INDICE
INDICE 1
PREMESSA 6
INTRODUZIONE 8
PAR.1: RAGIONI DI DIRETTO INTERESSAMENTO DELL'ASSEMBLEA
COSTITUENTE PER UNA LEGGE SULLA STAMPA 8
PAR.2: CENNI SULLA L.8 FEBBRAIO 1948 N.47 10
PAR.3: DISCUSSIONE DELLA COSTITUENTE SULL’ART 15 12
PAR.4: CENNI SULLA APPLICAZIONE DELLA NORMA NELLA STORIA
REPUBBLICANA E RAGIONI PER UN ATTUALE INTERESSAMENTO 19
PARTE PRIMA: ART.15 E PRINCIPI COSTITUZIONALI 22
CAPITOLO 1 22
ART.15 E PRINCIPI COSTITUZIONALI DI DIRITTO PENALE 22
PAR.1: I PRINCIPI COSTITUZIONALI INTERESSATI 22
1.1) LE PRINCIPALI QUESTIONI 22
1.2) IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI OFFENSIVITÀ (LESIVITÀ) DEL
REATO (NULLUM CRIMEN SINE INIURIA) 23
2
1.3) IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI DETERMINATEZZA (NULLUM
CRIMEN SINE LEGE CERTA) 36
1.4) IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI COLPEVOLEZZA (NULLUM
CRIMEN SINE CULPA) 42
1.5) CONCLUSIONI 46
PAR.2: TEMATICA DEL BENE GIURIDICO E SUA FUNZIONE LIBERAL-
GARANTISTA 47
PAR.3: COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE 57
3.1) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE: SUA INDIVIDUABILITÀ 57
3.2) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE COME BENE MORALE E
SUA RILEVANZA COSTITUZIONALE 61
3.3) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE, AFFERRABILITÀ E
PRINCIPI DI OFFENSIVITÀ, DETERMINATEZZA E COLPEVOLEZZA 66
3.4) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE, FATTISPECIE DI
PERICOLO, ANTICIPABILITÀ DELLA TUTELA PENALE E PRINCIPIO
DI PROPORZIONATEZZA 70
3.5) CONCLUSIONI 75
PAR.4: L’ORDINE FAMILIARE 76
4.1) ORDINE FAMILIARE E COSTITUZIONE 76
4.2) AFFERRABILITÀ DELL’ORDINE FAMILIARE E SUA
TUTELABILITÀ COSTITUZIONALMENTE COMPATIBILE 79
4.3) CONCLUSIONI 84
PAR.5: DIFFUSIONE DI SUICIDI E DELITTI 85
3
PAR.6: CONCLUSIONI: INOPPORTUNITÀ O INCOSTITUZIONALITÀ? 87
6.1) REATO COME FATTO OFFENSIVO (UNICAMENTE) DI BENI
COSTITUZIONALI 87
6.2) AFFERRABILITÀ, OFFENSIVITÀ, DETERMINATEZZA E
COLPEVOLEZZA 89
6.3) ART.15 93
CAPITOLO 2 94
ART.15 E ART.21 COST. 94
PAR.1: LIMITI ALLA LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO E
L’ART. 15 94
PAR.2: DIRITTI DI LIBERTÀ COSTITUZIONALMENTE GARANTITI E
CONSEGUENTE DIVIETO DI INCRIMINAZIONE DI FATTI
COSTITUENTI ESERCIZIO DI TALI DIRITTI. 96
PAR.3: DIRITTO DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO E SUOI LIMITI 97
PAR.4: BUON COSTUME E ART.21 DELLA COSTITUZIONE 99
PAR.5: LIMITI IMPLICITI ALLA LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL
PENSIERO 104
PAR.6: LIMITI ALLA LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO
IMPOSTI DALL’ART.15 107
PAR.7: CONCLUSIONI 109
CONCLUSIONE DEI PRIMI DUE CAPITOLI 112
PARTE SECONDA: L’ART. 15 115
4
CAPITOLO 3 115
ART.15 L.47\1948: OLTRE LE QUESTIONI DI COSTITUZIONALITÀ 115
PAR.1: I PROBLEMI INTERPRETATIVI DELL’ART.15 115
PAR.2: ART.15 E ART.528 C.P. 116
2.1) RINVIO QUOAD POENAM O QUOAD DELICTUM 116
2.2) DIVERSE CONSEGUENZE DELLE DUE DIFFERENTI
INTERPRETAZIONI 120
PAR.3: ELEMENTO MATERIALE DEL REATO 122
3.1) RICHIAMO ALL’ART.528 C.P. 122
3.2) STAMPATI 122
3.3) DESCRIVERE O ILLUSTRARE 123
3.4) PARTICOLARI IMPRESSIONANTI O RACCAPRICCIANTI 124
3.5) IN MODO DA 129
PAR.4: ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO 135
4.1) ART.528 C.P. ED ELEMENTO SOGGETTIVO DELL’ART.15 135
4.2) DOLO SPECIFICO 136
PAR.5: OPERA D’ARTE E ART.15 141
PAR.6: TRATTAMENTO SANZIONATORIO 147
PAR.7: RELAZIONI DELL’ART.15 CON ALTRE NORME
DELL’ORDINAMENTO 147
7.1) PREMESSA 147
7.2) ART.15 E ART.114 T.U.P.S. 148
7.3) ART.15 E ART.565 C.P. 152
5
7.4) CONCLUSIONE 156
PAR.8: CONCLUSIONI 156
CONCLUSIONI GENERALI 158
BIBLIOGRAFIA 163
6
PREMESSA
L’analisi dell’art.15 della legge n.47\1948 (legge sulla stampa)
necessariamente pretende di essere condotta attraverso il continuo
richiamo di alcune delle più importanti tematiche del Diritto penale, ed in
particolare dei suoi principi costituzionali.
È quindi indispensabile in questo lavoro affrontare i principi di
determinatezza, offensività e colpevolezza, ed anche trattare della
problematica dei beni costituzionalmente tutelabili, ma, chiaramente, ciò
si compie senza alcuna pretesa di completezza o di particolareggiato
approfondimento in merito, perchè, studiare con cura tutti questi
argomenti assieme, non può essere compito adeguato per una singola tesi
di laurea, e meno che mai per una tesi che a ciò non sia votata dal suo
stesso titolo.
Cercheremo quindi di chiarire al meglio le tematiche suddette (che oggi
dimostrano la loro grande importanza ed attualità costituendo oggetto di
discussione della Commissione parlamentare per le riforme
7
costituzionali1), ma sempre in relazione alla portata e alle finalità di
questo lavoro, che solo le vede come strumenti di comprensione e di
analisi dell’art.15 della legge sulla stampa, e non quali oggetti principali
di indagine.
1 Documenti esaminati nel corso della seduta di martedì 28 ottobre 1997 della Commissione parlamentare per
le riforme costituzionali; Art.130-bis: “Le norme penali tutelano beni di rilevanza costituzionale. Non è
punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una
concreta offensività. Le norme penali non possono essere interpretate in modo analogico o estensivo. Nuove
norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti
organicamente l’intera materia cui si riferiscono.”
8
INTRODUZIONE
PAR.1: RAGIONI DI DIRETTO INTERESSAMENTO
DELL'ASSEMBLEA COSTITUENTE PER UNA LEGGE
SULLA STAMPA
La legge sulla stampa, all'interno della quale si trova la norma oggetto del
presente lavoro, venne approvata dall'Assemblea Costituente il 20
gennaio 1948.
Essa si compone di venticinque articoli, attraverso i quali s'intese
disciplinare gli aspetti salienti e più urgenti relativi alle nuove questioni
di libertà, e di conseguenza di responsabilità, che giornalisti, scrittori e
editori avrebbero dovuto affrontare dati i radicali cambiamenti
intervenuti nel Paese.
L'Italia, durante gli anni del Fascismo, aveva conosciuto un netto regresso
della legislazione inerente la stampa: era in poco tempo passata da
un'impostazione di tipo liberale, come quella dall’Editto Albertino,
ispirata ai principi della Rivoluzione Francese e basata sulla concezione
della libertà di stampa come diritto individuale, i cui limiti erano posti
solo dalla legge penale, ad una in cui questa libertà era funzionalizzata ad
esigenze di Stato, fortemente controllata e limitata dal potere esecutivo;
9
gli istituti del sequestro di polizia, del riconoscimento del direttore
responsabile (solo nominalmente affidato alla magistratura, ma in realtà
lasciato in balia del potere governativo) e l’istituzione dell’albo
professionale dei giornalisti furono i principali provvedimenti con i quali
il regime fascista mise il bavaglio alla stampa.
Dopo la caduta del fascismo, la volontà dei rappresentanti del popolo fu
di trasformare il paese in uno stato liberale e democratico, e questi,
consci dell'importanza del ruolo della stampa nel raggiungimento di tali
ideali, intesero fissare alcuni principi in materia.
Una commissione nominata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri
preparò un disegno di legge contenente 41 articoli, dei quali, però, solo
tredici furono inseriti nello stralcio che avrebbe poi costituito l’oggetto
del lavoro di una sottocommissione, oggetto a sua volta della discussione
in aula. Le ridotte dimensioni di entrambi i testi delle commissioni, la
celerità dell'approvazione della legge e le stesse dichiarazioni dei
protagonisti dell’iter formativo della stessa, sono tutti indizi della “fretta”
con cui una legge così importante fu approvata2.
La L.8 febbraio 1948, n.47, nella sua essenza di stralcio, non è una “legge
sulla stampa”, ossia una regolamentazione organica ed esaustiva di
quanto concerne la manifestazione del pensiero con questo strumento, e
2 Jannitti Piromallo, La legge sulla stampa, Roma, 1957, pg61 ss.
10
ciò comporta problemi di completezza e coerenza del nostro
ordinamento; inoltre la legge presenta anche difetti di tecnica legislativa
che spesso poi implicano ulteriori problemi di carattere teorico-
dogmatico che interessano in parte lo stesso art.15 qui in analisi, e che
saranno in seguito affrontati.
Di questa legge di fondamentale importanza per il Paese ragionevolmente
si occupò la Costituente, che, però, a causa del limitato tempo a
disposizione, compì un lavoro non del tutto soddisfacente, soprattutto in
considerazione della delicatezza della materia trattata.
Si può dunque concordare con il Nuvolone quando definisce la l.47\1948
“uno dei testi legislativi più importanti e meno pensati del nostro
ordinamento”3.
PAR.2: CENNI SULLA L.8 FEBBRAIO 1948 N.47
La Costituzione Italiana ha attribuito alla stampa una posizione
particolare tra i mezzi di comunicazione del pensiero. La ragione di
questa particolare attenzione è dovuta, oltre che a ragioni storiche, al fatto
che questa è il mezzo di diffusione del pensiero che racchiude in se due
requisiti fondamentali che la differenziano dagli altri mezzi di
3 Nuvolone, I limiti della libertà di stampa nell’art.15 della legge 8 febbraio 1948 n.47, in Arch.pen., 1952, 2,
pg555.
11
comunicazione e al tempo stesso la rendono di centrale importanza per il
sistema politico di un paese: quello di essere ad illimitata diffusibilità e
semplice accessibilità, e quello di essere potenzialmente nella
disponibilità produttiva di un elevato numero di individui. Le suddette
caratteristiche fanno della libertà di stampa la condizione minima
necessaria anche se non sufficiente di realizzabilità di un ordinamento
libero e democratico, e ciò spiega lo specifico richiamo alla stampa
inserito nell’art.21 della Costituzione e la necessità di una normativa “ad
materiam”4.
La legge, che come abbiamo detto in precedenza, non è regolamento
organico della materia, ma mera enunciazione di alcuni principi e
soluzione di questioni dettate dalle necessità del momento, si sofferma
sulle seguenti questioni: definizione di stampa, indicazioni da apporre
allo stampato, direttore responsabile, proprietario, registrazione del
periodico, inserzione di risposte e rettifiche, giornali murali,
responsabilità civile, diffamazione, estensione dell’art.528 c.p., stampa
clandestina, competenza e forma del giudizio.
La dottrina ha raggruppato queste disposizioni secondo differenti criteri
in diverse categorie, di cui, la più ampia e maggiormente interessante in
questa fase della trattazione, è quella basata sulla preventività-
4 Nuvolone, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, pg10 ss.
12
organizzatività o repressività delle stesse. Le norme della prima tipologia
hanno carattere amministrativo e non sollevano grandi questioni concrete
di limitazione della libertà (pur avendo grande importanza dal punto di
vista teorico-politico), mentre quelle della seconda, cioè norme repressive
poste a tutela di abusi nell’esercizio di libertà, impongono importanti
considerazioni giuridiche ed accurate riflessioni. Infatti importanti dubbi
di costituzionalità riguardano proprio queste norme, ed in particolare
quelle che incriminano la manifestazione di opinioni, quelle inerenti la
responsabilità penale del direttore del giornale e quelle contenute negli
articoli 14 e 15.5
PAR.3: DISCUSSIONE DELLA COSTITUENTE
SULL’ART 15
Lo studio dell’iter legislativo e delle discussioni assembleari che
portarono all’approvazione dell’articolo 15, vuole, in questa parte del
lavoro, evidenziare i dubbi e le perplessità che fin dall’inizio
accompagnarono questa disposizione.
Anzitutto, per ciò che riguarda l’iter legis, va rilevato come nel
documento presentato dalla commissione governativa alla
5 Jannitti Piromallo, La legge sulla stampa, Roma, 1957, pg72 ss.
13
sottocommissione dell'Assemblea Costituente, non fosse presente la
norma concernente le pubblicazioni impressionanti e raccapriccianti.
Infatti, pur se contenuta nello studio fatto dalla commissione governativa,
questa scelse di non presentarla per l’approvazione, valutando
l’argomento meritevole di maggiore approfondimento e auspicandone la
trattazione nell’ambito degli studi per la riforma del Codice penale.
Nonostante ciò, sia la sottocommissione dell’Assemblea prima, che
questa stessa poi, ritennero che, dato il dilagare di un certo tipo di stampa
e gli effetti particolarmente nocivi da questa provocati, fosse preferibile
non differire ulteriormente l’intervento legislativo. La scelta di trattare un
argomento così delicato nonostante gli angusti limiti temporali a
disposizione non è stata, però, senza conseguenze.
In secondo luogo, dalla lettura della discussione in aula6 si evince come
parte dei problemi che la norma porrà nella sua concreta applicazione
fossero già presenti ai costituenti, ma anche come la discussione in aula
fu non molto approfondita (la questione di una possibile violazione del
principio di tassatività della norma penale, ad esempio, venne appena
sfiorata), pur se in alcuni momenti sicuramente accesa.
Si riportano quindi qui di seguito le dichiarazioni espresse da alcuni
membri della Costituente nel corso della seduta del venerdì 16 gennaio
6 Atti della Assemblea Costituente, seduta di venerdì 16 gennaio 1948.
14
1948, utili per un primo inquadramento di parte delle tematiche centrali
di questo lavoro e per una successiva indagine circa la “intenzione del
legislatore”, criterio interpretativo utilizzato dalla dottrina nell'anamnesi
della norma.
-MORO7:
“...innanzitutto io propongo che si parli non di stampati periodici, come è
detto nel testo della commissione, ma di stampati senz’altro,
comprendendo così nella incriminazione non soltanto gli stampati
periodici, ma anche quelli non periodici, i quali, dal punto di vista della
tutela della moralità, che noi abbiamo di mira, possono essere più
pericolosi degli stessi stampati periodici. Inoltre io propongo si sopprima
la parola “prevalentemente” che è stata introdotta nel testo della
commissione, modificando con ciò il testo governativo. Ciò vuol dire che
gli stampati, per incorrere nella incriminazione, devono essere
prevalentemente rivolti a descrivere o illustrare con particolari
impressionanti o raccapriccianti, ecc. E cioè che essi devono con
continuità essere rivolti a questo fine? Allora evidentemente la norma
diventa inapplicabile, perchè bisogna rifare la storia di quelle
pubblicazioni, per vedere se essa è continuamente diretta, e quindi
prevalentemente diretta allo scopo di destare quelle ripercussioni morali
7 Atti della Assemblea Costituente, seduta di venerdì 16 gennaio 1948.
15
che vogliamo evitare. Se poi con l’espressione “prevalentemente” non si
volesse considerare il complesso della pubblicazione, ma un solo
numero, per limitare l’incriminazione ai casi nei quali esso, nella sua
prevalenza abbia effetto impressionante e raccapricciante secondo
l’indicazione dell’articolo, evidentemente renderemmo anche in questo
modo la norma praticamente inapplicabile e verremmo a dire che non
possa essere commesso reato di oscenità ai sensi di questo articolo, se
non in quanto esso si manifesti con una consistenza che sia, dal punto di
vista materiale nella pubblicazione, di carattere prevalente.
Propongo un’altra modificazione: chiedo che si dica che gli stampati
costituenti reato ai sensi di questo articolo siano quelli idonei a turbare il
comune sentimento della moralità o l’ordine familiare, ecc. Domando
cioè che questa incriminazione abbia carattere di reato di pericolo. Non
occorre perciò, a mio parere, che, secondo gli accertamenti del giudice, si
sia verificato il turbamento del comune sentimento della morale o
dell’ordine familiare: si richiede soltanto che nella valutazione del
giudice questi stampati siano in astratto idonei a turbare questi beni
giuridici. Non si richiede che il bene giuridico della moralità sia in atto
turbato, ma soltanto che vi sia idoneità generica a turbare questi beni
giuridici di importanza fondamentale”.
-SCHIAVETTI:
16
“...ora mi pare che per questi due generi di reato (quelli di cui agli articoli
14 e 15 N.d.R.) sia necessario l’elemento della continuità, perchè se noi
crediamo di poter incriminare una pubblicazione una volta tanto perchè
desta del raccapriccio, o perchè sembra atta turbare lo sviluppo spirituale
dei ragazzi, noi chiediamo troppo e sarà molto difficile che un giudice
arrivi a conclusioni positive. L’elemento della continuità nelle
pubblicazioni che tendono a sviluppare certi sentimenti e che offrono
certi pericoli, mi sembra necessario ed indispensabile. Dunque è
necessario che vi sia l’elemento della continuità, cioè l’abitudine, così
che il giudice possa dare il proprio responso non su una semplice
infrazione, ma su una serie di infrazioni che attesti il deliberato proposito,
da parte del colpevole, di dedicarsi a descrizioni ed illustrazioni di
carattere pericoloso, dal punto di vista sociale ed educativo”.
-CEVOLOTTO (relatore in commissione):
“ Le varie proposte che sono state fatte riguardo all’articolo 21 (del testo
della commissione della Costituente), in sostanza mirano a trasformare
quello che è ravvisato come reato di danno in reato di pericolo. Io
personalmente, pur essendo favorevolissimo alla persecuzione più decisa
delle pubblicazioni oscene o contrarie al buon costume, dubito un pÒ, ho
paura...non si sa mai dove si può arrivare attraverso queste forme di
incriminazione. Avevo ritenuto, come aveva fatto la commissione, che il
17
prospettare l’ipotesi delittuosa come reato di pericolo poteva portare a
conseguenze non accettabili. A nostro avviso è meglio attenersi al reato
di danno. Ad ogni modo l’Assemblea è di fronte a vari testi i quali
mirano tutti ad uno stesso fine. Si deve scegliere anche su un altro punto,
che porta a diversità tra il testo governativo e gli emendamenti proposti:
il testo governativo parla di “stampati periodici, prevalentemente rivolti a
descrizioni, ecc.” ; parla di periodici e non di stampati in genere (e quindi
non anche dei libri che sono invece compresi nell’emendamento Moro), e
ne parla chiedendo proprio quella ripetizione, quella abitualità della
commissione del reato su cui ebbe ad insistere l’onorevole Schiavetti,
perchè noi ci preoccupiamo che non sia possibile imputare un giornale
semplicemente perchè ha pubblicato una fotografia, in occasione di un
crimine, che possa sembrare, agli occhi di lince di un procuratore della
Repubblica, particolarmente sensibile, orripilante o raccapricciante. La
possibilità di incriminare i singoli fatti sporadici, in questa materia, può
portare molto in là; può impedire molte volte o rendere particolarmente
disagevole il servizio della cronaca fotografica dei giornali”.
-GULLO FAUSTO:
“ Noi insistiamo perchè l’aggettivo “periodici” sia mantenuto, altrimenti
verrebbe meno la ragione che potrebbe dare una apparente giustificazione
alla norma.
18
Che cosa vuole dire che sono puniti con una grave sanzione gli “stampati
rivolti a descrivere od illustrare ecc.?
Ma anche il libro viene ad essere compreso tra gli stampati. Noi
puniremmo il grande artista appunto perchè ha la colpa di descrivere con
maggior vivezza di immagini, meglio di quanto non sappia fare io od
altri, tutti i particolari di un delitto. A me pare pericolosa l’abolizione
dell’aggettivo “periodici” ed anche quella dell’avverbio
“prevalentemente”.
“...sono colpiti da questa sanzione anche i Promessi Sposi! “.
-MOLINELLI :
“ ...Togliendo questo carattere di periodicità dello stampato, noi diamo al
giudice la possibilità di colpire qualsiasi stampa, qualsiasi notizia di
cronaca. Se volete questo, votate per la soppressione della parola
periodici.”
-FABBRI:
“Dichiaro che voterò contro questa disposizione, la quale si riferisce
esclusivamente agli adulti; e voterò contro perchè la ritengo nettamente
anticostituzionale, in quanto con questa disposizione si può proibire agli
adulti, ad esempio, di leggere le novelle di Poe o i romanzi di
Dostojewski. Ritengo la disposizione nettamente contraria ai principi
19
della Costituzione e noto che l’Assemblea, dopo aver fatto la
Costituzione, si avvia a violarla giorno per giorno.”8
In conclusione della discussione sulla norma che andrà poi ad essere
contenuta nell’articolo 15, ad essere accolte saranno le proposte
dell’onorevole Moro, anche se la storia dell'applicazione della norma
darà spesso conto delle ragioni dei suoi oppositori in aula.
PAR.4: CENNI SULLA APPLICAZIONE DELLA
NORMA NELLA STORIA REPUBBLICANA E
RAGIONI PER UN ATTUALE INTERESSAMENTO
L’articolo 15 ha avuto nel corso di tutti questi anni una applicazione
scarsa e sempre decrescente; infatti, se negli anni immediatamente
successivi al 1948 troviamo alcune sentenze che lo interessano, più ci si
allontana da questa data e più la norma risulta “meno vitale
nell’ordinamento”.
Questo fenomeno probabilmente si spiega con un duplice ordine di
considerazioni: da un lato la problematicità intrinseca della norma (a
riguardo, le considerazioni di Schiavetti riportate nel paragrafo
precedente furono premonitrici del destino della disposizione) e,
8 Tutti gli interventi sono stati tratti dalla Relazione della seduta di venerdì 16 gennaio 1948 della Assemblea
Costituente.
20
dall’altro, un enorme sviluppo delle comunicazioni di massa, una società
sempre più basata sulle immagini e le la rapida circolazione delle
informazioni con una conseguente evoluzione del costume e del sentire
etico e morale, hanno fatto sì che questa perdesse d'interesse perchè
“scollegata dalla realtà”.
Allora quale è la ragione per occuparsi ancora dell’articolo 15?
Le ragioni sono più di una.
La norma, infatti, proteggendo il “comune sentimento della morale”, da
una parte impone riflessioni sui limiti e le modalità di tutela penale di una
certa tipologia di beni (i beni immateriali e collettivi), riflessioni che, a
loro volta, implicano il coinvolgimento di tematiche di importanza
centrale nel Diritto Penale che vale sempre la pena ridiscutere ed
approfondire, e, dall’altra, può costituire il punto di partenza per lo studio
di una normativa volta alla tutela di beni giuridici simili o analoghi, in
altri e diversi settori, come quello radiotelevisivo ed informatico.
Infine questo lavoro potrebbe costituire lo spunto per una
riconsiderazione dei “rapporti tra morale e diritto” ed una nuova analisi
della legittimità di una normativa di tipo penale a tutela di un bene così
“particolare” com'è la morale, analisi che, in una atmosfera di riscoperta
dei valori liberali quale oggi il nostro paese sembra stare vivendo, è forse
possibile compiere.
21
Spiegate dunque le ragioni di un ancor vivo interesse per l’argomento, è
ora possibile proseguire nel suo approfondimento.
22
PARTE PRIMA: ART.15 E PRINCIPI
COSTITUZIONALI
CAPITOLO 1
ART.15 E PRINCIPI COSTITUZIONALI DI DIRITTO
PENALE
PAR.1: I PRINCIPI COSTITUZIONALI INTERESSATI
1.1) LE PRINCIPALI QUESTIONI
L’art.15 della legge 8 febbraio 1948 n.47, recita: “Le disposizioni
dell’art.528 del codice penale si applicano anche nel caso di stampati i
quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o
raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto
immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale
o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o
delitti”.
La semplice lettura dell’articolo permette una immediata individuazione
dei beni giuridici da questo tutelati: 1)il comune sentimento della morale,
2)l’ordine familiare, 3)”la non diffusione di suicidi e delitti”.
23
Sarà l’analisi di questi la linea guida dei primi due capitoli del presente
lavoro, analisi volta a vagliare la compatibilità della tutela penale di detti
beni con lo spirito ed i principi della Costituzione.
In questo paragrafo verranno trattati i principi di offensività,
determinatezza e colpevolezza limitatamente alla loro individuazione
concettuale e costituzionale, rinviando la questione della loro
compatibilità con l’art.15 al terzo paragrafo.
1.2) IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI OFFENSIVITÀ
(LESIVITÀ) DEL REATO (NULLUM CRIMEN SINE INIURIA)
Il principio di offensività ha origini antiche, che possono esser fatte
risalire alle istanze giusnaturalistiche del diciottesimo secolo, grazie alle
quali ebbe inizio la secolarizzazione dello Stato e la differenziazzione tra
il reato, inteso come fatto lesivo di beni materiali, e il peccato, concepito
come condotta in contrasto con la legge divina, esauribile anche in un
mero atteggiamento interiore dello spirito.
