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MANUALE DIRITTO DEL LAVORO GHERA
(inclusa appendice di aggiornamento 2009)
CAPITOLO PRIMO - PROFILI STORICI E DI POLITICA LEGISLATIVA
Le fonti del diritto del lavoro in generale: interrelazione tra legge e contrattazione collettiva
Partiamo col prendere in considerazione il sistema delle fonti del diritto del lavoro. A norma dell'art.1
disp.prel.c.c. sono fonti del diritto oggettivo le leggi, i regolamenti e gli usi. Con il R.D.L. 721/1943 e col
D.Lgs. 369/1944 vi è stata l'abrogazione di un ulteriore fonte, già contemplata nel succitato art.1, ossia
delle norme corporative. L'art. 5 delle preleggi individuava tra le norme corporative gli accordi economici
collettivi, i contratti collettivi di lavoro, le sentenze della magistratura del lavoro e le ordinanze corporative,
tutte utili come fonti del diritto del lavoro, oggi inutili in quanto fuori dall'ordinamento.
Per quanto concerne le fonti, l'unica utilità proviene dall'art.2078 c.c., il quale precisa che gli "usi" hanno
efficacia in mancanza di leggi o di disposizioni di contratti collettivi, ma aggiunge anche che gli usi
prevalgono sulle leggi se favorevoli al prestatore di lavoro: in tal caso, quindi, si attua una deroga all'art.5
delle preleggi, il quale limita l'efficacia delle consuetudini al solo caso in cui esse siano richiamate da leggi o
regolamenti. Siamo, quindi, dinanzi ad un tipico esempio d'integrazione del contratto di lavoro.
Tuttavia il contenuto delle fonti del diritto del lavoro non proviene solo dalla volontà politica del
legislatore, ma anche dall'intervento dell'autonomia collettiva, ossia del potere di autoregolamento degli
interessi dei gruppi o delle collettività professionali, il quale molto spesso ha ispirato l'opera del legislatore.
Le tecniche della "recezione, consolidazione ed estensione" sono tipiche della legislazione del lavoro, che
molto spesso ha avuto una funzione ausiliaria della contrattazione collettiva (es. L.604/1966 sui
licenziamenti individuali, per i quali esisteva già una disciplina collettiva).
Altrettanto spesso, però, il rapporto tra legislazione e contrattazione collettiva ha seguito il modello della
"legislazione di sostegno", ossia è stato lo stesso potere legislativo, nel disciplinare una materia, a lasciare
ampio spazio all'operato dell'autonomia collettiva. La legislazione del lavoro, in tal caso, ha una funzione
promozionale rispetto alla contrattazione collettiva, e non solamente ausiliaria.
L'evoluzione storica del diritto del lavoro: la fase della legislazione sociale
Volendo tracciare un percorso storico del diritto del lavoro italiano, possiamo individuare 3 fasi, intrecciate
tra loro e spesso sovrapposte all'interno degli stessi periodi di tempo:
• la fase della legislazione sociale, periodo in cui le leggi in materia del lavoro si configurano come
norme eccezionali rispetto al diritto privato;
• la fase dell'incorporazione delle norme sul lavoro nel diritto privato comune e quindi nella
codificazione civile;
• la fase della costituzionalizzazione del diritto del lavoro.
Nella prima fase la "legislazione sociale" si presenta come risposta dell'ordinamento alla questione sociale
sorta in forza della rivoluzione industriale: i lavoratori, aggregati nelle fabbriche e divenuti operai,
incominciano ad avere degli interessi specifici di classe che andrebbero tutelati, mentre il codice civile del
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1865 non prevedeva una disciplina del contratto di lavoro, ma la sola "locazione di opere e servizi". Si
riteneva che dovesse essere l'autonomia privata a prevalere nel campo della regolamentazione del lavoro
industriale e che dovesse essere il mercato a fissare salari e condizioni di lavoro. Addirittura in Francia era
vietata la coalizione con fini di rivendicazione ed in Inghilterra venivano represse le libertà sindacali.
Verso la metà del 1800 si incomincia a capire, anche sotto la spinta del problema della questione sociale,
che bisogna intervenire, anzitutto non vietando l'operato dei sindacati, i quali iniziano a porre in essere la
propria funzione di resistenza economica e di promozione politica, e soprattutto salvaguardando tutta una
serie di diritti dei lavoratori, quali la differenziazione di trattamento dei fanciulli e delle donne o il diritto
all'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni: inizia, così, la legislazione sociale. Tuttavia vengono presi
in considerazione solo e solamente i diritti degli operai, perchè meritevoli, secondo il legislatore, di una
maggiore tutela dettata dalla loro particolare condizione. Si ha quindi una "legislazione di classe", che non
abbraccia la disciplina del contratto di lavoro, ma solo talune condizioni economico-sociali.
Al metodo legislativo si accompagnava anche quello contrattuale o dell'autotutela collettiva, grazie
all'operato dei sindacati, che portava allo sviluppo di contratti collettivi, seppur solo a livello locale:
rilevanti, quindi, divennero le consuetudini in materia di diritto del lavoro. Con la L. 295/1893, tra l'altro,
vennero istituiti i "Collegi dei probiviri" (in cui sedevano magistrati, rappresentanti degli imprenditori e
degli operai), i quali avrebbero dovuto dirimere le controversie tra lavoratori ed industriali, il che, in
assenza di una disciplina legislativa, sarebbe stato pressocchè impossibile. Per tal motivo i Collegi si
limitavano ad avere la funzione di conciliatori delle controversie, avviando però una formazione
extralegislativa del diritto del lavoro. La giurisprudenza è così diventata fonte materiale per la disciplina del
lavoro, introducendo norme che in seguito sarebbero state recepite anche dal legislatore.
La fase dell'incorporazione del diritto del lavoro nel diritto privato e nel codice del 1942
Con il passare del tempo si intuisce che la disciplina del diritto del lavoro non può più essere configurata
all'interno di norme eccezionali, ma deve essere accorpata al diritto privato. Al pari del diritto
commerciale, il diritto del lavoro diviene una disciplina fondamentale, che sebbene inserita nel codice del
1942, mantiene una propria autonomia rispetto al diritto civile ed a quello commerciale. I principi cardini
del diritto del lavoro, quali il principio della tutela del lavoratore come contraente debole che viene
rafforzato per quanto riguarda il trattamento minimo al quale egli ha diritto o il principio secondo cui il
lavoratore è subordinato all'interesse dell'impresa ed all'autorità dell'imprenditore, vengono rafforzati ed il
Codice del 1942 si configura come un punto d'arrivo importante rispetto al passato, punto al quale si
giunge soprattutto grazie alla "LEGGE SULL'IMPIEGO PRIVATO" avutasi grazie al D.Lgs. 112/1919, rafforzata
in seguito dalla più completa redazione del R.D.L. 1825/1924. Gli impiegati, infatti, per la mancanza di una
spinta sindacale simile a quella degli operai, non disponevano di contratti collettivi diffusi, sebbene
avessero dei giudici simili ai collegi dei probiviri. Le condizioni dei contratti di impiego privato erano quindi
rimesse all'autonomia individuale o ai cosiddetti "usi impiegatizi". Per tal motivo nacque l'esigenza di
tutelare i diritti degli impiegati grazie alla suddetta legge.
Altro fenomeno che portò all'incorporazione del diritto del lavoro nel Codice del 1942 fu sicuramente
quello della GIURIDIFICAZIONE DEL CONTRATTO COLLETTIVO, dapprima nella forma del "concordato di
tariffa" fondato sull'adesione volontaria di lavoratori ed imprenditori, e successivamente nella forma
pubblicistica della contrattazione collettiva corporativa, la quale fungeva da fonte del diritto grazie alla
competenza attribuita alla potestà normativa dei sindacati nell'ambito delle categorie professionali. Il
sistema corporativo fascista aveva messo fine alla libertà sindacale (L. 563/1926) ed aveva trasformato il
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contratto collettivo in un atto normativo eteronomo, proveniente dal sindacato unico fascista. La
corporazione riuniva rappresentanti sindacali delle due parti contrapposte (lavoratori ed imprenditori) e
stabiliva le norme della produzione, sotto il controllo del Ministero delle Corporazioni. Veniva, poi, affidato
alla Magistratura del Lavoro il compito di dirimere le controversie giuridiche ed economiche. I contratti
collettivi si configuravano come leggi speciali di categoria, mentre in altri Paesi si assisteva all'emanazione
dei primi codici del lavoro.
Il codice civile del 1942 non ha fatto altro che incorporare la legge sull'impiego privato ed i contratti
collettivi corporativi, sottolineando il "principio della prevalenza della norma più favorevole al lavoratore"
all'art. 2077 c.c. Il codice, tuttavia, ha incluso solo le norme generali sul lavoro, lasciando comunque a leggi
speciali l'intera disciplina.
La costituzionalizzazione del diritto del lavoro
Abbiamo visto come il legislatore del 1942 avesse inserito il diritto del lavoro tra le componenti
fondamentali del diritto privato, affiancandolo al diritto civile ed a quello commerciale. Va tenuto conto
anche del fatto che il diritto del lavoro contiene al suo interno anche elementi di diritto pubblico, e non
solo privato.
Con l'emanazione della Costituzione repubblicana il 1 gennaio del 1948, l'evoluzione storica del diritto del
lavoro subisce una notevole spinta. La carta costituzionale pone il diritto del lavoro in una posizione
preminente rispetto al diritto commerciale ed a quello civile, introducendo il concetto di dignità sociale del
cittadino, che poi abbraccerà tutti i rami del diritto. Viene ribadita la protezione del lavoratore come
soggetto-contraente più debole, ma ciò non rappresenta più, come nelle precedenti fasi, un elemento
eccezionale o speciale, una concessione del legislatore, ma un vero e proprio fondamento ideologico. E ciò
si manifesta nel fatto che il lavoro viene tutelato costituzionalmente non solo in linee generali, come
avviene nell'art. 35 per la tutela del lavoro da parte della Repubblica in tutte le sue forme o nell'art.3 per
l'uguaglianza formale e sostanziale, ma anche nella specifica garanzia di determinati istituti del diritto del
lavoro: basti pensare all'art. 36 (retribuzione proporzionata e sufficiente), all'art. 37 (parità retributiva tra i
sessi e tutela del minore lavoratore), all'art.38 (previdenza e sicurezza sociale), agli artt.39 e 40 (sindacato,
contratto collettivo e diritto di sciopero). Quindi la Costituzione oltre a perseguire il fine di tutela del
contraente-soggetto debole, tende a garantire anche quelli che vengono definiti come "diritti sociali". Va,
inoltre, sottolineata la rilevanza della costituzione economica, cioè l'insieme di norme e principi che
regolano l'assetto economico della società, contenuti all'interno della carta costituzionale.
Potremmo concludere dicendo che la Costituzione italiana rappresenta la manifestazione più significativa
dell'importanza del diritto del lavoro non più come disciplina speciale di classe, ma come punto cardine
dell'ordinamento, di cui la Costituzione stessa è il punto fondamentale.
Attuazione dei principi costituzionali per mezzo della legislazione speciale
L'ampio spazio dedicato alla materia del diritto del lavoro all'interno della Costituzione ha posto, però, non
pochi problemi per la discrepanza rispetto al Codice civile del 1942. Il ruolo delle disposizioni codicistiche è
stato del tutto ridimensionato, in quanto la carta costituzionale ha elevato ad elementi fondamentali molti
aspetti della disciplina del lavoro.
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Successivamente alla Costituzione, quindi, è possibile distinguere due fasi temporali circa l'evoluzione del
diritto del lavoro: all'interno della prima ci si è rivolti maggiormente verso un'INTEGRAZIONE DELLA
DISCIPLINA CODICISTICA, tramite un perfezionamento della tutela "minimale" del lavoratore visto come
soggetto contrattualmente debole e bisognoso di protezione (si pensi alla legge sul collocamento, sul
contratto di lavoro a termine ecc); in una seconda fase, invece, si ha una maggiore tutela del lavoratore,
considerato non più solo e solamente come un contraente debole nel rapporto di scambio, ma come un
soggetto inserito in una rapporto di produzione, nonché come appartenente ad una categoria socialmente
sottoprotetta. Emergono in tal senso temi come quello della "dignità sociale", della tutela contro la
discriminazione e della parità di trattamento.
Per garantire la dignità sociale di cui sopra vennero attuati diversi interventi, primo fra tutti quello avutosi
con la L.604/1966 inerente la disciplina del licenziamento individuale: si garantì una maggior tutela del
lavoratore tramite la limitazione dei poteri dell'imprenditore, attraverso strumenti quali l'introduzione del
giustificato motivo e la nullità dei licenziamenti intimati per rappresaglia sindacale.
Tramite, poi, lo strumento della "legislazione promozionale" si fece in modo di riequilibrare a favore dei
lavoratori non solo i rapporti di potere all'interno dell'azienda, ma anche all'interno della società civile: è
da questo presupposto che scaturì lo STATUTO DEI LAVORATORI, contenuto all'interno della L.300 del 20
maggio 1970, con la quale si garantì l'osservanza dei principi costituzionali nel rapporto tra lavoratore
dipendente e datore di lavoro, tutelando la dignità e la libertà del lavoratore, oltre a tutelare il diritto al
libero svolgimento dell'attività sindacale sul luogo di lavoro. Tutto ciò venne realizzato garantendo
l'osservanza di uno dei principi cardini costituzionali, ossia quello previsto all'interno dell'art.3 inerente il
diritto all'eguaglianza, facendo in modo di rimuovere "gli ostacoli di ordine economico e sociale che …
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione dei lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
Il diritto del lavoro della crisi e la legislazione contrattata
A partire dal 1975 si apre una nuova fase della legislazione del lavoro (si parla di "diritto del lavoro della
crisi"), caratterizzata, diversamente da ciò che era avvenuto in passato, dalla difesa e dalla crescita dei
livelli di occupazione, prevedendo l'estensione delle forme di impiego flessibile della forza-lavoro (si pensi
ai contratti di solidarietà o quelli di formazione) e la riduzione del tasso di inflazione tramite la cosiddetta
"politica dei redditi", volta al contenimento della spesa nel settore previdenziale ed al rallentamento dei
meccanismi di indicizzazione salariale. Oltre alla previsione di una deregolamentazione del mercato del
lavoro, la disciplina protettiva si trasforma da "rigida in flessibile", ampliando l'autonomia negoziale privata
e permettendo deroghe agli stessi principi imperativi della disciplina del lavoro, tramite contratti collettivi
o provvedimenti amministrativi delegati. La tutela dell'occupazione diventa maggiormente rilevante
rispetto alla tutela della posizione debole del lavoratore. Negli anni 80 la legislazione del lavoro si inquadra
in una logica di concertazione tra pubblici poteri e parti sociali (scambio politico o modello neocorporativo
nelle relazioni industriali): la legislazione in materia non è più ispirata dalla contrattazione collettiva, bensì
viene originata dalla partecipazione delle parti sociali: si ha la cosiddetta "LEGISLAZIONE CONTRATTATA".
La flessibilizzazione del mercato del lavoro, la riforma della PA e del lavoro pubblico e la riforma del
Titolo V della Costituzione
La politica del diritto del lavoro seguita nel corso degli anni 80 si è maggiormente sviluppata nel decennio
successivo, dando luogo a nuovi modelli di governo delle relazioni industriali (es. legge sullo sciopero nei
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servizi essenziali), ma anche ad una flessibilizzazione del mercato del lavoro (es. riforma del collocamento,
contratti di lavoro flessibili, lavoro degli immigranti), nonché ad uno snellimento burocratico del mercato
stesso (es. decentramento amministrativo).
Importanti interventi legislativi si sono avuti, inoltre, per rafforzare la tutela apprestata ai lavoratori da
parte di determinati istituti chiave, in forza della sottoprotezione sociale del lavoratore, per garantire una
maggiore protezione della persona-lavoratore e dei suoi diritti fondamentali: basti pensare agli interventi
riguardanti le pari opportunità, la tutela dei minori, la tutela del posto di lavoro.
Importante è stata anche, negli anni 90, la "riforma del pubblico impiego", prevista nell'ottica di
miglioramento nella distribuzione delle risorse statali e di apertura alle logiche della negoziazione privata
per quanto riguarda il lavoro pubblico: in sintesi la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici
è stata trasferita dall'ambito del diritto pubblico, denso di privilegi, a quello del diritto civile, più incline al
settore privato.
La partecipazione all'Unione Europea prima e l'adesione alla moneta unica in un secondo momento, hanno
posto all'Italia, come agli altri Paesi, notevoli vincoli inerenti il deficit di bilancio ed il debito pubblico, il che
ha reso necessario un netto intervento dello Stato nel controllo della spesa sociale. E' stato necessario,
inoltre, rivedere il sistema previdenziale, più volte modificato.
