Capitolo primo
LA LIBERTA’ SINDACALE
A) Le fonti
1. La Costituzione
Il lavoro degli uomini ha sempre rappresentato in ogni epoca e
ambiente un’esigenza imprescindibile per la vita sociale, in quanto è
strumento indispensabile per il soddisfacimento dei bisogni vitali.
Pertanto fin dall’epoca più remota si è avvertita la necessità di
riconoscere il giusto valore del lavoro come fattore essenziale di vita
e civiltà e di tutelarlo in tutte le sue possibili manifestazioni.
Difatti la Carta Costituzionale del 1948 pone il lavoro come
“fondamento della Repubblica democratica” (art.1) e
successivamente stabilisce che “la Repubblica riconosce a tutti i
cittadini il Diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono
effettivo questo diritto” (art. 4).
Ma è soprattutto il titolo III dedicato ai rapporti economici che
circoscrive meglio la garanzia accordata dalla normativa
costituzionale al lavoro: la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed
1
applicazioni (art. 35), il diritto alla giusta retribuzione (art. 36), il
diritto della donna di ottenere parità di condizioni di trattamento
rispetto all’uomo (art. 37) ed, infine, il principio di 1libertà di
organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art.
40).
Quindi si può notare come nel nostro ordinamento democratico, la
possibilità di adoperarsi per la tutela degli interessi concernenti il
mondo del lavoro è attribuita direttamente ai soggetti protagonisti, i
lavoratori, ai quali è riconosciuta la facoltà di coalizzarsi per meglio
difendere i propri diritti nell’esercizio della propria autonomia.
Questo principio si pone in netta contrapposizione con il sistema di
stampo corporativo delineato in epoca fascista, il quale, prevedendo
l’inquadramento delle organizzazioni sindacali nello Stato e
sottoponendolo ad un penetrante controllo, esautorava i soggetti
interessati al conflitto da una concreta e attiva partecipazione.
La legge Rocco del 1926 che regolava la materia sindacale,
prevedeva in primo luogo il riconoscimento giuridico del sindacato a
cui era attribuita la rappresentanza legale della categoria di
riferimento, a condizione che il sindacato raggruppasse almeno il
1 Renato Scognamiglio in “ADL - Argomenti Diritto del Lavoro” – Fascicolo 3^ 2005, Pagg. 667-683
2
10%2 della categoria di riferimento e che fosse diretto da uomini “di
sicura fede nazionale”, il che rappresentava una linea di continuità
con l’ideologia del regime.
Tale riconoscimento comportava la possibilità di penetranti controlli
statali nell’attività e nell’organizzazione del sindacato.
Inoltre, in virtù della rappresentanza legale accordata ai sindacati, i
contratti collettivi stipulati da queste organizzazioni erano
obbligatori, quindi valevano come leggi nell’ambito della categoria di
appartenenza.
Si può vedere come la legge Rocco riconosceva la libertà sindacale,
nel senso che poteva esserci una pluralità di associazioni, ma in
realtà si trattava di una libertà fittizia a causa dei limiti derivanti dal
controllo del governo.
Oggi, invece, proprio in ragione del primo comma dell’art. 39 della
Costituzione “l’organizzazione sindacale è libera”, il diritto di
organizzarsi liberamente è concepito come un diritto soggettivo
pubblico di libertà, soprattutto nei confronti dello Stato; al quale è
3inibita la possibilità di compiere atti che possano ledere l’interesse
tutelato.
2 Giuseppe Pera in “Dallo Stato corporativo alla libertà sindacale” di Lauralba Bellardi, Facoltà di Giurisprudenza Università La Sapienza, Roma 2000, Pagg. 13-153 Gino Giugni “Libertà Sindacale” in Digesto Discipline Privatistiche Sezione Commerciale, Utet 1993, Pagg. 19-21
3
Alcuni autori definiscono la libertà sindacale anche come libertà
civile cioè, come possibilità per i soggetti privati di ricavarsi una
sfera di autonomia rispetto alla quale lo Stato deve astenersi o tutt’al
più garantire la legalità nell’autoregolamento degli interessi.
Va aggiunto, però, che per il suo contenuto e per le sue implicazioni,
tale libertà può anche essere definita come “libertà politica”, poiché
rappresenta la pretesa alla partecipazione e alla formazione
dell’organizzazione e all’attività dello Stato attraverso l’azione dei
sindacati, come è possibile notare dalle leggi sulla composizione del
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, e sulla
composizione degli organi collegiali direttivi degli enti previdenziali
e sulla partecipazione dei sindacati agli organi regionali per la
programmazione economica.
2. Le Fonti Internazionali
Ma le garanzie giuridiche della libertà sindacale non si
esauriscono nella Costituzione, dato che è possibile scorgere anche
nelle fonti 4internazionali un cospicuo interesse riservato al principio
della libertà sindacale.
Infatti le Convenzioni n.87 e n. 98 dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro trattano la materia della libertà sindacale
4 Giuseppe Pera “Libertà Sindacale” in Enciclopedia del Diritto - Milano 1974, Pagg.523-526
4
sotto due diversi profili. La Convenzione n. 87 approvata nella 31^
sessione nel 1948 è intitolata alla “Libertà Sindacale” mentre la
Convenzione n. 98 approvata nella sessione successiva della
conferenza generale dell’O.I.L. del 1949 è intitolata al “Diritto di
organizzazione e contrattazione collettiva”.
Da una prima analisi della Convenzione n. 87 si può desumere la
piena libertà di lavoratori e datori di lavoro di costituire senza
autorizzazione preventiva da parte dello Stato organizzazioni
sindacali e di aderire alle stesse (art.1), nonché la garanzia che le
organizzazioni di datori o lavoratori siano escluse da provvedimenti
amministrativi di scioglimento o sospensione (art.2).
Viene poi ribadito il principio di necessaria astensione della autorità
pubblica da qualsiasi forma di intervento che possa limitare o
impedire l’esercizio della libertà sindacale (art.3) e nell’articolo
successivo il contenuto della libertà sindacale è precisato nel diritto
delle organizzazioni di elaborare propri statuti, di eleggere i propri
rappresentanti, di organizzare il proprio programma d’azione.
A differenza della Convenzione n. 87 che si occupa della libertà
sindacale rapportandola allo Stato, nella Convenzione n. 98 il
principio della libertà sindacale è visto dalla prospettiva dei rapporti
5
intersoggettivi, poiché le forme più evidenti di violazioni della libertà
sindacale si verificano nel rapporto concreto tra lavoratore e datore,
quindi la Convenzione stabilisce che i lavoratori godono di una
adeguata protezione contro qualsiasi atto discriminatorio compiuto
dai datori di lavoro.
Sempre in ambito europeo si può ricordare la “Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” del
1950 e ratificata dall’Italia nel 1955, dove è fatto obbligo per gli Stati
firmatari di garantire il diritto di associazione sindacale o ancora la
“Carta sociale europea” del 1961 e ratificata nel 1965 in cui viene
riconosciuto il diritto alla contrattazione collettiva e del diritto di
autotutela, in cui è compreso per la prima volta in una convenzione
internazionale il diritto di sciopero, cosi come sarà affermato
successivamente dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali
e culturali elaborato in ambito ONU nel 1966.
A tutela della libertà affermata, le Convenzioni prevedono dei
meccanismi di controllo: in ambito O.I.L. la Commissione di
investigazione e controllo e il Comitato sulla libertà sindacale,
mentre per la Convenzione europea sui diritti dell’uomo, è previsto
6
un procedimento che pone al suo vertice la Corte europea dei diritti
dell’uomo.
Tuttavia permane il problema della scarsa effettività delle norme
Internazionali, in quanto sono prive di sanzioni effettive o volte solo
ad invalidare atti o negozi compiuti con finalità discriminatorie.
3. La normativa europea
Diversa è, invece, l’incidenza della normativa europea, la quale
essendo caratterizzata dalla recezione immediata nell’ordinamento
interno, garantisce posizioni giuridiche dei singoli individui tutelabili
dinanzi ai giudici nazionali.
Purtroppo bisogna riconoscere che in questa specifica materia la
normativa appare piuttosto generica: l’art. 138. 1. del trattato di Nizza
del 2000 ha affidato alla commissione delle comunità “ il compito di
promuovere la consultazione delle parti sociali a livello comunitario e
prende ogni misura utile per facilitarne il dialogo provvedendo ad un
sostegno equilibrato delle parti ”.
Inoltre l’art. 137 al paragrafo 3 stabilisce che il Consiglio su proposta
della Commissione e previa consultazione del Parlamento Europeo
delibera all’unanimità su materie come la sicurezza sociale e la
7
protezione dei lavoratori sia sociale che in caso di risoluzione di
contratto di lavoro, ecc.; ma al punto 6 esclude la competenza del
Consiglio per quanto riguarda il diritto di associazione e di sciopero
oltre che per altre materie.
Con la “Carta dei diritti fondamentali” sottoscritta dagli Stati membri
a Nizza nel 2000, ma priva di immediata valore giuridico, è stata
riconosciuta la libertà sindacale (art. 12) ma solo come semplice
libertà di associazione, perché la norma utilizza il termine sindacale
(punto 14) solo ai fini esplicativi ma mira a tutelare la libertà di
associazione in genere.
4. L’art. 14 dello Statuto dei Lavoratori
Nella normativa dell’ordinamento italiano il più “grosso
sostegno” all’affermazione della libertà sindacale è stata la legge
300/70 definita Statuto dei lavoratori.
Nel titolo II che si occupa delle garanzie giuridiche a difesa
dell’esistenza del sindacato, viene sicuramente in rilievo l’art. 14, il
quale afferma espressamente il diritto per tutti i lavoratori di
costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività
8
sindacale, aggiungendo un elemento in più, cioè “all’interno dei
luoghi di lavoro”.
Con tale affermazione il legislatore intende ribadire il concetto già
espresso in sede costituzionale, ma soprattutto ne definisce la portata
specificando l’effettività della libertà soprattutto nei confronti del
datore di lavoro; si tratta dell’attività sindacale che si esercita senza la
cooperazione del datore di lavoro e senza l’imposizione di particolari
obblighi se non quelli stabiliti dalla legge.
Ma non significa che l’attività sindacale possa svolgersi in assenza di
normativa legislativa o contrattuale, perché altrimenti si porrebbe in
conflitto con l’esecuzione delle obbligazioni contrattuali.
In ottemperanza agli obblighi derivanti dalla Convenzione O.I.L.n.
98, l’art.17 dello Statuto prevede l’espresso divieto della Costituzione
dei “sindacati di comodo” o “gialli” in quanto costituiscono un modo
per comprimere la genuinità della libertà sindacale.
L’articolo fa riferimento ad una serie complessa di comportamenti
come il finanziamento o il particolare favoreggiamento di un
determinato sindacato, i quali non sono di facile valutazione da parte
di un giudice ma che in sostanza minacciano di inficiare il rapporto
datore / sindacato.
9
Purtroppo, però, va notato come in caso di accertamento della
violazione il giudice non potrà ordinare lo scioglimento
dell’associazione, ma solo vietare il comportamento accomodante del
datore di lavoro.
Alla luce di quanto detto fin’ora, si può con serenità affermare che la
libertà sindacale è considerata un diritto a tutti gli effetti, tanto su un
piano internazionale quanto su quello nazionale; inoltre è circondato
da un apparato di garanzie che potremmo definire relativamente
sufficiente in campo internazionale a causa della mancanza di
sanzioni effettive.
Anche a livello comunitario non c’è stato un grandissimo
avanzamento: se consideriamo la Carta dei diritti fondamentali di
Nizza possiamo scorgere nulla più che una dichiarazione, quando
invece ben altro valore avrebbe se fosse stata accettata la proposta di
integrarla nei trattati.
Tuttavia un segnale di positività va riscontrato nella previsione del
trattato dell’istituzione del Comitato economico e sociale e della
possibilità di instaurare un dialogo tra le parti sociali a livello
comunitario, che può anche condurre a relazioni contrattuali,
compresi gli accordi.
10
In conclusione va aggiunto che secondo parte della dottrina,
l’esclusione della competenza comunitaria sulla libertà sindacale
sarebbe indice di una cattiva attuazione del principio di sussidarietà,
nel senso che è stato ritenuto sufficiente il riconoscimento della
libertà accordato dagli ordinamenti degli Stati membri.
B) L’art. 39 della Costituzione
1. Il confronto con l’art. 18 della Costituzione
Focalizzando l’attenzione sul “nostro” art. 39 della Costituzione,
in particolare il I° comma, possiamo scorgere immediatamente la
possibilità di un confronto con l’art. 18 della Costituzione, che
garantisce la generica libertà di associazione, ma per fini non vietati
ai singoli dalla legge penale.
Difatti una parte della dottrina ritiene la libertà del cittadino di far
parte o meno di un’associazione sindacale, una specificazione della
generica libertà d’associazione di cui all’art.18.
Mentre una dottrina contrastante, da un’analisi effettuata sul
linguaggio utilizzato, cioè il termine “organizzazione” in luogo di
“associazione” rileverebbe una estensione del concetto tale da
ricomprendere al suo interno anche forme organizzative diverse da
11
quella associativa ma comunque sindacale dal punto di vista
funzionale, come le rappresentanze sindacali unitarie.
Inoltre la stessa dottrina evidenzia come la Costituzione sottoponga la
libertà d’associazione ad alcuni limiti riguardo a metodi e fini, a
differenza del fine sindacale che invece è espressamente descritto
come lecito e quindi costituzionalmente protetto.5
Ma superato questo dibattito bisogna porre l’accento sulla portata del
termine “organizzazione”, perché questo termine racchiude in sé il
vero significato del termine sindacato: la Costituzione ha auspicato
che si creasse una spontanea coalizione degli interessi di un
determinato gruppo con la contemporanea sottrazione a singoli
dell’azione individuale, finalizzata alla soddisfazione dell’interesse
stesso, che sarebbe pregiudicata se lasciata alla contrattazione
individuale.
Tuttavia bisogna riconoscere che titolare del diritto in questione non
è solo la pluralità dei soggetti, ma anche il singolo qualora l’attività
da questo svolta sia funzionale ad una coalizione presenta o futura.
Si può notare come venga in rilievo l’attività posta in essere
dall’organizzazione come se si trattasse di due enti distinti.
5 G. Chiarelli “L’organizzazione sindacale nella Costituzione e nella legge futura” - Dir.Lav. 1998, Pag. 374
12
Quindi all’attività sindacale deve essere assegnata, sicuramente una
priorità logica e sistematica nella ricostruzione della fattispecie
sindacale.
Da ciò è possibile affermare che l’ art. 39 contiene in sé anche6
l’enunciazione della libertà dell’azione sindacale, comportando la
giustificazione di determinati tipi di azioni sindacali, nonché la
legittimazione di fenomeni di aggregazione dei lavoratori, diversi
dalla forma associativa, ma comunque definibili sindacali in virtù
della qualificazione dell’attività che esercitano.
Quanto all’aggettivo “sindacale” tradizionalmente la dottrina ricorre
a “nozioni d’esperienza” e lo descrive in termini teolologici o
strutturali.
Secondo l’accezione teolologica è possibile definire come sindacale
“un atto o un’attività diretta all’autotutela di interessi connessi a
relazioni giuridiche in cui sia dedotta l’attività di lavoro”, mentre
secondo il profilo strutturale viene in rilievo anche un’aggregazione
di soggetti, che giustificherebbe la visione di chi interpreta il
fenomeno sindacale come coinvolgente una pluralità di soggetti.
2. La parziale attuazione dell’art. 396 Stefania Scarponi “Rappresentatività e organizzazione sindacale” Padova Cedam 2005, Pagg. 18-24
13
Continuando l’analisi dell’art.39, si può sicuramente notare una
sorta di spaccatura ideologica tra il I° comma e i commi successivi, i
quali prevedono che ai sindacati sia imposto l’obbligo della
registrazione; che condizione unica e necessaria perché ciò avvenga è
la democraticità degli statuti (III° comma). Conseguenza della
registrazione è l’acquisto della personalità giuridica, la quale
permette di stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia “erga
omnes” per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto
si riferisce (IV° comma).
Tale soluzione fu il frutto del compromesso tra le due fazioni
politiche della Democrazia Cristiana e dei due partiti di sinistra
(P.S.I. e P.C.), i quali al contempo volevano salvare l’impianto di
stampo corporativo, mentre dall’altra parte volevano eliminare ogni
impronta eteronoma dalla compagine sindacale.
