un nuovo tipo di legislazione si avrà solo con il trapasso dal regime
comunale a quello signorile: è il diritto signorile, promanante dai nuovi signori (i Visconti e poi gli
Sforza a Milano ed in tante altre città lombarde e dell’Italia settentrionale, gli Scaligeri in Veneto, i
Carraresi a Padova, gli Estensi a Ferrara, i Gonzaga a Mantova).
In Lombardia, dopo una breve parentesi dei Torriani, conquistarono il potere i Visconti.
Tappe fondamentli della loro ascesa politica furono la concessione del vicariato imperiale ad
Azzone Visconti nel 1329 e nel 1395 la nomina a duca di Gian Galeazzo Visconti, da parte
dell’imperatore Venceslao.
L’ingresso dei signori nel panorama politico del tardo Duecento e poi del Trecento non eliminò
dall’orizzonte il diritto comune, né il diritto statutario.
I signori ottennero tuttavia dalle città, nei vari atti di dedizione, l’arbitrium di legiferare super bono
et pacifico statu civitatis senza essere vincolati al diritto vigente.
Questo potere significava tra l’altro:
1) che i signori potevano modificare o revisionare gli statuti;
2) che l’efficacia degli statuti era subordinata all’assenza di decreti contrari;
3) che ogni statuto doveva essere approvato dal signore.
I Visconti promossero effettivamente revisioni statutarie nelle varie città del dominio, con le quali
cercarono di raggiungere una certa uniformità, superando le diversità di regime fino ad allora
esistenti.
Negli anni ’30 del Trecento molto importanti furono le riforme di Azzone Visconti, che prese corpo
negli Statuti di Milano del 1330 (non pervenuti), che fecero verosimilmente da modello per gli
Statuti di Bergamo del 1333, di Como del 1335, di Piacenza del 1336, di Monza del 1333-1339.
Giovanni e Luchino Visconti promulgarono gli Statuti di Cremona nel 1339 e di Varese del 1347;
Giovanni Visconti gli Statuti di Bergamo del 1353; Bernabò Visconti gli Statuti di Brescia del
1355. Cremona 1355-1356.
Una revisione statutaria su amplissima scala fu quella promossa e condotta in porto negli anni ’70,
‘80 e ’90 del Trecento da Gian Galeazzo Visconti, che diede luogo alle seguenti compilazioni:
Bergamo 1374, Brescia 1385, Cremona 1388, Lodi 1390, Piacenza 1391, Bergamo 1391, Vigevano
1392, Pavia 1393, Soncino 1393, Verona 1393, Milano 1396 (che riproducono quelli del 1351).
Per le città lombarde e venete, il momento finale della produzione statutaria coincide generalmente
con il Quattrocento, e quindi con gli Sforza per le città rientranti nel Ducato di Milano (Como 1458:
Francesco Sforza, Monza 1466: Francesco Sforza, Milano 1498-1502: statuti di Ludovico il Moro e
di Luigi XII d’Orléans) e con la Repubblica di Venezia per le città della Terraferma veneta (Verona
1450, Brescia 1473 = Brescia 1490, Bergamo 1491, Vicenza, Padova)
Quanto ai decreti, di fatto, anche se essi avevano per i signori la stessa efficacia dello statuto, che
emanava dal populus, anche se molti di loro si definirono lex animata in terris e chiamarono lex
generalis i loro decreti, questi per avere valore dovevano essere pubblicati e trascritti nel volumen
statutorum e valevano solo negli ordinamenti locali ai quali venivano effettivamente spediti.
Anche se si trattò comunque di una legislazione settoriale, è innegabile che molte riforme furono
possibili solo perché compiute a colpi di decreto.
Un’osservatore autorevole della prassi del Duecento: Alberto Gandino Nasce a Crema nel 1240-1250.
Si laurea a Padova, dove è allievo di Guido da Suzzara.
Non è un professore: fa il giudice itinerante a Lucca, Bologna, Perugia, Firenze, Siena, Modena.
E’ pure podestà a Fermo nel 1305.
La sua opera è la prima esposizione del diritto e della procedura penale fatta da un pratico.
E’ essenzialmente una raccolta di quaestiones.
S’intitola Tractatus de maleficiis.
Fu scritto a Perugia (1286-1287) e poi rivisto a Siena (1299).
Fu appositamente elaborata per i suoi due figli, Albicino e Iacobino, studenti a Padova, ma anche
per tutti i sapienti.
E’ divisa in 35 rubriche, dedicate alla procedura penale e al diritto penale.
Se ne conoscono ben 7 redazioni manoscritte: tre di Gandino, del periodo 1286/1287-1301 e quattro
spurie, di epoca più tarda.
Impressionante è il numero delle fonti lette e messe a frutto.
Si ritrovano i nomi di Azzone, Accursio, Odofredo, Bernardo da Parma, Guido da Suzzara, Iacopo
d’Arena, Martino da Fano, Tommaso da Piperata, Uberto da Bobbio, Dino del Mugello, Guglielmo
Durante, Riccardo Malombra.
Il rito accusatorio dei comuni italiani Il rito accusatorio dei comuni italiani prevede una serie di fasi interne, ciascuna accompagnata da
termini stretti (per presentare l’accusa, per la litis contestatio, per presentare le prove, per
difendersi) e da garanzie, tese a scongiurare il rischio di accuse temerarie o infondate (giuramenti,
cauzioni, fideiussioni).
Nel momento in cui siamo in grado di vederlo meglio operare, nel Duecento, esso ci appare come
un processo formale, in cui era essenziale che sia le parti sia il giudice fossero assistite da personale
specializzato (procuratori, avvocati, notai, giuristi consulenti) che conoscesse le regole del rito,
fissate dal diritto, ed anche costoso: per i salari da versare agli avvocati o ai consulenti, per le
somme richieste a titolo di garanzia.
1. E’ un processo che si instaura su domanda di parte, come nel civile. Presuppone
un conflitto in atto tra due parti, senza con ciò volersi sostituire (almeno nella sua forma
pura) alla giustizia privata, che corre su un binario parallelo. E’ un processo che serve a
risolvere un conflitto di parte e che alcuni storici propongono di chiamare processo reattivo
(adottando il lessico proposto dal comparatista croato-americano Mirian Damaška, nel libro
The Faces of Justice and State Authority, New Haven, Yale University Press, 1986, trad.
ital. I volti della giustizia e del potere, Bologna, Il Mulino, 1991), perché presuppone un
conflitto tra due parti ed è istituzionalmente teso a risolvere questo conflitto.
2. E’ un processo triadico, a tre parti (accusatore, accusato, giudice), “concepito
come una contesa fra due parti avverse di fronte a un risolutore di conflitti neutrale”.
3. Il giudice, nel rito accusatorio puro, ha una posizione diversa da quello che ricopre
nel rito inquisitorio. Egli si limita infatti a reagire a determinate richieste delle parti: in
particolare, non svolge un ruolo attivo nella ricerca delle prove e nella punizione del
colpevole, ma si limita a consentire lo svolgimento dello scontro processuale tra le parti.
Questo perché il comune, la res publica, non ha ancora sviluppato un interesse del tutto
autonomo da quello delle parti alla punizione del colpevole.
4. E’ un processo circondato da numerose cautele, che servono a scongiurare il
rischio di azioni temerarie o calunniose. L’accusatore s’impegna a proseguire il processo
fino al suo esito e a presentare le prove della colpevolezza dell’imputato. Il giudice controlla
i requisiti per l’ammissibilità degli accusatori e delle prove e provvede all’escussione dei
testimoni.
5. E’ un processo che, nel medioevo continentale, è senza giuria, senza
partecipazione popolare: giudice del fatto e del diritto è sempre il podestà o il giudice del
maleficio, che valuta i requisiti formali, per verificarne la regolarità, fa citare l’accusato,
presiede la fase di litis contestatio, in cui l’accusato dichiara se accetta o no il giudizio,
ordina l’acquisizione al processo delle prove, che sono prevalentemente testimoniali. Non
esiste una giuria di accusa, chiamata a valutare la regolarità e la fondatezza dell’accusa in
via preliminare. Manca la giuria di giudizio, investita del potere di definire le questioni di
fatto.
6. E’ un processo senza dibattimento orale. Le prove testimoniali vengono infatti
acquisite in segreto, fuori dalla presenza delle parti e dei loro avvocati. I testimoni sono
interrogati dai giudici, ma spesso anche dai notai, che quindi svolgono un ruolo importante
nel processo penale. Le domande, però, vengono fatte sulla base dei capitoli offerti dalle
parti: rispettivamente le intentiones dell’accusatore e le quaestiones dell’accusato. E’
prevista infatti la possibilità dell’interrogatorio incrociato: i testimoni saranno interrogati
sulla base delle domande proposte dall’avvocato dell’accusatore e poi saranno contro-
interrogati sulla base delle domande preparate dall’avvocato dell’accusato, e via di seguito.
7. E’ un processo in parte orale (litis contestatio, accordi, perfino la sentenza in molti
luoghi), in parte scritto (escussione dei testimoni, difese).
8. Manca l’interesse allo studio delle sentenze (laddove fossero redatte per iscritto e
fossero archiviate). Esse, infatti, non erano motivate. Il loro contenuto, quindi, dal punto di
vista delle argomentazioni giuridiche, è povero. Il formulario prevede che si indichino i
nomi delle parti, si dia atto delle prove presentate e delle difese esperite (attraverso la tipica
formula utriusque partis allegationibus auditis, udite le allegazioni di entrambe le parti), si
decreti la condanna o l’assoluzione. Solo la lettura dei processi completi dà quindi la
possibilità di valutare le argomentazioni giuridiche, che si possono reperire, dalle allegazioni
delle parti, se esistono, e dai consilia eventualmente commissionati durante il processo dai
giudici (consilium sapientis iudiciale) o dalle parti (consilium pro veritate) a giuristi non
coinvolti come difensori nella causa. Neanche le allegazioni degli avvocati ed i consilia,
tuttavia, erano soggetti, nel Duecento, ad un’attività di raccolta e quindi di studio. Il
contenuto dei consilia dati in occasione di un processo resta perciò affidata alla memoria dei
presenti o dei pratici operanti in un determinato foro cittadino. Erano invece raccolte e
studiate le quaestiones, che i doctores (cioè coloro che erano in possesso della laurea in
diritto civile e/o canonico, acquisita nelle università esistenti, e che vi insegnavano a loro
volta) redigevano per l’addestramento dei loro studenti. Molte di tali questioni, com’è stato
appurato, sono state ricavate da consilia resi in occasione di processi effettivamente celebrati
nelle varie corti cittadine.
Il processo accusatorio è un procedimento ad iniziativa dei privati.
Si inserisce in un conflitto più ampio tra le parti, di cui rappresenta una fase, a seconda dei casi
conclusiva o interlocutoria.
L’accusa, per i giuristi medievali, rappresenta il modo ordinario di procedere nel penale.
I maestri si richiamano al diritto civile, al diritto canonico ma anche al diritto divino.
Alberto Gandino, ad esempio, come altri prima di lui, cita il Vangelo: Si nemo te accusat, nec ego te
condemno, aveva detto Gesù all’adultera.
L’accusatore s’impegna a proseguire il processo fino al suo esito e a presentare le prove della
colpevolezza dell’imputato. Il giudice controlla i requisiti per l’ammissibilità degli accusatori e
delle prove e provvede all’escussione dei testimoni.
Il rito accusatorio prevede una serie di fasi interne, ciascuna accompagnata da termini stretti (per
presentare l’accusa, per la litis contestatio, per presentare le prove, per difendersi) e da garanzie
(giuramenti, cauzioni, fideiussioni).
Era dunque un processo costoso, nel quale doveva intervenire personale specializzato (notai,
procuratori).
Gli accusatori De iure, non possono accusare i servi, le donne (se non per i reati che le riguardano come persone
offese), gli impuberi (cioè i minori di 12 anni, se femmine, e di 14, se maschi), gli adulti minori di
25 anni, senza il consenso del curatore, i figli in potestà senza il consenso del padre (tranne che per i
crimini pubblici), i figli in potestà contro il padre (anche per ingiuria grave: solo gli emancipati
potevano accusare), gli infami, i banditi ed altre categorie di soggetti ritenuti non legittimati
all’accusa per varie ragioni
De iure, se il delitto è privato può accusare solo la parte lesa; se il delitto è pubblico, chiunque,
tranne restrizioni, come nel caso dell’adulterio.
La distinzione tra delitti privati (delitti in senso stretto) e pubblici (crimini) è tecnica e deriva dal
diritto romano.
Sono delitti privati: il furto, la rapina, l’incendio, le ingiurie, l’aggressione, il ferimento, le percosse,
la diffamazione.
Sono delitti pubblici (o crimini): l’eresia, la bestemmia, il crimine di lesa maestà (sotto questa
etichetta rientra una vasta serie di comportamenti contrari all’ordine della res publica ed all’integrità
del governo e dei governanti, previsti dalla legge Iulia maiestatis, esposta in D. 48.4 e in C. 9.8), i
reati sessuali (adulterio, stupro, ratto), la violenza pubblica e la violenza privata (altre figure
delittuose complesse, che fanno capo alla legge Iulia de vi publica ed alla legge Iulia de vi privata:
nella vis publica rientrano ad esempio lo stupro violento, l’incendio il ratto di fanciulli; della
violenza privata fanno parte la rapina in occasione di pubbliche calamità, la violenza per impedire
di presentarsi in giudizio, l’occupazione di fondi), l’omicidio (previsto dalla legge Cornelia de
sicariis et veneficis), il parricidio (legge Pompea de parricidiis), i reati di falso (legge Cornelia de
falsis), la corruzione (legge Iulia repetundarum), le manovre speculative (legge Iulia de annona), il
peculato, il sacrilegio, l’istigazione alla corruzione (legge Iulia de ambitus), il plagio (legge Fabia
de plagiariis), il favoreggiamento, i reati connessi con l’accusa (previsti dal senatoconsulto
Turpilliano) ed altri titoli di reato.
La fattispecie dei delitti privati, peraltro, viene doppiata, nel senso che si costituisce nel contempo
una fattispecie speculare di delitti pubblici, in modo da fornire una tutela criminale anche ai
comportamenti delittuosi inizialmente dotati solo di una tutela risarcitoria privata.
Per i delitti privati, molti statuti stabiliscono che è sempre necessario ottenere il consenso della parte
lesa.
La facoltà di accusare è comunque soggetta a non poche variazioni rispetto al diritto romano negli
statuti.
Il libello accusatorio In alcuni luoghi, l’accusa dev’essere presentata entro un certo termine dal giorno della commissione
del reato (a Bologna 1288: un mese).
Non è necessaria la redazione di un libello accusatorio scritto, come prevede la legge romana.
L’accusa, pur presentata oralmente nell’apposito ufficio del maleficio, dev’essere però trascritta nel
libro delle accuse da un notaio.
Dalla stessa devono risultare i nomi delle parti, il luogo ed il tempo del delitto, la richiesta di
procedere.
In alcune città, gli statuti esigono che l’accusatore indichi anche i nomi dei testimoni, a seconda dei
casi per tutti o per alcuni delitti (Como, Perugia 1279; è la regola nel diritto milanese, a partire dagli
Statuti del 1330, e da lì passa poi in altri statuti lombardi).
L’iscrizione alla pena del taglione è caduta in desuetudine, come la pena stessa: questo, come
afferma Gandino, per non scoraggiare gli accusatori.
Nel diritto milanese si ha conferma di questa consuetudine contraria al diritto romano già nelle
Consuetudini di Milano del 1216, 3, de ordine causarum criminalium, 3: il reo si conviene come
nelle cause civili, non accepta pagina inscriptionis, sed simplici porrecto libello (senza iscrizione
alla pena del taglione, ma con la semplice presentazione - porrectio - del libello accusatorio).
L’accusatore deve in genere giurare sulla verità dell’accusa e che non accusa animo calumniandi.
Poi deve promettere di proseguire l’accusa nei termini stabiliti e dare garanzia (securitas:
fideiussori) per la multa e le spese.
In caso di non prosecuzione dell’accusa, deve pagare una multa e rifondere le spese.
E’ una regola del diritto milanese, come dimostra almeno la riforma statutaria del 1330, ed è
adottata anche da altri statuti lombardi.
La carcerazione preventiva dell’accusatore è richiesta de iure, mentre de consuetudine non si
osserva.
Ciò è confermato dalle consuetudini e dagli statuti lombardi, che non la prevedono.
Citazione dell’accusato Nella citazione si ordina all’accusato di comparire in giudizio entro un dato termine e gli si
notificano gli estremi essenziali del libello.
Le citazioni necessarie de iure sono tre, dopo le quali si può emettere il bando.
Presentazione Nella prima udienza, si chiedono solitamente determinate garanzie all’accusato.
A Bologna, ad esempio, ai sensi dello statuto del 1288, se l’accusato si presenta nel termine stabilito
nella citazione, il giudice si fa prestare il giuramento de veritate e di calunnia e la promessa di
ripresentarsi e di adempiere l’eventuale condanna pecuniaria, dietro apposita fideiussione.
Molto ricorrenti negli statuti sono altre due regole, che interessano questa fase del giudizio.
Se il delitto è delitto punito con pena sanguinis, l’accusato è tenuto a presentarsi personalmente e
non attraverso procuratore: è norma ricorrente in tutti gli statuti lombardi.
La carcerazione preventiva dell’accusato è imposta generalmente solo per i reati puniti con pena
capitale.
Nei reati puniti con pena pecuniaria, l’accusato può invece evitare il carcere se ha dei fideiussori
oppure se paga una cauzione (secondo le Consuetudini di Milano 1216, il versamento di una
cauzione è ammesso anche per i reati capitali).
Anche questa è una norma che trova ampio riscontro nel diritto lombardo.
Litis contestatio Dopo il giuramento dell’accusato (il giuramento de veritate dell’attore di solito è preteso già al
momento della presentazione dell’accusa), nella stessa udienza o in un’altra, il notaio legge il libello
e il giudice interroga le parti. Il convenuto deve confessare o negare di aver commesso il delitto.
E’ la litis contestatio: l’accettazione del processo da parte del convenuto.
Positiones In una successiva udienza, il cui termine è fissato dal giudice, o nella stessa, il giudice interroga le
parti per circoscrivere l’oggetto della prova.
L’interrogatorio avviene sulla base di domande proposte dall’attore (positiones) a cui l’accusato
deve rispondere con le parole credo, non credo, nego. Se risponde credo i fatti rimangono confessati
e provati.
Si dà quindi un termine all’accusato e all’accusatore per produrre le prove.
In particolare, all’accusatore per indicare i testi e le domande da porre loro (intentiones) e
all’accusato per le proprie domande (quaestiones) da porre ai testi d’accusa e per la lista dei
testimoni a difesa.
Questo momento varia da statuto a statuto, ma è sempre dopo la litis contestatio.
Testimonianze I testimoni hanno un ruolo centrale.
Il giudice valuta se i testimoni hanno i requisiti per testimoniare.
Procede quindi alla loro escussione, sulla base delle intentiones dell’accusatore e delle quaestiones
dell’accusato.
Le parti assistono solo al giuramento dei testimoni.
Le domande sono fatte dal giudice o da un notaio, sulla scorta dei capitoli presentati dalle parti.
Anche ai testimoni possono essere chieste delle garanzie.
A Bologna, ad esempio, secondo i già menzionati statuti del 1288, il procedimento si svolge così:
l’accusatore dà al giudice la lista dei testimoni; il giudice li cita e dispone il pignoramento di alcuni
beni a garanzia; chiede le intentiones all’accusatore, le quaestiones all’accusato.
In ogni caso, vi sono due differenze importanti rispetto alla prassi inquisitoria: l’escussione dei testi
si fa dopo la citazione dell’imputato, al quale devono essere comunicati i capi d’accusa.
Duello Nel Duecento, diverse città italiane, anche per tradizione di diritto longobardo, continuavano ad
ammettere il duello giudiziario nei loro statuti, talora con minuziosità, pur se con riferimento ad un
numero ristretto di crimini, peraltro non dei minori, e con cautele (esistenza di indizi di
colpevolezza contro il reo; mancanza di prove piene).
A Perugia, ad esempio, nello statuto del 1279, dove il duello è ancora largamente presente, in un
capitolo il sistema probatorio dell’omicidio è incentrato sulla confessione e sui testimoni; in loro
assenza o insufficienza si dà all’accusato la facoltà di difendersi con il giuramento ma, qualora
l’attore lo incolpi di spergiuro, può essere ordinata la pugna, ad arbitrio del podestà e del capitano
del popolo.
E in altra sede si dice che l’omicidio può sempre provarsi con il duello.
Un mosaico che lascia convivere differenti metodi di soluzione di una lite.
Non era ovunque così.
Molti altri statuti tacevano.
E nel Regno di Sicilia il duello era stato espressamente proibito da Federico II, in una costituzione
del Liber Augustalis che Roffredo accosterà agli ultimi esiti del diritto canonico, e a Baldo tanto
piacerà, per la sua tensione verso l’equità naturale [C1] , pur se l’imperatore aveva insistito nel
conservare il deprecato rimedio contro gli imputati di veneficio, omicidio clandestino e lesa maestà,
a fini dichiaratamente intimidatori.
Dal XII al XIII secolo, i pontefici si occuparono più spesso del duello e, con qualche eccezione,
formulando giudizi tutto sommato contrari al suo utilizzo, quanto meno nei processi ecclesiastici.
Certo, si tratta di decisioni di specie, di schegge che emergono da una prassi che ancora li utilizza
appieno: ma esse denotano comunque una forma di reazione.
Sono lettere di Callisto II, di Alessandro III e di Celestino III, che in una di esse condanna la prava
consuetudo relativamente ad un caso verificatosi in una corte di giustizia laica, dove, essendo stato
commesso un furto e mancando l’attore (un sacerdote) di testimoni, questi aveva chiesto il duello,
svoltosi poi tramite un campione.
Morto il convenuto (un laico) in seguito alle ferite ricevute, per il papa si tratta, né più né meno, che
di un omicidio.
Anche Innocenzo III fu chiamato a risolvere casi concreti, ma il suo pontificato segna un vero punto
di svolta, nel momento in cui l’avversione nei confronti del duello e delle ordalie si congiunge ad un
più ampio e ambizioso disegno: una giustizia ecclesiastica da un lato sempre più centralizzata ed
efficiente (grazie anche all’uso di una forma processuale come l’inquisizione) e dall’altro sempre
meno compromessa con la giustizia secolare (la presenza di sacerdoti era essenziale
all’espletamento delle ordalie).
Quando questo obiettivo verrà tradotto sulla carta, nel IV concilio lateranense del 1215, la conferma
dell’interdizione del duello e il solenne divieto rivolto ai chierici di partecipare alle ordalie
acquisteranno un sapore nuovo.
L’appoggio della scienza fu determinante, sia prima che dopo.
Infatti, rispetto al XII secolo, età in cui la decretistica era ancora divisa, non essendo ancora del
tutto convinta che il duello dovesse ritenersi illecito in ogni caso, quanto meno per i laici, la
canonistica del Duecento, forte dei nuovi appigli normativi, si schierò senza reticenze contro la
pugna, e questo senza far differenze tra giudizi ecclesiastici e secolari.
Pubblica fama - Giuramento dell’accusatore La pubblica fama (cattiva reputazione dell’accusato) ed il giuramento dell’accusatore, de iure, non
hanno valore di prova piena in materia criminale.
Determinati statuti, invece, elevano al rango di piena prova sia la pubblica fama, provata da un certo
numero di testimoni, sia il giuramento della persona offesa, eventualmente congiunto ad altri
elementi (testimoni, pubblica fama).
Anche il giuramento dell’accusato può talora avere rilevanza.
Ad esempio, secondo lo Statuto di Perugia del 1279, il cittadino di Perugia accusato di furto che
non sia né convinto né confesso può difendersi con giuramento dall’accusa.
Se però l’avversario si oppone, l’accusato, se è maggiore di 14 anni ed la cosa rubata ha un valore
superiore ai 20 soldi, deve difendersi il suo giuramento con il duello, altrimenti si reputa confesso
(cap. 293).
Dopo la fase probatoria, l’accusato presenta le proprie allegazioni e difese.
Esiti Il processo accusatorio può terminare in vari modi:
A) Mancata prosecuzione dell’accusa.
Il processo può semplicemente interrompersi perché l’accusatore non può proseguire l’accusa e
quindi abbandona il processo oppure la ritira formalmente, rinunciando ad essa: cosa che, se vuole
evitare sanzioni pecuniarie, in genere può fare solo entro certi termini.
E’ evento frequentissimo.
La mancata prosecuzione dell’accusa integra il crimine di tergiversatio, che gli statuti puniscono in
genere con una pena pecuniaria.
E’questo il rischio dei processi accusatori.
L’abbandono può dipendere:
1) dall’intimidazione esercitata dall’imputato sull’accusatore o sui testimoni;
2) da effettiva incapacità di proseguire l’accusa;
3) dal fatto che accusatore e accusato hanno trovato un altro modo di risolvere il loro conflitto. Ma
in questo caso allora interviene la pace.
La collusione con l’accusato si chiama invece prevaricazione ed è punita dal diritto comune con una
pena arbitraria e dagli statuti con una pena per lo più pecuniaria.
B) Condanna per contumacia: frequentissima.
Se, dopo le citazioni di rito (tre, ma anche due secondo alcuni statuti: Perugia 1279; Spoleto 1347),
l’accusato resta assente, non sarebbe possibile emanare una sentenza di condanna: questo secondo
tanto il diritto civile quanto il diritto canonico.
Neanche si potrebbero ricevere le deposizioni dei testimoni.
Il diritto romano prevede che i beni di colui che non risponde alla chiamata nel termine previsto
siano confiscati.
Se l’assente si presenta entro 1 anno, è ammesso a difendersi e, se viene assolto, i beni gli sono
restituiti.
Se si presenta dopo 1 anno, i beni rimangono invece al fisco.
In Italia, la consuetudine è ben diversa e così pure differente è il regime degli statuti.
Contro il contumace, infatti, il giudice può emettere immediatamente una sentenza di bando e
successivamente, se egli non si presenta nel termine previsto, di condanna in relazione al reato di
cui è accusato, senza bisogno di ulteriori indizi: la contumacia equivale infatti ad una confessione
presunta.
Non è necessario che il giudice disponga di prove effettive della colpevolezza dell’inquisito.
Effetti del bando
1) perdita della capacità processuale;
2) perdità della capacità di ricoprire incarichi pubblici;
3) perdita del diritto all’integrità fisica e financo della vita (nel diritto milanese e lombardo: solo se
il delitto è punito con pena capitale) o all’integrità dei suoi beni;
4) confisca dei beni (solo per determinati reati: nel diritto milanese e lombardo è prevista per il
crimine di lesa maestà, la ribellione, l’omicidio, la falsa moneta).
Il bando diventa esecutivo trascorso il termine stabilito perché l’imputato si possa presentare.
La contumacia, per il diritto statutario, equivale dunque ad una prova piena di colpevolezza: il reo,
si dice, si considera come convinto e confesso.
Il podestà o i suoi giudici devono pertanto condannarlo.
Questa condanna, in base ad alcuni statuti cittadini, può essere definitiva e quindi, oltre che
inappellabile, immediatamente esecutiva e perciò da eseguirsi, non appena il bandito è catturato
(quando perviene in fortia communis), senza che gli siano concesse le difese (autorizzando, anzi, la
sua tortura, per scoprire i complici o altri delitti da lui commessi).
Per altri statuti la condanna è revocabile: se il bandito viene catturato o si costituisce, inizia un
nuovo procedimento che può portare all’assoluzione o alla condanna definitiva: così, ad esempio, se
il reato non è punito con pena di sangue, avviene a Milano, secondo gli statuti trecenteschi, e poi in
altre città lombarde che seguono questo modello.
Il bando è un provvedimento caratteristico del processo penale anche per tutta l’età moderna.
Con il suo rifiuto a comparire in giudizio, colui che è citato si pone fuori dalla comunità, in uno
stato di inimicizia, alla stregua di un nemico.
Osserva Otto Brunner che “Solo nel XVIII secolo il concetto moderno del diritto penale che punisce
il violatore del diritto, senza considerarlo per ciò un nemico e senza espellerlo dalla comunità
giuridica, si stabilisce definitivamente nel diritto continentale. A questo punto si afferma anche
l’idea che soltanto il soldato avversario sia nemico nel senso del diritto internazionale”.
Gli statuti, inoltre, mirano a fare il vuoto intorno al bandito, punendo qualsiasi comportamento di
favoreggiamento.
Sono ipotesi delittuose che non mancano mai: è punito chi presti aiuto o consiglio ai banditi, chi li
accolga nella propria casa, viene financo punita la comunità che offra ricetto ai banditi, tollerando
che in essi dimorino o soggiornino (conversatio).
Si impongono soprattutto agli abitanti dei borghi e dei villaggi di adoperarsi afinché i banditi siano
consegnati alla giustizia.
Tutto questo insieme di disposizioni pone, com’è logico, spinosi problemi interpretativi.
Ci si chiede, ad esempio, se sia necessaria la consapevolezza che taluno è stato bandito, e si
risponde affermativamente, tanto che molti statuti specificano che colui che dà ricetto al bandito
deve sapere il suo stato.
Ci si chiede a quali condizioni una comunità possa essere punita per non aver consegnato il bandito
alla giustizia, e via discorrendo.
Il favoreggiamento dei banditi negli statuti
Propriamente, ragionando secondo il diritto comune, c’è differenza tra nascondere il bandito
(receptare) e lasciarlo liberamente soggiornare.
La differenza viene fatta notare da importanti giuristi del Trecento.
Gli statuti, tuttavia, considerano spesso equivalente alla ricezione il lasciare che il bandito soggiorni
pubblicamente.
In tal caso, l’illecito sembra possa essere costruito come un’omissione dell’obbligo di espellere
oppure di catturare e di presentare alle competenti autorità il bandito che sia trovato nella comunità:
obbligo da intendersi violato, come molti statuti affermano, nel momento stesso in cui il bandito sia
lasciato soggiornare pubblicamente (publice morari) in una determinata comunità.
L’obbligo può essere penalmente sanzionato tanto nella comunità quanto in ciascuna persona.
Qualche esempio.
Perugia 1279, cap. 278, p. 277: si castrum vel villa aut specialis persona receptaverit vel retinuerit
aliquem exbannitum pro maleficio (se un castello o un villaggio o una persona individuale avrà
accolto o tenuto qualche bandito per maleficio… multe differenziate per i castelli, le ville, le chiese
o i monasteri).
Pistoia 1286, III, 12, p. 107: nulla communitas sive comune... receptet vel permictat habitare
aliquem exbannitum... (nessuna comunità o comune… accolga un bandito o gli permetta di abitare
tra le sue mura: multa).
Pistoia 1286, III, 163, p. 151: si in aliqua comunitate nostri districtus publice et palam staret et
moraretur aliquis rebellis civis... eadem pena puniatur talis comunitas per cuius territorium publice
et palam et in presentia hominum comunitatis transiret aliquis rebellis civis..., si non traxerint ad
capiendum eos et eos caperent, si potuerunt (se in qualche comunità del nostro distretto stesse ed
abitasse pubblicamente e apertamente qualche cittadino ribelle… tale comunità sia punita con la
stessa pena irrogata al ribelle, se gli abitanti non avranno cura di prenderlo e non lo abbiano preso,
potendolo fare .
Pisa, Breve 1286, III, 32, p. 387 s.: Si quod autem commune pisani districtus aliquem exbannitum
pro maleficio aliquo, vel quasi, receperit, vel ibi esse aut stare permiserit (se qualche comune del
distretto pisano avrà accolto o permesso di dimorare nei suoi confini un bandito per maleficio o
quasi maleficio): l’universitas è condannata ad una multa hoc ipso quod probetur exbannitum
publice morari vel stare in communi vel universitate (nel momento stesso in cui si provi che il
bandito abitava pubblicamente o stava nel comune o nell’universitas).
Nello statuto di Lucca del 1308, III, 82, p. 193 s., si proibisce che un comune o universitas del
distretto teneat... vel receptet... in suo comuni vel terra vel pati ibi aliquem morari imbanpnitum vel
condenpnatum pro maleficio, asosinum (sic) vel masnaderium, ex quo notum vel denunptiatum
fuerit in ipso comuni publice talem imbanpnitum esse vel condenpnatum occasione maleficii vel
quasi, vel nisi esset notorium (tenga… o accolga… nel suo comune o terra, o lasci abitare un
bandito o condannato per maleficio, un assassino o un masnadiero, da quando sia noto o denunciato
pubblicamente nello stesso comune che il tale era bandito o condannato per un maleficio od un
quasi maleficio, o ciò non fosse notorio). La pena è dovuta salvo quod ipsum comune presentaverit
lucano Comuni talem imbanpnitum vel condenpnatum... (a meno che lo stesso comune non presenti
al comune di Lucca tale bandito o condannato).