Nel corso degli anni tale principio ha subito poi varie modificazioni ed
affinamenti, e soprattutto negli ultimi tempi, grazie agli sforzi della
dottrina, è stato forse raggiunto il traguardo più importante, e cioè quello
di riuscire ad “agganciare” il principio alle norme della Costituzione, così
“positivizzandolo” e al tempo stesso costituzionalizzandolo, in modo tale
24
da renderlo possibile parametro di valutazione della legittimità delle
norme dell’ordinamento.
Il cominciamento di questa opera di “fondazione costituzionale” del
principio è dovuto in gran parte agli sforzi di Franco Bricola9 che ha
speso molta parte del suo grande impegno nel tentativo di una
rivisitazione-rifondazione del sistema penale in una prospettiva di
rispetto dei valori costituzionali, nel tentativo cioè di rimodellamento del
diritto penale secondo le norme fondanti dell’ordinamento, non intese
come semplici parametri di indirizzo per il legislatore, ma come veri e
propri vincoli all’attività legislativa, sostanzialmente limitata nei suoi
contenuti e modalità, a pena, secondo l’autore, di illegittimità
costituzionale della stessa.
Prima di vedere come la suddetta operazione di “aggancio costituzionale”
sia stata portata avanti dal Bricola e da altri giuristi, va perÒ chiarito un
possibile equivoco, anche se forse solamente terminologico.
Quello che si vuol evidenziare è la differenza sussistente tra il principio
di materialità e quello di offensività, che spesso si trovano
indifferentemente citati.
9 Bricola, Teoria generale del reato, in Nov.Dig.it., Torino, 1973, vol.19, pg7 ss.; Legalità e crisi: art.25 Cost.
commi 2 e 3 rivisitati alla fine degli anni ’70, in Questione Criminale, 1980, pg204 ss.
25
Il principio di materialità dell’illecito penale ha anch’esso fondamento
costituzionale e si pone come antecedente logico a quello di lesività, ma
non vi coincide, ne lo esaurisce.
È opinione ormai condivisa da gran parte della dottrina che con il sancire
che nessuno possa essere punito “se non per un fatto commesso”(art.25
Cost.), la Costituzione abbia fondato il sistema penale sul principio di
materialità, consentendo solo l’incriminazione di fatti materiali.
Questo principio però, pur costituendo una “garanzia contro la
possibilità di incriminazione per meri atteggiamenti interiori non
estrinsecatisi nel mondo esteriore e dunque non suscettibili di percezione
sensoria in quanto dotati di propria oggettiva corporeità”10 viene ad essere
svuotato della sua più piena forza garantista se non trova ulteriore
compimento nella formulazione del principio di offensività.
Per chiarire meglio tale problematica, è opportuno rifarsi ad un autore
particolarmente attento alle tematiche costituzionali del diritto penale:
Enzo Musco.
Questi così centra il cuore della questione: “la commissione di un fatto
quale condizione per poter essere sottoposti a pena, si ridurrebbe a ben
poca cosa se non si riuscisse a dimostrare che l’espressione “fatto” non
10
Mantovani, Il principio di offensività del reato nella Costituzione, in Scritti in onore di Mortati, Milano,
1977.
26
possiede il significato limitato di mero indice dell’atteggiamento interiore
del soggetto o della sua pericolosità, bensì il ben più pregnante
significato di fatto offensivo di un bene: un significato che, tra l’altro, sul
piano della colpevolezza, implica che potrebbe essere giustificata
esclusivamente una colpevolezza per il “fatto singolo”, il quale da solo
deve pure determinarne la misura. In termini ancora più chiari: poiché il
rimprovero espresso dal giudizio di colpevolezza contiene - e questo è
indiscutibile - il riferimento a un aspetto caratteriale, l’accontentarsi
semplicemente della commissione di un “fatto” farebbe presto
riacquistare al richiamo caratteriale crescente significato, di guisa che il
“fatto” acquisterebbe la sua dimensione come mero sintomo della
personalità del soggetto e sarebbe facilmente collocabile nell’ottica della
pericolosità che l’autore, quale potenziale violatore dell’ordinamento,
manifesta per la comunità sociale.
Il che comporterebbe che la tipizzazione per “fatti” del diritto penale
potrebbe in realtà risolversi - nonostante la presenza dell’art.25 comma 2
Cost .- in una tipizzazione per autori in cui la forma di vita di un
soggetto, contraria al diritto e rilevata sintomaticamente in un fatto,
determina la sua punibilità e la sua colpevolezza.
Al contrario, se un fatto rileva come espressione della violazione di un
bene giuridico, allora la colpevolezza non solo non assume il ruolo di
27
elemento determinante il contenuto dell’illecito, ma, sganciata pure dal
riferimento alla personalità dell’autore, trova la sua misura nel disvalore
del singolo fatto concreto”11
.
Risulta quindi chiaro che il solo principio di materialità non garantisce
quanto quello di offensività, potendosi punire fatti inoffensivi (come il
pregare ad alta voce o il guidare senza cintura di sicurezza) nel pieno
rispetto di tale primo principio, ma non certo del secondo.
Essendo il principio di offensività ben più ampio (in senso garantista) di
quello di materialità, ci si è voluti quindi premunire contro ambiguità
letterali che possono nascondere errori concettuali.
Sgomberato il campo da questo possibile equivoco, si passa ora a meglio
determinare il significato e la funzione del principio di offensività, e in
ultimo, a cercarne le fondamenta costituzionali.
Secondo tale principio il reato deve sostanziarsi nell’offesa di un bene
giuridico, non essendo concepibile un reato senza offesa (nullum crimen
sine iniuria). Ciò significa che è la concreta offesa al bene giuridico
tutelato la misura dell’esistenza dell’illecito penale.
La funzione liberal-garantista di detto principio è di tutta evidenza:
nessuno può essere punito se la sua condotta non lede o mette in pericolo
11
Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, pg118.
28
il bene protetto dalla norma. Questa concezione dell’illecito penale
propria, nel suo contenuto minimo, della cultura giuridica di tutti gli stati
liberal-democratici, si contrappone a quella della Scuola Positiva che, alla
fine dell’Ottocento, ideò un modello di reato di tipo soggettivistico-
sintomatico, dove la violazione della norma incriminatrice è innanzitutto
sintomo di pericolosità individuale, ed il reo, piuttosto che il fatto di
reato, è il vero oggetto dell’interesse penale. Tale ultima concezione si
realizzò nell’ordinamento della Germania Nazista, dove il reato venne
identificato nella violazione del dovere di ubbidienza del cittadino allo
Stato, cosa che invece non accadde in Italia, dove il codice Rocco, pur
risentendo l’influenza di un certo clima culturale, realizzò un modello di
reato fondato sulla commissione di un fatto concepito come offesa ad un
bene12 (anche se tale bene verrà spesso contenutizzato in modo da far
scemare fortemente la capacità garantista del principio, che, come
vedremo meglio in seguito, si realizza pienamente solo se coordinato ad
una particolare individuazione dei beni tutelabili dalla norma penale).
Nel dopoguerra il dibattito sulla offensività del reato si imperniò
soprattutto sulla ricerca di una norma di carattere generale che, in via
interpretativa, potesse dotare ogni fattispecie incriminatrice di un
12
In tal senso, fra tutti: Ramacci, Corso di diritto penale, vol.1, Torino, 1991; Angioni, Contenuto e funzione
del concetto di bene giuridico, Milano, 1983.
29
ulteriore requisito, e cioè quello della concreta offesa del bene tutelato,
nel tentativo di trovare una soluzione giuridica alla esigenza culturale di
“evitare che norme incriminatrici generali ed astratte finiscano per essere
applicate anche a condotte che, nell’apparente conformità al modello
legale di un reato, tuttavia non abbiano il carattere di una aggressione
penalmente rilevante al bene tutelato”13
.
Un principio normativo adatto a tale scopo sembra già essere contenuto
nel codice Rocco, e precisamente nell’art.49 comma 2. L’articolo,
statuendo infatti la regola della necessaria idoneità dell’azione alla
realizzazione dell’evento dannoso o pericoloso ai fini della punibilità
della stessa, conterrebbe il principio di lesività.14
Però, “I persistenti contrasti nell’interpretazione dell’articolo pongono
comunque il problema di una più appropriata collocazione e
formulazione del principio. La lettura dell’art.49 finisce per dipendere
essenzialmente dalla concezione dell’evento a cui si richiama: con la
conseguenza che, essendo oggi prevalente in dottrina nella lettura di
questo articolo la nozione di evento in senso materiale, la figura del reato
impossibile (così come anche la categoria concettuale degli atti inidonei
13
Fiore, Principio di tipicità e concezione realistica del reato, in Problemi generali di diritto penale:
contributo alla riforma, Milano, 1982, pg58.
14 Sul punto: Neppi Modona, Il reato impossibile, Milano, 1965.
30
dell’art.56, a cui qualche autore si rifà per dimostrare la positività del
principio in questione) viene interpretata in chiave di causalità materiale.
Ma la casistica di reati più significativa in argomento è senza dubbio
costituita dalle ipotesi in cui non si pongono questioni di causalità
materiale!”15
Comunque il problema non è semplicemente risolvibile né in via
interpretativa, cioè sostituendo alla nozione di evento materiale quella di
evento giuridico nell’interpretazione dell’art.49, né riformando l’art.1 del
c.p. esplicitandovi con massima chiarezza il principio (nella Conferenza
dei docenti di diritto penale, tenutasi a Napoli il 15-16 luglio 1979, fu
proposto di modificare l’art.1 del c.p. come segue: ”Nessuno può essere
punito per un fatto che non sia previsto come reato dalla legge e che non
sia conforme al tipo di condotta descritto dalla norma incriminatrice. È
conforme al tipo solo la condotta che lede o mette in pericolo il bene
protetto dalla norma con la minaccia della pena”).
Infatti ”è comunque incontestabile che il principio di offensività non si
attua semplicemente inserendo una disposizione generale (e tanto meno
adottando una particolare interpretazione dell’art.49, N.d.R.) che sancisca
espressamente la non punibilità del fatto non offensivo dell’interesse
15
Fiore, Principio di tipicità e concezione realistica del reato, in Problemi generali di diritto penale,
Milano,1982, pg59.
31
protetto dalla norma. Essa infatti non indica gli interessi specificatamente
tutelati dalle singole norme; né può munire di un oggetto giuridico e di
una offesa la serie di reati senza offesa o di puro scopo. Sicché in questi
casi o si finisce per far coincidere l’offesa con la fattispecie legale,
svuotando il principio di lesività, oppure la si ricerca fuori dalla norma
violando il principio di legalità”16
. Quest’ultima preoccupazione bene è
espressa dal Nuvolone, timoroso che si giunga attraverso una lettura
“eccessiva” dell’art.49 comma 2 ad introdurre nel sistema penale un
parametro variabile ed esterno rispetto alla fattispecie tipica che ne possa
condizionare in concreto la portata applicativa, concretizzando così il
rischio che il principio di legalità e la certezza del diritto non risultino più
ancorati alla legge, ma a valori sostanziali immanenti alla società e da
questa ricavabili dai giudici sulla scorta di criteri inevitabilmente
soggettivi e non verificabili.17
Entrambe le soluzioni hanno poi il “limite” di rendere il principio
applicabile solo in sede giurisdizionale, ma non come criterio limitativo
dell’area di intervento del legislatore penale.
Due quindi le strade rimaste percorribili: o una riforma della legislazione
penale di parte speciale in modo da attuare il principio di offensività nel
16
Mantovani, Il problema della offensività del reato nelle prospettive di riforma del codice penale, in
Problemi generali di diritto penale: contributo alla riforma, Milano, 1982, pg66.
32
rispetto di quello di legalità, e cioè tipizzando l’offesa, prevedendola
come elemento costitutivo della tipicità di ogni singolo reato (soluzione
massimamente auspicabile), oppure verificare la fondatezza
costituzionale del principio di offensività e “trarne le conseguenze” sulla
legislazione penale ordinaria.
La seconda strada è quella che qui interessa.
Per un tentativo di ricerca del principio di offensività nella Costituzione è
allora anzitutto opportuno rifarsi allo studio delle tesi in merito proposte
dal Bricola.
L’autore sostiene la avvenuta costituzionalizzazione del principio di
offensività principalmente attraverso la lettura degli art.25-27 Cost.
Sulla base dell’art.27 comma 3 Cost. che assegna una duplice funzione
alla pena, e dell’art.25 Cost. che legittima la distinzione tra pena in senso
stretto e misura di sicurezza, sarebbe possibile sostenere la
costituzionalizzazione del contenuto necessariamente lesivo dell’illecito
penale: “Per evitare che la pena assuma una funzione di mera
retribuzione (con repressione della pura disobbedienza) o di mera
rieducazione (con repressione di meri stati soggettivi o atteggiamenti
personali sintomatici di pericolosità e con conseguente invasione della
sfera di operatività propria delle misure di sicurezza), l’equilibrio delle
17
Nuvolone, Le leggi penali e la Costituzione, Milano, 1953.
33
due funzioni deve avvenire radicando l’incriminazione su di un fatto
offensivo (espressione comprensiva sia della lesione che della messa in
pericolo) dell’interesse tutelato.”18
Inoltre, altri argomenti di carattere sistematico vengono portati dal
Bricola a suffragio di tale tesi:
1) L’art.25 Cost. con la espressione “fatto” non può che intendere “fatto
lesivo di un bene”.
2) La incompatibilità del principio di libertà morale implicito nella
Costituzione con la concezione del reato come mera disubbidienza.
3) Il divieto di strumentalizzare l’uomo ai fini di politica criminale19,
che è il principio ispiratore dell’art.27 Cost., e che rafforza il principio
di necessaria lesività.
4) I principi di indubbio rilievo costituzionale quali sono quelli della
tolleranza ideologica, di tutela delle minoranze e di protezione della
persona, che non possono non essere in antitesi con una concezione
del reato che trascuri il momento della effettività della lesione
dell’interesse protetto.20
18
Bricola, Teoria generale del reato, in Nov.Dig.it., Torino, 1973, par.9, pg68 ss.
19 In argomento, in particolare: Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974; Spasari, Diritto
penale e Costituzione, Milano, 1966.
20 I punti 1)2)3)4) sono tratti da: Bricola, ult.op.cit., par.9.
34
Oltre al Bricola altri autori hanno fornito importanti contributi in
argomento, ma, per ragioni di brevità, riportiamo solo il pensiero di un
altro grande penalista, che ha scritto importanti considerazioni in merito:
Enzo Musco21.
L’autore, chiarisce la necessità e la legittimità di leggere la parola fatto
contenuta nell’art.25 Cost. come “fatto offensivo di beni giuridici”
fondando tale lettura (anche) sull’art.3 Cost.: “Il principio costituzionale
del rispetto della dignità umana (art.3 Cost.) giustifica solo un diritto
penale del fatto come diritto penale del bene: esso, infatti, vietando la
degradazione dell’uomo a mero oggetto, vieta al tempo stesso di
considerare il fatto come mero indizio sintomatico della personalità o
come mero indizio prognostico della pericolosità del soggetto. Il che
significa che il nesso tra soggetto e fatto non può esser visto che come
espressione di un giudizio sulla lesione del bene, che inerisce al fatto
medesimo. Il divieto di strumentalizzazione dell’uomo (art.3 Cost.)
implica che il rapporto tra soggetto e fatto si colori del significato che
appartiene al bene leso dal fatto.”22
(Musco aggancia il principio anche
all’art.27 Cost., ma, per ragioni sistematiche, rimandiamo tale trattazione
al paragrafo 2 di questo capitolo).
21
Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974.
22 Musco, ult.op.cit.
35
Comunque oggi la maggioranza della dottrina italiana, anche se non
uniforme sulla valutazione delle conseguenze pratiche della
costituzionalizzazione di tale principio, in ciò perfettamente seguita con
ambiguità ed incertezze dalla Corte Costituzionale,23 ritiene valido il
modello di reato come offesa di beni giuridici.
Quello su cui le posizioni sono ancora fortemente divise è la questione
(strettamente connessa a quella della offensività del reato) dei contenuti
delle norme incriminatrici, della selezione, vincolata o meno per il
legislatore, dei beni giuridici tutelabili da norme penali.
Come autorevolmente sostenuto in dottrina, “La possibilità di procedere
ad una verifica della concreta idoneità aggressiva della condotta
criminosa dipende anche dalla natura dello stesso bene oggetto di
protezione”24, e “La prova della pericolosità del fatto presuppone, per
essere attendibilmente addotta, che la fattispecie sia diretta alla tutela di
oggetti concretamente determinati, sicché caso per caso si possa stabilire
con certezza se essi sono stati effettivamente messi in pericolo.”25
23
C.Cost., sent.n. 62\1986, n.296\1996.
24 Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica criminale, in Riv.it., 1982,
pg79. In tal senso anche: Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983;
Palazzo, I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in Riv.it., 1992.
25 Vedere nota precedente.
36
Pur se necessarie per una visione di insieme della problematica della
offensività, le questioni del possibile contenuto dell’offesa e della natura
dei beni tutelati dalle norme penali verranno però per ragioni
sistematiche successivamente trattate.
1.3) IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI DETERMINATEZZA
(NULLUM CRIMEN SINE LEGE CERTA)
Altro principio di matrice liberale a finalità garantiste è quello che,
ancora rischiando confusioni terminologico-concettuali, è spesso
chiamato indifferentemente di determinatezza o tassatività della
fattispecie penale.
Sembra invece ancora una volta doveroso distinguere concettualmente tra
determinatezza e tassatività (i due principi devono concepirsi separati dal
punto di vista logico, essendo ipotizzabile un sistema in cui viga quello di
determinatezza ma sia al tempo stesso consentita l’analogia, e quindi
violato quello di tassatività), e per fare ciò si cita il Padovani, che con
molta chiarezza e semplicità spiega: “La determinatezza si proietta
all’interno della fattispecie, vincolandone il modo di formulazione
legislativa, mentre la tassatività costituisce lo sbarramento esterno della
fattispecie stessa, impedendo che essa possa essere riferita ad ipotesi non
ricomprese nella sua dimensione normativa astratta. La determinatezza
37
impone quindi al legislatore di procedere alla redazione di precetti penali
dal contenuto precisamente definito; la tassatività preclude al giudice di
estendere per analogia la loro applicazione.”26
I due principi pur avendo la stessa finalità garantista operano in modi
differenti.
Il principio di determinatezza impone al legislatore di formulare la
fattispecie in modo preciso ed univoco, così da permettere di individuare
con certezza la linea di confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è,
mentre quello di tassatività si rivolge al giudice, impedendogli di
estendere la fattispecie a casi non astrattamente rientranti nella norma
(divieto di analogia).
Entrambi costituiscono il completamento del principio di legalità nella
sua funzione garantista27, ma non possono in questo essere compresi.
Infatti, come scrive il Bricola, “La tendenza a riassorbire l’esigenza di
tassatività nella riserva di legge sotto l’ampia formula di “legalità” non è
un procedimento corretto in quanto confonde un problema di fonti in
senso tecnico, cui attiene la riserva, con un problema di formulazione
delle norme in modo tale da impedire, attraverso i varchi delle clausole
26
Padovani T., Diritto penale (Manuale di), seconda edizione, Milano, 19993, pg30.
27 In particolare, in argomento: Spasari, Diritto penale e Costituzione, 1966, pg25 ss.
38
generali, interventi del potere giudiziario.”28
L’esigenza specifica del
principio di determinatezza-tassatività è quella di contrastare possibili
arbitri del potere giudiziario, mentre la riserva di legge (principio di
legalità in senso stretto) intende impedire interferenze normative in
materia penale da parte del potere esecutivo.
Per concludere, il principio di tassatività obbliga il legislatore alla precisa
individuazione ed indicazione della linea di confine tra il lecito e
l’illecito nel precetto penale, così garantendo la possibilità-libertà di
scelta cosciente del rispetto o del non rispetto delle norme ai di queste
destinatari.
Precisato ciò, indicati per quanto qui possibile ed opportuno il contenuto
generale del principio e la sua funzione, si procede alla individuazione
delle norme costituzionali poste a suo fondamento.
Presupposto che l’art.1 c.p. “contenga” il principio di determinatezza
prevedendo che “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia
espressamente preveduto dalla legge come reato” (così come l’art.14
disp.prel.c.c. dichiarando che “Le leggi penali e quelle che fanno
eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i
28
Bricola, Art.25 Cost. comma 2 e 3, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Artt.24-26
Cost.: Rapporti civili, Bologna-Roma, 1981, pg232.
39
tempi in esse considerati” fa con quello di tassatività)29, ci si è domandati
se tale principio fosse anche oggetto di previsione costituzionale e
dunque tale da limitare la libertà del legislatore nella creazione di norme
a pena di declaratoria di incostituzionalità delle stesse.
Inizialmente la dottrina ha tentato di trovare base costituzionale alla
esigenza di determinatezza attraverso la sola lettura dell’art.25 comma 2
Cost., richiamandosi alla ratio complessiva di tutela dell’articolo e alla
complementarietà ed inscindibilità del principio di determinatezza con
quello di legalità (questo di certo rango costituzionale). Questi argomenti
risultano però deboli sotto il profilo logico, essendo perfettamente
ipotizzabile la non contemporanea vigenza dei due principi, ed è dunque
mal riuscito il tentativo di lettura del principio nel solo art.25 Cost.
Successivamente a risultati migliori, tanto da essere oggi del tutto
condivisi in dottrina e giurisprudenza, è arrivata quella parte della
dottrina che ha tentato di costituzionalizzare il principio attraverso una
lettura integrata di più articoli della Costituzione.
Il primo passo verso tale direzione lo si è compiuto attraverso una
interpretazione collegata dell’art.25 Cost. e dell’art.13 Cost., nella parte
che così dispone: “non è ammessa alcuna forma di detenzione, di
ispezione o di perquisizione personale, né qualsiasi altra limitazione della
29
Interessante in argomento: Spasari, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, pg25 ss.
40
libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei
soli casi e modi descritti dalla legge”. Questa norma ha carattere
sicuramente processuale, riferendosi a misure cautelari disposte nel corso
di procedimenti penali, e con riguardo a queste misure, che sono per
definizione funzionalmente coordinate alla decisione processuale
definitiva, espressamente salvaguarda il principio di riserva di legge e di
determinatezza della fattispecie. Da ciò si può validamente argomentare
che sarebbe assurdo ritenere la determinatezza tutelata in sede cautelare e
non in sede definitiva, nella costruzione della fattispecie incriminatrice.
Inoltre, essendo le misure cautelari adottabili solo ove sussista un fondato
motivo di ritenere commesso un fatto di reato da accertarsi in relazione
alla fattispecie normativa, o si estende la vigenza del principio di
determinatezza anche al momento della normogenesi o inevitabilmente lo
si frustra anche in fase cautelare.30
Altro articolo correlato all’art.25 Cost. è l’art.112 Cost.
Questo prevedendo che “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare
l’azione penale” risulterebbe molto indebolito da un sistema non
conforme al principio di determinatezza; infatti norme vaghe e dai
30
In argomento, fra tutti: Bricola, Teoria generale del reato, in Nov.Dig.it., Torino, 1973, vol.19, par.5;
Bricola, Art.25 comma 2 e 3, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Artt.24-26 Cost.:
Rapporti civili, Bologna-Roma, 1981, pg257 ss. Sul punto anche: Spasari, Diritto penale e Costituzione,
Milano, 1966, pg29-30; Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, pg112 ss.
41
contenuti indeterminati non costituirebbero valido metro di verifica
dell’adempimento di tale obbligo.31
IL diritto di difesa costituzionalmente garantito (art.24 comma 2 Cost.:
”La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”)
risulterebbe anch’esso non efficacemente attuato se non in correlazione
con quello di determinatezza, esigendo il primo che all’imputato siano
contestati in modo preciso sia i fatti sia la norma violata, ed essendo ciò
possibile solo se questa è formulata nel rispetto del secondo.32
Infine anche il principio di colpevolezza (art.27 Cost.) si realizza
integralmente solo se affiancato a quello di determinatezza,
presupponendo il primo la esigenza di conoscibilità (in senso lato) della
norma penale pienamente realizzabile solo da norme non equivoche ed
indeterminate, e cioè strutturate secondo il principio di determinatezza.33
Quale sia la strada preferita per “leggere nella Costituzione” il principio
di determinatezza, questo è oggi ritenuto di rango costituzionale e dalla
dottrina dominante e dalla giurisprudenza costituzionale, anche se la sua
pratica applicazione da parte della Corte Costituzionale è troppo spesso
incerta ed ambigua.34
31
Bricola, ult.op.cit.
32 Bricola, ult.op.cit.
33 Bricola, ult.op.cit.
34 Una tra tutte: C.Cost., sent.n.191\1970 (riguardo gli art.527-528 c.p.).
42
1.4) IL PRINCIPIO COSTITUZIONALE DI COLPEVOLEZZA
(NULLUM CRIMEN SINE CULPA)
La dottrina e la giurisprudenza hanno da sempre molto spesso usato il
termine colpevolezza in una accezione del tutto aspecifica e generica, a
significare di volta in volta l’elemento soggettivo del reato, la presenza di
dolo o di colpa, la imputabilità, la suitas della condotta (etc.).
Questo uso ambiguo del termine nasconde la grande complessità
dell’argomento a cui il vocabolo si riferisce; il tema della colpevolezza è
infatti al tempo stesso influenzato da e influente su una pluralità di
importanti questioni dogmatiche che tutte in qualche modo vi si
incontrano ed intrecciano.
Del principio la dottrina ha formulato diverse costruzioni e la
giurisprudenza indicato varie possibilità interpretative, ma di queste noi
qui non ci interesseremo, così come non tratteremo delle sue origini
storiche e della sua più recente evoluzione.