La soluzione realizzata dalla Costituzione permetteva l’affermazione
del primato della libertà sindacale, ma allo stesso tempo anche un
minimo intervento statale (la registrazione del sindacato) mediante il
quale, il sindacato avrebbe potuto porre in essere contratti con
validità generale, quindi avente valore di legge.
14
Tuttavia a questi commi dell’art. 39 non è mai stata data attuazione,
perché è mancato l’intervento della legislazione ordinaria in tal
senso, se vogliamo escludere il disegno di legge elaborato dal
Ministro del Lavoro, l’On. Rubinacci nel 1951.
Tale progetto giungeva a stabilire un controllo sull’effettività
dell’ordinamento democratico prevedendo addirittura un potere di
revoca delle registrazioni da parte del Ministro qualora l’associazione
registrata avesse commesso “gravi e reiterate violazioni delle norme
statutari tali da menomare l’ordinamento democratico.”
Probabilmente la configurazione del potere in capo al Governo di
revocare la registrazione in base a criteri di non facile interpretazione,
ha spinto i sindacati a rifiutare tale progetto, anche per la necessità di
creare un muro divisorio tra il precedente sistema corporativo,
soggetto ad un penetrante controllo statale, e il nuovo sistema
improntato ad un regime di libertà ad ampio raggio.
Infatti una parte della dottrina, nello studio delle cause della mancata
attuazione della seconda parte dell’art. 39, ha definito il timore del
binomio registrazione = controllo statale, come una delle cause
cosiddette “contingenti”. Sarebbe ricompressa tra queste, anche la
15
difficoltà tecnica e politica di verificare effettivamente il numero
degli scritti ai fini delle rappresentanze unitarie.
Infine bisogna ricordare anche che l’opposizione della CISL, dopo la
scissione sindacale del 1948 ebbe una sua importanza.
L’opposizione era causata dalla posizione minoritaria in cui versava
tale sindacato, il quale nel procedimento di contrattazione sarebbe
stato sicuramente più debole nei confronti della C.G.I.L.
Non meno importante fu il cambiamento della dottrina nei confronti
del contratto collettivo erga omnes e della personalità giuridica come
capisaldi dei diritti sindacali.
Tra queste cause che sono definite “storiche”, va annoverato anche, a
partire dagli anni ‘60, l’affermarsi del cosiddetto “sindacalismo di
fatto” dotato di potere contrattuale e politico. 7
In conseguenza della carenza di una legge che meglio specificasse i
contenuti dell’aspetto costituzionale, tuttavia, bisognava ricorrere ad
altri criteri che regolassero il processo di contrattazione.
C) Il problema della rappresentatività
1. Dal sindacato “maggiormente rappresentativo” al sindacato
“comparativamente più rappresentativo”
7 Gino Giugni “Commento sub art. 39 Costituzione” in Commentario della Costituzione di G. Branca, Bologna-Roma 1979, Pagg. 257-260
16
L’art. 39 (IV°comma) fa riferimento alle rappresentanze
sindacali unitarie (“….possono, rappresentati unitariamente in
proporzione dei propri iscritti, stipulare contratti collettivi di
lavoro…..per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto
si riferisce”), cioè ad organismi giuridici distinti dai sindacati, pur
facendo parte di essi, attraverso i quali è possibile giungere alla
stipulazione dei contratti collettivi.
Tali rappresentanze sindacali aziendali, secondo l’art. 39 dello
Statuto, dovevano essere costituite ad iniziativa dei lavoratori
nell’ambito delle associazioni aderenti alle confederazioni
maggiormente rappresentative sul piano nazionale e implicavano un
giudizio di rappresentatività cosiddetta “storica”, perché la storia del
sindacalismo italiano pone alle sua fondamenta la confederazioni.
Le rappresentanze potevano anche essere istituite nell’ambito delle
associazioni firmatarie di contratti collettivi o provinciali di lavoro
applicati nell’area produttiva, in questo caso il legislatore si riferisce
ad un criterio prettamente tecnico che fa riferimento al concetto di
“categoria”.
Da questo enunciato generico la dottrina aveva poi cercato di
individuare degli indici di massima, che nel caso concreto
17
individuassero la “maggiore rappresentatività”: la consistenza
numerica degli iscritti, la contemporanea ed equilibrata presenza del
sindacato in un ampio arco di settori produttivi, la presenza su tutto il
territorio nazionale nonché lo svolgimento continuo e sistematico di
attività di contrattazione o genericamente di autotutela.
L’art. 19 dello Statuto è stato ritenuto in contrasto con l’art. 39 I°
comma Costituzione, perché con il suo metodo selettivo
discriminerebbe i sindacati più deboli a vantaggio di quelli
rappresentativi, con la conseguenza di rendere vano il principio di
pluralismo e libertà sindacale, nonché quello di uguaglianza.
D’altra parte, secondo un’opinione diversa, l’art. 19 avrebbe carattere
definitorio, quindi non impedirebbe il diritto di costituire associazioni
o di parteciparvi; al contrario pone dei requisiti di massima che le
organizzazioni devono possedere per accedere ai quei particolari
benefici di cui al titolo III dello Statuto, che richiedono la
collaborazione del datore di lavoro.
Nel 1995 l’art.19 è stato oggetto di due referendum abrogativi, che
sono stati il risultato della crisi del concetto di maggiore
rappresentatività dovuto soprattutto alla frammentazione dei
lavoratori in gruppi spesso in conflitto tra loro, che hanno portato alla
18
nascita di organizzazioni sindacali autonome. I due referendum
hanno portato al risultato che tutt’ora il titolo III dello Statuto trova
applicazioni per le rappresentanze costitutive nell’ambito di sindacati
che abbiano stipulato contratti.
Perciò è evidente che la legge promuove l’attività di sindacati che
abbiano già stipulato un contratto, ma non è in grado di agevolare
quelle sigle che ancora non siano firmatarie di contratti.
In ultimo il legislatore ha introdotto il concetto di “sindacato
comparativamente più rappresentativo”: cioè il contratto collettivo
stipulato da sindacati comparativamente più rappresentativi è assunto
dalla legge come produttivo di effetti giuridici da questa determinati.
Ma permane un limite: la comparazione, cioè la misurazione tra tutti i
sindacati che in astratto avrebbero titolo a partecipare alle trattative, è
compiuta sulla base degli indici tradizionali già individuati.
Se la rappresentatività comparata comporta il vantaggio di
rappresentare in maniera più efficiente gli interessi di categoria,8
d’altra parte pone un rischio di un particolarismo professionale tale
da frammentare il sindacato in settori sempre più ristrettivi e specifici
il quale potrebbe essere evitato con una comparazione a livello
nazionale.8 Alessia Muratario “A volte ritornano: l’annoso problema della mancata attuazione dell’art. 39 Cost.” in Il lavoro nella giurisprudenza, Fasc. 11, 2005, Pagg. 1062-1070
19
Nel frattempo bisogna però prendere atto di tutto il complesso delle
proteste, che oggi sono guidate dalle sigle autonome e dai nuovi
organismi di base, che possiamo definire come nuovi soggetti
operanti nel microcosmo sindacale, i quali muovono grandi masse di
lavoratori e si oppongono al sistema con la protesta diretta.
Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, credo, che bisognerebbe
bilanciare il principio di pluralismo e libertà sindacale, che comunque
è un principio cardine del nostro ordinamento democratico, con la
necessità impellente di impedire la disgregazione in atto del nostro
sistema sindacale, tradizionalmente a base confederativa, magari con
l’intervento di una legge che ponga la certezza necessaria che è
mancata durante gli ultimi cinquant’anni.
20
Capitolo secondo
STORIA DEL SINDACATO
1. Cenni storici: la Rivoluzione Industriale
L’evento che ha stravolto l’assetto produttivo preesistente non
solo in Italia, ma in tutta l’Europa è stato la rivoluzione industriale
che vide i suoi albori in Inghilterra.
Tale avvenimento, modificando radicalmente la coscienza dei
lavoratori, ha dato l’avvio alla nascita di quel fenomeno
associazionistico che diventerà poi il “sindacato”.
Durante la prima metà del 1700 l’Inghilterra aveva una
struttura produttiva caratterizzata prevalentemente dall’agricoltura,
dall’artigianato e dal commercio. Dallo sfruttamento della terra si
ricavavano i mezzi di sostentamento e con l’artigianato si
trasformavano le materie prime in prodotti finiti mediante l’utilizzo
di tecniche tradizionali tramandate da padre in figlio all’interno della
“bottega”. Ma è grazie al commercio che l’Inghilterra, anche con
l’ausilio della sua imponente flotta, pose le fondamenta per una
radicale trasformazione.
21
Infatti, dalla seconda metà del 1700 si verifica un mutamento della
struttura produttiva che partendo da un più razionale sfruttamento
della terra, giunge sino ad un diverso modo di intendere il lavoro
artigianale perché nel ciclo produttivo si inserisce il più potente
mezzo mai creato: la macchina.
A partire da questo momento e per tutto l’800 cambiano la quantità e
la qualità dei prodotti industriali ed agricoli, i modi di produzione ma
soprattutto mutano radicalmente le condizioni di vita della maggior
parte della popolazione.
Si assiste al fenomeno dell’esodo dalle campagne per dar vita
all’inurbamento; i mestieri tradizionali come l’artigianato perdono
gradualmente la loro ragione d’esistere, per confluire nell’industria
in qualità di manodopera specializzata; infine i commercianti, a causa
della disponibilità economica e dello spiccato senso del rischio
assumono il ruolo di “imprenditori”.
Il processo di industrializzazione così innescato provoca, come
conseguenza immediata, una situazione di totale dipendenza del
lavoratore dal suo “datore” di lavoro, la quale rende incerta la
situazione occupazionale, perché vincolata all’andamento del
mercato soprattutto nei primi tempi. Senza contare che la concorrenza
22
tra i lavoratori, soprattutto nei periodi di scarsa richiesta di
manodopera, provoca come effetto la discesa dei salari a livelli molto
bassi.
Sotto un profilo più strettamente umano si verificano fenomeni come
l’aumento degli infortuni sul posto di lavoro, come anche la
questione relativa alla durata dei turni di lavoro (16 ore giornaliere)
ed a quella non meno importante dell’utilizzo indiscriminato di donne
e bambini anche in lavori pesanti e notturni.
Il concatenarsi di queste situazioni crea il terreno fertile per la nascita
di quel fenomeno associativo che è il sindacato: nei lavoratori, cioè,
nasce la consapevolezza di trovarsi in una situazione di disagio la
quale sviluppa uno spirito di “solidarietà” e la convinzione di poter
porre un freno al potere incondizionato del datore di lavoro.
Non bisogna dimenticare, tuttavia, che il periodo storico in cui nasce
e si sviluppa il sindacato, o per lo meno la sua forma embrionale, è
caratterizzato dalla diffusione dell’ideologia liberale che sotto il
profilo economico auspicava un equilibrio tra forze economiche
basato sul libero gioco della domanda e dell’offerta.
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Mentre sotto un profilo più squisitamente politico si esaltano i diritti
individuali di libertà e si ritiene illegittima ogni attività esterna volta
a ridimensionare le conseguenza del libero arbitrio.
Appare, perciò, evidente che il sindacato al momento della sua
nascita trova una situazione politico-economica molto controversa:
da un lato l’affermarsi dell’ideologia liberale rende illegittimo e
limitativo della libertà individuale del datore di lavoro lo sforzo
dell’associazione sindacale di ottenere condizioni uguali per tutti i
lavoratori di una determinata categoria; dall’altra parte non si può
non menzionare la situazione di totale estraneità del lavoratore delle
dinamiche politiche, in quanto non esisteva il diritto di voto in capo a
questi soggetti.
2. Le funzioni del sindacato
La panoramica storico-sociale fin qui esposta “giustifica” e
chiarisce meglio il significato dell’art. 1 di quella famosa legge “Le
Chapelier”9 votata dalla Francia rivoluzionaria del 1791 “Essendo
l’abolizione di ogni tipo di corporazione dei cittadini di uguale ceto e
mestiere una delle basi fondamentali della costituzione francese, è
9 Gian Primo Cella “Il Sindacato” Editore Laterza, Roma-Bari, 2004 Pag. 1
24
vietato ricostruirle di fatto, in qualsiasi forma e per qualsiasi motivo
ciò avvenga”.
In linea di continuità si pongono anche i “Combination Acts”: si
tratta di leggi introdotte in Inghilterra tra il 1799 e il 1800, le quali
riproducono il divieto di costituzione del sindacato e giustificano
l’attività repressiva dell’intervento statale, soprattutto nei confronti
dell’unica arma vincente a disposizione di lavoratori: lo sciopero.
I Combination Acts condannavano a tre mesi di prigione oppure a
due mesi di lavoro duro, ogni lavoratore che si associava ad altri per
ottenere un aumento di paga o una diminuzione di orario, o che
incitava ad abbandonare il lavoro, o che si opponeva a lavorare con
qualsiasi altro lavoratore.
Con il sindacato si afferma perciò “la cittadinanza del lavoro”,
usando un’espressione di Gian Primo Cella, prima ancora che le
costituzioni democratiche ne creino i contorni.
L’associazione sindacale si pone in linea di rottura con le concezioni
individualistiche dell’epoca, proprio perché la realtà, il substrato di
cui si compone è il “gruppo” o la “massa” dei lavoratori; è il prodotto
inaspettato dell’applicazione della legge della domanda e dell’offerta;
è la reazione o la risposta ad un potere incondizionato da parte della
25
cosiddetta ”forza lavoro” che era considerata una merce,
inizialmente.
Perciò la funzione primaria del sindacato è sicuramente protettiva; fin
dagli albori una delle sue funzioni è stata quella di protezione del
lavoro in generale e di “porre l’andamento dei salari e delle
condizioni di erogazione del lavoro al riparo dalla concorrenza fra i
lavoratori e tra i datori di lavoro”.
La protezione del lavoratore è realizzata mediante la rappresentanza e
la ricostruzione di una classe sociale che nell’impatto con la
Rivoluzione Industriale aveva perso la sua identità e la certezza del
suo status d’appartenenza. Il compito del sindacato è stato anche
quello di risvegliare le masse dal torpore dell’indigenza e della
confusione, facendo acquisire loro la consapevolezza dell’importanza
di essere parte del sistema produttivo.
Ma la particolarità di questo fenomeno sta nell’essersi creato un suo
spazio preciso tra il lavoratore/cittadino e lo Stato ponendosi come
quel ponte che agli albori del XIX secolo mancava, nonché
nell’essersi occupato degli aspetti più concreti e quotidiani della
realtà del lavoratore, senza sistemi teorici elaborati, riproducendo la
concretezza di quella categoria variegata che è il mondo lavorativo.
26
Ciò si evince anche da una famosa affermazione di Simone Weil:10
“…è un movimento popolare, misterioso e..singolare…; ha i suoi
eroi, i suoi martiri e persino i suoi santi, in gran parte sconosciuti…”
Sottolinea come il sindacato sia nato da un’esigenza di protezione del
diritto a vivere una vita dignitosa, principio che in seguito verrà
affermato in tutte le carte costituzionali europee.
Quindi, è come se l’essenza stessa del sindacato, cioè la funzione di
protezione di una delle forme del diritto alla vita, giustifica la sua
esistenza, tanto da divenire in seguito un perno necessario e
fondamentale nell’andamento delle economie di ogni paese.
Difatti il sindacato trarrà la sua piena affermazione in seguito,
nell’epoca dello sviluppo della società pluralista in cui finalmente
troverà la sua giusta collocazione nell’ambito delle relazioni
industriali, in cui il termine “industry” di origine inglese sta ad
indicare tutti i settori dell’attività economica.
Anche John Commons e Selig Perlman appartenenti alla scuola di
pensiero del Wisconsin affermano che la struttura economico sociale
è pluralista; è una struttura che nella risoluzione dei conflitti utilizza
non l’imposizione autoritaria ma il “collective bargaining” 11, cioè la
contrattazione collettiva.10 D. Canciani “Simone Weil. Il coraggio di pensare” – Edizioni Laterza Roma 196611 Selig Perlman “Teoria dell’azione sindacale” Edizioni Lavoro Roma, 1980, Pagg, 14-16
27
Nella visione di Perlman12 la contrattazione collettiva non è solo un
mezzo che permette di raggiungere lo scopo dell’elevazione dei salari
e del miglioramento delle condizioni di lavoro, ma anche e
soprattutto il più importante strumento per le classi inferiori di
ottenere sempre più l’allargamento della partecipazione al potere
sociale, come anche il miglioramento delle condizioni di vita e di
libertà.