Nel successivo cap. 83 si considera equivalente l’omessa reazione tosto che un bandito sia avvistato
in un comune del distretto. Non è pertanto indispensabile che un bandito soggiorni per un certo
periodo: Item, quod si in aliquo comuni districtus et fortie apparuerit vel visus fuerit aliquis
imbanpnitus pro maleficio, statim, quam citius fieri potest, homines illius comunis trahant ad
capiendum illum talem imbanpnitum cum armis et sine armis ad eorum beneplacitum, clamando
post et contra talem imbanpnitum ‘Capiatur, capiatur’. Et pulsari faciant campanas eorum comunis
ad sturmum. Quod si non fecerint, puniantur in ea summa ac si receptassent (se in qualche comune
del distretto è apparso o è stato visto qualche bandito per maleficio, immediatamente, quanto prima
è possibile, gli uomini di quel comune si traggano a catturarlo con armi o senza armi a loro scelta,
gridando ‘Si prenda, si prenda’. E facciano suonare le campane del loro comune a stormo. E se non
lo faranno, siano puniti nella stessa somma dovuta qualora lo accogliessero). L’obbligo coinvolge
anche i comuni che sentano il rumore e le campane o è verosimile che li possano udire: et sic de
campana in campanam per districtum et totam lucanam fortiam fiat pulsatio et rumor de comuni in
comune, et trahatur, ut dictum est, donec talis imbanpnitus captus fuerit, ad penam superius
nominatam pro quolibet comuni (e così di campana in campana per tutto il distretto ed il territorio
lucchese si propaghi il suono ed il rumore di comune in comune e sia protratto finché tale bandito
non sia preso, pena la sanzione sopra nominata per ciascun comune).
C) Assoluzione per intervenuta concordia tra le parti.
Il processo può terminare per accordo delle parti, che presentano al giudice un atto di pace redatto
davanti ad un notaio (instrumentum pacis).
De iure, in base alla l. Transigere del Codice (C. 2.4.18, de transactionibus: una costituzione di
Diocleziano del 293), si può transigere solo se il delitto è pubblico ed è punito con la pena di morte,
eccetto l’adulterio, per il quale non è lecita la pace, ed il falso per il quale è lecito transigere, benché
non sia punito con la pena di morte.
Transigere vel pacisci de crimine capitali excepto adulterio non prohibitum est. In aliis autem
publicis criminibus, quae sanguinis poenam non ingerunt, transigere non licet citra falsi
accusationem (Non è proibito transigere o fare pace di un crimine capitale, eccetto l’adulterio. Negli
altri crimini pubblici, che non comportano una pena capitale, non è lecito transigere, eccetto che per
l’accusa di falso).
Col tempo, si verrà ad ammettere in dottrina che la pace è lecita anche se il delitto è punito con pena
corporale, come la mutilazione, la fustigazione, ed anche se il delitto è privato, purché sia punito
con la pena di morte.
Si discute anche se si debba prestare attenzione alla pena stabilita dal diritto comune o dallo statuto:
finisce per prevalere la tesi che si deve aver riguardo allo statuto.
Quanto agli effetti della pace, la disputa è aperta già tra i glossatori ed i postaccursiani.
Pillio ed Azzone sostengono una tesi che dilata le conseguenze della concordia raggiunta ben oltre
le parti del contratto: la pace impedisce infatti a chiunque e non solo alle parti di proporre accusa e,
se il processo è in corso, lo fa cessare, con l’assoluzione dell’imputato.
In questo modo, le parti hanno il potere di decidere le sorti del processo.
Per Iacopo Colombi, Ugolino e Accursio, invece, la pace impedisce la proposizione dell’accusa solo
alle parti che l’hanno conclusa, ma non ad altri.
Odofredo aderisce invece alla tesi azzoniana.
Guido da Suzzara arriverà addirittura a dire che l’accordo tra le parti vale anche nei confronti del
podestà.
Ma su quest’ultimo punto, mentre Iacopo d’Arena, il Revigny ed il Belleperche affermeranno che la
pace non preclude né ad altri né perfino allo stesso accusatore di presentare accusa (per Iacopo,
l’effetto della liceità della pace, discendente dalla l. Transigere, è solo quello di evitare che nel
futuro, a causa della pace, l’offensore possa essere ritenuto reo confesso), prevarrà la tendenza
contraria, affermata a chiare lettere da Dino e da Alberto Gandino: il podestà può sempre proseguire
d’ufficio il processo.
Questo non deve portare a concludere che con l’avvento del processo inquisitorio la pace abbia
terminato di svolgere un ruolo: in realtà, la pace nel Duecento e nel Trecento ha ancora
un’incidenza fortissima ed anzi si può dire che in certi luoghi il numero più alto di assoluzioni per
pace privata si riscontra proprio nelle inquisizioni.
Può anche avvenire che il podestà assolva l’imputato, che gli presenta la carta della pace, anche se è
reo confesso: così a Perugia, nel 1276.
Le consuetudini e gli statuti accolgono regole diverse dal diritto comune.
In Lombardia, la pace nel XII-XIII secolo ha un certo rilievo, in relazione a determinati reati.
A Bergamo, nello Statutum vetus del Duecento, la pace è ammessa per i reati di ferimento con armi
vietate (pena prevista: guasto dei beni ed espulsione); ferimento senza premeditazione (pena
prevista: guasto dei beni ed espulsioni); omicidio non premeditato (non tractatim factum), punito
con il bando perpetuo, il guasto dei beni e l’espulsione dalla città.
In quest’ultimo caso, la pace con il ferito poi deceduto o con i suoi eredi consente la revoca del
bando.
Si stabilisce invece che la pace non può incidere sulla pena in caso di omicidio premeditato (pena
prevista: bando perpetuo ed altre) e di rottura della pace (pena prevista: come sopra).
Nel 1220 si decide di stabilire la pena di morte per l’omicidio premeditato.
Lo stesso si stabilisce per l’omicidio preterintenzionale commesso in città (ferite in città da cui è
derivata la morte).
Nel 1221, tuttavia, il comune è costretto a stabilire, con effetto retroattivo, che la pace consente
all’uccisore con premeditazione di evitare la pena di morte (salve le pene anteriormente stabilite).
Evidentemente la pena di morte non era stata accettata.
Solo nello statuto del 1331, al quale collaborò Alberico da Rosciate, si ritorna alla disposizione
originaria del 1220, ordinando che la pace non giova ad evitare la pena di morte, in caso di omicidio
premeditato.
Gli statuti di Milano del 1330, ricostruibili indirettamente, negano invece alla pace l’effetto di
evitare la pena capitale per qualsiasi omicidio in generale.
La tendenza della legislazione statutaria lombardia è comunque quella di assegnare alla pace un
rilievo solo riguardo ai reati puniti con pena pecuniaria, che la concordia serve a ridurre.
L’evoluzione è differente, a seconda delle città.
A Como, ancora nel 1335 la pace consente di evitare la pena di morte in caso di omicidio,
sostituendola con una pena pecuniaria, a sua volta alternativa al carcere in caso d’insolvenza.
Si arriverà ad eliminare ogni effetto sulla pena capitale per omicidio solo nel 1344.
Altrove non è così: a Padova , uno statuto del 1236 ammette che la pace possa sottrarre l’omicida
dalla pena capitale, ma nel 1266 si stabilisce che la pace non cancella la pena di morte per
l’omicidio premeditato.
Mentre a Perugia lo statuto del 1279 esclude che la pace possa avere effetti sulla pena prevista per
un certo numero di reati, tra cui l’omicidio ed i ferimenti con cicatrici permanenti (un dato statutario
nella prassi non sempre rispettato: a volte la pace è accettata, a volte no).
A Bergamo secondo lo statuto del 1353 (Giovanni Visconti), la pace riduce la pena pecuniaria della
½, ma non vale a redimere la pena capitale.
Nello statuto di Bergamo del 1391 e in quello di Pavia del 1393, la pace ha un ruolo ancor più
limitato: la pena pecuniaria è infatti diminuita solo di ¼ e si conferma che essa non serve ad
eliminare la pena di sangue.
Altri statuti, non di area lombarda, introducono anche dei limiti cronologici: la pace è efficace, ai
fini della riduzione della pena pecuniaria, purché risulti fatta prima dell’accusa o entro un certo
periodo di tempo dalla commissione del reato.
Così a Siena, secondo il costituto del 1262, il podestà giura di non condannare il reo che abbia
ottenuto la pace prima dell’accusa e comunque entro 3 giorni dal maleficio, se non alla ½ della
pena.
A Todi, lo statuto del 1275 stabilisce che di ogni maleficio può essere fatta pace tra le parti entro 4
giorni dal reato e conclusa la pace il podestà e i suoi giudici non possono pretendere che ¼ della
pena pecuniaria prevista.
A Perugia nel 1279 si proibisce al podestà e al capitano del popolo di punire i delitti per i quali sia
fatta pace entro 8 giorni dall’accusa (se l’imputato è contumace) o dalla litis contestatio (se
l’imputato si presenta), ad eccezione dei seguenti: omicidio, falso, rottura della pace, percossa in
faccia con ferro che lasci un segno o una cicatrice, arto o altra parte del corpo debilitata, rapina su
strada, furto e percossa con spintone (cap. 313).
Anche questi statuti, come quelli lombardi, garantiscono alle parti la facoltà di fare la pace.
La pace è raffigurata come un limite all’azione degli organi giurisdizionali.
E’ il segno di una giustizia che si vuole mantenere elastica, negoziabile.
Tale evoluzione non deve far pensare ad una rapida scomparsa della pace dalla prassi dell’età
moderna, come si vedrà in seguito.
D) Assoluzione per insufficienza di prove.
L’altro possibile sbocco del processo accusatorio è l’assoluzione per insufficienza di prove:
tutt’altro che raro.
Il Processo inquisitorio
Cenni di diritto canonico
Il rito inquisitorio è diverso a seconda che si tratti del diritto civile o del diritto canonico.
Nel diritto canonico, l’inquisizione è oggetto di varie decretali di Innocenzo III: in particolare, delle
decretali Licet Heli (1199, 3 Comp. 5.2.3 = X. 5.3.31), Super his (1203: 3 Comp. 5.1.3 = X. 5.1.16),
Per tuas (1204), Qualiter et quando (1206: 3 Comp. 5.1.4 = X. 5.1.17), Inquisitionis (1212: 4 Comp.
5.1.2 = X. 5.1.21).
Sono fonti tutte ricomprese dapprima nella III o IV Compilatio e poi nel Liber Extra.
Il IV Concilio lateranense del 1215 al c. 8 (4 Comp. 5.1.4 = X. 5.1.24) diede in seguito conferma a
quanto già stabilito da Innocenzo III nella decretale ‘Qualiter et quando’ del 1206, aggiungendo
nuove disposizioni quanto all’ordo del processo inquisitorio.
Ed è proprio con riguardo all’ordine che il diritto canonico, da una parte, ed i canonisti dall’altra,
offrirono anche ai laici un modello di svolgimento del processo inquisitorio fondamentale.
Basti pensare che Alberto Gandino nel suo trattato ne tiene ampiamente conto, quando descrive la
fase iniziale del giudizio.
Ad esempio, vi è la distinzione tra inquisizione generale o speciale.
L’inquisizione ‘generale’ non è rivolta contro una persona specifica ed è informale.
Essa ha lo scopo di scoprire gli autori infamati di eventuali illeciti.
Quando da essa emerge che qualcuno è diffamato, questi viene citato e gli si chiede se confessa di
essere infamato di quel particolare delitto.
Se confessa, il giudice può procedere con l’inquisizione ‘speciale’: sono resi noti al diffamato i
capitoli sui quali s’intendono sentire i testimoni e questi può svolgere le sue eccezioni, sia prima
che dopo l’escussione dei testi.
Se il convenuto nega la cattiva fama, qualora l’inquisizione sia sorta su impulso di parte (cum
promovente) si apre una fase in cui occorre che il promotore provi l’infamia.
Se invece l’inquisizione avviene nullo promovente, il giudice indagherà su ciò per conto suo, senza
dover provare l’infamia: eventualmente questo avverrà nel giudizio d’appello.
Nel procedimento canonico, qui rapidamente riassunto, assume pertanto un rilievo centrale la
diffamatio, sostitutiva dell’accusatio.
Esso conduce peraltro all’applicazione di pene differenti da quelle applicabili con il rito accusatorio,
dato che, come dicono i canonisti, non si tratta di un vero e proprio rito criminale nella forma.
Il diritto canonico introduce anche un rito inquisitorio speciale, applicabile per la repressione
dell’eresia.
Esso presenta particolarità specifiche, in particolare un allentamento drastico dei diritti di difesa
dell’imputato.
Il processo inquisitorio nelle città tra Duecento e Trecento Vediamo di approfondire alcuni aspetti del processo inquisitorio, che furono già dibattuti nel Due-
Trecento.
Accusa e inquisizione Il rito accusatorio è la forma processuale ordinaria secondo il diritto comune, che, secondo
l’interpretazione dei giuristi, ammette che il giudice possa procedere ex officio solo per certi reati.
L’accusa è rito ordinario anche negli statuti del XII-XIII secolo.
In prosieguo di tempo, però, con riferimento al diritto municipale, il rapporto si ribalta.
Molti di essi concedono al podestà l’arbitrium inquirendi, per determinati reati, se non addirittura
per tutti.
La dottrina ne tiene conto.
Alberto Gandino, ad esempio, agli inizi del Trecento, afferma che è consuetudine dei suoi tempi che
i giudici dei podestà procedano ex officio per tutti i reati: et ita servant iudices de consuetudine, ut
notat dominus Guido, et ut vidi communiter observari, quamvis sit contra ius civile (e così
osservano i giudici per consuetudine, come nota Guido da Suzzara, e come ho visto comunemente
praticare, benché sia contrario al diritto civile).
Lo stesso Gandino, in una quaestio del Tractatus de maleficiis (Quomodo de maleficiis cognoscatur
per inquisitionem, q. 15), riporta le molte ragioni, già a suo tempo allegate da Guido da Suzzara, per
preferire l’inquisizione, se provata, qualora sopraggiunga un accusatore:
1) i malefici non devono rimanere impuniti (ne maleficia remanenant sine pena);
2) accusa e inquisizione tendono allo stesso fine e quindi sono fungibili;
3) una legge del Codice dice espressamente che se l’accusatore desiste dall’accusa e chiede
l’abolizione dell’accusa, il giudice può proseguire il processo facendo lui stesso l’inquisizione.
Si potrebbe, è vero, obiettare che l’accusa è un rimedio ordinario, mentre l’inquisizione è un metodo
straordinario e quindi, nell’eventuale concorso, deve prevalere la prima: ma ciò è vero quando un
rimedio straordinario non sia previsto dal diritto comune.
Nel nostro caso, i due modi di procedere sono entrambi secundum ius commune e tendono allo
stesso scopo: e dunque l’uno non esclude l’altro.
Se poi accusa e inquisizione concorrono fin dall’inizio (Quomodo de maleficiis cognoscatur per
inquisitionem, q. 17), ancor più forti sono le ragioni a favore del procedimento d’ufficio: le minori
solennità, la maggiore idoneità del giudice rispetto all’accusatore, la maggiore facilità nello scoprire
la verità, sicché il privato che insista nel voler accusare si sospetta che voglia colludere con il reo.
Per risolvere la questione, nota Gandino, alcuni distinguono a seconda che l’accusa sia proposta
dalla parte lesa o da un terzo, dando la precedenza all’accusatore nel primo caso: ma già Guido da
Suzzara aveva optato per l’inquisizione in entrambe le ipotesi, per la maggiore affidabilità e
capacità del giudice, che ha il dovere di accertare la verità con tutti i mezzi possibili.
Nel Trecento, contro l’opinione di Dino del Mugello, che fa leva sulla natura straordinaria
dell’inquisizione, Cino da Pistoia ritiene che tra inquisizione e sopravvenuta accusa si debba
preferire quest’ultima, perché il privato è più corruttibile (l. Ea quidem, C. de accusationibus).
La stessa preoccupazione esprime Bartolo il quale, ragionando de iure communi, ritiene che
l’accusatore non debba essere preferito se l’inquisizione è stata iniziata grazie al suo impulso
(petitio o promotio) oppure è stata intrapresa accusatore negligente et ritardante.
Anche nel caso in cui all’accusatore non si possa rimproverare alcuna negligenza, comunque, il
giudice non deve ammettere l’accusatore se ritiene che questo intenda colludere o transigere con il
reo e lo può legittimamente interrogare su ciò, per scoprire se intenda rinunciare all’accusa: nel qual
caso non lo deve ammettere.
Se però, conclude Bartolo, si tiene conto degli statuti, per i quali l’inquisitio è rimedio ordinario,
allora il sopraggiungere dell’accusa non fa venir meno l’inquisizione (l. Si Maritus § Si ante
extraneus, ad legem Iuliam de adulteriis).
Sono ragioni valide anche per Baldo (l. Ea quidem), che, accanto a quelle più tecniche, torna a
riproporle: hoc expedit rei publicae, quia iudex non ita de facili corrumpitur ut pars… praeterea
accusatio precedens non tollit inquisitionis veritatem, si iudex perpendit partem colludere, puta
quod accusator producit testes nescientes veritatem vel desistit (ciò giova alla res publica, perché il
giudice non si lascia corrompere facilmente come la parte… inoltre l’accusa precedente non annulla
la verità emersa durante l’inquisizione, se il giudice ha scoperto che le parti si sono messe
d’accordo, ad esempio perché l’accusatore ha prodotto dei testimoni che ignorano la verità oppure
desiste dall’accusa).
Nel ‘500 cade ogni velo.
Specchio fedele di questa nuova prospettiva è la pratica giudiziaria di Giulio Claro.
Il rito processuale penale è solo inquisitorio: l’accusa è diventata uno dei suoi possibili presupposti.
Il sopraggiungere dell’accusa non impedisce la prosecuzione dell’inquisizione.
Prove legali Il sistema probatorio che fa da sfondo al rito accusatorio (ed a quello inquisitorio) è basato sul
principio della prova legale.
Prova legale significa che le prove hanno un’efficacia predeterminata dalla legge.
La dottrina, a questo riguardo, prima di tutto quella canonistica, sulla base dei testi normativi (che
per il diritto romano fornivano solo degli spunti: per la confessione Dig. 48.18.1.17 e 27, per gli
indizi Cod. 4.19.25, per la testimonianza Dig. 22.5.1.2) elabora una gerarchia, distinguendo tra
prove piene, prove semipiene e semplici indizi.
Il giudice può condannare alla pena ordinaria solo se dispone di una prova piena.
E’ prova piena quella che induce il perfetto convincimento (credulitas) del giudice.
Tali sono considerate, sia dai civilisti che dai canonisti: la testimonianza di almeno due testi
concordi, che affermino di aver visto l’imputato commettere il delitto; la confessione dell’imputato;
la notorietà del crimine.
Si tratta delle prove che la tradizione retorica, conosciuta anche dalla dottrina di diritto comune,
qualificava come prove ‘inartificiali’.
La prima prova piena è costituita da due testimoni concordi de veritate o de visu.
Un testimone singolo de veritate, per il principio unus testis, nullus testis, accolto dal diritto divino,
dal diritto romano e dal canonico, è prova semipiena, che fa prova piena solo se congiunto ad un
indizio.
La dottrina sia civilistica che canonistica ha elaborato una serie di regole sull’idoneità dei testimoni.
La regola unus testis nullus testis è enunciata in una costituzione di Costantino del 334, poi
introdotta nel Codice di Giustiniano, sia per le cause civili che per quelle penali (CTh. 11.39.3 =
Cod. 4.20.9).
La norma passa nel Breviario Alariciano, nelle sue epitomi (Lex Romana Curiensis) e nel diritto
bizantino.
L’insufficienza probatoria di un unico teste è affermata anche nei testi del Vecchio Testamento:
Numeri 35.30 (per l’omicidio), Deuteronomio 19.15, in generale (Non stabit testis unus contra
aliquem, quidquid illud peccati et facinoris fuerit: sed in ore quorum aut trium stabit omne verbum),
Re 21.10 e, fondamentale, Daniele 13, 1-64, 34-41 (episodio di Susanna).
Nel Nuovo Testamento i passi sono cinque: Matteo 18.16, Giovanni 8.17-18, II Corinzi 13.1, I
Timoteo 5.19, Ebrei 10.28.
La confessione può essere spontanea oppure estorta sotto tortura.
Nel diritto romano non era considerata prova sufficiente alla condanna.
Nell’alto medioevo alcuni pontefici (Gregorio Magno, Niccolò II) riprovano le confessioni estorte.
I glossatori la considerarono invece come una prova piena, anzi la regina delle prove (regina
probationum) o almeno equivalente a prova piena, se spontanea.
Se estorta con la tortura, che serviva principalmente a ciò (oltre che a confermare la deposizione di
testi sospetti o a far indicare all’imputato, già convinto o confesso, i suoi complici), la confessione,
per valere come prova, doveva essere ratificata (secondo un principio enunciato, ad esempio, da
Azzone).
La ratificazione è un istituto sconosciuto al diritto romano.
Indizi La prova artificiale, cioè la presunzione, non è ritenuta formalmente una prova, ma un argomento:
la commissione del delitto da parte dell’imputato si deduce indirettamente da altri fatti, che si
chiamano indizi, i quali, con un ragionamento (argomento o presunzione), basato sulla probabilità o
sulla verosimiglianza, lasciano dedurre il fatto principale.
L’indizio è un fatto oggetto di prova diretta (testimonianza).
Gli indizi, pur non essendo sufficienti per la condanna alla pena ordinaria sono nondimeno
importantissimi nel rito inquisitorio.
Senza indizi, infatti, il giudice non può procedere all’inquisizione speciale, alla cattura
dell’inquisito, alla tortura.
Per ciascuna di queste operazioni processuali sono richiesti indizi qualitativamente diversi: più lievi
per l’inquisizione e la cattura, più gravi per la tortura.
La valutazione degli indizi è lasciata alla discrezionalità del giudice.
La dottrina interviene però con varie classificazioni, cercando di predeterminare il più possibile
l’efficacia di ciascuno di essi.
La prassi delle corti è però assai varia.
In particolare, la dottrina non dice comunque quali e quanti indizi occorrano: la materia è lasciata
alla discrezionalità del giudice.
Si limita a suggerire quali indizi non sono di per sé sufficienti a condannare.
La questione più rilevante è connessa al valore degli indizi ai fini della condanna penale.
La distinzione tra prove e presunzione, tra prove inartificiali e prove artificiali, prove vere e prove
finte, è corrente negli ordines iudiciarii del Duecento.
Nella gerarchia delle prove, i canonisti collocano le presunzioni nel gradino più basso.
Nel commentare il c. Quia verisimile, de praesumptionibus, Innocenzo IV si era espresso per una
condanna a pena pecuniaria o anche corporale più mite: nota tamen quod ubi ex praesumptionibus
proceditur multum debet iudex temperare sententiam et maxime ne condemnet nisi raro et modice
ad poenam nec pecuniariam nec corporalem (Nota tuttavia che quando si procede per presunzioni il
giudice deve temperare di molto la sentenza e soprattutto non deve condannare se non raramente e
ad una pena, né pecuniaria né corporale).
Dal canto suo, la dottrina civilistica s’interroga sull’interpretazione da attribuire a Cod. 4.19.25, de
probationibus, l. Sciant cuncti, la costituzione di Graziano, Valentiniano e Teodosio (a. 382) che nei
giudizi accusatori ammetteva solo idonee testimonianze, chiarissimi documenti e indizi ‘indubitati’
e più chiari della luce:
Sciant cuncti accusatores eam se rem deferre debere in publicam notionem, quae munita sit testibus
idoneis vel instructa apertissimis documentis vel indiciis ad probationem indubitatis et luce
clarioribus expedita (Sappiano tutti gli accusatori che devono accusare soltanto di fatti provati da
testimoni idonei o da documenti chiarissimi o da indizi indubitati e più chiari della luce).
Vi sono prese di posizioni favorevoli all’irrogazione della pena edittale sulla scorta di indizi
indubitati: negli ultimi decenni del Duecento è questa la posizione dell’autore del tractatus de
tormentis e di Tommaso da Piperata.
Quest’ultimo, nel suo Tractatus de fama, esclude che si possa condannare alla pena ordinaria sulla
base di una sola testimonianza o della fama; richiede inoltre una pluralità di indizi per poter
torturare un accusato.
Per la condanna, invece, occorre una pluralità di indizi ‘indubitati’, che egli individua in una serie di
forti indizi di colpevolezza collegati tra loro (simul iuncta: come dirà Gandino).
Tommaso fa un esempio che egli stesso definisce di scuola: se si prova che uno uscì da una stanza,
avente un solo ingresso, pallido, con in mano una spada sanguinante e nella camera si trova un
morto, questi sono indizi indubitati contro di lui.
Un altro esempio più attuale, continua sempre Tommaso, è quello di Tizio ucciso in una vigna o in
un fondo. Se il giudice ha testimoni che depongano che Seio era nemico di Tizio, di averlo visto
brandire un’arma contro di lui, fuggire dal luogo del delitto al tempo dell’omicidio, che si era sparsa
voce che Seio aveva ucciso Tizio, tutto ciò è sufficiente per una condanna alla pena ordinaria.
Altro caso. Trattandosi di provare un mandato ad uccidere, una catena di indizi collegati e indubitati
possono essere la circostanza che l’imputato fosse: 1) nemico dell’ucciso, 2) vicino al luogo del
maleficio al tempo della sua commissione, 3) aver accolto in casa l’omicida, 4) essere questo un suo
domestico o far parte del suo seguito, 5) aver l’imputato minacciato di uccidere la vittima, averlo
offeso.
Di diverso avviso era però Alberto Gandino, per il quale tutti i sapienti di Bologna e di altri luoghi
dicevano, e ciò era confermato dalla consuetudine, che in base a simili indizi (ai quali non si
ricollega una presunzione legale e quindi sono indubitati solo per il giudice, ma non per legge
espressa) non si può irrogare una pena corporale, ma solo una pena pecuniaria: sed omnes sapientes,
quos Bononie vidi et alibi, dicunt, et etiam vidi de consuetudine observari, quod propter talia vel
similia non possit quis diffinitive in persona damnari… at si ex maleficio, ex quo essent talia
indicia, deberet sequi pecuniaria pena…posset locum habere, quod scripsit dictus dominus Thomas
et quod dicitur dicta l. ultima C. de probationibus et ita vidi sepius observari (ma tutti i sapienti che
ho visto a Bologna e altrove dicono, ed ho anche visto osservare per consuetudine, che a causa di
tali e simili indizi non si può condannare nessuno definitivamente nella persona… ma se dal
maleficio, al quale si riferiscono tali indizi, dovesse discendere una pena pecuniaria… potrebbe
avere luogo ciò che ha scritto Tommaso da Piperata e ciò che stabilisce la legge ultima del titolo de
probationibus del Codice e così vidi spesse volte osservare). E conclude: la ratio che giustifica
quest’opinione è che nei giudizi criminali, dove il rischio per le persone è maggiore, occorre molta
più prudenza che nei giudizi civili: ratio est, quod ubi maius periculum vertitur, maior est
requirenda cautela (la ragione è che, quando le persone corrono un maggior pericolo, occorre una
maggiore prudenza).
Tortura La tortura, per il diritto comune, è lecita solo nei reati puniti con pena corporale.
Inoltre, devono precedere sufficienti indizi di colpevolezza contro l’inquisito.
La tortura non è stata praticata in tutti i comuni, ancora nel Duecento (ad es. a Perugia).
Il primo statuto che ne parla è quello di Verona del 1228.
Secondo la concezione medievale della prova, gli indizi, pur non sufficienti per la condanna alla
pena ordinaria, costituiscono comunque un primo grado di colpevolezza che giustifica il ricorso alla
tortura.
La tortura è vista dunque come lo strumento attraverso il quale l’imputato può purgare gli indizi
esistenti contro di lui.
Estremamente dettagliata è già nella dottrina del tardo Duecento la trattazione degli indizi per
l’applicazione della tortura.
Basti pensare alla rappresentazione che ci viene offerta da Alberto Gandino nel Tractatus de
maleficiis, dove compare una sistemazione della materia.
Significativa è la discussione intorno alla fama: chi è sempre stato di buona fama, anche qualora sia
infamato di un delitto, non può per ciò stesso essere sottoposto ai tormenti, se non vi sono altri
indizi contro di lui.
E’ una sorta di privilegio di buona fama.
Un altro apporto duraturo è quello relativo all’obbligo di concedere le difese all’imputato, prima di
addivenir alla tortura, per consentire di proporre prove che possano eventualmente condurre alla
verità in altro modo.
Infine, vi è la riprovazione degli abusi già frequenti nella pratica: podestà che mandano ai tormenti
immediatamente senza indizi precedenti, podestà che inventano nuove forme di costringimento
psichico o di intimidazione degli imputati, per estorcere la confessione, podestà che si avvalgono
dell’arbitrium loro concesso per omettere i presupposti della tortura, mentre tale operazione è
assolutamente illecita.
Se l’imputato confessa, la confessione, per poter essere utilizzata, deve essere ratificata in un
momento successivo, entro 24 ore.
Se il reo ritratta e neghi di aver commesso il delitto, può essere nuovamente sottoposto ai tormenti.
Se il reo torna a confessare ed in seguito nuovamente ritratti, dev’essere assolto.
Se il reo non confessa, teoricamente dovrebbe aver purgato gli indizi esistenti contro di lui.
In molti ordinamenti, tuttavia, si tengono validi gli indizi raccolti e si procede ad una condanna a
pena straordinaria.
Se il giudice dispone solo di indizi, se questi sono gravi, per il principio che ad una frazione di
prova corrisponde una frazione di colpevolezza, può emanare una sentenza di condanna, ma solo ad
una pena straordinaria.
Il Processo nelle epoche più avanzate
Il rito inquisitorio moderno è il risultato di un’elaborazione secolare, nella quale il contributo
maggiore è stato dato dai grandi giuristi del Trecento e del Quattrocento.
Sorvoleremo sui singoli aspetti della formazione delle regole nell’età del Commento, per
concentrarci sul volto assunto dal processo inquisitorio in età moderna ed in particolare nel
Cinquecento.
E’ questa l’età delle pratiche criminali.
Esse sono uno strumento essenziale per apprendere il contenuto delle regole e l’ordo del processo
inquisitorio moderno.
Gli statuti e la legislazione principesca contengono infatti solo frammenti.
Il quadro completo è fornito solo dalle pratiche criminali, che informano altresì sulle innovazioni
della prassi.
Angelo Gambiglioni
Nato sullo scorcio del ‘300 e morto nel 1461, scrive un fortunatissimo Tractatus de maleficiis,
conservato in 18 manoscritti,18 incunaboli (la prima edizione è Mantova 1472), 31 cinquecentine
(l’ultima: Colonia 1599).
Il trattato fu pubblicato a Bologna nel 1438 e poi rivisto ed integrato.
Il Gambiglioni si era addottorato in diritto civile a Bologna nel 1422.
Era stato allievo a Padova di Raffaele Raimondi, a Bologna di Giovanni Nicoletti da Imola e di
Floriano Sampieri.
Notevole fu la sua carriera giudiziaria e politica: podestà di Volterra, vicario e collaterale del
podestà a Perugia, giudice a Città di Castello e a Roma, Luogotenente del Senatore a Roma,
collaterale a Norcia.
Proprio a Norcia gli capita di condannare illecitamente a morte un inquisito, come racconta Paride
del Pozzo.
Sta in prigione un anno, ma esce, grazie all’interessamento di tutti i collegi dei giuristi d’Italia.
Si ritira ad insegnare a Bologna dal 1431 al 1444. Dalla sua scuola passeranno Alessandro Tartagni,
Bartolomeo Cipolla, Paride del Pozzo.
Infine, insegnerà a Ferrara, dal 1444 o 1445 fino alla morte (1461).
Tra Bologna e Ferrara scrive una pregevole Lectura Institutionum.
Ma il suo capolavoro è indubbiamente il Tractatus, che fu tra l’altro arricchito dalle addizioni di
altri giuristi: in particolare, quelle di Agostino Bonfranceschi da Rimini (morto nel 1479).
Gambiglioni aggiorna la pratica del processo penale, nell’evoluzione subita dopo Gandino e dopo
un altro trattato criminale, attribuito curiosamente ad un giurista inesistente, Bonifacio Vitalini,
mentre fu scritto da Bonifacio Antelmi.
Il lavoro è dei primi del Trecento e, data la strana storia della sua paternità, si usa anche chiamare
pseudo-Vitalini.
Peraltro, l’Antelmi si prese la rivincita, perché a lui fu falsamente attribuita la Lectura alle
Clementine di Bonifacio Ammannati!
Storie di editori disinvolti, alla ricerca di espedienti per vendere di più i tomi da loro pubblicati.