La notevolissima complessità dell’argomento in questione ci impone
infatti di restringere il più possibile il campo di indagine, che sarà quindi
limitato al parziale commento della sentenza n.364\1988 della Corte
Costituzionale, esclusivamente per quanto ci interessa ai fini dell’art.15.
43
La sent.364\88 è spesso stata definita “storica”, perchè momento di
riconoscimento del principio di colpevolezza da parte della Corte
Costituzionale, principio invece fino ad allora soprattutto approfondito a
livello dottrinale35
e solo parzialmente assimilato dalla Corte.
Nella motivazione la Corte anzitutto spiega come il termine viene preso
in considerazione “fuori dalla sistematica degli elementi del reato”, e che
invece lo è come “principio costituzionale, garantista, in base al quale si
pone un limite alla discrezionalità del legislatore ordinario
nell’incriminazione di fatti penalmente sanzionabili, nel senso che
vengono costituzionalmente indicati i necessari requisiti minimi
d’imputazione senza la previsione dei quali il fatto non può
legittimamente essere sottoposto a pena.”36
Il principio viene fondato sulla lettura integrata di più articoli della
Costituzione (art.27 comma 1 e 3, art.2, art.3, art.25 e art.73 comma3),
ma espressamente viene precisato che anche se “l’integrale contenuto
dell’art.27 Cost. deve essere svelato anche in base alla sua interpretazione
sistematica, ciò nulla toglie od aggiunge al contenuto stesso”37
, chiarendo
35
Fra tutti: Bricola, voce Teoria generale del reato, par.8, pg51 ss., in Nss.Dig.it., vol.19, Torino, 1973;
Pulitanò, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, pg123 ss. Fra gli altri, in particolare: Spasari,
Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, pg53 ss.; Bettiol, Diritto penale, Padova, 1982, pg36 ss.
36 C.Cost., sent.364\1988, in Riv.it.dir.e proc.pen, 1988, pg698.
37 C.Cost., sent.364\88, pg718.
44
in questo modo come il principio possa ben essere individuato non nel
generico riferimento allo spirito della Costituzione, ma in relazione ad
uno specifica norma costituzionale contenuta in un ben determinato
articolo.
Così poi la Corte legge l’art.27 Cost.: “L’art.27 Cost. non può essere
adeguatamente compreso ove lo si legga in maniera, per così dire,
spezzettata, senza collegamenti “interni”. I commi primo e terzo vanno
letti in stretto collegamento: essi, infatti, pur enunciando distinti principi,
costituiscono un’unitaria presa di posizione in relazione ai requisiti
subiettivi minimi che il reato deve possedere perchè abbiano significato
gli scopi di politica criminale enunciati, particolarmente nel terzo
comma. Delle due l’una: o il primo è in palese contraddizione con il terzo
comma dell’art.27 Cost. oppure è, appunto, questo ultimo comma che
svela, ove ve ne fosse bisogno, l’esatto significato e la precisa portata che
il principio della personalità della responsabilità penale assume nella
Costituzione. Sicché, quand’anche la lettura del primo comma dell’art.27
Cost. desse luogo a dubbi interpretativi, essi sarebbero certamente fugati
da un’attenta considerazione delle finalità della pena, di cui al terzo
comma dello stesso articolo.”38
38
C.Cost., sent.364\88, pg700.
45
La Corte inequivocabilmente dà così fondamento costituzionale al
principio di colpevolezza, e ne individua poi due dei possibili “aspetti”,
indicandoli come “requisiti costituzionali minimi di imputazione
soggettiva”: 1) “L’art.27 Cost. postula almeno la colpa dell’agente in
relazione agli elementi più significativi della fattispecie
tipica”39
(Condizioni relative al rapporto soggetto-fatto); 2) “L’oggettiva
impossibilità di conoscenza del precetto nella quale venga a trovarsi
chiunque, non può gravare sul cittadino e costituisce, dunque, un altro
limite della personale responsabilità penale.”40
(Principio di
riconoscibilità del precetto).
La Corte quindi espressamente afferma il Principio di riconoscibilità,
secondo il quale “in tanto i cittadini sono obbligati a osservare le leggi
penali, in quanto lo Stato adempia preventivamente il suo dovere di
formulare le fattispecie incriminatrici in maniera così chiara e precisa da
rendere riconoscibile il contenuto dei doveri e dei comandi penalmente
sanzionati.”41
Insomma, “la possibilità di conoscere la norma penale costituisce
autonomo requisito della colpevolezza con riferimento a ogni fattispecie
39
C.Cost., sent.364\88, pg706.
40 C.Cost., sent.364\88, pg715.
41 Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza della legge penale: “prima lettura” della sentenza
n.364\88, in Foro it., 1988, 1, pg1390.
46
penale”42
, ed essendo “La colpevolezza consapevole abuso di libertà”43,
tale “possibilità-libertà” diviene parametro di legittimità costituzionale
della norme penali.
Tra i criteri di individuazione della inevitabilità dell’ignoranza della
legge penale (altra faccia del criterio di riconoscibilità) viene
espressamente menzionato dalla sentenza “la mancanza di riconoscibilità
della disposizione normativa (ad es. assoluta oscurità del testo
legislativo)”44
, e, come vedremo nel secondo e nel terzo capitolo, la
inafferrabilità dei beni tutelati dall’art.15 e l’uso che l’articolo fa dei
termini “impressionante” e “raccapricciante” sembrano ragioni sufficienti
perchè di tale mancanza di riconoscibilità si possa parlare.
1.5) CONCLUSIONI
Per quanto brevemente accennato in questo paragrafo, i principi di
offensività, determinatezza, e colpevolezza devono essere considerati
principi cardine del sistema penale italiano, beni-valori a fondamento
costituzionale strumentali alla tutela della libertà e della dignità della
persona, il cui sacrificio (o in prospettiva inversa, grado di
42
Fiandaca, ult.op.cit., pg1390.
43 Spasari, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, pg71.
47
massimizzazione) deve essere valutato in base a parametri costituzionali
di comparazione di interessi.
PAR.2: TEMATICA DEL BENE GIURIDICO E SUA
FUNZIONE LIBERAL-GARANTISTA
Quando agli inizi del diciannovesimo secolo Anselmo Feuerbach propose
la definizione di reato come “violazione di un diritto soggettivo”, il suo
intento fu quello di delimitare concettualmente l’area di possibile
intervento del diritto penale, di trovare un valido parametro limitativo
all’utilizzo di norme privative di un bene fondamentale quale è la libertà
personale.
Qualche anno più tardi il Birnbaum definì il reato come “violazione di un
bene pre-esistente alla norma penale”; insomma la tematica del bene
giuridico come limite al potere punitivo dello Stato attraverso l’uso
indiscriminato degli strumenti penali stava cominciando a prendere
forma, si stavano cioè lentamente cercando gli strumenti giuridici per
tradurre negli ordinamenti giuridici quelle idee liberal-illuministe che in
campo politico si erano andate diffondendo in Europa.
44
C.Cost., sent.364\88, pg.728.
48
Altri grandi pensatori come Carrara e Von Liszt tentarono di individuare
e definire il concetto di bene giuridico e di esaltarne la “funzione critica”,
cioè di limite alla potestà punitiva statale.
Tutte le diverse concettualizzazioni del bene giuridico presentavano però
lo stesso difetto: in primo luogo, la pre-esistenza del bene giuridico era
intesa o in modo strettamente material-naturalistico (cioè bene come
entità materiale e concreta, naturalisticamente violabile), e quindi
inadeguata perchè troppo limitativa del concetto di bene tutelabile, o in
senso talmente vago ed indefinito da risultare inutilizzabile, ed in
secondo luogo il bene giuridico era una entità metapositiva, e dunque non
vincolante per il legislatore a livello normativo.
Successivamente il concetto di bene giuridico perse la sua aspirazione
garantista, prima appiattito sulla ratio della norma secondo le concezioni
di Arturo Rocco e di Schwinge, per poi “sparire di scena” quando nelle
teorizzazioni dei giuristi dell’indirizzo di Kiel il reato venne definito
come mera violazione di un obbligo di fedeltà verso lo Stato.
Più di recente, intorno agli anni settanta, si è assistito ad una
rivalutazione del concetto di bene giuridico che, cominciata in Germania
49
sulla questione dei reati contro la morale e la religione, è stata recepita
anche in Italia e proseguita in modo autonomo.45
Il concetto di bene giuridico nella sua funzione critica (cioè di limite al
potere, e dunque in quella che si può anche definire funzione liberale,
essendo il Liberalismo definito da uno dei suoi più grandi esponenti, Karl
R. Popper, come la “Dottrina dei limiti al potere”46) scopre forza e
possibilità di immediata applicazione quando, non agganciandosi più a
concetti metapositivi e di Diritto Naturale, trova un punto di appoggio
nella Costituzione, norma suprema e vincolante per lo stesso legislatore.
Quello che ci si accinge ora ad intraprendere è dunque lo studio dei
rapporti tra la Costituzione e politica legislativa dei beni giuridici, ed in
particolare il problema del se il legislatore trovi nella Grundnorm, nella
serie di beni in essa compresi, la cornice entro la quale selezionare i beni
meritevoli e bisognosi di tutela penale (la questione dei divieti
costituzionali di incriminazione in relazione ai diritti di libertà
costituzionalmente garantiti verrà affrontata nel prossimo capitolo,
mentre quella degli obblighi costituzionali di incriminazione non verrà
trattata perchè non strettamente pertinente).
45
Sull’argomento, tra tutti: Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983;
Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974; Ramacci, Corso di diritto penale, vol.1, Torino,
1991.
46 Popper, Cattiva maestra televisione, Ed. Reset, 1994.
50
A tale proposito è indispensabile rifarsi alle teorie del Bricola, perchè è
principalmente attorno a queste che il dibattito si è andato sviluppando.
Secondo Bricola: “L’art.13 Cost. attribuisce un valore del tutto
preminente alla libertà personale e dal quale si ricava che la sanzione
penale (tipicamente restrittiva di quel bene) può essere adottata soltanto
in violazione di un bene il quale se non di pari grado rispetto al valore
(libertà personale) sacrificato, sia almeno dotato di rilevanza
costituzionale.”47 “La locuzione rilevanza costituzionale non significa
soltanto non antiteticità del bene rispetto alla Costituzione, bensì
assunzione del medesimo tra i valori esplicitamente o implicitamente
garantiti dalla Costituzione. Da queste premesse discendono alcune
conseguenze di rilievo. Anzitutto la definizione di reato come fatto lesivo
di un valore significativo a livello costituzionale e la cui significatività
deve riflettersi sulla misura della pena. In secondo luogo la norma penale
non può mai creare interessi, ma può solo ritagliare e specificare, senza
snaturarli, i valori già previsti dalla Costituzione. In terzo luogo,
consegue dall’assunto la necessaria dichiarazione di illegittimità da parte
della Corte Costituzionale di quelle norme penali che tutelano valori
diversi da quelli sopra indicati ovvero la depenalizzazione in via
47
Bricola, Art.25 Cost. comma2 e 3, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Artt.24-26
Cost.: Rapporti civili, Bologna-Roma, 1981, pg272-273.
51
legislativa delle relative fattispecie criminose. In quarto luogo ne deriva
un dovere per il legislatore di scegliere il tipo di pena e di graduarne la
misura in rapporto al grado di importanza dei valori tutelati secondo una
gerarchia desumibile, anche se non sempre agevolmente, dalla
Costituzione.”48
(Principio di proporzionatezza dell’an e del quantum,
N.d.R.).
Tale teoria è stata poi validamente “integrata” dalle riflessioni di Enzo
Musco: “La Costituzione assume per il problema penale la decisiva
funzione di indicare i valori che possono essere protetti con minaccia di
pena. Ciononostante, la tesi (del Bricola, N.d.R.) non ci sembra sia in
grado di dare la risposta definitiva al nostro quesito iniziale (quali siano i
criteri di selezione dei beni tutelabili N.d.R.) e rimane anch’essa, pur se
in un diverso senso, nel vago. Nessuna indicazione ci viene infatti fornita
sulla natura, sul carattere, sul “volto” del bene giuridico da proteggere
penalmente. Tale ulteriore passaggio ci sembra invece assolutamente
indispensabile: in primo luogo, perchè la Costituzione non contiene un
catalogo di beni di pari rango; ed in secondo luogo, perchè occorre
individuare tra le scelte fondamentali relative ai problemi di
organizzazione della struttura sociale contenute nella Costituzione, quelle
che meritano di essere tutelate penalmente. Più chiaramente: la
48
Bricola, ult.op.cit., pg274.
52
“significatività” del valore costituzionale (a cui accenna Bricola, N.d.R.)
non è sufficiente a dare un contenuto, un positivo criterio discretivo tra
ciò che è meritevole di pena e ciò che non lo è, poiché non riesce a
delineare i contorni del bene giuridico.” 49
Quello che Musco cerca nella Costituzione è “un principio costituzionale
dal quale possano dedursi i contenuti tipici dell’illecito penale e di
conseguenza i limiti di legittimità dell’intervento del legislatore in
materia penale.”50
Così l’autore individua tale criterio: “La nostra Costituzione ha formulato
un tale principio quando, prendendo posizione sulla funzione della pena
(art.27 comma 3 Cost.), ha dichiarato che “le pene (...) devono tendere
alla rieducazione del condannato.” Proprio da tale disposizione si
ricavano le necessarie indicazioni che consentono di ricavare il contenuto
del bene giuridico, evitando che il ricorso alla Costituzione, a causa della
polivalenza di contenuto delle singole disposizioni costituzionali, a volte
vere e proprie clausole generali, si risolva nel nulla.”51
“Il collegamento con la funzione della pena lascia emergere una
indicazione sull’identità del bene giuridico. Se la pena deve risocializzare
(o per usare il linguaggio legislativo: rieducare) e se la rieducazione deve
49
Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, pg123.
50 Musco E., ult.op.cit, pg124.
53
mutuare il suo contenuto dal tipo di ordinamento in cui è inserita, in una
società pluralistica così come delineata dalla Costituzione, essa ha senso
in quanto assuma a suo oggetto il rispetto delle forme minime della vita
in comune. Ciò presuppone che gli eventuali destinatari della
risocializzazione possano intendere facilmente i valori che costituiscano
per “tutti” le condizioni minime di esistenza in comune, perchè altrimenti
non potrebbe essere pretesa una loro acquisizione di valori in caso di
trasgressione: l’art.27 comma 3 Cost. pone allora al legislatore ordinario
penale un primo limite nella necessità che sia arrecato un pregiudizio, un
danno alle condizioni essenziali della vita in comune. Risulta così
confermato che non tutti i valori contenuti nella Costituzione possono
aspirare ad essere considerati quali beni giuridici e a divenire l’oggetto di
una fattispecie penale: ne consegue che è costituzionalmente conforme
solo quella previsione di reato posta a tutela di valori, la cui funzione
consiste nel proteggere le condizioni minime della vita in comune e la cui
violazione può dunque essere tradotta in termini di dannosità sociale.
Accanto a questa prima, importante indicazione, l’art.27 comma 3 Cost.
lascia emergere un secondo limite ed una seconda indicazione sulla
struttura del bene giuridico: la funzione di risocializzazione non postula
affatto l’idea che i beni siano percepibili con i sensi, ma pretende invece
51
Musco, ult.op.cit., pg125.
54
che abbiano contorni concettuali definiti ed afferrabili, esige cioè che
siano chiaramente percepibili con l’intelletto e che non sfumino
concettualmente: come ad esempio nel caso del sentimento religioso o
della sensibilità morale della collettività. Se la pena deve risocializzare,
essa può svolgere effettivamente la sua funzione ed essere legittimamente
applicata solo quando sia chiaro ed evidente il valore leso preso di mira
dal comportamento del soggetto.”52
Quindi così Musco conclude: “Beni giuridici possibili oggetti di
protezione penale sono quei valori concettualmente afferrabili, di diretta
o mediata provenienza costituzionale, che servono ad assicurare le
condizioni essenziali della vita in comune.”53
Queste tesi non sono però state però pienamente accolte né dalla Corte
Costituzionale né dalla dottrina prevalente.
La Corte, come sottolinea lo stesso Bricola, si è sempre “astenuta dal
sindacare, salvo il limite della incompatibilità, l’oggetto prescelto di
tutela”54
, ed ha affermato che “la Costituzione ha sì posto il principio
della più stretta riserva di legge in materia penale, ma in nessun modo ha
vincolato il legislatore al perseguimento di specifici interessi”55
, e la
52
Musco, ult.op.cit., pg126-127.
53 Musco, ult.op.cit., pg130.
54 Bricola, ult.op.cit., pg282.
55 C.Cost., 5 giugno 1978, n.71, in Giur.cost., 1978, 1, pg602.
55
dottrina ha contestato l’idoneità dell’art.13 Cost. ad imporre limiti alla
discrezionalità del legislatore56
, attaccato la tesi di Musco sulle “forme
minime di vita in comune” accusandola di essere affetta dal vizio logico
della petitio principii57
, e dichiarato la impossibilità di distinzione tra
beni impliciti e non, e tra beni di primo e secondo piano58
, concludendo
quindi per la non limitazione del legislatore nella selezione dei beni
tutelati da norme penali.59
La soluzione minima oggi prevalente in dottrina e in giurisprudenza
costituzionale prevede insomma che solo le norme penali poste a presidio
di beni incompatibili con la Costituzione possano essere dichiarate
illegittime costituzionalmente, e che il legislatore ordinario non sia
altrimenti vincolato dalla Costituzione nella scelta dei beni tutelabili
penalmente.
La soluzione minima ha le sue più fondate ragioni nella effettiva
difficoltà di individuare nella Costituzione parametri certi di inclusione-
56
Pagliaro, Manuale, ult. ed., pg225.; Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di
politica criminale, in Riv.it., 1982, pg49 ss.
57 Fiandaca, ult.op.cit., pg56-57.
58 Vedere nota successiva.
59 In tal senso, Marinucci e Dolcini, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Riv.it., 1994; Nuvolone, La
problematica penale della Costituzione, in Scritti in onore di Mortati; Mantovani, Manuale, ult.ed.; Fiandaca
e Musco, Manuale, ult.ed.; Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica
criminale, in Riv.it., 1982; Pagliaro, Manuale, ult.ed.
56
esclusione e di gerarchia dei valori, ma quello che è interessante per noi
sottolineare è che il principio-criterio della afferrabilità non è “affetto da
tali problemi”, e sembra quindi adatto a costituire un valido criterio
selettivo di costituzionalità di beni penalmente tutelabili, criterio di
portata molto più limitata rispetto a quei criteri selettivi ricercati dagli
autori60
più interessati alla soluzione massima, oggi solo accettati quali
modelli di orientamento di politica criminale.61
Il criterio di afferrabilità non pretende di fornire un “parametro assoluto”
di inclusione-esclusione di beni costituzionalmente tutelabili (cosa a cui
invece aspirano, ad esempio, il criterio di significatività (Bricola) e il
criterio delle condizioni essenziali della vita in comune (Musco)), ma
indica solo un possibile parametro di esclusione, ed è proprio questa sua
più limitata prospettiva a renderlo “concretamente utilizzabile”.
Come meglio vedremo in seguito, la relazione tra il criterio di
afferrabilità e principi di determinatezza, offensività e colpevolezza, e la
possibilità di una sua certa “individuazione” in specifici articoli della
Costituzione (art.25 comma 2 e art.27), fanno di tale criterio un possibile
valido parametro di legittimità costituzionale delle norme penali.62
60
Bricola, Teoria generale del reato, in Nov.Dig.it., vol.19, pg68 ss., (par.9).
61 Ci si riferisce in particolare alla Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 19 dicembre
1983, relativa ai criteri di scelta tra sanzione penale ed amministrativa.
62 In tal senso: Manna, Beni della personalità e limiti alla protezione penale, Padova, 1989, pg86 ss.
57
PAR.3: COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE
3.1) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE: SUA
INDIVIDUABILITÀ
Il comune sentimento della morale è sicuramente uno dei tre beni
giuridici tutelati dall’art.15 della Legge sulla stampa; ma quale è la sua
definizione, e quale il suo contenuto?
Prima di tentare una definizione in positivo, è opportuno chiarire che
questo concetto non coincide con quello di buon costume contenuto
nell’art.21 Cost.
Il buon costume a cui si richiama il testo costituzionale è da intendersi,
secondo dottrina quasi unanime63, in senso penalistico, quale concetto
relativo esclusivamente alla sfera sessuale, e non in senso civilistico e
cioè comprensivo dei precetti della morale media. Il comune sentimento
della morale dell’art.15 è invece sicuramente più vicino alla accezione
del buon costume in senso civilistico che non a quella penalistica, e ciò lo
si ricava sia dal suo significato letterale sia dalla lettura degli atti della
63
Fra tutti: Fiandaca, Tutela del buon costume, Padova, 1984; Fois, Principi costituzionali e libera
manifestazione del pensiero, Milano, 1957.
58
Assemblea Costituente64 dai quali si evince un riferimento alla morale in
senso lato e non confinabile unicamente alla sfera della sessualità.
Quindi, semplicemente, il comune sentimento della morale non può
coincidere col buon costume proprio dell’art.21 Cost. perchè la moralità
comune è irriducibile alla sola moralità sessuale (per un ulteriore
approfondimento in merito, vedere al quarto paragrafo del capitolo 2).
Dando per scontato che il comune sentimento della morale non si deve
intendere come concetto immutabile, immanente ed astorico, ma che
l’unica prospettiva in cui ha senso discorrerne è quella storico-
relativistica (d’altronde la Corte Costituzionale ha più volte affermato
che simili concetti variano notevolmente secondo le condizioni storiche,
ambientali e di cultura65, e la dottrina e la giurisprudenza attribuiscono a
simili concetti detti elastici la funzione di organi respiratori del sistema),
la domanda che dobbiamo ora porci e se esiste un comune sentire morale
nella collettività in cui oggi viviamo.
La risposta a questa domanda non può che essere negativa e al tempo
stesso, in questa sede, sintetica. La società di oggi è da molti definita
come società della comunicazione (o società integrata o società globale,
etc.), luogo in cui le distanze spaziali e temporali, e dunque anche
64
Relazione della seduta di venerdì 16 gennaio 1948 della Assemblea costituente.
65 Una fra le molte: C.Cost., sent.n.191\70.
59
culturali, sono state abbattute dalla tecnologia. La società è sempre più
società multiculturale, e ciò implica la impossibilità di trovare un unico
comun denominatore del sentire morale tra i membri che la compongono.
Come scrive il Ceserani “Il fenomeno della frammentazione dei modelli è
il terreno su cui avviene la rottura tra la società del passato e quella
contemporanea. La nuova società non ha più, come quelle precedenti,
pochi e collaudati modelli che provengono dall’alto: ne ha invece una
galassia, che provengono da ogni direzione.”66
La società di oggi è ormai una società eterogenea, tale da rendere
impossibile definire in modo preciso ed univoco cosa sia in essa il
comune sentimento della morale.
Il Nuvolone, pur conscio della grande variabilità del concetto, ha
comunque tentato anni addietro di fornire una lettura capace di
delimitarne i confini; l’autore propone di intendere la morale comune
come quel “minimum etico dato da quel complesso di regole di vita e di
principi che stanno alla base dell’ordinamento giuridico positivo, con
particolare riferimento all’ordinamento penale.”67
Questa definizione non è però risolutiva del problema in questione:
Nuvolone non sembra infatti accorgersi della differenza tra il “definire”
66
Ceserini, Mondo medio, Milano, 1979
60
ed il “contenutizzare”. Egli non individua nessuna regola o principio
ricomprendibile nel minimum etico ed utile quindi a “riempirlo di
contenuto”, limitandosi a fornire una definizione più ristretta di comune
sentimento della morale ma non per questo più facilmente determinabile,
così lasciando sostanzialmente immutati i termini problematici della
questione.
D’altronde, che individuare il contenuto di questa espressione sia opera
“titanica”, è assolutamente intuitivo semplicemente considerando quanto
sia arduo dare soddisfacenti definizioni e contenuti alle parole
“sentimento”, “morale” e “comune”.
Il comune sentimento della morale è concetto comprensivo di altri tre
concetti di assoluta complessità e di tendenziale vaghezza, e di
conseguenza esso stesso risulta (oggi più che mai) non determinabile con
precisione e dai contorni necessariamente sfumati.
Come abbiamo già precedentemente visto e come ancora meglio
approfondiremo oltre, la non individuabilità concettuale di un bene, cioè
vale a dire la sua inafferrabilità, costituisce “impedimento” alla sua tutela
penale.
67
Nuvolone, I limiti della libertà di stampa nell’art.15 della legge 8 febbraio 1948 n.47, in Arch.pen., 1952,
pg556.
61
Proseguiremo però nello studio del comune sentimento della morale
cercando di addurre altre ragioni per dimostrare la inopportunità della sua
copertura penale, se non addirittura la illegittimità costituzionale della
stessa.
3.2) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE COME BENE
MORALE E SUA RILEVANZA COSTITUZIONALE
Andiamo ora ad affrontare la problematica dei rapporti tra il comune
sentimento della morale e la nostra “Carta fondamentale”.
Da una prima lettura della Costituzione è subito evidente che il comune
sentimento della morale. non è un bene espressamente ivi assunto come
tale.
Infatti la Carta non nomina mai la parola “morale” se non nell’art.13, in
cui però deve essere intesa nel significato di “sofferenza psicologica”; il
buon costume tutelato in Costituzione, come già dimostrato, non è
accomunabile al comune sentimento della morale; la tutela della famiglia
e dei suoi valori è “cosa” ben più ristretta e non coincidente con il
comune sentimento della morale dell’art.15.
Da ciò consegue che tale bene non può essere compreso tra quelli ad
espressa rilevanza costituzionale, essendo i tre anzidetti “punti” gli unici
62
possibili “appigli espliciti” del comune sentimento della morale alla
Costituzione, ed essendo dimostrata la loro invalidità argomentativa.