Infine con la L.3/2001 è stata attuata una modifica al Titolo V della parte II della Costituzione, il titolo
inerente i rapporti tra Stato ed enti locali: la riforma ha introdotto il federalismo legislativo, dal quale
scaturisce la previsione all'interno dell'art.117 della carta costituzionale, di settori di competenza esclusiva
dello Stato, quali l'ordinamento civile e la previdenza sociale, settori di competenza concorrente tra Stato e
regioni, quali l'istruzione e la formazione professionale, la tutela e la sicurezza sul lavoro, la previdenza
complementare ed integrativa (in cui lo Stato fissa i principi fondamentali e le regioni intervengono nella
regolamentazione della materia) e settori di competenza residua esclusiva delle regioni.
Gli sviluppi più recenti del diritto del lavoro: crisi del modello concertativo e politiche di flessibilizzazione
del mercato del lavoro
A partire dal 2001, con l'insediamento del nuovo governo, vi sono stati importanti novità che hanno
riguardato il diritto del lavoro: la legislatura si è aperta con la pubblicazione del "Libro bianco sul mercato
del lavoro in Italia", nel quale venivano indicate le strategie quinquennali del governo, il quale si sarebbe
concentrato per lo più sulla liberalizzazione del mercato del lavoro e sul superamento del precedente
sistema di concertazione con le parti sociali, incapace, data la continua richiesta di unanimismo sindacale,
di stare al passo con il mercato globalizzato. Il governo ha da subito attuato una normativa sul contratto di
lavoro a tempo determinato ed una in materia di tempo di lavoro, entrambe collegate all'attuazione di
direttive comunitarie.
Il governo, inoltre, con il D.Lgs. 276/2003 ha emanato una riforma del mercato del lavoro, la quale ha
previsto nuove figure contrattuali di lavoro atipico e ne ha ridisciplinato delle altre già esistenti, come il
part-time e l'apprendistato, il tutto sempre al fine di flessibilizzare maggiormente il mercato.
Una nuova legge costituzionale, infine, ha sviluppato ulteriormente il processo di devoluzione di
competenze legislative alle regioni.
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N.B. il libro parla di referendum popolare a seguito della legge costituzionale, senza conoscerne l'esito. Il
referendum si è svolto il 25 ed il 26 giugno del 2006: il popolo italiano ha respinto la riforma sulla
devolution, inerente il cambiamento di diversi aspetti nell'assetto istituzionale del Paese, il che avrebbe
comportato delle conseguenze anche in materia di diritto del lavoro.
Il diritto comunitario ed i rapporti col diritto interno
Nell'ultimo decennio ha assunto sempre maggiore importanza l'ordinamento comunitario, ossia l'insieme
di norme risultanti dai Trattati e da altre fonti pari ordinate agli stessi in forza dei Trattati europei.
In base ai Trattati le istituzioni europee possono emanare direttive e regolamenti: i regolamenti hanno
portata generale, sono obbligatori in tutti i propri elementi e sono da subito validi all'interno
dell'ordinamento dello Stato membro, facendo insorgere diritti da subito tutelabili dinanzi ai giudici
nazionali; le direttive, invece, sono rivolte agli Stati membri e vincolano i vari Paesi solo negli scopi e nei
principi, lasciando un margine di discrezionalità nella scelta delle forme e dei mezzi tramite i quali dare
applicazione alla direttiva stessa. Non producono, quindi, da subito effetti all'interno dell'ordinamento,
salvo il caso in cui la direttiva risulti particolarmente dettagliata e sia scaduto il termine per l'attuazione da
parte dello Stato membro: in tal caso la direttiva ha anch'essa efficacia diretta. Tale effetto, però, si ha solo
nei rapporti verticali, tra privato e amministrazione pubblica, ma non vige nei rapporti orizzontali, tra
privati, essendo destinatari dell'atto solo gli Stati membri e non i singoli.
Ovviamente nel momento in cui sorge un contrasto tra norme interne e norme comunitarie, il principio del
primato del diritto comunitario impone al giudice nazionale di disapplicare la norma interna e dar luogo a
quella comunitaria, come ribadito dalla Corte di Giustizia e dalla stessa Corte Costituzionale italiana, salvo il
caso in cui la norma comunitaria non entri in contrasto con i principi cardini dell'ordinamento.
L'evoluzione delle politiche sociali comunitarie
Possiamo intuire, dopo quanto abbiamo detto, che l'Unione Europea ha assunto un'importanza tale da
essere determinante anche in tema di mercato del lavoro e di rapporti di lavoro all'interno dei singoli Stati.
Le originarie previsione contemplate all'interno del TCE 1957 di Roma, sono state ampiamente modificate
dai vari trattati che si sono susseguiti nel tempo, a partire soprattutto dall'AUE 1986, passando per il TUE
del 1992 sino al Trattato di Lisbona del 2007. L'art.2 del Trattato prevede, oggi differentemente dal
passato, che tra gli obiettivi dell'Unione figuri anche un elevato livello di occupazione e di protezione
sociale, oltre al miglioramento del tenore di vita e delle condizioni lavorative ed alla promozione
dell'occupazione auspicate dall'art.136.
Anche l'autonomia collettiva di livello europeo ha acquisito sempre maggiore importanza, sino a
trasformare il "dialogo sociale" e la contrattazione collettiva di livello europeo in fonte formale in materia
sociale: molto spesso è previsto che la Commissione ascolti le parti sociali obbligatoriamente. Il Trattato
prevede, inoltre, che in molti settori di politica sociale il Consiglio debba osservare la procedura di
codecisione con il Parlamento e sentita la Commissione (es. parità tra uomini e donne,miglioramento
dell'ambiente lavorativo), mentre in altri settori (es. contributi finanziari per la promozione
dell'occupazione, sicurezza e protezione sociale dei lavoratori ecc) è previsto che il Consiglio adotti le
decisione all'unanimità, semplicemente consultando il Parlamento.
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Sempre per quanto concerne le fonti, inoltre, accanto a direttive e regolamenti, per meglio garantire il
principio di sussidiarietà (il quale impone che l'Unione debba intervenire nei settori di propria competenza
solo qualora possa garantire un intervento qualitativo migliore rispetto a quello degli Stati membri), sono
stati introdotti interventi meno autoritativi e maggiormente cooperativi: si tratta del cosiddetto "soft law",
il quale individua degli obiettivi in determinati settori su cui gli Stati devono ricercare degli elementi di
coordinamento.
Importanti sono poi due clausole inerenti l'applicazione dei diritto comunitario: la clausola del FAVOR, la
quale prevede che in caso di applicazione di una normativa comunitaria, uno Stato membro che intenda
applicare una disciplina diversa che attui un maggior livello di protezione, può liberamente farlo; e la
clausola di NON REGRESSO, la quale prevede che l'attuazione di una direttiva comunitaria non possa in
alcun modo costringere uno Stato membro all'attuazione, qualora lo stesso possegga già una disciplina che
garantisce un uguale o maggiore livello di protezione.
Va segnalato, infine, che inizialmente molte materie inerenti il diritto del lavoro non erano incluse nelle
competenze dell'Unione: retribuzioni, diritto di associazione, diritto di sciopero, di serrata ed altri. La Carta
comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989 avrebbe rappresentato un buon punto
nel processo di integrazione della materia a livello comunitario, se non ci fosse stata l'opposizione da parte
del Regno Unito, la quale ha escluso una diretta efficacia vincolante dell'atto. Il progetto di Costituzione
Europea avrebbe dovuto riprodurre fedelmente la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea,
proclamata nel 2000, ma il fallimento del processo costituzionale europeo ha portato al Trattato di Lisbona
del 2007, che come ben sappiamo ha riconosciuto il suddetto documento, ma non lo ha riprodotto
fedelmente, evitando così di attribuirgli una efficacia giuridica vincolante.
N.B. il libro non è al corrente del definitivo abbandono del progetto di costituzione, essendosi fermato
all'anno 2006.
La Corte costituzionale ed il suo contributo allo sviluppo del diritto del lavoro
Abbiamo precedentemente ribadito come, a partire dalla Costituzione del 1948, il diritto del lavoro ha
assunto un'importanza pari, se non addirittura superiore, al diritto commerciale ed a quello civile. Ciò è
stato possibile anche grazie alle innumerevoli pronunce della Corte Costituzionale, la quale non solo ha
molto spesso abrogato norme in materia di diritto del lavoro contrastanti con la Costituzione ed
appartenenti a leggi speciali o addirittura al Codice civile, ma ha spesso emanato sentenze interpretative di
rigetto, ritenendo la questione di illegittimità non fondata ma fornendo l'interpretazione più conforme alla
Costituzione di un enunciato legislativo, e sentenze interpretative di accoglimento, che ritengono
illegittimo un enunciato di una determinata norma, chiarendo come vada interpretata la parte restante.
Non sono mancate, poi, sentenze di accoglimento parziale (sostitutive o additive), le quali hanno molto
spesso chiarito cosa mancasse ad una norma per essere costituzionale o cosa andasse sostituito all'interno
della stessa.
La giurisprudenza costituzionale ha quindi garantito una maggiore evoluzione del diritto del lavoro, che ha
assunto negli ultimi anni un ruolo di funzione-guida nell'ambito delle discipline privatistiche.
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CAPITOLO II - IL LAVORO SUBORDINATO
SEZIONE A: LAVORO AUTONOMO E LAVORO SUBORDINATO: PROFILI STORICI E SISTEMATICI
La collocazione del rapporto di lavoro nel libro V del Codice civile dedicato all'impresa
Il rapporto di lavoro è disciplinato all'interno del codice civile negli artt.2094 ss, all'interno del Libro V Delle
Obbligazioni, titolo II Del Lavoro nell'impresa. Quindi già da una prima lettura possiamo renderci conto di
come il rapporto di lavoro non è disciplinato all'interno del Libro IV Delle obbligazioni (e dei contratti).
Questa previsione codicistica risponde all'esigenza del legislatore del 1942 di unificare il diritto civile e
quello commerciale, senza che vi sia una distinzione tra istituti a seconda che essi vengano posti in essere o
meno all'interno di un'attività commerciale.
Il codice, inoltre, tratta il rapporto di lavoro sotto il mero punto di vista economico, caratterizzato dallo
scambio tra la retribuzione ed una prestazione manuale o intellettuale. Nello stesso Libro V sono poi
disciplinati i rapporti di lavoro che si svolgono al di fuori dell'impresa (si pensi al lavoro domestico), il che ci
fa capire che il lavoro organizzato nell'impresa è quello socialmente più rilevante, il modello normativo
tipico, intorno al quale vi sono i cosiddetti rapporti di lavoro speciali.
Il codice civile del 1865: la locazione delle opere
Il rapporto di lavoro subordinato venne disciplinato per la prima volta all'interno del codice civile del 1942.
In precedenza né il codice di commercio del 1882, per la mancanza di connessione istituzionale tra impresa
e lavoro, né il codice civile del 1865 contenevano alcuna traccia del lavoro subordinato.
Il vecchio codice del 1865 conteneva solamente la "locazione delle opere", nella quale rientravano il lavoro
subordinato (LOCATIO OPERARUM) ed il lavoro autonomo (LOCATIO OPERIS). Nell'art.1570 vi era la
definizione di locazione di opere, intesa come <<contratto per cui una parte si obbliga a fare per l'altra una
cosa mediante la pattuita mercede>>. L'art.1627 precisava, poi, i tre tipi di locazione di opere e d'industria:
quella per cui le persone obbligano la propria opera all'altrui servizio (unico caso di lavoro subordinato);
quella inerente il trasporto di cose o persone e quella inerente opere ad appalto o cottimo. Non vi era
nemmeno una netta differenziazione tra lavoro subordinato e autonomo. L'unica norma riferibile al lavoro
subordinato era quella contemplata nell'art. 1628, inerente l'impossibilità di un contratto perpetuo, senza
limiti di tempo. Questo non significa che il lavoro subordinato non esistesse o fosse poco diffuso, ma ci fa
semplicemente render conto che gli artt.1627 e 1628 rappresentavano il punto di arrivo di una tradizione
millenaria, non a casa riprendevano il codice di Napoleone del 1804 ed addirittura la tradizione giuridica
romana.
Il rischio dell'utilità del lavoro e quello dell'impossibilità del lavoro
La distinzione tra locatiooperis e locatiooperarum deriva dalle fonti romane e ci è giunta grazie alla dottrina
pandettistica del 1800/1900: essa aveva rilievo solo per stabilire la ripartizione tra le parti contrattuali dei
rischi inerenti la prestazione lavorativa. Il primo di tali rischi poteva ricadere sull'utilità del lavoro
(commodumobligationis) e riguardava il risultato della prestazione, che per motivi di qualsivoglia genere
poteva differire dal risultato voluto. Il secondo rischio ineriva all'impossibilità del lavoro
(periculumobligationis), che per ragioni di vario genere, poteva non essere portato a termine. Facciamo
qualche esempio: si ha rischio di utilità nel momento in cui il prodotto finito di un lavoro viene colpito da
un fulmine, e per tal motivo differisce dal risultato voluto, ovviamente prima della consegna al soggetto
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che ne ha fatto richiesta; si ha rischio d'impossibilità del lavoro, nel momento in cui un'inondazione
impedisce di portare a termine un lavoro agricolo.
Spiegate le definizioni, dobbiamo specificare su chi ricadesse il rischio: nel caso di impossibilità del lavoro, il
rischio ricadeva sempre sul lavoratore, che veniva esonerato dall'obbligo di eseguire la prestazione, ma che
perdeva anche il diritto alla controprestazione. Nel caso, invece, di rischio d'utilità del lavoro si aveva una
differenziazione tra locatiooperis (lavoro autonomo) e locatiooperarum (lavoro subordinato): nel primo
caso, il rischio ricadeva sempre sul lavoratore autonomo, in quanto egli era obbligato a prestare l'opus
perfectum, ossia l'opera finita, a qualunque costo; nel secondo caso, invece, il rischio ricadeva
sull'imprenditore, in quanto al lavoratore poteva essere richiesto solo e solamente di prestare le proprie
energie di lavoro.
La distinzione tra attività e risultato del lavoro e l'emersione della subordinazione contrattuale
La differenza tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, quindi, derivava dal fatto che il primo prendesse
in considerazione l'attività del lavoro, mentre il secondo (quello autonomo) il risultato del lavoro in quanto
tale. Tale distinzione però non precisava quale fosse il comportamento che il soggetto interessato dovesse
porre in essere. Per questo in un secondo momento si è fatto ricorso al criterio della dipendenza nei
confronti del conduttore, utile per capire se il soggetto abbia o meno un rapporto subordinato con l'altra
parte contrattuale.
La subordinazione come sottoposizione del lavoratore alla direzione ed al controllo del datore di lavoro
nell'impresa industriale
La figura del contratto di lavoro per antonomasia, quindi, coincide con la nozione di lavoro salariato o
dipendente: già l'art.8 della L.215/1893 demandava alla competenza dei collegi probivirali la risoluzione
delle controversie inerenti il "contratto di lavoro", riferendosi al rapporto tra industriali ed operai.
L'operaio, infatti, mettendo la propria opera al servizio dell'imprenditore, è un lavoratore subordinato e
quindi si ha un rapporto di sottoposizione del debitore-locatore, ossia l'operaio, alla direzione o controllo
del creditore-conduttore: la subordinazione è quindi identificata con il comportamento dovuto dal
lavoratore in attuazione della propria obbligazione, il che non è sufficiente ad identificare il rapporto di
lavoro dipendente.
La legge sull'impiego privato del 1924 ed il Codice del 1942: collaborazione come connotato della
subordinazione
Abbiamo visto come la nozione di subordinazione sia mutata nel tempo: dalla tradizionale distinzione tra
attività e risultato si è passati all'individuazione di un rapporto di dipendenza tra operaio ed imprenditore.
Il legislatore del 1942, ma ancor prima quello del 1924 in occasione dell'emanazione della legge sul
contratto d'impiego privato (R.D.L. 1825/1924), prendono in considerazione un ulteriore aspetto del lavoro
subordinato: lo svolgimento di un'attività professionale e l'esercizio di mansioni di "collaborazione
fiduciaria", inerendo al rapporto di fiducia all'interno dell'azienda.