Ippolito Marsigli
E’ ancora a Bologna che rinvìa l’opera di un altro grande criminalista, di nobile famiglia bolognese:
è Ippolito Marsigli (1450-1579), che, oltre a comporre diverse letture su titoli del corpus iuris
civilis, legherà il suo nome ad un’altra pratica criminale, la Practica causarum criminalium detta
anche Averolda, perché dedicata ad Altobello Averoldi, vescovo di Brescia, terminata nel 1525
circa.
Insegnò dal 1480 al 1524, con vari intervalli dedicati all’attività forense ed a cariche pubbliche
(giudice, capitano, podestà).
Egidio Bossi
Nasce nel 1488. Il padre era pretore ad Alessandria.
Studia a Pavia, dove ha per maestri Franceschino Corti, Rocco Corti, Paolo Pico di Montepico.
La sua carriera nel Ducato di Milano è brillante: podestà di Alessandria nel 1513, avvocato fiscale
nel 1514, podestà di Novara nel 15818.
Francesco II Sforza lo nomina senatore nel 1528.
Nel 1536 diviene membro dei 60 Decurioni di Milano.
Muore nel 1546.
Dopo la sua morte, il figlio Francesco, giovandosi degli scritti lasciati dal padre, mette insieme
un’opera chiamata Tractatus varii qui omnem fere criminalem materiam complectuntur, che esce
nel 1562.
Quasi due terzi del trattato sono dedicati alla materia processuale.
Giulio Claro
Nasce ad Alessandria nel 1525.
Si laurea a Pavia nel 1550, avendo avuto come maestri Andrea Alciato, Niccolò Belloni e Jacopo
Alba.
Viene nominato senatore nel 1557.
In quanto senatore più giovane viene nominato pretore a Cremona.
In seguito diventa Presidente del Magistrato Straordinario (1563), reggente e membro del Supremo
Consiglio d’Italia (1565), consigliere di Filippo II. Muore a Saragozza, nel 1575.
La sua opera principale è il Liber Quintus Sententiarum (libro V delle Sententiae: gli altri libri sono
dedicati alla materia civilistica), diviso in 22 paragrafi, di cui il primo, i §§ 2-20 sui singoli reati
(ordinati semplicemente in ordine alfabetico!) ed il § Finalis alla procedura penale, spiegata con un
linguaggio quanto mai preciso in 100 questioni. La prima edizione è stampata nel 1568.
Lorenzo Priori
E’ l’autore della prima pratica criminale in lingua volgare.
La sua esperienza ha un orizzonte ben definito: è la pratica giudiziaria dei tribunali della Terraferma
del Cinquecento, vista attraverso l’occhio di un esperto cancelliere veneziano, qual era quest’uomo
che nel corso del Cinquecento ebbe modo di visitare tutte le maggiori città del dominio veneto,
accompagnando i patrizi veneziani inviati a governare e a giudicare. Il Priori trasfuse in essa tutto
un mondo, se così si può dire.
Scritta verosimilmente alla fine del ‘500, intorno al 1598, questa Pratica, pur non essendo la prima
che si occupa delle corti di Terraferma, ha però delle peculiarità che la rendono speciale.
Documenta infatti il delicato periodo di transizione da un sistema giudiziario ancora dominato dai
tribunali cittadini ad uno direttamente controllato dai grandi tribunali veneziani, come il Consiglio
dei Dieci.
Testimonia anche il graduale e dirompente effetto della legislazione veneta sulle regole di diritto
comune e statutarie.
La Prattica criminale uscì postuma, dopo la morte del suo autore, avvenuta nel 1610.
La prima edizione è del 1622, ma ben presto ne furono fatte molte altre. L’ultima, che nel
frontespizio è indicata come nona, è del 1738.
Gli insegnamenti del Priori riecheggiano di sovente anche nelle successive pratiche venete, sicché si
può veramente parlare di un patriarca indiscusso della criminalistica veneta.
Nella sommaria descrizione che segue, attingeremo da un lato alla pratica di Giulio Claro,
testimonianza lucida della prassi del Ducato di Milano nell’età spagnola; dall’altro, faremo
riferimento alla Prattica criminale di Lorenzo Priori, che descrive lo svolgimento del processo
penale nella Terraferma Veneta.
Presupposti dell’inquisizione Il procedimento prende l’avvio quando al giudice giunge la notizia della commissione di un reato
attraverso la fama (generica o specifica), la querela, la denuncia di organi pubblici a ciò deputati (la
polizia urbana o del contado), il notorio, la fragranza.
La prassi, già verificabile nel Duecento, di affidarsi al giudice piuttosto che agire da soli, è divenuta
stabile nell’età moderna.
I privati informano il giudice con una querela, chiedendo al giudice di procedere.
Un altro caso frequente è quello della denuncia.
Perché il giudice possa procedere, occorre che il reato rientri fra quelli per i quali egli può procedere
ex officio.
La distinzione fra delitti pubblici e delitti privati ha perso importanza. In base a questa, il giudice
dovrebbe intervenire d’ufficio anche senza querela solo se il delitto è pubblico, mentre se il delitto è
privato dovrebbe muoversi solo se c’è la querela di parte.
Ma, come dice Priori, ormai il giudice può agire d’ufficio senza querela anche per un delitto
privato, se c’è un interesse pubblico.
La querela però è importante, perché apre la via al giudice per indagare.
Occorre inoltre che il giudice accerti prima l’esistenza del corpo del reato.
Si tratta di una regola già affermata dai Commentatori.
Il giudice, ricevuta una querela o una denuncia, deve accertare il corpo del reato: la regola vale per i
delitti facti permanentis, come l’omicidio e l’incendio (Bartolo, Comm. D. 48.18.22, de
questionibus, l. Qui sine, n. 2).
Non vi è obbligo ed il giudice può subito inquirere de veritate delicti nei delitti che si perfezionano
solo animo (eresia) o momentanei (adulterio, furto senza scasso, ingiurie verbali).
Inquisizione generale
Se il giudice non conosce il nome del presunto colpevole (mancano la querela o la denuncia oppure
querela e denuncia sono generiche) procede all’inquisizione generale, durante la quale va alla
ricerca di eventuali testimoni che abbiano visto chi ha commesso il reato o gli provino per lo meno
dei fatti (indizi), dai quali risalire al colpevole.
Inquisizione speciale
Il giudice può indagare contro una persona determinata solo se nei suoi confronti si realizza almeno
uno dei seguenti presupposti: infamia; querela; denuncia; indizi emersi durante l’inquisizione
generale; flagranza; delitto notorio; delitto scoperto incidentalmente nel corso di un processo.
Anche in questo caso siamo di fronte ad una regola fondamentale del processo inquisitorio,
elaborata dalla dottrina.
Essa sarà accolta espressamente da tutte le più importanti legislazioni principesche in materia
criminale.
Ad esempio, le Nuove Costituzioni milanesi del 1541, che costituiscono le fondamenta
dell’ordinamento normativo lombardo fino ai codici, accolgono il principio: non si può procedere
contro qualcuno nisi aliquid precedat, senza qualche presupposto.
I criminalisti lombardi ritengono che la norma serva a tutelare le parti: ad refrenandam malitiam et
protervitatem iudicum (per frenare la malizia e la protervia dei giudici), come dice Giulio Claro.
L’azione penale, se esistono questi presupposti, è obbligatoria.
Le Nuove Costituzioni stabiliscono che, delatis criminibus per denuncia, accusa o querela, i giudici
debbano incominciare entro 15 giorni e finire entro 60, se altro non è stabilito dagli statuti.
Infamia. Per il diritto canonico la prova dell’infamia nei riguardi di una determinata persona deve sempre
precedere l’inquisizione speciale sul crimine, pena la nullità del processo.
Se però l’imputato non propone la relativa eccezione, il processo è valido.
Come si prova l’infamia?
1. due testimoni sono sufficienti;
2. I testimoni devono attestare di aver sentito l’infamia a maiore parte populi.
3. I testimoni devono attestare di aver appreso dell’infamia in luogo pubblico.
4. Devono nominare le persone dalle quali hanno udito. Perciò devono essere interrogati, com’è
prassi. E se non fossero interrogati, la prova non varrebbe, perché la fama deve aver origine da
persone oneste e degne di fede, non da malevole ed improbe, a meno che non si tratti di reati turpi.
Querela. E’ l’accusa spogliata di alcuni suoi requisiti solenni:
1. Libello scritto (ma essa deve comunque essere trascritta).
2. Subscriptio ad penam talionis. De consuetudine non era richiesta.
3. Fideiussio de accusatione usque ad finem prosequenda.
4. Satisdatio de solvendis expensis in casu succumbentie.
5. Giuramento di calunnia (giuramento che l’accusa è vera e non fatta animo calumniandi). De
consuetudine, era prestato.
6. Carcerazione. De consuetudine, non era praticata (Bartolo, l. fin. C. de accus.).
Secondo Claro, il giudice non dovrebbe procedere ad indagare su querela se questa non ha tutti i
suoi requisiti solenni, nel caso in cui vi sia solo querela.
Denuncia. Chi può denunciare?
Da un lato, ufficiali a ciò deputati (nel Ducato di Milano gli Anziani delle contrade o delle
parrocchie ed i Consoli dei borghi, dei villaggi e delle altre terre, secondo una normativa già in
vigore nel Trecento e confermata dalle Nuove Costutuzioni di Milano del 1541, nel titolo de
accusationibus et denuntiationibus), dall’altro i privati. I divieti di accusa valgono de iure anche per
i denuncianti. Questi divieti però nella prassi non si applicano: i denuncianti infatti sono per lo più
ufficiali poveri e vili, talora anche infami. Così Bartolo da Sassoferrato.
Claro pensa che l’opinio Bartoli vada osservata se lo statuto non preveda l’inquisizione come mezzo
ordinario. Altrimenti quilibet admittitur ad denunciandum: publice enim interest delicta ad
magistratuum notitiam quomodocumque pervenire (chiunque è ammesso a denunciare: è infatti
interesse pubblico che il magistrato abbia notizia dei delitti in qualunque modo).
De iure, si possono denunciare solo i delitti notori. De consuetudine anche i delitti occulti: anzi, per
questi vi è un obbligo di denuncia. De iure, si devono denunciare anche i delitti non punibili (ad
esempio, un omicidio commesso per legittima difesa o per difendere il proprio onore, nei casi
ammessi).
Possono denunciare anche i privati?
De consuetudine è così.
Le Nuove Costituzioni milanesi del 1541 disciplinano la denuncia degli Anziani e dei Consoli.
Nella denuncia (delazione), si devono esprimere il titolo di reato, tempo e luogo della commissione,
i nomi e i cognomi di chi li ha commessi o li ha fatti commettere, nomi e cognomi dei testimoni
nomina.
E’ sufficiente nominare i testi informati del delitto o dell’autore.
Il denunciante non è tenuto a provare la verità di quanto afferma, secondo la prassi, contraria al
diritto comune.
Il denunciante non deve neanche iscriversi ad penam talionis.
I denuncianti rispondono per calunnia?
Per la Glossa e per Bartolo, sì.
Così vuole anche la communis opinio.
Per la negativa, si pronunciano altri giuristi e Giulio Claro.
Una chiosa sulle denunce segrete provenienti dai privati.
In Lombardia sono severamente criticate da Egidio Bossi (de accusatione, n. 3), perché nascondono
spesso vessazioni e calunnie che poi non si possono punire: et ideo Senatus noster per decretum
superioribus diebus ordinavit non posse procedi per tales notificationes sine nomine et calumniose
quaerelantes esse condemnandosi in expensis (e perciò il nostro Senato per decreto nei giorni scorsi
ha ordinato che non si possa procedere in base a tali notificazioni senza nome del denunciante e che
coloro che querelano calunniosamente debbano essere condannati nelle spese).
Nelle Nuove Costituzioni del 1541 si vieta di ammettere denunce (delazioni) segrete: Nec etiam
admittere possunt delationes criminum, nisi is, qui deferat, nomen et cognomen exprimat; nec super
eis alio modo procedi possit; et si procedatur, processus sit nullius valoris et momenti, judexque
puniatur arbitrio Principis vel Senatus (E i giudici non possono ammettere le denunce dei crimini, se
colui che denuncia non esprima nome e cognome; e non si può procedere sopra tali denunce e se si
procede il processo è nullo ed il giudice sia punito ad arbitrio del Principe o del Senato).
Nella Repubblica di Venezia la denuncia segreta costituisce invece una pratica corrente,
incoraggiata, anche se con limiti, dal potere centrale.
La contrapposizione tra quanto si osserva comunemente in Terraferma e quanto si usa al centro,
cioè a Venezia, è netta nel Priori:
Il giudice nelle denontie che fossero fatte da particolari deve avvertire et considerare s’essi
denontiatori sono di buona fama, vita et conversatione et se si muovono a denontiare per carità o per
odio o per altro, et se sono infami, vili, conspiratori, nemici et finalmente ogni loro qualità perché
questi tali devono esser di buona fama, vita, conversatione, et che a denontiar si muovano solamente
per zelo di giustizia. Et questo si deve osservare con diligenza a fine che il denontiato non tenta
travaglio et spesa ingiustamente per falsa et iniqua denontia, la quale se tale fosse conosciuta il
denontiante sarebbe punito di calunnia ad ogni pena ad arbitrio del giudice et alla resattione de tutti
li danni, spese, et interessi ne i quali casi quando paresse alla giustitia si può anco dar giuramento al
denontiante che la denotia sia vera et non per causa di calunnia.
Altro è lo stile dei Provveditori straordinari:
Ma gli illustrissimi signori generali mandati fuori per castigare et estirpare li scelerati ch’inquietano
li sudditi del stato, togliendoli la robba, l’honore, et la vita, non tengono o non devono tener questo
stile nell’inquirire. Fanno far li proclami ordinarij nella città, vicariati et ville che cadauno debba
denontiare secretamente li nomi di questi giotti, dopo prendono con molta diligenza, prestezza e
silentio le debite informationi generalmente così de i delitti come delle persone, essaminando ex
officio li principali delle città, merighi, degani o altri delle ville et vicariati et venendo in cognitione
procedono subito per ogni picciol inditio, considerata la qualità del delitto et conditione della
persona, alla retentione del delinquente diffamato, continuando poi con l’istesso modo ad inquirir et
a formar il processo.
Indizi. Gli indizi sono sufficienti ad inquirendum specialiter.
Se anzi dai testimoni si ricavano indizi ancora più urgenti, si procede a cattura o citazione absque
alia speciali inquisitione (come si vedrà oltre).
Di regola, dice Claro, ogni processo informativo speciale incomincia con querela o denuncia.
Solo se non vi siano querela e denuncia o i testimoni non nominino alcuna persona in particolare, il
giudice interroga i testi super fama.
Questo avviene soprattutto con i delitti occulti: quo casu difficile et quandoque etiam impossibile
est invenire testes qui de veritate criminis deponant (nel qual caso è difficile e talora anche
impossibile trovare testimoni che depongano sulla verità del fatto).
Non solo il giudice non incomincia l’inquisizione generale dalla fama.
Neanche l’inquisizione speciale: tota hec practica diffamationis hodie non servatur, nisi quando alia
indicia haberi non possunt (tutta questa pratica della diffamazione oggi non si osserva, se non
quando non si possono avere altri indizi).
Dunque:
1. bastano gli indizi;
2. se non ci sono gli indizi, allora la fama va provata. Ma anche qui, non è più vero quanto scriveva
l’Ostiense alla metà del Duecento, che il giudice debba prima indagare sulla fama e poi sugli indizi.
Se il reo infatti non si oppone, il processo resta valido.
Emerge in questa fase tutta l’importanza dei testimoni, sia quelli che hanno visto commettere il
delitto, sia quelli informati degli altri svariati fatti, dai quali il giudice può risalire al colpevole
(indizi), sia quelli che depongono solo su ciò che hanno udito da altri (testimoni de auditu), i quali
nel processo criminale non contano, ma servono solo a rintracciare i testimoni oculari (de visu).
La condizione dei testimoni nel processo inquisitorio dell’età moderna, peraltro, è assai
svantaggiata, come si rileva da moltissime fonti.
Spesso sottoposti a pressioni o a minacce da parte di imputati più forti e importanti, capaci di
intimidirli grazie alle loro autorevoli relazioni, quando non di giungere alla loro soppressione fisica.
Anche la loro posizione nel processo non era facile.
Aleggiava sempre su di essi il sospetto del falso e della corruzione.
Come l’imputato, non potevano rifiutarsi di comparire davanti al giudice, che nel caso aveva il
potere di punirli con una pena corporale.
Ancora in sintonia con l’imputato, non potevano rifiutarsi di rispondere o di rispondere in modo
reticente, vago, contraddittorio, secondo la tipologia che vedremo per il reo, altrimenti rischiavano
di essere sottoposti a tortura.
Potevano essere costretti a stare in carcere, ancora una volta quasi come il reo, sia prima che dopo la
deposizione: una misura, questa, che si rendeva necessaria o per verificare che non fosse stato
corrotto oppure per costringerlo a ricordare o per intimidirlo, distogliendolo dal mentire, ma anche
per proteggerlo da eventuali ritorsioni dell’imputato e della sua famiglia.
Per tutelare il segreto istruttorio, viceversa, i testimoni erano spesso indotti a promettere di non
rivelare a nessuno quanto avevano deposto.
Così era in Lombardia.
Nella Repubblica di Venezia, solo il rito inquisitorio speciale adottato dal Consiglio dei dieci
imponeva ai testimoni il giuramento di segretezza, che circondava questa magistratura di un’aurea
mitica di giustizia imparziale e inesorabile.
In Lombardia si usava anche, a differenza di altri territori d’Italia, di far giurare i rei già nella fase
anteriore alla chiusura dell’istruzione cioè durante l’inquisizione generale e speciale.
Si tratta di una specificità locale, rilevata da molti criminalisti: un ulteriore incombente a carico dei
testimoni, idoneo ad intimidirli.
L’opposizione alle dichiarazioni dei testimoni costituiva uno dei capitoli più importanti delle difese
del reo.
Tutte le pratiche criminali dedicano perciò spazio alle possibili eccezioni contro i testimoni.
Tra queste, un ruolo di spicco spetta al rispetto delle numerose regole sull’idoneità.
Come per gli accusatori, tanti sono i soggetti che, nel medioevo e nell’età moderna, non hanno
credibilità, secondo elenchi redatti dai giuristi seguendo le leggi romane e i diritti particolari, “per la
loro condotta di vita o per particolari relazioni intrecciate col reo”: infami, falsari, soggetti già
condannati, parenti, domestici, nemici, procuratori, curatori, tutori, amministratori, debitori e
creditori, complici.
Sono i testimoni inabili, non ammessi di regola a testimoniare, ma la cui deposizione è accolta
eccezionalmente, proprio nei casi più delicati, i delitti di prova difficile o più atroci, dove la
circospezione avrebbe dovuto essere massima e dove invece vigeva nel suo pieno rigoglio una
direttiva repressiva, tesa ad assicurare con ogni mezzo la punizione di un colpevole (ne crimina
remaneant impunita: affinché i crimini non rimangano senza punizione).
Flagranza. E’ un’altra delle vie all’inquisizione speciale.
Contro colui che è stato sorpreso a commettere il delitto (repertus in flagranti crimine) si può
procedere de plano, cioè iuris ordine non servato, ad esempio, senza concedere le difese od emettere
la sentenza (Claro però è dell’opinione che essa debba essere pronunciata, anche se omettendo le
solennità).
Il giudice, tuttavia, nei casi gravi, non può condannare il reo sulla base della sola flagranza: deve
interrogarlo e, se confessa, lo potrà condannare; se non confessa, lo potrà sottoporre a tortura.
Se nega, in questi casi gravi, secondo Claro, è bene procedere con prudenza e non negare le difese,
prima di eseguire la pena capitale, a meno che il reo non sia anche manifestamente convinto per
testimoni idonei o confesso.
Si può tuttavia scusare il giudice che procede sommariamente per timore di uno scandalo, come
quando il delitto fosse atroce ed il popolo invocasse una punziona esemplare oppure fosse
necessario placare una sedizione e non vi fosse altro mezzo per farlo che impiccando il concitatore
del popolo.
Nei casi lievi (ad esempio: porto d’armi vietate), si può procedere direttamente ad applicare la pena,
anche senza sentenza.
Ciò non toglie che, all’interno dei singoli Stati regionali italiani, non fossero in vigore misure ancor
più repressive nei confronti delle persone colte a commettere un delitto.
Un esempio significativo viene dalle leggi sul flagrante crimine (di cui si parlerà nel paragrafo della
contumacia), emanate da Venezia nel Cinquecento per colpire la piaga dei delitti commessi dai
banditi: in tal caso, si assicurava l’impunità a chiunque avesse ucciso i colpevoli di determinati
reati, colti sul fatto, oltre ad altri premi.
E se un giudice fosse testimone di un delitto?
Non potrebbe certo condannare per ciò stesso il reo senza ulteriori prove. Il giudice deve decidere
secondo i fatti allegati e provati in giudizio.
L’aver visto commettere un delitto apre sicuramente la via all’inquisizione speciale, come
l’apprendere dell’esistenza di un delitto incidentalmente, in una causa civile oppure da un testimone
che confessasse di aver commesso un delitto.
Notorio. Anche il notorio è un presupposto per l’inquisizione e nel contempo una causa che consente al
giudice di procedere senza rispettare l’ordo.
Crimine notorio è quello commesso coram populo vel maiori parte populi.
Nella prassi, sulla sola base che il delitto e il colpevole siano notori, si usa procedere in modo
sommario.
Secondo Claro, invece, si deve comunque accertare il corpo del reato, nei delitti che lo esigono.
Inoltre è necessario provare:
1) che il delitto sia notorio;
2) che sia notorio chi lo ha commesso.
In questo secondo caso sarebbero sufficienti anche due testimoni: ma Bartolomeo da Saliceto
consiglia di essere molto prudenti e di interrogare la maggior parte dei vicini, per evitare problemi
nel giudizio di sindacato.
Bisogna poi che il delitto non sia scusabile o non punibile: questo può già essere notorio, ma
quando ciò non sia certo o sia dubbio, bisogna se il reo è assente citarlo e se è presente ammonirlo a
presentare le sue difese, anche se non è stato citato.
Claro dice infine che de consuetudine si usa emettere una sentenza che dichiari notorio il delitto.
Senza qualcuno di questi presupposti non può procedersi all’inquisizione speciale (o processo
informativo), e quindi alla ricerca delle prove contro il presunto colpevole.
Il giudice, nel modello civilistico, procede quindi a raccogliere le prove prima del dibattimento,
sentendo tutti i testimoni utili.
Altro punto essenziale: questa fase del procedimento è segreta.
L’inquisizione generale e speciale, fa notare ad esempio Giulio Claro (q. 11), si possono fare senza
citazione della parte rea: et hec practica fuit optima ratione introducta, ne si reus citaretur statim
defugeret vel posset facilius testes examinandos subornare (e questa pratica è stata introdotta per
un’ottima ragione: affinché il reo, non fugga, qualora citato, o non possa con più facilità corrompere
i testimoni da esaminare).
Cattura. Gli indizi sono necessari anche per procedere alla cattura dell’inquisito.
In questo caso, però, devono essere più consistenti di quelli richiesti per la semplice inchiesta.
Per la cattura occorre inoltre che il giudice abbia verificato l’esistenza del corpo del reato e che il
delitto sia punito con pena corporale.
Nel Ducato di Milano questo importante requisito, già stabilito dagli statuti, come si ricorderà, è
ribadito dalle Nuove Costituzioni milanesi del 1541, al titolo de accusationibus et denuntiationibus:
rei carceribus mancipari non possint pro aliqua imputatione, nisi ex ea ingeratur poena corporis
afflictiva (i rei non possono essere liberati dalle carceri per nessuna imputazione, se da essa
discenda pena corporale afflittiva).
Il giudice deve tenere in considerazione la persona da arrestare, per la quale potrebbero bastare gli
arresti domiciliari.
Gli ufficiali non possono arrestare nessuno senza mandato, fuori dell’ipotesi di fragranza in certi
reati.
Molte legislazioni autorizzano anche i privati a catturare il delinquente oppure, e questo è tipico
degli statuti, gli abitanti di un quartiere o di una comunità rurale.
Citazione. Se il reo non viene catturato, dev’essere citato alle carceri (si presuppone che il delitto per cui è
inquisito meriti pena corporale).
La citazione è un atto dovuto che non può mancare.
Ma occorre che il giudice, per procedere a questo atto ulteriore, disponga di altri indizi, ancora più
forti, contro l’indagato.
Nella citazione alle carceri si deve altresì riprodurre il libello inquisitorio.
Se invece il giudice procede per un delitto lieve, non si forma un libello inquisitorio, basta la
querela di parte ed il reo si cita a difesa.
La citazione può essere consegnata in persona o alla casa oppure in forma più solenne e pubblica.
In alcuni luoghi, come nella Terraferma veneta, è in uso anche una citazione ad informare la curia,
quando mancano i presupposti del mandato alle carceri.
A questi citati spetta la concessione del salvacondotto de veniendo et redeundo, il quale implica
anche che non possano essere interrogato che per i capi d’imputazione specificati nella citazione o
nel libello inquisitorio.
Si serva anco ne i casi ne i quali s’ingerisce pena di sangue, et che non s’habbiano inditij che
movino il giudice a far ritenere il reo et tanto manco alla citatione, di far un mandato al reo o rei
sospetti che debbano nel termine assignato comparere ad informare la giustitia di quelle cose che
sarà o saranno interrogati, sotto certa et limitata pena la quale gli può esser tolta per la loro
inobedienza: anzi che non comparendo si proclamano poi formalmente per il delitto, rendendosi per
tal loro assenza et inobedienza tanto maggiormente sospetti et inditiati, et perché questi sono nella
medesima conditione delli rei carcerati, poiché comparendo et dopo constituiti possono esser messi
sotto chiavi et nelle carceri, et contra di loro si può procedere per qualunque colpa. Il che non si
serva né si può fare con li presentati volontariamente per il salvacondotto generico che hanno dalla
legge 1512 et 1514 come si dirà al suo capo.
Per questo li citati ad informandam Curiam, come di sopra, dimandano il salvocondotto de veniendo
et redeundo, il quale se gli concede clausulatamente, cioè che detto salvocondotto vaglia in quanto
che il reo dica la verità delle cose delle quali sarà interrogato, et questo è stato deciso et terminato
anco nel reggimento di Salò, nel tempo dell’eccellente domino Vincenzo Viceamano, giudice del
maleficio di quella terra.
Contumacia. Si è già osservato quali fossero le conseguenze della contumacia già nel processo accusatorio.
Secondo il regime invalso nella consuetudine ed approvato dal diritto statutario, contro il contumace
il giudice può emettere immediatamente una sentenza di bando e successivamente, se egli non si
presenta nel termine previsto, di condanna in relazione al reato per cui è inquisito, senza bisogno di
ulteriori indizi: la contumacia equivale infatti ad una confessione presunta.
Non è necessario che il giudice disponga di prove effettive della colpevolezza dell’inquisito.
Per il periodo che sitiamo esaminando si può dire di più: benché si possa sostenere che, almeno in
relazione a taluni delitti, il giudice sia obbligato a raccogliere prove a favore del contumace, com’è
suo dovere quando il reo è presente in giudizio, di fatto, dice Claro, il giudice assume testimonianze
contro di lui: il giudice che facesse il contrario sarebbe destituito come imperitus e fatuus.
Ai tempi di Giulio Claro, nel Ducato di Milano, una volta che il giudice abbia indizi sufficienti alla
cattura, se il crimine è tale da meritare la confisca dei beni, fa stilare da un notaio l’elenco dei beni,
mobili e immobili, dell’inquisito e li fa prendere in consegna dai consoli o dai sindaci del luogo
dove sono posti. Dopo di che, il reo viene bandito e condannato con sentenza definitiva.
Il Senato suole tuttavia ammetterlo alle difese: se però si presenta dopo 1 anno, l’eventuale
assoluzione non implica la restituzione dei beni, che restano incamerati dal fisco: un regime
(codificato anche nelle Nuove Costituzioni milanesi del 1541) che, come osserva Claro, in fondo
non è molto distante da quello di diritto comune.
La confisca dei beni, fa notare lo stesso Claro, è un effetto della contumacia solo se il reato per cui
si procede è punito con la confisca: altrimenti, il contumace non viene spogliato del suo patrimonio.
La legislazione principesca lombarda del Cinque-Seicento risolve anche altri problemi.
Le litterae ad novas defensiones, di competenza del Senato, con le quali il bandito veniva ammesso
a difendersi, potevano essere chieste dal bandito solo entro 2 anni dalla commissione del reato, ai
sensi degli Ordini di Tomar del 17 aprile 1581: questo termine, che nelle Nuove Costituzioni del
1541 non era stato previsto, veniva ora prefissato, come precisava Filippo II nel testo
dell’ordinanza, per impedire che i banditi temporeggiassero e nel frattempo venissero a mancare i
testimoni oppure fosse raggiunta la pace con la famiglia dell’offeso.
Così pure nel 1616 il Senato, in uno dei suoi numerosi Ordini, precisò che il bandito non aveva
diritto di chiedere le difese, se dal processo risultava già convinto o confesso.
Anche in Francia varie fonti attestano che è possibile condannare il contumace alla pena prevista
per il reato commesso.
Anche nel foro canonico, il contumace viene prima scomunicato e poi, dopo 1 anno, viene
condannato.
Sempre Claro fa notare che, se il contumace bandito e condannato si presenta, è lui, e non il giudice,
ad avere l’onere di provare la sua innocenza.
Egli ricorda un caso risolto dal Senato nel 1548, in cui fu scritto al pretore di Cremona di eseguire la
sentenza di condanna contro un certo Vairano, accusato di sodomia e condannato al rogo, qualora
egli si fosse limitato ad osservare che non c’erano indizi contro di lui e, nel termine fissato, non
avesse svolto ulteriori difese.
Era infatti sufficiente la precedente sentenza di condanna.
Restavano poi in vigore le norme statutarie contro il favoreggiamento dei banditi, che la
legislazione principesca inasprì ancora di più.
Si può ricordare, ad esempio, quella grida del 12 giugno 1583, che prevedeva tutta una serie di
sanzioni contro i favoreggiatori di un bandito, anche se fossero il padre, la moglie, il fratello o
frequentatori occasionali del malcapitato.
Molto ricco è anche il panorama offerto dalla Terraferma veneta del Cinquecento, che faceva parte
della Repubblica di Venezia.
Il contumace che non fosse anche convinto di reità, in ossequio ad una legge del Senato del 1504,
poteva essere bandito ad inquirendum.
Il contumace aveva tempo 16 mesi per presentarsi e fare le sue difese, con l’avvertenza che il bando
era per sè solo indizio ad torturam: in caso contrario, i banditi si consideravano rei confessi.
Il 21 marzo 1524 il Senato stabilì che il provvedimento si poteva prendere solo nei confronti di
sospettati di reati gravi e per la durata di 2 anni.
Se invece il reo era sottoposto al bando ordinario, poteva solo inoltrare una supplica a Venezia per
poter svolgere le sue difese e se venivano concesse doveva presentarsi entro 1-2 mesi, secondo i
luoghi.
Nel frattempo, non si accettava alcuna difesa in suo favore e agli imputati presentati si stralciava
dalla copia del processo tutto ciò che concerneva il reo assente.
La legislazione veneta intervenne in modo massiccio anche su molti altri aspetti del banditismo,
modificando gli equilibri delle città di Terraferma, innovando rispetto al diritto locale, con una
massiccia ingerenza.
Sono leggi d’emergenza, spesso temporanee, spesso soggette a ripensamenti, tese a fronteggiare con
misure severissime il banditismo.
1. L’uccisione del bandito era lecita anche se effettuata in modo proditorio, cioè con l’inganno e
il tradimento, pur di fronteggiare la minaccia dell’alto numero di banditi. Dati gli abusi, però, il
Consiglio dei dieci il 29 luglio 1489 proibisce di uccidere i banditi con insidie, appostamenti di
gruppi più numerosi di 5 persone o comunque in qualsiasi modo con premeditazione. L’ 11
settembre 1490 tale legge viene tuttavia revocata e la prassi, come osserva acutamente il Priori, la
rispetta: Guardinsi dunque i banditi di venir ne i luoghi a loro prohibiti per i suoi bandi perché anco
se bene per la legge 1489, 29 luglio li banditi overo condannati in lire cinquanta non potevano
esser’offesi se non in puro homicidio, et non per insidie et appostate, nondimeno l’anno 1490, 11
settembre detta legge 89 fu rivocata di modo che stante la detta rivocatione il bandito overo
condannato come di sopra può impune esser offeso in insidie et appostatè in setta et in monopolio,
come è descritto nel titolo di essa legge, et anco con l’esoneratione d’arcobugi, di che ne sono
seguiti molti et diversi giuditij et specialmente vedansi le lettere delli eccellentissimi signori Capi
dell’eccelso Conseglio di X de dì 12 febraro 1553, per le quali è dichiarito che l’esonerante
l’arcobugio contra il bandito non incorre nella pena della legge, et ciò fù deciso per risposta delle
lettere scritte per il podestà di Bergamo di quel tempo.