Chiarito ciò, la prima domanda a cui dar risposta è se il comune
sentimento della morale sia bene incompatibile con la Costituzione.
Il bene “in sé” non può ritenersi antitetico ai valori espressi dalla
Costituzione, perchè “in sé neutro”.
È però altrettanto compatibile la sua tutela penale con i valori e i principi
costituzionali? Posto che il comune sentimento della morale non è “in sé”
un “disvalore”, è allora automaticamente possibile riservargli la massima
tutela prevista dall’ordinamento, o la sua copertura penale si pone in
contrasto con l’assetto costituzionale?
Rispondere a queste domande significa in parte interrogarsi sul se sia
possibile tutelare penalmente il comune sentimento della morale in
quanto valore morale, o se ciò non contrasti con la Costituzione.
Tenteremo una analisi di questa tematica attraverso una attenta lettura del
testo costituzionale nella sua interezza e sistematicità.
I principi che escludono la tutelabilità “in sé” dei beni morali sono quelli
fondamentali ed inoppugnabili su cui si fonda l’ordinamento giuridico, e
precisamente68:
68
Fiandaca, ult.op.cit., pg86 ss.
63
1) principio democratico
2) principio della tolleranza ideologica
3) principio della tutela delle minoranze
4) principio di rieducazione
“Il principio democratico o di sovranità popolare fa apparire
inammissibile che la pena venga inflitta per imporre valori trascendenti:
questo infatti presuppone necessariamente l’idea che ciascun individuo
può egualmente concorrere alla formazione della volontà statale. Ma
questo riconoscimento presuppone a sua volta una immagine dell’uomo
come individuo “adulto”, moralmente e spiritualmente responsabile: se
questo è il Menschbild su cui poggia la Costituzione democratica, risulta
evidentemente priva di fondamento la pretesa che lo Stato possa
intervenire coercitivamente al fine di migliorare il livello morale dei
cittadini.”69
Il principio della tolleranza ideologica e quello della tutela delle
minoranze “escludono che la norma penale possa servire a difendere
mere concezioni morali, sia pur maggioritarie, in quanto, diversamente, le
minoranze non conformiste finirebbero con l’essere obbligate, sotto la
minaccia della pena, a non scegliere determinate posizioni di valore,
69
Fiandaca, Tutela del buon costume, Padova, 1984, pg94. Nello stesso senso Roxin, Sinn und Grenzen
staatlicher Strafe, in Strafrechtliche Grundlagenprobleme, Berlin, 1973 (tratto da Fiandaca, ult.op.cit.).
64
anche quando da ciò non derivi alcuna conseguenza socialmente
dannosa.” 70
Il principio di rieducazione che “impone non solo che l’oggetto della
tutela penale coincida con la salvaguardia delle forme minime di
convivenza in comune, ma anche che i beni protetti abbiano contorni
concettuali definiti e afferrabili, e non vaghi e fluttuanti”71
si pone
anch’esso in posizione di inconciliabilità con la salvaguardia penale dei
beni morali.
Oltre a questi principi “il rifiuto del moralismo giuridico, inteso come
tendenza a ravvisare nel diritto penale uno strumento atto a reprimere
l’immoralità in sé, consegue necessariamente all’approfondimento
concettuale dell’idea di Stato di diritto che la nostra Costituzione ha
pienamente accolto. Il presupposto teorico di tale operazione è fornito dal
contenuto politico dei principi costituzionali fondamentali, a cominciare
dal rilievo che la Costituzione accorda alla tutela della dignità umana.
L’ispirazione personalistica che caratterizza la nostra Carta fondamentale
sta, appunto, ad indicare che non l’uomo è in funzione dello Stato, ma
quest’ultimo in funzione dell’uomo, nel senso che suo fine è di assicurare
70
Fiandaca, ult.op.cit., pg87. Nello stesso senso Rudolphi, Die verschiedenen Aspekte des
Rechtsgutsbegriffs, in Fest. Fur Honig Gottingen, 1970; Bricola in Teoria generale del reato, in Nov.Dig.it.,
Torino, 1973, (tratto da Fiandaca, ult.op.cit.).
71 Fiandaca, ult.op.cit. In tal senso anche Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974.
65
lo svolgimento della persona umana. Il nesso Stato di diritto-esigenza del
rispetto della persona vieta la strumentalizzazione dell’individuo
inevitabilmente connessa all’imposizione di una morale fatta propria
dallo Stato. La punizione della mera immoralità contrasta con l’insieme
dei principi materiali che concorrono a formare il concetto dello Stato
prefigurato dalla Costituzione.” 72
Ed ancora: “...la ispirazione democratica della nostra Costituzione e in
particolare il carattere squisitamente liberale del Titolo Primo della Prima
Parte (...), in ordine al problema concernente la natura delle relazioni
intersubiettive e del tipo di rapporti instaurabili tra la libertà
dell’individuo e la autorità dell’apparato politico, muovendo dalla
implicita ma evidente premessa della esistenza dei diritti naturali di
libertà della persona umana, la garantisce dal pericolo di una
strumentalizzazione nei confronti dello Stato e ne riconosce
solennemente il valore primario anche nel campo del diritto penale”73.
Per quanto sopra detto, il comune sentimento della morale, in quanto
bene morale, non dovrebbe essere oggetto di previsione penale, perchè un
simile tipo di tutela per detto bene risulta incompatibile con i valori della
Costituzione.
72
Fiandaca, ult.op.cit., pg92-93.
73 Spasari, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, pg67.
66
Il comune sentimento della morale è dunque risultato finora non
penalmente sanzionabile in quanto bene inafferrabile e bene morale, due
“attributi” tra loro non coincidenti, e quindi tali da permettere che la
forza delle due argomentazioni che su di loro si basano sia distinta, e
quindi “cumulabile”.
Nonostante ciò, ignorando tali risultati, ignorando anche la questione
della possibile rilevanza implicita di tale bene nella Costituzione (che
potrebbe costituire un ulteriore criterio di selezione del comune
sentimento della morale come bene tutelabile), andremo nei prossimi
paragrafi a dimostrare che il comune sentimento della morale non è
possibile oggetto di normazione penale persino presupponendolo di
rilevanza costituzionale.
3.3) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE, AFFERRABILITÀ
E PRINCIPI DI OFFENSIVITÀ, DETERMINATEZZA E
COLPEVOLEZZA
Avendo precedentemente spiegato cosa si debba intendere per
afferrabilità e quale sia il fondamento costituzionale di tale criterio di
selezione dei beni penalmente sanzionabili, qui ci limiteremo a chiarire le
relazioni tra detto criterio e i principi di offensività, determinatezza e
colpevolezza, principi di accertata rilevanza costituzionale.
67
Quello che si vuole approfondire in questo paragrafo è la “fondazione
costituzionale” di tale criterio operata dal Musco74, nel senso di
considerare “tutti” i risultati costituzionalmente incompatibili derivanti
dalla violazione del criterio di afferrabilità.
Quello che si intende chiarire è che sussiste un rapporto di necessaria
implicazione tra la inafferrabilità di un bene e la violazione dei principi
costituzionali sopra menzionati da parte della norma che quel bene tutela,
e di conseguenza che la valenza del criterio di inafferrabilità è ancor più
costituzionalmente fondata e legittima.
In primis, sembra infatti impossibile determinare il contenuto legislativo
di una disposizione in modo chiaro ed univoco se il concetto da
normativizzare non è tale già “in sé”.
Come scrive Adelmo Manna “L’esigenza di tassatività non può non
essere estesa anche all’interesse protetto, perchè quest’ultimo
contribuisce a determinare la fattispecie, nel senso, cioè, che più il bene è
inafferrabile più rischia di esserlo anche lo stesso Tatbestand.” 75
Anche Bricola afferma che “L’afferrabilità del bene è il presupposto
essenziale affinché le forme di aggressione al medesimo siano scolpite
74
Musco, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974.
75 Manna, Beni della personalità e limiti della protezione penale, Padova, 1989, pg89.
68
dal legislatore o ricavabili dall’interprete entro i limiti in cui lo consente
l’art.25 comma 2 Cost.”76
Afferrabilità e determinatezza sono quindi requisiti fra loro strettamente
connessi, nel senso che ove al bene difetti il primo, alla norma che tale
bene tutela non potrà che mancare il secondo.
Una simile interrelazione sussiste anche tra afferrabilità e offensività,
essendo infatti impossibile rispettare tale ultimo principio lì dove non è
determinabile con precisione né l’oggetto della lesione né le modalità
lesive di causazione.
Infatti, pur sussistendo una differenza tra “reati senza bene” e “reati senza
offesa”, è vero però che un reato senza bene o dal bene indeterminabile
(come è l’art.15) non potrà mai essere rispettoso del principio di
offensività.
Fiandaca spiega a tal proposito come “La possibilità di procedere ad una
verifica della concreta idoneità aggressiva della condotta criminosa
dipende anche dalla natura del bene oggetto di protezione: la prova della
pericolosità del fatto presuppone, per essere attendibilmente addotta, che
76
Bricola, Tecniche di tutela penale e tecniche alternative, in De Acutis M. Palombarini G. (a cura di),
Funzioni e limiti del diritto penale, Padova, 1984.
69
la fattispecie sia diretta alla tutela di oggetti concretamente
determinati.”77
La modalità di tutela apprestata dall’art.15 nei confronti del bene
“comune sentimento della morale” è tale da rendere impossibile una
verifica attendibile del nesso di causalità e della reale offensività di una
azione verso il bene oggetto di tutela (a riguardo vedere anche paragrafo
successivo).
Da ciò si può concludere che la tutela penale del comune sentimento
della morale implica di necessità la violazione del principio di
offensività.
In ultimo, il difetto di afferrabilità del bene sembra anche implicare la
necessaria violazione del principio di colpevolezza.
Il criterio indicato dalla Corte Costituzionale della riconoscibilità del
precetto penale78 come conditio sine qua non per il rispetto del principio
di colpevolezza è infatti violato ove al bene tutelato difetti il requisito
della afferrabilità; come è possibile ritenere qualcuno responsabile della
scelta del rispetto o meno della norma penale se non sono astrattamente
determinabili i criteri di violazione della norma, se non ne è
concettualmente comprensibile il contenuto?
77
Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica criminale, in Riv.it., 1982,
pg79.
70
I binomi possibilità-responsabilità e libertà-responsabilità, fondamenta
concettuali del principio di colpevolezza, non sono rispettati da norme
penali tutelanti beni inafferrabili, come è appunto nel caso di specie.
Per quanto sopra detto, la tutela del comune sentimento della morale
operata dall’art.15 è in aperto contrasto con i principi di determinatezza,
offensività e colpevolezza, principi tutti di rilievo costituzionale.
3.4) COMUNE SENTIMENTO DELLA MORALE, FATTISPECIE DI
PERICOLO, ANTICIPABILITÀ DELLA TUTELA PENALE E
PRINCIPIO DI PROPORZIONATEZZA
Seguendo un’impostazione ormai tradizionalmente accettata possiamo
affermare che il modello di reato come offesa a beni giuridici
ricomprende insieme alle condotte concretamente lesive del bene protetto
anche quelle che tale bene espongono a pericolo.
I reati si possono dunque dividere in “reati di danno” e “di pericolo” a
seconda che l’offesa sia costituita da effettiva lesione del bene protetto o
dalla messa in pericolo dello stesso.
La costruzione di una fattispecie in forma di pericolo comporta però dei
costi: la scelta di anticipazione di tutela implica infatti necessariamente
un sacrificio almeno in termini di rispetto del principio di offensività, e
78
C.Cost., sent.n.364\88.
71
tale scelta deve quindi risultare almeno opportuna, se non anche
legittima, in base a parametri costituzionali.
Il discorso attorno le tecniche di costruzione delle fattispecie non è affatto
questione meramente tecnico-formale (ma forse nessuna questione
giuridica lo è!), ma anzi presuppone ed implica scelte sostanziali di
equilibrio di diverse esigenze e di rispetto di principi di rango
costituzionale.
L’utilizzo di una tecnica normativa è però vincolato non solo al rispetto
di principi costituzionali, ma anche dalla stessa natura del bene che si
vuole proteggere.
La tutela di beni di natura collettiva e immateriale, divenuta in questi
ultimi anni esigenza ineludibile dati i rischi a cui il progresso
tecnologico sempre più sottopone detti beni, sembra spesso imporre tale
scelta di anticipazione come l’unica possibile.
Fiandaca a riguardo scrive: “Il reato di pericolo astratto rappresenta lo
strumento di tecnica legislativa tipicamente corrispondente all’essenza
del bene giuridico superindividuale”79, così evidenziando come la scelta
di tutela di determinati beni implichi necessariamente l’utilizzo di alcune
tecniche di costruzione della fattispecie.80
79
Fiandaca, La tipizzazione del pericolo, in Dei delitti e delle pene, 1984, pg456.
80 Fiandaca, ult.op.cit., pg451 ss.
72
Preso atto di questo vincolo che la qualità collettiva del bene impone, si
deve ricordare però che la scelta di tutela deve comunque essere vagliata
alla luce dei criteri di opportunità della anticipazione: la impossibilità di
tutelare il bene se non attraverso una fattispecie di pericolo non ne
legittima automaticamente la tutela anticipata, il cui utilizzo deve sempre
essere valutato secondo un criterio di costi-benefici a base costituzionale.
Andiamo allora a studiare quale o quali sono questi criteri.
Il principio cardine è quello di proporzione o proporzionatezza, che può
così essere sintetizzato: “Il principio di proporzione impone che il bene
giuridico offeso dal reato sia di valore pari o proporzionato a quello
colpito dalla pena”81
(tale principio costituisce criterio di selezione dei
beni penalmente tutelabili per tutti i beni e non solo per quelli di natura
collettiva a necessaria strutturazione di pericolo). Ed ancora più
specificatamente riguardo al problema della anticipabilità: “La
anticipazione della tutela penale potrà considerarsi tanto più esente da
obiezioni quanto più elevato è il rango del bene esposto a rischio”82
;
“Occorre accertare se l’anticipazione della tutela non pregiudichi troppo
contro-interessi eventualmente confliggenti”83
; “La gravità minima
81
Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pg166; fra tutti in tal senso
Bricola, Teoria generale del reato, in Nov.Dig.it., Torino, 1973, par.9, pg68 ss.
82 Fiandaca, La tipizzazione del pericolo, in Dei delitti e delle pene, 1984, pg442.
83 Fiandaca, ult.op.cit., pg442.
73
dell’offesa penalmente rilevante cresce al decrescere del rango del bene
giuridico in giuoco, e viceversa”84
; e sempre nello specifico della
anticipabilità: “Sul grado di anticipazione dell’offesa il principio di
proporzione esplica i suoi effetti nel senso intuitivo che tanto più
importante secondo la Costituzione è il bene offendibile dal reato, tanto
più è legittimamente anticipabile la sua tutela, e viceversa.”85
A questo primo criterio di selezione dei beni per cui “vale la pena”
anticipare la tutela se ne può aggiungere un secondo, che chiameremo di
“realizzabilità-fattibilità della anticipazione”.
Tutelare la semplice messa in pericolo di un bene deve infatti presupporre
la possibilità di un giudizio fondato circa il grado di probabilità di
inferenza tra stato di pericolo e possibile danno a questo seguente, vale a
dire, infondo, la qualificabilità stessa di una situazione x quale pericolosa
rispetto alla verificabilità di y.
Come scrive Fiandaca “L’accertamento del pericolo presuppone che se ne
individui il relativo metro o criterio di accertamento, cioè la relativa
legge scientifica (causale o probabilistica) o regola di esperienza in base
84
Fiandaca, ult.op.cit., pg442.
85 Angioni, ult.op.cit., pg176.
74
alla quale si possa fondatamente predire che alcuni fatti recano il rischio
di provocare eventi lesivi.”86
Il grado di verificabilità del nesso causale tra fra fatto pericoloso ed
evento lesivo è quindi criterio di fattibilità dei reati di pericolo, nel senso
che meno tale nesso è verificabile meno è “ontologicamente” legittimo il
ricorso a tecniche di tutela anticipata.
Se vagliata alla luce dei predetti criteri, la tutela necessariamente
anticipata (in quanto bene immateriale e collettivo) del “bene comune
sentimento della morale” risulta difficilmente legittima.
La protezione penale di tale bene è incompatibile con il rispetto del
principio di proporzionatezza e del il criterio di fattibilità; il sacrificio
del bene libertà personale imposto dalla norma per la tutela del comune
sentimento della morale risulta infatti eccessivo e non proporzionato
secondo una gerarchia di valori operata sul metro della Costituzione, ed
ancor più tale sacrificio appare “ingiusto” visto anche che l’inferenza
probabilistica tra condotta descritta dall’art.15 e lesione del bene ivi
tutelato sembra molto poco verificabile secondo metodi che assicurino un
accettabile grado di fondatezza.
A tale riguardo Mantovani chiaramente dice impossibile conoscere a
priori e neppure accertare a posteriori i possibili effetti lesivi dei fatti
86
Fiandaca, ult.op.cit., pg451.
75
sanzionati dal reato di pubblicazioni a contenuto impressionante e
raccapricciante!87
Si deve quindi concludere che la scelta di protezione di tale bene,
implicando la violazione dei principi di proporzionatezza e “minima
causalità probabilistica”, è almeno inopportuna, se non anche illegittima.
3.5) CONCLUSIONI
La tutela penale del comune sentimento della morale prevista dall’art.15
risulta inopportuna (e forse anche illegittima, ma questo lo discuteremo
in seguito) in quanto incompatibile con il pieno rispetto dei principi
fondamentali della Costituzione e con i criteri di selezione
costituzionalmente orientata dei beni giuridici e di anticipabilità di tutela
penale degli stessi.
87
Mantovani, Il principio di offensività nello schema di delega legislativa per un nuovo Codice penale, in
Prospettive di riforma del Codice penale e valori costituzionali, Milano, 1996, pg101.
76
PAR.4: L’ORDINE FAMILIARE
4.1) ORDINE FAMILIARE E COSTITUZIONE
Possiamo concordare con il Nuvolone quando afferma che “Qualche
perplessità suscita anche il concetto di ordine familiare”88
; anzi
dobbiamo aggiungere che oggi questo concetto solleva dubbi non
riducibili a mere perplessità.
Riportiamo integralmente le opinioni dell’autore sul concetto di ordine
familiare, opinioni con le quali gli altri giuristi che si sono interessati al
tema sostanzialmente concordano.89
“L’ordine familiare non può identificarsi con il concetto di morale
familiare di cui all’art.565 c.p.
L’ordine delle famiglie attiene ai rapporti strutturali (principio
monogamico, principio di gerarchia, principio di legittimità, ecc.), mentre
la morale attiene piuttosto alle norme di condotta degli individui in
quanto membri di una famiglia.”90
In questo paragrafo, prendendo per ora
“per buona” la definizione del Nuvolone, ci si domanda in che rapporti
sia il bene “ordine familiare” con la Costituzione.
88
Nuvolone, Limiti della libertà di stampa nell’art.15 della legge 8 febbraio 1948 n.47, in Arch.pen., 1952,
pg557.
89 In tal senso: Cantarano, Codice della legislazione sulla stampa, Roma, 1987; Mazzanti, L’osceno ed il
diritto penale, Milano, 1962.
90 Nuvolone, ult.op.cit., pg557.
77
La Carta costituzionale tratta specificatamente della famiglia negli art.29-
30-31.
L’art.29 Cost. così recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia
come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato
sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla
legge a garanzia dell’unità familiare.”
E l’art.30 Cost. primo comma: “È dovere e diritto dei genitori mantenere,
istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio.”
L’art.31 Cost. dichiara poi che “La Repubblica agevola con misure
economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e
l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie
numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli
istituti necessari a tale scopo.”
Dalla lettura di questi articoli si può anzitutto affermare che la
Costituzione riconosce alla famiglia carattere non derivato dallo Stato,
cioè la sua esistenza come societas naturalis a prescindere dalle
previsioni di legge; come scrive Gazzoni “la famiglia è una entità di
carattere sociale prima ancora che giuridico e il diritto può solo regolarne
alcuni aspetti soprattutto per quanto riguarda i profili direttamente o
indirettamente patrimoniali che ad essa si ricollegano.”91
91
Gazzoni, Manuale di diritto privato, 1992, pg301.
78
Al tempo stesso però la Costituzione riconosce in senso tecnico-giuridico
una formazione sociale come famiglia solo se “fondata sul matrimonio”,
e dispone per essa alcune regole morali e strutturali da rispettare (come
ad esempio “l’unità familiare”).
Senza addentrarci nell’argomento, possiamo riconoscere allora che la
Costituzione sembra voler tutelare un certo ordine della famiglia, ma al
tempo stesso non indica parametri sufficientemente chiari per
determinarlo. Inoltre il riconoscere la naturalità della famiglia
necessariamente comporta delle difficoltà nel momento in cui la si cerca
di “canonizzare” entro regole strutturali determinate.
Ciò premesso, dando dunque come presupposto (anche se comunque
dubbio) che l’ordine familiare sia un valore implicitamente richiamato
dalla Costituzione, per dargli un significato concreto non possiamo che
cercarne i contenuti nello studio delle famiglie come formazioni sociali
reali oggi esistenti; contenutizzare tale concetto con il rimando alla
Costituzione sarebbe infatti operazione impossibile oltre che,
probabilmente, scorretta: il riconoscimento della naturalità della famiglia
sembra infatti dover imporre la ricerca delle regole della sua struttura
nella naturalità stessa, e cioè, nella società.
79
4.2) AFFERRABILITÀ DELL’ORDINE FAMILIARE E SUA
TUTELABILITÀ COSTITUZIONALMENTE COMPATIBILE
Cercare di rendere il concetto di ordine familiare “chiaramente
percepibile con l’intelletto” significa trovarne un contenuto significativo
e determinato, che, come precedentemente affermato, non può che
provarsi a desumere dallo studio della odierna realtà familiare.
Quello che qui si cercherà di dimostrare è che oggi non è possibile trarre
dallo studio di detta realtà il contenuto del concetto di ordine familiare, e
che, se anche se ne potesse trarre un “contenuto minimo”, comunque non
sarebbe opportuno tutelarlo penalmente.
Nella società moderna è il concetto stesso di famiglia che sta sfumando
sempre più, e di conseguenza tutti i concetti a questo relazionati.
Sabino Acquaviva così scrive al riguardo: “Ci troviamo in presenza, nella
famiglia, di modelli insicuri e problematici; è in atto una trasformazione
culturale verso una società dei consumi alla quale si accompagna una
modificazione nei meccanismi di socializzazione, di legittimazione e
nella struttura istituzionale della famiglia. In Italia questo mutamento non
è mediato, bensì spesso si ha un salto tra una cultura androcentrica e
familista e una cultura post-industriale. Non vi è più un solo modello di
80
convivenza che si evolve, ma una serie di modelli accomunati soprattutto
dalla funzione di soddisfare bisogni.”92
Sempre a tale riguardo Pierpaolo Donati: “Nel capitalismo avanzato c’è
un sentimento dominante che si riferisce alla famiglia come a qualcosa di
presente ma di difficilmente definibile razionalmente. Nella prospettiva
sociologica questo sentimento ha un referente oggettivo: la morfogenesi
sociale della famiglia. Questo termine intende definire l’interazione tra le
relazioni interne e quelle esterne del sistema familiare, la modificazione
continua delle relazioni in tale sistema vivente.”93
Già negli anni ottanta si era quindi realizzata quella destrutturazione dei
canoni tradizionali della famiglia che oggi è concordemente data per
avvenuta da molti importanti sociologi, e che ci consente quindi di dire
assolutamente vago e indeterminabile il concetto di ordine familiare.
Concludendo questa semplice ma necessaria argomentazione di carattere
sociologico, possiamo affermare che il concetto di famiglia, e di
conseguenza quello di ordine familiare, risultano oggi tanto sfumati e
vaghi da non potersi considerare afferrabili, e che la definizione proposta
dal Nuvolone, forse valida per il momento storico in cui fu formulata,
oggi è inadeguata.
92
Acquaviva, in (AA.VV.) Ritratto di famiglia degli anni ’80, Bari, 1981.
93 Donati, in Famiglia e politiche sociali, Milano, 1981.
81
Dimostrata la inafferrabilità concettuale del concetto di ordine familiare,
si rimanda al precedente paragrafo per l’analisi delle sue conseguenze.
Tralasciando i risultati sopra raggiunti finora riguardo alla soluzione della
problematica in trattazione, proveremo comunque a dimostrare la
inopportunità (se non anche la illegittimità) della tutela penale del bene
“ordine familiare” attraverso una seconda via diversa dalla prima, in
modo tale da aumentare la forza probante complessiva della tesi contraria
a tale tutela.
Supponiamo infatti il detto bene come afferrabile in un suo “significato
minimo” come proposto dal Nuvolone (significato che ci asteniamo dal
determinare, essendo contrari a tale possibilità, e che consideriamo come
dato per poter continuare in un ragionamento “per assurdo”) e
supponiamolo di implicita rilevanza costituzionale. I due presupposti non
sono però sufficienti da soli a dimostrare la opportunità della tutela
penale dell’ordine familiare, e per una parte minoritaria della dottrina non
sufficienti a farla ritenere costituzionalmente legittima.
Infatti, dando per appurato il ruolo sussidiario del diritto penale
(principio su cui oggi si concorda quasi uniformemente), studiamo il
criterio con cui parte della dottrina ha proposto di determinare in concreto
la effettività di tale principio legandolo alla Costituzione.
82
È Bricola che per primo propone con forza tale criterio, quando, come
abbiamo già riportato ma vale comunque la pena di ricordare brevemente,
scrive: “(omissis) la sanzione penale tipicamente restrittiva del bene
libertà personale può essere adottata soltanto in seguito alla violazione di
un bene il quale, se non di pari grado rispetto al valore sacrificato (libertà
personale), sia almeno dotato di rilevanza costituzionale.”94
Questa concezione viene poi sviluppata ed approfondita secondo linee di
sviluppo che sono già presenti negli scritti di Bricola, e che trovano
massima chiarezza concettuale ed espositiva nelle teorizzazioni di
Angioni.