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SEZIONE B: CONTRATTO E RAPPORTO DI LAVORO. QUALIFICAZIONE DEL CONTRATTO ED
INDIVIDUAZIONE DELLA FATTISPECIE TIPICA
La distinzione tra il contratto di lavoro subordinato ed il contratto di lavoro autonomo (artt.2094 e 2222)
L'art. 2094 c.c. fornisce la definizione di lavoro subordinato, specificando che si tratta di un obbligo a
collaborare nell'impresa prestando il proprio lavoro manuale o intellettuale sotto la direzione
dell'imprenditore, ovviamente dietro retribuzione. L'art. 2222 c.c. fornisce,invece, la definizione di lavoro
autonomo, precisando che manca il vincolo di subordinazione e che esso si estrinseca nel compimento di
un'attività o di un'opera con il lavoro prevalentemente proprio in cambio di un corrispettivo. Notiamo,
però, che entrambe le attività di lavoro (subordinato o autonomo) consistono in un facere
economicamente utile all'altra parte contrattuale. La differenza sta appunto nella presenza o nella
mancanza del vincolo di subordinazione, tenendo però presente che nel caso di lavoro subordinato, il
lavoratore si impegna a fornire le proprie energie per collaborare con l'imprenditore nell'attività di
quest'ultimo e sarà retribuito in base al tempo dell'attività, mentre nel caso di lavoro autonomo la variabile
del tempo viene del tutto esclusa, dovendo il lavoratore autonomo fornire una prestazione consistente in
un servizio o un'opera verso il corrispettivo di un pagamento, al di là di quale che sia il tempo necessario
per il compimento di tale opera.
I contratti di lavoro autonomo; il contratto d'opera
Abbiamo visto come il lavoratore autonomo sia tenuto alla realizzazione dell'opus perfectum, ossia
dell'opera finita, così come precisato dalla definizione generica fornita dall'art.2222 c.c. Tuttavia oltre al
contratto d'opera in linee generali, per il lavoro autonomo possiamo distinguere 4 figure fondamentali,
aventi tutte una diversa causa (che ricordiamo essere il "perché esistenziale" del contratto, la sua funzione,
uno degli elementi fondamentali del contratto): l'appalto, la cui causa la possiamo ritrovare nello scambio
di un'opera o di un servizio eseguito con la sola organizzazione dell'appaltatore, verso il corrispettivo di un
prezzo; il trasporto, la cui funzione è quella appunto del trasferimento di cose o persone; il deposito
generico, la cui funzione è la custodia di beni altrui; il mandato, incluse le sue sottospecie, in cui la causa è
rinvenibile nella gestione di affari altrui tramite la conclusione di contratti.
Ovviamente in tutti i casi sopracitati manca il vincolo di subordinazione, ma anche nel caso di lavoro
autonomo può esistere una certa sottoposizione del lavoratore al committente: quest'ultimo potrebbe
avere interesse a porre un termine per la realizzazione dell'opera o addirittura a descrivere come l'opera
debba essere eseguita. In questo caso, però, sebbene il debitore debba attenersi a quanto stabilito dal
committente, che in caso contrario potrà recedere per giusta causa ed ottenere il risarcimento del danno,
sarà solo e solamente vincolato alla direzione del committente, ma in nessun modo potrà ritenersi alle
proprie dipendenze.
La causa del contratto: la collaborazione e la sua relazione di scambio con la retribuzione
La causa, è appena il caso di ricordarlo, è la funzione del contratto individuante l'interesse meritevole di
tutela, prevista a norma dell'art.1325 c.c. come elemento essenziale richiesto a pena di nullità. Nel
contratto di lavoro subordinato tale elemento è individuato nello scambio tra le obbligazioni del prestatore
di lavoro e del datore, dunque uno scambio tra la collaborazione da un lato e la retribuzione dall'altro. La
subordinazione compare come elemento essenziale del contratto affinchè si possa parlare di lavoro
subordinato. Ovviamente la collaborazione non sussiste solo per il debitore o lavoratore, il quale deve
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conformarsi a quelle che sono le esigenze produttive, ma anche per il creditore o datore, il quale deve
collaborare all'adempimento dell'obbligazione. Non dobbiamo infatti dimenticare che l'art. 1175 c.c.
individua, nell'ambito delle obbligazioni in generale, il dovere di correttezza, presente ovviamente anche
nell'obbligazione da lavoro.
La continuità o disponibilità nel tempo della prestazione di lavoro come assetto essenziale della
collaborazione
Possiamo facilmente intuire che la presenza del vincolo di collaborazione come anche di subordinazione
del lavoratore nei confronti del datore di lavoro deve essere duraturo nel tempo, ossia la prestazione di
lavoro nell'impresa deve essere continua o disponibile. Si tratta di una continuità o disponibilità funzionale
del prestatore, in senso ideale e non materiale: il lavoratore subordinato conserva un obbligo di
prestazione nel tempo nei confronti del datore di lavoro, obbligo che non cessa di esistere (e da qui
possiamo evincere che sia ideale e non materiale) anche nel caso in cui vi siano delle pause interruttive
dell'esecuzione (ferie, riposi).
La disponibilità della prestazione di lavoro comporta per il datore anche una responsabilità oggettiva in
caso di illecito comportante danni a terzi da parte del lavoratore: ovviamente si tratta di una responsabilità
oggettiva priva di colpa, ma ben manifesta il carattere della continua subordinazione e disponibilità del
lavoratore nei confronti del datore.
Collaborazione e subordinazione nella giurisprudenza
La giurisprudenza ha sempre individuato 4 requisiti fondamentali tipici del rapporto di lavoro subordinato:
l'onerosità, la collaborazione, la continuità e la subordinazione. Questi criteri, però, sono stati giudicati col
passare del tempo come insufficienti e ad essi si sono aggiunti i cosiddetti "indici empirici", ossia una serie
di criteri sul piano concreto che permettono di distinguere il lavoro subordinato da quello autonomo anche
nei casi-limite.
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, per la distinzione tra lavoro autonomo e subordinato
è fondamentale l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore
di lavoro, che si deve estrinsecare in un'attività di controllo, vigilanza e direzione tale da limitare
l'autonomia del lavoratore subordinato. Ovvio che elementi quali l'assenza del rischio, l'osservanza di un
onorario, la continuità della prestazione restino fondamentali per definire il lavoro subordinato.
La tesi della subordinazione come situazione di soggezione socio-economica: critica
Una parte della dottrina ha spesso sottolineato come la subordinazione sia un presupposto economico-
sociale del rapporto di lavoro subordinato, derivante dalla situazione di debolezza contrattuale del
lavoratore. Se il fatto che il lavoratore molto spesso si trovi in una situazione contrattuale debole è
sicuramente vero, al contrario non lo è sempre: la definizione potrebbe essere giusta per molti lavoratori
ed errata per tutti gli altri che si trovano in una condizione contrattualmente forte.
La posizione di inferiorità economica condiziona l'autonomia contrattuale del lavoratore, ma non sempre e
nella stessa misura, quindi non si può accettare una tale definizione di subordinazione, in quanto non
omogenea all'intera classe dei lavoratori.
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La collaborazione continuativa e coordinata all'impresa dei prestatori di lavoro autonomo come
connotato di atipicità rispetto al contratto d'opera (la parasubordinazione)
Possiamo concludere, in base a quanto precedentemente osservato, che la subordinazione si può
identificare nella collaborazione del lavoratore nell'impresa, che deve essere continuativa a livello
funzionale: non è quindi la sottoprotezione sociale ad identificare la subordinazione.
L'inserzione del lavoratore nell'organizzazione aziendale è però solo un indice presuntivo della sussistenza
della collaborazione, non un dato assoluto valevole sempre e comunque. Tale inserzione del prestatore
nell'organizzazione aziendale, infatti, sotto forma di collaborazione continuativa e coordinata si può avere
anche in caso di lavoratori autonomi: si parla in tal caso di contratto di lavoro coordinato MA NON
subordinato (c.d. parasubordinato), che molto si avvicina alla situazione del prestatore di lavoro
subordinato. Tuttavia la prestazione d'opera coordinata e continuativa non obbliga il lavoratore autonomo
ad essere a disposizione del committente, benché la propria attività sia legata al ciclo produttivo.
Inizialmente l'equiparazione tra il contratto di lavoro parasubordinato e quello di lavoro subordinato venne
attuata solo sotto il punto di vista processuale, fino a che non è stato prevista la figura della collaborazione
coordinata e continuativa "a progetto", a cui è stata dedicata una particolare disciplina che esamineremo
più avanti.
Attuale distinzione tra lavoro autonomo e subordinato: effetti diretti ed indiretti del rapporto di lavoro
subordinato
Ora possiamo intendere qual è la reale differenza tra locatiooperis (lavoro autonomo) e locatiooperarum
(lavoro subordinato): non si tratta più di distinguere due sottotipi della locazione (d'opera e delle opere),
ma bisogna differenziare due tipi di contratti con una regolamentazione diversa. Tra l'altro lo statuto
protettivo del lavoratore ha fatto in modo che all'identificazione del rapporto di lavoro subordinato,
coincidano degli effetti diretti ed indiretti che il lavoratore ha interesse a far valere.
Tra gli effetti diretti, quelli cioè inerenti il contenuto del rapporto e pertanto il rapporto contrattuale,
ritroviamo le condizioni della prestazione e delle remunerazione del lavoro (ferie, riposi, tfrecc).
Gli effetti indiretti, invece, riguardano i presupposti e le conseguenze della costituzione del rapporto, dalle
quali discendono una serie di situazioni di rilevanza previdenziale, amministrativa e talvolta anche penale.
Quindi identificare il tipo di rapporto di lavoro è utile per la tutela stessa del lavoratore.
Il rapporto di previdenza sociale. L'attuale sistema previdenziale
Effetto indiretto del rapporto di lavoro subordinato è sicuramente la costituzione obbligatoria del rapporto
di previdenza sociale, intercorrente tra i soggetti del rapporto di lavoro (prestatore e datore) ed enti
previdenziali.
La dottrina della fine del XIX secolo, sulla base del codice del 1865, aveva elaborato l'idea secondo cui il
rischio di infortuni sul lavoro dovesse ricadere sull'imprenditore, a titolo di responsabilità oggettiva priva di
colpa, al pari di ciò che avveniva per danni causati a terzi dai lavoratori di un'impresa.
In seguito, anche per la scarsa efficacia della responsabilità oggettiva di cui sopra, vennero previste le
assicurazioni obbligatorie: l'imprenditore pagava un premio (salario previdenziale) ad un istituto
assicurativo, esonerandosi così da qualsivoglia responsabilità civile. Lo stesso meccanismo venne attuato
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per meglio tutelare la situazione di sottoprotezione sociale del lavoratore, con contribuzioni minime a
carico dello stesso lavoratore.
Per quanto concerne i contributi, essi gravano tanto sul lavoratore quanto sul datore di lavoro, ma è su
quest'ultimo che ricade la responsabilità per il versamento dei contributi anche a carico del prestatore
(art.2115 c.c.).
Benché la previdenza sociale segua il modello assicurativo, quest'ultimo differisce dalle assicurazioni di
carattere privatistico per l'esistenza del PRINCIPIO DI AUTOMATICITA' DELLE PRESTAZIONI, in forza del
quale le prestazioni sono dovute dall'ente assicuratore anche qualora il datore di lavoro abbia omesso di
versare i contributi (salvo per le pensioni di vecchiaia, nel qual caso l'obbligazione contributiva può anche
prescriversi, ed il lavoratore che non riesca a raggiungere la pensione o comunque veda menomato il
proprio trattamento, potrà chiedere il risarcimento del danno al datore di lavoro).
Le assicurazioni sociali intervengono ogni volta in cui l'esercizio dell'attività lavorativa si sospende (per
malattia, maternità, invalidità, disoccupazione involontaria ecc), indennizzando il soggetto per
l'involontaria o temporanea inattività, o quando l'inattività abbia carattere definitivo (pensioni di vecchiaia
o di invalidità).
Pensioni di anzianità e vecchiaia. La tendenza espansiva del diritto del lavoro
Per quanto concerne le pensioni di anzianità e vecchiaia il sistema tuttora in vigore è quello "A
RIPARTIZIONE", in base al quale l'erogazione delle suddette dipende dalla forza lavoro attiva.
Con la L.238/1968 venne introdotta la PENSIONE RETRIBUTIVA, la cui misura era calcolata in base alla
percentuale di retribuzione corrisposta nell'ultimo periodo ti attività lavorativa (5 anni prima e 10 in
seguito). Con l'invecchiamento della popolazione italiana ed il numero sempre crescente di pensionati e
sempre inferiore di forza lavoro, la pensione retributiva rischiava di minare l'intero sistema a ripartizione:
in sintesi divenivano man mano insufficienti il numero di lavoratori per pagare le pensioni.
L'intera materia è stata rivista con la L.335/1995, che ha sostituito il sistema retributivo con quello
contributivo, molto simile al sistema con cui operano le assicurazioni private: il trattamento pensionistico
viene calcolato sull'ammontare dei contributi versati durante la vita lavorativa di un soggetto, salvo alcuni
correttivi che garantiscano una maggiore equità sociale.
Il sistema, comunque, rimane incentrato sulla solidarietà sociale: anche ai lavoratori autonomi è stata
garantita, col passare del tempo, la possibilità di accedere ad un trattamento previdenziale. Esistono
comunque notevoli differenze di tutela previdenziale: solo in caso di lavoro subordinato si ha la traslazione
del rischio sociale in capo al datore di lavoro e solo in tal caso il rapporto previdenziale si configura come
effetto indiretto del contratto di lavoro.
SEZIONE C: LAVORO GRATUITO E PRESTAZIONE DI LAVORO NEI RAPPORTI ASSOCIATIVI
Il lavoro gratuito ed il volontariato
Il contratto di lavoro è un contratto sinallagmatico, ossia a prestazioni corrispettive, in cui vi è un nesso di
reciprocità (il sinallagma appunto) è costituito da un vincolo di interindipendenza che unisce le due
obbligazioni, da un lato quella del datore di lavoro tenuto a corrispondere la retribuzione, dall'altro quella
del prestatore che deve esercitare la propria attività lavorativa.
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Si presume, quindi, che si tratti di un contratto tipicamente oneroso, essendo per sua natura a prestazioni
corrispettive. Tuttavia è possibile che una parte si obblighi ad esercitare la propria attività lavorativa
gratuitamente, il che non configura un contratto illecito, bensì un contratto lecito ma atipico, innominato,
ossia non formalmente disciplinato dal codice. Il lavoro gratuito, infatti, non può in alcun modo rientrare
nella disciplina degli artt.2094 e ss in quanto ha causa e natura diverse rispetto a quello ivi disciplinato.
Potrebbe anche sorgere il sospetto che si tratti di un contratto avente causa illecita, ossia un contratto in
frode alla legge a norma dell'art.1344 c.c., così come è anche possibile che si tratti di prestazioni lavorative
eseguite nell'adempimento di un obbligo morale o sociale (basti pensare a tutte quelle organizzazioni che a
scopo benefico o solidaristico).
Al lavoro gratuito è assimilabile anche il "volontariato", disciplinato con la L.266/1991, con la quale il
legislatore non solo è andato a disciplinare tutte quelle attività svolte senza il corrispettivo di una
prestazione, ma ha anche garantito maggiore tutela e convenienti agevolazioni fiscali a tutte quelle
organizzazioni di volontariato iscritte presso le Regioni. Ovviamente occorre che esse si avvalgano di
soggetti che volontariamente (senza mezzi di costrizione o di incentivazione) esercitano una determinata
attività, salvo che si tratti di casi in cui l'ingerenza nell'organizzazione di lavoratori subordinato o autonomi
sia necessaria al corretto svolgimento dell'attività oggetto dell'organizzazione (si pensi allo psicologo in una
comunità per tossico-dipendenti o per minori a rischio o per donne che hanno subito violenze).
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: il legislatore, in ragione dell’importanza acquisita dalle
organizzazione no profit, ha disciplina “l’impresa sociale” all’interno del D.Lgs.155/2006, in attuazione della
L.118/2005. Sono considerate imprese sociale le associazioni e fondazioni, i comitati, le società e le
cooperative che esercitino un’attività economica organizzata, in via stabile e principale, volta allo scambio
ed alla produzione di beni o servizi di UTILITA’ SOCIALE in settori individuati dalla legge o comunque volti
all’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati e disabili. Occorre l’assenza dello scopo di lucro, nonché
l’assenza di uno stato di soggezione nei confronti di imprese private e pubbliche. E’ previsto, a favore di tali
imprese, un regime derogatorio di responsabilità patrimoniale, nonché la possibilità di avvalersi di
volontari.
Il lavoro familiare e l'impresa familiare prevista dall'art.230 bis c.c.
Si può facilmente presume che il lavoro svolto all'interno dell'ambiente familiare da un coniuge, un figlio,
un fratello o sorella, ma anche da un soggetto stabilmente convivente o da un affine entro un certo grado,
sia da considerare come prestazione gratuita offerta nell'adempimento di un dovere familiare.