Commons13 considera, invece, la contrattazione collettiva come
strumento per l’elevazione delle classi lavoratrici caratterizzato da
concretezza e pragmaticità, finalizzato allo scopo di stabilire una
condizione di parità delle classi, in cui ognuno possa ottenere la
propria sfera di sovranità nel rispetto degli interessi morali e materiali
dei suoi membri.
Nonostante abbia menzionato pensatori appartenenti ad una
generazione precedente, vissuti in un contesto storico come quello
del New Deal “roosveltiano”, appare evidente come la logica
sottostante all’azione dei sindacati delle varie esperienze nazionali,
abbia una piattaforma comune: l’interazione del sindacato con gli
12 Selig Perlman “The principle of collective burgaining” in “The Annals of the American Academy of Politic and Social Science” – marzo 193613 J.R.Commons “The economics of collective Action” New York , 1950, Pag. 114
28
altri centri del potere, in primo luogo quello statale e quello
imprenditoriale.
Secondo la tripartizione di Sidney e Beatrice Webb14 l’azione
sindacale si dividerebbe in: regolamentazione unilaterale,
contrattazione collettiva ed iniziativa legislativa su pressione
sindacale; tuttavia nell’avanzamento delle relazioni industriali si è
assistito ad un ridimensionamento della barriera che separa la
contrattazione dall’iniziativa legislativa su pressione sindacale.
Soprattutto nell’esperienza italiana, si può parlare di “leggi
contrattate”, perché scaturite dalla pratica della concertazione e dal
coinvolgimento dei sindacati nell’elaborazione e nella gestione delle
politiche economico-sociali.
Tuttavia un simile risultato non si comprenderebbe se non si facesse
accenno alla storia del movimento operaio italiano, caratterizzato
dalla priorità dell’organizzazione politica su quella sindacale.
3. L’esperienza italiana
A causa del tardo sviluppo industriale, l’Italia non ha vissuto un
passaggio graduale dall’artigianato all’industria meccanizzata, in cui
si è affermata in tutti gli stati europei la base delle forme di
14 G. Berta “Democrazia Industriale” Ediesse Roma, 1984
29
solidarietà operaia, cioè quella di mestiere, a causa della richiesta di
manodopera altamente qualificata.
Infatti quando agli inizi del ‘900 comincia il processo di
industrializzazione del settentrione, si assiste già al processo di
degradazione delle qualifiche a causa dell’introduzione della
macchina. In secondo luogo il sindacato italiano, alla sua nascita si è
trovato di fronte al problema urgente di “risolvere” la questione
occupazionale, ponendo così in secondo piano l’obiettivo del
miglioramento delle condizioni di lavoro e della protezione delle
categorie specializzate.
Non meno importante è stata la composizione singolare della classe
lavoratrice italiana. Nel 1906, anno in cui si costituì la C.G.I.L.
“Confederazione Generale Italiana del Lavoro” vi era una forte
predominanza della popolazione agricola rispetto a quella addetta
all’industria ed ai servizi.
Questa caratteristica ha influenzato notevolmente lo sviluppo futuro
del movimento del lavoro, soprattutto a causa della stretta dipendenza
dal partito (socialista), che ha determinato una debolezza di fondo del
movimento.
30
Tuttavia non si può dimenticare che proprio dal movimento di lotta
agricolo nascono le leghe contadine, che manifestano una eccellente
capacità di lottare per ottenere migliori tariffe, contratti e capitolati
per l’introduzione di nuovi rapporti di lavoro e di conduzione.
Basti pensare che l’Italia nel primo dopoguerra era l’unico paese ad
avere una rete completa di contratti collettivi nell’agricoltura.
Ma la debolezza del sistema sindacale in Italia si farà viva anche in
altri periodi storici non molto lontani: infatti, se si prende in
considerazione il periodo del 1968, indubbiamente si nota il forte
momento di crisi, che poi ha attraversato l’Italia dal punto di vista
sindacale-lavorativo. Sicuramente la divisione sindacale su linee
ideologiche, come anche l’accentramento contrattuale ed
organizzativo sono state solo alcune delle cause di crisi.15
E’ importante ricordare che i sindacati in Italia non si configurano
come associazioni capaci di fornire benefici e vantaggi in capo ai
propri iscritti; non esiste, come nel sindacato britannico, l’istituto del
“closed shop”, quindi gli accordi raggiunti dai sindacati valgono
tanto per gli iscritti, quanto per i non iscritti, in ossequio alla
tradizione comunista-socialista.
15 A.Pizzorno “Conflitti in Europa – Lotte di classe, sindacati e Stato dopo il ‘68” Ethos Libri, Milano 1977, Pagg. 45-50
31
E’ evidente che ciò vada a discapito dei tassi di sindacalizzazione,
che nel periodo in questione erano, molto bassi.
Nel quadro storico così delineato, lo Stato ha avuto un ruolo
formalmente neutrale. La politica della “non ingerenza” è in parte
conseguenza della mancata applicazione dei famosi artt. 39 e 40 della
Costituzione e lascia in sospeso la questione della regolamentazione
dei sindacati e dello sciopero.
Lo scarsissimo grado di formalizzazione del sistema costituisce una
delle caratteristiche del sistema di relazioni industriali italiano, e
diverrà uno dei fattori che porterà al mutamento.
Nel ciclo di lotte dal 1960 al 1963 il sindacato non riesce a
raggiungere a pieno i suoi obiettivi, a causa anche del fallimento del
tentativo di penetrare nelle aziende, attraverso la costituzione delle
sezioni sindacali. La ragione è attribuibile al livello estremamente
basso della sindacalizzazione, la quale è alla base del disinteresse dei
lavoratori nei confronti di uno sforzo innovativo che riguarda gli
iscritti e non offre immediatamente alcun vantaggio economico o di
altro genere.
A ciò va aggiunto che, gli stessi sindacati esitano ad affidare a tali
organismi funzioni diverse da quelle organizzative, mentre la parte
32
datoriale non ha alcun interesse ad appoggiare organismi poco
rappresentativi dei lavoratori e sostenuti con scarsa convinzione dai
sindacati stessi.
La differenza, quindi, tra il primo ciclo di lotte del 1960-63 e quello
che nasce a partire dal 1968 è costituita da una nuova variabile: la
domanda diffusa, anche se generica, di partecipazione e di controllo
sull’operato dei sindacati da parte dei lavoratori che scendono in
lotta.
Infatti, uno dei risultati principali dei mutamenti indotti dai conflitti,
sarà proprio l’acquisizione di una nuova forma di rappresentanza dei
lavoratori nei luoghi di lavoro.
Essa nasce, non tanto come capacità di penetrazione
dell’organizzazione sindacale dall’esterno nelle fabbriche, quanto
piuttosto come capacità di accogliere e rispondere ad una domanda di
base.
Ma è dopo la metà del 1969 che la diffusione delle lotte aziendali
raggiunge il proprio apice, coinvolgendo anche nuovi strati di operai
con scarsa tradizione sindacale.
Una delle questioni più dibattute è l’istituzione della figura dei
delegati all’interno dei luoghi di lavoro, vista da alcuni come “un
33
primo nucleo di potere consiliare”, da altri invece come “un mero
elemento di democratizzazione e di potenziamento del sindacato”.
Non manca anche chi, intravede in questa figura la nascita di
un’autorganizzazione operaia, autonoma dal sindacato, cioè di un
“movimento di delegati”.
Sul volantino distribuito in una fabbrica della Fiat nel giugno 1969 si
poteva leggere: “il delegato operaio è l’operaio più cosciente del
gruppo in cui lavora, che gode della fiducia di tutti i suoi compagni di
lavoro. Non è né preposto né nominato da nessuna organizzazione
esterna alla fabbrica ….è responsabile solo nei confronti degli operai
e di nessun’altro. Deve poter trattare con tutta la gerarchia della
fabbrica…… il suo compito non deve essere quello di trasmettere
alla Commissione Interna i problemi, ma di trattarli fino in fondo. La
sua funzione, inoltre, non deve essere limitata a controllare un solo
aspetto della condizione di lavoro: il delegato operaio deve poter
trattare col padrone tutti i problemi che il collettivo operaio ha.”16
Quindi le federazioni di categoria più coinvolte nella contestazione di
base, come i metalmeccanici, riescono in occasione della
mobilitazione generale per il rinnovo contrattuale a riprendere
l’iniziativa con due nuove proposte, che otterranno un’ampio
16 Citazione in “Classe”, 1970, n. 2, Pag. 247
34
consenso: la consultazione della base per la definizione di alcuni
obiettivi della piattaforma contrattuale e la promozione nelle
fabbriche di comitati di attivisti dei reparti, che guidino le lotte in
collegamento con le commissioni interne.
Tale iniziativa offre all’organizzazione sindacale un duplice
vantaggio: da una parte recupera la fiducia degli operai e l’adesione
degli attivisti nuovi, in quelle situazioni in cui la sua credibilità era
apparsa compromessa; d’altra parte permette di generalizzare una
presa e un contatto diretto in molte aziende, in cui non era ancora
giunto il movimento di lotta.
Lo strumento, utilizzato per la riabilitazione dell’organizzazione
sindacale, è stato senza dubbio l’uso dell’assemblea in fabbrica:
finalmente il sindacato infrange il divieto delle direzioni aziendali ad
entrare in fabbrica, quindi i sindacalisti entrano attraverso la porta
principale nella struttura lavorativa, accolti con entusiasmo dagli
operai.
L’assemblea è il luogo per eccellenza del potere operaio, dove
svaniscono le differenze di affiliazione sindacale e si supera il
confine tra iscritti e non, grazie ad una identità comune di interessi.
35
Una volta acquisito il diritto di assemblea in fabbrica ed il
riconoscimento di un dato numero di rappresentanti sindacali suoi
luoghi di lavoro, il passo successivo è quello di conciliare la presenza
dei cosiddetti “delegati d’autunno”, i quali godono di un forte
appoggio degli operai perché rappresentano il gruppo di lavoro che li
ha eletti, con i rappresentanti sindacali, i quali invece rappresentano il
sindacato dinanzi alla direzione aziendale e sono in numero
nettamente inferiore ai delegati eletti nell’ ”autunno” del 1969.
Si crea una situazione di iniziale titubanza dei sindacati minoritari,
che temono di non essere sufficientemente rappresentati, in seguito
all’elezioni informali di “autunno” in cui era risultata potenziata la
C.G.I.L. Inoltre la stessa C.G.I.L. teme che si crei un organismo
molto fluido e poco legato all’organizzazione. D’altra parte, a favore
dei delegati, si schierano i teorici della sinistra sindacale e quelle
fazioni del sindacato che hanno come immediato obiettivo quello del
rinnovamento organizzativo totale.
Nell’ottica di questi soggetti i delegati rappresentano la via per la
costruzione di un sindacato nuovo, unitario, costruito a partire
dall’appoggio della base.
36
Un teorico della sinistra sindacale ha così definito il delegato: “E’
espressione del gruppo operaio, omogeneo, cioè corrisponde
all’organizzazione del padrone, rovesciata.” 17
Nonostante numerosi dubbi, le categorie industriali sindacalmente
più forti decidono di portare avanti la sperimentazione delle strutture
di base e cominciano ad affrontare, a livello di fabbrica, i molti
problemi che ne derivano, come le garanzie di tutela dei sindacati
minoritari, le strategie nei confronti delle direzioni aziendali che non
intendono riconoscere i delegati o ancora la necessità di costituire
un’ambito istituzionale per la definizione ed il coordinamento della
politica sindacale in fabbrica.
Sicuramente tra le cause che hanno spinto il sindacato a continuare
l’esperienza dei delegati c’è un forte entusiasmo di base sfruttato ai
fini del processo di riunificazione sindacale. Si verifica un aumento
delle iscrizioni, la penetrazione nelle piccole e medie aziende in tutto
il territorio nazionale, nonché l’estensione della presa dei sindacati in
settori, come quello del pubblico impiego, dov’era più diffuso il
sindacalismo autonomo.
E’ interessante notare come l’aumento delle iscrizioni non sia
direttamente proporzionale all’importanza della base ideologica del 17 S. Garavini “Strutture dell’autonomia operaia sul luogo di lavoro” in Quaderni di Rassegna Sindacale, 1969, numero 24, Pag. 21
37
sindacato; in secondo luogo come vi sia una omogeneizzazione dei
livelli di sindacalizzazione, sia tra zone geografiche sia tra aziende di
diverse dimensioni.
Un’altra causa che ha dato la spinta all’esperienza dei delegati, è stata
la consapevolezza delle federazioni di categoria più dinamiche che
l’unico modo di affrontare il problema dell’esistenza di attivisti
operai, in una fase di forte espansione del sindacato, sia quella di dar
loro cittadinanza nel nucleo dell’organizzazione, accogliendoli come
strutture di base del sindacato nuovo dilatando al massimo
l’accezione di rappresentanti sindacali.
Nel biennio 1970-1971 le tre confederazioni dei metalmeccanici
(CGIL – CISL – UIL) “istituzionalizzano” la scelta dei consigli di
fabbrica e decidono l’eliminazione delle strutture precedenti; fissano
i compiti, funzioni e modalità di elezione delle nuove strutture. Come
conseguenza, questa scelta comporta lo sforzo di far accettare tali
strutture alle controparti datoriali, come soggetti abilitati alla
contrattazione.
Tale problema, in alcuni casi sarà risolto da alcune federazioni di
categoria, con il riconoscimento dei consigli come rappresentanza del
sindacato in fabbrica in occasione dei rinnovi contrattuali di
38
categoria; altre federazioni, invece, perseguono la via del
“riconoscimento di fatto”, nella ricerca di un compromesso con le
direzioni aziendali più propense ad accettare la presenza di una
struttura più stabile e soggetta al controllo del sindacato, ma al
contempo articolata e ramificata sui luoghi di lavoro.
Anche dal punto di vista statale, negli anni ’70, si intravede una
svolta in senso positivo per le relazioni industriali: dato inconfutabile
è lo “Statuto dei lavoratori” introdotto con legge 300/70 e non molti
anni più tardi la modifica della disciplina del processo del lavoro.
Oltre all’intervento legislativo si assiste ad una maggiore presenza
dello Stato nei conflitti di lavoro con forme di intervento sia a livello
centrale che a livello locale; si può affermare perciò che il ruolo dello
Stato da neutrale diventi propositivo.
Analizzando gli anni ’70, appare evidente la contrazione del sistema
economico italiano causato dalla crisi del petrolio nel 1973 e
dall’affacciarsi sul mercato mondiali di nuovi paesi industrializzati.
A differenza di paesi come la Gran Bretagna e la Germania, i quali
riusciranno a conservare in attivo la propria bilancia dei pagamenti, a
causa dell’alto sviluppo tecnologico ed industriale, ciò non accade in
Italia, dove si arriva a comprimere le attività produttive. Nonostante
39
una serie di interventi pubblici a carattere sociale (la legge sul
divorzio, sull’aborto, la riforma del diritto di famiglia, il sistema
pensionistico nazionale), dal punto di vista economico si ha una
significativa regressione con una grave crisi sia nel settore industriale
che in quello agricolo.
La forte inflazione, la riduzione del potere di acquisto dei salari,
l’insufficienza delle infrastrutture insieme alla crisi petrolifera
aggravano notevolmente la situazione nel nostro Paese.
Basti pensare che il tasso di occupazione negli anni che vanno dal
1973 al 1979 diminuisce dello 0,3% nel settore industriale, mentre in
quello agricolo la situazione è peggiore.
La conseguenza di una simile condizione è stato l’avvio di una
grande stagione di lotte operaie e studentesche che hanno visto il loro
culmine nel movimento del 1977, degli studenti e delle nuove figure
marginali e precarie del mondo del lavoro.
Dal punto di vista politico, l’atteggiamento moderato del P.C.I.
facilita l’avvicinamento del partito al governo, di conseguenza anche
il sindacato assume una linea più morbida; tanto che nell’Assemblea
dei Delegati Confederati del 1977, le Confederazioni dichiarano non
solo di essere disposte a contenere le richieste salariali ma anche di
40
accettare una maggiore mobilità operaia in relazione all’esigenze di
ristrutturazione dell’industria.
Ma la lotta più ardua per il sindacato è quella di fronteggiare
l’estrema pratica di contestazione, cioè la lotta armata che dalle
fabbriche coinvolgerà ampie fasce di proletariato.