Questo autore, nel tentativo di rintracciare nella Costituzione un criterio
di gerarchia dei valori dei beni costituzionali in base al quale poter
applicare il principio di proporzionatezza, così scrive: “Resta da
analizzare l’ulteriore strumento critico-limitativo proposto, quello che
distinguendo tra beni costituzionali primari e secondari, reputa soltanto i
primi come tutelabili con pena detentiva. Anche per la qualificazione di
un bene costituzionale come primario o no, il punto di appoggio può
essere offerto ancora una volta dalla libertà personale (bene giuridico
colpito dalla sanzione detentiva): nel senso che essendo il bene della
94
Bricola, Art.25 Cost. comma 2 e 3, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Artt.24-26
Cost.: Rapporti civili, Bologna-Roma, 1981, pg273.
83
libertà personale bene primario, tutti i beni costituzionali che si
riconoscono di importanza pari o assimilabile a questo possiedono per
inferenza logica qualità di primarietà. Ma come si svolge l’operazione di
assimilazione tra il bene della libertà personale e gli altri beni definibili
primari? Si può ragionare che, poiché senza la libertà fisica l’uomo non
può realizzarsi nelle forme minime esistenziali (ed in ciò risiedendo il
valore più profondo del bene, N.d.R.), ugualmente tutti gli altri beni
senza i quali l’uomo non può realizzarsi nelle forme minime di esistenza
devono essere qualificati primari. Approssimativamente, fra i beni
individuali possono quindi essere classificati primari la vita, la salute, la
libertà morale, l’onore, il lavoro, il domicilio (e la connessa sfera di
riservatezza privata), beni materiali di sussistenza e di autonomia
economica ai sensi dell’art.36 Cost. (sufficienti ad assicurare una
esistenza libera e dignitosa), ecc. Dunque si tratta di un concetto di
primarietà certamente più ristretto di quel “pieno sviluppo della persona
umana” posto in risalto dall’art.3 secondo comma della Costituzione, e
che rappresenta invece la condizione ottimale dell’uomo.”95
Pur consci dell’ulteriore ed indispensabile approfondimento che tali
considerazioni ancora necessitano, se le si leggono unitamente a quelle
del Fiandaca secondo cui “Con ogni probabilità risulta più conforme alla
95
Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pg203.
84
Weltanschauung costituzionale concepire i beni collettivi come beni di
natura strumentale, cioè finalizzati pur sempre alla realizzazione di
concreti interessi dei singoli individui”96
, e se si riconsidera la questione
della anticipabilità della tutela penale secondo criteri costituzionalmente
orientati (già affrontata riguardo al comune sentimento della morale e qui
identicamente riproponibile e quindi non nuovamente riportata), si può
concludere per una sicura inopportunità della tutela penale dell’ordine
familiare, e, forse, anche per la sua incostituzionalità (ma questo lo
vedremo meglio in seguito).
4.3) CONCLUSIONI
Il bene “ordine familiare”, se da un lato non può essere per importanza
equiparato al bene della libertà personale, perchè non concepibile come
bene essenziale per la preservazione delle forme minime di convivenza
sociale97 né per la realizzazione delle condizioni minime esistenziali della
vita di ogni uomo98, d’altro lato è invece bene dalle caratteristiche tali da
richiedere un necessario sacrificio di importanti valori costituzionali, e
ciò considerando, non si può che ritenere la sua tutela non conforme ai
96
Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e coma criterio di politica criminale, in Riv.it., 1982,
pg72.
97 Musco. Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974.
98 Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983.
85
principi della Costituzione (su cosa questa “non conformità” debba poi
concretamente implicare, se si tratti cioè di inopportunità o di illegittimità
costituzionale, sarà questione successivamente affrontata).
PAR.5: DIFFUSIONE DI SUICIDI E DELITTI
“Il diffondersi di suicidi o delitti è nozione di comune accezione che
rappresenta l’interesse statuale ad evitare fatti di tale genere, i quali
costituiscono tipico, grave turbamento dell’ordine pubblico e pericolo per
il bene giuridico della incolumità personale dei consociati.”99
Questo è il massimo contributo all’analisi dell’argomento in questione
offerto dalla dottrina, visto che anche il Nuvolone, che all’art.15 ha
dedicato molta attenzione, si limita a riguardo a definire il diffondersi di
suicidi o delitti come determinazione-specificazione del concetto di
ordine pubblico.
Presupposto quindi che il diffondersi di suicidi o delitti sia bene-concetto
più specifico di quello di ordine pubblico, l’analisi che sarà qui svolta si
concentrerà su questo specifico bene-concetto, senza affrontare la
tematica generale dell’ordine pubblico, se non per ciò che sia
indispensabile fare.
99
Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg326.
86
Con la locuzione “diffondersi di suicidi o delitti” il legislatore sembra
aver voluto specificatamente proteggere il bene giuridico della vita
umana, e ciò solo considerando, apparirebbe perfettamente opportuna e
legittima la disposizione normativa in questione, in quanto atta a tutelare
un bene di indiscusso (anche se non espresso) valore costituzionale.
Il problema però in questo caso non è posto dalla qualità del bene
tutelato, ma dalle modalità scelte per la sua tutela.
Infatti l’art.15 tutela un bene sicuramente concettualmente afferrabile e
di primaria importanza costituzionale, ma lo fa in modo così anticipato
da “nebulizzare” quel criterio di minima verificabilità causale che invece
deve sempre essere rispettato nella costruzione di fattispecie di pericolo.
Verificare l’idoneità causale di uno scritto alla determinazione di un
soggetto al suicidio o all’omicidio è operazione assai ardua e
“pericolosa”, ed ancor più lo è se tale idoneità è riferita ad una pluralità
indeterminata di soggetti.
Per come è formulata la norma sembra impossibile individuare (sia ex
ante che ex post) con un grado accettabile di certezza il momento e le
condizioni in cui il pericolo di “diffusione” si realizza, e di conseguenza
risulta indeterminabile il confine tra il lecito e l’illecito.
87
La norma in questione non rispetta quindi le regole della
proporzionatezza e della anticipabilità della tutela penale già in
precedenza abbondantemente chiarite, con quanto da ciò consegue.
PAR.6: CONCLUSIONI: INOPPORTUNITÀ O
INCOSTITUZIONALITÀ?
6.1) REATO COME FATTO OFFENSIVO (UNICAMENTE) DI BENI
COSTITUZIONALI
La tesi riportata nel secondo paragrafo secondo la quale sarebbe “reato
unicamente il fatto offensivo di beni a rilievo costituzionale” non è stata
finora integralmente accolta né dalla dottrina prevalente, né dalla Corte
Costituzionale.
La Consulta ha infatti a riguardo chiaramente affermato che “L’art.25
comma 2 Cost. in nessun modo vincola il legislatore al perseguimento di
specifici interessi”100
, pur sottolineando in una ben nota sentenza le
notevoli implicazioni dei principi costituzionali in ambito penale, nel
senso della “necessità che il diritto penale costituisca davvero la extrema
ratio di tutela della società e sia costituito da norme non numerose o
100
C.Cost., sent.n.71\1978
88
eccessive ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di
valori almeno di rilievo costituzionale”101.
Anche in ambito dottrinale102 si è prevalentemente giunti alla conclusione
che “la Costituzione non pone un limite generale al legislatore ordinario
nella scelta discrezionale dei beni da tutelare penalmente: il legislatore
non è vincolato in questa scelta alla cerchia dei beni costituzionalmente
rilevanti”103
, e cioè a considerare i rapporti tra il Codice Penale e la
Costituzione di carattere elastico, e non rigido come prospettato da
Bricola.
La dottrina ha rifiutato tale rigida impostazione mettendo in evidenza la
inidoneità dell’art.13 Cost. a imporre limiti al legislatore, e soprattutto la
impossibilità di chiara determinazione del confine tra beni a rilievo
costituzionale implicito e non, impossibilità che si traduce nella pratica
inapplicabilità delle “tesi del Bricola”.
Quindi, limitatamente a quanto appena sopra riportato e lungo tutto il
corso della trattazione già anticipato, seguendo l’indirizzo della dottrina
prevalente e della giurisprudenza costituzionale, l’art.15 della legge
101
C.Cost., sent.n.364\88.
102 In tal senso, fra tutti: Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica
criminale, in Riv.it.dir. e proc.pen., 1982; Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 1992; Manna,
Beni della personalità e limiti alla protezione penale, Padova, 1989; Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte
generale, Milano, 1996.
89
n.47\1948 può certamente considerarsi inopportuno ma non anche
costituzionalmente illegittimo.
6.2) AFFERRABILITÀ, OFFENSIVITÀ, DETERMINATEZZA E
COLPEVOLEZZA
La illegittimità costituzionale dell’art.15 può forse però trovare valide
ragioni nel difetto di afferrabilità da cui sono “affetti” i beni in esso
tutelati e dalla conseguente violazione da parte della norma dei principi di
offensività, determinatezza e colpevolezza, di cui già è stata in
precedenza dimostrata la fondatezza costituzionale.
Questa ipotesi ha l’indiscutibile vantaggio rispetto a quella formulata nel
precedente paragrafo di fondarsi sulla supposta violazione di principi che
non solo hanno un ampio riconoscimento di radicamento costituzionale,
ma sono anche identificabili mediante il richiamo di specifici articoli
della Carta Costituzionale, operazione certo più difficile e controversa
quando si cerca di compierla per avvalorare la tesi del reato come
violazione di beni a esclusivo rilievo costituzionale, che più che potersi
agganciare a singoli articoli si richiama allo spirito della Costituzione
ricavabile da una lettura integrata della stessa, che è quindi poi
difficilmente conciliabile con la disciplina delle modalità con cui possono
103
Marinucci e Dolcini, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Riv.it., 1994, pg349.
90
essere sollevate questioni di legittimità costituzionale nel corso di un
giudizio dinanzi ad una autorità giurisdizionale, disciplina imposta
dall’art.28 della legge n.87\1953.
Neanche questa “seconda strada” è stata però intrapresa dalla Corte
Costituzionale, che negli anni ha di fatto sempre mantenuto un
atteggiamento estremamente prudente (se non di forte chiusura) nel
riscontrare violazioni dei sopraindicati principi da parte di norme
ordinarie, pur se al tempo stesso non ne ha mai posto in dubbio, in linea
di principio, la validità.
Detto ciò, adesso proveremo a schematizzare l’iter argomentativo con cui
la Corte è arrivata a negare la fondatezza costituzionale delle questioni
centrate sulla supposta violazione dei principi sopra richiamati (in
particolare del principio di determinatezza) da parte di fattispecie a forma
libera poste a tutela di beni immateriali.
Secondo la Corte “Il principio di legalità si attua non solo con la rigorosa
e tassativa descrizione della fattispecie, ma, in talune ipotesi, con l’uso di
espressioni sufficienti per individuare con certezza il precetto e per
giudicare se una determinata condotta lo abbia o meno violato. Quando la
legge penale prevede la tutela di beni immateriali (decoro, onore,
reputazione, prestigio, etc.) il ricorso a nozioni proprie del linguaggio e
della intelligenza comuni, è inevitabile. Per quanto attiene, in particolare,
91
alla difesa del pudore, il rinvio alla morale, al buon costume, e
nominativamente al comune sentimento, è legittimo trattandosi di
concetti diffusi e generalmente compresi, sebbene non suscettibili di una
categorica definizione.”104
La Corte, che su questa argomentazione ha (per esempio) ritenuto
infondate in riferimento all’art.25 comma 2 Cost. le questioni sollevate
contro gli art.527, 528, 529 del Codice Penale, non è però affatto
convincente.
L’argomentazione infatti, più che dimostrare la non confliggenza delle
norme con la Costituzione, sembra postularla come inevitabile e quindi
giustificabile.
All’argomentazione debole proposta dalla Corte, per essere
compiutamente intesa, sembra doversi sottendere un ragionamento
implicito e nascosto, che qui di seguito proviamo ad individuare
schematicamente:
1) l’art.28 della legge n.87\1953 vieta alla Corte ogni valutazione di
natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del
Parlamento
2) la tutela di beni immateriali non può che realizzarsi attraverso
l’utilizzo di concetti dalla dubbia afferrabilità
104
C.Cost., sent.n.191\1970.
92
3) impedire l’uso di tali concetti implicherebbe l’escludere la tutela di
alcuni beni
4) tale esclusione costituirebbe una scelta politica che è invece preclusa
alla Corte
5) quindi, almeno nei casi in cui il ricorrere a concetti dalla dubbia
afferrabilità è inevitabile, ciò è anche consentito.
Dunque a noi sembra che la Corte, preoccupata di compiere scelte che
ritiene politiche, e quindi non di sua competenza, lasci che la
Costituzione sia violata da norme che appaiono in evidente contrasto con
i principi di determinatezza, offensività e colpevolezza perchè poste a
tutela di beni concettualmente inafferrabili.
Detto ciò, non intendendo addentrarci ulteriormente nella tematica del
ruolo della Corte nella struttura dello Stato disegnato in Costituzione e
della politicità delle sue decisioni, ci limitiamo a porre in evidenza come
questa sia la “strada da battere” per affrontare compiutamente la
questione della tutelabilità penale di beni che per essere protetti
richiedono un ineliminabile costo-sacrificio in termini di rispetto di
alcuni principi costituzionali, e che negare la sussistenza stessa del
problema, come la Corte ha finora fatto, non porterà certo ad alcuna
soluzione soddisfacente.
93
6.3) ART.15
Nel caso specifico dell’articolo in questione, per quanto detto nel corso
dell’intero capitolo, riteniamo comunque possibile ed auspicabile una
dichiarazione di illegittimità costituzionale.
Se tale dichiarazione consista in una scelta politica o invece sia una
decisione giuridica con conseguenze politiche non è certo argomento che
può essere qui trattato, ma visto che sembra che sia la preoccupazione di
politicità della scelta a indurre la Corte Costituzionale a non intervenire,
e visto che così facendo la Corte in realtà sceglie di non scegliere (non
potendo “non scegliere”), prendendo quindi comunque una decisione
dalla comunque incerta natura, ciò ci fa propendere e preferire l’ipotesi
della dichiarazione di incostituzionalità dell’art.15.
94
CAPITOLO 2
ART.15 E ART.21 COST.
PAR.1: LIMITI ALLA LIBERTÀ DI
MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO E L’ART. 15
L’art.15 sanziona penalmente dei comportamenti che certamente
costituiscono manifestazioni di pensiero ed è quindi un limite alla libertà
di tale manifestazione. Ciò fa sorgere un problema di legittimità
costituzionale dell’art.15, dovuto al fatto che, essendo nell’art.21 della
Costituzione italiana espressamente garantito il diritto alla libera
manifestazione del pensiero, il legislatore non può disporne limitazioni
sanzionatorie in completa libertà, ma può farlo solo nel rispetto della
Costituzione, e cioè secondo i criteri che andremo ad esporre.
In questo capitolo non si tratteranno le numerose ed importanti questioni
sollevate dall’art.21 Cost. se non per quello che sia indispensabile fare
per una completa analisi dell’art.15.
Evitiamo infatti a riguardo una generale premessa sull’art.21 della
Costituzione e su tutti i possibili criteri di divisione categorica delle
diverse “specie” di libertà in esso tutelate, perchè questa dovrebbe qui
essere necessariamente troppo limitata e semplicistica per avere alcuna
95
validità scientifica generale, o anche solo utilità sistematica per questa
opera.
Per poter ciò legittimamente fare, bisogna però prima dimostrare la
sostanziale inutilità di tale generale premessa ai fini dello studio
dell’art.15, ed è proprio questo che qui di seguito ci accingiamo a
compiere.
Anzitutto, utilizzando l’art.15 le parole “descrivano” ed “illustrino” che
sembrano indicare l’uso di un linguaggio a funzione informativo-
descrittiva, appare inutile dilungarsi sulla differenza (comunque non
facilmente individuabile) tra questa funzione del linguaggio e quella
emotivo-impulsiva, per la quale non varrebbe la copertura costituzionale,
non essendo un tale tipo di linguaggio manifestazione di pensiero in
senso stretto.
In secondo luogo sembra inutile trattare della libertà tutelata dall’art.21
Cost. distinguendola in libertà di opinione, di creazione e di cronaca,
visto che l’art.15 nella dizione “descrivano od illustrino avvenimenti
realmente verificatisi o anche soltanto immaginari” appare comunque
comprenderle tutte.
Ed infine, ancora inutile sembra dilungarsi nella esposizione delle teorie
del Fois105 circa le materie privilegiate nel diritto di manifestazione del
105
Fois, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano, 1957, pg45 ss.
96
pensiero, perchè argomento non atto a portare validi contributi ad un
approccio teorico generale alle questioni dell’art.15, articolo che ben può
riguardare materie privilegiate e non.
Detto ciò, passiamo ora allo studio delle tematiche costituzionali
sollevate dall’art.21 Cost. nella loro attinenza all’art.15.
PAR.2: DIRITTI DI LIBERTÀ
COSTITUZIONALMENTE GARANTITI E
CONSEGUENTE DIVIETO DI INCRIMINAZIONE DI
FATTI COSTITUENTI ESERCIZIO DI TALI DIRITTI.
La nostra Costituzione espressamente riconosce una serie di fondamentali
diritti di libertà (di pensiero, circolazione, associazione, etc.), e così
facendo conseguentemente vieta al legislatore ordinario di incriminare
fatti ricomprendibili nell’esercizio di tali diritti; il divieto di sanzione
penale vale però finché l’esercizio dei detti diritti non comporti la lesione
di beni giuridici anch’essi costituzionalmente rilevanti.106
Nel caso di specie, l’art.21 Cost. protegge la libera manifestazione del
pensiero perchè questa è indiscutibilmente uno dei presupposti minimi
49
In tal senso: C.Cost., sent.n.29\1960, n.290\1973, n.165\1983 (in relazione al diritto di sciopero); C.Cost.,
sent.n.87\1966, n.49\1972.
97
necessari per la libera e dignitosa esistenza di ogni uomo, ed è al tempo
stesso uno dei pilastri fondamentali nella architettura di uno Stato che
aspiri a definirsi democratico e liberale; ma anche un valore così rilevante
trova necessariamente delle limitazioni quando si incontra con dei valori
di almeno sua pari importanza, che pretendono una di questo limitazione
per essere rispettati.
La realizzazione di questo equilibrio di valori e di interessi, che può
d’altronde essere considerata la funzione stessa del diritto, deve essere
attuata attraverso regole e metri di giudizio di necessaria derivazione
costituzionale.
PAR.3: DIRITTO DI MANIFESTAZIONE DEL
PENSIERO E SUOI LIMITI
Il diritto di libera manifestazione del pensiero è tutelato in Costituzione
(art.21), ed è quindi un classico caso in cui il legislatore ordinario trova
limiti alla sanzionabilità penale dell’esercizio di un diritto.
98
L’art.21 Cost. indica espressamente al comma n.6 la contrarietà al buon
costume come limite legittimo alla libertà affermata nei commi
precedenti; ulteriori sono però i limiti all’esercizio di tale libertà che
possono essere sanciti se posti a tutela di beni costituzionalmente
rilevanti, anche se non espressamente previsti dall’art.21Cost.
La dottrina107 è infatti perfettamente concorde con la Corte Costituzionale
che è più volte intervenuta a riguardo per dichiarare l’illegittimità
costituzionale di norme del codice penale limitative del diritto garantito
dall’art.21 Cost. poste a tutela di beni sforniti di rilevanza
costituzionale.108
Più volte la Consulta ha affermato come la tutela del buon costume non
sia il solo limite alla libertà di manifestazione del pensiero, sussistendo
altri limiti imposti dalla necessità di tutelare beni diversi parimenti
garantiti dalla Costituzione, e come l’esercizio del diritto garantito
dall’art.21 trovi un limite inderogabile nell’esigenza che per il suo
107
Fra tutti: Pulitanò, Bene giuridico e giustizia costituzionale, in Bene giuridico e riforma della parte
speciale (a cura di Stile), Napoli, 1985, pg135 ss.; Palazzo, Valori costituzionali e diritto penale, in
L’influenza dei valori costituzionali nei sistemi giuridici contemporanei (a cura di Pizzorusso-Varano),
Milano, 1985, pg592 ss.
108 C.Cost., sent.n.87\1966, n.9\1965, n.49\1971, n.126\1985.
99
esercizio non vengano sacrificati beni anche essi garantiti dalla nostra
Carta fondamentale.109
Per citare un caso, in ordine alla norma (art.272 comma 2 c.p.) che
puniva “la propaganda...fatta per distruggere o deprimere il sentimento
nazionale”, la Corte ne ha dichiarato la incostituzionalità perchè “il
sentimento nazionale non può essere ritenuto bene costituzionalmente
garantito.”110
In generale la Corte può dirsi indiscutibilmente orientata nell’affermare
che solo l’esigenza di tutela di valori di rilievo costituzionale possa
costituire limite legittimo alla libertà dell’art.21 Cost.
PAR.4: BUON COSTUME E ART.21 DELLA
COSTITUZIONE
109
C.Cost, sent.n.133\1983, n.13\1983, n.87\1966, n.199\1972, n.65\1970, n.15\1973, n.9\1965, n.100\1981.
110 C.Cost., sent.n.87\1966.
100
Come abbiamo in precedenza visto, unico limite espressamente previsto
dall’art.21 all’esercizio della libertà ivi tutelata è quello del buon
costume.
Tre sono però le diverse posizioni dottrinali di interpretazione di tale
termine contenuto nell’art.21 del testo costituzionale: una parte della
dottrina si rifà alla nozione civilistica di buon costume111, altra parte
richiama il significato penalistico del termine112, e un terzo filone assegna
al termine un significato autonomo e individuabile attraverso una
interpretazione interna al sistema costituzionale stesso.113
Quello che qui andremo brevemente a chiarire è che la nozione più
appropriata del termine buon costume riportato in Costituzione è quella
che lo vede assimilato al buon costume nel suo significato penalistico,
come d’altronde sostiene la dottrina maggioritaria.114
111
Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1969, pg984; Virga, Diritto costituzionale, Milano, 1967,
pg581; Pergolesi, Diritto costituzionale, Padova, 1965, pg350.
112 Vedere nota n.102.
113 Albanese, Limiti giuridici del “fotocinereportage”, in Dem. e dir., 1965, pg381 ss.; Lanzara, Spettacoli e
buon costume, in Riv.pen., 1967, pg164 ss.
114 Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958, pg41 ss.;
Fois, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano, 1957, pg124 ss.; Barile, Libertà di
manifestazione del pensiero, (voce) in Enc.dir., vol.24, Milano, 1974, pg459; Nuvolone, Le leggi penali e la
Costituzione, Milano, 1953, pg46; Delitala, I limiti giuridici alla libertà di stampa, in Iustitia, 1959, pg391;
Fiandaca, Tutela del buon costume, Padova, 1984, pg63.
101
La nozione civilistica del termine, che si riferisce ai precetti della morale
corrente in un momento storico determinato, è concetto troppo vago ed
espanso per poter costituire limite ragionevole alla libertà di
manifestazione del pensiero.
Come è stato infatti rilevato da molti autorevoli studiosi “concepire il
buon costume come comprensivo dei precetti della morale media
finirebbe non per limitare la libertà costituzionalmente garantita, ma per
negarla del tutto”54
; infatti “la morale comune ricomprende nel suo
ambito quasi tutti gli aspetti dell’esistenza; per cui, ove essa veramente si
frapponesse come limite costituzionale alla libertà di manifestazione del
pensiero, tale libertà si ridurrebbe a ben poca cosa e, in ogni caso, non
potrebbe mai essere esercitata in funzione critica delle concezioni morali
dominanti.”55
Tale ipotesi interpretativa va oltretutto respinta perchè è contraddetta
dalla lettura dei lavori preparatori della Costituzione, durante i quali un
espresso riferimento alla morale fu bocciato proprio con la motivazione
che questo avrebbe altrimenti vanificato la garanzia costituzionale
portando una limitazione eccessiva alla possibilità di libera
manifestazione del pensiero.
54
Fiandaca, Tutela del buon costume, Padova, 1984, pg59..
55 Fiandaca, ult.op.cit, pg65.
102
Anche l’orientamento dottrinale che tenta di interpretare la norma
costituzionale con se stessa è inaccettabile, perchè sostanzialmente
finisce per dare al termine buon costume un significato che è
riconducibile a quello di derivazione civilistica, e che quindi è affetto dai
suoi stessi difetti.
Infatti, secondo tale opinione, avendo la Costituzione accolto tutti i
principali valori etici della nostra società, è a questi che il costituente si
sarebbe voluto riferire con il termine buon costume, e cioè ad un concetto
di pubblica moralità nella sua accezione più ampia.
Una tale interpretazione è da respingere, perchè, se accolta,
sopprimerebbe quasi del tutto la libertà di manifestazione del pensiero,
rendendo l’art.21 della Costituzione una mera petizione di principio.
Inoltre è la funzione stessa di divieto che il buon costume ha in ambito
costituzionale (“Sono vietate le pubblicazioni...”-art.21 Cost.) ad
avvicinarlo più al buon costume penalistico che non a quello civilistico.
Mentre infatti le norme civili non vietano i comportamenti secondo
queste contrari al buon costume, ma solo si limitano a non riconoscerne
la validità nell’ordinamento giuridico, le norme penali vietano i
comportamenti contrari al buon costume proprio come l’art.21 Cost., e
questa coincidenza della funzione di divieto propria sia del buon costume
103
penalistico sia di quello dell’art.21 Cost. sembra far propendere per una
loro coincidenza.115
La interpretazione del buon costume proprio dell’art.21 in senso
penalistico è poi più compatibile con il sistema costituzionale.