Tuttavia la riforma del diritto di famiglia avutasi con la L.151/1975 ha introdotto all'interno del codice
l'art.230 bis, il quale prevede che nel caso in cui il lavoro di un familiare sia prestato in modo continuativo
nell'ambito della famiglia o dell'impresa famiglia e nel caso in cui non vi sia alcun rapporto di lavoro
subordinato, il familiare che presta il proprio operato, non solo avrà diritto al mantenimento, ma altresì
potrà partecipare agli utili conseguiti anche grazie al suo lavoro, partecipare alle decisioni di maggior rilievo
ed avere diritto ad una liquidazione in denaro al termine dello svolgimento della propria attività o nel caso
di alienazione dell'impresa, oltre ad avere diritto di prelazione in quest'ultima ipotesi. E' stato in tal modo
tutelata la posizione di coloro che quotidianamente e per periodi protratti di tempo mettono la propria
attività lavorativa al servizio della famiglia.
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I rapporti associativi. La prestazione lavorativa nei contratti societari; l'associazione in partecipazione; gli
amministratori di società
Abbiamo ampiamente analizzato le differenze che esistono tra lavoro subordinato e lavoro autonomo,
accennando anche al lavoro parasubordinato offerto da lavoratori autonomi. Tuttavia queste distinzioni
non esauriscono in alcun modo le forme di organizzazione del lavoro, essendo possibile eseguire la propria
prestazione lavorativa utilizzando modelli contrattuali non solo innominati, ma anche tipici.
Partiamo dai contratti associativi: essi non sono riconducibili in alcun modo al tipico contratto di lavoro
subordinato previsto dall'art.2094 c.c. In tal caso, infatti, il socio esercita un'attività economica in comune
con altri soggetti, potendo scegliere (solo in alcuni modelli societari) di offrire a titolo di conferimento
(elemento essenziale per la partecipazione alla società) la propria prestazione d'opera (prestazione di un
servizio, si parla in tal caso di socio d'opera) o addirittura la propria prestazione lavorativa (laddove al
conferimento di beni si unisce il lavoro del soggetto a favore della società, si parla di socio lavoratore).
Il lavoratore, inoltre, può partecipare ai risultati di un'impresa anche nel caso in cui si tratti di
un'associazione in partecipazione (artt.2549-2554 c.c.), all'interno della quale l'associante gestisce
l'impresa, ma l'associato può partecipare agli utili ed alle perdite verso il corrispettivo della propria attività
lavorativa, senza però che sorga alcun vincolo di subordinazione.
Ultima ipotesi è quella dell'amministratore di società, che può essere tanto un socio quanto un terzo
estraneo alla società, in cui la posizione dello stesso può coesistere con un rapporto di lavoro subordinato
nei confronti della società amministrata.
Le cooperative di produzione e lavoro: il socio lavoratore. Le cooperative sociali. I rapporti associativi in
agricoltura
Tra i rapporti di lavoro associato, ritroviamo anche il lavoro dei soci delle cooperative di produzione e
lavoro: sappiamo bene che nelle società cooperative viene svolta un'attività economica organizzata in
comune per un fine mutualistico, consistente nella ricerca e ripartizione di occasioni di lavoro ed utili a
condizioni migliori di quelle del libero mercato, in cambio della prestazione di lavoro dei soci per
l'attuazione dello stesso scopo societario (art.2511 c.c.). La L.142/2001, inoltre, ha equiparato la posizione
del socio-lavoratore e quella del prestatore di lavoro subordinato: in particolare il socio lavoratore, oltre a
partecipare alla gestione ed al rischio d'impresa, garantisce anche la propria capacità professionale e
pertanto è titolare di due rapporti distinti nei confronti della cooperativa, uno associativo e l'altro di lavoro
(sia esso subordinato, autonomo o di qualsivoglia altra forma). Al socio lavoratore, pertanto, compete un
trattamento economico complessivo (analogo al principio della retribuzione sufficiente in tema di lavoro
subordinato) a carico del capitale sociale proporzionato alla qualità ed alla quantità del lavoro offerto,
analogo a quello garantito, per lavori dello stesso genere, dalla contrattazione collettiva nazionale del
settore o della categoria affine, o comunque incline ai compensi medi in uso per prestazioni simili. Inoltre il
socio lavoratore subordinato gode dei diritti sindacali di cui al titolo III della L.300/1970 (statuto dei
lavoratori).
Molto simili alle cooperative di lavoro, sono le cooperative sociali, istituite con la L.381/1991, le quali,
sebbene non sia necessario che escludano lo scopo mutualistico, devono perseguire l'interesse generale
alla promozione ed integrazione sociale di cittadini, gestendo servizi socio-sanitari, educativi, nonché
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svolgendo attività economiche mirate all'inserimento nel mondo del lavoro di persone svantaggiate
(tossicodipendenti, alcolisti,invalidiecc).
N.B. Tralascio i rapporti associativi in agricoltura, in quanto lo strumento dell'affitto di fondi rustici, come
precisa il libro, ha quasi definitivamente sostituito i rapporti agrari quali la colonia parziaria, la soccida e la
mezzadria.
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CAPITOLO TERZO - AUTONOMIA PRIVATA E RAPPORTO DI LAVORO. LA FORMAZIONE DEL
CONTRATTO DI LAVORO
SEZIONE A: AUTONOMIA PRIVATA E RAPPORTO DI LAVORO
Contratto e rapporto di lavoro
All'interno della disciplina codicistica viene analizzato per lo più il rapporto di lavoro, rispetto al contratto
che lo disciplina: vengono prese in considerazione le due obbligazioni del rapporto, una a carico del datore,
l'altra del prestatore.
Per quanto concerne, invece, il contenuto del contratto, per esso non si rimanda completamente
all'autonomia negoziale, quanto più che altro ad un'autonomia delle parti stretta nella morsa dei limiti
imposti dalla legge e dall'autonomia collettiva cui lo stesso legislatore fa spesso riferimento: la scelta della
retribuzione, per esempio, può essere fatta dal datore di lavoro, che però deve assicurare un trattamento
economico minimo fissato dai contratti collettivi. L'accordo tra le parti, tuttavia, è sempre necessario ed
indispensabile.
La fonte contrattuale del rapporto di lavoro
Il discorso suddetto potrebbe indurci a pensare che il rapporto di lavoro sia quasi acontrattuale, in quanto
se riprendiamo l'art.1321 c.c. e la definizione di contratto ivi contenuta, possiamo notare come
l'autonomia negoziale delle parti sia notevolmente imbrigliata da norme inderogabili imposte dal
legislatore. L'autonomia contrattuale, quindi, non viene del tutto soppressa, ma solo compressa da tali
disposizioni, in funzione della protezione che la legge attribuisce al soggetto contrattualmente più debole,
il lavoratore. Il datore di lavoro, infatti, potrà ben dimostrare che anche all'interno del contratto lavorativo
vi è un'autonomia ampia, ma potrà farlo solo e solamente a favore del lavoratore.
L'inderogabilità del regolamento contrattuale imposto dalla legge
Tutti i contratti di lavoro subordinato che violano le norme imperative imposte dalla legge, subiscono la
nullità parziale di cui all'art. 1419 comma 2 c.c., ossia sono nulli nella parte in cui differiscono dagli obblighi
di legge ed essendo il regolamento contrattuale di per sé inderogabile, vi è l'inserzione automatica, a
norma dell'art.1339 c.c., delle clausole legali. Si tratta, è giusto il caso di ripeterlo, di un'inderogabilità in
peius, ossia di una limitazione unilaterale all'autonomia contrattuale nei confronti del datore di lavoro, in
quanto ogni patto maggiormente favorevole al prestatore, sarà valido ed efficace.
Va ricordata, infine, la Convenzione di Roma del 1980 avente ad oggetto la legge applicabile alle
obbligazioni naturali, la quale si occupa all'art.6 del contratto di lavoro, specificando che qualora le parti
nulla abbiano stabilito a riguardo, il contratto sarà regolato dalla legge del Paese in cui il lavoratore svolge
principalmente la propria attività lavorativa o dalla legge del Paese in cui il lavoratore è stato assunto o
dalla legge del Paese stabilita dalle parti, sempre che quest'ultima non offra garanzie inferiori rispetto alle
suddette.
Autonomia privata e tipo contrattuale
Anche la scelta del tipo contrattuale viene influenzata dai limiti imposti dalla legge e dall'autonomia
collettiva alla volontà negoziale delle parti. L'art. 1362 c.c., inerente l'intenzione dei contraenti, ben
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specifica come nell'interpretazione del contratto bisogna indagare quale sia stata la vera intenzione delle
parti, andando oltre il significato letterale delle parole e soprattutto si deve valutare (comma 2) il
comportamento delle parti successivo alla stipulazione del contratto. Per quanto concerne il contratto di
lavoro, ciò che abbiamo detto è più che mai vero: la volontà cartolare espressa al momento del
perfezionamento del contratto ha uno scarso valore rispetto al contenuto effettivo del rapporto. Il
momento attuativo del rapporto prevale, quindi, sul momento dichiarativo e non solo ai fini
dell'interpretazione della volontà effettiva delle parti, ma anche per ciò che concerne la scelta del tipo
legale di rapporto di lavoro: diversamente da ciò che avviene negli altri contratti, dove le parti possono
optare per la scelta di contratti tipici o atipici, nel caso del contratto di lavoro subordinato le parti
dovranno obbligatoriamente associare la subordinazione con il tipo legale di contratto. Si parla in tal caso
d'indisponibilità del tipo legale, non potendo le parti esulare dalla scelta di tale tipo qualora vogliano porre
in essere quello specifico rapporto di lavoro subordinato.
Il principio del favor
L'art.1374 c.c. rubricato come "integrazione del contratto" stabilisce che lo stesso obblighi le parti non solo
a quanto in esso stabilito, ma anche a tutte le conseguenze derivanti dalla legge, o, in mancanza, dagli usi e
dall'equità. Ciò significa che il contratto di lavoro non solo obbliga le parti ad attenersi all'accordo, ma
anche ai precetti inderogabili imposti dalla legge e dall'autonomia collettiva, combinando in tal maniera
l'inderogabilità del regolamento contrattuale con il principio del FAVOR, ossia del trattamento più
favorevole per il lavoratore.
Tale principio, tuttavia, ha subito un notevole ridimensionamento in alcune ipotesi normative previste a
favore della flessibilità nel mondo del lavoro, in forza delle esigenze dell'occupazione e dell'impresa.
L'art.2126 c.c. e l'inefficacia dell'invalidità del contratto
Il contratto di lavoro, al pari di tutti i contratti, è invalido nel momento in cui viola l'art.1418 c.c. inerente le
cause di nullità o l'art.1419 c.c. inerente la nullità parziale. Solitamente l'invalidità che affligge il contratto
di lavoro è sancita con la nullità dello stesso. Gli articoli di cui sopra, però, vanno letti in concerto con
l'art.2126 c.c. inerente le prestazioni di fatto con violazione di legge: <<la nullità o l'annullamento del
contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione>>. Ciò vuol
dire che l'aver dato esecuzione ad una prestazione lavorativa da parte di un soggetto nei confronti di un
altro non costituisce di per sé il rapporto lavorativo, in quanto la nullità retroagisce al momento della
conclusione del contratto, ma tuttavia da luogo agli effetti del rapporto posto in essere in attuazione del
contratto (ricordiamo invalido) che funge da fonte del rapporto obbligatorio.
Al contrario, invece, non risulta assimilabile all'art.2126 c.c. il caso di prestazione di fatto di natura
extracontrattuale, in cui la prestazione viene eseguita dal lavoratore "invito domino" (senza il consenso) o
addirittura "prohibente domino" (contro la volontà) della controparte: è il caso di un soggetto che ha
occupato un fondo rustico esercitandoci un'attività lavorativa; in tal caso non esiste alcun contratto,
neanche invalido, e colui che ha eseguito la prestazione di fatto potrà al massimo, tra l'altro non sempre,
esperire l'azione d'ingiustificato arricchimento.
Abbiamo, quindi, visto come vengano mantenuti in vita gli effetti del contratto in valido in caso di
prestazione di fatto in violazione della legge. Tuttavia è lo stesso art.2126 comma 1 c.c. a precisare che
vengono meno anche gli effetti del contratto in valido nel caso in cui la nullità derivi dall'illiceità della causa
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o dell'oggetto. In tutti gli altri casi di nullità, invece, si può parlare d'INEFFICACIA DELL'INVALIDITA', in
quanto dal rapporto posto in essere sorgono le varie obbligazioni. Tra l'altro il comma 2 dell'art.2126 c.c.
precisa che se la nullità deriva dalla violazione di norme protettive del lavoratore, comunque quest'ultimo
avrà diritto alla retribuzione.
E' appena il caso di ricordare che, nonostante quello che abbiamo detto, vige il principio dell'irripetibilità
delle prestazioni eseguite.
SEZIONE B: LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO
La capacità del prestatore di lavoro
Prima di trattare l'argomento in questione è opportuno ricordare due definizione importanti: quella di
capacità giuridica e quella di capacità di agire.
La capacità giuridica è l'idoneità di un soggetto di essere titolare di diritti e doveri, la quale si acquista al
momento della nascita. Per capacità di agire, invece, si intende l'idoneità di un soggetto a porre in essere
autonomamente atti negoziali vincolanti con effetti nella propria sfera giuridica e patrimoniale.
L'art.2 c.c., dopo aver fissato il raggiungimento della maggiore età al compimento del 18° anno, al
raggiungimento del quale si acquista la capacità d'agire, precisa (al comma 2) che sono salve le leggi
speciali in materia di capacità a prestare il proprio lavoro. Per poter esercitare un'attività lavorativa occorre
aver concluso il periodo d'istruzione scolastica obbligatoria e comunque aver compiuto, almeno, il
quindicesimo anno di età, salvo il caso in cui la Direzione Provinciale del Lavoro abbia autorizzato il minore
infra quindicenne, col consenso di chi esercita la potestà, ad essere impiegato in attività culturali,
artistiche, sportive, pubblicitarie e di spettacolo, fatto salvo l'obbligo scolastico.
Tra l'altro il minore ultra quindicenne può stipulare autonomamente il proprio contratto di lavoro, senza
che sia necessaria la partecipazione di chi esercita la potestà parentale.
La spersonalizzazione dell'imprenditore ed il principio della continuità dell'impresa. L'infungibilità della
prestazione di lavoro
Abbiamo visto che per poter appartenere alla categoria dei lavoratori occorrono dei requisiti particolari
che differiscono da quelli generali per l’acquisizione della capacità d’agire. Per i datori di lavoro, al
contrario, i requisiti rimangono quelli della capacità giuridica e d’agire previsti dal codice.
Una notevole distinzione, invece, viene fatta tra il datore di lavoro – imprenditore e gli altri datori: al primo
è dedicata un’intera disciplina assestante, non già per il fatto che egli svolge professionalmente un’attività
economica organizzata, bensì nell’interesse dei lavoratori alle dipendenze di medio-grandi imprese.
Importante tema da affrontare è quello della “spersonalizzazione dell’imprenditore”, sia sotto il punto di
vista della formazione/conclusione del contratto, sia sotto il profilo della successione nel medesimo.
L’art.1330 c.c., rubricato come morte o incapacità dell’imprenditore, prevede che tanto la proposta quanto
l’accettazione restino valide anche in caso morte o incapacità sopravvenute prima della conclusione del
contratto. Per quanto concerne, inoltre, la successione nei contratti si attua il principio di continuità
dell’impresa contenuto all’interno dell’art.2112 comma 1 c.c., il quale prevede che in caso di trasferimento
di azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario, con i medesimi diritti precedenti al
trasferimento. Quindi con il concetto di spersonalizzazione, si intende che nel rapporto di lavoro la figura
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della persona dell’imprenditore è del tutto irrilevante. Al contrario il contratto lavorativo, per quanto
riguarda la parte del lavoratore, resta dominato dall’intuituspersonae, ossia dalla considerazione della
persona del prestatore, in quanto egli non può, ne mortis causa né tramite atto inter vivos, trasferire il
proprio debito nei confronti del datore ad un terzo, in quanto la prestazione da lui dovuta è infungibile,
ossia può essere compiuta solo e solamente dal soggetto che ha originariamente concluso il contratto di
lavoro. Non è una questione di fiducia nel lavoratore ad imporre un tal ragionamento, quanto più che altro
la necessità dell’identificazione del contraente obbligato.