E’ un proletariato composto di manodopera precaria e non occupata,
legato spesso al lavoro nero che paga l’assenza di uno strumento di
tutela, a causa della latitanza dei partiti e dei sindacati, i quali non
tutelano, per concezione propria, i non occupati o disoccupati.
L’assenza di un organismo di tutela di queste classi rappresenterà
un’ulteriore stimolo al consolidamento dell’esperienze sindacali di
base della fine degli anni ’70.
Sul finire del decennio 1960/1970, il sindacalismo italiano registra
una frattura insanabile con il movimento operaio, secondo
un’escalation che va dal consolidarsi dell’esperienza della lotta
armata di fabbrica alla svolta dell’EUR, fino al rapimento ed
all’uccisione dell’Onorevole Moro.
L’aumento delle politiche repressive fu immediato: dall’uso punitivo
della cassa integrazione alle denunce verso chi partecipava a cortei
41
interni o picchettaggi, dai licenziamenti disciplinari alla sospensione
del salario a quanti avevano partecipato a varie forme di protesta.
Il conflitto permanente diviene una costante anche nei presunti
periodi di tregua post-contrattuale in cui si vedono contrapposte la
CGIL, la CISL e la UIL, ma sempre al fianco della sinistra operaia.
Tuttavia questa fazione è in crisi, perché è forte tra i lavoratori il
senso di sfiducia verso il sindacato confederale ed il senso di
inadeguatezza delle alternative sindacali, tanto che si arriverà ad una
scissione della sinistra operaia dal movimento di Lotta Continua e di
Autonomia Operaia.
Nonostante le difficoltà oggettive e soggettive del sistema italiano nel
periodo che va dal 1963 al 1980, l’andamento economico è superiore
alla media di altri paesi come Germania e Francia, tuttavia non si
riesce ad occupare tutta la forza lavoro; anzi la disoccupazione cresce
lentamente (dal 3,9% del 1963 al 7,6% del 1980).
Il sindacato vive un momento di perdita della democrazia interna,
fino al baratto degli interessi dei lavoratori con quelli del sindacato.
La conseguenza più ovvia sarà la perdita del consenso che si
registrerà nelle maggiori confederazioni.
42
In seguito alla “svolta dell’EUR”, il sindacato cerca di trovare un
punto di accordo con il governo discutendo non più di
programmazione e riforme, ma di compressione del costo del lavoro
mentre la classe imprenditoriale cerca di far regredire sensibilmente
le conquiste dei lavoratori, ottenute con gran sacrificio fino agli anni
’70, attraverso il rifiuto di attivare le procedure di rinnovo dei
contratti e con la disdetta della scala mobile.
La sinistra storica politica sceglie il consociativismo contro il
conflitto sociale, i sindacati confederali scelgono la politica dei
redditi e la concertazione contro le conquiste e l’autonomia del
movimento dei lavoratori, ma nasce e si sviluppa un nuovo e
conflittuale sindacalismo di base.
43
Capitolo terzo
LA CONCERTAZIONE
1. Il primo esperimento: l’accordo interconfederale sul costo del
lavoro del 1977.
L’analisi storica e sociale prospettata nei capitoli precedenti
mette in luce due elementi fondamentali: da un lato, si può osservare,
come gli eventi avvenuti in Italia a ridosso degli ultimi dieci anni
(dall’autunno caldo del 1969-70 ai licenziamenti F.I.A.T nel 1980)
avessero precipitato il paese in una grave crisi economica e sociale;
dall’altro si evidenzia una forte crisi del sindacato, soprattutto a
livello confederale, come struttura in grado di tutelare e difendere gli
interessi di larghe fasce di lavoratori.
Solo se si tiene presente ciò, è possibile comprendere come mai,
sul piano politico, si sia sviluppata la prassi per cui il potere statale
non sovrappone autoritativamente l’interesse pubblico a quelli
collettivamente gestiti dai sindacati, nell’esercizio della libertà di cui
all’art 39 Cost., ma tende a coinvolgere i più importanti interessi
organizzati nelle scelte di politica economica e sociale, al fine di
44
assicurare il consenso necessario a garantire l’effettività dei
provvedimenti che quegli interessi devono realizzare.18 Quindi
finalmente si compie il passo definitivo e più importante per
l’organizzazione sindacale: questa concorre con l’autorità di governo
e con le contrapposte organizzazioni dei datori di lavoro alla
formazione delle scelte da cui dipende la realizzazione dell’interesse
pubblico all’economia, attraverso un metodo di condivisione con le
forze sociali degli obiettivi e degli strumenti necessari al suo
perseguimento.
Qualche autore in passato, ha definito questa prassi o metodo politico
come neocorporativismo, quasi attribuendo a questo termine un
giudizio di disvalore per il richiamo scontato all’esperienza vissuta
dall’Italia dello stato corporativo. Invece, in questo caso, il termine in
questione sta solo ad indicare un modello di composizione degli
interessi e di negoziazione trilaterale tra: Stato, sindacati dei
lavoratori e associazioni di imprenditori in un contesto di assoluta e
perdurante democrazia.
Altri autori, come Giugni o Ghera, descrivono questo modello
derivato dalle esperienze social-democratiche nordiche e centro-
europee con il nome di concertazione sociale; anche se l’esperienza
18 M. Persiani “Diritto Sindacale” X Edizione, Cedam Padova 2005, Pagg. 63-66
45
italiana si discosta da quella nord-europea per il minor grado di
istituzionalizzazione del rapporto di cooperazione tra pubblici poteri
ed interessi organizzati.
Una prima forma embrionale di concertazione è ravvisabile già negli
anni settanta, quando però lo Stato giocava solo un ruolo esterno al
negoziato vero e proprio gestito dalle parti sociali e portato a
conclusione mediante lo strumento dell’accordo collettivo
interconfederale.
In particolare l’accordo interconfederale sul costo del lavoro del
26 gennaio 1977 proponeva obiettivi come il contenimento del costo
globale del lavoro, l’aumento della produttività, la creazione di
condizioni per nuovi investimenti per lo sviluppo del Mezzogiorno in
ambito occupazionale.19
La contropartita era rappresentata dal sacrificio richiesto al sindacato,
consistente nell’accettazione degli effetti negativi dovuti al processo
di riconversione produttiva nel settore industriale.
Già in questo primo esperimento di pratica concertativa, si può
scorgere l’elemento che caratterizzerà l’azione futura: cioè lo
scambio tra sacrifici immediati e benefici futuri ottenibili mediante la
realizzazione di politiche economiche espansive.
19 Edoardo Ghera in “Scritti in memoria di Massimo D’Antona” Milano 2004, Pag. 1847
46
Inoltre pur non essendo la partecipazione dello Stato ancora
formalizzata, essa è sollecitata dalle parti sociali esplicitamente
attraverso la richiesta di un provvedimento legislativo di ricezione dei
contenuti negoziali, realizzatosi con la Legge 31 marzo 1977 n.91 ,la
quale tra l’altro ha eliminato le cosiddette “scale mobili anomale”.
Si evince una netta richiesta di un ruolo diverso del potere statale,
fino a quel momento di sola mediazione, al fine di prendere parte nel
processo di contrattazione.
2. Il Protocollo Scotti del 1983
Negli anni ottanta si può scorgere il primo esempio compiuto
di accordo tripolare nato in seguito alla situazione di incertezza
venutasi a creare in seguito al rifiuto della Confindustria di negoziare
i rinnovi dei contratti collettivi di categoria scaduti senza una
preventiva revisione del sistema di scala mobile. 20
E’ il Protocollo Scotti del 22 gennaio 1983 il primo vero esempio di
protocollo d’intesa tra governo e parti sociali, in cui la teoria dello
scambio politico trova la piena affermazione.
Nell’intento di ridurre il tasso d’inflazione e di affrontare il problema
dell’occupazione, il governo si impegna ad intervenire in ambiti 20 Giorgio Grezzi “Accordi Interconfederali e Protocolli d’intesa” in Enciclopedia del Diritto aggiornamento III, Giuffrè, Milano, 1999, Pagg. 1-9
47
come il prelievo fiscale sul reddito, gli assegni familiari, le tariffe, i
prezzi amministrati, i ticket sanitari, in modo da incidere sulla
distribuzione del reddito.
D’altra parte però, la contropartita e’ costituita dal vincolo a
contenere l’incremento medio annuo del costo del lavoro entro tassi
d’inflazione programmati, come anche dalla determinazione di “tetti”
agli aumenti salariali e dalla riduzione degli orari di lavoro.
Inoltre introduce elementi che toccano il tema della riforma della
contrattazione collettiva: la clausola che introduce il principio di non
sovrapposizione della contrattazione aziendale sulle materie già
definite ad altri livelli e la clausola relativa alla composizione in sede
aziendale della microconflittualità, come strumento procedurale di
prevenzione del ricorso al conflitto.
3. “L’accordo di San Valentino” del 1984.
La stabilità del Protocollo Scotti e’ stata impedita dall’assenza
delle condizioni politiche sufficienti; il riferimento è alla
conflittualità presente all’interno della maggioranza di governo, alla
mancanza, a livello sindacale, di un sistema di relazioni industriali in
48
grado di produrre norme ed infine all’incertezza delle regole
concernenti la rappresentanza sindacale.
Sembra, quindi, più facilmente spiegabile il fallimento della
rinegoziazione dell’anno successivo, che si conclude con un accordo
a cui la C.G.I.L. rifiuta di prendere parte. Il c.d. “Accordo di S.
Valentino”, stipulato nel febbraio del 1984, mette in luce tutti i limiti
della politica concertativa nella risoluzione delle problematiche
economiche e del lavoro.
Anche questo accordo firmato però solo dalle altre due
confederazioni principali (C.I.S.L. e U.I.L.) aveva l’obiettivo di
fissare un limite massimo alla possibilità di scatti della scala mobile
entro un anno. L’impossibilità di ottenere un consenso unanime da
parte dell’organizzazione sindacale si traduce nell’adozione di un atto
di autorità da parte del governo, nella forma del d.l. del 15 febbraio
1984 n. 10 convertito poi in L. 12 giugno 1984 n. 219.
La Corte Costituzionale, poi con sentenza n. 34 del febbraio 1985,
respingerà l’eccezione di illegittimità del decreto, affermando la
competenza del legislatore ordinario a disciplinare i profili distributivi
del rapporto lavorativo e negando agli accordi tra governo e parti
sociali la valenza erga omnes tipica dei contratti collettivi.
49
4. L’accordo interconfederale del 1986
In seguito all’esito negativo del referendum abrogativo del
giugno 1985 si otterrà la salvezza del contenuto dell’accordo dell’ ‘84,
ma allo stesso tempo si creerà una stasi del procedimento concertativo
inteso come rapporto paritario tra pubblici poteri ed organizzazioni di
interessi a difesa del lavoro. In realtà la concertazione con tutti i
sindacati non è mai venuta meno negli anni successivi al 1984, a
riprova del fatto che così come il Governo non può fare a meno di
accumulare consensi sociali, anche i sindacati non possono fare a
meno di un certo grado di negoziato pubblico con il Governo.
Un esempio di quanto appena affermato è dato dalle vicende che nel
1986 portano all’introduzione, sia pur provvisoria, di un nuovo
sistema di scala mobile.
Nello specifico, il Governo assume l’iniziativa di estendere al settore
privato l’intesa intercompartimentale del 1985, sul nuovo sistema di
indicizzazione delle retribuzioni nel pubblico impiego. Questa volta le
parti sociali non sottoscrivono un nuovo testo che faccia da
riferimento per il legislatore, ma si limitano ad enunciare delle
dichiarazioni unilaterali di gradimento, che restano tra loro separate e
50
hanno solo lo scopo di informare la pubblica opinione
dell’accettazione del nuovo meccanismo di indicizzazione dei salari.
Al contempo, nella seconda metà degli anni ottanta si assiste ad una
ripresa della contrattazione interconfederale coadiuvata dall’intervento
pubblico non formalizzato.
Si pensi all’accordo interconfederale dell’8 maggio 1986, in cui le
parti individuano come obiettivi comuni il rientro dall’inflazione e
l’adozione di politiche rivolte ad incentivare la l’occupazione,
mediante il coordinamento delle relazioni industriali a vari livelli e il
conferimento delle dinamiche del costo del lavoro.
Anche gli accordi interconfederali sul funzionamento del mercato del
lavoro, come quello in materia di contratti di formazione e lavoro, a
tempo parziale e a termine del 1988 siglato con la Confindustria,
evidenziano una sorta di continuità di rapporti di collaborazione
informali tra Governo e parti sociali.
51
5. Il Protocollo d’intesa del 1993.
Nel corso degli anni novanta la concertazione riacquisterà
vitalità in occasione dell’episodio più significativo della storia sociale
ed istituzionale della consultazione tra Esecutivo e grandi
organizzazioni di interessi nel nostro paese: il Protocollo d’intesa
sottoscritto dalle parti il 23 luglio 1993. Esso è il risultato di un
graduale procedimento, la cui prima tappa è costituita dalla “intesa-
quadro” del 1° marzo del 1991. Attraverso questo accordo
“endosindacale”, le organizzazioni impostano i propri rapporti
secondo precise regole procedimentali e prevedono una nuova
disciplina per l’elezione delle rappresentanze sindacali unitarie.
Successivamente il Protocollo del 31 luglio 1992 pone fine all’annosa
questione del sistema di indicizzazione dei salari, senza però
prevedere nessuno strumento di adeguamento e tutela di quest’ultimi
contro gli effetti dell’inflazione.
Lo stesso documento introduce una moratoria della contrattazione
aziendale: cioè la sospensione per la durata del biennio successivo
“dei negoziati a livello di impresa, fatte salve le procedure relative a
crisi e ristrutturazioni aziendali, dai quali negoziati possano derivare
incrementi retributivi per le imprese”.
52
Si può notare, come in questo caso, non si sia realizzato un vero e
proprio scambio politico, perché il sindacato otterrà come
contropartita più consistente l’impegno del Governo a varare una
riforma della struttura contrattuale su due livelli negoziali e non
sovrapposti per materia.
Inoltre vi è la previsione della indennità di vacanza contrattuale,
strumento definito “di parziale difesa del potere d’acquisto dei salari
per i tempi di prolungata discontinuità contrattuale, che valga anche
come incentivo al normale svolgimento delle trattative”.
Le premesse enunciate nel Protocollo del 1992 saranno attuate nel
luglio dell’anno successivo, quando finalmente prende forma il
Protocollo d’intesa del 23 luglio 1993.
Questo negozio trilaterale stabilisce quasi un codice di regole della
concertazione, al punto da essere definita da alcuni autori, tra cui il
Carinci, come la costituzione materiale delle relazioni industriali.
Gli obiettivi che le parti si propongono di ottenere attengono alla
politica dei redditi, all’occupazione, agli assetti contrattuali, alle
politiche del lavoro e al sostegno del sistema produttivo.
Il confronto deve svilupparsi nell’arco di due sessioni annuali “in
tempi coerenti con i processi decisionali in materia di politica
53
economica, in modo da tener conto dell’esito del confronto
nell’esercizio dei propri poteri e delle proprie responsabilità”.
Durante la prima sessione da tenersi tra maggio e giugno, prima della
presentazione del Documento di programmazione economico-
finanziaria alle Camere, saranno definiti gli “obiettivi comuni sui tassi
d’inflazione programmati, sulla crescita del P.I.L. e sull’occupazione”.
Inoltre “il Governo predisporrà un rapporto annuale sull’occupazione
corredato di dati aggiornati per settori ed aree geografiche, nel quale
saranno indicati gli effetti sull’occupazione del complesso delle
politiche di bilancio, dei redditi e monetarie, nonché dei
comportamenti dei soggetti privati”; in base a tali dati il Governo
“sottoporrà alle parti le misure rientranti nelle sue responsabilità,
capaci di consolidare o allargare la base occupazionale”.
Nella seconda sessione di settembre “nell’ambito degli aspetti attuativi
della politica di bilancio, da trasporre nella legge finanziaria, saranno
definite le misure applicative degli strumenti di attuazione della
politica dei redditi, individuando le coerenze dei comportamenti delle
parti nell’ambito dell’autonomo esercizio delle rispettive
responsabilità”.
54
Attraverso questo documento programmatico le parti sociali si
impegnano a ridisegnare i contorni della concertazione e pongono le
fondamenta per la realizzazione degli obiettivi che intendono
perseguire; a ben vedere, infatti, la politica dei redditi e il riassetto dei
livelli di contrattazione collettiva si intrecciano, configurandosi come
dipendenti.