Solo tale interpretazione, che si fonda sull’utilizzo di un canone
ermeneieutico restrittivo, risulta infatti coerente con lo spirito della
Costituzione, che impone di privilegiare il diritto di espressione piuttosto
che presunti valori etici, la cui individuazione e tutela è difficilmente
concepibile in una società non omogenea e in un ordinamento pluralista.
La interpretazione che identifica il limite posto dall’ultimo comma
dell’art.21 Cost. col buon costume inteso nella accezione penalistica, e
cioè come costume relativo alla sola sfera della sessualità, è quella più
rispettosa del principio di libertà di manifestazione del pensiero nel senso
più ampio, come sembra doveroso intenderlo nel nostro ordinamento
costituzionale, ed è dunque quella che sembra più legittima proprio
perchè più coerente con l’intero sistema di valori costruito dalla
Costituzione.116
115
In tal senso, fra tutti: Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano,
Milano, 1958, pg41-42; Fois, Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano 1957,
pg128 ss.
116 In tal senso, fra tutti: Fiandaca, Tutela del buon costume, Padova, 1984, pg68 ss.
104
PAR.5: LIMITI IMPLICITI ALLA LIBERTÀ DI
MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO
Come già visto, la Corte Costituzionale ha affermato, in piena sintonia
con la dottrina, che non il solo buon costume costituisce limite legittimo
alla libertà garantita dall’art.21, ma che anche la tutela di altri beni-valori
può esserlo, a condizione che tali beni abbiano rilevanza costituzionale.117
Questa affermazione riapre però nuovamente il problema, già accennato
nel precedente capitolo, della individuazione di validi criteri di
inclusione-esclusione dei diversi beni dal novero di quelli a rilevanza
costituzionale.
Senza riproporre tutta la questione, ci limitiamo qui a ricordare come la
dottrina sia tendenzialmente unanime nel ritenere indeterminabile un
sicuro criterio utile a precisare la costituzionalità o la non costituzionalità
di un bene, e come lo stesso Angioni, sostenitore convinto di un diritto
penale a forte orientamento costituzionale, abbia ammesso tale
difficoltà.118
Questa considerazione deve necessariamente portare alla determinazione
del fatto che non sulla semplice inclusione di un bene tra quelli a rilievo
117
Vedere nota n.98.
105
costituzionale può basarsi la limitabilità del diritto di espressione, ma che
questa deve fondarsi su una comparazione di valori compiuta in relazione
alla gerarchia di valori desumibile dalla Costituzione.
Vista infatti la grande espansione della categoria dei beni di implicita
rilevanza costituzionale, sarebbe contrario allo spirito della Carta
ammettere che la di questi tutela sia sempre legittima ragione per la
limitazione di un diritto fondamentale garantito da uno specifico articolo
a questo solo espressamente dedicato dalla Costituzione; affermare ciò,
infatti, comporterebbe una compressione così forte del diritto di libertà di
espressione da renderlo sostanzialmente evanescente e tale da svuotarlo
del reale significato in cui sembra invece doversi necessariamente
intenderlo, perchè solo così interpretandolo la libertà dell’art.21 può
essere fondamento valido di un ordinamento come quello disegnato dal
Costituente e valore coerente con lo spirito della Costituzione,
desumibile da una sua lettura sistematica.
Per quanto sopra detto, sembra dunque necessario effettuare una
valutazione comparativa a base costituzionale tra il valore del bene
oggetto della norma penale limitativa della libertà di manifestazione del
pensiero e il valore di tale libertà; se il valore costituzionale del bene
118
Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pg202; Pagliaro, Principi di
diritto penale Parte generale, Ed.4, 1993, pg226; Ramacci, Corso di diritto penale, vol.1, Torino, 1991, pg31;
Marinucci e Dolcini, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Riv.it, 1994, pg349.
106
tutelato penalmente risulta equivalente o maggiore rispetto a quello della
libertà di manifestazione del pensiero, questa va considerata
legittimamente limitata, mentre se tale valore risulta di minor importanza
costituzionale, la norma penale che tale valore tutela a scapito della
libertà dell’art.21, sembra doversi considerare costituzionalmente
illegittima.
Queste considerazioni porterebbero ad una soddisfacente soluzione della
questione fin qui trattata se con esse non si riproponessero “nuovi
problemi”.
In base alla Costituzione non è sempre possibile precisamente
determinare in che rapporto di sovra-subordinazione siano tra loro due
beni.119
La Costituzione infatti può solo tendenzialmente indicare una gerarchia
dei beni in essa contenuti, ma non può fornire un criterio di
comparazione tra beni che sia sempre utilmente applicabile.
Quindi, come per la questione della rilevanza costituzionale implicita il
riferimento alla Costituzione era insufficiente alla individuazione di un
valido criterio di inclusione-esclusione, anche in questo caso ci troviamo
119
Fra tutti: Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pg203 ss.;
Fiandaca, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica criminale, in Riv.it., 1982, pg55
ss.
107
a dover fare i conti con l’inadeguatezza della Costituzione ad indicare dei
criteri certi di gerarchizzazione dei beni.
Questa ineliminabile vaghezza nell’individuazione di rapporti gerarchici
certi non può però portare all’abbandono del criterio gerarchico, che ha il
vantaggio, rispetto a quello della implicita rilevanza costituzionale, di
permettere una riduzione della zona d’ombra di legittimità costituzionale
delle norme ordinarie limitatrici della libertà sancita nell’art.21 Cost.
Il criterio della comparazione dei valori costituzionali sembra dunque
l’unico capace di soddisfare il più possibile l’esigenza di dare alla libertà
di manifestazione del pensiero un contenuto il più ampio possibile,
coerente con un sistema costituzionale che, fondandosi sui principi di
libertà e dignità della persona umana e calibrato alla costruzione di uno
stato liberale e democratico, non può che pretendere un ampio e forte
concetto di libertà di manifestazione del pensiero.
PAR.6: LIMITI ALLA LIBERTÀ DI
MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO IMPOSTI
108
DALL’ART.15
Come abbiamo in precedenza dimostrato l’art.15 sanziona dei
comportamenti che costituiscono manifestazioni di pensiero, imponendo
quindi dei limiti a tali manifestazioni.
Di questo articolo si deve allora controllare la legittimità costituzionale in
relazione al rispetto di quanto disposto dall’art.21 della Costituzione.
I beni per la tutela dei quali l’art.15 sacrifica la libertà di manifestazione
del pensiero sono tre: il comune sentimento della morale, l’ordine
familiare e la non diffusione di suicidi o delitti.
Quello che bisogna dunque capire è se tali beni siano ricomprendibili nel
concetto di buon costume e, nel caso non lo siano, se siano di tale rilievo
costituzionale da legittimare in loro ossequio la limitazione di un diritto
così importante come è quello di cui all’art.21 Cost.
Alla prima questione abbiamo già precedentemente risposto in senso
negativo, dimostrando la impossibilità di assimilazione dei tre beni al
concetto di buon costume.
Anche la soluzione della seconda questione è già implicita nell’analisi dei
tre beni precedentemente condotta, nella dimostrazione della loro dubbia
rilevanza ed incerta compatibilità con la Costituzione.
Quello che qui ci limitiamo a rilevare è che, pur dando per presupposta la
pur dubbia rilevanza costituzionale dei beni, pur sorvolando sulla loro
109
incerta compatibilità con la Costituzione, la loro copertura penale non
sembra comunque in linea con la Carta Costituzionale.
Infatti il sacrificio del bene “libertà di espressione del pensiero” sembra
del tutto sproporzionato rispetto all’esigenza di tutela di valori di rango
costituzionale certamente inferiore.
Il rapporto di valore costituzionale tra il bene dell’art.21 Cost. e quelli
dell’art.15 è sicuramente del tutto a favore del primo.
Se da una parte infatti la libertà di manifestazione del pensiero deve
considerarsi di primario valore perchè in se propria dell’uomo come
essere libero, e perchè funzionale sia alla realizzazione delle minime
esigenze di vita e al rispetto della dignità della persona, sia alla
costruzione di uno Stato pluralista, liberale e democratico, come deve
essere lo Stato Italiano secondo Costituzione, dall’altra parte i beni
dell’art.15 non sembrano affatto avere questa centrale importanza sotto
nessuno dei due aspetti sopra citati (non è sempre possibile
l’individuazione certa del rapporto costituzionale di sovra-subordinazione
tra beni, ma, nel caso in questione, lo è!).
Quindi la copertura penale dei beni dell’art.15 è del tutto
costituzionalmente inopportuna, se non anche, probabilmente, illegittima.
PAR.7: CONCLUSIONI
110
Quello che si è cercato di evidenziare in questo capitolo è che la
soluzione che la Corte Costituzionale ha proposto riguardo la
sanzionabilità penale delle manifestazioni di pensiero è o troppo
semplicistica, o tale da così sembrare perchè conclusione di un
ragionamento sotterraneo in tutto simile a quello già riportato al termine
del precedente capitolo, volto, nella preoccupazione di illegittimamente
limitare la discrezionalità delle scelte legislative, ad evitare il più
possibile ogni decisione costituzionale che possa avvicinarsi ad una
decisione politica, sottovalutando però così i costi in termini di rispetto di
principi e di valori costituzionali che tale scelta comporta (vedere le
conclusioni del capitolo precedente per un migliore chiarimento della
questione).
Comunque, seguendo l’indirizzo della Corte secondo cui la non rilevanza
costituzionale neanche implicita dei beni tutelati dall’art.15 sarebbe
ragione tale da giustificare la dichiarazione della sua incostituzionalità
per contrarietà rispetto all’art.21 Cost., non sappiamo bene a quali
conclusioni arrivare, proprio perchè di tale rilevanza non si capisce come
disegnare i confini, e su questo, quindi, ci si astiene dall’argomentare
ulteriormente.
A nostro avviso, invece, una corretta interpretazione dell’art.21 Cost. che
pretenda una lettura della “limitabilità” della libertà tutelatavi in termini
111
di comparazione di valori costituzionali in gioco, rende chiara la
inopportunità della tutela penale dei beni propri dell’art.15 e dovrebbe far
propendere anche per la dichiarazione della sua illegittimità
costituzionale per violazione dell’art.21 Cost.
112
CONCLUSIONE DEI PRIMI DUE CAPITOLI
Nel corso del primo capitolo abbiamo cercato di fondare le critiche di
inopportunità e di illegittimità costituzionale dell’art.15 su
argomentazioni diverse da quelle allo stesso fine riportate nel secondo
capitolo.
Questa differente fondazione costituzionale delle critiche è però solo tale
da rafforzare e la ipotesi di inopportunità e quella di illegittimità, ma non
tale chiaramente da trasformare le ragioni di inopportunità in quelle di
illegittimità.
Una simile scelta va inquadrata nel già accennato problema dei rapporti
tra Diritto Penale e Costituzione, ed in quello della natura delle decisioni
della Consulta, che non è nostro compito qui affrontare, e tanto meno
provare a risolvere.
Quello che però ci sentiamo di affermare è che, specificatamente per
quello che concerne l’art.15, visti il valore e la natura particolare dei beni
oggetto della sua tutela, visti l’importanza e la molteplicità dei beni-
valori di rango costituzionale controinteressati (sacrificati) all’art.15,
sembra si possa propendere per considerarlo non solamente inopportuno
perchè non in linea con i criteri direttivi della Costituzione, ma addirittura
illegittimo per contrarietà a principi costituzionali che devono ritenersi
113
contenuti in singoli e specifici articoli della Costituzione, se
compiutamente e correttamente interpretata.
(Per un più completo quadro delle ragioni della “ipotesi di
incostituzionalità” vedere in particolare anche le singole conclusioni dei
capitoli 1 e 2).
In fine a tale conclusione sembra potersi arrivare anche inquadrando la
questione nell’ottica (diversa ma certo strettamente collegata a quella
finora adottata) della “funzione della pena”.
Senza assolutamente voler entrare nel merito di una delle problematiche
più dibattute del diritto penale120 che non è il caso qui di affrontare ma a
cui è certo però utile almeno accennare relazionandola all’art.15, ci
limitiamo a rilevare come la pena prevista dall’articolo abbia
principalmente una finalità di tipo general-preventivo (in senso lato)
perchè “intimidatoriamente” rivolta alla tutela di un generico ed
inafferrabile “ordine sociale” più che a conseguire una giustizia del
singolo caso concreto ed un riequilibrio-reintegrazione dell’ordine
giuridico violato, e come questa “prevalenza” della funzione general-
preventiva su quella retributiva e su quella rieducativa mal si concili con
il “carattere liberale” che alla pena sembra essere stato attribuito dalla
120
Per una prospettiva generale sull’argomento: Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, 1994;
Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1995; Ramacci, Corso di diritto penale, vol.1,
Torino, 1991.
114
Costituzione, se correttamente interpretata in una ottica di valori
democratici e liberali.121
Se la ratio della incriminazione e quindi la funzione della pena dell’art.15
è da identificarsi (come sembra) esclusivamente nella volontà di difesa
sociale e di conservazione di un ordine esistente, allora questo non può
che comportare la negazione della retributività della pena,
l’annichilimento del principio di colpevolezza e la strumentalizzazione
della persona umana, tutti risultati in evidente contrasto con la nostra
Costituzione che ancor più avvalorano la “ipotesi di incostituzionalità”
dell’art.15.
121
Tra tutti, in tal senso: Spasari, Diritto penale e Costituzione, Milano, 1966, pg53 ss.
115
PARTE SECONDA: L’ART. 15
CAPITOLO 3
ART.15 L.47\1948: OLTRE LE QUESTIONI DI
COSTITUZIONALITÀ
PAR.1: I PROBLEMI INTERPRETATIVI DELL’ART.15
L’art.15 della Legge sulla Stampa tutela beni giuridici tra loro eterogenei
e lo fa utilizzando una tecnica normativa “veramente non felice”122
, e ciò,
unitamente all’esiguo approfondimento giurisprudenziale e dottrinale
riguardo le sue tematiche, ha contribuito alla non soluzione delle
contraddizioni ed ambiguità che ne accompagnano ancora oggi la
interpretazione.
Nel presente capitolo indicheremo quindi le diverse opinioni inerenti i
vari problemi ermeneieutici sollevati dalla norma e, dove possibile, le
soluzioni che sembrano preferibili.
122
Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg.291.
116
PAR.2: ART.15 E ART.528 C.P.
2.1) RINVIO QUOAD POENAM O QUOAD DELICTUM
Il primo problema interpretativo che emerge dalla lettura dell’art.15 è
quello di stabilire se il richiamo che la norma compie all’art.528 c.p.(“Le
disposizioni dell’art.528 c.p. si applicano anche in caso di ...”) debba
essere inteso quoad poenam oppure quoad delictum, e cioè se sia relativo
solo all’individuazione della pena da applicare in caso di violazione
dell’art.15 o se tale da far entrare nella lettura dello stesso articolo gli
elementi strutturali dell’art.528 c.p..
Su questa alternativa le opinioni risultano divise sia in dottrina che in
giurisprudenza.
Nuvolone, che all’art.15 ha dedicato molta attenzione ed interesse
(perchè particolare pennellata di quel quadro sulla libertà di stampa che
l’autore cercò di disegnare con massima precisione e chiarezza), è tra i
sostenitori della prima tesi; egli infatti esplicitamente afferma che “il
rinvio all’art.528 c.p. è solamente quoad poenam”123
e motiva tale sua
opinione dichiarando che “in caso contrario nessun significato avrebbero
le specificazioni contenute nell’art.15.”124
123
Nuvolone, I limiti alla libertà di stampa nell’art.15 della legge 8 febbraio 1948 n.47, in Arch.pen., 1952,
2, pg.556.
124 Nuvolone, ult.op.cit.
117
Concordi con l’indirizzo interpretativo del Nuvolone sono alcune
decisioni giurisdizionali di merito125
ed una decisione della Cassazione in
cui la Corte afferma che “l’art.15 della l.47\1948 si richiama all’art.528
c.p. ai soli effetti della sanzione.”126
Molto più nutrita è però la schiera dei sostenitori della seconda tesi, e
cioè quella che intende il rinvio all’art.528 c.p. operato dall’art.15 come
quoad delictum.
Il Ramajoli afferma come “sia il caso di dissipare l’equivoco consistente
nel ritenere che il riferimento all’art.528 c.p. fatto dall’art.15 valga ai soli
effetti della sanzione punitiva”127, e tale tesi argomenta continuando nello
spiegare che “Questa convinzione, se pur avvallata da una massima della
Cassazione, si rivela inaccettabile. In effetti, se il richiamo della norma
citata fosse stato imposto solo quoad poenam, il Legislatore si sarebbe
avvalso o della formula “si applicano le pene stabilite dall’art.528 c.p.”
come in materia di falso di documenti equiparati agli atti pubblici
(art.476, 491 c.p.) o della locuzione che l’agente “soggiace alle pene
stabilite dall’art.528 c.p.” così come è statuito in tema di atti abortivi su
125
Una per tutte: App.Roma 13 marzo 1958, in Arch.pen., 1959, 2, 166.
126 Cass.Pen.3 giugno 1965, Arcidiacono ed altri, in Giust.pen. 1956, 2, 72.
127 Ramajoli, Qualche rilievo sulla pubblicazione a contenuto impressionante o raccapricciante e la
pubblicazione oscena, in nota alla sent.n 845 della Corte di Appello di Roma, Sez. 1 Pen., ud.13 maggio
1958, in Arch.pen., 1959, pg169.
118
donna ritenuta in cinta (art.550 c.p.) o, comunque di altra formula ritenuta
equipollente alle precedenti. Invece la dizione legislativa “le disposizioni
dell’art.528 c.p. si applicano anche nel caso di ...” appare di portata più
ampia e comprensiva rispetto a quelle sopra menzionate, in quanto incide
sulle modalità concrete di esplicazione della condotta criminosa
(fabbricazione, introduzione nel territorio dello stato, acquisto,
detenzione, ecc.) la quale deve essere informata al dolo specifico (scopo
di fare commercio o distribuzione delle pubblicazioni oscene). Infatti a
voler bene considerare, l’art.15 sottace completamente tanto l’indicazione
dell’elemento materiale quanto dell’elemento intenzionale del reato.”128
Autorevole sostenitore della tesi abbracciata dal Ramajoli è anche
Jannitti Piromallo, che a tal proposito ha chiaramente scritto che “Il
richiamo fatto sia dall’art.14 che dell’art.15 all’art.528 c.p. è non solo per
la pena nelle sue varie graduazioni, qualitative e quantitative, ma per
l’azione, che in tutti e tre gli articoli deve essere considerata nei
medesimi modi e termini e finalità, e sotto il profilo del pericolo.”129
Di tale opinione è anche il Mazzanti, il cui contributo al riguardo è
particolarmente importante perchè volto a confutare l’assunto su cui il
128
Ramajoli, Qualche rilievo sulla pubblicazione a contenuto impressionante o raccapricciante e la
pubblicazione oscena, nota alla sent. N.845 della Corte d’Appello di Roma Sez.1 Pen., ud.13 maggio 1958, in
Arch. pen., 1959, pg169..
129 Jannitti Piromallo, la legge sulla stampa, Roma, 1957, pg.110.
119
Nuvolone basa la sua spiegazione della necessità di leggere il richiamo
all’art.528 c.p. ai soli fini della pena.
Mazzanti così scrive: “Sottoponendo ad acuta indagine la locuzione
comune sentimento della morale, il Nuvolone comincia col rilevare come
non può trattarsi solo della morale attinente alla sfera sessuale perchè il
rinvio all’art.528 c.p. è solamente quoad poenam, e come in caso
contrario nessun significato avrebbero le specificazioni contenute
dall’art.15.
Ma secondo il nostro parere non ha rilievo che se si facesse riferimento
alla morale sessuale non avrebbero significato le specificazioni
dell’art.15, e ciò perchè, contenendo la norma di cui all’art.15 lo
specifico richiamo ai particolari impressionanti e raccapriccianti, non
potrebbe mai parlarsi di un doppione della disposizione prevista
dall’art.528 c.p.”130
Dello stesso avviso, e per una interpretazione quoad delictum e per una
impossibilità di ridurre l’art.15 a mero doppione dell’art.528 c.p., è anche
Cantarano, che afferma sia che la norma dell’art.15 “è norma innovativa
che aggiunge nuove fattispecie legali a quelle previste dall’art.528
130
Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg.323,324.
120
c.p.”131, sia che “il riferimento all’art.528 c.p. non è semplicemente quoad
poenam ma quoad delictum.”132
Anche la giurisprudenza sembra poi nella maggioranza più o meno
esplicitamente orientata verso questa interpretazione quoad delictum.133
2.2) DIVERSE CONSEGUENZE DELLE DUE DIFFERENTI
INTERPRETAZIONI
Notevoli sono le implicanze della scelta tra le ipotesi interpretative
prospettate al precedente punto, sia riguardo l’elemento materiale, sia
riguardo quello psicologico, propri dell’art.15.
Abbracciando infatti la tesi del rimando ai soli fini della individuazione
della pena, la interpretazione dell’art.15 e la ricostruzione dei suoi
elementi strutturali deve essere condotta in “modo autonomo” rispetto a
quella dell’art.528 c.p., mentre, se si accetta la tesi del rimando quoad
delictum, tale autonomia interpretativa cade, ed è invece necessaria una
lettura integrata dei due articoli, come chiaramente ed esplicitamente
affermano da diversi autori: “La dizione di rinvio alle disposizioni
dell’art.528 c.p. usata tanto nell’art.15 che nell’art.14 della legge sulla
131
Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg79.
132 Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg.79.
133 Tra tutte: Trib. Milano, 8 febbraio 1967, in Giur.it.1967, 2, 388; Trib. Milano, sent.n.3047 del
10\10\1995, dep.25\10\1995.
121
stampa rinvia sia alle modalità della condotta criminosa (fabbricazione,
introduzione nel territorio dello stato, ecc.) che all’elemento psicologico
(scopo di farne commercio, di distribuzione). Nella struttura dell’art.528
c.p. si inserisce idealmente un nuovo oggetto sul quale si esplica la
repressione penale (“stampati i quali descrivano o illustrino, ecc.); le
ipotesi di condotta punibile sono le stesse descritte nel primo e secondo
comma dell’art.528 c.p., concernono cioè in modo autonomo ciascuna
delle attività di vari soggetti inerenti alla formazione, alla circolazione,
distribuzione o esposizione degli stampati”134
; “La dizione legislativa le
disposizioni dell’art.528 c.p. si applicano anche...(omissis) incide sulle
modalità concrete di esplicazione della condotta criminosa
(fabbricazione, introduzione nel territorio dello stato, acquisto,
detenzione, ecc.), la quale deve essere informata al dolo specifico (scopo
di fare commercio o distribuzione).”135
La interpretazione quoad poenam sembra implicare che il dolo richiesto
dall’art.15 sia dolo generico, e nulla dicendo sulle modalità pratiche di
estrinsecazione della condotta, lascia su queste dubbi e incertezze.
L’interpretazione quoad delictum pretende invece che l’elemento
materiale dell’art.15 sia integrato da quanto desumibile dalla lettura
134
Cantarano, ult.op.cit., pg79-80.
135 Ramajoli, ult.op.cit., pg169.
122
dell’art.528 c.p., e cioè che consista nel “fabbricare”, “introdurre”,
“detenere” (ecc.); tale interpretazione pretende poi, sotto il profilo
soggettivo, che il dolo necessario a che si integri la fattispecie criminosa
dell’art.15 sia dolo specifico caratterizzato dalle ulteriori finalità indicate
dall’art.528 c.p. (scopo di fare commercio, ecc.).(Vedere meglio al par.4).
PAR.3: ELEMENTO MATERIALE DEL REATO
3.1) RICHIAMO ALL’ART.528 C.P.
In ordine alle conseguenze che le due diverse interpretazioni del richiamo
contenuto nell’art.15 all’art.528 c.p. hanno sulla individuazione
dell’elemento materiale della norma oggetto di questa tesi rimandiamo a
quanto appena sopra esposto nel precedente paragrafo.
3.2) STAMPATI
L’art.15 esplicitamente richiama la nozione di stampati (“...in caso di
stampati i quali...”) di cui è quindi necessario chiarire il significato.
Questo termine trova una definizione legislativa nel primo articolo della
legge sulla stampa, secondo cui si considera stampato “ogni riproduzione
tipografica o comunque ottenuta con mezzi meccanici o fisico-chimici, in
qualsiasi modo destinata alla pubblicazione”.
123
La interpretazione dell’art.1 della legge sulla stampa è importante perchè
rende chiaro che non la semplice “creazione privata” di una qualsiasi
opera può essere punita ai sensi dell’art.15, ma che per ciò “è necessario
che sia predisposto un prodotto idoneo alla diffusione in una molteplicità
di esemplari.”136
Che poi gli stampati cui si riferisce la norma siano sia quelli periodici che
quelli non periodici è cosa certa, che può esser facilmente verificata dalla
semplice lettura degli atti della Assemblea Costituente che espressamente
bocciava l’inserimento della parola “periodici” all’interno della
fattispecie dell’art.15.137
3.3) DESCRIVERE O ILLUSTRARE
Se ne la dottrina ne la giurisprudenza hanno mai posto particolare
attenzione nel chiarire il significato di questi due termini ciò è dovuto
semplicemente al fatto che le nozioni di descrizione ed illustrazione
devono essere desunte in riferimento alla loro normale accezione nel
linguaggio ordinario.
Per completezza qui di seguito riportiamo la definizione che di tali
vocaboli suggerisce un noto dizionario della lingua italiana.
136
Cassaz.pen., Sez.5, 19 settembre 1983, n.7513.
137 Atti della Assemblea Costituente, seduta di venerdì 16 gennaio 1948.
124
Descrivere: rappresentare con parole, in modo più o meno
particolareggiato o caratterizzante.
Illustrare: riferito ad un testo, corredarlo di figure (illustrazioni) per
agevolarne la comprensione o renderlo più attraente.138
3.4) PARTICOLARI IMPRESSIONANTI O RACCAPRICCIANTI
Questa espressione è di massima importanza per l’interpretazione
dell’art.15.