2. Gli uccisori dei banditi godevano dell’impunità. Le leggi venete, fino al 1595, concedevano di
uccidere impunemente solo i banditi condannati alla pena capitale. Dal 1595 però l’impunità viene
estesa a qualsiasi bandito.
3. Chi uccideva un bandito conseguiva di solito una taglia come premio. Poteva anche ricevere
una ‘voce liberar bandito’, che poteva vendere ad altri oppure usarla, liberando un altro bandito. La
‘voce liberar bandito’ poteva essere acquisita anche per se stessi: così il bandito che ne uccideva un
altro poteva liberarsi dal bando. La legge del 18 luglio 1549 tolse però ai banditi questa facoltà, che
aveva provocato non pochi inconvenienti ed ingiustizie. Ma questa politica non ebbe successo: il 31
ottobre 1569 si accordò di nuovo la liberazione del bando ai banditi che ne avessero ammazzati
altri. Altre leggi stabilirono che il bando doveva essere per un delitto uguale o inferiore oppure
esclusero determinati banditi dal beneficio.
4. La ‘voce liberar bandito’ si poteva conseguire anche uccidendo i colpevoli di determinati gravi
reati (omicidio, stupro, ratto, incendio, violenza nelle cose o nella persona commessi con insidie e
con appostamento alla casa o alla strada), colti in flagranza, in base alle leggi sul flagrante crimine
del 16 dicembre 1560, 10 dicembre 1567 e 15 aprile 1574, tutte puntualmente ricordate dal Priori:
Et quelli che con insidie et appostatamente andassero alla casa o alla strada et commettessero
homicidio, sforzo, rapto, incendio o violenza nella robba o nella persona, in quell’istante et in
fragranti non solamente possono esser presi dalli ministri et seguitati etiam in aesi alieni da cadauna
persona, ma anco facendo resistenza possono esser impune offesi et morti et li captori in tali casi
conseguiscono la terza parte de i beni de retenti, quali s’intendono confiscati arme, cavalli, danari
ch’havessero con loro, et gli altri due terzi de beni divisi secondo il consueto, et vedasi quanto s’è
detto nel capo della confiscatione de beni. In oltre conseguiscono libertà di liberar un bandito per
homicidio puro diffinitivè overo un bandito a tempo, et come nelle leggi 1560, 16 decembre, 1561,
26 novembre, 1567,10 decembre, 1574, 15 aprile.
Erano leggi volte soprattutto ad incoraggiare la lotta contro i banditi.
Tutti questi inasprimenti non bastarono per risolvere il problema del banditismo, destinato ad
aumentare e ad aggravarsi.
Si tentò anche la strada pericolosa di ampliare i poteri dei rettori.
I rettori, se ricevevano un caso per delegazione servatis servandis (cioè con il rito inquisitorio
ordinario), acquisivano anche il potere di bandire da tutto il territorio della Repubblica esclusa
Venezia e se veniva loro concesso il rito inquisitorio speciale del Consiglio dei dieci, anche da
Venezia!
Mentre se agivano con i poteri ordinari potevano tutt’al più bandire dalla città in cui operavano, dal
territorio di questa, 15 miglia al di là dei confini, dai 4 luoghi (Oriago, Bottenigo, Lizzafusina e
Gambarare), ed eventualmente da Venezia e dal Dogado (cioè dalle 9 podesterie di Grado, Caorle,
Torcello, Murano, Malamocco, Chioggia, Loreo e Cavarzere).
Inoltre il 20 maggio 1580 il Senato conferì ai rettori delle città più grandi il potere di castigare
immediatamente con la morte i banditi catturati, dopo un processo sommario!
Il 26 ottobre 1585, proseguendo sulla stessa linea, il Senato emanò la famigerata legge ‘dei cinque
casi’, in cui autorizzava i rettori delle grandi città a procedere sommariamente nei casi di
“svaliggiamenti fatti alla strada et depredatione delle case, nelli sforzi di donne et homicidi
commessi con mascherati e travestiti et di incendiari”.
Nel gennaio 1586 il Senato precisò che tali delitti dovevano essere commessi o da banditi o da loro
complici e favoreggiatori.
Il 20 luglio 1580 si concesse a tutti i banditi la possibilità di potersi liberare uccidendo altri banditi.
La legge fu prorogata per due anni il 26 gennaio 1587.
Nell’agosto 1580 si riservò il potere di concedere le ‘voci liberar bandito’ ai soli rettori con corte,
provvisti di almeno 2 dottori come giudici (nel 1620 il Consiglio dei Dieci avocò tale potere a sè
stesso).
Nel Seicento si giunse perfino a permettere la liberazione dal bando dietro pagamento di somme di
denaro in misura ancor più larga che nel passato.
La legislazione veneta infine risolve anche altri problemi, che altrove sono lasciati alla dottrina o
agli statuti.
1. I banditi non possono essere impunemente uccisi dal padre, dal figlio, dal fratello, dallo zio,
dal nipote, dai cugini, dalla moglie, dal suocero, dal genero (leggi 26 giugno 1524 e 22 giugno
1573).
2. Così chi ammazza un bandito nei 3 giorni successivi alla pubblicazione del bando gode lo
stesso dell’impunità, benché i banditi abbiano tempo 8 giorni in base alle leggi 26 luglio 1503 e 18
luglio 1561, ma non può liberare altri banditi o riscuotere taglie, per una prassi giudiziaria
consolidata (per molte giudicature in ciò seguite, dice il Priori).
E’ da notar anco che quello che ammazzasse un bandito ne i tre giorni dopo la publicatione del
suo bando, egli ha bene l’impunità in quanto che contra di lui la giustitia non procede, per molte
giudicature in ciò seguite, ma però non ha facoltà di liberar altro bandito né meno di conseguir le
taglie, se non che li banditi per osservanza hanno termine di tre giorni anzi di giorni otto, vedansi le
leggi 1503, 26 luglio et 1561, 18 luglio di poter’andare a suoi confini, il qual termine passato oltre
che incorrono nella pena contenuta nella sua condanna s’intendono banditi di terre et luoghi,
secondo detta legge 1503 nel modo come si dirà più a basso.
3. Sempre in virtù di giurisprudenza, chi uccide un bandito senza sapere che costui era bandito
gode ugualmente dell’impunità, ma non riceve premi.
Avvertendo anco che quando constasse che uno havesse ammazzato un bandito non sapendo ch’egli
fosse bandito, ma che l’havesse ammazzato per altra causa o per altro accidente è opinione che
questo tale habbia bene l’impunità, di modo che la Giustitia non proceda contra di lui, ma per che
non debba conseguire per tal morte taglie né beneficij promessi dalle leggi o statuti.
4. Una legge del 1532, poi confermata, prende in considerazione il caso inverso: è lecito uccidere
un bandito quando sia finito il tempo del bando, ma questo non sia stato cancellato e quindi il
bandito sia ancora formalmente tale (ancora ‘vivo in raspa’):
Il bandito poi vivo in raspa, benché fosse finito il tempo del bando, può essere impunè morto,
legge 1532, 24 ottobre, caso 1547, 13 marzo et 17 detto, 1550, 20 genaro, 1551, 21 febraro et altri,
si come anco fra li confini può esser ammazzato con schioppo come di sopra si è detto.
5. Per una legge del 16 dicembre 1544 e per la giurisprudenza delle magistrature centrali
veneziane non è invece lecito uccidere il bandito catturato dalla polizia (è un problema trattato
anche da Alberto Gandino e da altri prima di lui) oppure condurre con male arti un bandito in un
luogo a lui proibito, “non volendo questa serenissima Republica religiosissima che alcuno venga
ingannato et tradito”.
Ma non però quando egli si ritrovasse nelle mani delli ministri né anco quando un bandito fosse
condotto retento con male arti fra li confini del suo bando, intendendosi anco con male arti se si
conducesse con artificio il bandito in luogo a lui prohibito, potendosi credere ragionevolmente che
lui non lo possi sapere et che per forza e violenza lo conducesse, ne i quali casi li delinquenti
sarebbero gravemente puniti conforme alla legge 1544, 16 decembre et molti giuditij seguiti in
questo proposito, non volendo questa serenissima Republica religiosissima che alcuno venga
ingannato et tradito.
Interrogatorio. Se l’inquisito (o anche reo, nel linguaggio giuridico) compare, si procede al suo interrogatorio
(examen, constitutum).
Nella prassi veneta, diverso è il trattamento dell’imputato catturato o che si presenta a seguito di
mandato alle carceri.
Il retento è messo in prigione, da solo e separato; il presentato viene tenuto in luogo sicuro.
Quando il reo si è presentato overo è preso et carcerato, subito si deve constituire et in tanto il
retento mettere in una prigione solo, separato dall’altri acciò non sia instrutto, et il presentato
consignare alli cavalieri per tenerlo nel luogo o camere de i presentati.
Ma quando non vi sia luogo destinato, se gl’assegna una casa nella corte con una sigurtà di non
partirsi secondo il parere del giudice havendo rispetto alla qualità della persona et alla natura del
delitto.
L’interrogatorio viene verbalizzato da un notaio.
In alcune prassi giudiziarie, esistono diversi tipi di interrogatorio: uno ordinario e più generico
(costituto de plano) ed uno più specifico e dettagliato, “duro e aggressivo”, “duro e serrato, volto a
mettere in evidenza e contraddizioni dell’inquisito” (Povolo), basato su continue opposizioni
(costituto opposizionale).
De consuetudine, il reo non è soggetto ad alcun giuramento; non ha diritto all’assistenza di un
difensore, né a conoscere immediatamente gli indizi raccolti contro di lui.
Attendasi adunque solamente al fatto et alle circostanze, le quali tutte si cavino dal processo et anco
dalle risposte del reo, non dandogli copia de gl’inditij se non doppo constituto et doppo che gli
siano intimate le difese, le quali ne i casi gravi et atroci et di difficil prova non s’intimano se prima
non è intimata la parte offesa, acciò che veduto in copia il constituto possa reprovare le cose
introdotte dal reo et illuminare la giustitia innanti la publicatione del processo.
Sono tutte regole che si sono imposte nella prassi giudiziaria: de iure è tutto il contrario.
Inoltre, l’imputato ha l’obbligo di rispondere, non ha il diritto al silenzio. Può anche essere messo a
tortura, se rifiuti di rispondere.
Secondo alcune pratiche giudiziarie, si può ricorrere alla tortura anche se l’imputato sia reticente,
cioè sia restìo a parlare, dicendo di non sapere o di non ricordarsi le cose che gli vengono chieste,
come osserva il Priori, ed in altre ipotesi ancora: imputato che si contraddice (varius) o dice cose
incompatibili (contrarius) o cose diverse (vacillans), che ritratti o dica cose inverosimili.
Di queste tipologie di deposizione, valide anche per i testimoni, dà un ottimo quadro riassuntivo
Egidio Bossi: testis dictur varius, cum nulla causa assignata dicit contrarium eius quod primo
dixerat... Contrarius vero est, cum dicit duo, quae simul esse non possunt... Sed vacillans dicitur,
qui timendo et dubitando varie loquitur (testimone vario è quello che senza motivo dice tutto il
contrario di ciò che aveva deposto in precedenza... Contrario è il teste che dice due cose che insieme
non possono stare... Vacillante è il teste che per timore e per dubbio dice ora una cosa, ora un’altra).
Quando il reo non volesse rispondere alle interrogationi o che dicesse non sapere o non ricordarsi
quelle cose che ragionevolmente deve sapere et ricordarsi, non tanto sopra il delitto quanto anco
sopra le circostantie, o che non rispondesse immediatè la verità o che volesse negare il nome, padre,
patria, all’hora il giudice può farlo condurre a i tormenti et co’l mezo di quelli farli rispondere
affirmativamente o negativamente alle sudette interrogationi, ma non deve punto interrogarlo sopra
il delitto, sopra inditij precedenti et legitimi, il qual reo è obligato senza haver tempo o termine di
subito rispondere.
L’interrogatorio può essere più o meno pressante, più o meno duro.
L’interrogatorio ordinario, che segue certe regole, è detto costituto de plano.
In certe prassi inquisitorie, ad esempio quella del Consiglio dei Dieci nella Repubblica di Venezia, è
in uso anche un interrogatorio più incalzante, detto costituto opposizionale.
Sono ammissibili anche interrogatori incrociati tra più imputati.
Si confrontano anco i rei ne i constituti quando che fossero più rei in uno caso, uno de’ quali
confessasse et l’altro no, onde all’hora il confesso si fa dire al compagno in faccia la serie del fatto
con tutti i particolari et circostanze, scrivendo diligentemente le proposte et risposte, ma questo reo
confesso deve anco confermare il suo contenuto ne i tormenti, affin che faccia inditio contra il
compagno accusato, il qual tormento serve in luogo di giuramento essendo la persona infame, di
che più particolarmente se ne dirà al capo della tortura.
Confronti. Può essere necessario un confronto tra i testimoni o la parte offesa e l’imputato, che porti al
riconoscimento del reo. Anche a questo proposito soccorre la prassi.
Se il reo non fosse conosciuto per nome da i testimonij, ma solamente descritto nell’effigie, ne
gl’habiti et per altri segni, et che interrogati essi testimonij dicessero che vedendo esso reo lo
conoscerebbono, all’hora il giudice deve far mettere il reo in filla et di compagnia di tre o quattro
dell’istessa statura et simili più che sia possibile et vestiti dell’istessa sorte di habiti, mostrandoli ad
essi testimonij o testimonio, facendoli discernere fra questi il reo, et se fosse mostrato uno che non
fosse in effetto et che doppo subito l’eleggesse affermando ciò una, più volte, farebbe inditio et si
starebbe a quest’ultimo detto.
Il medesimo si osserva nella parte offesa, la quale non conoscesse il delinquente per nome, ma
solamente per l’effigie et statura et che dicesse di conoscerlo quando lo vedesse, onde mostratolo di
compagnia d’altri et conosciutolo si reinfaccia il delinquente, dicendogli che non può negare di
esser colpevole poiché è stato fra que gl’altri discernuto et conosciuto, procurando con questi mezi
et altri simili argomenti di convincerlo.
Il confronto tra testimoni e imputato de iure non è obbligatorio.
Il Senato di Milano lo richiede:
a) quando il teste contra reum sia de visu;
b) quando i testi si contraddicano tra loro;
c) quando il teste deve riconoscere il reo (in tal caso, il reo andrà mostrato insieme con altre tre o
quattro persone a lui simili fisicamente e vestite allo stesso modo).
Se il reo è inquisito per un delitto che merita solo una pena pecuniaria dopo l’interrogatorio gli si
possono concedere le difese per procuratore, cioè può farsi rappresentare da un procuratore e restare
in libertà previa fideiussione oppure messo agli arresti domiciliari.
Il giudice comunque deve stare sempre attento, quando concede al reo di preparare le sue difese a
piede libero.
Se il delitto è punito con pena corporale le cautele sono ovviamente maggiori.
Quando che il reo sia constituito ricercando così la qualità del delitto et della persona si deve serrar
in prigione sicura, non lasciando che alcuno li parli quando che per il delitto egli meritasse pena
afflittiva del corpo, nel qual caso non si rilassa altrimente con sigurtà, ma se il delitto fosse lieve di
modo che il delinquente non venisse a ricevere pena corporale, ma che si trattasse di pena
pecuniaria, all’hora si deve rilassare con una sigurtà la quale sotto certa et limitata pena si oblighi di
rappresentarlo ad ogni richiesta della giustitia o di stare et pagare la condanna, per essecutione della
quale doppo fatta si può procedere immediatamente contra il detto piezo.
Ma perche pare che fatte le rilassationi i rei non si curino di fare le loro difese né di espedirsi, deve
però il giudice in questo esser circonspetto nel farli rilassare se non per giuste cause, assegnandoli
termine prefisso il qual passato possa il giudice fatte o non fatte le difese venire all’espeditione et
astringere la sigurtà di rappresentare nelle forze il reo rilassato o di pagare la condanna et la pena
contenuta nell’atto della sigurtà, le quali rilassationi si sogliono far’anco specialmente nelle feste di
Natale et di Pasqua et anco ne i casi ne i quali apparesse che’l reo non fosse colpevole, overo non
molto inditiato, assegnando a loro casa o altro luogo per prigione con la sigurtà sudetta, secondo
l’arbitrio del giudice, ma se il delitto fosse enorme o che il reo fosse confesso o convinto o che il
giudice sperasse di qualche maggior’inditio, non si deve a modo nessuno rilassar il reo.
Se il giudice lo ritiene opportuno, potrà eventualmente far prestare una cauzione al reo di non
offendere la vittima o la parte offesa.
Se l’imputato è povero, potrà accontentarsi del suo giuramento.
Può il giudice, anco nel rilassare i rei et tanto maggiormente quando che fosse ricercato dalla parte
offesa, astringerli a dare una sigurtà di non offendere alcuno delli avversarij, et quando il reo fosse
povero né havesse sigurtà, all’hora se li admette la iuratoria cautione la quale dura secondo
l’arbitrio del giudice.
Ripetizione dei testimoni. Dopo l’interrogatorio, se il reo non ha confessato, avviene il riesame dei testimoni, già ascoltati
nella fase istruttoria (segreta).
I testimoni esaminati nel processo informativo devono essere riascoltati (repetitio testium).
Il giudice può delegare quest’operazione. La repetitio testium qui examinati sunt in processu
informativo potest delegari, dice Claro, e così accade nella prassi: et ita servatur de consuetudine.
La repetitio testium non è necessaria se il reo è contumace e non compare.
L’imputato e i difensori hanno solo il diritto di assistere al giuramento dei testimoni, che poi devono
essere esaminati in segreto.
Pubblicazione del processo e difese. Dopo l’interrogatorio e il riesame dei testimoni, il giudice deve intimare le difese all’imputato, al
quale, se ne fa richiesta, si deve anche dare copia a sue spese degli indizi e delle altre prove esistenti
contro di lui, nonché del verbale del costituto.
La prassi è nel senso che la pubblicazione si faccia dopo la repetitio dei testimoni e dopo l’examen
del reo.
Nomi e deposizioni testimoniali vanno dati al reo solo se ne abbia fatto richiesta.
Quindi il processo è valido anche se l’imputato non ha preso visione delle prove contro di lui.
Per alcuni criminalisti, è opportuno comunque che il giudice, nell’intimare le difese, fissi anche un
termine entro il quale il reo può ottenere copia degli indizi.
Ma con li rei presenti s’intima le difese, dandogli copia de gl’inditij nel modo sopradetto innanzi
che si venghi a tormenti, potendo loro purgare gl’inditij con altri mezi et prove che con quello del
tormento, la qual copia però si dà mentre venghi da loro ricercata come si fa all’accusatore, al qual
reo doppo intimategli le difese non dimandando egli termine la giustitia deve ex officio statuirlo,
notando nell’atto il termine con l’ordine che gli sia data la copia a sue spese, affin che non
curandosi di difendersi et venendosi all’espeditione apparì sempre l’intimationi debite et con
l’ordine della copia, il che si deve fare anco ne i rei conventi et confessi a quali ne anco il prencipe
per la sua potestà ordinaria può negare le difese, anzi che quando il reo è povero et non habile per la
sua povertà di difendersi se li assegna gl’avvocati de i prigionieri o altri che lo difendano…
Si dà copia del processo offensivo anche alla parte offesa, affinché possa collaborare con la
giustizia.
Doppo formato il processo offensivo et tolto il constituto del reo, si suole ne i casi atroci et oscuri
intimare la parte offesa alla quale si dà copia del constituto acciò che tanto maggiormente possa
delucidare la giustitia...
Il reo ha diritto di ricevere solo le deposizioni concernenti la sua persona.
I nomi dei testimoni devono essere comunicati.
E’ bene però, notano alcuni criminalisti, tra cui il Priori, osservare determinate cautele nel riferire i
nomi dei testimoni all’imputato.
Così è opportuno indicare i nomi alla fine del processo informativo (così si chiama il fascicolo che
contiene i risultati dell’istruttoria) e mischiati, in modo che il reo conosca il contenuto delle
deposizioni e chi ha deposto, ma non possa collegare le une agli altri.
Si dovrebbe anche controllare ogni dichiarazione del testimone, eliminando quelle che lo possano
identificare.
Meglio sarebbe, a questo punto, dice il Priori, nei casi più gravi, non dare copia ai rei dei processi.
Doppo formato il processo offensivo et tolto il constituto del reo, si suole ne i casi atroci et oscuri
intimare la parte offesa alla quale si dà copia del constituto acciò che tanto maggiormente possa
delucidare la giustitia, et poi al reo si dà copia del processo a sue spese, cioè di quelli inditij
solamente concernenti la sua persona, dandogli i nomi de i testimonij essaminati in fine del
processo et confusi, massime ne i casi atroci et quando li rei fossero potenti affine che non si possa
sapere qual sia la loro depositione, et però possono havendoli in nota confusamente opponere alle
loro persone. Et se il testimonio super generalibus rispondesse di esser parente di una delle parti da
che si scoprisse chi egli fosse si suol anco tenere occulta questa parentela per fuggir il danno et il
pericolo di esso testimonio, quando ch’egli testificando contra il reo fosse conosciuta la sua
depositione, et però sarebbe cosa utilissima, così alla giustitia come a i testimonij, se ne i casi gravi
et atroci si procedesse nelle formationi de i processi secondo il stilo dell’eccelso Conseglio di dieci
senza dar copia a i rei de i processi, perché facendo così i testimonij essendo certi che le loro
depositioni non dovessero esser vedute se non dalla giustitia direbbono senza timore la verità, et
perciò si venirebbe in cognitione facilmente de i delinquenti che per tal causa molti enormi delitti
passano impuniti.
Le parti non possono, dopo la pubblicazione del processo, chiedere il riesame dei testimoni sui
capitoli d’accusa intorno ai quali sono già stati interrogati: si teme che possano subornarli.
Possono invece produrre nuovi capitoli e su questi chiedere che siano ascoltati nuovi testimoni.
Ben possono le parti, doppo la publicatione del processo sopra nuovi capitoli che trattino altra cosa
della già prodotta et publicata, essaminar’altri testimonij fino alla sentenza exclusivè perché cessa
ogni sospittione di subornatione…
Quando che sia publicato il processo et che le parti ne habbino havuto copia non si può più
essaminare testimonij introdotti da esse parti sopra i capitoli et cose già publicate, rispetto che
potrebbono, veduto c’havessero non haver provata la loro intentione a suficienza, introdurre essi
testimonj subornandoli a deponere la falsità, et perciò conforme a molte decisioni et lettere di
clarissimi signori avogadori non si admettono questi testimonij doppo la pubblicatione sudetta,
vedansi le lettere del podestà di Padova dell’anno 1563, 12 maggio scritte in questo proposito.
Al giudice invece è permesso di risentire i testimoni ed eventualmente può, se non teme che siano
stati comprati, udire quelli che il reo gli indica.
Lo dicono già i commentatori nel Trecento: il giudice, nel rito inquisitorio, può riesaminare i
testimoni anche dopo la pubblicazione delle testimonianze (Bartolo, Comm. D. 48.5.2, ad legem
Iuliam de adulteriis, l. Ex lege iulia § Si publico, n. 15).
Ben’è vero che nei i casi gravi et atroci, nei quali il giudice può anco ex officio procedere, può esso
giudice ex officio doppo publicato il processo essaminare testimonij sopra l’istesse cose publicate
per delucidatione della verità.
Et quando così sia stretto da gran causa et importante necessità et che sia certo sopra tutto che ne i
testimonij non vi possi essere alcuna subornatione che altrimente non si deve fare può anco
accettare in cedula dalla parte i nomi de i testimonij et ex officio essaminarli, tutto che sia publicato
il processo sì come medesimamente ne i sudetti casi si osserva di accettare dalla parte offesa le
interrogationi che si devono fare a testimonij, non ponendo però nel processo né la cedula né meno
dette interrogationi le quali solamente servono per instruttione del giudice.
I capitoli di difesa sono tanti.
E’ ammesso, ad esempio, quello della difesa coartata col luogo e col tempo, che corrisponde
all’alibi circostanziato: quello semplice non è ammesso.
Il giudice, tuttavia, dev’essere molto circospetto nell’ammettere questo capitolo e ancor più attento
nell’interrogare i testimoni, che spesso depongono il falso.
Perciò dovrà porre loro molte domande e sentirli personalmente, senza delegare l’escussione ai
notai o al cancelliere.
Havuta che habbi il reo la copia del processo offensivo, per difendersi dall’imputationi in questo
dedotte suol presentar capitoli per giustificare le cose introdotte nel suo constituto et che
concernono le sue difese, et però essendo materia di molta importanza ne i criminali è necessaria
una diligente inquisitione et consideratione nell’admissione di questi capitoli.
Si admette similmente il capitolo concernente la difesa coartata co’l luogo et tempo, perché se fosse
semplice non si admetteria per esser’improbabile, anzi che il testimonio deponendovi sopra si
renderebbe sospetto di falso essendo grande la temerità sua, testificando che l’homicidio o altro
delitto non fusse stato commesso dal delinquente, senza render altre ragioni.
Ma si deve anco avvertire che nell’essaminare sopra il capitolo di difesa coartata vi bisogna
un’estraordinaria diligenza, producendosi per il più testimonij subornati et sospetti di falso, quali
prontamente depongono di esservi ritrovati con il delinquente nell’hora et punto del delitto
commesso, et però si possono interrogare quando andorono co’l reo, in qual luogo, se soli o
accompagnati, di dove si partissero et a che hora gionsero, della sorte di habiti et arme, se si fermò
sempre co’l reo et a qual fine, la distanza dal luogo del delitto à quello ove andorono, et per qual
causa ricordarsi tanti particolari, se incontrorono alcuno, et se con alcuno havessero parlato, se
intese ragionare del delitto commesso con tutte le circostanze et chi s’incolpava, con dichiaratione
doppo se quella notte era oscuro o pure lucesse la luna, con quell’altre interrogationi che
comportarà la buona conscienza del giudice secondo la qualità del delitto.
Non commettendo questo essame a canceliero o nodaro senza la presenza del rettore o del giudice,
perché con tal presenza il testimonio quando fosse subornato temerebbe molto più a deponere la
falsità né meno si devono concedere lettere dimissorie per far l’essame sudetto.
Le difese devono essere svolte prima della tortura. E’ dall’esito delle difese che dipende la decisione del giudice circa la sottoposizione o meno
dell’imputato ai tormenti.
Ma con li rei presenti s’intima le difese, dandogli copia de gl’inditij nel modo sopradetto innanzi
che si venghi a tormenti, potendo loro purgare gl’inditij con altri mezi et prove che con quello del
tormento…
Possono essere torturati prima delle difese solo i rei carcerati, in presenza di determinate condizioni.
Ne anco si dà copia al reo retento se non doppo i tormenti, quando che però la qualità del delitto
ricercasse certi tormenti prima che gli fossero intimate le difese, come ne i delitti de furto,
nell’homicidio commesso de mandato, o in altri che si sogliono commettere in compagnia d’altri, et
che il reo si havesse per convento, nel qual caso innanzi la publicatione del processo et prima che
s’intimano le difese si procede a i tormenti co’l protesto per saper i complici, come al capo della
tortura si dirà, nel che poi il giudice si governa secondo l’arbitrio suo, havendo in consideratione la
qualità del delitto et conditione della persona. Vedasi un caso in Quarantia criminale che fu
deliberato di non darsi copia de gl’inditij prima della tortura di Bernardino Goffetto da Cologna
retento 1558, 22 marzo.
Tra i capitoli di difesa dell’inquisito spicca, anche per l’età moderna, quello relativo alla pace
ottenuta dall’offeso o dalla sua famiglia.
La tendenza della legislazione, sia statutaria che principesca, è ormai da tempo quella di ridurne
progressivamente gli effetti ai soli reati puniti con pena pecuniaria, a tutto vantaggio del potere
inquisitorio del giudice nei casi più gravi dei reati puniti con pena capitale e corporale, affinché essi
non rimangano impuniti a discrezione delle parti.
Il dato è confermato dalle Nuove Costituzioni milanesi del 1541, nel titolo sulle accuse e le
denunce: in casibus, in quibus condemnatio pecuniaria facienda est, ubi adsit pax vel remissio
offensi aut ejus haeredum et successorum, alioquo modo procedi non possit, nisi hi sint, in quibus
ex officio procedere concessum est (nei casi in cui si deve pronunciare una condanna pecuniaria,
quando vi sia la pace o la rimessione della querela da parte dell’offeso o dei suoi eredi e successori,
non si possa procedere in alcun modo, a meno che non si tratti di reati per i quali è concesso
procedere d’ufficio).
La prassi delle paci continua tuttavia anche in questo periodo, soprattutto per i reati rispetto ai quali,
teoricamente, è esclusa.
Ciò significa che la pace può produrre ugualmente effetti apprezzabili sul processo.
Un primo effetto lo si consegue solo di fatto: la pace, come osserva Giulio Claro in un passo famoso
della sua pratica, impedisce concretamente al giudice di giungere alla punizione del delitto, perché
gli viene a mancare la collaborazione della vittima.
Un secondo effetto è anche giuridico. Laddove, come in Lombardia, c’è ampia possibilità di
ottenere la grazia, la cui concessione politicamente serve ad assecondare una visione sacrale e
mitica della giustizia centrale del sovrano, la pace ne diviene una condizione indispensabile: senza
aver ottenuto la pace dall’offeso oppure dai suoi eredi la grazia non si può concedere.
Nel Cinquecento continuano pertanto le discussioni sulle paci, sia tra i giuristi che nella
giurisprudenza delle corti, almeno su determinati punti.
E’ oggi ex generali consuetudine ammesso fare pace per qualunque delitto, afferma Claro: perciò,
tutte le questioni agitate in dottrina su questo problema perdono significato.
Rimane invece importante stabilire chi può fare pace e come.
Ad esempio: il padre può fare pace per un’offesa fatta al figlio?
Il Senato ritiene di no, ma esige il consenso di entrambi, almeno quando intervengono ferite.
E’ fuori di dubbio, poi, che se la vittima è morta, il diritto di fare pace spetta ai parenti più prossimi.
Un altro caso delicato è quello degli uxoricidi: il marito deve ottenere la pace non solo dai figli
comuni, ma anche dai fratelli e dagli altri parenti stretti della moglie uccisa.
Nel Ducato di Milano si richiede anche la pace con tutti gli eredi del defunto, sia quello di sangue
che quello dei beni, se sono diversi.
E se vi sono più eredi, il reo deve ottenere la pace da tutti, affinché si spengano tutti gli odii ed i
rancori.
Infine, sempre secondo la prassi del Senato, la pace ha effetto solo se risulta da un atto notarile.
Solo eccezionalmente e per delitti non gravi, si dà efficacia ad una pace provata per testimoni.
Un caso del genere capitò proprio a Giulio Claro, alla cui presenza era stata fatta una concordia per
un’ingiuria ad un dottore in vista della grazia: il Senato la considerò valida (1559).
Quanto all’esperienza della Terraferma veneta, Lorenzo Priori ricalca quanto Claro attesta per la
Lombardia.
Usi ed abusi del segreto nel processo inquisitorio moderno fra teoria e prassi. Il principio del segreto degli atti istruttori è una delle regole fondamentali del processo inquisitorio
moderno.
Ne fornisco una prima rappresentazione riferendomi al percorso ‘regolare’ di un processo
inquisitorio cinquecentesco, astraendo per ora dalle specificità di singole corti e da un discorso
relativo all’evoluzione della regola.
Ecco dunque quali sono le principali operazioni coperte dal segreto nel processo inquisitorio
moderno.
1. Il segreto copre l’inquisizione generale e l’inquisizione speciale, durante le quali il
giudice prende informazioni sul delitto e sul reo, attraverso l’esame di testimoni. Le indagini
devono svolgersi all’insaputa dell’inquisito, nella più assoluta segretezza, lontano dagli
occhi indiscreti e dalla vista del sospettato e dei suoi difensori. Le operazioni compiute, e
quindi in particolare gli interrogatori, devono però essere documentate per iscritto.
L’obbligo del segreto si riverbera anche sui documenti che registrano le deposizioni
testimoniali e l’interrogatorio dell’imputato, le sole fonti attraverso le quali il reo sarà poi in
grado di regolare la propria difesa. Tali fonti sono tenute celate all’inquisito, per tutta la
durata del processo informativo e del processo offensivo. Tutto ciò che il reo può
apprendere, delle prove raccolte contro di lui o di ciò che è stato detto contro di lui, gli può
essere comunicato solo dal giudice. Il notaio o il giudice che rivelino all’imputato il
contenuto degli atti istruttori o dibattimentali prima della chiusura del processo informativo
od offensivo si rendono colpevoli di falso e sono puniti con una pena straordinaria, ad
arbitrio del giudice.