La politica dei redditi è finalizzata a conseguire “una crescente equità
nella distribuzione del reddito” attraverso il contenimento
dell’inflazione e dei redditi nominali, nell’ottica dell’inserimento
dell’Italia all’interno dell’Unione Europea; ma un simile obiettivo di
contenimento dei salari, che provoca sacrifici soprattutto a carico dei
soggetti rappresentati dai sindacati, può essere realizzato solo a patto
che vi sia la coerenza dei comportamenti delle parti sociali, ottenibile
attraverso la riforma del sistema contrattuale.
A tal fine il Protocollo prevede:
1) un contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria;
2) un secondo livello di contrattazione aziendale o
alternativamente territoriale, laddove previsto, secondo l’attuale
prassi nell’ambito di specifici settori.
55
Va evidenziato che “la contrattazione aziendale riguarda materie e
istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del
C.C.N.L.”.
Inoltre nell’intento di evitare ritardi nella rinegoziazione dei contratti
nazionali di categoria, l’accordo prevede la istituzione della c.d.
indennità di vacanza contrattuale.
Essa si applica dopo un periodo di tre mesi dalla data di scadenza del
C.C.N.L., ai lavoratori dipendenti; è qualificata come elemento
provvisorio della retribuzione, il cui importo è pari “al 30% del tasso
d’inflazione programmato” con possibilità di crescita fino al 50%
dell’inflazione, nel caso che il ritardo superi i sei mesi.
Con riguardo ai contenuti e agli obiettivi dell’accordo mi sembra
opportuno osservare che in realtà la politica dei redditi si risolve
inevitabilmente solo in una disciplina delle retribuzioni, per la
difficoltà di poter intervenire con vincoli e controlli sulle altre
categorie di reddito.
Di conseguenza il c.d. scambio reciproco tra sacrifici (richiesti al
sindacato) e benefici non ha effetti immediati: o meglio, i sacrifici
sono richiesti nell’immediato e si traducono nella caduta dei livelli
56
retributivi ed occupazionali, mentre i vantaggi sono eventuali e visibili
solo nel lungo termine.
Perciò è possibile attribuire quasi una funzione compensativa
all’impegno assunto dal Governo in vista della promozione delle
politiche del lavoro e di sostegno al sistema produttivo.
A proposito delle politiche del lavoro, il Governo si impegna a
modificare, mediante la promozione di un disegno di legge, il quadro
normativo in tema di gestione del mercato del lavoro e delle crisi
occupazionali. Non mancano le disposizioni anche in materia di
occupazione giovanile (contratto di apprendistato e di formazione
lavoro) e di potenziamento dell’occupazione femminile. Infatti
“saranno definite le azioni positive per le pari opportunità uomo-
donna che considerino l’occupazione femminile come una priorità nei
progetti e negli interventi, attraverso la piena applicazione delle leggi
n.125 e n. 215, un ampliamento del loro finanziamento, una loro
integrazione con altri strumenti legislativi e contrattuali, con
particolare riferimento alla politica attiva del lavoro.”.
Il sostegno al sistema produttivo contempla in primo luogo la ricerca e
l’innovazione tecnologica, perché “una più intensa ricerca scientifica,
una più estesa innovazione tecnologica ed una più efficace
57
sperimentazione dei nuovi processi e prodotti saranno in grado di
assicurare il mantenimento nel tempo della capacità competitiva
dinamica dell’industria italiana”.
E’ menzionato anche l’obiettivo dell’innovazione tecnologica nelle
attività di servizio, commerciali ed agricole.
Non meno importanza riveste l’istruzione come anche la formazione
professionale: infatti le parti condividono l’obiettivo di una
modernizzazione e riqualificazione dell’istruzione e dei sistemi
formativi finalizzati all’arricchimento delle competenze di base e
professionali e al miglioramento della competitività del sistema
produttivo e della qualità dei servizi.
La realizzazione di tali obiettivi è possibile con un raccordo
sistematico tra il mondo dell’istruzione e del lavoro e il
coordinamento interistituzionale tra i soggetti protagonisti del sistema
formativo, nonché con l’elevazione dell’obbligo scolastico a 16 anni e
con la previsione di un piano straordinario di riqualificazione e
aggiornamento del personale.
Oltre a questi obiettivi di larga veduta, il Protocollo affronta anche la
questione delle rappresentanze sindacali: ”al fine di una migliore
regolamentazione del risistema di relazioni industriali e contrattuali le
58
organizzazioni sindacali dei lavoratori concordano come
rappresentanza sindacale aziendale unitarie nelle singole unità
produttive quella disciplinata dall’intesa quadro tra C.G.I.L., C.I.S.L.
e U.I.L. sulle Rappresentanze Sindacali Unitarie sottoscritta in data 1
marzo 1991”.
Di conseguenza per assicurare il giusto raccordo tra le organizzazioni
stipulanti i contratti nazionali e le rappresentanze aziendali titolari
delle deleghe assegnati dai contratti medesimi, si prevede che la
composizione delle rappresentanze derivi per i due terzi dall’elezione
da parte di tutti i lavoratori e per un terzo dalla designazione o
dall’elezione da parte delle organizzazioni stipulanti i C.C.N.L., che
hanno presentato liste, in proporzione ad i voti ottenuti.
La questione delle rappresentanze sindacali unitarie impone la
trattazione del “problema della rappresentatività”, la quale si intreccia
strettamente con la concertazione perché, come già si è detto in
precedenza, quest’ultima è un metodo, una prassi politica che nasce
svincolata da qualsiasi incardinamento legale.
Di conseguenza la “condicio sine qua non” per la realizzazione degli
obiettivi prefissati è il comportamento uniforme e il consenso da parte
di tutti gli attori in gioco.
59
Soprattutto per le organizzazioni sindacali, questo diviene il nodo su
cui si innescherà la questione della “crisi della nozione della maggiore
rappresentatività”, poiché ammessi al tavolo della concertazione sono
solo i sindacati maggiormente rappresentativi. In realtà però nel
Protocollo del 1993 il governo coinvolge nella trattativa una trentina
di associazioni sindacali delle due parti (sindacali ed imprenditoriali),
tanto da far parlare di catch-all government: ossia un governo che
tende a recuperare, a vantaggio degli obiettivi conseguiti, una
frammentazione rappresentativa che contrasta con le esigenze della
concertazione.21
Bisogna ricordare che in passato né la legge nazionale, né le leggi
regionali prevedevano i criteri in presenza dei quali si potesse
conferire tale denominazione ad una organizzazione sindacale.
In tal senso esercitava una funzione suppletiva la giurisprudenza, la
quale considerava come indici di maggiore rappresentatività la
consistenza numerica, l’equilibrata presenza di un ampio arco di
settori produttivi, un’organizzazione estesa a tutto il territorio
nazionale, nonché l’effettiva partecipazione alla contrattazione
collettiva. In quest’ottica erano considerate maggiormente
21 Lauralba Bellardi “Concertazione e contrattazione” Cacucci, Bari, 1999, Pagg. 72-82
60
rappresentative le tre maggiori confederazioni (C.G.I.L., C.I.S.L.,
U.I.L.) e le associazioni di categoria a queste affiliate.
Ma a causa della presenza delle confederazioni c.d. “autonome”, che
avevano ottenuto tale qualificazione, si era verificata una perdita di
efficacia selettiva di tale criterio, con conseguenze pesanti per le
relazioni negoziali.
Infatti l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori riconosceva e promuoveva
le associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente
rappresentative sul piano nazionale e quelle firmatarie di contratti
collettive nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità
produttiva, perché in grado di garantire la stabilità e l’affidabilità del
sistema di relazioni industriali.
Per contro veniva contestata la posizione di favoritismo accreditata a
tali associazioni, perché in tal modo erano sottratte alla verifica di
effettiva rappresentatività.
Ma l’intervento della Corte Costituzionale circa la verifica del criterio
della “maggiore rappresentatività” aveva sancito l’infondatezza delle
contestazioni.
Con la prima sentenza del 1974 affermava che il criterio in questione
non contrastava ne’ con il principio di eguaglianza ex art. 3 della
61
Costituzione, né con l’art. 39 sulla libertà sindacale, in quanto i
requisiti richiesti tenevano conto della forza rappresentativa posseduta
dal sindacato; inoltre i requisiti in questione “non sono attribuibili né
dal legislatore, né da altre autorità, né possono sorgere
arbitrariamente, ma sono sempre direttamente conseguibili e
realizzabili da ogni organizzazione sindacale”.22
Nella sentenza dell’88, inoltre, veniva ribadita la coerenza del criterio
in questione con il principio di solidarietà di cui all’art. 2 della Cost.,
essendo diretto a favorire l’azione di quelle organizzazioni sindacali
portatrici di interessi di larghe collettività e capaci di interpretare, in
modo equilibrato e complessivo, le esigenze di progresso del mondo
del lavoro, sfuggendo a logiche microcorporative o, addirittura,
meramente agitatorie”.
Tuttavia gli eventi susseguitisi nel corso degli anni ottanta (dalle crisi
economiche alla nascita delle qualificazioni lavorative nuove) hanno
portato la stessa Corte Costituzionale a riconsiderare la portata
dell’art.19, tanto che nella sentenza del 1990 afferma la necessità di
cercare “nuove regole ispirate alla valorizzazione dell’effettivo
consenso come metro di democrazia anche nell’ambito dei rapporti tra
lavoratori e sindacato.”
22 Gino Giugni “Diritto Sindacale” Cacucci, Bari, 2002, Pagg. 69-70
62
Le indicazioni offerte dalla Corte sono state recepite dalle
organizzazioni sindacali e dal legislatore, il quale ha elaborato una
nuova nozione di sindacato “comparativamente più rappresentativo”,
che assume importanza nelle ipotesi in cui il legislatore delega
specifiche funzioni alla contrattazione collettiva. Ciò significa che
trovano applicazione i contratti collettivi stipulati dai sindacati che,
paragonati agli altri, risultano più rappresentativi secondo gli indici
della consistenza numerica, diffusione territoriale, partecipazione
effettiva alla contrattazione collettiva con carattere di continuità e
sistematicità.
Anche le parti sociali, consapevoli della necessità di un intervento
organico in materia, hanno previsto con l’accordo interconfederale
del dicembre 1993 l’istituzione di rappresentanze unitarie direttamente
elette da tutti i lavoratori in azienda, il che ha rappresentato un fattore
di grande importanza ai fini della concertazione.
Inoltre si è reso necessario lo svolgimento di un referendum di
iniziativa popolare nel 1995, al fine di adeguare la nozione del criterio
di sindacato maggiormente rappresentativo coerentemente con
l’evoluzione dei tempi.
63
Bisogna notare che anche a livello europeo si è posto un problema in
ordine alla rappresentatività, dal momento che anche nel contesto
dell’Unione Europea essa costituisce un fattore imprescindibile per
una concertazione preservata da derive in senso eccessivamente
istituzionalizzate o da esiti reazionari.
E’ utile ricordare che la concertazione “europea” oltre che a
differenziarsi per il tipo di tematiche che affronta, si discosta dai
modelli nazionali perchè si svolge direttamente tra le parti sociali,
senza coinvolgere il potere esecutivo in qualità di terzo attore; ma
soprattutto perché e’ diverso il contesto istituzionale in ordine al
Parlamento, così come anche il contesto sindacale, in quanto privo di
capacità conflittuale direttamente esprimibile a livello sopranazionale.
Tuttavia la situazione potrebbe essere suscettibile di mutamento in
seguito al riconoscimento del diritto di sciopero tra i diritti accordati
nella “Carta di Nizza”.
La giurisprudenza comunitaria, al fine di verificare la rappresentatività
delle parti sociali soprattutto in fase di consultazione, ha elaborato la
nozione di “rappresentatività cumulativamente sufficiente”.
Anche in questo caso si fa perno sulla dimensione organizzativa, cioè
la caratteristica interprofessionale e il possesso di strutture
64
organizzative che consentano di partecipare in modo efficace al
processo di consultazione. Inoltre è necessario che si tratti di
organizzazioni riconosciute come facenti parte integrante delle
strutture delle Parti Sociali degli Stati membri, nonché di essere
possibilmente rappresentative di tutti gli Stati membri.23
Tuttavia il requisito della “rappresentatività cumulativa sufficiente”
appare convincente, se lo si interpreta come formula che richiede di
vagliare la capacità rappresentativa delle coalizioni; mentre non
sembra adeguato se riferito alla singole organizzazioni perché
premierebbe esclusivamente quelle a carattere interprofessionale
generale, risultando poco adeguato in caso di accordi di tipo settoriale.
6. Il Patto del lavoro del 1996
Le altre due esperienze di concertazione realizzatesi in Italia
successivamente al Protocollo del 1993, sono il Patto per il lavoro
del 24 settembre 1996 e successivamente nel 1998, il Patto sociale
per lo sviluppo e l’occupazione.
Il Patto del 1996 e’ sottoscritto dalle parti sociali e dal neo-Governo di
centro-sinistra ed ha come obiettivo quello di adeguare le strutture
23 Stefania Scarponi “Rappresentatività e organizzazione sindacale” Padova, Cedam, 2005, Pagg. 293-294
65
sociali ed economiche del paese agli obiettivi di modernizzazione e di
ri-assorbimento del preoccupante livello di disoccupazione.
L’accordo ispirandosi ai modelli precedenti propone una vasta
gamma di modelli e strumenti che hanno come collante tra loro, il
ruolo attivo esercitato dal Governo.
Come nel Protocollo del ‘93, l’attenzione è puntata soprattutto sul
processo formativo che punta al riordino dell’ordinamento scolastico e
degli studi; focalizza l’importanza della ricerca e dell’innovazione e
riprende il tema del mercato del lavoro (prevede tra l’altro la riforma
del contratto di apprendistato e di formazione e lavoro).
In particolare si ripropongono elementi di disciplina del lavoro
interinale e del part-time, ma soprattutto dei lavori c.d.”socialmente
utili”, bisognosi di una nuova regolamentazione.
Infine si conferma la tendenza verso una revisione delle strutture
amministrative di governo del mercato del lavoro, attraverso il
decentramento istituzionale e la liberalizzazione dei servizi d’impiego.
7. Il Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione del 1998
Il Patto del 1998, chiamato anche Patto di Natale, “accentua la
tendenza verso l’istituzionalizzazione degli accordi triangolari e tende
66
alla trasformazione della prassi della concertazione in metodo per la
formazione delle decisioni e delle politiche pubbliche, vincolante per
Governo e parti sociali”.
Una delle innovazioni più interessanti che riguardano quest’accordo è
costituita dall’intenzione degli attori in questione, di associare il
metodo concertativo con il rafforzamento dei pubblici poteri
decentrati, nella prospettiva dell’introduzione del federalismo. Infatti
da un lato pone come oggetto di concertazione territoriale l’esercizio
di compiti e funzioni devoluti agli organi locali, dall’altro stabilisce
che gli accordi di concertazione coinvolgano i livelli di governo
locale.
Nel testo dell’accordo e’ stabilito che il Governo si è impegnato “a
promuovere un apposito protocollo, sottoscritto dalle istanze
rappresentative delle Regioni, delle Province e dei Comuni e delle
parti sociali, nel quale dovranno essere concordate le forme e i modi
di partecipazione delle istituzioni regionali e locali alla concertazione
nazionale e all’attuazione, a livello locale, degli obiettivi del Patto e
degli impegni successivamente assunti in sede di concertazione
nazionale, nonché i principi e le materie della concertazione
territoriale negli ambiti di competenza dei governi locali”.
67
A testimonianza della volontà di creare una struttura di concertazione
ordinata su due piani (nazionale e territoriale) e orientata al
raggiungimento di risultati efficaci sul piano dell’occupazione e dello
sviluppo sociale, c’e’ la sottoscrizione del patto, oltre che dal Governo
centrale, anche da parte della Conferenza dei Presidenti delle Regioni,
dall’Unione delle Province Italiane (UPI) e dall’Associazione
Nazionale Comuni Italiani (ANCI).
In secondo luogo il Patto prevede una sorta di differenziazione di
procedure da adottare relativamente alle materie oggetto di
discussione.24
Mentre per le materie relative alla politica sociale, che comportano un
impegno di spesa a carico del bilancio dello Stato, e’ previsto che il
governo proceda alla consultazione delle parti sociali, riservando però
a sé stesso la decisione politica finale.