Dottrina e giurisprudenza sono uniformemente concordi nel ritenere che
in virtù di tale locuzione “La norma non pone un divieto assoluto di
pubblicare determinate notizie, ma il divieto di pubblicarle con particolari
e in modo che riescano offensive di taluni interessi di natura pubblica che
la legge tutela.”139
Quindi solo quelle descrizioni o illustrazioni nutrite di particolari dal
carattere impressionante o raccapricciante possono essere ricomprese
nell’art.15, perchè la norma in esso contenuta “non concerne il divieto
della trattazione di determinati argomenti, ma la particolarità della
narrazione e il modo della esposizione.”140
138
Devoto-Oli, Vocabolario illustrato della lingua italiana, Milano, 1967.
139 Cantarano, Codice della legislazione sulla stampa, Roma, 1987, pg236. In tal senso anche: Nuvolone,
ult.op.cit.; Mazzanti, ult.op.cit.; Ramajoli, ult.op.cit.
140 Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg80.
125
Riportiamo ora a riguardo le considerazioni del Nuvolone perchè, oltre ad
essere utili per chiarire l’importanza della espressione “particolari
impressionanti o raccapriccianti”, sono anche tali da evidenziare le
problematiche che l’uso di una simile espressione comporta.
Secondo il Nuvolone “L’azione criminosa consiste anzitutto nel
descrivere o illustrare, con particolari impressionanti o raccapriccianti,
avvenimenti realmente verificatisi, o anche soltanto immaginari.
L’accento tipico della fattispecie cade quindi sui particolari della
narrazione: la narrazione di avvenimenti anche atroci non è vietata se gli
avvenimenti sono esposti in sintesi, nel loro risultato finale, senza eccessi
descrittivi diretti ad illustrare le varie fasi della loro attuazione.
Anche per la locuzione particolari impressionanti e raccapriccianti
bisogna ripetere quanto si è già detto in precedenza: è sommamente
inopportuno e pericoloso per la libertà di stampa costruire un limite
penale così incerto come quello, che, facendo leva su impressioni e
reazioni psichiche, ha fatalmente un carattere di estrema variabilità
soggettiva. Un giudice sensitivo troverà impressionanti e quindi
penalmente perseguibili, narrazioni che, per la maggior parte dei lettori,
riescono del tutto indifferenti.”141
141
Nuvolone, I limiti della libertà di stampa nell’art.15 della l.8\2\1948 n.47, in Arch.pen., 1952, 2, 555.
126
Anche Jannitti Piromallo a tal proposito nota come “Quali siano i
particolari impressionanti e raccapriccianti non è facile dire”142, anche se
poi, forse troppo fiduciosamente, continua dicendo che “il concetto è di
comune accezione e sarà caso per caso stabilito dal giudice.”143
Quello che qui dobbiamo aggiungere è allora che l’importanza che tale
espressione ha nel qualificare o meno un comportamento quale
ricomprendibile tra quelli vietati dall’art.15 e quindi la sua centralità
quale criterio di discriminazione del confine tra il lecito e l’illecito, e al
tempo stesso la forte e necessaria vaghezza che l’uso della dizione
particolari impressionanti o raccapriccianti porta con se, sono
considerazioni tali da aggiungere forza argomentativa alle tesi esposte nei
primi due capitoli di questo lavoro, tali da rendere ancora più chiara la
inopportunità dell’articolo e dubbiosa la sua costituzionalità.
Infatti la scelta metodologica di evidenziare il possibile contrasto
dell’art.15 con alcuni principi della Costituzione attraverso l’analisi delle
caratteristiche dei beni da questo tutelati, non deve certo far dimenticare
che i principi di determinatezza, offensività e colpevolezza si devono
riferire alla ”intera” fattispecie incriminatrice, e che quindi il di loro
rispetto non è solo messo in discussione dalla natura dei beni tutelati
142
Jannitti Piromallo, La legge sulla stampa, Roma, 1949, pg122.
143 Jannitti Piromallo, La legge sulla stampa, Roma, 1949, pg122.
127
dall’art.15, ma anche dall’uso che questa disposizione fa dei termini
impressionante e raccapricciante.
Questi vocaboli vanno infatti certamente considerati quali elementi
significativi della fattispecie, e tali quindi da dover essere conformi ai
principi di determinatezza, offensività e colpevolezza, pena il contrasto
dell’intera fattispecie con specifici articoli della Costituzione, in cui i
detti principi si trovano contenuti.
L’espressione “particolari impressionanti o raccapriccianti” è invece
fortemente ambigua perchè difficilmente determinabile nel suo
significato (i cui contorni necessariamente risultano sfumati), ed anche
decisamente vaga perchè legata a parametri soggettivi di valutazione e di
sensibilità, e quindi tale da risultare sicuramente inadatta ed inopportuna
a costituire il momento discriminante tra il lecito e l’illecito, ed il suo
utilizzo tale da sembrare incompatibile con il rispetto dei principi
costituzionali sopra citati.
Nonostante quanto sopra appena visto, accenniamo comunque alla
questione a questa collegata del parametro di sensibilità su cui valutare
la capacità impressionante e raccapricciante dei particolari.
A tal proposito dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che i
particolari “devono esser tali da suscitare, sulla media dei cittadini, una
128
sensazione di impressione e di turbamento”144
, e cioè che il metro di un
simile giudizio debba essere “l’osservatore di normale emotività.”145
Solo in una decisione della Corte di Appello di Roma dell’anno 1952 si
può leggere, in senso contrario a quanto sopra riportato, che “La norma si
riferisce a quei turbamenti della coscienza morale che derivano da fatti di
una immoralità particolarmente ripugnante, di una immoralità per così
dire qualificata, ed alla cui influenza malefica anche l’individuo meglio
preparato difficilmente potrà sottrarsi”146; la tesi della Corte non viene
però supportata da alcun tipo di argomentazione, ed essendo
probabilmente ciò conseguenza della impossibilità di validamente
argomentare in tal senso, dovuta alla assoluta mancanza di dati normativi
tali da far ritenere possibile una simile interpretazione, sembra allora che
la tesi della Corte possa esser scartata senza dubbio alcuno, perchè,
nonostante se ne debba riconoscere la nobile finalità di dilatare la libertà
di stampa restringendo la portata dell’art.15, tuttavia non si possono
comunque sacrificare logica e coerenza interpretativa nel perseguire un
simile obiettivo.
144
Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg322.
145 Cassaz. Sez.3, Ud.9 giugno 1982 (Dep.9 ottobre 1982). In tal senso anche Trib. Milano, sent.n.3047,
10\10\1995.
146 C.Appello di Roma, 19 giugno 1952, in Arch.pen., 1952, 2, 550.
129
3.5) IN MODO DA
Con la locuzione “in modo da” l’art.15 descrive il rapporto di causalità
che deve sussistere tra la condotta e l’evento di pericolo, e cioè specifica
come non ogni descrizione o illustrazione curate con particolari
impressionanti o raccapriccianti siano vietate dalla norma, ma solo quelle
che secondo determinate modalità di estrinsecazione sono idonee a ledere
i beni oggetto della sua tutela.
Come abbiamo già accennato nel precedente paragrafo “L’azione
costitutiva del reato non si esaurisce nell’esposizione di particolari
impressionanti o raccapriccianti, ma deve essere integrata dal modo della
esposizione, particolarmente suggestivo, o denotante nell’autore
insensibilità morale o compiacimento per la narrazione in se stessa.”147
Notevole è il contributo che all’approfondimento della tematica
dell’efficienza causale nell’art.15 ci viene offerto dalla lettura delle
considerazioni in tal senso svolte dal Nuvolone e che qui di seguito
riportiamo.148
“Il problema fondamentale è quello del rapporto di causalità tra la
condotta e l’evento di pericolo. E tale problema fa logicamente perno
sulla consecutiva in modo tale da. Questa consecutiva significa,
147
Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg80.
148 Nuvolone, I limiti della libertà di stampa nell’art.15 l.8 febbraio 1948 n.47, in Arch.pen., 1952, 2, 555 ss.
130
evidentemente, che vi deve essere nella narrazione l’idoneità a produrre
quell’evento; e ciò vuol dire appunto che la narrazione deve esser fatta in
un certo modo, oltre a contenere particolari impressionanti e
raccapriccianti.
Se, invero, bastassero i particolari impressionanti o raccapriccianti, il
legislatore si sarebbe servito della solita locuzione usata in altri casi: se
dal fatto può derivare ecc. Invece il legislatore, servendosi di quella
consecutiva, ha voluto dire qualcosa di diverso.
Quindi i particolari impressionanti e raccapriccianti, per dar luogo ad
incriminazione, devono essere presentati sotto un determinato aspetto. E
tale aspetto non può che essere quello della suggestività della
esposizione, della sua insensibilità morale, della mancanza di ogni
elemento di riprovazione, del compiacimento implicito della narrazione
in se per se. Infatti, la narrazione teleologicamente orientata nel senso
della deplorazione non può dirsi pericolosa per la morale e per l’ordine
pubblico.
L’idoneità, perciò, risulterà in sintesi, dai seguenti elementi:
a) natura degli avvenimenti narrati: avvenimenti che escono dalla
normalità sociale e incidono sui principi etico-giuridici su cui si fonda
la convivenza;
131
b) natura dei particolari narrati: particolari che suscitano forti
impressioni contrastanti con i principi di cui sopra fino ad apparire il
prodotto delle più deteriori degenerazioni sadiche o masochistiche;
c) modo della narrazione: qui vengono in considerazione quei caratteri
di suggestività e di amoralità, di cui abbiamo or ora parlato;
d) reattività sociale in rapporto ai tempi e ai luoghi: quello di idoneità
è un concetto di relazione tra lo stampato e il lettore, e come tale non
può prescindere da questo dato oggettivo esterno.”149
In tal senso anche il Mazzanti, che in un paragrafo dedicato alla questione
dell’efficienza causale nell’art.15, così scrive: “Ma il punto più
importante sì da essere fondamentale per risolvere il problema
dell’efficienza eziologica concerne il modo della trattazione, sia essa una
descrizione, una narrazione o una illustrazione.
Ed, invero se il racconto - per usare un termine generico e comprensivo -
si risolvesse con un ammonimento morale esplicito o tale che scaturisca
dal contenuto dell’esposizione; se proponesse delle soluzioni etiche; se
rivolgesse deplorazioni ai fatti prima esposti; se, in una parola, fosse da
considerare moralmente ineccepibile, non si verserebbe nelle ipotesi
delittuose in esame. Ma se invece lungi dall’esporre i principi morali, o
dal suscitare un senso di disgusto e di timore, che pur varrebbe ad
149
Nuvolone, ult.op.cit., pg557-558.
132
allontanare da ogni idea di suicidio, di delitto o di violenza, etc., tali
narrazioni si diffondano nel trattare in guisa favorevole, con
approvazione, in modo da suscitare ammirazione e desiderio di malsana
emulazione, fatti contrari ai beni giuridici dalle norme tutelati, allora, ed
a giusto titolo, potremmo dire che ci troviamo di fronte al materiale
delittuoso che ci interessa.
È dunque il modo dell’esposizione quello che conta; quel modo che
susciti simpatia per i protagonisti delle poco morali vicende; che induca il
lettore ad emularli e ad amarli per il fascino che, in virtù dell’abilità
dell’autore, promana dalle figure rappresentate; è il modo che denota una
efficacia di suggestione, determinata dall’insistere nell’esposizione si da
rilevare non già il distacco dello scrittore, ma una sorta di
compiacimento, di adesione e sì da ottenere effetti di persuasione, di
sintonia morale fra l’autore e il lettore.
Quando, in sostanza, la narrazione rilevi la coerenza intima , avvertibile,
anche se non espressa, la simpatia fra lo scrittore e i protagonisti delle
poco sane vicende, e ciò perchè tutti i particolari dei fatti valgono a creare
attorno ai protagonisti suddetti e alle loro azioni un alone di gloria, di
vittoria, di successo nella vita, di superamento di ogni ostacolo; quando,
infine, l’autore si compiaccia dei suoi personaggi e miri a suscitare
attorno ad essi, non un senso di deprecazione, ma, anzi di ammirazione e
133
di consenso, dovrà allora dirsi che, in effetti, trattasi di racconti
incriminabili ai sensi della Legge sulla stampa (art.14 e 15).”150
Le considerazioni dei due autori meritano ora alcune riflessioni, perchè
forse non così “immediatamente condivisibili” come la loro grande
chiarezza espositiva le fa apparire.
Per semplicità di analisi prendiamo solo in considerazione e
sottoponiamo a vaglio critico i punti in cui il Nuvolone ha efficacemente
schematizzato gli elementi su cui basare il giudizio di idoneità causale
necessario ad applicare l’art.15, perchè le considerazioni del Mazzanti
sono in linea di massima ai suddetti punti riconducibili e, per quanto non
a questi accomunabili, forse ancor più criticabili.
Punto a):natura degli avvenimenti narrati. Tale punto presuppone sia
l’individuazione del concetto di “normalità sociale” che quella dei
“principi etico-giuridici posti a fondamento della convivenza sociale”, e
afferrare concettualmente la nozione (in se forse già inquietante) di
normalità sociale e individuare principi etico-giuridici fondamentali, è
opera non certo semplice e comunque, se portata a termine, difficilmente
esente da vaghezza e labilità.
Punto b):natura dei particolari narrati. Anche il concetto di “forti
impressioni contrastanti con i principi etico-giuridici” qui richiamato
150
Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg332-333.
134
comporta gli stessi problemi appena sopra esposti, così come il
riferimento alle “deteriori degenerazioni sadiche e masochistiche” è
fortemente emotivo ed è assolutamente inadatto ad indicare alcun criterio
valido di causalità applicabile al caso in questione.
Punto c): modo della narrazione. I concetti di “suggestività” e di
“amoralità” sono anch’essi soggetti alle critiche sopra riportate.
Punto d): reattività sociale in rapporto ai tempi e ai luoghi. Questo punto
è in linea di massima condivisibile.
Punti a)b)c)d). Tutti gli elementi puntualmente riportati dal Nuvolone
sembrano avere il difetto di individuare i parametri della causalità in base
a criteri di natura fortemente soggettiva e tali da non poter essere oggetto
di alcun tipo di verifica empirica attendibile.
Tanto ciò è vero che, come meglio vedremo nel prossimo paragrafo, a
volte sia la dottrina che la giurisprudenza hanno “mutato il campo di
applicazione” dei criteri del Nuvolone, riferendoli all’elemento
soggettivo del reato, considerando il dolo necessario per integrare la
fattispecie come dolo specifico e cioè come volontà finalisticamente
orientata alla lesione dei beni tutelati dalla norma, beni che sono
d’altronde poi incredibilmente vicini a quei principi etico-giuridici di cui
il Nuvolone parla nei punti a)e b) e alla moralità di cui al punto c).
135
La lodevole intenzione perseguita dal Nuvolone di dare dell’art.15 una
lettura compatibile con la Costituzione attraverso l’interpretazione della
locuzione in modo da come suggestiva di una causalità orientata non
sembra convincente, e, a nostro parere, non può esserlo non per un difetto
di argomentazione imputabile all’autore, ma perchè, come spiegato nel
primo capitolo, è la qualità stessa della tipologia dei beni protetti dalla
norma a implicare simili conseguenze.
Come scrive Cantarano “La narrazione impressionante e raccapricciante
viene in considerazione non per la sua oggettività intrinseca, ma per la
sua direzione finalistica, e cioè in relazione ad un concetto nebuloso e
necessariamente generico di morale comune, non determinabile in
concreto se non attraverso pericolose intuizioni soggettive.”151
PAR.4: ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO
4.1) ART.528 C.P. ED ELEMENTO SOGGETTIVO DELL’ART.15
151
Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg81.
136
La diversa lettura quoad delictum o quoad poenam del richiamo operato
dall’art.15 all’art.528 c.p. influenza la questione dell’elemento
psicologico necessario ad integrare l’illecito di cui all’art.15.
Interpretare il rimando semplicemente quoad poenam sembra comportare
che il dolo proprio dell’art.15 debba essere inteso come dolo generico,
mentre, intendendo il richiamo quoad delictum, conseguentemente si
deve pretendere che il dolo proprio dell’art.15 sia dolo specifico, e cioè
consistente in una volontà rivolta allo scopo di fare commercio o
distribuzione o pubblica esposizione, nei casi di fabbricazione,
introduzione nel territorio dello stato, acquisto, detenzione, esportazione
o messa in circolazione, di stampati dalle caratteristiche indicate
dall’art.15, mentre nei casi di commercio, distribuzione o esposizione
pubblica degli stessi stampati, è sufficiente il dolo generico, come è
deducibile dalla lettura integrata dell’art.15 e dell’art.528 c.p.
4.2) DOLO SPECIFICO
L’art.15, certamente richiamandosi all’art.528 c.p. almeno per la
determinazioni delle sanzioni da irrorare nel caso di sua violazione,
impone come pena per il trasgressore la reclusione da tre mesi a tre anni e
la multa non inferiore a lire duecentomila. Così disponendo l’articolo si
colloca tra la categoria dei delitti, e quindi, come prescritto al secondo
137
comma dall’art.42 c.p., non espressamente indicando la possibilità di una
responsabilità colposa, presuppone la sola possibilità della punibilità a
titolo doloso.
Se quanto sopra detto è di tutta evidenza e tale da non far sorgere dubbio
alcuno, altrettanta chiarezza ed uniformità di vedute non è riscontrabile
riguardo un diversa prospettiva della questione del dolo, e precisamente
al se questo debba essere inteso come generico o come specifico (e cioè
rivolto a determinate finalità e ispirato da particolari motivazioni).
La dottrina è a tale riguardo più chiara ed al tempo stesso più uniforme
della giurisprudenza: infatti la maggior parte degli autori che si sono
interessati al tema152
hanno avuto la accortezza di specificare se
l’importanza attribuita all’atteggiamento mentale dell’autore dovesse
riferirsi all’elemento materiale del reato (come tutti questi hanno
affermato), oppure all’elemento psicologico del reato, mentre in molte
delle decisioni giudiziali viene semplicemente affermata l’importanza del
modo di rapportarsi dell’autore dello stampato al di questo contenuto, ma
senza chiarire se tale questione afferisca all’elemento materiale o a quello
152
Nuvolone, I limiti della libertà di stampa nell’art.15 della L.8\2\1948 n.47, in Arch.pen., 1952, 2, 555;
Cantarano, regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg81; Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano,
1962, pg327.
138
soggettivo del reato, anche se non mancano casi in cui esplicite e chiare
sono prese di posizione nell’uno153
o nell’altro senso.154
Considerare il dolo dell’art.15 come dolo specifico significa ritenere
necessario che il soggetto attivo del reato, oltre ad aver agito con
coscienza e volontà di illustrare o descrivere con particolari
impressionanti e raccapriccianti (...), abbia avuto il proposito di ledere i
beni giuridici tutelati dall’art.15, mentre ritenere semplicemente
necessario il dolo generico ai fini dell’applicazione dell’art.15, equivale a
considerare sufficiente che l’agente abbia avuto cosciente volontà di
illustrare la narrazione del fatto con particolari i quali risultino in effetti
impressionanti o raccapriccianti e tali da poter ledere i beni dell’art.15,
senza dare alcun rilievo al fatto del se l’agente si fosse o meno riproposto
di in tal modo offenderli.
Vale la pena di riportare ora le considerazioni della Corte di Cassazione
riguardo al problema in questione e conseguentemente quelle sul come
valutare gli atteggiamenti morali dell’autore.
“Va subito detto che la formulazione della norma non accredita
minimamente una concezione del dolo come atteggiamento della
interiorità del soggetto quale quella che traluce nell’idea che i particolari
153
Cassaz.,Sez.3, 2 febbraio 1959, in Giust.pen. 1959, 2, 1179, 975; Cassaz.Sez.3, 9 febbraio 1959, in
Rep.giur.it. 1959, pg3330, n.47; Cassaz. Sez.3, Ud.9 giugno 1982 (Dep.9 ottobre 1982).
139
impressionanti e raccapriccianti della pubblicazione incriminabile
debbano essere esposti in modo da rilevare nell’autore non già una forma
di distacco, ma una sorta di compiacimento e di adesione per l’oggetto
della pubblicazione.
Vero è invece che nel delitto in esame il dolo non si pone altrimenti che
nelle forme ordinarie enucleabili dagli art.42-43 c.p. e cioè come
presenza rappresentativa, nella coscienza dell’agente, di tutti gli elementi
costitutivi della fattispecie criminosa e come adesione volitiva ad essi
anche mediante accettazione del rischio di una loro verificazione
eventuale. Ne deriva che qualora l’autore si sia rappresentati gli obiettivi
summenzionati caratteri della pubblicazione a contenuto impressionante
o raccapricciante, e cioè nonostante l’abbia voluta, né la finalità ispirativa
della volizione, né la motivazione su cui questa si sostenga, né lo stato
d’animo più o meno dissonante col tenore della medesima hanno
efficacia esclusiva del dolo, anche se finalità, motivazione e dissonanza
siano dichiarate contestualmente alla pubblicazione e possono valere a
misurare l’intensità del dolo o anche ad attenuare la responsabilità penale
del colpevole.”155
154
Una per tutte: Tribunale di Milano, 28 gennaio 1950, in Giust.pen. 1950, 2, 335.
155 Cassaz.Sez.3, Ud.9 giugno 1982 (Dep.9 ottobre 1982).
140
Così chiarito di che tipo di dolo si tratti, la Corte subito prosegue
spiegando che “Nemmeno può condividersi la tesi orientata ad attrarre
nell’orbita rappresentativa e volitiva dell’elemento soggettivo del reato la
potenzialità offensiva del contenuto impressionante o raccapricciante
della pubblicazione rispetto al comune sentimento della morale, facendo
di tale nota, che appartiene chiaramente (in modo da poter turbare) alla
struttura obbiettiva della fattispecie criminosa, siccome attinente alla
lesività in concreto della condotta, un carattere specifico del dolo
dell’autore. Quando la legge ha inteso limitare la punibilità di un fatto ad
una determinata specifica direzione assunta dalla volontà dell’agente,
concentrando su di essa l’interesse punitivo, riponendo in essa il giudizio
normativo di riprovevolezza ed in definitiva soggettivando il disvalore
colpito dalla norma incriminatrice, lo ha fatto senza mezzi termini
descrittivi, onde non è lecito all’interprete ricostruire la fattispecie
introducendo in essa un elemento finalistico riduttivo della portata
significativa del testo normativo e del raggio di tutela con esso accordata
ad un determinato bene giuridico, nella specie il comune sentimento della
morale, esposto a turbamento sia che l’autore della pubblicazione si sia
proposto intenzionalmente di turbarlo, sia che ne abbia scontato
l’evenienza pur di raggiungere uno scopo realmente o opinatamente
possibile, sia che abbia, ma inescusabilmente (art.5 c.p.) ritenuta lecita la
141
propria condotta in virtù del perseguimento di tale scopo, sia in fine che
abbia sinceramente inteso eliminare la potenzialità lesiva del fatto,
obiettivamente riscontrabile ed in effetti personalmente riscontrata, col
dichiarare lo scopo stesso.”156
La dottrina che su tali specifiche problematiche si è espressa è concorde
con quanto sopra affermato dalla Cassazione e lo stesso può dirsi per la
giurisprudenza dominante di merito.157
PAR.5: OPERA D’ARTE E ART.15
Il problema che qui si discute è quello del se la artisticità dell’opera
oggetto dello stampato avente le caratteristiche necessarie ad integrare la
fattispecie dell’art.15, sia o meno condizione tale da escludere
l’applicabilità dell’articolo stesso.
Riguardo tale questione nullo è il contributo della giurisprudenza ed
altrettanto inesistente quello della dottrina, eccezion fatta per il solo
Cantarano che, comunque, molto succintamente scrive: “In rapporto a
questa figura di reato non agisce il limite dell’opera d’arte, che l’art.529
c.p. riferisce solo alla nozione dell’osceno. D’altra parte l’opera d’arte
156
Vedere nota n.142.
157 Vedere nota n.140.
142
può essere più idonea di ogni altra, per la sua suggestività, a suscitare
quel turbamento che la legge vuole evitare.”158
L’argomentazione del Cantarano non risulta però convincente perchè si
può egualmente affermare che l’opera d’arte può essere idonea, per la sua
suggestività, anche a suscitare quel turbamento che l’art.528 c.p. vuole
evitare, ma che espressamente invece l’art.529 c.p. non prevede venga
punito nel caso sia procurato da opera d’arte o di scienza.
Affermare, come sembra fare il Cantarano, che l’opera d’arte, solo perchè
idonea a ledere i beni protetti dall’art.15 non è condizione di esclusione
della punibilità, appare errato semplicemente considerando che la
giurisprudenza159
, commentando l’art.529 c.p., ha costantemente
affermato che la artisticità di una opera non implica che questa non sia
qualificabile come oscena, ma semplicemente rende non punibile
l’osceno, e che quindi non è che l’opera d’arte o di scienza non sia punita
perchè inidonea a turbare il comune senso del pudore, ma perchè il
legislatore ha ritenuto di escluderne la punibilità in base a un giudizio di
comparazione di valori (giudizio oggi rafforzato dall’art.33 Cost.: “L’arte
e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”). Se il giudizio di
oscenità è del tutto indipendente da quello di artisticità-scientificità, e se
158
Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg81.
159 Cassaz., Sez.3, 73\127782; Sez.3, 73\127784; Sez.4, 77\135806.
143
la scelta di fare della artisticità-scientificità di una opera la esimente
specifica per il reato di cui all’art.528 c.p. è fondato su di un giudizio di
valori, allora sembra giusto considerare applicabile tale esimente anche
all’art.15.