2. Compiuta l’inquisizione speciale all’insaputa del reo, il giudice lo fa catturare, se
dispone di indizi sufficienti alla cattura e se il reato per il quale si procede merita una pena
corporale, oppure lo cita.
3. Se il reo non si presenta, si apre un procedimento speciale per contumacia.
Se il reo viene catturato o si presenta spontaneamente, è interrogato, senza che
ancora possa conoscere gli indizi esistenti contro di lui.
4. Quando cade il segreto? Esiste, in effetti, un momento, in cui il segreto deve
cadere ed all’imputato dev’essere consentito di consultare gli atti: di avere, come si dice,
copia degli indizi.
Questa vera e propria ‘cesura’, nel processo penale, cronologicamente non coincide con la chiusura
delle indagini pre-dibattimentali, anteriori cioè alla chiamata in giudizio dell’imputato, ma è più
avanzata. Si deve attendere, infatti, la chiusura della fase offensiva, quella fase del processo
inquisitorio in cui l’imputato è sottoposto ad uno o più interrogatori (costituti).
Si deve attendere l’istante in cui il giudice, anche dopo aver interrogato il reo, decide di ‘scoprire le
carte’, perché ritiene di non poter acquisire altro contro il reo.
Di conseguenza, se il giudice ritenesse opportuno un supplemento istruttorio, dopo i costituti,
l’attesa del reo (e dei suoi difensori) si prolunga.
La pubblicazione degli atti del processo deve effettuarsi comunque prima della tortura.
Il giudice non può, di regola, sottoporre l’inquisito a tortura, se prima non lo gli ha consegnato
copia degli indizi contro di lui.
La tortura è infatti unanimemente considerata uno strumento sussidiario, con presupposti rigidi.
Occorre, tuttavia, la domanda della parte.
Se al giudice non viene chiesto di vedere gli atti, egli non è tenuto d’ufficio a darne copia
all’inquisito.
Un primo punto interessante da notare è che il percorso appena delineato e attestato nel
Cinquecento non coincide con quello suggerito dal diritto comune.
Secondo il diritto comune (in questo caso: il diritto canonico), quando si procede d’ufficio per
inquisizione, il giudice dovrebbe prima procedere alla verifica della fama in relazione ad un delitto
commesso, per accertare chi sia diffamato, cioè chi sia sospettato di aver commesso il delitto.
Una volta raccolta la fama contro una determinata persona, il giudice dovrebbe citare il reo in
giudizio ed opporgli la diffamazione; a questo scopo, dovrebbe dargli copia della diffamazione
contro di lui. L’inquisito deve quindi conoscere chi lo diffama.
Si avverte la prudenza con cui questo nuovo metodo viene usato, rispetto all’accusa, che porta ad un
processo ‘aperto’.
Se il reo nega di essere diffamato e nega di aver commesso il delitto, solo allora il giudice (se
procede d’ufficio sine promovente, come si è detto: in questo caso, la questione della fama può
essere momentaneamente accantonata per essere ripresa nell’eventuale giudizio di appello.
Quindi il giudice è bene che abbia i suoi testimoni pronti per quell’evento.
Se il reo, peraltro, non si appella, il giudizio rimane valido) può procedere all’inquisizione speciale,
super veritate criminis, per usare il linguaggio dei canonisti.
Questo è l’ordo suggerito dal c. 8 del IV Concilio lateranense del 1215 (4 Comp. 5.1.4, X. 5.1.24 =
decretale Qualiter et quando di Innocenzo III del 1206) e dalla Glossa ordinaria.
Senonché, questo ordo, nella prassi, salta ben presto.
Già nella seconda metà del ‘200, vediamo i canonisti chiedersi: che cosa succede se il giudice non
ha indagato sulla fama?
Lo potrà fare solo in alcuni casi.
Ma sono casi importanti: ad esempio, se l’inquisizione avviene sine promovente, senza un privato
promotore, ma ex mero officio iudicis.
Ma i canonisti del secondo Duecento e del primo Trecento, ragionando de iure, sono inflessibili
sulla necessità che l’inquisizione speciale sia fatta solo dopo aver citato il reo e dopo aver
comunicato al reo i capi d’imputazione.
Nella seconda metà del Trecento, s’incomincia però ad osservare che la consuetudine è ormai del
tutto contraria: prima si fa l’inquisizione speciale e poi si cita il reo e lo si esamina.
La fonte più importante, in dottrina, è la repetitio di Angelo Ubaldi alla l. Si vacantia dei Tres libri,
tenuta a Perugia nel novembre 1373: sed de consuetudine hoc non servatur, immo servatur
oppositum, quia primo fit inquisitio et postea super ea inquisitus interrogatur et examinatur (n. 197:
ma per consuetudine ciò non si osserva, anzi si osserva l’opposto, perché prima si fa l’inquisizione e
dopo l’inquisito viene interrogato ed esaminato sulla stessa).
E’ un’osservazione che sarà ripresa da molti: ad esempio, da Mariano Sozzini, nel suo commento al
c. Qualiter et quando (n. 664).
Si noti che per il diritto comune (ad es. Bartolo, Sozzini, n. 917) non è necessario che al reo siano
notificati i capi d’imputazione nella citazione (molti statuti, però, impongono questo adempimento).
Il giudice li deve però informare il reo del delitto di cui è inquisito, quando costui si presenta.
Interessante è però su questo punto la notazione di Mariano Sozzini.
Se il giudice intende procedere subito ai tormenti, cosa che egli riprova, perché ritiene che prima si
debba fare di tutto per provare il delitto attraverso testimoni (n. 1067), non informi il reo di niente,
perché potrebbe istruirlo e quindi indurlo a confessare il falso, se non ha commesso il delitto:
adverte tamen, quia quod dixi, quod iudex debet tradere copiam inquisitionis, procedit quando
intenderet procedere per probationes testium. Secus si per tormenta et maxime si delictum esset
personale, quia tunc consulo, imo adiuro omnes officiales, ne aliquo modo propalent delictum et
eius qualitates et circumstantias, ne forte instruant captum, ut tandem metu tormentorum mendaciter
fatetatur delictum (n. 950: Avverti tuttavia che ciò che ho detto, dover il giudice dare copia
dell’inquisizione, vale solo qualora intenda procedere assumendo prove testimoniali. Diversamente
se con tormenti e soprattutto se il deliito fosse contro la persona, perché allora consiglio, anzi
scongiuro tutti gli ufficiali, che in nessun modo rivelino il delitto, le sue qualità e le sue circostanze,
affinché non istruiscano il reo e questo per il timore dei tormenti non confessi alla fine falsamente il
delitto).
Emerge qui una dimensione garantistica del segreto, di cui parlerò dopo.
In quale momento il reo dev’essere informato dei nomi dei testimoni de veritate: prima o dopo la
loro deposizione?
E la risposta non tarda a venire già nel Duceneto: solo dopo che il giudice ha compiuto l’esame dei
testimoni, gli dovranno essere comunicati i nomi e le deposizioni.
Lo dice già l’Ostiense: si teme che i testimoni possano essere corrotti.
E la pratica successiva conferma la saggezza di queste precauzioni: Angelo Ubaldi, nel 1373, non fa
che ripetere e ribadire l’opinione dell’Ostiense (n. 199). Mariano Sozzini, nel commentare il c.
Qualiter et quando, fa lo stesso nel 1436-1442 (n. 664).
Riassumendo: non è più necessario che il giudice accerti autonomamente prima la fama e in seguito
passi a raccogliere indizi contro il diffamato, ma si procede immediatamente ad indagare in segreto
sul delitto e su chi può averlo commesso e solo dopo aver assunto tutte le informazioni possibili
contro qualcuno, tramite testimoni, si spicca l’ordine di cattura nei suoi confronti o li si cita in
giudizio.
L’inquisizione speciale, al momento in cui il reo cade nelle forze della giustizia o si presenta
spontaneamente alla chiamata, è già compiuta.
Per il Cinquecento, abbiamo la testimonianza precisa di Giulio Claro, il quale afferma che quicquid
sit de iure, la pratica è in senso del tutto contrario: il giudice, quando consta del delitto, assume
informazioni in genere ed interroga per prima cosa i testimoni che reputa informati del crimine
(super veritate criminis) per scoprire chi lo abbia commesso. E se non lo sanno, allora li interroga
sulla fama, senza nominare nessuno, ma chiedendo contro chi si diriga la fama. E se risulta che
qualcuno in particolare è diffamato, allora indaga specialiter contro di lui, e secondo la qualità degli
indizi raccolti lo fa catturare o citare. E così, dice Giulio Claro, si può concludere che il giudice
indaga sulla fama e sulla verità del reato nello stesso contesto.
Già Angelo Ubaldi (repetitio alla l. Si vacantia, n. 197) aveva attestato che nella pratica prima si
faceva l’inquisizione (segreta) e dopo, su di essa, si interrogava e si esaminava il reo: quindi il
percorso, l’ordo, suggerito dalla Glossa ordinaria al Liber Extra, non si osserva più.
Lo dice anche Mariano Sozzini (repetitio al c. Qualiter et quando). Sono autorità che già
conosciamo.
Dice ancora Claro che la communis opinio, attestata dal Bianchi, da Antonio da Butrio,
dall’Aretino, esige che i testimoni dell’inquisizione speciale per fare fede contro il reo debbano
essere ascoltati dopo che il reo è stato citato, altrimenti le loro deposizioni non valgono.
Ma la pratica è in senso contrario: sed certe quicquid sit de iure, contrarium servatur de
consuetudine.
Dice a questo proposito un altro criminalista, il padovano Marcantonio Bianchi che stylus et
consuetudo est in civitatibus Lombardiae quod testes sive super generali sive super speciali
inquisitione et etiam super accusatione examinantur sine citatione partis (è stile e consuetudine nelle
città della Lombardia, che i testimoni siano esaminati sia sulla inquisizione generale sia su quella
speciale ed anche sull’accusa senza previa citazione della parte), come già aveva affermato
Alessandro Tartagni in un suo consilium (cons. 41/II = cons. 65/I, ‘Habita super contentis’, n. 9 in
fi.).
Di più: si tratta per alcuni (Casoni, Follerio) dello stylus Italiae.
E’ certo che le testimonianze assunte prima che il reo sia citato non valgono de iure (Bartolo, l. De
tormentis, C. de quaestionibus).
D’altra parte, bisogna anche considerare l’utilità di sentire i testimoni immediatamente.
Si addiviene dunque ad un compromesso: i testimoni dovranno ripetere la testimonianza in giudizio.
Questa pratica attestata da Bartolomeo da Saliceto, nella l. De tormentis, C. de quaestionibus, n. 11:
ideo iudices cauti ante inquisitionem recipiunt informationem testium et in scriptis redigunt ne post
ea dicant contrarium et informatione habita formant inquisitionem et si pena sit corporalis citari
faciunt inquisitum, re non verbo ne fugiat... et postea eum faciunt respondere inquisitioni et si neget
iterato examinant testes citato et in iudicio veniente ut testes videat iurare (perciò i giudici cauti
ricevono le informazioni dai testimoni prima dell’inquisizione e le redigono per iscritto, perché
dopo non dicano il contrario di quanto dichiarato, ed avuta l’informazione, se la pena è corporale,
fanno citare l’inquisito, di fatto e non a voce, perché non si dia alla fuga... e dopo lo fanno
rispondere all’inquisizione e se nega esaminano di nuovo i testimoni, lui citato e presente in
giudizio, affinché veda i testimoni giurare).
Precisa Giulio Claro:
1) le testimonianze assunte dal giudice prima della citazione del reo fanno senz’altro
fede contro i rei contumaci (cioè contro i rei che, pur essendo stati chiamati in giudizio, sono
rimasti assenti), anche se sono state raccolte quando il reo non era presente e non era ancora
stato citato. E’ una consuetudine, una pratica, che merita approvazione ed è perciò definita
ottima: perché se si informasse prima il reo che si sta indagando contro di lui fuggirebbe
oppure corromperebbe i testimoni.
2) Invece, se il reo compare, cioè viene catturato o si presenta, le testimonianze
assunte nella fase istruttoria speciale non hanno valore se non sono ripetute o confermate nel
dibattimento. Ma anche qui, non si deve credere, che l’imputato ed i suoi difensori possano
assistere all’interrogatorio o successivamente prendere visione dei verbali scritti
dell’interrogatorio. De iure, gli avvocati dovrebbero essere presenti (l. Custodias, de publ.
iud.), ma lo stile delle corti è ben diverso e, sottolinea Claro, questo è a tutti notissimo.
In questo caso, l’ordo, il percorso da seguire nel processo è ormai diventato un altro: quello
suggerito ai giudici cauti da Bartolomeo da Saliceto (l. fin. in fi. C. de quest.).
I cauti iudices, dunque, assumono informazioni dai testimoni prima di formare il libello inquisitorio
e le redigono per iscritto, affinché in giudizio non dicano il contrario di quello che hanno dichiarato
nella fase istruttoria. Poi, una volta comparso o catturato il reo, lo interrogano, facendogli
rispondere all’inquisizione. Se questi nega, allora esaminano nuovamente i testimoni, citando il reo
a vederli giurare.
E’ poco, come si vede, se ci si mette dalla parte del reo e degli avvocati: ma questo poco dev’essere
comunque osservato, pena la nullità del processo.
Commetterebbe un gravissimo errore, dice Claro, quel giudice che procedesse alla tortura, o peggio
alla condanna, senza aver fatto prima ripetere ai testi la deposizione ricevuta nell’inquisizione
speciale.
I testimoni non devono essere riascoltati in giudizio, a confermare le loro deposizioni, solo se
l’imputato è contumace, come si è detto.
Di più: i testimoni non devono ripetere le loro dichiarazioni anche se il contumace si presenta.
In certi luoghi (Ducato di Milano, Repubblica di Venezia), infatti, il contumace che intenda
comparire in giudizio può chiedere con una supplica di essere ammesso a difendersi: ma i testimoni
non devono comunque essere riascoltati.
Claro ricorda un caso capitato nel 1559: il podestà di Valenza fu allora aspramente ripreso dal
Senato di Milano per aver citato i testimoni a comparire in giudizio ed in seguito averli condannati,
per non essersi presentati, condanna dichiarata nulla dal Senato.
C’è un momento, si è detto, in cui il reo ha diritto di avere copia degli indizi contro di lui.
Si è visto come la pratica abbia ritardato questo momento.
Vediamo ora con quali modalità deve avvenire in concreto la pubblicazione del processo e cosa si
deve rivelare al reo.
La condizione dell’imputato prima e dopo l’interrogatorio.
Prima di essere interrogato, il reo viene di solito custodito in un carcere segreto e non si permette a
nessuno di parlargli, affinché nessuno possa istruirlo sul modo di occultare il delitto.
Abbiamo la testimonianza di Ippolito Marsigli, Averolda, § Nunc videndum, n. 15: communiter ut
docet experientia iudices tenent reos criminis in carceribus secretis et non permittunt quod ipsi
possint alloqui nec procuratores nec advocatos nec aliquam aliam personam donec non est
completus processus et non est datus terminus ipsis reis ad faciendas eorum defensiones et hoc
faciunt iudices ne ab aliquo instruantur ad occultandum delictum (di solito come insegna
l’esperienza i giudici tengono i rei di un crimine in carceri segrete e non permettono che questi
possano interloquire con procuratori, avvocati o qualche altra persona finché il processo non è
completo e non è stato dato un termine agli stessi imputati per fare le loro difese ed i giudici fanno
così perché i rei non vengano istruiti da qualcuno ad occultare il delitto).
Una funzione più garantistica del carcere segreto è indicata da Mariano Sozzini (Comm. c. Qualiter
et quando: 1436/37-1442): il carcere serve anche per evitare che qualcuno istruisca il reo a sua
insaputa ed a suo danno.
Ne parleremo nel paragrafo sul segreto.
Il reo deve stare detenuto prima dell’interrogatorio il minor tempo possibile.
In alcuni luoghi questo tempo è definito.
Ad esempio, nello Stato Pontificio, non più di 3 giorni, secondo una bolla emanata nel 1549 da
Paolo III (1534-1549), cioè Alessandro Farnese, il papa del Concilio di Trento.
Dopo essere stato interrogato, il reo dev’essere posto ad largam, cioè in una prigione più larga, dove
può liberamente parlare con i suoi avvocati (Ippolito Marsigli).
Anche secondo il Priori, il reo deve restare in prigione:
Quando che il reo sia constituito ricercando così la qualità del delitto et della persona si deve serrar
in prigione sicura, non lasciando che alcuno li parli quando che per il delitto egli meritasse pena
afflittiva del corpo, nel qual caso non si rilassa altrimente con sigurtà.
1. Il giudice non è tenuto a consegnare copia degli indizi raccolti nell’inquisizione generale.
2. Il giudice prudente consegna la copia degli indizi rinvenuti nell’inquisizione speciale solo dopo
aver acquisito tutte le informazioni contro il reo e dopo aver legittimato il processo informativo
attraverso la ripetizione dei testimoni.
3. Come osserva il Cartari, il giudice può negare le difese al convenuto se non ha ancora acquisito
tutte le informazioni contro di lui, perché prima è l’attore che ha il diritto di provare, e quindi la
corte e il fisco, le proprie ragioni e poi il convenuto.
4. Le deposizioni testimoniali devono restare sempre segrete: ai testimoni ed all’imputato. Come
dice Ortensio Cavalcani, nel suo Tractatus de testibus: attestationes debent esse partibus secretae, l.
Multum C. de test. ... pariterque testibus debent esse secretae, ne unus sciat, quod alter deposuit tex.
est in l. Minime de leg., et sunt arcana, quae pectore iudicis debent custodiri, ne revelentur partibus
propter maximum subornationis periculum (le deposizioni devono rimanere segrete alle parti, come
impone la legge Multum del Codice… e parimenti devono restare segrete ai testimoni, affinché uno
non sappia ciò che l’altro ha deposito: testo di riferimento è in questo caso la legge Minime, e sono
arcani che devono essere custoditi nel petto del giudice, affinché non siano rivelati alle parti per il
grandissimo rischi di subornazione).
5. Il giudice non deve comunicare la copia degli indizi prima del costituto.
Attendasi adunque solamente al fatto et alle circostanze, le quali tutte si cavino dal processo et
anco dalle risposte del reo, non dandogli copia de gl’inditij se non doppo constituto et doppo che gli
siano intimate le difese...
6. La copia degli indizi dev’essere invece assolutamente data prima della tortura.
Era già un adempimento richiesto da Alberto Gandino: ma viene continuamente ribadito anche in
seguito da Bartolo, Baldo, Paolo di Castro, Angelo Ubaldi, Angelo Gambiglioni, Ippolito Marsigli.
Lo attesta Bartolomeo Cipolla, che viene consultato due volte su questo punto (cons. 64 e cons. 65,
in quest’ultimo caso dal podestà di Verona), allegando tutte le autorità dottrinali di cui si è detto,
oltre allo stile della corte pretoria di Padova: Ultimo pro hoc etiam adduco quia ita servatur in
pratica et de stillo pallacii communiter in civitate Paduae, a quo stilo non est recedendum (cons. 65,
n. 8: Da ultimo adduco anche in questo senso che così si osserva comunemente nella pratica e nello
stile del palazzo nella città di Padova, dal quale stile non si deve recedere).
E lo stesso si deve osservare anche se il reato è atroce. Così è de iure per il crimine di lesa maestà
(Marsigli).
Così dovrebbe essere nella prassi: ancora il Marsigli ricorda di essersi acquistato grande onore per
aver consigliato in tal senso il Capitano di giustizia di Milano in una causa di falsa moneta. Così è la
prassi della Curia napoletana (Tommaso Grammatico).
Di più: l’obbligo di dare copia degli indizi anche in questi casi può essere argomentato anche dal
diritto municipale milanese: infatti lo statuto autorizza la tortura per molti delitti atroci, senza
derogare ai presupposti (Rolando della Valle, cons. 7, n. 38-42; Egidio Bossi, de indic. et cons. ante
torturam n. 74-77).
Ma nella pratica non sempre accadeva così.
Lo attesta Gianpietro Ferrari, nella sua Pratica edita nel 1587: licet hoc male observent isti moderni
latrunculatores (benché questa disposizione sia male osservata da questi giudici moderni).
Lo attesta Giovanni Antonio Zavattari, nel De fori Mediolanensis praxi, edito nel 1584: tanta est
quandoque eorum libido accusatos persequendi, ut captos quandoque incontinenti torture subiiciant.
Neque removentur ab hoc, tametsi reus prius quam torqueatur petit in voce sibi dari copiam
indiciorum (Tanta è talora la loro voglia di perseguire gli accusati, che talvolta sottopongono
immediatamente a tortura i catturati. E non si astengono dal fare ciò, anche se il reo prima di essere
torturato chieda a voce che si dia copia degli indizi).
Si tratta di un abuso, aggravato dal fatto che a Milano l’obbligo di dare gli indizi prima di procedere
alla tortura è imposto dallo Statuto.
Abusi in tal senso si possono riscontrare anche nella prassi della Terraferma veneta, come vedremo.
Piuttosto: è interessante osservare come un simile procedimento si prestasse ad essere legittimato
dal conferimento del libero ed assoluto arbitrio in procedendum.
Ma i giuristi erano contrari.
Ne ricorda molti Alessandro Tartagni, cons. 65/I: i giudici non possono negare le difese col pretesto
del libero arbitrio, anche se egli, nel caso di specie, ritiene che il giudice abbia fatto bene a negare
copia degli indizi all’imputato, un certo Pietro giurisperito e causidico, a cui, durante il costituto,
era stato ripetutamente chiesto di difendersi. Egli aveva sempre risposto negando gli indizi, ma
senza fornire un alibi, e chi si limita a negare senza fornire un alibi circostanziato nel luogo e nel
tempo (coartata loco et tempore) si rende sospetto. Ma c’è di più: ci si può anche richiamare ad
un’opinione di Innocenzo IV, citata anche da Baldo, secondo cui il giudice può negare al reo
un’eccezione se ritiene vehementer che sia allegata per ritardare la spedizione della causa. Siamo
proprio in questa situazione, dice il Tartagni, per la qualità degli indizi e per la qualità delle
opposizioni del reo, sempre generali e non specifiche.Inoltre, il podestà temeva che i testimoni
sarebbero stati corrotti, poiché Pietro era in loco illo stipatus multis amicis prout saepenumero sunt
causidici... et fortasse in civitate illa de facili consueverunt haberi testes in vitium illius
subornationis praerumpentes et vidi ex processibus et actis publicis in civitate illa saepe agitari
(pieno in quel luogo di molti amici, come spesso lo sono i causidici… e probabilmente in quella
città era consuetudine che vi fossero testimoni macchiati del vizio di subornazione ed ho visto
spesso dai processi e dagli atti pubblici, che accadevano vicende di questo genere).
Quel caso è ben presente alla mente di Egidio Bossi, il quale non esiterà a definire sbagliata quella
decisione: che io tuttavia non osserverei e piuttosto preferirei sbagliare dando la copia che
negandola, perché dal negarla potrebbe seguire che un innocente sarebbe ucciso… e così vedo
quotidianamente praticare, che la copia degli indizi viene data e ai grandi ed ai meno importanti e
ad ogni genere di persone (quod ego tamen non servarem et potius vellem errare dando copiam
quam denegando, quia per negationem posset sequi, ut innocens occideretur... et ita quotidie video
servari, quod copia indiciorum datur et magnis et parvis et omni genere personarum: de indiciis, n.
75). Un conto è non dare i nomi, un conto è non dare la copia: ritorneremo su questo punto
importantissimo.
7. Il giudice non è tenuto a consegnare copia degli indizi d’ufficio: l’obbligo scatta solo dopo la
richiesta (petitio) del reo (Bartolo; Claro; Follerio; Ottaviano Volpelli, cons. 21, dove dice che così
si pratica nel Piceno e a Roma, anche se il reo si trovi già elevato in attesa di ricevere la tortura, e
ancora nel cons.74, dove dice che a Roma tale pratica è canonizzata; Flaminio Cartari, che così
interpreta le bolle di Paolo III e Pio IV).
Altri sostengono che la pubblicazione va fatta d’ufficio se il reo è ‘idiota’ o ‘rusticus’, cioè semplice
e senza cultura (Marsigli).
Altri ancora sostengono che debba avvenire sempre d’ufficio (Novello; Lancillotto Corradi, nel suo
Praetorium et curiale breviarium, edito nel 1563, Prospero Farinaccio q. 39 n. 97; Sebastiano
Guazzini, che nel suo Tractatus ad defensam, edito nel 1639, cita la Bolla di Paolo III confermata da
Pio IV, che il Cartari interpretava in altro modo). Ancora ai tempi di Giovanni Battista Cavallino, a
Milano la parte non viene citata a veder pubblicare il processo (pubblicazione espressa), mentre a
suo avviso sarebbe conveniente farlo: è vero che a Milano questa citazione non si è soliti farla,
poiché non si usa la pubblicazione del processo ad istanza del giudice: consiglio tuttavia ai notai
attuari (= cancellieri) ed agli altri notai che intervengono nelle cose criminali di introdurre questo
stile di pubblicazione del processo offensivo o lo facciano decretare dal giudice: si rilasci una copia
fatta sull’originale alla parte, con il termine di tanti giorni per fare le proprie difese… (verum est,
quod Mediolani hec citatio non consuevit practicari, cum non fiat publicatio processus offensivi
expressa: consulo tamen actuariis et ceteris notariis rerum criminalium, ut introducant hunc stylum
publicationis processus offensivi vel faciant decretari per iudicem: super originali cedatur copia
processus parti, cum termino tot dierum ad faciendum suas defensiones...: Actuarium practicae
criminalis, edito nel 1587).
8. Il reo ha diritto a ricevere soltanto la copia degli indizi contro di lui.
9. Se vi sono più imputati, di cui alcuni presenti ed altri contumaci, de iure i presentati hanno
diritto ad avere gli indizi anche prima della condanna dei contumaci; de consuetudine, invece, si
consegnano solo dopo che i contumaci siano stati condannati (Bossi; Senato 11 agosto 1558 al
podestà di Fontanella e Romanengo). Ottima pratica, secondo Claro, perché così i contumaci non
prendono cognizione degli indizi esistenti contro di loro , non possono corrompere o intimidire i
testimoni; per le stesse ragioni è opportuno comunicare solo gli indizi relativi ai presenti e mai
quelli esistenti contro i contumaci (Claro). Anche il Cavallino approva questa consuetudine.
Flaminio Cartari attesta che essa è applicata anche nello Stato della Chiesa.
10. Nella pratica, se gli imputati sono potenti, si comunicano i nomi dei testimoni separatamente
dalle deposizioni, in modo che l’inquisito possa leggere il contenuto delle dichiarazioni ed i nomi
dei testimoni, ma non possa collegare le une agli altri.
Ciò protegge i testimoni da eventuali ritorsioni.
Questa deroga è stata affermata inizialmente nei soli processi contro gli eretici (Glossa ordinaria al
Liber Sextus di Giovanni d’Andrea; Pietro Paolo Parisio, cons. 2/IV), ma è stata in seguito adottata
anche per gli altri reati (come provano numerose pratiche: quella di Marcantonio Bianchi, ad
esempio).
Claro attesta che in Lombardia è consuetudine non dare i nomi dei testimoni nei processi contro gli
eretici: molto raramente il Senato concede la stessa cosa in altre cause (egli ricorda un caso del
1564, in cui il Senato concesse di non pubblicare i nomi dei testimoni in un processo di omicidio,
propter potentiam adversariorum).
Nello Stato della Chiesa v. Paolo III, bolla In favorem omnium pauperum, dove eccettua solo
l’eresia e gli altri crimini eccettuati.
La segretezza dei testimoni è propria anche del rito dei Dieci: è uno dei punti di maggiore attrito tra
il diritto statutario, il diritto comune e il diritto veneto.
E’ uno dei casi in cui, secondo alcuni giuristi di Terraferma, come il Priori, sarebbe opportuno
estendere il diritto veneto anche al rito di Terraferma.
Uno sguardo agli statuti Negli Statuti di Milano del 1396 è prevista questa sequenza (tra parentesi
confronti con statuti lombsrdi precedenti):
1. consegna copia del libello inquisitorio (Monza p. 1330: consegna copia solo su richiesta e solo
dopo che ha risposto; Bergamo 1353: consegna copia del libello alla parte che lo richiede; Pavia
1393: consegna copia del libello alla parte solo se lo richiede e comunque solo dopo aver risposto)
2. termine ‘ad deliberandum’ di 1 giorno (Bergamo 1353; nulla Pavia 1393)
3. interrogatorio dell’imputato
4. copia dell’interrogatorio, su richiesta (Bergamo 1353; nulla Pavia 1393)
5. nomi dei testimoni, su richiesta (Bergamo 1353; nulla Pavia 1393)
6. interrogatorio dei testimoni
7. termine a difesa di 15 gg. prima di procedere alla tortura (Bergamo 1353: termine di 10 gg.;
nulla Pavia 1393).
8. tortura
Ancor più ‘garantististici’ sono gli Statuti di Cremona 1339 e 1388:
1. Tortura: devono precedere legittimi indizi, devono essere scritti negli atti prima della tortura,
deve essere data copia degli indizi all’imputato prima della tortura, termine a difesa di 5 giorni.
2. Il giudice è tenuto a dare copia dell’inquisizione, dell’interrogatorio e dei nomi dei testimoni;
dopo le deposizioni dei testimoni è tenuto anche a dare copia delle stesse.
Confessione. La confessione resta alla base del sistema probatorio moderno.
I giuristi ed i pratici, in questo periodo, ne approfondiscono i presupposti di validità: solo una
confessione spontanea, giudiziale e non revocata fa infatti piena prova.
L’imputato dev’essere innanzitutto maggiore d’età, dev’essere consapevole degli effetti della
confessione e deve naturalmente essere fisicamente in grado di dichiarare la propria volontà.
La confessione può essere spontanea od estorta tramite tortura.
In entrambi i casi, la confessione fa piena prova del delitto solo se è ‘giudiziale’: dev’essere cioè
resa in giudizio, davanti ad un giudice competente (non davanti ad un notaio) e nel luogo pubblico
deputato (non in privato).
La confessione extra-giudiziale costituisce però un sufficiente indizio ad torturam.
Importantissimo è il requisito della ‘spontaneità’ della confessione.
Significa che la confessione doveva essere resa fuori da qualsiasi forma di costringimento fisico o
morale.
Si tratta di un fattore su cui giuristi e pratici insistono molto.
Evidentemente gli abusi nella pratica erano numerosi.
Ecco dunque ricorrere con frequenza la raccomandazione di evitare pratiche diaboliche.
L’interrogatorio dell’imputato non doveva infatti mai essere condotto in modo suggestivo, cioè
suggerendo subdolamente le risposte al reo.
Le domande dovevano essere generali e non specifiche: si consigliava di partire da fatti generali e
lontani da quelli criminosi per avvicinarsi gradualmente a quelli centrali della causa.
Era ammissibile che, nel fare ciò, il giudice si avvalesse di astuzie e di abilità, ma non di inganni e
di falsità.
Questo valeva anche per i terzi, eventualmente assoldati dal giudice: assolutamente riprovati erano
stratagemmi, come quelli narrati da Mariano Sozzini, consistenti nel mandare qualcuno in carcere
ad istruire il reo inconsapevole, raccontandogli fatti che, al momento opportuno, il malcapitato
avrebbe potuto inconsciamente rivelare nell’interrogatorio o sotto tortura.
Così come era vietato illudere il reo con false promesse d’impunità.
Anche una confessione ‘spontanea’ poteva dunque essere attaccata.
La prassi, dice Giulio Claro, è che il reo, dopo aver confessato, si ponga in carcere e gli si prefigga
un termine per presentare le sue difese. Et hanc practicam servat totum mundum (E questa pratica la
segue tutto il mondo), come dice Bartolomeo da Saliceto e ribadisce Bossi.
Si potevano allegare i seguenti vizi:
1. Confessione stragiudiziale: a meno che la parte offesa non l’avesse espressamente accettata:
ma anche in questo caso, secondo Claro, nella pratica tali confessioni non pregiudicano, pur
facendo indizio a tortura.
2. Confessione resa in giudizio, ma davanti ad un giudice incompetente oppure non nell’esercizio
delle proprie funzioni.
3. Confessione estorta con promessa d’impunità. Claro incomincia col narrare un caso deciso in
Senato nel 1558: una certa Caterina Candolia aveva confessato davanti al podestà di Vogona di aver
commesso infanticidio, persuasa dalle sue blandizie ma anche dalle sue minacce; avendo provato
ciò davanti al pretore di Intra, a cui il senato aveva delegato il caso, venne sottoposta a tortura e,
persistendo nella negativa, alla fine fu assolta. Claro è consapevole che è crebrior recepta sententia
che il giudice possa, nella ricerca della verità, simulare qualcosa, come nell’esempio biblico del
giudizio di Salomone. Ma tale opinione non gli è mai piaciuta: nessun uomo buono, tanto meno il
vero giudice, che dev’essere veritatis amantissimus, deve ricorrere alla frode e al mendacio.