Il procedimento di formazione del contratto. Il problema della forma. La rilevanza del consenso non
tanto sul contenuto quanto sulla genesi del contratto
Il procedimento di formazione del contratto di lavoro è identico a quello previsto per tutti i contratti:
occorre l’accordo tra le parti e la formazione del contratto si attua nel momento in cui vi è l’incontro tra la
proposta e l’accettazione. Per quanto concerne il momento del perfezionamento, il contratto di lavoro si
configura come un contratto di adesione particolare: se per la generalità dei contratti di adesione è
previsto che la parte contrattualmente forte determini le condizione e la controparte le accetti, per il
contratto di lavoro le condizioni generali sono predisposte bilateralmente dall’autonomia collettiva, alla
quale l’autonomia individuale può sostituirsi solo per includere condizioni maggiormente favorevoli al
lavoratore.
Per quanto concerne, inoltre, la forma ed il consenso, va sottolineato quanto questi due elementi siano
imbrigliati nei limiti imposti dalla legge per la tutela del lavoratore. Vige pur sempre il principio della libertà
di forma, ma spesso è il legislatore a prevedere che per uno svariato numero di contratti di lavoro sia
prevista la forma scritta ad substantiam (sotto pena di nullità qualora non sia rispettata): è il caso dei
contratti che appongono un termine o comunque elementi particolari al contratto, e quindi stiamo
parlando dei contratti a progetto, dei contratti d’inserimento, di formazione. Per altri contratti è prevista la
forma scritta ad probationem (quindi ai fini processuali e di prova dell’atto), ed è il caso dei contratti di
lavoro intermittente, di lavoro ripartito, a tempo parziale.
Inoltre il datore di lavoro ha l’obbligo, entro trenta giorni dall’assunzione, di comunicare al prestatore di
lavoro le principali condizioni applicabili al contratto (identità delle parti, luogo di lavoro, qualifica del
lavoratore ecc), all’interno della lettera d’assunzione o in altro documento separato.
Altro aspetto da sottolineare è inerente alla manifestazione del consenso: il momento attuativo
dell’esecuzione del contratto è sicuramente di gran lunga più rilevante rispetto al momento genetico della
formazione, non solo perché serve a qualificare (come detto nel precedente capitolo) il lavoro come
autonomo o subordinato, ma soprattutto perché funge da comportamento concludente che manifesta e
da prova dell’esistenza del contratto e della volontà reale delle parti.
Il patto di prova
Elemento accidentale del contratto di lavoro è il patto di prova, per cui l’art.2096 c.c. prevede la forma
scritta: esso serve a stabilire e dimostrare che il lavoratore stia esercitando la propria prestazione
lavorativa, ma sia in prova per un determinato periodo. In tale periodo egli potrà valutare la convenienza
del posto di lavoro, mentre il datore potrà valutare le capacità fisiche e professionali del prestatore. Data la
possibilità di recedere senza obbligo di preavviso da parte del datore, la legge ha previsto che il periodo
massimo di prova debba essere di sei mesi. Qualora, tra l’altro, non venga rispettata la forma scritta del
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patto di prova, l’assunzione risulterà come definitiva. Il periodo di prova è, comunque, a tutti gli effetti un
periodo lavorativo, pertanto deve essere non solo retribuito, ma al termine dello stesso il lavoratore ha
diritto al trattamento di fine rapporto ed alle ferie retribuite.
Vizi della volontà nella conclusione del contratto. Attitudine professionale del lavoratore
La disciplina dei contratti di lavoro, per quel che concerne i vizi della volontà che comportano
l’annullamento del contratto a norma dell’art.1427 c.c., è identica alla disciplina generale dei contratti.
Possiamo facilmente intuire che le varie compressioni dell’autonomia contrattuale imposte dal legislatore,
nonché l’esecuzione di un periodo di prova, riducono di molto le possibilità che il contratto di lavoro sia
viziato: se vi è stato un errore-vizio (anche detto errore motivo) che ha fatto in modo che la volontà
negoziale non si formasse liberamente, entrambe le parti potranno rendersene conto da subito; se vi è
stato dolo, ossia un artificio o raggiro che abbia viziato la volontà contrattuale, il soggetto leso potrà subito
rimediare, accorgendosi dell’inganno subito nello stesso periodo di prova.
L’unico vizio della volontà meritevole di attenzione è probabilmente rappresentato dall’errore sulle qualità
personali dell’altra parte contrattuale, quando queste siano determinanti per la conclusione del contratto
ed essenziali per la sua esecuzione: se per esempio ad un prestatore sono richieste determinate capacità
professionali, ovviamente l’assenza delle stesse ha un peso specifico notevole ed incide notevolmente sulla
volontà di proseguire nell’esecuzione del contratto. Ovviamente per tutti quei contratti lavorativi c.d. di
serie, dove le abilità personali e professionali del prestatore non contano, questo tipo di vizio non avrà
ragione di esistere.
Il divieto d’indagine sui fatti non rilevanti ai fini dell’attitudine professionale
L’art.8 della L.300/1970 (statuto dei lavoratori) prevede il divieto, posto a carico del datore di lavoro, di
svolgere, autonomamente o per mezzo di terzi, indagini personali sul prestatore da assumere o addirittura
già assunto. Implicitamente questo articolo prevede che il datore possa indagare sulle capacità
professionali del soggetto, ma deve farlo senza violare la riservatezza del lavoratore, garantita dallo
statuto. La violazione di tale divieto è sanzionata penalmente ed al pari di essa è sanzionata l’indagine del
datore rivolta all’accertamento della sieropositività all’infezione da HIV del lavoratore, sebbene la Corte
costituzionale abbia precisato che si può procedere in tal senso qualora possa essere messa a rischio la
salute di terzi.
Il trattamento dei dati personali
Il diritto alla riservatezza è stato definitivamente assicurato dalla L. 675/1996, poi definitivamente
integrata dal D.Lgs. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali). Oltre all’istituzione di
un’autorità indipendente, il Garante per la protezione dei dati personali, è stato previsto un soggetto abbia
diritto ad avere conoscenza su chi detiene i propri dati personali, su come li ha ottenuti e per quali scopi li
utilizza. Il consenso del soggetto non è sempre richiesto, ma al contrario è obbligatorio per i dati “sensibili”,
ossia per quelli idonei a rivelare informazioni strettamente personali (opinioni politiche, origini etniche,
orientamento sessuale ecc). La normativa in materia, inoltre, ha ribadito l’importanza degli artt. 4 e 8 della
L. 300/1970 (statuto dei lavoratori), ribadendo il divieto posto a carico del datore di lavoro di ricercare
informazioni personali non attinenti all’attiva lavorativa svolta dal prestatore. Quindi per quanto concerne
il lavoratore, questa nuova normativa va semplicemente a confermare quanto precedentemente imposto
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dallo statuto dei lavoratori, costituendo, invece, per le persone fisiche e giuridiche in generale la
consacrazione di un diritto.
La simulazione del contratto di lavoro
Abbiamo già detto che in caso di errore inteso come vizio di volontà, via sia una divergenza tra l’intenzione
di una parte e la volontà manifestata. Talune volte, invece, può accadere che tale divergenza tra volontà e
dichiarazione sia voluta dalle parti, siamo quindi dinanzi ad una “simulazione” in forza dell’art.1414 c.c. che
la disciplina. Le parti, in tal caso, possono celare dietro un determinato accordo, o un accordo totalmente
diverso (il c.d. contratto dissimulato) oppure addirittura nessun contratto. Ovviamente vanno rispettate le
previsioni codicistiche inerenti la forma del contratto simulato, la quale deve rispettare la stessa forma del
contratto voluto, oppure inerenti la liceità della causa del contratto dissimulato. Non si deve, inoltre,
concretizzare un contratto in frode alla legge: la simulazione non deve essere posta in essere per celare un
fine illecito. Qualora un contratto simulato sia posto in essere per non rispettare tutte le norme imperative
e le garanzie apposte dalla legge a favore dei lavoratori subordinati, sia il contratto simulato che quello
dissimulato saranno invalidi (es. viene posto in essere un contratto di lavoro autonomo, il quale cela il un
contratto di lavoro subordinato per aggirare le garanzie offerte da quest’ultimo) e la disciplina sarà
sostituita automaticamente con quella prevista dalla legge. Se invece ad essere illecita è proprio la causa
del contratto dissimulato, a quel punto il contratto sarà nullo definitivamente.
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CAPITOLO QUARTO – LA PRESTAZIONE DI LAVORO
SEZIONE A: POTERE DIRETTIVO E POTERE DISCIPLINARE
Il contenuto della subordinazione: la diligenza
Abbiamo visto in precedenza come la collaborazione intesa come disponibilità funzionale della prestazione
lavorativa all’organizzazione dell’impresa, sia uno dei connotati fondamentali del rapporto di lavoro
subordinato, al di là dello scambio tra la prestazione lavorativa e la retribuzione. Abbiamo poi parlato di
subordinazione, specificando che il lavoratore subordinato differisce da quello autonomo per un rapporto
di dipendenza nel tempo dal proprio datore di lavoro. La subordinazione, in realtà, consiste nella diligenza
che il lavoratore subordinato deve adoperare nell’esercizio della propria attività: l’art.1176 c.c., in tema di
obbligazioni in generale, obbliga il debitore ad usare la diligenza del buon padre di famiglia nel
soddisfacimento dell’interesse creditorio (comma 1), oltre a specificare che in caso di attività professionali,
la diligenza va valutata in base alla natura della prestazione (comma 2). L’art.2104 riprende questa
valutazione della diligenza, precisando nel suo primo comma che il prestatore di lavoro deve adoperare la
diligenza richiesta dalla natura della prestazione, dall’interesse dell’impresa e della produzione nazionale.
Con il venire meno del sistema corporativo fascista, l’ultimo presupposto dell’interesse della produzione
nazionale è venuto meno. Per natura della prestazione, tra l’altro, non si deve intendere solo la
differenziazione tra le mansioni, in quanto è ovvio che ad un dirigente sarà richiesta una diversa diligenza
rispetto a quella del suo sottoposto, ed è altrettanto normale che anche in riferimento ad una stessa
mansione, andrà prestata una maggiore attenzione nell’esecuzione di una prestazione rispetto ad un’altra
(è l’esempio del libro del muratore che oggi adopera un materiale di scarsa qualità e domani un materiale
pregiato, dovendo mostrare nel secondo caso una maggiore diligenza). Per tutti questi motivi la diligenza a
seconda della natura della prestazione dovuta si riferisce ai caratteri intrinsechi della prestazione, a quanto
attenzione il lavoratore dovrà prestare nell’esecuzione della propria attività.
Per quel che concerne, poi, il rapporto tra la diligenza richiesta al prestatore di lavoro e l’interesse
dell’impresa, non si può ingenuamente credere che ci si riferisca all’interesse dell’impresa come istituzione.
Sicuramente il riferimento è attribuibile all’interesse dell’imprenditore, anche se non come generico
interesse del creditore ad ottenere l’esatto adempimento, bensì come interesse dell’imprenditore ad
ottenere la collaborazione di cui sopra attraverso, anche, la propria organizzazione del lavoro.
L’obbedienza ed il potere direttivo del datore di lavoro
Il secondo comma dell’art.2104 c.c. inerente la diligenza del prestatore di lavoro prevede che il prestatore
di lavoro debba osservare le disposizioni impartite dal datore di lavoro e dai collaboratori dello stesso dai
quali il prestatore gerarchicamente dipende. L’obbedienza alle direttive impartite dall’imprenditore è, al
pari della diligenza, un modo di essere della subordinazione e fa da contraltare al potere direttivo del
datore di lavoro.
L’obbligo di fedeltà. Il divieto di concorrenza e le invenzioni del lavoratore. Il divieto di utilizzazione o
divulgazione dei segreti aziendali
Obbligo fondamentale a carico del prestatore di lavoro è sicuramente quello di prestare subordinatamente
la propria collaborazione nell’impresa, ma l’art.2105 c.c. identifica un obbligo accessorio rispetto
all’interesse primario del datore di lavoro a ricevere la prestazione: si tratta dell’obbligo di fedeltà. Esso, in
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corrispondenza con il dovere di buona fede generale nell’adempimento dell’obbligazione, rientra tra gli
“obblighi di protezione” a tutela del creditore ed impedisce al prestatore di lavoro, durante il periodo
lavorativo contrattualmente previsto, di svolgere attività in concorrenza con l’impresa e di divulgare o
quanto meno utilizzare notizie inerenti organizzazione e metodi dell’impresa stessa. Tale divieto di
concorrenza nulla ha a che vedere con la concorrenza sleale di cui parla l’art.2598 c.c., in quanto in
quest’ultima ipotesi non vi è alcun legale tra danneggiante e danneggiato e la concorrenza slealmente
posta in essere si verifica solo nei casi previsti dall’articolo. Inoltre anche tra il prestatore di lavoro ed il
datore può esistere un patto, che deve rispettare la forma scritta ad substantiam, che vieti al lavoratore di
entrare in concorrenza con l’impresa anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro per un periodo di
tempo pari a tre anni, cinque per i dirigenti (qualsivoglia vincolo superiore sarà sostituito da quelli previsti
dalla legge e deve essere precisato un corrispettivo per il lavoratore).
Non può in alcun modo costituire concorrenza l’attività inventiva del prestatore di lavoro. Il Codice della
proprietà industriale emanato con D.Lgs. 30/2005 ha previsto che qualora l’invenzione venga fatta dal
lavoratore nell’esecuzione del contratto (invenzione di servizio), i diritti derivanti dall’invenzione spettano
al datore, salvo il diritto di autore del lavoratore. Qualora, invece, si tratti di un’invenzione aziendale, ossia
fatta nell’adempimento del rapporto di lavoro, ma non oggetto del contratto di lavoro stesso, i diritti
derivanti dall’invenzione spettano al datore di lavoro che, qualora si veda riconosciuto il brevetto, dovrà al
lavoratore un equo premio. In ultima ipotesi può trattarsi di un’invenzione occasionale, fatta dal lavoratore
indipendentemente dal rapporto di lavoro, ma rientrante nel campo di attività dell’impresa: in tal caso i
diritti spettano al lavoratore, ma il datore ha diritto d’opzione per l’uso o per l’acquisto del brevetto (che
deve esercitare entro 3 mesi).
L’obbligo di fedeltà, in ultima analisi, può essere inteso anche in senso stretto, inerendo al divieto di
divulgare o utilizzare i “segreti aziendali”.
P.S. tutto ciò è stato analizzato durante lo studio di Diritto Commerciale 1
Il potere disciplinare
L’imprenditore esprime la propria autorità gerarchica non solo tramite il potere direttivo, di cui abbiamo
già parlato, ma anche tramite il potere disciplinare, nei casi in cui egli debba reagire all’inottemperanza ai
doveri contrattuali del prestatore, manifestatisi tramite l’inosservanza degli obblighi di diligenza,
obbedienza e fedeltà. L’imprenditore in tal caso, tenendo conto della gravità dell’infrazione, può infliggere
sanzioni quali il rimprovero verbale oppure scritto, la multa, la sospensione dal lavoro e della retribuzione e
nel peggiore dei casi il licenziamento.
Limiti sostanziali e procedurali al potere disciplinare
Fino ad ora abbiamo analizzato quelli che sono i poteri dell’imprenditore nei confronti del prestatore di
lavoro sotto il profilo codicistico. Lo Statuto dei lavoratori (L. 300/1970) contiene al suo interno tutta una
serie di norme che vanno ad integrare quanto abbiamo detto fino ad ora, tutelando in maniera più
dettagliata la libertà e la dignità del lavoratore ed introducendo notevoli limiti al potere direttivo e
disciplinare del datore di lavoro.
Partiamo dai limiti imposti al potere disciplinare, previsti dall’art.7 dello statuto. In un luogo accessibile a
tutti all’interno dell’impresa, deve essere esposto un “regolamento disciplinare” contenente le possibili
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infrazioni, le sanzioni e le procedure di contestazione (si osserva il principio “nulla poena sine lege”). Inoltre
prima di impartire una sanzione disciplinare a carico del lavoratore, il datore di lavoro deve contestare
l’addebito dell’infrazione e permettere al lavoratore di difendersi. Inoltre per quanto concerne le infrazioni,
solo il licenziamento può comportare un mutamento definitivo del rapporto; sono perciò escluse
retrocessioni o trasferimenti punitivi (anche se i trasferimenti per incompatibilità ambientale sono talvolta
previsti). La sospensione disciplinare dal lavoro e della retribuzione non può durare, inoltre, per più di 10
giorni (può essere disposta anche la sospensione cautelare per eventuali accertamenti sull’infrazione, la
quale può essere con o senza retribuzione). La multa irrogabile dall’impresa può essere pari all’ammontare
di 4 ore della retribuzione base. Tutti i provvedimenti (escluso il rimprovero verbale) possono essere
applicati solo dopo 5 giorni dalla contestazione scritta di cui sopra. Entro i 20 giorni successivi il lavoratore
può impugnare davanti ad un collegio di conciliazione ed arbitrato il provvedimento disciplinare.