Per le materie che incidono direttamente sui rapporti tra imprese, loro
dipendenti e rispettive organizzazioni di rappresentanza che non
comportino un impegno di spesa a carico del bilancio dello Stato, e’
prevista una fase iniziale di confronto preventivo tra governo e parti
sociali sugli obiettivi generali e successivamente la conclusione di un
negoziato bilaterale. In tal caso il governo si impegna ad assicurare 24 Franco Caringi “Concertazione e rappresentatività a proposito di due recenti testi” in Il Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, anno I, 1998, Pagg. 1023-1024
68
una costante informazione e adeguate forme di coinvolgimento delle
rappresentanze parlamentari della maggioranza e dell’opposizione in
ogni fase della concertazione, in modo da promuovere, nel rispetto
delle prerogative del Parlamento, la convergenza tra i risultati della
concertazione e la produzione legislativa.
Si realizza un doppio percorso di concertazione tra governo e parti
sociali che vede da un lato, la consultazione obbligatoria ma non
vincolante e, dall’altro lato, la legislazione negoziata. Ma da un punto
di vista più generale, si realizza una sorta di istituzionalizzazione della
concertazione, che pone al centro di tutto il rapporto trilaterale tra
Stato e parti sociali, inteso come sistema di reciproci obblighi e diritti
di consultazione e riconosciuto come fattore di collegamento tra i due
ordinamenti: statuale ed intersindacale.
69
Capitolo quarto
LA CONCERTAZIONE TERRITORIALE
1. Gli interventi normativi in ambito regionale
Se il Protocollo del 1993 ha posto le fondamenta della
concertazione, delineando strutture ed obiettivi, il Patto di Natale del
1998 è stato lo spartiacque nella istituzionalizzazione della
concertazione a livello regionale, evidenziando potenzialità e possibili
sviluppi futuri.
L’aspetto più innovativo è certamente costituito dalla possibilità
che gli accordi di concertazione coinvolgano anche i diversi livelli di
governo locale; difatti, nel Patto, il Governo si impegna a promuovere
un apposito protocollo sottoscritto dalle istanze rappresentative di
Regioni, Province e Comuni e parti sociali “per concordare i principi e
le materie della concertazione territoriale negli ambiti di competenza
dei Governi locali”.
Il Patto mira ad attuare una nuova politica dei redditi e soprattutto a
predisporre nuovi strumenti per garantire la crescita occupazione,
70
cercando di coinvolgere i livelli istituzionali e locali, per creare una
sinergia tra territorio-istituzioni-parti sociali.
Il potenziamento del ruolo degli enti locali è ascrivibile nel processo
di decentramento amministrativo attuato in Italia con la legge
Bassanini n. 59/1997 che ha attribuito molta importanza al principio di
sussidiarietà orizzontale e verticale ed alla semplificazione
amministrativa.
Infatti, il principio di sussidiarietà (art. 4 com.3 lett.a), ribadito anche
dalla nuova legge costituzionale, indica nel Comune l’istituzione
titolare dell’azione amministrativa e rafforza il ruolo della Regione,
quale Istituzione titolare della programmazione economica e sociale.
In questo modo si è passati alla predisposizione di documenti di
bilancio nei quali gli obiettivi da raggiungere sono quantificati in
termini finanziari, con la precisa indicazione delle fonti di
approvvigionamento, della destinazione delle singole voci di spesa, e
delle modalità attraverso le quali erogare le risorse disponibili.25
Di conseguenza si è creato un nuovo assetto istituzionale centrato
sulla programmazione regionale che ha messo in luce nuovi ed
articolati modelli di concertazione a livello territoriale (per es. i Patti
25 C.N.E.L. “I patti sociali e le esperienze della concertazione locale per lo sviluppo e l’occupazione nelle regioni italiane” 2004, Pag. 2
71
per l’occupazione, i Patti per lo sviluppo, i Protocolli d’intesa)
sottoscritti dalle Forze sociali e dalle Amministrazioni locali.
L’apice del percorso avviato con la legge Bassanini è stato raggiunto
nel 2001 con la riforma in senso federalista del titolo V, Parte Seconda
della Costituzione che ha completato la nuova fisionomia degli Enti
locali. Con la modifica degli artt. 117 e 119, infatti, è stata
costituzionalizzata l’autonomia finanziaria delle Regioni, cioè, la
potestà di stabilire e di gestire in modo autonomo le risorse finanziarie
di cui necessitano per la realizzazione delle funzioni loro affidate.
Infatti, l’art. 119 dispone che “i Comuni, le Province, le Città
Metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di
spesa………hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi
ed entrate propri in armonia con la Costituzione e secondo i principi di
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.
Inoltre, il II comma dell’art. 117 nel delimitare le materie di
legislazione concorrente individua, tra le altre, “i rapporti
internazionali e con l’Unione Europea delle Regioni; commercio con
l’estero, tutela e sicurezza del lavoro”, stabilendo che in tali casi,
spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la
72
determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione
dello Stato.
In tal modo sono state poste al centro della programmazione per lo
sviluppo le Regioni, le quali non sono più soggetti che operano con
finanza derivata, mediante trasferimenti vincolati, ma assumono il
ruolo di protagonisti sia in termini di articolazione della spesa
pubblica, che in quanto al prelievo fiscale, anche se in un contesto di
subordinazione agli obiettivi ed alle decisioni prese a livello nazionale
di concerto con l’Unione Europea.
Bisogna tener presente che dopo l’entrata dell’Italia nell’U.M.E., la
politica dei redditi ha assunto una rilevanza nettamente superiore a
quella avuta fino agli anni novanta, perché in primo luogo non è più
possibile attuare politiche di equilibrio nella bilancia dei pagamenti
mediante manovre del tasso di cambio; con la conseguenza che non
disponendo più di tale strumento di politica economica, non è
possibile adottarlo per gli altri obiettivi nazionali.
In secondo luogo, dal momento che il tasso d’inflazione è regolato
dalla Banca Centrale Europea attraverso la politica monetaria, l’unico
strumento di cui dispongono gli Stati membri per regolare eventuali
divergenze è costituito dalla politica fiscale. Essa, perciò, è il perno
73
attorno al quale ruota la politica di sviluppo del reddito e
dell’occupazione, nonché del mantenimento dei livelli programmati
del tasso di inflazione.
In questo contesto particolarmente impegnativo per l’Italia (in quanto
il Paese deve ancora rientrare nei parametri indicati a livello
comunitario per il rapporto debito pubblico/PIL), il ruolo delle
Regioni è stato fortemente ampliato, perché sono state rese partecipi
della politica dei redditi nazionali, attraverso la definizione di
strumenti giuridici ed economici come i patti sociali per lo sviluppo e
l’occupazione a livello regionale e provinciale.
2. Il contesto europeo
Tra gli obiettivi dell’Unione Europea, soprattutto negli ultimi
anni è stata attribuita notevole importanza alla crescita
dell’occupazione ed una maggiore autonomia regionale finalizzata sia
alla coesione economica e sociale come garanzia di stabilità europea,
sia all’incremento del tasso di crescita dell’Unione ed alla sua
competitività in ambito mondiale.
Gli strumenti finanziari individuati dall’Unione per il perseguimento
di tale scopo sono i Fondi Strutturali, che sono finalizzati a ridurre il
74
divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni, nonché a favorire la
crescita armoniosa, equilibrata e duratura delle attività economiche, lo
sviluppo dell’occupazione e delle risorse umane, la tutela ed il
miglioramento dell’ambiente, l’eliminazione delle ineguaglianze e la
promozione della parità tra uomini e donne (art. 2 Trattato Istitutivo
dell’Unione Europea).
Nel 1999 il Consiglio e la Commissione Europea hanno adottato nuovi
regolamenti in materia di fondi: uno per la gestione complessiva ed
uno per ciascun fondo. Coerentemente è stato necessario coordinare le
azioni dei fondi con le politiche europee come la Strategia Europea
per l’occupazione (SEO), le politiche economiche e sociali degli Stati
membri e le rispettive politiche regionali.
Il Regolamento (C.E.) n. 1260/99 ha introdotto criteri come la
maggiore concentrazione delle risorse, il decentramento, il
rafforzamento del partenariato, la ridefinizione dei compiti della
Commissione e delle Autorità nazionali e delle rispettive
responsabilità, nonché la ricerca di una maggiore efficacia e di
controlli più significativi.
In particolare il Regolamento individua nella concertazione decentrata
e nel partenariato gli strumenti necessari per risolvere il diffuso
75
problema della disoccupazione e per far diventare i territori
protagonisti delle politiche di sviluppo e crescita economica mediante
la collaborazione di parti sociali, istituzioni ed autonomie locali.
Se nel primo periodo di programmazione dei Fondi Strutturali
(1994-1999), la normativa del Quadro Comunitario di Sostegno
(QCS) prevedeva la “partecipazione” delle autorità competenti a
livello regionale, locale e nazionale, con la nuova programmazione
per il 2000-2006 l’ambito si amplia alle autorità regionali e locali,
nonché alle parti economiche e sociali; infatti, in Agenda 2000 viene
ribadita la necessità di politiche di programmazione regionale per
attuare la coesione economica e sociale in Europa.
Anche nel contesto del Consiglio Europeo di Lisbona, svoltosi nel
2000 si è rafforzato il ruolo delle istituzioni locali di concerto con le
forze sociali. Si è evidenziato che l’occupazione a livello locale e
regionale debba essere sostenuta attraverso una nuova strategia ed una
coerente utilizzazione dei Fondi Strutturali, in quanto strumenti
finalizzati all’assistenza dei soggetti locali, per l’adozione di iniziative
a favore dell’occupazione.
Compito delle Regioni è l’adozione di misure innovative di natura
amministrativa e legislativa per la semplificazione dei procedimenti,
76
nonché la predisposizione di misure volte a valutare l’attuazione degli
interventi ed a monitorarli, nell’ottica del perseguimento degli
obiettivi individuati in sede di programmazione delle risorse
comunitarie.
Infatti, le Regioni hanno dovuto adottare strumenti di
programmazione di medio periodo come il DOCUP (Documento di
Programmazione) e i POR (Programmi Operativi Regionali) sottoposti
ad approvazione comunitaria.
Anche il Consiglio Europeo di Laeken del 2001 ha riproposto il tema
del dialogo sociale con l’obiettivo di sviluppare con le parti sociali un
programma pluriennale finalizzato alla concertazione trilaterale in
materia di sviluppo ed occupazione.
Infine, nella Strategia Europea per l’occupazione elaborata nel 2003, è
stata sottolineata la necessità e l’impegno di promuovere la
cooperazione con le parti sociali a livello nazionale, settoriale,
regionale, locale e d’impresa.
Quindi, dall’analisi svolta nell’ambito delle politiche comunitarie si
evince la propensione verso strumenti come la concertazione
decentrata e la programmazione negoziata per la risoluzione di
problematiche occupazionali, radicate in territori caratterizzati da
77
conflittualità politica o dalla mancanza di collaborazione tra istituzioni
pubbliche e private.
Occorre, a questo punto, verificare come siano stati attuati, a livello
nazionale, i principi espressi in ambito europeo.
3. La programmazione negoziata
In Italia il processo di coinvolgimento delle componenti sociali
nei sistemi locali di regolazione dello sviluppo ha avuto una prima
definizione compiuta con la legge 662/96 (tralasciando interventi
come la L. 317/91, la L. 488/92, D.M. 21/4/93 e la L.341/95) collegata
alla Finanziaria per il 1997. L’art. 2 comma 203 chiarisce e regola gli
interventi in tema di programmazione negoziata, promuovendo una
forma di sviluppo dal basso (definita bottom-up) su temi di rilievo
politico-economico generale.
La programmazione negoziata è la forma di concertazione e di
regolazione concordata tra soggetti pubblici a vari livelli istituzionali
o tra uno o più soggetti pubblici competenti e le varie parti private
interessate all’attuazione di misure predefinite, che devono
comprendere interventi diversi riferibili ad uno specifico obiettivo
prioritario di sviluppo.
78
Con la Delibera del C.I.P.E. (Comitato Interministeriale per
Programmazione Economica) del 21/3/1997 (“Disciplina della
programmazione negoziata”) si giunge con maggior compiutezza ad
una definizione normativa degli strumenti che è possibile utilizzare,
individuando i soggetti coinvolti, gli obiettivi perseguiti, i livelli
istituzionali di controllo e di regolazione.
I principali strumenti individuati nella L. 662 del 1996 sono:
a) l’intesa istituzionale di programma
b) l’accordo di Programma-quadro
c) il contratto di programma
d) il patto territoriale
e) il contratto d’area
L’intesa istituzionale di programma è definita dalla Delibera come lo
strumento attraverso il quale Governo e Giunta Regionale o
Provinciale definiscono gli obiettivi da conseguire ed i settori nei quali
canalizzare l’azione congiunta per favorire lo sviluppo in coerenza
con la prospettiva di una progressiva trasformazione dello Stato in
senso federalista.
Ogni intesa deve specificare i programmi di intervento nei settori di
interesse comune, gli accordi di programma quadro da stipulare, i
79
criteri, i tempi ed i modi per la sottoscrizione dei singoli accordi di
programma quadro e le modalità di verifica periodica di
aggiornamento e degli obiettivi generali.
L’Accordo di Programma quadro è l’accordo con gli Enti locali e gli
altri soggetti pubblici e privati, promosso da Governo e Giunte
Regionali e Provinciali “in attuazione di una intesa istituzionale di
programma per la definizione di un programma esecutivo di interventi
di interesse comune o funzionalmente collegati”.
Esso deve indicare, oltre le attività e gli interventi da realizzare, anche
i soggetti responsabili, le eventuali conferenze di servizi e convenzioni
necessarie, i procedimenti di conciliazione o definizione di conflitti tra
i soggetti partecipanti all’accordo, le risorse finanziarie occorrenti e le
procedure ed i soggetti responsabili per il monitoraggio e la verifica
dei risultati.
Per completezza va specificato che il “Contratto di Programma” è
stipulato tra l’amministrazione statale competente, grandi imprese,
consorzi di medie e piccole imprese e rappresentanze di distretti
industriali per la realizzazione di interventi oggetto di
programmazione negoziata.
80
Il Contratto d’area è uno dei più nuovi strumenti operativi della
programmazione negoziata; secondo la Delibera esso è “espressione
del principio di partenariato sociale e costituisce lo strumento
operativo funzionale alla realizzazione di un ambiente economico
favorevole all’attrazione di nuove iniziative imprenditoriali ed alla
creazione di nuova occupazione nei settori dell’industria,
agroindustria, produzione di energia termica o elettrica da bio-masse,
servizi e turismo attraverso condizioni di massima flessibilità
amministrativa.”. Soggetti coinvolti in tale progetto sono le
amministrazioni “anche locali”, le rappresentanze dei lavoratori e dei
datori di lavoro per la realizzazione di azioni finalizzate ad accelerare
lo sviluppo ed a creare nuova occupazione in territori circoscritti
nell’ambito delle aree specificamente identificate per la loro
condizione di crisi occupazionale e di sviluppo industriale.
Emerge chiaramente come tale strumento sia finalizzato alla soluzione
di problematiche occupazionali che insidiano aree particolarmente
sottomesse a fenomeni di deindustrializzazione o di riconversione
produttiva. Diversamente dal Patto territoriale che può essere stipulato
in tutte le aree riconosciute depresse ai sensi del D.M. n.527/1955 e
classificate come aree obiettivo 1, 2 e 5b dal Regolamento CEE n.
81
2052 del 1988, il Contratto d’area è rivolto in modo specifico alle aree
interessate da gravi crisi occupazionali. Di conseguenza per i contratti
d’area i contributi previsti sono cumulabili con altre agevolazioni
finanziarie, comprese quelle derivanti da un Patto e quindi superano il
vincolo posto dall’Unione Europea agli aiuti alle imprese, in virtù
della particolare condizione economico-sociale di tali zone.26
Va aggiunto, infine, che mentre il Patto territoriale può coinvolgere
un’area molto ampia, il contratto è incentrato su aree di crisi di
estensione limitata, composte da pochi Comuni limitrofi o focalizzate
su un Comune leader in crisi produttivo-settoriale.
Tra gli strumenti di programmazione negoziata, lo strumento che
prefigura il modello di regolazione sociale dello sviluppo locale è
senza dubbio l’istituto del Patto territoriale.
Esso è l’accordo promosso dagli enti locali, dalle parti sociali o da
altri soggetti pubblici o privati “relativo all’attuazione di un
programma di interventi caratterizzato da specifici obiettivi di
promozione dello sviluppo locale in ambito sub-regionale compatibili
con uno sviluppo ecosostenibile”.