L’esempio di Salomone non è pertinente: lì si trattò di fingere, non di mentire. Claro consiglia
quindi ai giudici di astenersi da tali promesse e di studiare di accertare la verità con altri mezzi più
giusti. Se tuttavia tale confessione c’è stata? Claro dice che in proposito Giovanni Nicoletti da
Imola, in un consiglio, ritenne che non si potesse condannare il reo confesso e che tale opinione fu
giudicata ‘comune’ da alcuni; altri invece ritenevano ‘comune’ l’opinione di Cino da Pistoia,
secondo cui il reo potesse essere condannato, nonostante la promessa d’impunità. A Claro
l’opinione di Giovanni da Imola sembra senz’altro più equa, soprattutto nel caso in cui la promessa
provenga da un soggetto come il principe in grado di mantenerla, concedendo la grazia. In tal caso,
egli propenderebbe per l’assoluzione, poiché non è onesto violare la fede data e Bossi attesta di aver
sempre visto praticare così: et revera apud nos ita semper observatum fuit et quotidie observatur.
Viceversa, se la promessa sia stata fatta da soggetto che non poteva farla, imputi a sé stesso il reo di
averci creduto: comunque, è meglio non condannare il reo ad una pena ordinaria, in questa
evenienza, in mancanza di altri indizi.
4. Mancanza del corpo del delitto. Il reo non dev’essere condannato in base alla sola sua
confessione, se altrimenti non risulti il corpo del delitto. Benché Giovanni d’Andrea abbia
assicurato che di fatto si osserva il contrario, tale opinione è errata, come sostiene anche Ippolito
Marsigli ed altri dottori ritengono che il giudice sia ugualmente obbligato ad indagare sulla verità
del delitto. Bisogna però distinguere: se il delitto è uno di quelli che si perfezionano solo animo,
come l’eresia, la confessione fa testo. Se invece si tratta di un delitto ‘di fatto’, cioè materiale, allora
occorre ulteriormente distinguere: se il reo confessa genericamente di aver commesso qualche
delitto, ad esempio uno o più omicidi o furti senza indicare quali persone avrebbe ucciso o derubato,
certe non debet ex tali confessione condemnari (certamente non deve essere condannato sulla base
di una simile confessione). Non c’è nessun dubbio tra i dottori, inquesto caso, come riconosce anche
Egidio Bossi. Se invece il reo confessa di aver commesso qualche delitto specificando la vittima
oppure la cosa rubata, bisogna vedere se il delitto è di fatto transeunte, e quindi non lascia delle
vestigia, come l’adulterio e il furto, ed allora se c’è la querela della parte offesa, ciò è sufficiente per
la condanna e così si pratica, come afferma Bossi. Altrimenti la sola confessione non sarebbe
sufficiente ed i giudici dovrebbero assumere informazioni, come dice il Gambiglioni (e perciò i
giudici, quando i ladri confessano davanti a loro mari e monti e di aver commesso molti furti in vari
luoghi devono inviare nei nunzi a raccogliere informazioni, altrimenti spesso sarebbero condannati
degli innocenti (et ideo iudices, quando fures confitentur coram eis maria et montes et plura furta se
alibi commisisse, debent mittere nuncios ad habendam informationem, alias saepe innocentes
condemnarentur) e di fatto attesta che avviene Egidio Bossi. Anche il Senato ha deciso così più
volte. E per questo motivo un dottore si trovò in serio pericolo di vita, per aver consigliato di
impiccare dei ladri confessi (in suo favore emise un pare Alessandro Tartagni). Veniamo ai delitti di
fatto permanente, come l’omicidio, l’incendio e simili: qui non è dubbio che la corte deve accertare
prima l’esistenza del delitto. E quindi i cauti giudici inq uesta evenienza fanno esaminare i cadaveri
di coloro di cui si sospetta che possano essere stati uccisi, eventualmente facendoli disseppellire ed
analizzare per controllare se vi siano tracce di ferite. Così avviene di solito anche nella pratica, pur
se non mancano eccezioni, come qul Nicolò Torelli di Prato, che fece impiccare tre diffamati di
assassinio confessi di aver ucciso tre ignoti e di averli buttai in mare, pur non essendo stati trovati i
loro cadaveri, caso riferito da molti. Bastano però delle tracce, anche se non si trova il cadavere,
come sostiene Bartolomeo Chasseneux, secondo cui il Senato, al tempo in cui egli era vicario di
giustizia a Milano, condannò a morte un massaro che aveva confessato di aver ucciso il proprio
padrone e di averlo buttato nel lago di Como, perché era stato trovato del sangue nel luogo del
delitto, indicato dallo stesso massaro.
5. Confessione fatta da un minore senza l’assistenza del curatore. E’ una difesa molto fragile,
perché nella pratica, come attestano molti autori, non si richiede l’assistenza di un curatore.
6. Processo irregolare (iuris ordine non servato). In questo caso, bisogna distinguere. Se la
confessione è spontanea, secondo la dottrina di Innocenzo IV (c. Qualiter et quando2), che è
communis opinio, il reo può essere condannato anche se il processo è irregolare. E’ vero che
Angelo Ubaldi suggerì, in un suo consilium, come via più sicura, di rifare il giudizio, per evitare
guai durante il giudizio di sindacato, come in effetti capitò di fatto di passare ad un giudice
perugino, a causa dello stesso Angelo. E certo se un giudice così fasse, non commetterebbe un
errore. Ciò nonostante, la comune opinione è talmente canonizzata nei giudizi e nelle scuole, che un
giudice in iudicando può seguirla intrepido, senza temere danni nel sindacato. Non ha invece nessun
valore la confessione estorta con i tormenti, se non precedevano legittimi indizi, quand’anche il reo
l’abbia ratificata: né è sufficiente che questi sopravvengano. Lo diceva già la Glossa ed è communis
opinio (gl. unica, l. Quaestionis habendae, ff. de quaestionibus).
7. Confessione qualificata. Il reo potrebbe anche eccepire che la sua confessione non fu absoluta
et pura, ma cum aliqua qualitate adiecta, ad esempio: omicidio per legittima difesa. Ma in tal caso,
il giudice ha facoltà di considerare confessato l’omicidio semplice, se l’imputato non prova
l’esistenza dei presupposti della legittima difesa, secondo una teoria di Bartolo, che è communis
opinio: e perciò non recedere nella pratica dall’opinione di Bartolo che senza dubbio è la più
approvata e dal comune consenso dei dottori e dalla consuetudine (et ideo non recedas in practica ab
opinione Bartoli quae procul dubio et communi doctorum consensu et consuetudine est magis
approbata). Potrebbe però tale confessione produrre almeno una mitigazione della pena? E’ una
opinione che è stata sostenuta per la prima volta da Niccolò dei Tedeschi e che Bossi ed altri hanno
definito ‘comune’. Anche nella pratica è osservata, come dimostra il Grammatico per la prassi
napoletana. Di certo, si può anche procedere ad applicare la pena ordinaria, se vi sono altri indizi
contro il reo, al di là della sua confessione. Attenzione che se però il reo prima confessa il delitto e
poi, non subito ma dopo qualche tempo, dichiari di averlo fatto a sua difesa, può essere
tranquillamente condannato a morte, se non prova l’esistenza della legittima difesa. E’ più prudente
quindi che il reo neghi di aver commesso l’omicidio, aggiungendo la riserva: e se l’ho commesso,
l’ho commesso per mia difesa.
8. Confessione spontanea revocata. Il reo può revocare la confessione spontaneamente fatta? Sì,
ma in tal caso deve dire che essa fu erronea e deve provare l’errore (e non sarebbe sufficiente
sottoporsi a tortura per provare l’errore, come dice Bossi).
Quanto alla confessione estorta con la tortura, essa non era valida se l’inquisito non l’avesse
‘ratificata’ in giudizio 24 ore dopo la cessazione dei tormenti, ad bancum iuris, cioè al tribunale, e
non in carcere.
La ratifica permetteva alla confessione estorta di recuperare due qualità di cui altrimenti la
confessione rischiava di essere priva: la spontaneità e la giudizialità (i tormenti erano inflitti in un
luogo diverso da quello del giudizio).
Al reo dovevano comunque essere concesse le difese, malgrado la ratifica.
Poteva avvenire che, anziché confermare la confessione resa sotto tortura, l’imputato la revocasse.
Per togliere efficacia alla confessione, l’imputato doveva però provare che essa era erronea: in
sostanza, doveva dimostrare con testimoni la sua innocenza, a meno che la revoca non fosse
intervenuta incontinenti, cioè immediatamente dopo la confessione (requisito sul quale si discuteva:
a seconda degli autori, il reo poteva revocare la confessione prima che essa fosse trascritta oppure
prima di essere nuovamente interrogato dal giudice).
In caso contrario, il giudice poteva ripetere la tortura: la precedente confessione era considerata
sufficiente indizio per sottoporre di nuovo il reo ai tormenti.
A questo punto:
1) se egli perseverava nella negativa, cioè continuava a negare, allora teoricamente non poteva
essere posto una terza volta a tortura ed avrebbe raggiunto lo scopo di purgare tutti gli indizi
esistenti contro di lui ed avrebbe dovuto essere assolto.
Nella prassi di Terraferma, poteva essere torturato una terza volta:
Se poi tirato giù il reo revocasse la confessione già fatta su la corda può di nuovo per detta
confessione, qual fa nuovo inditio alla tortura, esser torturato, et persistendo nella negativa non si
deve torturare la terza quando che però gl’inditij della prima confessione fossero pienamente
purgati per la pena della seconda tortura, et quando non fossero purgati di che si sta nell’arbitrio del
giudice si può reiterare sino al terzo collegio cioè la terza volta sino al qual termine et non più si
procede.
Nella prassi si faceva spesso riserva degli indizi già raccolti, in modo da poter ugualmente
condannare il reo ad una pena straordinaria.
Claro ad esempio dice che apud nos, cioè nel Ducato di Milano, talvolta anche dopo una grave
tortura e malgrado la perseveranza del reo nella negativa, con indizi valde urgentia il Senato suole
condannare i rei ad una pena straordinaria (trireme, a tempo o anche perpetua, se il reo è valde
famosus, cioè molto diffamato).
Claro non approva la prassi di altri grandi tribunali.
Ad esempio, il Parlamento di Parigi fa torturare i rei convinti e benché, sotto tortura, neghino, li
condanna egualmente a morte; il Sacro Regio Consiglio napoletano fa la stessa cosa quando intende
irrogare una pena straordinaria.
Ma sono pratiche contrarie al diritto e all’equità, a giudizio di Claro.
Può capitare anche che il reo venga assolto, ma rebus sic stantibus: con riserva quindi di riaprire il
caso, al sopraggiungere di nuovi indizi.
Quando il reo confessasse la prima volta, et tirato giù negasse, et poi di nuovo tirato su confessasse,
et ritornasse doppo levato dalla pena a negare, che così continuando nella negativa alcuni sentono
che si debba rilassare pro nunc, con tutto che per l’opinione d’alcuni, se il delitto fosse grave et
atroce et il reo fosse famoso et gravemente inditiato, si procederebbe a qualche pena estraordinaria,
non ostante la detta negativa o revocatione della medesima sua confessione, ma se il reo
constantemente non volesse confessare per i tormenti datigli secondo la qualità et quantità del
delitto et che havesse ad plenum purgati gl’inditij che fossero contro di lui si deve rimettere nelle
prigioni nelle quali star si debba anco per dieci giorni per vedere se sopravenissero nuovi inditij, et
poi rilassarlo pro nunc nel modo che si è detto.
2) se invece il reo confessava e poi nuovamente ritrattava. il giudice avrebbe potuto sottoporlo a
tortura una terza, ed ultima, volta.
Tortura. Prima di sottoporre qualcuno alla tortura, il giudice deve verificare la sussistenza di varie
condizioni.
Un preciso elenco di tali presupposti lo si trova, ad esempio, in Giulio Claro, fedele testimone della
prassi lombarda del Cinquecento.
1. Prima di tutto, occorre aver accertato, quando sia possibile, l’esistenza del corpo del reato (ut
constet de delicto). Nella pratica, tuttavia, si usa frequentemente torturare i sospettati di furto senza
ulteriori indagini preliminari. Questo è scorretto, secondo Claro: i giudici giusti non pongono
nessuno alla tortura, se prima non appaia che il delitto è stato commesso. Egli si meraviglia quindi
che il Senato nel 1555 abbia ordinato di condurre ai tormenti un certo Simone, ebreo, accusato di
aver violentato una fanciulla cristiana e di averla uccisa per coprire il misfatto, sebbene il cadavere
non fosse stato trovato.
2. Deve trattarsi di un delitto punito con una pena corporale: in tal caso, si può procedere a
tortura anche se il delitto non è grave.
3. Si deve valutare se il delitto non possa essere provato in altro modo. La tortura, infatti, è un
mezzo sussidiario, da impiegare quando non si hanno a disposizione altre prove. Si dovrà ricorrere
ad essa, consiglia Claro, più facilmente nei delitti occulti che in quelli palesi: ad esempio, il
veneficio, il falso, l’adulterio. Alcuni giudici sono soliti torturare il reo anche dopo che il delitto è
pienamente provato anche attraverso testimoni de visu, per ottenere la confessione. E’ una prassi
che alcuni autori ritengono diffusa in tutta Italia e adottata soprattutto da giudici ed assessori poco
eruditi. La verità è, soggiunge Claro, che in questo Ducato i rei convinti, confessi o anche già
condannati sono interrogati sotto tortura solo super sociis et super aliis criminibus, cioè perché
confessino il nome dei complici oppure altri delitti, ma non il delitto principale. Quella pratica non è
dunque osservata.
4. Occorrono poi sufficienti indizi a tortura, secondo la valutazione discrezionale del giudice.
Il giudice dev’essere molto circospetto: perché se mettesse a tortura qualcuno senza indizi potrebbe
essere gravemente punito nel giudizio di sindacato. Tali indizi devono non solo esistere, ma essere
anche legittimamente provati. Inoltre, come si è detto, devono essere sufficienti alla tortura.
Neanche su ordine regio si potrebbe sottoporre uno a tortura senza indizi: così rispose Matteo
D’Afflitto al re Federico e così rispose Tommaso Grammatico al cardinale Colonna. Quanti indizi
ci vogliono? Alcuni dicono anche uno solo. Bartolo distingue: se l’indizio è prossimo, ne basta uno
solo, se è remoto ne occorrono di più. Si dice che questa sia la communis opinio. Quicquid sit de
iure, de consuetudine basta anche un solo indizio. Questa è certamente la prassi del Ducato di
Milano dove si osserva che anche per un solo indizio, prossimo o remoto, si autorizza la tortura.
Benché la materia sia discrezionale, i giuristi non rinunciano a discutere il valore degli indizi ai fini
delle varie fasi processuali.
A questo scopo si compongono anche dei vasti trattati.
Riportiamo come esempio la tavola degli indizi predisposta da Giulio Claro.
Fama.
La fama, se non è accompagnata da altri indizi (adminicula), non è da sola indizio sufficiente a
tortura.
E’ communis opinio.
Claro è d’accordo: la communis opinio in questo caso è tutior et verior, cioè più sicura e più vera de
iure ed attesta da parte sua di averla sempre seguita, come del resto i giudici giusti.
La fama in materia criminale non ha di per sé valore probatorio, neanche come prova semipiena.
E benché per la tortura possa anche essere sufficiente meno di una prova sempiena, la fama è
senz’altro un indizio valde remotum dal delitto e perciò fallace, come insegna quotidianamente
l’esperienza.
Perciò, è più prudente non sottoporre a tortura l’imputato, in mancanza di ulteriori indizi.
Unus testis (un solo testimone).
Un testimone è senza dubbio sufficiente per poter procedere all’inquisizione speciale; per la
communis opinio è anche sufficiente per la tortura.
Deve però trattarsi di un testimone integro, cioè nei cui confronti non si possa opporre alcuna
eccezione.
Alcuni attestano che secondo l’opinione di molti ci si potrebbe avvalere anche di testimoni inidonei:
ed invero, aggiunge Claro, molti giudici formano un’inquisizione o procedono a tortura anche sulla
base del detto di un testimone inabile.
Questi giudici però male faciunt, quia saepe vexant innocentes (agiscono male, perché spesso
opprimono degli innocenti).
In ogni caso, è molto fallace e pericoloso ammettere testimoni che riferiscano di aver ‘sentito’
qualcuno commettere un delitto, riconoscendone la voce.
Molti sanno perfino imitare la voce di qualcuno talmente bene da ingannare perfino i suoi familiari
o i suoi domestici.
Dichiarazione del complice.
De iure, il reo non può essere interrogato intorno ai suoi complici se non si tratta di crimini
eccettuati, cioè crimini atroci.
E’ vero che in molti luoghi è uso interrogare sempre il reo sui suoi complici.
Nel Ducato di Milano, tuttavia, ciò non è consentito che in alcuni casi (ladri, frodatori di sale e di
biade, assassini prezzolati, rapinatori di strada), mentre per il resto si osserva il diritto comune.
Vi è tuttavia un caso in cui il reo immancabilmente s’interroga e si tortura per conoscere il nome del
complice ed è quando costui sia il mandante del delitto.
Parlando in base al diritto comune, il detto del socius criminis è indizio sufficiente per indagare
contro la persona da questi indicata.
Non è invece indizio sufficiente alla trasmissione dell’inquisizione, se il crimine non fa parte della
categoria degli excepta, e neanche alla tortura: in quest’ultimo caso, non può valere neanche contro
i sospettai di crimini eccettuati, se con esso non concorre qualche altro indizio.
Quindi, ad esempio, il detto del mandatario non fa assolutamente indizio a tortura da solo contro il
presunto mandante.
Un’altra regola: il detto di due complici non fa mai piena prova contro qualcuno, così da renderlo
convinto del crimine, ma serve solo per sottoporlo a tortura, come è attestato nella prassi dei
Parlamenti di Bordeaux e di Parigi.
In questo caso, le dichiarazioni dei due complici fanno indizio anche se sono singolari, come
conferma anche Bossi.
E si noti, ancora, dice Claro, che per poter valere come indizio il detto del complice dev’essere
confermato con giuramento, come afferma Ippolito Marsigli.
Di più: occorre che la dichiarazione sia confermata sotto i tormenti.
La testimonianza di un complice, in quanto infamato, non può valere senza tortura.
Dichiarazione del ferito.
Claro propone una distinzione.
Se il ferito guarisce, le sue parole varranno come denuncia contro la persona indicata valida ad
aprire l’inquisizone, ma non a trasmetterla o a citare il reo.
C’è chi oratica il contrario: ma costoro, come dice Angelo Gambiglioni, sono da qualificarsi
imperiti.
Viceversa, se il ferito muore, pur avendo perseverato fino alla morte nell’indicare qualcuno come
colpevole, non si potrebbe assolutamente de iure utilizzare tale asserzione come un indizio ad
inquirendum.
Tuttavia, quicquid sit de iure, per consuetudine si osserva che tale dichiarazione sia valido indizio
ad inquirendum: è communis stylus et observantia Italiae.
Fuga dal carcere.
Per la communis opinio, chi fugge dal carcere si considera reo confesso e convinto del delitto che
gli viene attribuito.
Quindi, de iuris rigore, potrebbe tranquillamente essere condannato alla pena ordinaria.
La prassi del senato è tuttavia contraria: la fuga vale come indizio solo contro i contumaci, mentre
per gli altri la fuga del carcerato fa solo indizio a perché vengano sottoposti al più alto grado di
tortura, come si osserva anche a Napoli.
E se i carcerati tentano di fuggire, ma non riescono nell’intento, l’attentato non viene considerato di
solito dal Senato un indizio a tortura. Ma la prassi, sul punto, è oscillante, ammette Claro.
Inimicizia capitale.
Una gravissimia inimicizia può servire per assumere informazioni contro qualcuno e per formare e
trasmettere l’inquisizione e per procedere a cattura.
Non vale assolutamente come indizio a tortura, con tutto che si tratti di inimicizia capitale.
E’ communis opinio, suffragata da molti autori (Tommaso Grammatico a proposito della prassi
napoletana, Egidio Bossi).
Claro attesta tuttavia di aver visto utilizzare come indizio a tortura l’inimicizia capitale, in un caso
in cui il delitto era clandestino e non vi erano altri imputati.
Confessione stragiudiziale.
Finché non sia revocata come erronea, fa sicuramente indizio a tortura e lo stesso è a dirsi di una
confessione giudiziale invalida, perché fatta davanti ad un giudice incompetente oppure perché fatta
davanti al giudice come privato, cioè non in tribunale.
Confessione sotto tortura.
Anche la confessione estorta sotto tortura si considera indizio valido per condurre una seconda volta
il reo ai tormenti, qualora non perseveri nella confessione, ma la ritratti.
Ma non si può assolutamente ripetere la tortura più di due volte: sono pertanto da riprovare quei
giudici che sottopongono i rei ai tormenti giorno e notte, come testimonia Angelo Bonfranceschi
nelle sue note di commento al De maleficiis di Angelo Gambiglioni, affinché perseverino nella
confessione estorta.
La terza volta il reo che non ratifica la confessione deve essere assolto rebus sic stantibus.
Minacce.
Fanno indizio ad inquirendum contro chi proferisce le minacce ed anche ad torturam, se si tratta di
un uomo potente e di mala fama.
Pace.
La stipulazione di una concordia permette al giudice di aprire un’inquisizione speciale contro
l’offensore.
Per quanto concerne la tortura, invece, de iure si deve distinguere a seconda che per il delitto si
possa transigere o meno.
Se dunque il crimine è pubblico ed è punito con la pena capitale, la pace non fa indizio a tortura,
perché qui la pace è ammessa, negli altri sì.
Ma questa, avverte Claro, è materia soggetta a prassi diverse.
Apud nos, cioè nella prassi milanese, lo strumento di pace fa senz’altro piena prova contro chi ha
fatto la pace nella veste di offensore: è perciò consigliabile che la pace venga stipulata da un terzo a
nome di tutti gli interessati, senza nominarli; anche se li nominasse, comunque, potrebbe non valere
come prova piena contro il nominato , com’è stato effettivamente deciso a Napoli.
Mendacio, variatio, titubatio del reo.
Le opinioni dei dottori non sono univoche: per alcuni tali elementi sono sufficienti a tortura, per
altri no, se non si accompagnano ad altri indizi.
Per Claro, la materia è pertanto demandata alla prudenza del giudice, il quale dovrà valutare se la
menzogna oppure le dichiarazioni contraddittorie siano frutto di dimenticanza, se vertano sui punti
principali del processo, se via sia stata un immediato ripensamento e quindi una correzione della
precedente dichiarazione, e così via.
Certamente, dice Claro, la sola incostanza, la sola titubanza nel rispondere o la trepidazione del reo
non sonoindizi sufficienti a tortura, ma da essi si ricava solo una qualche presunzione contro di lui.
Molti infatti sono per natura timidi e quando sono addotti alla presenza del giudice si turbano al
punto che, anche se innocentissimi, non sanno quel che dicono e costoro non si devono torturare.
Uscita da una casa con un unico ingresso, spada insanguinata,
faccia pallida, uomo morto all’interno della casa.
E’ il celebre cumulo di indizi che per alcuni rappresenta il caso paradigmatico di indizi indubitati
sufficienti alla condanna.
Eppure per alcuni tale congiunzione di indizi è solo sufficiente alla tortura.
Inoltre, nella pratica, dice Claro, di aver sempre visto che la cosa sia lasciata all’arbitrio del giudice:
infatti, talvolta ho visto dei rei contro i quali pendevano gravissimi indizi di questo tipo essere
torturati gravemente, altre volte anche li ho visti condannare, non tuttavia alla pena ordinaria del
delitto, ma soltanto ad una straordinaria (nam aliquando vidi reos, contra quos extabant huiusmodi
gravissima indicia, graviter torqueri, aliquando etiam vidi eos condemnari non tamen pena ordinaria
delicti, sed tantum extraordinaria).
Res furtiva.
Se la cosa rubata viene trovata presso qualcuno, tale inventio fa indizio a tortura contro di lui.
Occorre però che costui sia di mala fama, altrimenti se la sua reputazione fosse buona, il fatto non
deporrebbe contro di lui.
La stessa cosa vale per chi è solito comprare e vendere cose mobili di quel tipo e presso di lui la
cosa rubata fosse tenuta in vista: ciò non è sufficiente per far calare i sospetti contro di lui.
Si possono torturare anche i testimoni.
In questo caso la tortura serve a sanare l’irregolarità di certe testimonianze, di per sé inaffidabili.
I testi inabili, ad esempio gli infami, oppure il complice (socius criminis), i testimoni varii, cioè che
si contraddicono, fanno fede solo se torturati.
Se il teste è persona vile e ignobile, le opinioni sono controverse: meglio è, per Claro, rimettersi
all’arbitrio del giudice, che deciderà secondo la qualità della persona e dei fatti.
Lo stesso si deve fare con i testimoni che sono stati presenti al delitto, quando dicono di non aver
visto nessuno.
E’ invece rimesso all’arbitrio del giudice di decidere se si debbano torturare tutti o solo alcuni.
5. Bisogna infine considerare se la persona da torturare non abbia qualche privilegio di
immunità:
a. Dottori. De iure non possono essere torturati, anche se Gandino dice che ai suoi tempi, de
consuetudine, è il contrario. Nondimeno, osserva Claro, questa consuetudine de iure non vale niente
e quindi non dovrebbe essere seguita e così comunemente si ritiene. Nel Ducato di Milano i dottori
non sono sicuramente sottoposti ai tormenti.
b. Persone poste in dignità. Certamente non possono essere torturate: ad esempio, nel 1558 il Senato
ordinò di non torturare Don Geronimo Pecorari, un feudatario.
c. Milites. Non possono essere torturati: ma deve trattarsi di quelli che sono chiamati equites
(cavalieri) o capitanei o militi dottori. I militi privati quotidie torquentur.
d. Nobili. De iure, non si potrebbero torturare. Ma questa è una materia totalmente lasciata alla
consuetudine. Nel Ducato di Milano e in Francia, i nobili si possono torturare. In Spagna sembra
invece, stando ad alcuni autori, che si tenda a rispettare il privilegio.
e. Decurioni (consiglieri) cittadini. De iure, sono esenti pure loro dalla tortura: ma de consuetudine
già ai tempi di Gandino era il contrario.
f. Minori di 14 anni. De iure non possono essere torturati, ma soltanto intimiditi, eventualmente
facendo uso di bastonate. Nella pratica lombarda non si usa ricorrere alla tortura: ma nel 1552 il
Senato ordinò di far elevare sulla corda un certo Martino Magone, benché avesse solo 14 anni ed
avesse solo percosso con delle pietre, senza che fosse seguita la morte e vi fosse perfino la
remissione della querela da parte della vittima.
g. Vecchi decrepiti. E’ una categoria esente de iure. Ma anche qui, il Senato ammette delle
eccezioni (caso del 1550). Se la persona è anziana, ma non decrepita, può certamente essere
torturata: così è stato deciso dal Senato nel 1547 (un robusto sessantenne) e nel 1561 (si trattava di
una persona di 65 anni).
h. Donna incinta. Certo non si può torturare: anzi, è consuetudine che si aspettino 40 giorni dopo il
parto, come ha deciso anche il Senato nel 1559. Nel 1557 il Senato ha anche concesso l’esenzione
ad una donna che allattava il bambino.
i. Chierici. I chierici si possono torturare, in ogni caso meno severamente dei laici. Devono però
essere diffamati e sospetti. Sicché, ad esempio, un testimone de visu non sarebbe sufficiente, se non
constasse anche la diffamazione: ma questo, osserva Claro, non si pratica a Milano.
I gradi della tortura Claro afferma che i gradi della tortura, se si segue una classificazione proposta da Baldo, che
Ippolito Marsigli ritiene comunemente recepita, sono 5:
1. Minacce di porre a tortura.
2. Conduzione al luogo dei tormenti.
3. Spogliazione e legatura del paziente.
4. Elevazione sulla fune (in eculeo, che indica in questo periodo lo strumento più in voga, cioè la
corda, mentre anticamente l’eculeo era una sorta di macchinario di legno con cui si slogavano le
giunture del torturando).
5. Squassi.
La pratica del Senato lombardo, tuttavia, a detta di Claro, non conosce che 3 gradi di tortura:
1. Territio. Si usa atterrire il reo, minacciandolo di ricorrere alla tortura oppure conducendolo sul
luogo dei tormenti, arrivando fino a spogliarlo e legarlo.
2. Il secondo grado si ha quando il reo viene elevato sulla corda o fune ed interrogato per uno spazio
di tempo considerevole.
3. Il terzo grado è lo squasso. Nella prassi lombarda, si tratta in concreto di un tratto di corda (ictus
funis). Se però il Senato ha ordinato che l’inquisito sia bene tortus o acriter tortus, si usano dare due
tratti di corda.
Da notare che la tortura deve essere ordinata dal Senato: il giudice inferiore non vi può ricorrere di
sua iniziativa.
Non solo: anche lo strumento, i gradi e la durata erano fissati dal supremo tribunale lombardo.
Con le parole di Lorenzo Priori, che qui assume come modello Giulio Claro:
Il primo grado adunque è quando il reo viene spaurito dal giudice minacciandolo di torturare, nel
qual grado anco si comprende il terrore ch’egli sente mentre si conduce alla corda, si spoglia et si
liga, quando però la ligatura non sia atroce.
Il secondo grado è quando si pone il reo a i tormenti overo che s’interroga ne i tormenti et quando
si leva, et che per buon spatio si tenga suspeso.
Il terzo è quando si tortura et squassa sufficientemente, cioè la saccata et due squassi, et all’hora è
detto quod bene et acriter torqueatur, la qual saccata, essendo il reo levato a mezzo della tortura,
opera che li bracci et ossi si disnodino et si fanno habili a ricevere la tortura.
I mezzi di tortura praticati in Lombardia erano la corda, cioè una fune a cui l’imputato doveva
essere appesso cone entrambe le braccia legate dietro alla schiena, che era il mezzo ordinario e poi,
in via sussidiaria, quando l’imputato per ragioni fisiche non avrebbe potuto reggere la corda, il
cànape ed il fuoco ai piedi.
Come dice Cavanna: “se la confessione, come dicono i doctores, è la regina probationum in vista
della condanna, la corda, si aggiunge nei tribunali lombardi, è la regina tormentorum per i suoi
vantaggi tecnici”.
Il canape era una legatura stretta che si faceva intorno ad un braccio, prima il destro, mentre il
sinistro veniva appeso alla fune.
Il fuoco ai piedi consisteva nel cospargere le estremità di lardo, immobilizzandole poi in un
apposito strumento di legno detto zocco, sotto cui si accendeva il fuoco, separato dalle piante
dell’imputato da una tavoletta. Per scottare le piante si levava appunto questa tavoletta. Il tormento
era tanto disumano, che altrove era stato abolito, mentre a Milano forse erano ancora in uso nel
Settecento.
Per questo periodo sono rammentati anche i sibili, cioè legnetti che si stringevano contro le dita
dell’imputato.
Si conviene havere in consideratione l’età, la fortezza, se è giovane o troppo vecchio, la sanità, la
dispositione et le forze del patiente, et qualità del delitto, inclinando più tosto in dubbio al poco
tormento che al molto ad arbitrio sempre del giudice prudente, perché se il giudice ingiustamente
torturasse il reo et che morisse, quando però lo facesse o perche fosse corrotto da danari o mosso
per inimicizia, si condannarebbe alla morte, et se per l’imperitia almeno ad una pena estraordinaria
come si dirà al suo luogo.
Si deve avvertire che non si può dar corda ad alcuno che havesse il petto intiero, o che fosse rotto o
stroppiato ne i bracci, o sottoposto a qualche diffetto, il che si fa vedere diligentemente dal perito o
maestro della giustitia, qual poi con giuramento è in obligo di deponere la verità del diffetto asserito
dal reo, stante la qual relatione il giudice subito et all’hora deve essercitare il tormento del fuoco
che è dolore intenso et tanto grande, che mentre tiene il patiente li piedi al fuoco non può
confessare, ma grida continuamente fin tanto che se gl’interpone la tolella [tavoletta], la qual
interposta egli non sente più dolore.
La tortura, in concreto, dipende dal prudente arbitrio del giudice, che procederà secondo gli indizi.
La tortura avviene in segreto, senza la presenza degli avvocati difensori (e non dovrebbero
intervenire neanche gli avvocati fiscali).
Priori consiglia ai giudici molta prudenza:
Ma avvertisca il giudice di esser cauto nell’interrogare il reo alla tortura, con poche parole et sopra
gl’inditij solamente che siano prossimi al fatto, havendo le interrogationi pronte, spedite et generali,
cioè: con chi fosti sabbato o tal giorno, in tal’hora, et con che arme.