Particolare attenzione merita anche la recidiva, che si ha nel momento in cui un soggetto attua
nuovamente lo stesso comportamento proibito che aveva attuato precedentemente e per cui era stato
sanzionato a livello disciplinare: non si può tener conto di una sanzione disciplinare una volta trascorsi 2
anni dalla sua applicazione (se ne può, però, tener conto se occorre un’analisi completa del soggetto e
della sua carriera lavorativa nell’impresa).
Limiti al potere di controllo: controlli per la salvaguardia del patrimonio aziendale.
Lo Statuto dei lavoratori, come abbiamo già accennato, ha poi limitato il potere di controllo e vigilanza del
datore di lavoro. L’art.2 dello Statuto dispone che l’imprenditore possa avvalersi di guardie giurate solo per
salvaguardare il patrimonio aziendale, ma esse non possono in alcun modo interferire con l’attività
lavorativa dei prestatori, neanche qualora questi ultimi pongano in essere azioni penalmente rilevanti. Le
guardie giurate, durante l’orario di lavoro, non possono avere accesso neanche ai locali in cui si svolge
l’attività lavorativa, almeno che non sia presente patrimonio aziendale da salvaguardare. Volendo
l’imprenditore può avvalersi di propri dipendenti (non guardie giurate) per vigilare sull’operato degli altri
lavoratori.
Per meglio tutelare il patrimonio aziendale possono essere previste visite di controllo all’uscita dei luoghi di
lavoro e con sistemi di selezione imparziali (art.6 dello statuto), tra l’altro solo qualora concordati con le
rappresentanze sindacali. Qualora non vi sia accordo con esse, il datore di lavoro potrà rivolgersi alla
Direzione provinciale del Lavoro, che provvederà alle visite suddette (la decisione è impugnabile entro 30
giorni dinanzi al Ministro del lavoro).
I controlli sull’attività lavorativa
I controlli, oltre che essere previsti per salvaguardare il patrimonio aziendale, possono riguardare anche
l’attività lavorativa. L’art.3 dello statuto prevede che vengano resi noti i nominativi e le mansioni del
personale di vigilanza sull’attività lavorativa (sono esclusi dirigenti e capi, che per loro definizione
esercitano un potere di controllo). L’art. 4 regola, poi, i controlli a distanza: essi non possono avere l’unico
fine di sorvegliare i lavoratori. Tuttavia, qualora siano installati per garantire la sicurezza degli stessi,
possono risultare idonei anche al controllo dell’operato dei lavoratori (quindi la norma si aggira
facilmente). Analogamente a quanto previsto per le visite personali, l’installazione di tali apparecchiature
deve essere concordata con i sindacati o decisa dalla Direzione provinciale del lavoro (l’atto è impugnabile
dinanzi al Ministro del lavoro). Le nuove tecnologie, prima fra tutte il personal computer, permettono oggi
al lavoratore di ricevere le direttive lavorative tramite i terminali informatici: ciò fa si che anche il controllo
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possa essere attuato tramite i terminali in questione. Purtroppo lo statuto non copre (e quindi non vieta)
tale tipo di controllo.
Gli accertamenti sanitari
L’art.5 dello Statuto disciplina poi gli accertamenti sanitari volti a controllare la giustificazione dell’assenza
del lavoratore in caso di infermità. Precedentemente a tale statuto il medico per il controllo dello stato di
salute del lavoratore veniva inviato dal datore di lavoro. Il suddetto articolo ha fatto in modo che ad inviare
il medico per l’accertamento sia l’istituto previdenziale tenuto all’erogazione della prestazione indennitaria
in luogo della prestazione lavorativa. Il medico curante deve inviare, telematicamente, un certificato che
rechi la propria firma e che attesti che il paziente (il lavoratore) non sia in grado temporaneamente di
esercitare l’attività lavorativa, indicando l’inizio e la presunta fine della malattia. Il lavoratore, entro due
giorni, dovrà consegnare il medesimo certificato al datore di lavoro. Quest’ultimo potrà, qualora lo ritenga
opportuno, sollecitare l’ente previdenziale ad inviare un medico convenzionato alla residenza del
lavoratore, per accertarne lo stato di salute: tale visita dovrà avvenire nello stesso giorno della richiesta da
parte del datore di lavoro, in orari stabiliti, definiti come “reperibilità”. Il lavoratore assente al momento
della visita senza giustificato motivo, perderà il diritto all’intero trattamento economico per i primi dieci
giorni ed avrà diritto alla metà dello stesso per i successivi (questa seconda parte è stata dichiarata
incostituzionale dalla Corte per la mancanza della previsione di una seconda visita). Sempre l’art.5 prevede
che l’idoneità fisica di un lavoratore possa essere accertata anche da strutture pubbliche.
Tra l’altro la L. 626/1994 obbliga il datore di lavoro ad avvalersi di un medico (professionista privato,
dipendente del datore, medico convenzionato) per l’accertamento periodico dell’idoneità dei lavoratori o
per il soccorso immediato di particolari categorie di lavoratori che esercitano un’attività che li pone in
pericolo. Ovviamente contro l’accertamento d’inidoneità parziale da parte del medico suddetto sarà
ammesso ricorso all’organo di vigilanza territorialmente competente.
La procedimentalizzazione dei poteri del datore di lavoro
Lo Statuto del lavoratore del 1970 ha, quindi, sancito indirettamente, la subordinazione solo tecnico-
funzionale del lavoratore e non della persona del lavoratore nei confronti del datore. Si è proceduto,
quindi, a procedimentalizzare il potere imprenditoriale, che appare oggi, diversamente dal passato, come
intrappolato nell’obbligo, imposto dallo Statuto e da leggi successive, di seguire determinate regole e di
osservare determinati vincoli nell’esercizio dei poteri di controllo e direttivo , solo accessori rispetto alla
pretesa imprenditoriale a ricevere la prestazione dovuta.
SEZIONE B: MANSIONI E QUALIFICA
Le mansioni e la qualifica
La prestazione lavorativa dedotta in un contratto di lavoro ha obbligatoriamente ad oggetto lo svolgimento
di un’attività, di un facere. Ovviamente tale attività deve essere individuata, al fine di rispettare uno dei
concreti requisiti del contratto, la determinazione o determinabilità dell’oggetto (art.1346 c.c.). Per
stabilire di quale attività lavorativa si tratti, si suole individuare le MANSIONI, ossia l’insieme di compiti che
il lavoratore è chiamato a svolgere e per i quali è stato assunto, e che identificano la posizione di lavoro del
soggetto. Le mansioni possono essere individuate anche senza considerare l’attività complessiva del
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lavoratore, ma indicando semplicemente la QUALIFICA, ossia l’insieme di compiti specifici che il lavoratore
è in grado di svolgere, l’insieme delle sue competenze.
Tutto ciò rientra in uno schema di divisione del lavoro, utile e necessario dopo l’avvento della rivoluzione
industriale.
La differenziazione retributiva in relazione alle mansioni
Quindi un’intera organizzazione produttiva è scomponibile in una molteplicità di mansioni che possono
essere ripartite tra i vari lavoratori di un ciclo produttivo. Ogni mansione, tuttavia, è diversa da un’altra e
per tal motivo può avere un rilievo superiore o inferiore, determinato e classificato in base al trattamento
economico riservato a quella determinata mansione. Un’attività specializzata che nel mercato pochi
soggetti conoscono e sono in grado di esercitare, non può in alcun modo essere posta sullo stesso livello di
un’attività che chiunque potrebbe svolgere, in quanto i diversi compiti (mansioni) che un soggetto è
chiamato a svolgere possono richiedere diverse abilità, una diversa preparazione e quant’altro.
L’inquadramento del prestatore di lavoro. Le categorie contrattuali
L’art. 96 comma 2 delle disposizioni attuative del Codice civile prevede che l’imprenditore abbia l’obbligo
di far conoscere al lavoratore assunto la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate. Ciò risulta
utile per l’inquadramento individuale del lavoratore nel sistema di classificazione professionale, individuato
dall’art. 2095 c.c. per quanto concerne le CATEGORIE (operai, impiegati, quadri e dirigenti) e dai contratti
collettivi per quanto concerne le qualifiche.
Facciamo quindi una distinzione tra qualifica e categoria, specificando che ognuno di questi termini ha una
doppia accezione.
Per “qualifica” si intende SIA l’attività che un soggetto svolge nell’organizzazione produttiva, SIA l’insieme
di mansioni che individuano una figura professionale (il tornitore piuttosto che il carpentiere).
Per “categoria” si intende il livello di appartenenza all’interno dell’organizzazione produttiva di un
determinato soggetto. Qui possiamo attuare una distinzione tra categorie legali, individuate dall’art. 2095
c.c., il quale attua la differenza tra operai, impiegati, quadri e dirigenti, e categorie contrattuali, in passato
viste dalla contrattazione collettiva come delle sottocategorie di quelle legali, nate per poter attuare delle
differenziazioni tra gradi intermedi (per esempio tramite l’individuazione della figura del funzionario, a
metà strada tra il quadro ed il dirigente).
Categorie legali
La classificazione dei lavoratori è dettata, quindi, da un sistema misto in cui si incontrano le categorie
contrattuali e quelle legali. Queste ultime sono individuate dal legislatore e collegano la classificazione
professionale alla struttura gerarchica nell’impresa, specificando inoltre trattamenti diversi. Lo stesso
art.2095 c.c. sancisce, al secondo comma, che siano leggi speciali e contratti collettivi a definire i criteri di
appartenenza alle varie categorie. Inoltre la stessa contrattazione collettiva ha individuato, col passare del
tempo, una serie di categorie contrattuali dapprima inesistenti (si pensi alla figura dei funzionari). Il
sistema di classificazione dei lavoratori, tra l’altro, si è col tempo modificato notevolmente, prediligendo
una distinzione tra categorie contrattuali, piuttosto che tra categorie legali.
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Distinzione tra operai ed impiegati
La distinzione tra operai ed impiegati, individuata inizialmente grazie alla legge sull’impiego privato (R.D.L.
1825/1924), è mutata notevolmente col passare del tempo e con l’evolversi della società. L’art. 1 della
suddetta legge riconduceva la differenza tra gli uni e gli altri alla distinzione tra lavoro manuale e lavoro
intellettuale. L’impiegato, infatti, era visto come colui che svolge per l’imprenditore (esistendo uno stato di
subordinazione) un’attività professionale di collaborazione, di concetto o di ordine, esclusa l’attività di
manodopera. Con l’evolversi della società, però, questa distinzione è divenuta fragile: si è assistito al
proliferare di operai che operano a livello intellettuale ed alla meccanicizzazione del lavoro degli impiegati.
La dottrina, quindi, ha individuato una nuova distinzione tra le due categorie, precisando che l’operaio è
colui che collabora NELL’impresa, svolgendo un’attività produttiva, mentre l’impiegato è colui che
collabora ALL’impresa, ossia organizzando (e non svolgendo) l’attività produttiva. Ma anche tale
distinzione, considerando che in diversi settori una stessa attività potrebbe essere presa in considerazione
come operaia o impiegatizia, è venuta in un certo senso a mancare. In realtà, la vera distinzione, già
dall’origine della stessa, aveva ad oggetto il ceto sociale di appartenenza: impiegato era colui che sapeva
scrivere, leggere, contare, differente dall’operaio che poteva prestare solo un lavoro manuale, essendo
analfabeta. Il nuovo sistema di classificazione professionale, infatti, ha superato tale distinzione, non più
fondata sulla separazione tra operai ed impiegati (inquadramento unico).
L’inquadramento contrattuale
L’inquadramento unico, più volte citato, non ha solo attuato un’eliminazione nominale della distinzione tra
operai ed impiegati, ma ha creato una nuova scala di categorie contrattuali, in cui al medesimo livello
possono trovarsi tanto impiegati quanto operai. Non si attua più, in sostanza, un modello gerarchico
articolato su categorie legali, bensì una classificazione in 7/8 categorie che comportano livelli retributivi
diversi, l’appartenenza ai quali è determinata dalle definizioni delle caratteristiche dell’attività prestata
(declaratorie) e dell’elencazione di profili professionali specifici (esemplificazioni).
I dirigenti
Inizialmente i dirigenti venivano considerati solo e solamente come degli impiegati con funzione direttive,
impiegati superiori. La nascita della categoria risale all’ordinamento corporativo, che attribuì a tale
categoria un’organizzazione separata da quella degli impiegati.
La contrattazione collettiva, cui viene demandato il compito di stabilire i criteri di appartenenza a tale
categoria, ritiene dirigenti tutti quei lavoratori che ricoprono un ruolo caratterizzato da un elevato grado di
professionalità, autonomia e potere decisionale volto ad esplicare funzioni di coordinamento e gestione
utili alla realizzazione degli obiettivi dell’impresa. La contrattazione collettiva subordina l’attribuzione della
qualifica dirigenziale alla nomina da parte dell’imprenditore, al contrario della giurisprudenza, che non
ritiene necessaria tale nomina qualora il compito effettivamente svolto delinei un rapporto fiduciario con
l’imprenditore.
Vi sono poi casi in cui il dirigente non ha alcun potere direttivo, essendogli riconosciuta l’appartenenza a
tale categoria in forza soltanto di una particolare preparazione e/o esperienza, che riconduce ad un
trattamento economico più vantaggioso. Il dirigente, comunque, non può essere oggi considerato,
contrariamente da ciò che si credeva in passato, come l’alter ego dell’imprenditore, se non ai massimi
livelli dell’organizzazione produttiva (top management).
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I quadri intermedi
L’art.2095 c.c. inerente l’individuazione delle categorie legali di organizzazione produttiva attuava una
distinzione, nel suo testo originario, tra dirigenti amministrativi e tecnici, impiegati ed operai. Negli anni 70,
però, emersero figure professionali con un ruolo ben distinto rispetto agli impiegati, ma che non godevano
di rilevanza dirigenziale: una figura, quindi, a metà strada tra quella di impiegato e quella di dirigente, che
meritava di essere retribuita diversamente rispetto agli uni e agli altri.
La L.190/1985 novellò l’art.2095 c.c. introducendo la figura dei “quadri intermedi”, fornendone una
definizione ma demandando alla contrattazione collettiva nazionale (inquadramento collettivo) la
determinazione dei requisiti di appartenenza alla nuova categoria, alla quale sarebbero poi state applicate
le norme di tutela del lavoratore inerenti gli impiegati. Tuttavia ai quadri viene attribuita la rilevanza
inerente le funzioni e non le mansioni, propria dei dirigenti: essi sono lavoratori che svolgono funzioni a
carattere continuativo di rilevante importanza per lo sviluppo e l’attuazione degli obiettivi dell’impresa.
Il mutamento di mansioni. Il divieto di adibizione a mansioni inferiori. Il danno da dequalificazione.
Abbiamo visto come per “mansioni” s’intenda l’insieme dei compiti che il lavoratore è chiamato a svolgere,
oggetto dell’obbligazione contrattuale del rapporto di lavoro. Il contratto di lavoro, tuttavia, è l’unico
contratto in cui l’oggetto possa essere modificato unilateralmente da una parte, il datore di lavoro, al
contrario della generalità di contratti in cui occorre il mutuo consenso delle parti. Ciò è previsto
dall’art.2103 c.c., che nel suo testo originario prevedeva non solo la possibilità del datore di modificare le
mansioni, nell’interesse dell’impresa, per cui il lavoratore era stato assunto, ma anche l’eventualità che
fossero le parti di comune accordo a stabilire una modifica delle mansioni.
L’art.2103 c.c. è stato novellato dall’art. 13 dello Statuto dei lavoratori del 1970, il quale non solo ha
eliminato la differenza tra mutamento unilaterale e mutamento consensuale, ma, pur riconoscendo il
iusvariandi dell’imprenditore, ha stabilito che sia possibile una variazione di mansioni solo orizzontale o
verticale verso l’alto, essendo impossibile una dequalificazione del la lavoratore. La mobilità verso il basso
può essere attuata solo nei casi tassativamente previsti, ossia in caso di esigenze straordinarie
sopravvenute, nel caso di lavoratrici madri in quanto si è voluto assicurare l’esercizio di mansioni non
pregiudizievoli alla salute delle stesse o dei feti, nel caso di sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle
mansioni, o nel caso in cui un accordo sindacale, in seguito ad una procedura di licenziamento, prevede il
riassorbimento di lavoratori esuberanti. Tranne che in quest’ultimo caso, si mantiene sempre la
retribuzione precedente alla variazione verso il basso della mansione. L’art.2103 c.c. precisa che “ogni
patto contrario è nullo”. In caso di dequalificazione ingiustificata, tra l’altro, il lavoratore avrà diritto al
risarcimento del danno tanto patrimoniale, quanto non patrimoniale.