Infatti l’art.15 tutela valori la cui legittimità costituzionale quali limiti
alla libertà di espressione del pensiero è sicuramente meno fondata di
quella del valore del comune senso del pudore (che in tale senso è
legittimato dall’art.21 Cost. ultimo comma), e se la legge ritiene che tale
valore sia meno pregnante di quello della tutela della libertà di
espressione artistica e scientifica (lettura integrata degli art.21 e 33
Cost.), allora ne consegue che la esimente della artisticità-scientificità
dell’opera a maggior ragione deve valere per l’art.15 che protegge beni il
cui valore costituzionale di limiti alla libertà garantita dall’art.21 Cost. è
certamente inferiore a quelli dell’art.528 c.p.
Detto ciò, riportiamo come contributo all’approfondimento di questa
tematica e come indizio di validità della tesi sopra esposta parte della
discussione tenutasi in Assemblea Costituente su questo argomento.160
“-PRESIDENTE. Gli onorevoli Scoccimarro, Togliatti ed altri hanno
proposto di aggiungere le parole: che non abbiano carattere di opere
d’arte.
160
Atti della Assemblea Costituente, seduta del venerdì 16 gennaio 1948.
144
-CEVOLOTTO(Relatore). Chiedo di parlare
-PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
-CEVOLOTTO(Relatore). Mi pare che l’aggiunta proposta
dall’onorevole Scoccimarro sia forse superflua, ma non possa in ogni
caso trovare opposizione nel suo concetto, perchè è compresa nell’art.529
c.p., il quale dice: “Non si considera oscena l’opera d’arte o di scienza,
salvo che (omissis)”. Ora, qui non si tratta soltanto di oscenità, ma anche
di descrizione di fatti raccapriccianti o comunque impressionanti. Il
concetto contenuto nell’art.529 c.p. per l’opera oscena, a maggior ragione
non può essere negato per l’opera semplicemente impressionante o
raccapricciante. Sarebbe assai strano che la disposizione del Codice
penale per l’opera anche oscena, quando sia opera d’arte, non venisse
ripetuta quando si parla di pubblicazioni semplicemente raccapriccianti o
impressionanti.
-UNA VOCE. È pleonastica.
-CEVOLOTTO(Relatore). Non è pleonastica, perchè l’art.529 c.p. si
riferisce all’art.528 c.p., che parla di pubblicazioni e spettacoli osceni, e
qui non parliamo di spettacoli osceni ma di pubblicazioni impressionanti
o raccapriccianti. Certamente l’aggiunta precisa l’interpretazione che
deve essere data dell’articolo 529 c.p.
-MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
145
-PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
-MORO. Condividendo le dichiarazioni fatte dall’onorevole Cevolotto e
ritenendo che qui non siano da prendere in considerazione le opere d’arte,
che sono ad altro titolo escluse, dichiaro che voteremo contro
l’emendamento Scoccimarro.
-RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
-PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
-RUSSO PEREZ. Se la proposta tende ad escludere dall’incriminazione
le vere opere d’arte, come la Fucilazione del Goja o le Bestie squartate
del Rembrandt, la disposizione è superflua perchè ciò è nella coscienza di
tutti. Se viceversa tende a fare sfuggire alla repressione penale giornalisti
o pseudo artisti che vogliono violare la legge servendosi di questo
stratagemma, la proposta è pericolosa, e perciò voterò contro.
-CEVOLOTTO(Relatore). Chiedo di parlare.
-PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
-CEVOLOTTO(Relatore). Non vorrei che adesso, attraverso una
votazione fatta, diciamo pure, un pÒ per impeto, si venisse a pregiudicare
l’applicabilità dell’art.529 c.p. Poiché noi ci riferiamo all’art.528 c.p., è
evidente che si deve applicare anche l’art.529 c.p. Questo mi pare chiaro.
La votazione dell’emendamento proposto dall’onorevole Scoccimarro
sotto questo aspetto potrebbe anche ritenersi superflua perchè, secondo
146
me, non vi è dubbio che dal richiamo dell’art.528 c.p. discende
l’applicabilità anche dell’art.529 c.p. L’elemento costituisce
semplicemente un chiarimento interpretativo. Ma io mi preoccupo che
dall’eventuale reiezione dell’emendamento non si possa dedurre una
interpretazione che io ritengo certa. Penso che ciò sia pericoloso e perciò
prego l’onorevole Scoccimarro di considerare la questione sotto questo
aspetto. Se il suo emendamento venisse respinto, il voto della Camera
potrebbe avere un significato che toglierebbe la possibilità di quella
interpretazione che, secondo me, è evidente.
-SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.
-PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
-SCOCCIMARRO. L’emendamento presentato avrebbe avuto significato
se fosse stato approvato dall’unanimità dell’Assemblea. Poteva essere
superfluo, ma in ogni modo precisava. Poiché si delinea la possibilità di
un voto contrario, questo creerebbe equivoci e difficoltà, per cui ritiro
l’emendamento”.
Come già detto, condividiamo la posizione dell’onorevole Cevolotto, ma,
visti i problemi interpretativi sorti attorno alla natura del richiamo
dell’art.528 c.p. da parte dell’art.15, sarebbe stata auspicabile
sull’argomento una più chiara presa di posizione dell’Assemblea, magari
proprio nel senso auspicato dall’onorevole Scoccimarro.
147
PAR.6: TRATTAMENTO SANZIONATORIO
L’art.15 certamente rimanda all’art.528 c.p. per la determinazione del
trattamento sanzionatorio.
Le pene applicabili in caso di violazione dell’art.15 sono dunque quella
della reclusione da tre mesi a tre anni e della multa non inferiore a lire
duecentomila.
PAR.7: RELAZIONI DELL’ART.15 CON ALTRE
NORME DELL’ORDINAMENTO
7.1) PREMESSA
Per trattare in modo esauriente ed approfondito gli argomenti che di
seguito verranno esposti, sarebbe necessario affrontare una lunga e
complessa analisi della tematica dell’abrogazione, e relazionarla ad un
particolareggiato studio dell’art.114 T.U.P.S. e dell’art.565 c.p. (a loro
volta raffrontati all’art.15 l.47\1948).
Una simile opera sarebbe molto complicata dalla non felice tecnica
normativa con cui le disposizioni in questione sono state scritte dal
legislatore e dalla molteplicità ed immaterialità dei beni da queste
tutelati, e tale compito risulterebbe alla fine troppo incerto e
148
assolutamente sfornito di concreti agganci dottrinali e giurisprudenziali,
non essendosi né la dottrina né la giurisprudenza a ciò interessate.
Allora, consci dell’eccessivo impegno che la loro trattazione
comporterebbe e convinti della marginalità di queste questioni perchè
non inerenti le problematiche di costituzionalità che l’art.15 solleva e che
sono la vera ragione del nostro interesse per questo, ci limiteremo a
riguardo a solo riportare le poche e spesso ambigue opinioni di dottrina e
giurisprudenza.
7.2) ART.15 E ART.114 T.U.P.S.
La questione trattata in questo paragrafo è quella della avvenuta possibile
abrogazione da parte dell’art.15 della legge sulla stampa del terzo comma
dell’art.114 della legge n.773\1931 (T.U.P.S.), che così recita: “È inoltre
vietato di pubblicare nei giornali o in altri scritti periodici ritratti dei
suicidi o di persone che abbiano commesso delitti.”
In merito alla suddetta questione la dottrina è divisa.
Da una parte, Nuvolone161
e Jannitti Piromallo162
sostengono la
impossibilità di ritenere l’art.114 abrogato dall’art.15, dall’altra Finardi163
161
Nuvolone, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, pg258-259.
162 Jannitti Piromallo, La legge sulla stampa, Roma, 1957, pg121.
163 Finardi, I ritratti dei suicidi e delle persone che hanno commesso delitti e l’art.114 del t.u.p.s., in
Arch.pen., 1951, 1, 245.
149
e, come a noi sembra, anche se solo implicitamente, Mazzanti164
e
Cantarano165
, propendono invece per ritenerlo abrogato.
Mentre Jannitti Piromallo si limita riguardo ciò ad affermare che “Questa
disposizione (art.114) non può essere ritenuta abrogata con l’entrata in
vigore della legge sulla stampa, perchè con essa non solo non è
incompatibile, ma di essa può reputarsi complementare”166
, Nuvolone più
estesamente spiga: “La disposizione dell’art.114 della legge di p.s. tutela
anche un altro interesse, di natura privata, e cioè quello di ogni cittadino
di non veder esposta la propria immagine alla curiosità morbosa dei
lettori della cronaca nera. A tale interesse anche oggi bisogna riconoscere
il carattere di un diritto, e pertanto il divieto conserverebbe intatto il suo
valore, anche se dovesse ritenersi caduta la parte pubblicistica della ratio
legis. Solo la volontà contraria degli aventi diritto potrebbe togliere, da
questo punto di vista, alla pubblicazione il suo carattere illecito. Per
questi motivi, pur tenendosi conto della obbiezioni, della desuetudine in
cui è caduta la norma e del consolidato orientamento giurisprudenziale,
non ci sembra di dover deflettere dal convincimento circa l’attuale
applicabilità della norma. Se la si ritiene superflua, è bene abrogarla.”167
164
Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg319 ss.
165 Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg79 ss.
166 Jannitti Piromallo, ult.op.cit., pg121.
167 Nuvolone, ult.op.cit., pg258-259.
150
Finardi, convinto sostenitore della tesi che vede l’art.114 abrogato in
forza dell’art.15, così argomenta in proposito: “La materia oggetto
dell’art.114 terzo comma della legge di P.S. è la stessa di quella oggetto
dell’art.15 della legge sulla stampa, di cui anzi costituisce una parte; tale
materia non si ammette sia presa in considerazione a un identico fine e
cioè per evitare che si provochi il diffondersi del suicidio e del delitto;
l’art.15 ha un carattere generale, risultando dalla sua obbiettività giuridica
e dalla sedes materiae la volontà del legislatore di comprendere ogni caso
di pubblicazione che, impressionando il lettore, possa turbare o far
vacillare le coscienze; l’art.15 prende insomma in considerazione allo
stesso fine un genus di cui all’art.114 considera una species. Non può
pertanto che risultarne la volontà legislativa di sostituirsi alla precedente
col regolare ex novo et funditus la stessa materia.”168
Accertate le divisioni esistenti sull’argomento in dottrina, concludiamo
riportando quanto in merito autorevolmente argomentato dalla
Cassazione a sezioni unite: “Ci si deve domandare se la legge sulla
stampa del 1948, allo scopo di evitare il turbamento del comune
sentimento della morale o dell’ordine familiare nonché il diffondersi di
suicidi o delitti, abbia inteso esaurire con l’art.15 di detta legge, le ipotesi
di divieto e conseguenti sanzioni penali relativamente alla così detta
168
Finardi, ult.op.cit., pg248.
151
cronaca nera. Per compiere tale indagine sarà opportuno richiamarsi, più
che a una mera compatibilità materiale delle norme alla intenzione del
legislatore; e se questi ha ordinato la materia relativa alla cronaca dei fatti
di suicidio o di delitto, si deve necessariamente supporre che sia partito
da altri principi direttivi, dei quali non può non tenersi conto... circa la
efficacia attuale di norme precedenti e regolanti la stessa materia. Ora,
nessuno ignora che il divieto di pubblicare ritratti di suicidi o di persone
che avessero commesso delitti fu stabilito nelle leggi di P.S. del 1926 e
1931, quando cioè la cronaca di tali fatti era compressa... Tali divieti si
inquadravano, perciò, nel sistema politico-amministrativo del tempo.
Riaffermata successivamente la libertà di stampa, il legislatore doveva
preoccuparsi ex novo dei limiti che tale libertà comportava. L’interesse
giuridico da tutelare fu, anzi, chiaramente espresso nell’art.15 della legge
sulla stampa, e se, in considerazione di tale interesse, si ritenne di vietare
gli scritti e i disegni che avessero avuto carattere, contenuto e particolari
impressionanti e raccapriccianti, è evidente che solo questi elementi, e
non altro, furono ritenuti idonei a comportare il diffondersi di suicidi o
delitti. Sicché anche la pubblicazione delle fotografie potrà rientrare nella
previsione dell’art.15 della legge sulla stampa, in quanto le fotografie
stesse contengono particolari impressionanti o raccapriccianti. Ogni altra
norma che abbia la stessa finalità ma non contenga quegli elementi
152
specifici indicati dalla legge sulla stampa, non può quindi che
considerarsi abrogata. E trova così applicazione l’ultima parte dell’art.15
della disposizioni sulla legge in generale, nel senso che quando la nuova
legge ha regolato la materia relativa alla cronaca dei fatti delittuosi o di
suicidio, deve ritenersi implicitamente abrogata ogni norma anteriore che
regolava la stessa materia.”169
7.3) ART.15 E ART.565 C.P.
Anche rispetto alla relazione tra l’art.15 e l’art.565 c.p. si è posto il
problema di stabilire se l’articolo contenuto nella legge sulla stampa
abbia o meno efficacia abrogatrice rispetto alla norma inserita nel codice.
L’art.565 c.p. così dispone: “Chiunque nella cronaca dei giornali o di altri
scritti periodici, nei disegni che ad essa si riferiscono, ovvero nelle
inserzioni fatte a scopo di pubblicità sugli stessi giornali o scritti, espone
o mette in rilievo circostanze tali da offendere la morale familiare, è
punito con la multa da lire duecentomila ad un milione”.
La dottrina è in merito divisa.
169
Cass.Sez.Un. 15 febbraio 1951, in Riv.pen., 1952, 39,40.
153
Tra gli autori che hanno dato attenzione all’argomento, Nuvolone170 e
Cantarano171 sono favorevoli all’ipotesi abrogativa, mentre Mazzanti172 e
Jannitti Piromallo173 sembrano avversarla.
Così Nuvolone argomenta in proposito: “Le due norme (art.15 e art.565
c.p., N.d.R.) vanno considerate insieme. L’elemento comune ad entrambe
è la tutela di un bene attinente alla famiglia contro gli abusi della stampa.
E la differenza è questa: che, nell’art.15 della legge speciale, viene
tutelato l’ordine della famiglie, in quanto possa venire turbato dalla
stampa a contenuto impressionante o raccapricciante; mentre, nell’art.565
c.p., viene tutelata la morale familiare contro qualsiasi cronaca di fatti
idonea ad offenderla. Se si pensa che l’ordine familiare è concetto più
ristretto di quello di morale familiare - il primo ha riguardo ai rapporti
esterni di struttura, la seconda a tutto il complesso di rapporti etici, dei
reciproci doveri tra i membri della famiglia - e che nella cronaca idonea
ad offendere la morale familiare, come il meno nel più, è compresa la
narrazione di particolari impressionanti o raccapriccianti, risulta chiaro
che l’art.15 è norma specifica rispetto a quella dell’art.565 c.p. A questo
170
Nuvolone, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, pg259-260-261.
171 Cantarano, Regime giuridico della stampa, Roma, 1960, pg273; Cantarano, Codice della legislazione
sulla stampa, Roma, 1987, pg81.
172 Mazzanti, L’osceno e il diritto penale, Milano, 1962, pg327-340.
173 Jannitti Piromallo, La legge sulla stampa, Roma, 1957, pg123.
154
punto si pone un problema: la legge speciale ha abrogato implicitamente
l’art.565 c.p.? Argomento a favore: il fatto che si sia creata una nuova
disposizione, sanzionata molto più gravemente per una fattispecie già
compresa nell’art.565 c.p. Argomento contrario: il rapporto di species a
genus esclude la incompatibilità. Quindi dal punto dal semplice confronto
delle due norme, non si può concludere per la abrogazione tacita.
Tuttavia, pensiamo che si possa parlare di norma costituzionalmente
illegittima.
E, invero, incriminare una cronaca solo per il fatto che espone o mette in
rilievo circostanze offensive per la morale familiare, significa inibire il
diritto di cronaca in una sfera praticamente illimitata. Una cosa è punire il
modo di indugiarsi su certi particolari impressionanti o raccapriccianti, e
un’altra vietare anche la nuda esposizione dei fatti. Quest’ultimo divieto
è incompatibile con un ordinamento che pone tra i suoi cardini essenziali
la libertà di stampa. E, alla luce di tale argomento di principio, la
specificazione dell’art.15 della legge sulla stampa nei confronti
dell’art.565 c.p. acquista il valore implicito di una volontà
abrogatrice.”174
Cantarano, partendo dalla contestazione della sussistenza di un rapporto
di genus a species tra l’art.565 c.p. e l’art.15, così scrive: “È da osservare
174
Nuvolone, ult.op.cit., pg260-261.
155
che il comune sentimento della morale tutelato dall’art.15 è comprensivo
della morale familiare: quindi non può dirsi che l’art.565 c.p. abbia una
più vasta oggettività giuridica.
Più ampia è poi la sfera di applicazione dell’art15 quanto al mezzo di
perpetrazione del reato, concernendo ogni specie di stampati, mentre
l’art.565 c.p. si riferisce alla sola stampa periodica.
Infine, alla formula dell’art.565 c.p. espone o mette in rilievo circostanze
tali da..., l’art.15 sostituisce una dizione meno generica, circoscrivendo la
rilevanza penale della condotta punibile alla descrizione o alla
illustrazione non dell’avvenimento in se stesso, ma dei suoi particolari
impressionanti o raccapriccianti; esso così condiziona la punibilità a
requisiti più specifici, per tal via ampliando la sfera della libertà di
cronaca e di creazione.
Pertanto l’intera materia trattata dall’art.565 c.p. risulta oggi regolata
dall’art.15 della legge sulla stampa, in modo diverso per la particolarità
del precetto e per la sanzione; la norma preesistente non ha più ragion
d’essere ed è da considerarsi perciò tacitamente abrogata.”175
Di Jannitti Piromallo176
e Mazzanti177
non è possibile riportare alcuna
specifica considerazione riguardo l’argomento in questione, ma dal
175
Cantarano, Codice della legislazione sulla stampa, Roma, 1987, pg237.
176 Jannitti Piromallo, ult.op.cit., pg123.
156
contesto delle loro analisi sugli articoli di cui sopra, sembra che entrambi
gli autori propendano per non considerare l’art.565 c.p. abrogato
dall’art.15 della legge sulla stampa.
Nulla in proposito è stato detto dalla giurisprudenza.
7.4) CONCLUSIONE
A termine di questo paragrafo possiamo solo far notare quanto già
accennato nella premessa, e cioè che la particolareggiata modalità di
costruzione delle norme ed i contorni sfumati dei beni tutelativi rendono
non poco difficile orientarsi nella questione della efficacia abrogativa
dell’art.15 della l.47\1948 nei confronti degli articoli 565 del Codice
penale e 114 del T.U.P.S.
PAR.8: CONCLUSIONI
Lo studio condotto in questo capitolo fa emergere come non poche siano
le difficoltà interpretative legate ad una attenta lettura dell’art.15 della
l.47\1948. Il richiamo operato dall’art.15 all’art.528 c.p., l’utilizzo di
locuzioni ambigue (“particolari impressionanti o raccapriccianti”, “in
modo da”) e la natura dei beni tutelati sono tutte “valide ragioni” di
177
Mazzanti, ult.op.cit., pg327-340.
157
perpetuazione della forte problematicità interpretativa che caratterizza
questo articolo, le cui questioni principali abbiamo cercato di identificare
ed ordinare, e per quanto possibile, di chiarire.
158
CONCLUSIONI GENERALI
L’art.15 della legge sulla stampa è certamente un articolo scarsamente
applicato, interessato dal fenomeno della desuetudine, destinato con tutta
probabilità a “rimanere ai margini” dell’ordinamento giuridico.
La poca importanza pratica che l’articolo ha nel sistema giuridico
nasconde però la grande rilevanza delle tematiche a questo connesse,
tematiche fondamentali del Diritto Penale perchè implicanti l’analisi dei
suoi rapporti con la Costituzione e dei suoi principi cardine178; lo studio di
questa norma è stato quindi l’occasione per rivisitarle e per cercare di
“convogliarle” verso l’ipotesi di una possibile illegittimità costituzionale
di un articolo che tutta la dottrina non ha dubbi nel ritenere mal formulato
e fortemente inopportuno sotto molteplici punti di vista.
In questo lavoro si è cercato di evidenziare i problemi che
necessariamente insorgono quando si vuole tutelare penalmente beni
178
Queste tematiche sono oggi di estrema attualità visto l’interesse che la Commissione parlamentare per le
riforme costituzionali ha loro mostrato (Proposta di riforma della Costituzione: art.130-bis: Le norme penali
tutelano beni di rilevanza costituzionale. Non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel
caso in cui esso non abbia determinato una concreta offensività. Le norme penali non possono essere
interpretate in modo analogico o estensivo. Nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice
penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono).
159
dalle particolari caratteristiche, e i costi in termini di rispetto di principi
costituzionali che tale scelta porta ineludibilmente con se.
La tematica dell’afferrabilità dei beni giuridici e quella della tutelabilità
dei valori morali hanno poi grande importanza non solo per lo studio del
sistema giuridico esistente, ma anche per la prospettiva di una sua
riforma, e soprattutto per la possibile soluzione consapevole delle nuove
importanti questioni che il mondo moderno prepara per il diritto.
Quanto detto in questo lavoro può infatti essere uno spunto interessante
per approfondire la ricerca di validi criteri di scelta circa il tipo di
sanzioni da applicare in caso di lesione di “nuovi beni giuridici”, ed
essere altresì utile per identificare quale sia un corretto tipo di approccio
nell’affrontare quelle “Questioni di moralità” che la televisione, e
soprattutto Internet, sempre più sembrano sollevare.
Far notare le implicanze e i costi della tutela penale di beni inafferrabili
può certamente servire per indirizzare la scelta delle sanzioni da porre a
tutela di determinati beni di nuovo conio come l’identità personale o la
riservatezza, (che sembrano appunto entrambi affetti da scarsa
afferrabilità) verso sanzioni alternative a quella penale, che, come quella
civile e quella amministrativa, possano essere comminate nel rispetto dei
principi della Costituzione perchè regolate da un principio di legalità, per
160
queste espresso dall’art.23 Cost., meno pregnante di quello imposto per
le sanzioni penali (art.25 Cost.)179
.
Egualmente utile è il ricordare le ragioni, le difficoltà, i rischi e i costi
che comporta “l’avvicinamento” del Diritto Penale alla morale, perchè in
una società in cui la moralità va sempre più dissolvendosi, non sono da
sottovalutare i rischi del moralismo, che, camuffandosi e sostituendosi a
questa, è sempre pronto a fornire troppo facili soluzioni, e finisce così
non per rinvigorirla ma per annientarla, dileguandone il vero valore e
significato, tanto da poter mettere a rischio importanti valori laici,
fondamenti della nostra civiltà.
Per cercare di difendere la moralità senza cedere alle tentazioni del
moralismo, per cercare di realizzare l’ideale liberale secondo cui “gli
uomini hanno il dovere reciproco di aiutarsi a distinguere il bene dal
male, e incoraggiarsi a scegliere il primo ed evitare il secondo, ma
nessuno, e nessun gruppo, è autorizzato a dire ad un adulto che per il suo
bene non può fare della sua vita quel che sceglie di farne”180
, sembra
opportuno rivedere il sistema giuridico reinterpretando il valore della
morale in termini di libertà morale.
179
In tal senso: Manna, Beni della personalità e limiti della protezione penale, Padova, 1989, pg91; Bricola,
Tecniche di tutela penale e tecniche alternative, Padova, 1984.
180 J.S.Mill, Saggio sulla libertà, pg87 dell’Ed. (italiana)Il Saggiatore, Milano, 1992.
161
Fiandaca ottimamente propone “una interpretazione secondo la quale
tutelare il pudore equivale a impedire che la persona adulta si trovi
coinvolta, senza la sua volontà, nella percezione di atti o rappresentazioni
di contenuto sessuale. In questo senso il momento offensivo
dell’oltraggio finisce col risolversi nella concreta violazione del diritto
dell’individuo a tenere lontano da se immagini reali o rappresentazioni
non gradite a causa del loro specifico contenuto.”181
Realizzando così “l’attrazione della tutela del pudore nell’ottica della
protezione del bene della libertà personale”182
Fiandaca (e noi con lui)
ritiene che “la tutela penale riceva una giustificazione più razionale e,
soprattutto, rispetti gli spazi di autonomia e di libertà che la Costituzione
assegna alla persona umana.”183
Questa impostazione avrebbe il vantaggio di “definire i rapporti tra
libertà del cittadino e buon costume non nei termini di una sorta di
contrapposizione tra interesse privato ed interesse pubblico, bensì sotto il
profilo della collisione tra sfere giuridiche private: l’attività molesta ed
invadente dell’autore del fatto osceno va cioè commisurata al pacifico
esercizio dei diritti di libertà degli altri consociati”184
, ed inoltre avrebbe
181
Fiandaca, Tutela del buon costume, Padova 1984, pg112 e ss.
182 Fiandaca, ult.op.cit.
183 Fiandaca, ult.op.cit.
184 Fiandaca, ult.op.cit.
162
un ulteriore punto a suo favore nel fatto che “il bene della libertà o
inviolabilità personale può senz’altro soddisfare, quanto a caratteristiche
tipologiche, i requisiti posti dalla concezione materiale del bene
giuridico”185
e, aggiungiamo noi, a soddisfare il requisito della
afferrabilità.
Certamente una simile prospettiva apre mille nuove questioni ed
altrettanti nuovi problemi, ma se è vero che ”le scienze partono sempre
da problemi per la soluzione dei quali utilizzano fondamentalmente il
metodo del tentativo e dell’errore”186
, questi sembrano quelli più adatti
per continuare nell’incessante opera di discernimento del confine tra
libertà ed arbitrio, per conquistare uno spicchio in più di libertà possibile,
e tentare su questa strada, e anche sbagliare, sarà comunque “buon
segno”, indice di coraggio e vitalità intellettuale.
185
Fiandaca, ult.op.cit.
186 Popper, Tutta la vita è risolvere problemi, Ed. (italiana) Rusconi, Milano, 1996, pg21.
163
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