Procedendo sempre con tali interrogationi generali, di modo che la specificatione sempre nasca dal
reo patiente et non è male haver dette interrogationi generali scritte in un sommario più ristretto sia
possibile, perché non si deve con parole superflue che fanno poco al caso tenere in tormenti il reo,
qual non è lecito mai persuadere a confessare il delitto contra di sé, né anco minacciarlo di maggiori
tormenti del solito né meno deve interrogarlo di vita, costumi, conversatione, se non fosse ladro
publico, insidiatore, monetari o per altri casi eccetti, ne i quali casi si può interrogare in genere
senza fare alcuna specificatione se non doppo et in quanto che in processo ne apparesse et ne fosse
fatta mentione.
Degli effetti della confessione ottenuta con la tortura, si è detto sopra.
Confessare o negare? Strategie processuali Il commentario al c. Qualiter et quando di Mariano Sozzini, celeberrimo giurista senese di vasta
cultura, vissuto nel Quattrocento, è uno dei primi esempi di sistemazione di una materia ampia e
confusa, come dice lo stesso autore nell'epilogo, sistemazione di poco successiva a quella, ben più
fortunata, di Angelo Gambiglioni.
Fu scritto tra il 1436-37 ed il 1442.
Divenne così rilevante in dottrina, che nemmeno Felino Sandei, cioè uno dei più abili ed influenti
sistematori della materia penalistica, osò arare un campo, a suo dire, già così profondamente
coltivato dal predecessore che tanto ammirava.
Si tratta di un’opera singolare: un commentario costruito principalmente come un trattato di
questioni.
L'autore mette a frutto una vasta conoscenza.
Tra i canonisti sono regolarmente citati Goffredo da Trani, Innocenzo IV, Enrico da Susa, Giovanni
d'Andrea, Paolo Liazari, Pietro d'Ancarano, Antonio da Budrio, Giovanni da Imola, Domenico da S.
Gimignano, e naturalmente il suo maestro, Niccolò dei Tedeschi.
E' folta anche la schiera dei civilisti le cui opere sono sfruttate: oltre a Bartolo e Baldo, e prima
ancora Alberto Gandino e Tommaso da Piperata, spiccano i nomi di Bartolomeo da Saliceto - il cui
contributo penalistico è intensamente valorizzato -, Angelo Ubaldi (ad esempio, nella definizione
delle specie d'inquisizione o nel rapporto tra accusa e inquisizione), Angelo Gambiglioni d’Arezzo -
del cui freschissimo trattato criminalistico il Sozzini dà pronta notizia ed ampio ragguaglio -, Nello
da S. Gimignano, e personaggi del mondo giuridico senese come Federico Petrucci.
Quali consigli dà il Sozzini a chi abbia problemi con la giustizia?
Presentarsi, confessare, negare?
Se uno è colpevole di un delitto punito con pena corporale, è meglio che non si presenti.
Se uno è catturato o è tanto folle da presentarsi, per salvarsi gli è anche moralmente lecito mentire,
benché la questione possa essere discussa.
E’ opportuno che confessi solo quando la pena gli può essere convertita in pecuniaria.
In ogni caso, non creda l’inquisito alle promesse dell’ufficiale: faciunt enim largas et amplas
promissiones ut eruant veritatem, quam postea minime observant (fanno infatti larghe ed ampie
promesse allo scopo di estorcere la verità, che poi non mantengono per niente).
Se l’inquisito è innocente, quale strategia processuale è meglio tenere?
Se il delitto è uno di quelli che può essere provato anche con mezzi diversi dalla parola
dell’accusato, ci si può presentare: purché il giudice non sia inetto, il pericolo dell’ingiustizia è
tollerabile e comunque vale la pena di correre il rischio piuttosto che lasciar sussistere l’infamia (a
meno che non sia colpevole di altri delitti).
Se il delitto non è di quelli che si prestano ad una verifica basata su altri elementi probatori, non ci
si deve presentare: nullo modo comparet, quamvis innocens sit, si modo scit quid intendat officialis
(non si presenti in nessun caso, benché sia innocente, se solo è a conoscenza di ciò che l’ufficiale
vuole sapere da lui).
E se l’inquisito viene catturato o si presenta non confessi, se appena gli è possibile, anche se ciò è
più facile a dirsi che a farsi.
Se confessa sotto tortura, revochi la confessione, perché altrimenti, fra l’altro, come dice Niccolò
dei Tedeschi, peccherebbe, perché è come se volesse uccidere se stesso.
In questi crimini che non possono essere facilmente provati con altri mezzi (reprobati), i giudici
devono essere molto diligenti e valutare attentamente la confessione: se essa sia stata prodotta per il
timore dei tormenti oppure perché è effettivamente il frutto della verità.
Soprattutto, il giudice deve accertarsi se l’inquisito abbia parlato con qualcuno, perché può essere
stato istruito a sua insaputa.
Il Sozzini, a questo proposito, ricorda un caso in cui quattro cittadini, per eliminare un rivale
politico, gli avevano mandano un tale a raccontargli di un certo delitto, del quale venne poi
diffamato.
Di modo che, quando fu torturato, confessò.
Fortunatamente, il giudice, in sede di ratifica della confessione, interrogandolo di nuovo, scoprì che
aveva parlato con estranei.
Diciamo la verità, dice il Sozzini, chi è tanto forte da poter resistere ai tormenti?
Nemo fere, si vera fateri volumus.
Stiano dunque bene attenti i giudici, se non vogliono dannarsi l’anima, abusando dei mezzi
processuali.
1. Se il delitto per il quale si è inquisiti merita una pena pecuniaria, è meglio presentarsi in
giudizio e confessare. Si possono anche trarre dei vantaggi nel confessare, in tali casi.
2. Se il reo ha confessato, è necessario un supplemento istruttorio: ai testi a difesa il giudice
opporrà nuovi testi d’accusa per corroborare e sostenere la confessione.
3. Se il reo ha negato, la pratica comune ricorre alla tortura. Secondo lo ius commune è bene
distinguere. Qualora il delitto sia tale che non è possibile addivenire a tortura, il giudice deve
procedere all’esame dei testimoni e, se questi non provano chiaramente il fatto, assolvere il reo.
4. Se il delitto è tale per cui è possibile adibire i tormenti, opinione del Sozzini è che il giudice
ante omnia in quantum potest elaboret alio modo elicere a reis veritatem, quam per tormenta (prima
di tutto per quanto è possibile si sforzi di ricavare dai rei la verità in altro modo che non per mezzo
dei tormenti), chiamando a deporre testimoni. Non enim arbitror a principio inchoandum esse a
tortura, sed quantum potest fieri elaborandum est ut aliter habeatur veritas si fieri potest (infatti non
ritengo che si debba incominciare dalla tortura, ma cheper quanto possibile ci si debba adoperare
affinché la verità risulti in altro modo). L’inquisito in questo caso ha la facoltà di replicare, una
volta pubblicati i verbali delle deposizioni.
Se la ricerca della verità per testimoni fallisce, si può adoperare il mezzo della tortura, sempre che
sussistano le condizioni richieste (indizi, crimini, persone).
La confessione va ottenuta con molta cautela.
Preoccupazione del Sozzini è che non venga in alcun modo inquinata la verità.
Perciò il giudice deve guardarsi dall’istruire il reo.
Le domande devono essere generali e se l’inquisito confessa tutto senza contraddirsi, e la
confessione viene ratificata, si può presumere che essa rappresenti il frutto della verità.
Talora si può invece presumere che l’inquisito confessi per paura dei tormenti.
Questo dilemma è un punto nodale del processo, secondo l'esperienza del giurista senese: ecco
dunque, con dovizia di particolari, una carrellata di casi vissuti in prima persona.
Non è sufficiente che il reo confessi di aver ucciso Tizio.
Il giudice cauto deve interrogarlo anche sull’arma, chiedere dove l’abbia presa, dove abbia colpito.
Il giudice avrà agito diligentemente in primo luogo se, avuta notizia dell’omicidio, avrà inviato
degli ufficiali periti e discreti ad esaminare le ferite e le circostanze.
In secondo luogo se, una volta catturato il reo, si assicurerà che egli non parli con nessuno e che sia
custodito in luogo segreto, per evitare che sia istruito sul delitto.
E questo accade assai spesso con i ladri, che confessano delitti mai commessi.
Questo perché, dice il Sozzini, “non credo che neanche uno su mille riesca a resistere”.
E tuttavia, non si può credere loro facilmente, ma occorre un supplemento d’indagini: ad esempio,
sulla sorte delle cose rubate.
Sono utili alcune esemplificazioni, che rendono evidente il peso della questione.
I
Il Sozzini narra di quel ladro che a Siena usava incastrare le persone sulle quali si appuntavano i
sospetti dei furti da lui commessi, con il seguente stratagemma. Udito che qualcuno era inquisito del
furto, si appostava nel luogo di tortura cercando di captare la confessione del malcapitato. Una volta
che costui avesse confessato che la refurtiva si trovava in un certo luogo, tosto ve la portava, in
modo che il giudice la ritrovasse. Fu scoperto grazie alla sagacia di un senatore, che riuscì a salvare
dalla forca un innocente. Il giudice, commenta il Sozzini, deve quindi essere, all’occasione, abile, e
mescolare le parole dolci con le mordaci, per scoprire la verità. La vittoria della verità fu celebrata
davanti a tutto il popolo in modo spettacolare e simbolico. Il senatore fece vestire all’innocente una
veste lugubre con il laccio al collo ed al colpevole dei panni candidi ed una corona d’ulivo. Dopo la
narrazione dei fatti, toccò all'innocente vestire l’abito bianco e ritornare a casa propria cinto della
corona d’alloro, tra plausi e suoni di strumenti, mentre il colpevole venne avviato al patibolo. Ecco
una sentenza memorabile - esclama il Sozzini - che insegna come gli ufficiali debbano essere
prudenti.
II
Un altro esempio. Il Sozzini racconta che nei mesi passati un novellus Capitano di giustizia lo
aveva consultato in merito ad un furto di denaro verificatosi in un ospizio e di come egli gli avesse
suggerito di non accontentarsi della confessione dell’imputato, ma di interrogarlo anche sull’utilizzo
dei soldi. Non era sufficiente che il reo affermasse di aver speso il denaro: doveva anche rivelare
dove aveva nascosto il denaro sottratto e, nel caso positivo, doveva essere ispezionato il luogo e
presa visione dei registri dell'albergo. Era del resto una convinzione di Baldo, che occorresse dare
valore probatorio alla confessione dei ladri con una certa prudenza, maxime in his que de facili non
possunt reprobari seu probari aliter quam per tormenta (soprattutto trattandosi di fatti che non si
possono contestare o provare facilmente in altro modo che attraverso i tormenti).
III
Un’altra storia vera accaduta a Firenze. Un capitano di giustizia di nobile schiatta, ma non
fiorentino, per vendicarsi della condanna inflitta a suo tempo da un fiorentino ad un membro della
sua famiglia, quando era venuto a reggere la sua città, dopo accurata ricerca, punta gli occhi su uno
dei rampolli della famiglia nemica, che conduceva vita dissoluta, e lo inquisisce per furto. Riesce a
farlo confessare con uno stratagemma. Promette al vero ladro l’impunità, in cambio del suo aiuto. fa
quindi imprigionare il giovane e lo mette in una cella vicino al ladro, facendo in modo che da un
piccolo buco il giovane possa sentire l'altro lamentarsi di tutti i suoi delitti. La notte seguente il
Capitano mette sotto tortura di nuovo il ladro per fargli confessare il nome dei complici. Come
d’accordo, questi nomina il giovane. Il Capitano cura allora che il ladro ritorni in prigione, ma in
una cella diversa, per evitare sospetti. Il giorno dopo, il giovane, interrogato, nega. Di notte, posto
sotto tortura, confessa. Entrambi vengono condannati a morte. Il ladro viene a sapere della sorte del
giovane tramite il confessore, che per consolarlo gli racconta della disperazione del suo complice,
che continua a professarsi innocente, mentre lui almeno è colpevole. Il confessore induce il ladro a
rivelare il segreto. Il giovane viene salvato in extremis da un nunzio che ferma l’esecuzione appena
in tempo. Il Capitano non viene punito: ciò che il Sozzini vivamente deplora.
Indizi per la condanna La posizione di Gandino e di altri giuristi, sfavorevoli ad assegnare valore di piena prova agli indizi,
ai fini della condanna, si mantiene anche in età moderna.
Secondo l’interpretazione corrente della l. Sciant cuncti, C. de probationibus (C. 4.20.25), per poter
pronunciare una sentenza di condanna penale, de iure communi, occorrono indizi indubitati e più
chiari della luce (indicia ad probationem indubitata et luce clarioribus expedita).
Sono “indizi indubitati”:
a) gli indizi espressamente ritenuti tali dalle leggi romane;
b) gli indizi che siano ritenuti tali dal giudice. Devono essere più d’uno e devono rendere certo il
giudice della commissione del fatto. L’apprezzamento è demandato al suo arbitrio.
In entrambi i casi, comunque, la pena da irrogarsi dev’essere straordinaria o arbitraria.
L’idea è riproposta da Angelo Gambiglioni nel ‘400, secolo nel quale si devono pure registrare
prese di posizioni contrarie: ad esempio Niccolò dei Tedeschi, che però oscilla in altri luoghi,
oppure Filippo Decio, la cui adesione al convincimento del giudice è più sicura: in
praesumptionibus indubitatis dicendum quod si adeo sunt violentae, quod aliter iudex credere non
possit, quod tunc poena ordinaria imponatur: secus si non essent omnino indubitatae et quod totum
arbitrio iudicis remittitur (riguardo alle presunzioni indubitate si deve dire che se sono così violente,
che il giudice non possa credere altrimenti, allora si deve irrogare la pena ordinaria: diversamente se
non fossero del tutto indubitate e tutto è rimesso all’arbitrio del giudice).
Baldo invece manifesta scetticismo nei confronti di una condanna emanata sulla sola base di indizi
lasciati alla libera valutazione del giudice, in mancanza di una confessione estorta sotto tortura
Anche Ippolito Marsigli era contrario all’irrogazione di una pena corporale in seguito ad indizi
indubitati.
Nel ‘500 sostengono la tesi della irrogabilità solo di una pena pecuniaria o tutt’al più di una pena
corporale leggera, in Francia Jean Imbert, in Lombardia Egidio Bossi.
La Constitutio Criminalis Carolina del 1532 e l’Ordonnance di Villers-Cotterets del 1539, cioè le
due fonti principesche in cui per la prima volta in Europa, rispettivamente in Germania e in Francia,
il processo penale inquisitorio viene integralmente regolato in ogni sua fase, sono su questa stessa
linea.
Lo stesso sarà disposto nell’Ordonnance Criminelle del 1670, che sostituì la precedente ordinanza e
rappresentò il punto di riferimento normativo del processo penale in Francia fino al Code Merlin ed
al Code d’instruction criminelle napoleonico del 1808.
Ludovico Carerio, con riguardo ai delitti occulti e di difficile prova, è favorevole all’applicazione
della pena ordinaria anche su indizi indubitati.
Il Senato di Milano, come attesta Claro, pur non applicando la pena di morte né la pena ordinaria,
irrogava una pena straordinaria corporale: trireme, fustigazione, tratti di corda.
Una soluzione che Farinaccio considerava tipica dei tribunali centrali e pericolosa per le corti
inferiori (meglio la pena pecuniaria, o tutt’al più l’esilio o un tratto di corda).
Nel ‘500 spuntano voci nuove.
Mentre la regola tradizionale è ribadita dal Menochio, che dà una definizione degli indizi indubitati
fondandola sul solo convincimento del giudice, facendo discendere da essi una pena pecuniaria o
corporale non ordinaria, Francisco Sarmiento de Mendoza, nell’opera Selectae interpretationes,
riprova la prassi di condannare a pena arbitraria su indizi dopo l’esperimento vano della tortura e
sostiene la possibilità di comminare la pena ordinaria anche sulla sola base di presunzioni: o il
giudice è certo oppure rimane nel dubbio.
C’è poi il dissenso polemico di alcuni umanisti: Francesco Duareno afferma con decisione la
possibilità di una condanna a morte sulla base di congetture, ed anche nel suo allievo, Ugo Donello,
si trova uno spunto contro la concezione quantitativa della prova: aut actor probat aut non probat.
Nel 1635, tuttavia, il principe dei criminalisti sassoni, Benedict Carpzov, nella sua monumentale
Practica nova rerum criminalium, proclama con forza l’idea che “il convincimento soggettivo, fosse
anche pieno, non costituisce prova”.
Ma ormai le premesse ‘filosofiche’ da cui partivano glossatori e commentatori erano state messe in
discussione, nel Seicento.
Una nuova nozione di ‘probabilità’ viene messa a punto da alcuni filosofi.
La probabilità non è più, come insegnava Aristotele, legata alla communis opinio: probabile non è
più “ciò che tutti sanno come per lo più accada o non accada, sia o non sia” (Analitici primi, II, 27,
70 a 3; Retorica, I, II, 1357 a 34), ma è l’esito di una verifica basata sul calcolo statistico.
Nel contempo, perde terreno l’idea che, nel campo della ricostruzione di un fatto, sia possibile
addivenire ad una certezza assoluta, come nelle dimostrazioni geometrice e scientifiche.
Nel campo dei fatti ci si deve accontentare di una certezza di grado inferiore, una certezza
meramente probabile o morale, basata sulla probabilità.
Sono riflessioni svolte da filosofi come Antoine Arnauld e Pierre Nicole, gli autori della Logica di
Port-Royal (1662); da Pierre Bayle, nel suo Dictionnaire historique et critique (1696-1697).
I filosofi rivalutano la ‘probabilità’. Scrive Pascal in uno dei suoi Pensieri (n. 754-843): Non è
questo [la natura] il paese della verità: essa erra sconosciuta in mezzo agli uomini”.
Questo nuovo concetto viene approfondito dai giusnaturalisti (Grozio, Pufendorf, Domat), da
Locke, Bentham e, alla metà del Settecento, da Jean-Martin de Prades, nella voce Certitude
dell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, diretta da Denis
Diderot e Jean-Baptiste Le Rond D’Alembert (Paris 1752); da Antonio Genovesi negli Elementa
artis logico-criticae (1752) e nella Diceosina, o sia filosofia del giusto e dell’onesto (1766).
Lo fanno proprio gli illuministi.
Le tradizionali prove ‘dirette’ dei fatti storici perdono il loro connotato di assoluta certezza e
vengono ridimensionate.
Si ritiene erronea la contrapposizione tra la testimonianza, la confessione e le presunzioni.
Anche la testimonianza e la confessione non garantiscono risultati certi, se per certezza s’intende la
certezza matematica (Domat).
La confessione perde il suo primato di prova oggettiva, di per sé evidente.
L’ago della bilancia si sposta verso la soggettività del giudice.
Scrive Filangieri, ne La scienza della legislazione, III, I, XIV: “La certezza non è altro che lo stato
d’animo sicuro della verità di una proposizione”.
E Francesco Maria Pagano, nella Teoria delle prove, afferma: “Qualsiasi prova è sempre indiziaria”.
La verità non si considera più raggiungibile per gradi e ad ogni grado non deve più corrispondere
una frazione di pena.
Michel Foucault, nel libro Sorvegliare e punire, ha descritto efficacemente questo modo di pensare:
“Un grado raggiunto nella dimostrazione formava già un grado di colpevolezza... non si poteva
essere innocentemente oggetto di un sospetto. Il sospetto implicava, nello stesso tempo, da parte del
giudice un elemento di dimostrazione, da parte del prevenuto il segno di una certa colpevolezza e da
parte della punizione una forma limitata di pena” (p. 46).
La sentenza potrà dunque essere solo di assoluzione o di condanna.
Nel contempo, molti degli indizi ai quali il comune consenso aveva attribuito valore univoco nel
medioevo e nell’età moderna (la fuga, la contumacia, la pace tra le parti, il silenzio del reo, la
confessione estorta con i tormenti) perdono questo connotato.
In quest’ottica, anche la tortura viene ad essere considerata un mezzo fallace, inidoneo a condurre
alla verità ‘assoluta’, che non esiste, ed inutile dal punto di vista del giudizio, poiché il giudice può
emettere una sentenza di condanna anche sulla base di indizi indubitati.
La moderna nozione di ‘certezza morale’ penetrò anche tra i pratici.
Se ne servì, ad esempio, Tommaso Briganti, uno dei più grandi criminalisti del Regno di Napoli,
autore di una fortunata Pratica criminale (1747), per interpretare la nota Prammatica che nel 1621
aveva autorizzato i giudici ad emettere una sentenza di condanna alla pena ordinaria, qualora si
trattasse di delitti atroci ed esemplari, anche sulla scorta di indizi indubitati, superando così le note
controversie dottrinali.
Ed aveva dato la seguente definizione di indizi indubitati: quelli “che provati legittimamente
inducono la mente del giudice a credere fermamente il delitto esser commesso dall’inquisito,
quietando il suo intelletto in questa ferma credenza”.
Secondo il Briganti, allo scopo di interpretare il testo della Prammatica occorreva distinguere tra
certezza metafisica, fisica e morale.
Nel dare la definizione di certezza morale il Briganti s’ispirava agli scritti di Pierre Bayle.
Dicesi certezza metafisica quella che nasce da principî geometrici... Questa non ammette possibilità
in contrario.
L’evidenza fisica è quella che nasce da’ sensi, per mezzo de’ quali veggiamo quelle cose
ch’esistono; ma pure può alquanto dubitarsi, se i sensi c’ingannano.
L’evidenza morale dicesi quella che nasce da dimostrazioni morali, produce si una piena certezza
ed una intiera persuasione, ma non fa vedere, che il contrario sia impossibile; come impossibile fa
vedersi il contrario, a riguardo di quelle cose, che sono state dimostrate matematicamente.
La vera natura dunque di questa certezza morale non consiste, come nelle dimostrazioni geometrice
in un punto indivisibile; ma soffre il più ed il meno, e si promena da una grande probabilità sino ad
una grandissima probabilità: questi sono i suoi limiti, e per conseguenza include certezza evidente,
ma non esclude la possibilità in contrario... Questo appunto è l’indizio indubitato, che richiede la
prammatica, cioè una ferma credenza morale.
Era dunque assurdo, come avevano fatto altri autori (la critica era rivolta a Scipione Rovito), esigere
una certezza più forte, impossibile da raggiungere nel campo della ricostruzione dei fatti.
A sua volta, Cesare Beccaria trarrà ispirazione dal Briganti nel dare la definizione di certezza
morale, nel paragrafo XIV sugli indizi, incluso nella III edizione del Dei delitti e delle pene (marzo
1765; la prima edizione è del 1762): “rigorosamente la certezza morale non è che una probabilità,
ma probabilità tale che è chiamata certezza, perché ogni uomo di buon senso vi consente
necessariamente”.
Un altro filone di pensiero assai critico nei confronti della tradizionale nozione di ‘verità’ è quello
che fa capo ad Anthon Matthes, il già citato umanista tedesco vissuto in Olanda, autore di un’opera
di commento ai libri ‘terribili’ del Digesto, dedicati al diritto penale (D. 47-48), il De criminibus
(1644), per più versi innovativa: contiene infatti una vera e propria parte generale del diritto penale,
parallela a quella che nel contempo andavano elaborando i giusnaturalisti, ed avanza molte
interpretazioni controcorrente del diritto romano.
Per questi motivi, l’opera riscuoterà un’immensa fortuna tra i criminalisti del Settecento.
Il Matthes nel Seicento, come già nel Cinquecento l’udinese Tiberio Deciani ed il francese Pierre
Ayrault, fa parte di quegli umanisti fortemente critici nei confronti delle strutture inquisitorie del
processo penale, di cui auspicano il superamento anche ad altri riguardi.
Per quanto concerne la prova legale, celebre è la conclusione del discorso del Matthes: o il crimine
è provato con argomenti o non è provato.
Se è provato, non vi è alcuna ragione per cui non possa infliggersi la pena ordinaria.
Se non è provato, non vi è spazio alcuno per la punizione, ma o ci si riserva di compiere ulteriori
indagini nei confronti del reo oppure egli deve essere assotlo con sentenza dal giudice (aut crimen
probatum est argumentis, aut probatum non est.
Si probatum est, nulla caussa est, cur ordinaria poena infligi non debeat. Si probatum non est, nullus
puniendi locus relinquitur, sed aut in reum amplius inquirendum, aut sententiam iudicis
absolvendus est : De criminibus, II, XVI, 6).
La sentenza lapidaria del Matthes sarà ripresa un secolo più tardi da un giurista post-beccariano di
alto valore, il valtellinese, Tommaso Nani, nel De indiciis (1781).
La tortura sarà limitata ed infine abolita nel corso del Settecento in tutti i grandi Stati d’Europa, in
tempi diversi.
In Prussia Federico II la limita nel 1740 e l’abroga del tutto nel 1754.
Nel Regno di Napoli viene limitata nel 1738 con una prammatica di Carlo di Borbone ispirata dal
ministro Bernardo Tanucci, ed abolita integralmente nel 1789.
In Russia ne auspica la soppressione Caterina II nelle celebri Istruzioni del 1767: l’abolizione sarà
però realizzata solo nel 1801, dallo zar Alessandro III.
In Austria, la prevede ancora la Constitutio Criminalis Theresiana promulgata nel 1768 da Maria
Teresa, dove addirittura, con teutonica precisione, delle tavole con figure mostrano al giudice ed ai
suoi servitori come procedere nei confronti del ‘paziente’.
L’abolizione giungerà ben presto nel 1776, ispirata da Joseph von Sonnenfels, che aveva dato alla
luce nello stesso anno il suo fortunato opuscolo Sull’abolizione della tortura.
In Lombardia, la tortura cessò di esistere solo più tardi, nel 1784, in virtù di un decreto di Giuseppe
II.
In Toscana fu il fratello Pietro Leopoldo ad abolirla, nella Riforma del processo criminale del 1786
(detta anche ‘Leopoldina’).
In Francia fu abolita da Luigi XVI nel 1780 e 1788 e definitivamente l’Assemblea costituente nel
1789.
Nell’Ottocento il principio del libero convincimento del giudice sarà riconosciuto espressamente in
Francia dalla legge 16-29 settembre 1791, dal Codice dei delitti e delle pene di Merlin del 3
brumaio anno IV (1795) e dal Code d’instruction criminelle del 1808.
In tutti e tre i casi, esso è una direttiva rivolta ai giurati. Gli stessi modelli ispirano il Codice di
procedura penale del Regno italico del 1807, opera di Giandomenico Romagnosi, che non introduce
nel Regno d’Italia la giuria ma conferma il principio del libero convincimento del giudice.
La Norma interinale per la Lombardia austriaca (1786), § 204, e la Riforma della legislazione
criminale toscana (c.d. Leopoldina, 1786), § CX, erano rimaste invece fedeli al sistema della prova
legale: gli indizi potevano condurre solo all’irrogazione di una pena straordinaria e non alla pena
ordinaria: (nella Norma interinale fanno eccezione i crimini non capitali).
Il codice penale austriaco del 1803, invece, ammette la possibilità di condannare alla pena ordinaria
anche sulla base di indizi, ma fissa dei limiti molto rigidi al valore probatorio degli indizi.
Il Regolamento di procedura penale austriaco del 1853, infine, metterà in pratica la teoria della
prova legale negativa: alle prove legali deve aggiungersi il libero convincimento del giudice, e
viceversa.
La discussione sulla certezza morale proseguirà comunque per tutto l’Ottocento.
E’ interessante notare come, in questo periodo, l’idea della predeterminazione del valore di
determinati mezzi di prova non sia del tutto abbandonata, pur combinandosi con la nuova teoria
della certezza morale.
Così può avvenire che, accanto a sistemi probatori come quello adottato in Francia a partire dal
1791, in cui per addivenire alla condanna è necessaria e sufficiente l’intima convinzione del
giudice, ne esistano altri, in cui si richiede che il giudice, per condannare, non solo sia convinto
della colpevoleza dell’imputato ma disponga anche di una prova ‘legale’.
E’ la cosiddetta teoria della prova legale ‘negativa’, accolta dal Regolamento di procedura penale
austriaco del 1853, la cui elaborazione fu opera anche di taluni esponenti del pensiero illuministico
(Gaetano Filangieri).
Unus testis nullus testis
La regola è concordemente accolta dai più autorevoli filosofi e giuristi del Sei-Settecento, anche se
con motivazioni differenti: Pufendorf (De iure naturae et gentium del 1672, I.5, cap. 13 § 9),
Montesquieu (De l’esprit des lois, XII.3), Beccaria (Dei delitti e delle pene del 1764, § 13),
Filangieri (La scienza della legislazione del 1780-1788, I.3, cap. 15), Francesco Mario Pagano
(Considerazioni sul processo criminale, Teoria delle prove).
E’ invece fortemente criticata in Inghilterra, dove la ‘common law’ non la riconosce (William
Blackstone, Commentaries on the Laws of England e Jeremy Bentham, Traité des preuves
judiciaires).
Se la regola unus testis, nullus testis è ritenuta espressione di ragione dai giusnaturalisti e dagli
illuministi, la giustificazione della sua razionalità è però diversa a seconda degli autori.
Pufendorf ritiene che sarebbe rischioso affidarsi ad un solo testimone e che solo il confronto delle
testimonianze permette di scoprire eventuali falsità.
Montesquieu si basa invece su un ragionamento meramente quantitativo e non sostanziale: il detto
di un solo testimone equivale al detto dell’accusato e quindi occorre una seconda testimonianza per
dirimere il contrasto.
E’ una motivazione accolta ancora da Cesare Beccaria: “più d’un testimonio è necessario, perchè
fintanto che uno asserisce e l’altro nega niente v’è di certo e prevale il diritto che ciascuno ha
d’essere creduto innocente”.
Gaetano Filangieri non è d’accordo con Montesquieu: l’affermazione del testimone non equivale a
quella dell’accusato, perché il primo non ha alcun interesse ad affermare mentre il secondo ha un
interesse a negare.
La ragione della necessità di disporre di almeno due testimoni concordi è dunque un’altra: è molto
difficile che due persone, separatamente interrogate dicano la stessa cosa, se non perché entrambi
dicono la verità.
Due soli testimoni non sono però sufficienti alla condanna se il giudice non è anche convinto della
colpevolezza del reo e viceversa, il libero convincimento del giudice non è sufficiente se non c’è
anche laprova legale.
Lo stesso pensiero esprimerà, nel medesimo ambiente napoletano, Francesco Mario Pagano, nelle
sue Considerazioni sul processo criminale.
Ma nel Settecento e nel primo Ottocento vi sono anche voci contrarie: William Blackstone nei
Commentaries on the Laws of England attesta che la regola ‘unus testis nullus testis’ non si applica
nelle corti di common law, mentre Jeremy Bentham nel Traité des preuves judiciaries (la fortunata
traduzione in francese pubblicata a Parigi nel 1823 dall’editore Etienne Dumont) critica sia la
condanna automatica sulla base di due testimonianze concordi, sia l’assoluzione in presenza di un
solo testimone a carico.
Nel Settecento la regola sarà accolta dalla Norma interinale per la Lombardia austriaca del 1786 (§
182), come già dal Regolamento del processo civile per la Lombardia austriaca del 1785 (§ 151), e
poco più avanti, sarà confermata dal codice penale austriaco del 1803.
Sentenza e appello Se il giudice dispone di una prova piena, procede alla condanna alla pena edittale.
Questa sentenza, per il diritto comune, è inappellabile.
Ma negli altri casi, de iure l’appello è concesso.
Molti statuti prevedono dei gradi di appello.
Le consuetudini e gli statuti lombardi, tuttavia, non ammettono appello nel penale.
A Milano, le consuetudini non richiedono nemmeno la forma scritta per la sentenza.
Le Nuove Costituzioni milanesi del 1541 ribadiscono la regola fondamentale da osservarsi per tutto
il Dominio: A sententia lata in causa criminaliter mota et criminaliter decisa... non possit per
quempiam appelari... nec de nullitate dici... nec alio juris remedio uti, sed executioni mittatur (Che
contro una sentenza emessa in una causa mossa in via criminale e decisa in via criminale… nessuno
possa esperire l’appello … o la querela di nullità … né servirsi di altro rimedio, ma che la stessa sia
mandata ad esecuzione).
Si può tuttavia fare ricorso al Principe o al Senato perché riesamini il processo.
La prassi della Terraferma veneta, invece, è diversa, vigendo per tutta l’età moderna un sofisticato
sistema di appelli (a meno che ad assumere il processo non fosse il Consiglio dei Dieci).
Anche il consilium sapientis è rigorosamente proibito nel penale nelle città del dominio lombardo:
lo riaffermano le stesse Nuove Costituzioni (In causis criminalibus consilium sapientis non detur),
ma il divieto era già previsto dagli statuti viscontei del Trecento, prima con riguardo ai soli malefici
puniti con pena di sangue (Statuti di Milano del 1330) e successivamente per tutti (decreto del
1393).