Mobilità orizzontale
Si ha mobilità orizzontale nel momento in cui il lavoratore viene assegnato a mansioni equivalenti alle
ultime effettivamente svolte. L’equivalenza di cui si parla, tuttavia, non inerisce al trattamento economico,
fatto salvo già dallo stesso art.2103 c.c. sia nel vecchio che nel nuovo testo. Pertanto per equivalenza si
deve intendere un’affinità di professionalità tra le vecchie e le nuove mansioni.
Il nuovo sistema di inquadramento per aree professionali, tuttavia, prevede che in una stessa area (o
categoria) vi siano posizioni organizzative (o livelli) differentemente retribuiti, motivo per cui l’attribuzione
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di una nuova mansione che prevede un trattamento economico superiore, dovrà portare il lavoratore ad
ottenere il trattamento ad egli più favorevole.
Mobilità verso l’alto
Si ha mobilità verso l’alto nel momento in cui il lavoratore viene assegnato a mansioni superiori: in tal caso
egli avrà diritto al trattamento economico corrispondente e l’assegnazione diverrà definitiva dopo un
periodo fissato dai contratti collettivi e non superiore a tre mesi, salvo il caso in cui si stia sostituendo
momentaneamente un lavoratore assente che ha diritto alla conservazione del posto (in caso di malattia,
infortunio, gravidanza e puerperio, servizio militare). Se in questo caso il periodo massimo è di tre mesi per
l’assegnazione definitiva ad una mansione superiore, nel caso in cui si tratti di mansioni di quadro
intermedio o dirigente, il periodo MINIMO di svolgimento è di tre mesi, ma può essere stabilito un periodo
superiore dai contratti collettivi.
Quindi al lavoratore viene riconosciuto il DIRITTO ALLA PROMOZIONE, ossia il riconoscimento della
qualifica superiore per le mansioni effettivamente svolte, che non va confuso con la “promozione
automatica” prevista nei contratti collettivi, la quale riconosce che dopo un periodo di permanenza nella
mansioni di livello più basso, il lavoratore abbia diritto ad acquisire una qualifica di livello superiore.
Trasferimento del lavoratore
L’art.2103 c.c. disciplina, inoltre, il trasferimento del lavoratore ad un’altra unità produttiva. Esso può
essere disposto dal datore di lavoro in via definitiva nel caso in cui vi siano “comprovate ragioni tecniche o
organizzative, che l’imprenditore non ha solo l’onere di provare, ma anche di comunicare al lavoratore in
caso di richiesta di quest’ultimo (non contestualmente al provvedimento di trasferimento). Qualora non
siano rispettati i presupposti legali, il lavoratore potrà far accertare in giudizio la nullità del provvedimento
e rifiutarsi di ottemperare allo stesso.
E’ anche futile precisare che il trasferimento non può aver ad oggetto motivi discriminatori di qualsivoglia
tipo. Non è altrettanto scontato dire che in caso di lavoratore che assiste con continuità un parente o affine
entro il terzo grado portare di handicap o in caso di amministratori locali eletti ad esercitare funzioni
pubbliche, occorra il consenso degli interessati al trasferimento.
SEZIONE C: LA TUTELA DELLA PERSONA DEL LAVORATORE NELL’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO
L’inserimento del prestatore nell’ambiente di lavoro
Quando si parla di condizioni di lavoro non ci si riferisce solo alle mansioni del lavoratore, ma anche
all’organizzazione e all’ambiente lavorativo, che riguardano da vicino il datore di lavoro nell’esercizio del
proprio potere direttivo. Col tempo sono state fissate norme tese a tutelare le condizioni ambientali
(igiene, sicurezza) e la durata della prestazione lavorativa (orario di lavoro) per limitare il potere
dell’imprenditore e tutelare i lavoratori. La persona fisica e la propria personalità morale devono essere
tutelate anche nell’ambiente di lavoro, ossia all’interno dell’organizzazione produttiva e per tal motivo è
stato introdotto un sistema di assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali,
riguardanti quelle particolari categorie lavorative esposte ad un notevole margine di rischio nell’esercizio
della propria attività. Il principio del “rischio professionale” tutela il datore di lavoro, esonerandolo da
qualsivoglia responsabilità in caso di eventi dannosi assicurati: sarà l’ente assicuratore ad indennizzare il
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lavoratore per la sospensione momentanea dell’attività lavorativo o addirittura ad assicurargli un rendita
qualora la sospensione non abbia carattere temporaneo.
Ad assicurare, poi, un certo grado di prevenzione sul posto di lavoro vi sono l’art.2087 c.c., l’art.9 dello
Statuto dei lavoratori e il D.Lgs. 626/1994.
Disciplina dell’art. 2087. Danno biologico e mobbing. L’art. 9 dello Statuto
L’art.2087 c.c. prevede, a carico del datore di lavoro, l’obbligo di protezione della persona fisica e delle
personalità morale del lavoratore. Il datore di lavoro, quindi, deve attuare tutte le misure idonee affinché il
lavoratore, nell’eseguire la prestazione lavorativa, non incorra in alcun pericolo per la propria integrità
psicofisica. Quindi l’imprenditore deve svolgere una vera e propria attività di prevenzione, oggetto
dell’obbligo sancito dal suddetto articolo. Nella generalità dei contratti il dovere di rispetto della persona è
implicito all’obbligo di buona fede (art.1375 c.c.) e si configura come un obbligo secondario rispetto
all’obbligo primario di prestazione. Nel caso del rapporto di lavoro, invece, tale obbligo non risulta
secondario/accessorio, bensì primario al pari dell’obbligo di prestazione.
Va sottolineato come l’art.2087 per lungo tempo sia stato evocato solo in caso di risarcimento danni,
quando il fatto si era già concretizzato, non ottemperando al proprio ruolo di prevenzione. La Corte
Costituzionale ha, inoltre, sottolineato l’importanza del cosiddetto “danno biologico”: si tratta di una
menomazione dell’integrità psico-fisica del lavoratore che va oltre la riduzione della capacità lavorativa e
per cui inizialmente il datore di lavoro veniva ritenuto responsabile, non essendo coperto da alcuna
assicurazione a riguardo. La normativa recente ha previsto che anche il danno biologico sia coperto da
assicurazione qualora sia derivante da infortunio o malattia professionale: il datore di lavoro, quindi, non
ha alcuna responsabilità civile a riguardo, responsabilità che permane al di fuori dei casi coperti
dall’assicurazione.
La giurisprudenza ha poi riconosciuto il cosiddetto “danno esistenziale”, prodotto dal comportamento
illegittimo del datore di lavoro e causante danni alla vita di relazione del lavoratore.
Di recente si è parlato molto spesso di “mobbing”, condizione che si attua nel momento in cui il soggetto
(non solo il lavoratore) viene posto in una situazione di inferiorità tramite il comportamento posto in
essere da altri soggetti (datore o colleghi): in tal caso non si ha alcun danno psico-fisico, ma un danno
morale che lede la dignità del soggetto. Le pronunce giudiziali in tema di lavoro sono ancora scarse, ma la
giurisprudenza sembra aver ben recepito la situazione di disagio in cui si può trovare il lavoratore.
Attenzione merita anche l’art.9 dello Statuto dei lavoratori, il quale attribuisce ai lavoratori, tramite le
proprie rappresentanze, di poter controllare l’applicazione delle norme anti-infortunistiche e di poter
suggerire miglioramenti e nuove misure per salvaguardare le condizioni di lavoro.
Tutela della salute nel D.Lgs. 626/1994
In tema di sicurezza del lavoro la normativa più importante emanata all’interno del nostro ordinamento è
sicuramente rappresentata dal D.Lgs. 626/1994 emanato in attuazione della direttiva-quadro europea
391/1989. Il decreto introduce importanti novità in materia: i rischi devono essere valutati e ridotti al
minimo dal datore di lavoro e deve essere attuata una prevenzione continua, la quale miri ad informare i
lavoratori dei rischi della propria attività (diritto all’informazione), obbligando il datore alla nomina di uno
o più rappresentanti per la sicurezza che conoscano l’ambiente di lavoro e contribuiscano alla riduzione
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degli stessi. Il datore di lavoro, oltre a valutare i rischi, deve elaborare un piano di sicurezza ambientale, in
cui vengano individuate le misure di prevenzione e l’attuazione delle stesse, conservato presso l’unità
produttiva. Inoltre deve esserci una sorveglianza sanitaria da parte di un medico competente per i
lavoratori esposti ad agenti che alzino il livello di rischio lavorativo. I lavoratori stessi, inoltre, devono
prendersi cura della propria salute e sicurezza, sottoponendosi ai programmi di formazione ed
addestramento organizzati dall’imprenditore e provvedendo all’osservanza di tutte le norme necessarie
per la riduzione dei rischi (adozione di tute protettive, ottemperamento ai protocolli previsti per l’uso di
determinati agenti o macchinari ecc).
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: il D.Lgs.626/1994 è stato sostituito dal TU in materia di
sicurezza del lavoro, emanato con il D.Lgs.81/2008 in attuazione della delega contenuta all’interno della
L.123/2007. Il TU ha il compito di unificare tutta la disciplina in materia di sicurezza del lavoro, nonché di
adeguarla al riparto delle competenze legislative nazionali e regionali. Esso contiene una disciplina
generale, inerente i principi comuni in materia, i quali delineano le finalità, il campo di applicazione, le
istituzioni coinvolte ed il sistema di gestione della sicurezza, ed una disciplina speciale dei singoli settori,
che integra e completa quella generale, contenente disposizioni in merito ad uso di attrezzature, cantieri
mobili, uso dei videoterminali, esposizione ad agenti fisici, chimici e biologici.
Il TU si ispira a 2 principi fondamentali, quello dell’universalità e quello dell’effettività.
Il principio di universalità impone che la normativa in materia si applichi a tutte le tipologie di lavoro. Per
questo motivo è stato previsto che la disciplina del TU si applichi anche ai lavoratori autonomi (dapprima
esclusi), sebbene limitatamente ad alcuni aspetti, oltre che ai componenti di imprese familiari ed ai piccoli
imprenditori. Inoltre ai lavoratori autonomi si estende la disciplina prevista per gli appalti, per i contratti
d’opera e di somministrazione per ciò che concerne i processi di esternalizzazione: in tutti quei casi che
portano all’affidamento a terzi di fasi lavorative e che implicano la presenza sul posto di lavoro di soggetti
dipendenti da diversi rapporti negoziali, ma la cui responsabilità degli stessi pende su un unico centro
d’imputazione. Ecco perché è necessaria la presenza, sul posto di lavoro, di un documento unico di
valutazione dei rischi. Inoltre la disciplina del TU è estesa a tutti quei casi in cui la figura del datore di lavoro
e quella dell’utilizzatore siano distinte (somministrazione e distacco), così come ai casi in cui un’attività di
collaborazione autonoma venga svolta presso un committente (collaborazione a progetto o coordinate e
continuative) ed ai casi di lavoro occasionale o accessorio. Il TU include, infine, anche le forme di lavoro
delocalizzato, come il telelavoro.
In forza del principio di effettività, invece, è stato previsto dal TU che il datore di lavoro, tramite atto in
forma scritta ad substantiam con data certa e ricevuta l’accettazione in forma scritta, possa delegare ad un
proprio sottoposto tutti i compiti in materia di sicurezza, purché il soggetto sia professionalmente idoneo a
svolgere tali compiti, sia pubblicizzata la nomina e gli siano trasferiti compiti di gestione, controllo e spesa.
In tal caso il datore di lavoro è esonerato da qualsivoglia responsabilità, anche se potrebbe rispondere
della mancata vigilanza sull’operato del responsabile per la sicurezza sul lavoro.
Il TU si è occupato, inoltre delle sanzioni in caso di violazione delle norme in esso contenute, prevedendo in
alcuni casi addirittura la pena detentiva. Qualora vengano violate le disposizioni in materia di salute e
sicurezza sul lavoro dettate dal TU e, in conseguenza di tale violazione, si configuri il reato di omicidio
colposo o lesioni gravi colpose, vi è una responsabilità penale delle persone giuridiche che avevano il
compito di far rispettare la normativa. Anzitutto sono previste sanzioni pecuniarie, oltre alle sanzioni
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amministrative di tipo interdittivo. Sanzioni sospensive sono, poi, previste in caso di utilizzo di lavoratori
irregolari, proprio al fine di contrastare il lavoro sommerso: solo la regolarizzazione degli stessi può
attenuare le sanzioni.
Per ciò che concerne, infine, la riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001 e la conseguente
ripartizione di competenze tra Stato e regioni, è stato previsto che il TU funga da contenitore dei principi
fondamentali dettati dallo Stato in funzione della competenza concorrente riguardo alla materia della
sicurezza del lavoro. Alle Regioni spetta legiferare in materia, in coerenza con i principi del TU.
Divieti di discriminazione
Una serie d’interventi legislativi, nel corso del tempo, hanno assicurato la dignità e la libertà morale del
lavoratore nei confronti di discriminazioni di qualsiasi genere.
I primi divieti hanno riguardato discriminazioni politiche, religiose e sindacali, mentre successivamente
sono state tutelate la condizione dello straniero e la parità tra i sessi. Discriminazioni etniche o fondate
sulla razze, così come discriminazioni inerenti la religione, gli handicap, l’età e l’orientamento sessuale,
sono state vietate in maniera assoluta anche grazie ad interventi a livello europeo, poi recepiti nel nostro
ordinamento dal D.Lgs. 215/2003 e dal D.Lgs. 216/2003, i quali hanno ricompreso tra i comportamenti
vietati anche le molestie, ossia quei comportamenti che hanno lo scopo o l’effetto di violare la dignità di
una persona o di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.
Ovviamente sono state contemplate alcune deroghe ai vari divieti di discriminazione, come per esempio
quelle inerenti funzioni d’interesse pubblico in merito a determinate attività lavorative (forze armate e
servizi di polizia, di soccorso, penitenziari).
SEZIONE D: LA DURATA DELLA PRESTAZIONE
L’orario di lavoro e la determinazione della prestazione. La tutela della salute del lavoratore e l’art.36
comma 2 e 3 della Costituzione
La persona del lavoratore non va tutelata solo in merito all’ambiente di lavoro ed ai rischi ad esso connessi,
ma anche in base all’organizzazione del lavoro e della durata dello stesso. La dimensione temporale
lavorativa acquisisce importanza sia sotto il profilo di determinazione quantitativa della prestazione
lavorativa e della retribuzione, ossia quanto il prestatore deve lavorare in virtù del contratto (orario
normale contrattuale di lavoro) ed a quale retribuzione ha diritto in base alle ore lavorative, sia sotto il
profilo del limite massimo di esigibilità della prestazione lavorativa, ossia per capire quanto il lavoratore
possa essere impiegato prima che esaurisca le proprie forze (pur sempre umane e non meccaniche) e
perda lucidità e professionalità a danno di se stesso e del proprio operato. L’art.36 della carta
costituzionale stabilisce al comma 2 che la durata massima dell’attività lavorativa debba essere stabilita per
legge, mentre al comma 3 prevede che il lavoratore abbia diritto al riposo settimanale ed alle ferie annuali
retribuite, senza potervi rinunciare.
La disciplina legale dell’orario di lavoro
La disciplina dell’orario di lavoro è stata per lungo tempo contenuta negli artt.2107,2108 e 2109 c.c.,
inerenti l’orario di lavoro effettivo, il lavoro straordinario e notturno ed i periodi di riposo, nonché
all’interno di diverse leggi speciali. Nel 2003 con il D.Lgs. 66, in attuazione della direttiva europea 104/93,
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la normativa dapprima sparsa in varie fonti legislative, è stata unificata ed innovata, abrogando le
precedenti, salvo nei casi esplicitamente richiamati.
Il decreto 66 definisce l’orario di lavoro: si tratta del periodo di tempo in cui il prestatore è al lavoro, a
disposizione del datore ed eserciti la propria attività. Viene poi ribadita la differenza tra “orario normale di
lavoro”, contrattualmente previsto e fissato nel limite di 40 ore settimanali con la possibilità dei contratti
collettivi di prevedere una durata inferiore e considerare il limite come valore medio sull’arco di un anno
(si tratta del c.d. orario multiperiodale, che permette ai datori di lavoro di superare le 40 ore senza andare
incontro allo straordinario), ed “orario di lavoro straordinario”, il quale consiste nelle ore di lavoro
eccedenti l’orario normale, fissate nel limite di 250 ore annuali e retribuite diversamente e maggiormente
(da unirsi o sostituirsi a recuperi/riposi extra) rispetto alle ore normali di attività lavorativa. Le ore di lavoro
straordinario, tra l’altro, devono essere regolamentate dai contratti collettivi o, in difetto, concordate tra
datore e lavoratore.