26 Francesco Losurdo “Programmazione negoziata e regolazione sociale dello sviluppo locale. Patti territoriali e contratti d’area” in Sviluppo, territori e Patti a cura di F. Botta, Università degli Studi di Bari – Dipartimento per lo studio delle società mediterranee, Cacucci, Bari, 1998 Pagg. 95-113
82
Obiettivo del Patto territoriale è dare visibilità al sistema di relazioni
intercorrente tra imprese, lavoratori e istituzioni operanti all’interno di
sistemi produttivi territoriali, evidenziando come la concertazione
possa permettere il dialogo tra soggetti pubblici e privati che mai
prima si erano confrontati, se non in clima di contrapposizione
d’interessi.
Ai sensi della Delibera i Patti territoriali possono essere attivati in
tutto il territorio nazionale, anche se va chiarito che le specifiche
risorse destinate dal C.I.P.E. sono utilizzabili per i Patti “attivabili
nelle aree depresse”, cioè “quelle ammissibili agli interventi dei Fondi
Strutturali, obiettivi 1 (Regioni in ritardo di sviluppo), 2 (aree colpite
dal declino industriale) e 5b (zone rurali), nonché quelle rientranti
nelle fattispecie dell’art. 92 par. 3 lett. c del Trattato di Roma.”
4. L’attuazione degli strumenti di programmazione negoziata
L’eterogeneità, che caratterizza l’ Italia dal punto di vista
economico e sociale, ha fortemente caratterizzato l’applicazione e la
concreta attuazione degli strumenti di programmazione negoziata
quanto ai tempi ed alle modalità.
83
Il periodo di sottoscrizione degli accordi assume rilevanza, dal
momento che con la riforma del 2001 sono state attribuite alle Regioni
maggiori competenze legislative e di programmazione; di
conseguenza gli accordi stipulati oltre tale data risultano essere
sicuramente più strutturati.
L’analisi svolta dal C.N.E.L. ha evidenziato la possibilità di
suddividere le Regioni in tre sistemi caratterizzati dal livello di
concertazione in esso operato. A tal fine si possono riconoscere:
sistemi “altamente” strutturati, “debolmente strutturati” e
“completamente destrutturati”.
Nella prima categoria rientrano quelle Regioni che hanno
sottoscritto di comune accordo con le Forze sociali e le Autonomie
Funzionali “Patti sociali per lo sviluppo e l’occupazione” e Protocolli
d’intesa, attraverso i quali si propongono di raggiungere obiettivi di
crescita ed occupazione, mediante la cooperazione e la
predisposizione delle risorse disponili. Il confronto tra le parti avviene
all’interno di Tavoli territoriali per materie di interesse generale, o di
Tavoli specializzati per materie di tipo settoriale, ma di interesse per
l’intera economia regionale.
84
La Lombardia è stata una delle prime Regioni a predisporre un Patto
sociale altamente strutturato, prima della riforma del 2001. La
complessità si evince dal tipo di obiettivi perseguiti, dalla
predisposizione delle azioni strategiche e dalle modalità di confronto.
Anche Abruzzo e Umbria hanno sottoscritto accordi sufficientemente
strutturati, come anche la Valle d’Aosta, regione in cui la
concertazione ha assunto un ruolo importante per la promozione dello
sviluppo economico, favorendo comportamenti cooperativi di attori
pubblici e privati.
Esempi più recenti sono rintracciabili anche nel Lazio, che pur
non aveva forti tradizioni concertative, nonché nell’Emilia Romagna
che nel 2004 ha siglato un Patto per lo sviluppo in linea con gli
orientamenti espressi dal Consiglio di Lisbona.
Tuttavia anche i sistemi altamente strutturati presentano delle
problematiche nell’attuazione dei Patti, dovute per lo più all’eccessiva
frammentazione nella definizione degli obiettivi, alla difficoltà di
dialogo tra soggetti pubblici e privati, alla poca efficacia degli
strumenti di monitoraggio del Patto.
I sistemi “debolmente strutturati” comprendono Regioni in cui non
sono stati sottoscritti veri e propri Patti per lo sviluppo e
85
l’occupazione attraverso i quali definire obiettivi e modalità del
confronto in tema di programmazione regionale; tuttavia si può
riscontrare la presenza di Protocolli d’Intesa, che sebbene meno
strutturati rispetto ai Patti per lo sviluppo, permettono il confronto su
temi di rilevanza sociale ed economica. Esempi di questo genere sono
presenti in Liguria, Friuli Venezia Giulia e Piemonte.
Nella categoria dei sistemi debolmente strutturati sono ricompresse
anche quelle regioni in cui si è utilizzato il partenariato economico-
sociale per creare il confronto tra le parti, soprattutto nei procedimenti
di attuazione degli strumenti di programmazione negoziata e nelle
procedure di erogazione dei fondi comunitari. Infatti a causa dei
Regolamenti fissati dalla C.E. e all’esistenza di costanti controlli da
parte dei Comitati di sorveglianza, l’attività di concertazione tra le
parti è sempre presente sul territorio, almeno a livello formale.
Per esempio, nel Meridione e particolarmente nella Puglia, esiste un
buon livello di concertazione limitatamente a quei settori che
usufruiscono di aiuti comunitari, mentre è pressoché carente in tutti gli
altri settori.
Si è potuta ampliamente riscontrare una netta differenza di approccio e
di iter procedurale tra i patti nazionali e quelli europei. I primi, avviati
86
in un clima di incertezza e instabilità dovuta alla carenza di riferimenti
normativi, sono stati costruiti a fatica sia sotto il profilo del progetto
imprenditoriale, che per il processo di concertazione. Invece i patti
“europei”, sottoposti a procedure ed a tempi definiti a priori
dall’Unione Europea, hanno sperimentato un processo di costruzione
progettuale più lineare e compatto, anche se non sono mancate
incertezze e slittamenti temporali. Conseguenze di questa
differenziazione (patto nazionale/europeo) sono rintracciabili anche
nella qualità della concertazione locale: episodica e strettamente
finalizzata al patto negli accordi nazionali, più sofisticata e sistematica
nei patti europei.
5. La Puglia
Con la fine dell’intervento straordinario nel 1992 si chiude
formalmente la stagione delle politiche legislative, degli strumenti e
delle risorse straordinarie per lo sviluppo del Me4zzogiorno e per il
riequilibrio regionale Nord-Sud. La liquidazione della Cassa per il
Mezzogiorno pone fine al sistema basato sulla figura protagonista del
“Governo centrale, che definiva scelte, finalità, caratteristiche,
87
modalità, entità, dislocazione nel territorio dell’intervento pubblico di
sostegno al Sud e i trasferimenti monetari di ingenti risorse”. 27
Tali fattori hanno “costretto” al cambiamento: le amministrazioni
locali hanno dovuto ripensare e soprattutto riformulare i processi di
sviluppo locale, rivalutando l’importanza delle strategie di
radicamento territoriale. Non bisogna dimenticare che la Puglia
presenta dinamiche economiche consistenti in alcune sue parti, mentre
altre sono di assoluta debolezza; di conseguenza necessita di un
coordinamento della programmazione dal basso, che si ponga come
motore verso lo sviluppo regionale e proiettato in ambito nazionale ed
europeo.
Tra gli strumenti di programmazione negoziata, il patto territoriale ha
registrato maggiore diffusione in Puglia, in termini di proposizione.
Esso rappresenta lo strumento più significativo del partenariato sociale
perché può attivare un programma di interventi nell’ambito
industriale, agroindustriale, turistico e nel comparto infrastrutturale. Il
patto territoriale è incentrato sulla definizione ed individuazione di
una strategia concertata e consensuale dello sviluppo del sistema
locale da parte dei diversi soggetti. La mobilitazione di tali attori ha
27 Roberto DI Gioacchino “Patti a rapporto. Indagine sui patti territoriali” Ediesse Roma, 2001, Pagg 13-16
88
condotto alla predisposizione nell’ambito della regione Puglia dei
seguenti Patti Territoriali:
• Nord Barese Ofantino
• Patto Territoriale Taranto
• Sistema Murgiano
• Patto Territoriale per l’Area di crisi di Brindisi
• Patto Territoriale per la Provincia di Lecce
• Patto Territoriale di Bisceglie, Bitonto, Giovinazzo, Molfetta,
Ruvo di Puglia e Terlizzi
• Patto Territoriale di Bari
• Patto Territoriale di Foggia
• Patto Territoriale di Martina Franca
• Patto Territoriale di Monopoli
• Patto Territoriale del Fortore
• Patto per l’area messapica.
Alcuni di questi patti rientrano tra i dodici Patti nazionali chiamati
di “prima generazione”, perché approvati prima della citata delibera
CIPE del 1997; sono state le esperienze che hanno fatto “da cavia”
alla sperimentazione pattizia, dal momento che non potendo essere
89
ancorate a norme di riferimento, hanno usufruito solo della
“promozione spontanea” guidata dal C.N.E.L.
Significative sono state le esperienze di Taranto e di Castellaneta-
Martina Franca, le quali, oltre la logica della filiera agro-alimentare,
hanno messo in luce l’importanza strategica che poteva assumere
l’affermazione dell’industria agro-alimentare, in un contesto dove il
sistema delle produzioni continua a premiare regioni come la
Campania e l’Emilia Romagna.
Partendo dall’analisi dei Patti realizzati in queste zone il primo
elemento che si può evidenziare consiste nella molteplicità dei
soggetti coinvolti. Per esempio, il Patto territoriale per l’agricoltura ed
il turismo rurale della Fascia Orientale della Provincia di Taranto è
stato sottoscritto da un numero consistente di Comuni (Taranto,
Manduria, Grottaglie, Monteiasi, S.Giorgio Ionico, Carosino,
Monteparano, S.Marzano, Roccaforzata, Pulsano, Lizzano, Leporano,
Sava……..ecc..), dalla Provincia, dalla Regione. Inoltre si nota una
forte presenza di organizzazioni professionali agricole ed
imprenditoriali (CIA, Confagricoltura, Coldiretti, Confcooperative,
Ascom), nonché delle organizzazioni sindacali (C.G.I.L., C.I.S.L.,
U.I.L., FLAI-CGIL, UILA-UIL, ALPA-CGIL, UGC-CISL, UIMEC-
90
UIL), della Camera di Commercio e del Gruppo di Azione Locale
“Comprensorio Rurale Ionico Sava”.
Ogni soggetto firmatario si assume impegni finalizzati a rimuovere gli
ostacoli che intralciano il normale iter burocratico: il Comune, la
Provincia si propongono di rendere più celere il rilascio di pareri,
autorizzazioni, assensi, nulla-osta da parte di enti ed uffici competenti
finalizzati alla realizzazione d’interventi pubblici e privati previsti dal
Patto territoriale attraverso l’attivazione dello strumento della
Conferenza di servizi, la quale “sarà ritenuta permanente finchè i
Comuni della Fascia Orientale della Provincia di Taranto non avranno
attuato l’intero programma del Patto”.
La Regione, invece, ha il compito di promuovere il Patto in tutte le
sedi istituzionali e di inserirlo tra le azioni e le iniziative dei
programmi regionali.
D’altra parte le organizzazioni sindacali intendono offrire il proprio
contributo alla realizzazione di obiettivi di consolidamento ed
ampliamento della base occupazionale.
Infatti, in un contesto di precisi progetti imprenditoriali e di corrette
relazioni sindacali, le organizzazioni cercano di utilizzare tutti gli
strumenti di flessibilità contrattuale e di temporaneo contenimento del
91
costo del lavoro al fine di realizzare un ambiente economico
favorevole all’attuazione di nuove iniziative per creare occupazione.
Il Tavolo di concertazione si propone di realizzare interventi che
attengono in ordine di priorità all’agricoltura (con riferimento alla
produzione primaria ed alla trasformazione dei prodotti effettuata
dalle aziende agricole) all’agriturismo, all’industria alimentare, alla
promozione di prodotti e di servizi offerti alle associazioni di
produttori dalle cooperative e dai consorzi.
I Patti di “seconda generazione” sono stati approvati con bando del
30/11/1998 e del 10/04/1999; essi hanno potuto fare riferimento a
norme e criteri stabili, nonché alla guida istituzionale del Dipartimento
per le politiche di sviluppo e coesione del Ministero del Tesoro.
Osservando ancora il contesto ionico, si possono segnalare i Patti
Agricoli di seconda generazione di Manduria con 22 progetti
finanziati e 5 infrastrutture proposte, e di Mottola-Comunità Montana
Murgia Tarantina con 98 progetti approvati.
Inoltre nella logica della valorizzazione dei prodotti agricoli e del
territorio ha preso avvio l’esperienza dei G.A.L. (Gruppi di Azione
Locale) dell’area orientale comprendente S.Giorgio/Manduria e
dell’area occidentale Massafra/Palagiano finanziati dal progetto
92
LEADER II (Liasion entre actions developpement de l’economie
rurale).
L’iniziativa LEADER II nasce in ambito europeo ed ha l’obiettivo di
affrontare le problematiche che insistono sulle zone rurali,
minacciandone il futuro: l’invecchiamento della popolazione, l’esodo
rurale, il calo dell’occupazione.
Questo progetto si è sviluppato in due fasi definite LEADER I e II,
entrambe finalizzate al coinvolgimento degli operatori locali,
all’apertura delle zone rurali ad altri territori mediante lo scambio ed il
trasferimento di esperienze.
Il completamento dell’iniziativa LEADER è stato realizzato con la
creazione di una nuova fase definita LEADER + (Plus), la quale si
propone di incoraggiare ed avviare gli operatori rurali a riflettere sulla
potenzialità del territorio in una prospettiva a lungo termine.
In Puglia un esempio di tale iniziativa è costituito dal progetto
“VALLE dei TRULLI”. Esso ha coinvolto i territori dei comuni di
Alberobello, Cisternino, Locorotondo e Martina Franca, caratterizzati
da strutture architettoniche definite trulli e da un insieme di masserie
che costituiscono una risorsa di grande pregio per la nostra regione da
utilizzare con razionalità. E’ interessante notare che anche in questa
93
esperienza le organizzazioni sindacali (FLAI, FISBA, UILTA di
Taranto) e le organizzazioni provinciali (CIA, Coldiretti e UPA di
Taranto) si sono impegnate in iniziative volte a coinvolgere le parti
sociali e le associazioni ambientaliste, mediante richieste alle
istituzioni di tavoli di concertazione allo scopo di individuare percorsi
comuni che abbiano ad oggetto la promozione dell’iniziativa.
In conclusione, mi sembra doveroso accennare che la Regione Puglia,
nel rendere concrete le premesse indicate a livello europeo circa la
necessità di monitorare l’andamento dei Patti, ha predisposto una
legge nel 2006 allo scopo di regolarizzare l’attività dei lavoratori
dipendenti impegnati in progetti finanziati a qualsiasi titolo dalla
Regione.
La legge n. 28/2006 “Disciplina in materia di contrasto al lavoro non
regolare” approvata dal Consiglio regionale pugliese è stata la prima
in Italia ad occuparsi del problema ed a predisporre uno strumento
legale in tal senso. L’articolo 2 stabilisce, infatti, che “nei
provvedimenti di concessione di benefici accordati a qualsiasi titolo
dalla Regione Puglia, in via diretta o indiretta, ai sensi delle vigenti
leggi regionali, a favore di datori di lavoro, imprenditori e non
imprenditori,……nei bandi per l’erogazione da parte della Regione
94
Puglia….di fondi comunitari, nazionali e regionali deve essere inserita
la clausola esplicita determinante l’obbligo per il beneficiario,
appaltatore o sub appaltatore di applicare o di far applicare nei
confronti dei lavoratori dipendenti o, nel caso di cooperative, dei soci,
quale che sia la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro
intercorrente, contratti collettivi nazionali e territoriali del settore di
appartenenza, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e
dalle associazioni dei datori di lavoro comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale.”
La dimostrazione del rispetto di quanto stabilito all’articolo 2 è la
condizione per l’accesso a qualsiasi beneficio economico e normativo,
per la partecipazione a bandi o a gare d’appalto e per il godimento di
erogazioni da parte della Regione Puglia a qualsiasi titolo.
Infine si può constatare che anche in questo contesto si prevede la
promozione della redazione di protocolli d’intesa tra le Pubbliche
Amministrazioni presenti sul territorio regionale e le organizzazioni
sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano
regionale,nei quali la committenza pubblica assuma quale criterio per
gli appalti di opere, servizi e forniture la previa quantificazione degli
oneri di personale,nel rispetto delle leggi in materia di lavoro e dei
95
contratti collettivi nazionali e territoriali del settore di appartenenza,
stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dalle
associazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative
sul piano nazionale (art 9).