L’arbitrium del giudice nel processo inquisitorio moderno Una delle sistemazioni più interessanti delle varie opinioni dottrinali sulla discrezionalità del
giudice nel processo penale è quella di Bartolomeo Cipolla (nella repetitio alla l. Si fugitivi, C. de
servis fugitivis), che scrive nella seconda metà del Quattrocento.
Secondo il giurista veronese, la pena stabilita dalla legge o dallo statuto può essere unica o
alternativa.
La pena unica può essere certa e determinata.
In tal caso il giudice non può imporre una pena differente da quella che ha giurato di applicare
(Baldo): può però dispensare da essa (ad esempio per ragioni di età, se il condannato è un fanciullo
o un vecchio può non applicare la pena dell’amputazione della mano) o interpretarla (come quando
lo statuto stabilisce che qui occidit occidatur: chi uccide, sia ucciso).
In questo modo si deve limitare l’opinione di Baldo, secondo cui quando la pena è determinata il
giudice non ha l’arbitrio.
La pena unica può essere incerta e indeterminata per legge o per statuto.
In tale ipotesi, scelga il giudice quale pena applicare.
E’ il problema della pena arbitraria.
A questo riguardo il Cipolla prospetta le seguenti ulteriori distinzioni.
a) la specie della pena arbitraria è determinata, per legge o per diritto comune.
Se l’arbitrio è semplice (arbitrium procedendi et determinandi seu condemnandi super maleficiis), il
giudice non può mutare la specie (Glossa ordinaria al Liber Extra, gl. c. Inquisitionis, de
accusationibus, e più tardi Antonio da Budrio; Alberto Gandino; Alberico da Rosciate), a meno che
il crimine non sia enorme. Se l’arbitrio conferito è generale (in inquirendo, procedendo, torquendo,
puniendo, banniendo et condemnando et generaliter purum, merum et liberum arbitrium in
maleficiis, non obstante iure communi vel statuto), allora il giudice può anche spingersi oltre e
mutare la specie, fino a comminare la pena di morte. Un arbitrio del genere è previsto, ad esempio,
negli statuti di Verona del 1450.
b) Le stesse distinzioni si applicano quando la pena è determinata nella specie per consuetudine.
c) Se la specie della pena non è in alcun modo determinata dalla legge o dallo statuto, bisogna
vedere:
· se lo statuto dice espressamente che il giudice può punire fino alla morte oppure che non può
arrivare fino alla morte: va seguito.
· se lo statuto non dice nulla: si può arrivare fino alla pena di morte, purché il delitto sia
consumato.
· se lo statuto dice che il giudice può punire di più o di meno secondo la colpa, a suo arbitrio: se
la pena è pecuniaria il giudice non può imporre una pena corporale e se la pena è corporale, non può
imporre una pena corporale più grave.
Pena ordinaria, legittima difesa e pena corporale ordinaria 1) La pena ordinaria è una pena unica e determinata, dalle leggi romane o dagli statuti, nella
specie (pena di morte, altra pena corporale, pena pecuniaria), nella quantità, nel tempo.
Anche in questo campo l’arbitrio del giudice può esplicarsi, diminuendo o aggravando la pena
stabilita.
La pena corporale ordinaria, infatti, non si può applicare ed al suo posto occorre stabilire una pena
arbitraria:
· quando il reato è colposo;
· quando il reato non è consumato;
· quando vi è eccesso di difesa (anche doloso per la communis opinio);
· quando un reato doloso è commesso da un impubere proximus pubertati (10 anni e mezzo-14) o
da un minore di 25 anni;
· quando è commesso da un complice (auxiliator), senza fornire un contributo causale
determinante;
· quando sussiste un’altra giusta causa di diminuzione della pena (ad esempio, il giusto dolore,
l’ubriachezza colposa, l’infermità di mente sopravvenuta al delitto).
2) La pena non si applica del tutto in caso di legittima difesa.
Quando infatti la violenza è impiegata per difesa, cioè per reagire contro un’aggressione ingiusta, e
si mantiene entro certi limiti, essa è lecita, secondo le dottrine dei giuristi del diritto comune. Chi
uccide l’aggressore non può essere punito per omicidio. Il principio, affermato a chiare lettere dal
diritto romano giustinianeo - diritto comune in Italia e in molti altri territori europei - non sarà più
abbandonato e vale tuttora secondo gli attuali codici europei.
Violenza sì, ma entro certi limiti, si è detto.
Quali sono questi limiti nel medioevo?
Essi sono enunciati solo in parte dal diritto romano.
Sono in realtà elaborati dalla dottrina medievale, il vero perno del sistema del diritto comune
medievale.
I limiti sono precocemente individuati nei requisiti della proporzione o congruenza tra aggressione e
reazione, e nell’attualità della difesa.
A questo proposito, si possono distinguere almeno tre fasi storiche.
In un primo momento, tra gli anni ‘40 e ’90 del XII secolo, quei limiti sono intesi in modo rigido.
Proporzione significa perfetta equivalenza tra aggressione e difesa sotto il profilo dei mezzi.
Attualità significa immediatezza: è illecita la difesa preventiva, è illecita quella successiva
all’aggressione (vendetta).
E’ questa la prima posizione di civilisti e canonisti: Uguccione, ad esempio, nella propria Summa al
Decreto di Graziano (1188 ca.) parla espressamente di eadem vis (stesso tipo di violenza) come di
un requisito indispensabile per poter invocare la legittima difesa.
Una seconda fase, che va dagli anni ’90 del XII secolo fino a buona parte del ‘200, vede la
dottrina modificare il rigore di questi principi, rendendoli più elastici, più aderenti alla situazione
concreta.
La difesa diventa proporzionata quando nel caso concreto era inevitabile, indipendentemente
dall’equivalenza dei messi usati.
E’ questo già uno sviluppo del Duecento, che compare innanzitutto nei canonisti: come dicono
Alano Anglico a Bologna (1202) e l’Apparato francese ‘Animal est substantia’ (1206-1210), la
difesa è lecita quando non è possibile all’aggredito di difendersi altrimenti (“non possum me alio
modo tueri”).
Tra i civilisti, ce n’è traccia già in Odofredo, quindi già prima di Bartolo, che sarà l’autorità più
citata dai giuristi posteriori.
La difesa preventiva, inoltre, si considera lecita, sia contro le minacce di fatto (terror armorum), sia
contro le minacce solo verbali (minae).
La difesa posteriore, invece, rimane sempre illecita e sempre qualificabile giuridicamente come
vendetta, quando l’offesa riguarda la persona, a meno che l’aggredito non dimostri che vi era timore
che l’aggressore colpisse di nuovo.
Se invece l’attacco riguarda il patrimonio, e in particolare il patrimonio immobiliare, è ammesso
che il soggetto passivo di uno spoglio recuperi lui stesso le terre o il castello perduti mediante
autotutela.
La distinzione tra vis illata (violenza compiuta) e vis inferenda (violenza non ancora messa in atto,
ma solo minacciata) e quella tra offesa reale e personale è prima di tutto diffusa nella canonistica.
Le minacce di fatto, ad esempio, sono ritenute sufficienti per difendersi dall’Apparato al Decretum
‘Animal est substantia’.
Il diverso trattamento dell’offesa reale e personale, ai fini della valutazione del requisito
dell’attualità della difesa, si rinviene invece già in Uguccione, Melendo, Alano, canonisti bolognesi
del XII secolo e poi in Giovanni Teutonico, che fissa anche una presunzione di difesa nel caso di vis
illata: a favore dell’aggredito, si presume fino a prova contraria che l’aggressore potesse colpire di
nuovo.
La distinzione passa presto anche ai civilisti.
Ci sono spunti già nella Glossa accursiana e poi nella scuola di Orléans (Jacques de Revigny, Pierre
de Belleperche) e in Cino da Pistoia, il quale chiarisce bene la ragione della differenza: la violenza
alle persone è irreparabile, le res invece sono recuperabili.
Si noterà che qui i giuristi medievali lasciano ai privati la cura di riprendersi le cose.
Come e quando?
Per recuperare il possesso del bene perduto alcuni fissano un termine in giorni.
Ma il criterio che si afferma è un altro: bisogna attenersi al tipo di bene spogliato e al soggetto e si è
autorizzati ad agire nel tempo necessario nel caso concreto: anche dopo anni!
Anche in questo caso, si tratta di indicazioni già presenti di buon’ora nella dottrina canonistica.
L’Apparato ‘Animal est substantia’ e Vincenzo Ispano pongono come momento finale quello in cui
l’aggredito passi ad altre occupazioni, esigendo quindi che egli reagisca prima (“antequam
divertat”).
Uguccione chiede che l’offeso reagisca “cum primum poterit” (quanto prima).
Il requisito dell’inevitabilità della difesa fa sorgere il problema della fuga.
Se la fuga è possibile, teoricamente la difesa non è più inevitabile.
Qui però sono i giuristi del Trecento, Bartolo e Baldo in primo luogo, a modificare il criterio in
modo decisivo.
Il grande Bartolo afferma due tesi.
La fuga non è mai un obbligo, perché è sempre un disonore per chiunque.
La fuga è una vergogna solo per alcuni, i nobili oppure gli abitanti di una determinata città: per
questi, non sussiste dunque obbligo di fuga.
Baldo aggiungerà una terza indicazione: la fuga non è un obbligo, quando rischia di mettere a
repentaglio la salvezza o l’incolumità dell’aggredito.
Siamo così entrati nella terza fase della storia della legittima difesa: la fase del favor defensionis.
Bartolo e Baldo ne sono i principali attori.
Bartolo, innanzitutto, afferma che la prova dell’inevitabilità della difesa può anche essere data per
presunzioni e la presunzione maggiore è questa: basta provare per testimoni che l’ucciso aggredì per
primo oppure che egli si era accinto a colpire, che era venuto verso di me con l’animo di uccidere.
Il criterio avrà grande fortuna. Lo applicheranno Angelo Ubaldi a Venezia e Bartolomeo Cipolla
nella Terraferma Veneta; lo loderanno Egidio Bossi, Giulio Claro, Prospero Farinaccio.
L’altro grande sviluppo verso il favor defensionis vede come protagonista Baldo.
L’eccesso di difesa, che si ha quando uno oltrepassa i limiti della difesa, non deve essere punito con
la pena ordinaria.
Questo vale sia per l’eccesso colposo che per il doloso.
Erano stati i canonisti per primi a distinguere tra eccesso colposo e doloso.
Baldo ammetteva la mitigazione della pena anche per l’eccesso doloso.
Ma il problema aveva avuto anche diverse impostazioni nel corso del Duecento.
Iacopo d’Arena, in una sual lectura, fa il caso di uno che colpisca l’aggressore mentre fugge, e dice
che per alcuni giuristi si trattava di omicidio colposo, perché c’era lo stato d’ira, la provocazione;
per altri si poteva parlare di omicidio doloso, perché era piuttosto una vendetta.
Egli aderiva all’opinione più mite.
Franceschino Corti, nel Quattrocento, applica senza esitazioni il principio della diminuzione di pena
all’eccesso colposo in un caso concreto: l'aggressore ha un gran bastone che però gli cade,
l’aggredito lo prende e lo uccide.
Egli nutre invece forti dubbi sulla bontà del principio nell’ipotesi di eccesso doloso e d’altra parte
riconoscerà impossibile non scusare l’aggredito con qualche attenuante: “Credo che sia
difficilissimo provare il dolo, perché qualsiasi circostanza fornirebbe una valida scusa” (“Bene
credo quod difficillimum esset probare dolum quare quelibet occasio excusaret a dolo”). “Nessuno
può essere come Giobbe in quei momenti terribili”, dirà Egidio Bossi.
Bartolomeo Saliceto completerà il quadro: nel dubbio, l’eccesso si deve presumere colposo.
La dottrina lombarda, di cui Corti e Bossi sono autorevoli esponenti, registrò voci favorevoli, come
Giason del Maino.
Ma vi sono anche opinioni critiche: quella di Filippo Decio, ad esempio.
Nel Seicento, l’umanista olandese Anton Matthes, una delle voci più ascoltate dagli illuministi, ma
anche il pratico sassone Benedict Carpzov, che scrive uno dei monumenti della criminalistica
moderna, reclamano con forza l’applicazione della pena capitale in caso di eccesso doloso,
reputando la communis opinio contraria alle fonti romane.
3) La pena corporale ordinaria non si può inoltre applicare quando la colpevolezza del reo non è
pienamente provata.
La pena arbitraria è una pena non determinata, ma rimessa alla discrezionalità (arbitrium) del
giudice.
A seconda dei casi, può essere determinata nella specie oppure no.
Se la specie è determinata, può essere mutata solo se è concesso l’arbitrio generale.
Se la specie non è determinata, si può arrivare fino alla morte: purché lo statuto non lo proibisca, il
reato non sia semplicemente tentato.
Quando lo statuto dia l’arbitrio di modificare la pena ordinaria in più o in meno (poena limitata cum
culpa plus vel minus arbitrio dicte potestatis), il giudice non può passare da una pena pecuniaria ad
una corporale (Angelo Ubaldi: sarebbe non un punire di più, ma un punire diversamente, con
riferimento allo statuto che dà l’arbitrio al podestà di punire il ladro in più o in meno (in plus vel
minus) rispetto a quanto dispone lo statuto), né da una pena corporale in una parte del corpo ad una
pena pecuniaria o ad una corporale maggiore o alla pena di morte (Baldo: se lo statuto dice di
punire con la pena dell’amputazione del piede o altra, vel alia, s’intende una pena simile, quindi non
una pena pecuniaria, né l’amputazione della testa).
Questa precisazione è utile per interpretare gli statuti di Verona, nei quali ricorre spesso il modulo
in questione.
Un’altra cosa aggiunge il Cipolla: se la pena ordinaria è pecuniaria, la pena arbitraria non può
superare il tantundem (Francesco Zabarella; Baldo).
Perciò quando lo statuto di Verona dice che chi ha dato uno schiaffo dev’essere punito con 50 L. di
denari, et plus vel minus arbitrio dictae potestatis, il podestà potrà arrivare fino a 100 L. e non oltre.
Tutto ciò vale, naturalmente, solo per le corti locali.
Diversa è la regola per le magistrature centrali.
Un solo, significativo esempio: quello del Senato di Milano che, a mente del titolo De senatoribus
delle Nuove Costituzioni del 1541, in materia criminale gode di vasti poteri equitativi, cioè di
arbitrio: omnia in criminalibus faciet, quae pro justitia et aequitate ei videbuntur opportuna. Et
quicquid faciet, vel decernet, parem vim habeat, ac si a Principe factum fuisset (faccia nelle cause
criminali tutto ciò che per la giustizia e l’equità gli sembrerà opportuno. E tutto ciò che farà o
decreterà, abbia la stessa forza, come se fosse fatto dal Principe).
APPENDICE 1.
Le fonti del diritto milanese
Liber consuetudinum 1216 Compilazione ordinata dal Consiglio generale nel 1215, su iniziativa del
podestà Brunasio Porca, e preparata da un collegio di quattordici saggi nominato dal podestà Iacopo
Malacorrigia. Ha come fonte principale una compilazione del XII secolo, il libello di Pietro giudice.
Statuto 1330 (Azzone Visconti)
Perduto, ma ricostruibile in base allo Statuto di Monza del 1333-1339, che lo ha preso A modello
(ed. Milano 1589)
Statuto 1351 (Luchino e Giovanni Visconti)
Solo proemio: ed. Ceruti
Perduto, ma ricostruibile in base ad altri statuti degli anni ’50, che lo hanno preso a modello (ad es.
Bergamo 1353).
Statuti 1396 (Gian Galeazzo Visconti)
libro 1: ed. Ceruti (Statuta iurisdictionum), Torino 1876
libri 2-8: ed. Paolo Suardi, 1480
Statuti 1498 (Ludovico Sforza il Moro)
Statuti 1502 (Luigi XII d’Orlèans)
ed. Mediolani 1550 (con le Apostillae di Catelliano Cotta)
ed. Mediolani 1583-1585 (con il Commentario di Orazio Carpani)
Decreti viscontei-sforzeschi Ce ne sono diverse raccolte inedite.
Una scelta di decreti dal 1343 al 1507 è pubblicata con il titolo Antiqua Ducum Mediolani Decreta
(Mediolani 1654)
Constitutiones Dominii Mediolanensis 1541
Le Nuove Costituzioni di Carlo V sono rimaste in vigore in Lombardia fino all’età napoleonica.
STATUTI TRECENTESCHI DI BERGAMO
Bergamo 1331 (Giovanni di Lussemburgo e Boemia, ed. Claudia Storti Storchi 1986)
Bergamo 1333 (Azzone Visconti: inedito)
Bergamo 1353 (Giovanni Visconti, ed. Giovanna Forgiarini 1996)
Bergamo 1374 (Gian Galeazzo Visconti: inedito)
Bergamo 1391 (Gian Galeazzo Visconti)
APPENDICE 2
I mali della giustizia di Terraferma nelle Suppliche al Collegio veneziano
1. La confessione
Gambarare 1569
Serenissimo Principe
Fu alli 3 del mese passato di fevraro, in un zorno di zobia a un’hora di notte in circa, ritrovato uno,
finhora incognito, al pontesello di Lizzafusina, con diverse ferrite sopra la testa et nella vita, per la
qual morse doi o vero tre giorni doppoi in Venetia.
Et non si sappendo chi fusse stato il delinquente, fu per li officiali del clarissimo provveditore delle
Gambarare ritenuto un Lorenzo Riato, putto di 12 anni incirca, il quale, sì come in processo appare,
si haveva fino a Strà accompagnato con questo ferrito.
Et condutto esso Lorenzo nelle forze del detto clarissimo proveditore, fu contra di lui formato
processo et quantunque constituito due volte, da essi constituti apparesse chiaramente la sua
innocenza, fu ancho nondimeno menato alla corda, con tutto che contra ogni legge et ogni raggione
sia il torturare un minore.
Né si spaventando lui punto per esser innocente, stava costantissimo, confirmando quello che era
non solo verisimile, ma indubitato anchora.
Onde fu spogliato, ligato alla corda, ellevato et datoli crudelissimamente un squasso, senza haversi
compassione all’età et rispetto alla legge et alla raggione.
Per il che, dal dolore impaurito, esso povero putto, facendosi callar giù, confessò esser stato lui che
gli havesse dato, adducendo quelle cause che nel processo appareno.
Onde fu per allhora quell’infelice ritornato in preggione.
Ma non contento esso clarissimo proveditore di quella confessione, due altre, over tre volte, lo
constituì. Et vedendolo star sul suo proposito, tentò di novo ritornarlo alla corda, dove facendoli
interrogationi a suo modo, lui spaventato dal tormento disse come nel processo appare: ‘se volete
che io dica haverlo assassinato, lo dirò’.
Et essendoli fatte interrogatione suggestive, confessò quanto li era addimandato, ma cose così
inverosimili et lontane d’ogni verità, che ogni uno di mediocre giudicio, dalla lettura di esso
processo et dalle interrogationi fatteli, comprehenderà quella non esser confessione, ma seddutione.
Ma procedendo più oltra, esso clarissimo proveditore lo fece rathificare, con animo poi di farlo
morire, como chiaramente disse a chi andò a dimandarli le sue diffese.
Et dappò la rathificatione li fu intimado che in termine di 4 giorni dovesse deddure o far dedure
quanto intendeva a sua diffesa, altramente etc.
Onde esso povero et infelice putto scrisse una polizza a Padoa, ad un suo patrone, narrandoli che la
confusione et il tormento in che era stato posto l’havea fatto così dir, ma non la verità.
Il qual, benissimo conoscendolo, parendoli impossibile che havesse commesso simil delitto, mosso
a compassione si deliberò volerlo diffendere.
Onde, mandando un commesso alle Gambarare, acciò fusse cavato copia degli inditii per poterlo
diffender, li fu da esso clarissimo proveditore risposto che non solo non voleva darli copia alcuna,
ma che era superfluo il diffenderlo, perciò che se fussero ben venuti quanti dottori sono in Padova et
in Venetia, sapeva quanto doveva fare, dando ad intender chiaramente, senza sentir diffese, la sua
oppinione.
Il che vedendo esso commesso, ricorse all’agiuto del clarissimo Avogador, il qual giustamente et
cortesemente prorogò quel termine con una lettera, commettendo che li fusse dato copia del
processo.
Alla qual, essendo sforzato obedire, ordinò che li fussero cavati li inditii, ma non volse però che
esso commesso parlasse (con tutto che gli havesse intimato che deducesse quello voleva) con il
povero putto di Lorenzo.
Ultimamente, essendoli dato la copia, li è stata data con sì mal ordine che a pena si può conoscere
quai siano gli inditii che fanno contra di lui. Anzi essendo il solito, nel fine degli inditii, darsi li
nomi delli testimoni confusi, non vi sono stati messi altramente.
Et ciò in vero era pur necessario, perciò che, pretendendo gli officiali che lo presentorono haver
quei beneffici che si danno ad un assassino, anci addimandando (come nella sua denontia appare)
confiscation dei beni di esso Lorenzo, è pur giusta cosa vedere, se essendo accusatori, sono ancho
come testimoni admessi.
Però, humilmente et reverentemente. si supplica per parte del detto misero et infelice putto Lorenzo
Riato che, considerate le predette cose da Vostra Serenità, et havuta quella informatione dal
clarissimo podestà di Padova che li parerà necessario, della pocha età, della confessione violenta et
suggesta di Lorenzo, dell’haver detto il clarissimo proveditor la sua opinione, dell’haver negato il
darli le copie, onde potesse diffendersi, dil non haverli voluto lassarli parlare, con tutto che
l’havesse per espedito; et finalmente dell’haverli dato sforzatamente, con sì mal ordine la copia
degli inditii senza nome dei testimoni, si supplica, humilmente dico, Vostra Sublimità che voglia
esser contenta di delegar per giustitia questo caso da esser giudicato dal clarissimo podestà di
Padova et dalla sua eccelentissima corte, dove ognuno sa con laude et gloria di questo Serenissimo
Dominio che, nell’assolvere gli innocenti et nel punir i malfattori, mai non si è mancato, al presente
non si manca, nè mai si mancarà di giustitia.
Non essendo honesto, nè conveniente, che dove si tratti, non dirò della vita di un huomo, nel qual si
potria presumer forsi qualche malitia, ma d’un povero putto innocente, cosa così preciosa et
inestimabile, il clarissimo proveditore debba giudicar.
Il qual, non solo nel formar processo et nel dar le diffese e, forse per colpa d’altri, trascorso in
qualche errore, ma ancho ha già detto la sua opinione quello che s’è rissoluto di fare, quando ben si
facessero ogni sorte di diffese.
1569 7 marzo
Che alla oltrascritta supplicatione respondi il potestà di Padoa...
(filza 323)
2. La presentazione
Este 1577
Serenissimo Prencipe, Illustrissima Signoria
Seguitta la morte del quondam Zuanne da Montagnana, qual fu da incogniti ammazzato in Este, in
tempo di notte l’anno 1571, formato il tal qual processo, pieno di contrarietà et in molte sue parti
falso, ottenuta prima ampla authorità da Vostra Serenità di poter bandir da terre e luochi, con
confiscatione de beni et taglie li delinquenti, parve a quel magnifico podestà, mosso d’alcune
suspittioni (come egli attesta), far proclamar alle pregioni me povero et infelice Peregrino Musocho,
imputandomi insieme con messer Piero Zanne che, mediante l’opra et consiglio mio, habbi con altri
incogniti, la notte de dì 15 febraro, levato di vita esso Zuanne, seben innocentissimi,
Nell’hora che l’infelice fu ammazzato s’attrovavamo lontani dal loco dell’homicidio per più de
miglia dieci.
Però essendo io d’ogni imputatione lontano, per dir se non quanto aspetta a me, niente dubitando
dell’horribil proclama in questa mia etade senile, di forze deboli et impotente dalla povertà ancho
oppresso, mi son volontariamente posto nelle forze del reggimento d’Este, sperando con prestezza
liberarmene per giustitia.
Nondimeno, dimorato per molti mesi dove sogliono star li presentati, se ben cosa nova, quel
magnifico podestà non ha veduto contra di me essasperato, mi fece serrar in una stretta pregione,
dove son stato per più de mesi quattro in gran calamità.
Ma infine sua magnificenza, inspirato da Dio, senza esser da alcuno ricercato, mi licenziò dalle
pregioni et mi mandò a casa mia, dove la mia famigliola periva dalla fame.
Hora mò, ha parso a questo magnifico podestà farmi da novo alle carcere apresentar et quantunque
s’habbi dimostrato a sua magnificenza non v’esser inditio alcuno et men suspitione contra di me,
anzi esser impossibile che questo delitto mi habbi pensato di farlo commetter, sua magnificenza con
tutto ciò ha statuito, lasciando tutto il resto da canto, farmi poner alla corda, benchè, et per l’ettà che
oltra li anni 60 et per l’indispositione del corpo, ciò per le leggi non convenghi, oltra che apparendo
nel processo originale alcune vitiature, i suoi ministri che l’hanno scritto et offitiali che sono stati
essaminati et tra loro son molto diversi et contrari non mancano di qualche sospitione di falsità.
Per tutte queste cagioni ho havuto ricorso alli clarissimi signori Avogadori di commun et fatto venir
giù la copia del processo, pretendendo dimandar intromissione dell’atto seguito et ho dal clarissimo
avogador Michiel ottenuto intromissione ad reaudiendum, il quale scrisse anche che, stante la
sudetta intromissione, il tutto dovesse star in sospeso.
Ma perché il processo è lunghissimo et quando paresse al sudetto clarissimo avogador di confermar
et placitar la sua intromissione nell’eccelentissimo Consiglio di Quaranta, questo non si potrebbe
fare se non con molto tempo; et intanto, spirata la sospensione del mese, quel clarissimo rettor
vorrebbe al tutto in esso caso far quello li paresse.
Et perché è alteratissimo contra di me et delli miei diffensori et mi ha in diversi modi minacciato di
mandarmi in rovina, comparendo con questa mia riverentemente ai suoi piedi la supplico che,
havuta informatione che si deve dalli clarissimi signori Avogadori, nelle mani dei quali è anchor la
copia del preditto processo, si degni rimetter il detto caso al magnifico successore che doverebbe
entrar in ditto regimento alli 20 di luglio prossimo. Il qual, libero d’ogni affetto, conforme alla pia
mente di Vostra Serenità, eserciterà quella giustitia che si deve a salute dei buoni et castigo degli
scelerati.
Devotamente in sua buona gratia raccomandandomi.
1577 17 maggio
Che alla sopradetta supplicatione rispondino li Avogadori di comun…et l’istesso faci il podestà di
Padova…
(filza 331)
3. Lo stile delle corti d’Italia
Verona 1584
Serenissimo Principe,
Questo carnevale passato nella città sua di Verona fu pensatamente et appostatamente trucidato
l’infelice Pompeo, figliuolo di me povero Antonio Maria Uguzzoni beccaro, dal signor Anzolo
Ronco, cittadino potente et da alcuni altri suoi parenti et seguaci.
Et perché io sapeva le parentele et li favori grandi che havea questo Ronco, così con li principali del
consiglio et della consolaria di quella magnifica città, come con li nodari deputadi al malefitio, parte
dei quali sono cugnati et parenti di esso Ronco, et perchè, per la povertà mia et per la mia
impotentia io non podeva securamente caminare per quella città, nè comparere alla giustitia a trattar
le cose mie, supplicai la Sublimità Vostra che, tolta informatione delle cose da me narrate nella
supplicatione che io presentai ai piedi suoi, ella si degnasse di delegar per giustitia questo
atrocissimo caso all’officio clarissimo dell’Avogaria.
Et perché da diversi principalissimi gentilhuomini di quella città io poi fui con vari modi astretto a
rimuovermi dalla detta supplicatione, promettendomi questi che dalla giustitia di Verona li rei
sarebbono stati giustamente puniti, non fu proceduto più oltre sopra la detta supplicatione.
Ma dopoi, essendosi Anzolo et un altro correo spontaneamente presentati, havendo il salvo condutto
dal puro per difendersi solamente dalla qualità del pensamento, è occorso che, essendo secondo
l’ordinario stato portato di ordine di quel clarissimo et giustissimo signor podestà il processo in
consolaria, per espedir gli altri rei absenti giusta il tenor delle lettere del clarisismo Avogador da me
impetrate sotto li 21 di maggio, li favori che Anzolo predetto ha in quella città hanno potuto tanto
che essi rei absenti non sono stati espediti, anzi la copia del processo è stata data con le difese alli
sopradetti rei presentati.
Il che quanto sia contra i termini della giustitia et contra il stile osservato così in questa inclita città,
come in tutte le corti d’Italia, Vostra Serenità per sua prudentia lo comprende.
Et perché io prevedo la facilità con che questi crudeli huomini intendono di salvarsi da così grave
delitto per loro commesso, et che la vita di me meschino vecchio et di un altro povero figliuolo che
mi resta di età de anni 17, saranno soggette in quella città alla ferità et alla potentia de questi nemici
del mio sangue, supplico di nuovo la Sublimità Vostra per le viscere di Christo che, non obstante la
sudetta mia violente renontia, voglia commettere alli clarissimi rettori di Verona che, tolte le debite
informationi sopra la predetta mia supplicatione et sopra questa presente additione, dicano l’opinion
loro con giuramento, secondo la forma delle leggi, acciò che la Sublimità Vostra possi poi, se così
le parerà per giustitia, delegar questo atrocissimo caso all’officio dell’Avogaria.
Et alla sua gratia genuflexo mi raccomando,
1584 a 28 luglio
Che alla suprascritta supplicatione rispondano li rettori di Verona...
(filza 338)
4. I tempi presenti
Bassano 1579
Serenissimo Principe et Illustrissima Signoria
Miseri et calamitosi sono i tempi presenti, poiché il stato della Serenità Vostra è così pieno di sicari
perfidi et sceleratissimi huomini che perturbando il pacifico viver delli sudditi suoi reducono le
povere famiglie in ultima disperatione, non vi essendo persona che più si assicuri, massime nelle
parte de Bassan, et da lì in suso verso Valstagna, per quieto vivere che faccia, lontano d’ogni
inimicitia, che infine possi fuggir di non esser da questa sorte de sicari et pessimi huomini trucidato
et morto, quando che non se li dii della robba quando la domandano, alloggiamento quando lo
vogliono.
Et infine guai colui che se li rende suspetto per qual si voglia minima causa, perché subito li
succiede la morte per mano di questi assassini et carnifici, come è avenuto a me povero et infelice
Thomaso Di Callegari di Valstagna, poiché attrovandomi in questo mondo un solo fratello
nominato Zuanne, carico di sette fioli, ai quali con le sue brazze faceva le spese, sotto li 19 mazo
prossimo passato, nel tornarsene a casa sua, fo assaltato da tre sicari et assassini circa hore una di
notte.
Quali, apostatamente et proditoriamente, lo aspettavano nel loco del Carpenedo, territorio de
Bassiano, da qualli il meschino fu con sette crudelissime ferite trucidato et morto, lasciando la
povera et infelice sua moglie con li preditti sette fioli senza alcuna sustantia, et me infelicissimo et
miserissimo suo fratello in tanto affanno et travaglio che ancor io posso temer che non me succeda
il medesimo.
Poiché né il ditto povero quondam mio fratello, né io habbiamo mai fatto offesa ad alcuno, né mai
habbiamo portato arme, né mai sapemo haver operato altro, che negato di alloggiar di questa sorte
di sicari et tristissimi huomini, che fa reputar il caso nostro da ognuno tanto più grave et che sii
degno che la Serenità Vostra li poni la mano sua.
Essendo certo che detto attrocissimo assassinamento resterà impunito quando che dalla benignità et
iustitia di Vostra Serenità non li sii provisto, perché quelli che hanno veduto o altramente sanno et
conoscono detti assassini, non è dubio che da loro spaventati non vogliono deponer la verità.
Onde noi misero fratello et moglie et figlioli, genibus flexis ai piedi suoi, la supplichiamo con ogni
efficatia la sii contenta delegar questo caso al clarissimo officio dell’Avogaria, ove secondo
l’ordinario contra questi assassini si habbia a proceder, perché così et più facilmente li testimoni,
che sano et conoscono li colpevoli, li palleseranno alla giustitia et questi tristi portaranno la pena di
tanta loro scelerità, che altramente è cosa certa che tal nefandissimo delitto restarà occulto, per il
timor che hanno gli uomini di deponer il vero, cosa che non die esser tolerata dalla molta pietà di
questa Serenissima Rpubblica et dalla prudenza di Vostre Signorie, che amano li suoi sudditi.
Et alla buona sua gratia humilmente si raccomandiamo.
1577 18 luglio
Che alla sopradetta supplicatione rispondi il podestà et capitano di Treviso…
(filza 333)