96
CONCLUSIONI
Tra i principi fondamentali, la Costituzione riconosce all’articolo 4 il
diritto al lavoro ( La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al
lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto),
inteso come diritto sociale e di libertà.
Diritto di libertà perché la scelta del lavoro non può essere imposta
dall’esterno.
Diritto sociale perché realizza la pretesa del cittadino, inteso come
“persona sociale”, di poter lavorare senza subire l’interferenza abusiva
o discriminatoria dei poteri pubblici o privati; infatti il diritto al lavoro
mira piuttosto a garantire un’uguaglianza formale e sostanziale delle
persone rispetto al lavoro disponibile, nonché a cercare l’equilibrio
della concorrenza tra le persone e la sicurezza rispetto agli abusi legati
a qualità personali, sia nel mercato del lavoro sia durante il rapporto di
lavoro.
Nella sezione dedicata ai Rapporti economici, al titolo III, il
Costituente delinea la tutela del lavoro “in tutte le sue forme ed
97
applicazioni” (art. 35), definendo il diritto ad una retribuzione
“proporzionata ala quantità e qualità del lavoro” sufficiente ad
assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa (art. 36).
Ritengo che quest’articolo rappresenti il punto focale di ogni
osservazione e considerazione: l’obiettivo, al quale ogni essere umano
mira, attraverso la prestazione della propria attività lavorativa, è
l’esistenza libera e dignitosa.
Quindi il lavoro è, non solo il fondamento sul quale poggia la nostra
Repubblica democratica, ma soprattutto è il mezzo, lo strumento
attraverso il quale l’uomo realizza la propria felicità: l’esistenza libera
e dignitosa per sé e per la propria famiglia.
La garanzia di tale strumento, nel corso degli ultimi secoli, dagli
albori della Rivoluzione Industriale fino ad oggi, ha costituito la
ragion d’essere dell’organizzazione sindacale.
Infatti, come ho ampliamente spiegato nei capitoli dedicati al
sindacato, l’inserimento di questa organizzazione all’interno del
dettato costituzionale ha portato nuova forza ai movimenti che
rappresentano e tutelano gli interessi dei lavoratori.
L’art. 39 definisce l’organizzazione sindacale “libera”: è una libertà
intesa a 360° gradi, che garantisce sia la libertà del singolo di
98
adoperarsi ai fini sindacali, sia la libertà “negativa” di non aderire a
tali iniziative. Inoltre è sottintesa anche la libertà intesa nel senso di
non sottoposizione ai controlli pubblici.
Indubbiamente l’art. 39 esalta una libertà tipica, perché diversa dal
diritto di associazione, e come tale risulta essere particolarmente
“rafforzata”; l’autonoma proclamazione della libertà sindacale
produce effetti specifici che sono riferibili alle sole organizzazioni
sindacali: la garanzia di una libera esistenza e la possibilità di operare
nel contesto socio-economico a prescindere da qualsiasi interferenza
autoritaria.
Il sindacato, cioè l’associazione di rappresentanza dei lavoratori,
svolge in primo luogo un grande ruolo di protezione del lavoro dal
libero ed incondizionato funzionamento del mercato. Il suo obiettivo è
sempre quello di porre l’andamento dei salari e delle condizioni di
erogazione del lavoro al riparo dalla concorrenza, in primo luogo
quella tra lavoratori, ma anche quella tra i datori.
L’attività svolta dal sindacato è un’azione di rappresentanza che si
compie nella pratica quotidiana, ma è soprattutto un’azione tesa alla
negoziazione formale ed informale. Lo strumento fondamentale
utilizzato dai sindacati è la contrattazione collettiva, da intendersi
99
come l’insieme dei rapporti più o meno negoziali, e più o meno
formali che intercorrono tra sindacati e imprese in ordine alla
regolamentazione dei rapporti di lavoro.
Tra le altre forme di regolamentazione perseguite dai sindacati si può
scorgere la “partecipazione”, intesa come coinvolgimento nelle
decisioni: essa si realizza quando nella contrattazione si riduce il peso
degli obiettivi conflittuali a favore degli obiettivi cosiddetti “di
convivenza” tra le parti. In tal caso i confini tra contrattazione
collaborativi o partecipativa e forma dei partecipazione in senso
proprio tendono va diventare meno netti.
Esempi di questo tipo sono riscontrabili nei diritti d’informazione
sulle politiche d’impresa o nella contrattazione sui processi di
ristrutturazione o riconversione industriale, in cui si è resa necessaria
una partecipazione nella gestione dei processi organizzativi e
tecnologici per il soddisfacimento degli obiettivi rivendicativi.
Quindi la contrattazione collettiva contribuisce a creare una vera e
propria rete di relazioni che vede al proprio centro sindacati ed
imprese, ed attraverso la quale si esercita nei fatti la rappresentanza
sindacale. E’ un sistema di rapporti di interdipendenza che
intercorrono in senso orizzontale, fra i diversi soggetti coinvolti nella
100
contrattazione e, in senso verticale, all’interno dei soggetti stessi, cioè
tra i livelli stessi.
Con il termine “Relazioni Industriali” si suole individuare un rapporto
abbastanza stabile, non solo occasionale, fra gli attori ed implica una
qualche forma di transazione volontaria, e non semplicemente un
rapporto segnato dall’autorità.
Secondo Cella e Treu, il sistema di relazioni industriali è identificabile
con “l’attività di produzione più o meno sistematica e più o meno
stabile, di norme più o meno formalizzate relative all’impiego del
lavoro dipendente e alla controversie che da tale impiego derivano,
effettuata in prevalenza a partire da rapporti tra soggetti collettivi più
o meno organizzati (sindacati dei lavoratori, associazioni
imprenditoriali…).”
Uno dei risultati più importanti ottenuti attraverso la cooperazione tra
pubblici poteri ed associazioni di interessi è stata senza dubbio la
concertazione, che negli anni novanta è stata espressione del
pluralismo sociale organizzato, ma soprattutto è stata funzionale
all’inserimento delle associazioni di interessi nei meccanismi
istituzionali di decisione politica.
101
Il momento topico per l’affermazione della concertazione è stato
l’Accordo del 1993, il quale ha posto in essere un sistema di “meta-
norme” di concertazione: ha individuato le funzioni e gli obiettivi che
questo metodo persegue, i soggetti negoziali e le caratteristiche di
ognuno.
Ma bisogna, d’altra parte, riconoscere che il negoziato del 1993 nasce
in un momento di debolezza dei soggetti che lo sottoscrivono.
Il governo, nato dalla fase di transizione in seguito alla crisi dei partiti,
è tecnico, quindi privo della maggioranza di riferimento e bisognoso
del sostegno e della legittimazione sociale offerta dalle organizzazioni
degli interessi, in sostituzione dell’investitura elettorale. Tuttavia tale
carenza del governo si è trasformata in una risorsa negoziale, perché la
trattativa è risultata svincolata da logiche di schieramenti e l’accordo è
apparso come a-politico. Inoltre, il governo ha saputo svolgere
un’attività di mediazione orientata solo alla soluzione del conflitto
attraverso obiettivi che fossero conformi agli interessi di tutta la
collettività e non solo a quelli di parte.
D’altra parte bisogna riconoscere che anche le parti sociali erano prive
del requisito del monopolio “reale” della rappresentanza: fenomeni
come la trasformazione dell’economia, la crescita del settore terziario,
102
l’aumento della disoccupazione avevano reso deboli le organizzazioni
sindacali, le quali non erano in grado di realizzare un’efficace
mediazione degli interessi collettivi.
Infine va rilevato che anche le organizzazioni dei datori di lavoro
erano in una situazione difficile creata dalla privatizzazione delle
imprese a partecipazione statale, ma soprattutto dalla crisi economica
e dai processi di ristrutturazione che hanno determinato profonde
trasformazioni nel capitalismo italiano.
Nonostante queste cause di debolezza “endogene”, al negoziato del
1993 va riconosciuto, innanzitutto, il merito di aver fatto acquisire un
consenso quasi generale sulle politiche definite e, in secondo luogo, di
rendere vincolanti nei confronti di tutti i soggetti partecipanti gli
impegni stabiliti attribuendo maggiore efficacia alla politica dei redditi
e dell’azione contrattuale.
Infatti, la concertazione ha definitivamente sostituito il meccanismo di
indicizzazione automatica dei salari che si era mostrata incapace di
contenere la spirale prezzi-salari, creando effetti negativi sulla
dinamica delle retribuzioni e sull’andamento dell’economia.
103
Inoltre è stata attribuita una rilevante importanza alla contrattazione
aziendale, la quale ha permesso la distribuzione di parte dei frutti ai
lavoratori mediante incrementi retributivi non inflazionistici.
Infine, si può constatare un ruolo più attivo del governo, al quale sono
attribuite due funzioni principali: formulare il quadro degli obiettivi
macro-economici (fissazione del tasso di inflazione programmata,
politica dei salari pubblici, dinamica degli aggregati di finanza
pubblica) e rendersi promotore e garante degli accordi (un esempio è
la politica degli ammortizzatori sociali).
Indubbiamente la fase più “propositiva” della concertazione è legata al
biennio 1995/1996, periodo in cui la dinamica delle retribuzioni
contrattuali segue la strada delineata dal tasso di inflazione
programmata e contribuisce a disinnescare definitivamente i
meccanismi legati all’inflazione.
Contemporaneamente la contrattazione aziendale, anche se imputabile
ad una parte esigua dei lavoratori, si sviluppa in linea parallela alla
contrattazione nazionale mostrando elementi di innovatività
soprattutto sul piano normativo 28.
Successivamente, però, la spinta propositiva della concertazione si
esaurisce soprattutto a causa della componente sindacale, la quale 28 Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali (2001), “Rapporto di monitoraggio sulle politiche occupazionali e del lavoro”, Franco Angeli, Milano
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avverte il tasso di inflazione programmato come un’indicatore poco
rassicurante per l’inflazione futura, tanto da portare a fenomeni di
aperta contestazione.
Sembra quasi che la concertazione sopravviva a sé stessa cristallizzata
in un meccanismo di cui le parti sociali avvertono sempre meno i
vantaggi e sempre più la saturazione. Le cause della crisi possono
essere imputate in primo luogo alla non omogeneità del sistema
produttivo italiano e del mercato del lavoro.
Infatti ci sono aree in cui si registra il sostanziale pieno impiego, o
addirittura un eccesso strutturale di domanda di lavoro, ed aree in cui
il tasso di disoccupazione è elevato e pressoché costante (al Sud negli
ultimi 20 anni non è mai sceso sotto il 15%) 29. Conseguenza di questo
fenomeno è la presenza dei sindacati concentrata in poche grandi
imprese al Nord e meno attiva e diffusa in altre zone della penisola.
Inoltre sussiste una certa responsabilità dell’apparato statale,
colpevole di non aver saputo predisporre un adeguato sistema di
ammortizzatori sociali (o più in generale un “welfare”) necessario a
fornire ai lavoratori una compensazione per il sacrificio da questi
accettato in ambito retributivo e distributivo.
29 ISTAT, “Indagine sulla flessibilità del mercato del lavoro nel 1995-1996”, 1999
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Infine, si può riscontrare una evidente incapacità di crescita
dell’economia italiana soprattutto negli anni più recenti, che ha
insinuato una crescente sfiducia nell’uso della concertazione.
E’ emersa una situazione in cui le esigenze delle imprese e quelle dei
sindacati sono divenute sempre meno compatibili, con la conseguenza
di trasformare il clima di cooperazione in conflittualità da entrambe le
parti.
In particolare, sono emerse spinte centrifughe, causate dall’incapacità
di concludere accordi soddisfacenti per tutti e dal venir meno
dell’azione del governo in funzione di collante fra le parti sociali.
Prima conseguenza di tale atteggiamento è stata la conclusione di
accordi separati da parte di alcuni sindacati.
Nonostante tutto, bisogna riconoscere il tentativo dell’esecutivo di
rivalutare il metodo della concertazione, soprattutto verso la fine degli
anni novanta; il governo in questo caso ha introdotto un correttivo: ha
coinvolto nei tavoli di concertazione un numero sempre maggiore di
soggetti (Confcommercio, Artigiani, Cooperative, Regioni),
consapevole di dover mediare tra troppe istanze eterogenee.
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Tuttavia neanche questo metodo ha prodotto i risultati sperati, con la
conseguenza che sempre più spesso sono state ricercate nuove e
diverse strade.
In conclusione, mi sembra opportuno formulare qualche riflessione in
riferimento alla cosiddetta “concertazione territoriale”, che per mezzo
degli strumenti di programmazione negoziata introdotti dall’art. 203
comma secondo, della L. 662/96, ha trovato attuazione nel tessuto
regionale italiano.
Obiettivo primario dei “contratti d’area” e, soprattutto, dei “Patti
territoriali” è lo sviluppo locale del Mezzogiorno e più in generale,
delle aree di crisi e depresse del Paese.
Il Patto territoriale è concepito come uno strumento di politica
economica volto a modificare il contesto circostante ed a creare un
sistema di relazioni orientato allo sviluppo ed alla crescita
occupazionale. Tuttavia l’effettiva realizzazione “sul campo” ha
messo in mostra evidenti discrepanze tra quanto è stato programmato
e quanto concretamente è stato prodotto.
In primo luogo si può constatare che la concertazione che costituisce
l’anima del metodo pattizio, spesso ha condotto “alla formazione di
coalizioni collusive, opportunistiche, ossia ad intese orientate
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unicamente al drenaggio delle risorse finanziarie pubbliche centrali. Si
sta insieme e si finge di concertare perché questa è la condicio sine
qua non per ottenere le agevolazioni pubbliche, oppure non
infrequentemente, perché semplicemente non si sa concertare in
quanto non c’è l’accumulo locale di esperienza concertativa…..”. 30
In sostanza, quando lo stimolo più forte a far parte di un Patto
territoriale deriva alle società locali dall’attesa di finanziamenti
aggiuntivi, l’unico risultato possibile è una concertazione “virtuale”,
quasi una finzione che non comporta il tanto auspicato cambiamento
delle regole del gioco, anzi al contrario, crea non poche difficoltà nella
gestione concreta del Patto.
Tra le cause di questo fenomeno, peraltro abbastanza circoscritto, si
può segnalare il comportamento dei soggetti coinvolti, i quali tendono
a sottovalutare le potenzialità espansive del Patto e la funzione
centrale dei tavoli di concertazione. Soprattutto le imprese e le
associazioni imprenditoriali dimostrano scarsa disponibilità a creare
un dialogo con le organizzazioni sindacali mostrandosi reticenti
all’apertura di tavoli negoziali per realizzare intese su diritti e tutele
dei lavoratori assunti, sul lavoro sommerso ed in generale sulle
condizioni di lavoro.30 Domenico Cerosino “I Patti Territoriali” in “Mezzogiorno. Realtà, Rappresentazioni e tendenze del cambiamento meridionale” Donizelli Editore, Roma, 2000, Pag.223
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Di conseguenza si rende necessario, per una buona riuscita dello
strumento pattizio, una “regia forte”, un governo del processo di
formulazione che faccia emergere dall’interno del confronto e dalla
negoziazione le ipotesi progettuali più fertili; tale processo deve essere
gestito da un attore super-partes che si faccia garante degli interessi
dell’intera collettività, cioè l’Ente locale.
In particolare, dovrebbe essere il Comune “capoluogo” di un territorio
ad assumere su di sé la funzione di iniziativa ed avviare effettivamente
il processo di elaborazione del Patto.
Questo Ente dovrebbe dar vita ad un tavolo cui siano presenti
rappresentanze sociali ed enti locali di un territorio, assumendo su di
sé le funzioni di informazione (costruzione del consenso intorno allo
strumento individuato, attività di ricognizione e di elementi
conoscitivi sull’assetto economico e sociale di un territorio), di
prescrizione (la definizione operativa dei progetti che costituiscono
materialmente il Patto), di applicazione (consistente nella scelta
dell’Ente responsabile dell’attivazione).
In conclusione mi sembra necessaria ed opportuna la presenza “forte”
di un soggetto in funzione di guida e, come tale, riconosciuta da tutte
le componenti, per rendere davvero reale ed effettivo lo sviluppo
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territoriale, nel quadro della prospettiva federalista delineata in ambito
costituzionale.
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