Il limite settimanale omnicomprensivo di ore lavorative viene fissato in 48 ore ogni 7 giorni, fissato non
come valore assoluto ma come valore medio su un arco temporale di 4 mesi, salva diversa previsione dei
contratti collettivi. Il datore di lavoro che ecceda la previsione delle 48 ore/7 giorni deve comunicarlo per
iscritto, insieme alla motivazione, entro 30 giorni alla Direzione provinciale del lavoro.
E’ stato, inoltre, innalzato a 4 settimane di astensione dal lavoro il diritto alle ferie.
Sono previste, anche per l’orario lavorativo, alcune deroghe: sono esclusi dalla disciplina dell’orario
normale MA NON da limite di 48 ore/7 giorni, i lavoratori addetti alle occupazioni che richiedono un lavoro
discontinuo o di semplice attesa e custodia. Sono esclusi tanto dalla disciplina dell’orario normale, quanto
da quella delle 48 ore/7 giorni tutti i lavoratori la cui durata della prestazione non è determinata o può
essere determinata dai lavoratori stessi (dirigenti o persone con potere di decisione autonomo).
Infine con decreto ministeriale può essere innalzato il periodo di 4 mesi (fino ad un massimo di 6 mesi) su
cui spalmare le 48 ore/7 giorni, nei casi tassativamente elencati dallo stesso decreto (continuità di alcuni
servizi come quello ospedaliero, postale, televisivo, attività connesse al trasporto ecc).
INTEGRAZIONE APPENDI DI AGGIORNAMENTO: il D.Lgs.66/2003 inerente l’orario di lavoro ed il c.d. tempo
di non lavoro, è stato modificato dalla L.244/2007 e dal D.L.112/2008, il quale però non si applica ai servizi
di vigilanza privata. Il decreto ha escluso dall’applicazione del limite settimanale medio di 48 ore il
personale dirigente del Servizio Sanitario Nazionale, per garantire maggiormente tale servizio, salvo
lasciare ai contratti collettivi la previsione di come vadano recuperare le energie psico-fisiche. Non è più
necessario, inoltre, comunicare il superamento delle 48 ore settimanali per ricorso al lavoro straordinario.
Un’altra modifica ha riguardato il riposo giornaliero consecutivo di 11 ore ogni 24, il quale può essere ora
concesso non solo per coloro che esercitano attività frazionate durante la giornata, ma anche a colo che
sono soggetti a regimi di reperibilità, esclusi dirigenti e personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario
nazionale. Per quanto riguarda la materia del riposo giornaliero, nonché delle pause e della
durata/organizzazione del lavoro notturno è previsto che la contrattazione collettiva nazionale possa
attuare un regime derogatorio rispetto alle previsioni legislative; stessa cosa può fare la contrattazione
collettiva territoriale nel settore privato, senza conformità con quella nazionale. Inoltre, in riferimento al
diritto al riposo settimanale consecutivo di 24 ore ogni 7 giorni, è stato previsto che esso vada calcolato
come media in un periodo di 14 giorni, facendo di fatto slittare il riposo. Piccole modifiche sono state
previste anche per la nozione di lavoro notturno, lasciando immutata la definizione originale, ma
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prevedendo che lavoratore notturno sia anche colui che svolga una parte del suo lavoro durante il periodo
notturno secondo le modalità previste dai contratti collettivi o svolga lavoro notturno per un minimo di 80
giorni l’anno per almeno 3 ore.
Il lavoro notturno
Il decreto 66 ha modificato anche la materia del lavoro notturno, anzitutto fornendo una definizione di
periodo notturno, periodo di almeno 7 ore comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le 5 del mattino, e
di lavoratore notturno, colui che svolge almeno 3 ore dell’orario di lavoro normale durante il periodo
notturno o almeno una parte del proprio lavoro secondo le norme previste dai contratti collettivi, o che
svolge lavoro notturno per un minimo di 80 giorni l’anno.
L’introduzione del lavoro notturno deve essere stabilito in concerto con le rappresentanze sindacali e non
può superare il periodo di 8 ore di media nell’arco delle 24 ore, salvo che i contratti collettivi non abbiano
diversamente previsto. I contratti collettivi devono, poi, stabilire la retribuzione per il lavoro notturno e
fissare i requisiti che consentono l’esclusione dal lavoro notturno, accertati da strutture sanitarie
pubbliche. Vanno poi stabiliti dei controlli e delle garanzie per la sicurezza del lavoratore notturno. Non
può esercitare lavoro notturno la donna in gravidanza o in puerperio fino al compimento di un anno di età
del bambino, mentre è facoltativo il suddetto per:
• la donna madre di un figlio di età inferiore a 3 anni o per il lavoratore padre convivente con la
stessa;
• il lavoratore (lavoratrice) genitore unico affidatario di un figlio convivente di età inferiore a 12 anni;
• il lavoratore (lavoratrice) con a carico un soggetto disabile.
La pause giornaliere, il riposo settimanale, le festività infrasettimanali, le ferie annuali
Il decreto 66 del 2003 disciplina le pause, il riposo settimanale, le festività infrasettimanali e le ferie
annuali.
Per “pausa” si intende l’intervallo, stabilito dai contratti collettivi o in assenza dei quali la pausa non può
durare meno di 10 minuti, per chi esercita un’attività lavorativa di durata superiore alle 6 ore in cui il
soggetto può recuperare le proprie energie psico-fisiche e consumare il pasto.
Per il riposo giornaliero, invece, il decreto stabilisce che il lavoratore ha diritto ad 11 ore di riposo
consecutivo ogni 24 ore, salvo i casi di attività lavorative frazionate durante la giornata, nel qual caso si può
giungere a lavorare per ben 13 ore complessive tra orario di lavoro normale e straordinario.
Va sottolineato che la normativa su pause e riposi giornalieri non si applica ai lavoratori la cui durata della
prestazione non può essere predeterminata o non è misura o è scelta dal lavoratore. In materia
intervengono i contratti collettivi, in mancanza dei quali si potrà avere anche un decreto ministeriale.
Il lavoratore ha poi diritto al “riposo settimanale”, ossia a 24 ore di riposo continuativo ogni settimana (da
cumulare con i riposi giornalieri), di solito coincidenti con la domenica, ad eccezione dei lavori a turni, dei
lavori frazionati durante la giornata e del settore dei trasporti ferroviari ecc.
Il decreto 66 ha poi disciplinato un diritto costituzionalmente garantito dall’art.36, ossia quello al riposo
annuale (ferie). E’ previsto che il lavoratore abbia diritto a 4 settimana di riposo, 2 delle quali devono
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essere godute consecutivamente. La retribuzione rimane identica al periodo di lavoro e le ferie si
sospendono in caso di malattia durante il periodo di riposo annuale.
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CAPITOLO QUINTO – LA RETRIBUZIONE
SEZIONE A: L’OBBLIGAZIONE RETRIBUTIVA. LA RETRIBUZIONE MINIMA SUFFICIENTE
L’obbligazione retributiva. La c.d. busta paga
Abbiamo avuto modo di precisare che il contratto di lavoro è un contratto sinallagmatico, a prestazioni
corrispettive, in cui all’obbligazione di una parte di eseguire l’attività lavorativa, corrisponde l’obbligazione
dell’altra parte a retribuire il lavoratore. La materia è disciplinata dall’art.2099 c.c. il quale prevede che la
retribuzione possa essere stabilita a tempo (ti pago per 8 ore lavorative) o a cottimo (in base al lavoro
svolto, ti pago per aver prodotto X). Nella corresponsione della retribuzione il datore di lavoro deve usare
la diligenza del buon padre di famiglia e può essere obbligato al risarcimento del danno in caso di ritardo o
inadempimento ad egli imputabile. Il principio osservato è quello della post-numerazione, ossia prima si
esegue la prestazione lavorativa e poi si viene retribuiti. La retribuzione corrisponde ad un pagamento
pecuniario (anche in natura secondo quanto prevede l’art.2099 c.c.) da effettuarsi presso la sede di lavoro
ed accompagnato da un prospetto paga analitico (L.4/1953) riassumente le voci che compongono la
retribuzione.
L’orario di lavoro come criterio di commisurazione della retribuzione
L’ammontare della retribuzione viene stabilito in base al tempo lavorato. Il principio della post-
numerazione, infatti, prevede che la retribuzione sia dovuta in base all’attività svolta. Il tempo impiegato
per l’esercizio dell’attività lavorativa (retribuzione a tempo) o il risultato produttivo ottenuto tramite la
forza lavoro (a cottimo) sono determinanti per stabilire l’orario di lavoro, sulla base del quale viene
stabilita, da contratti collettivi e talune volte individuali, la retribuzione. Nella retribuzione a cottimo va
comunque calcolato il tempo lavorato per determinare la retribuzione, ossia il tempo che è servito per
produrre una determinata “quantità di grandezze” (il risultato produttivo appunto).
Retribuzione minima, contratti collettivi ed articolo 36 Costituzione
In forza dell’art.2099 c.c. secondo comma spetta ai contratti collettivi stabilire la misura della prestazione
retributiva. Compito primario ed originario dell’autonomia collettivo è, infatti, quello di stabilire la misura
minima della retribuzione (contratto collettivo = concordato di tariffa già alla fine del XIX secolo).
N.B. l’articolo parla di riferimento alle norme corporative, poi sostituite dai contratti collettivi.
Tuttavia il documento più importante in cui possiamo ritrovare una traccia per stabilire l’ammontare delle
retribuzioni è la Costituzione: i contratti collettivi devono osservare quanto disposto dall’art.36, il quale
prevede che la retribuzione (e si tratta di una norma principio, non semplicemente di una clausola generale
da completare ad opera del legislatore) sia anzitutto “proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro
svolto”, ossia vi deve essere equivalenza tra la prestazione retributiva e quella lavorativa, ed in ogni caso
“sufficiente ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, ossia la misura
minima della retribuzione deve andare oltre il minimo di sussistenza, ossia deve essere adeguata alle
necessità sociali.
In caso di lavoro plurimo (dipendenza da più datori di lavoro e coesistenza di più rapporti lavorativi),
inoltre, va osservato dapprima il requisito della sufficienza, in quanto la retribuzione deve essere mezzo di
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sostentamento per il lavoratore, non un semplice corrispettivo per il lavoro svolto: la retribuzione ha,
quindi, anche una funzione sociale.
L’applicazione giurisprudenziale dell’art.36 della Costituzione
L’applicazione giurisprudenziale dell’art.36 della Costituzione è stata fondamentale all’interno del nostro
ordinamento per la fissazione dei salari minimi. La giurisprudenza ha riconosciuto come corrispondenti ai
requisiti dettati dalla Costituzione, la retribuzione equivalente a quella dei contratti collettivi, attribuendo
un’importanza vitale all’autonomia collettiva. I sindacati, infatti, non rispettando pienamente l’art.39 della
Costituzione, in quanto non registrati, non avrebbero il potere di stipulare contratti collettivi validi per
tutte le categorie professionali, ivi inclusi i non iscritti. La giurisprudenza, invece, ha previsto che le
retribuzioni minime stabilite da accordi dell’autonomia privata si applichino anche a lavoratori di quel
settore non iscritti ai sindacati stipulanti l’accordo. Nel nostro Paese, inoltre, manca una disciplina
legislativa che fissi dei minimi salariali, ma per nostra fortuna è intervenuta la giurisprudenza per la
corretta applicazione dell’art.36, che seppur costituzionale e non di disciplina legislativa in materia,
possiede comunque una funziona precettiva e perciò direttamente vincolante, non essendo un mero
principio generale.
SEZIONE B: STRUTTURA DELLA RETRIBUZIONE
I sistemi di retribuzione
L’art.2099 c.c. contempla due sistemi di retribuzione: quello a tempo, in cui il lavoratore viene retribuito in
base al periodo di tempo in cui ha prestato la propria attività lavorativa (ore, settimane, giorni) e quello a
cottimo, in cui il lavoratore viene retribuito in base al risultato del lavoro. Vi sono poi sistemi di
retribuzione alternativi contemplati dallo stesso articolo, quali la partecipazione agli utili, dove il lavoratore
riceve una parte dei profitti netti dell’impresa che si possono evincere dal bilancio ove sia previsto, la
partecipazione ai prodotti dell’impresa, in cui il lavoratore, in cambio della propria attività, riceve una parte
dei risultati materiali dell’attività imprenditoriale. Queste due ultime forme di retribuzione potrebbero
però violare, indirettamente, il requisito di sufficienze previsto dall’art.36 della Costituzione, laddove ad
esempio l’attività imprenditoriale non sia andata bene e non sia in grado di garantire utili o prodotti al
lavoratore, a causa di elementi non contemplabili dal lavoratore stesso. In tal caso è previsto comunque
che il lavoratore ottenga una retribuzione sufficiente.
Il lavoratore, inoltre, può essere anche retribuito con prestazioni in natura, ossia ricevendo dei beni, anche
se ciò avviene in casi limitati (es. portierato, dove il portiere riceve, oltre ad una somma in denaro, anche
vitto e alloggio).
Ultima ipotesi è quella della retribuzione a provvigione: in tal caso il lavoratore è tenuto (ed è questo
proprio l’oggetto della sua prestazione) alla conclusione di affari e contratti nell’interesse dell’imprenditore
e qualora egli riesca nel proprio operato, avrà diritto o ad una percentuale sull’affare o comunque ad una
retribuzione proporzionata allo stesso. Tale tipo di retribuzione può essere integrativa di una retribuzione
in denaro od anche esclusiva.
Retribuzione a tempo
Nell’ambito della retribuzione a tempo possiamo attuare una distinzione tra la retribuzione oraria, definita
come “salario”, e quella mensile, definita come “stipendio”, originariamente e tradizionalmente
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corrispondenti alla distinzione tra operai ed impiegati. Per la distinzione non rileva il termine
d’adempimento dell’obbligazione retributiva, che può essere alla fine del mese od ogni 15 giorni in
entrambi i casi, ma l’assunzione del rischio: il salario corrisponde alla somma delle ore effettivamente
lavorate, mentre per lo stipendio il datore di lavoro si assume il rischio della mancata prestazione
lavorativa non imputabile al lavoratore.
In entrambi i casi, comunque, sulla retribuzione normale (inerente l’orario normale di lavoro) si calcolano
le maggiorazioni per lavoro straordinario, il cui ammontare viene stabilito dai contratti collettivi in cui
possono essere previsti anche dei riposi compensativi, per lavoro notturno, ed anche in tal caso spetta ai
contratti collettivi stabilire i trattamenti economici indennitari per i lavoratori notturni, per le festività,
compensate con un’ulteriore retribuzione che si aggiunge a quella normale ed è stabilita dai contratti
collettivi. Per le ferie, inoltre, il lavoratore deve usufruire obbligatoriamente delle 4 settimane, non
essendo possibile indennizzarlo in denaro per ferie non godute, salvo il caso di cessazione del rapporto di
lavoro.
Elementi accessori della retribuzione e la sua struttura complessa
La retribuzione globale di un lavoratore è composta dalla retribuzione minima prevista dai contratti
collettivi o individuali per l’orario normale di lavoro (paga base) e dagli elementi accessori della
retribuzione, costituiti non solo dalle maggiorazioni per lavoro straordinario, notturno o festivo, ma anche
dai cosiddetti scatti di anzianità, previsti con frequenza biennale e di cui è stabilito un numero massimo nei
contratti collettivi, ai quali si ha diritto per il semplice permanere all’interno di una stessa qualifica per un
periodo di tempo protratto, dai cosiddetti superminimi (assegni ad personam o aumenti di merito) che
superano i minimi tariffari previsti dai contratti collettivi, dalla 13esima mensilità o gratifica natalizia. Vi
sono poi tutta una serie d’indennità previste a favore di coloro che pongono in essere un lavoro disagiato o
ad alto rischio (monetizzazione del rischio), che hanno natura corrispettiva e non risarcitoria. Inoltre, vi
sono i premi collettivi di produzione, istituiti per garantire la partecipazione del lavoratore agli utili
dell’impresa. Ultimamente, sempre più frequenti, sono i premi di presenza, rivolti a disincentivare
l’assenteismo. Un cenno merita anche l’indennità di mensa, corrisposta al lavoratore per sostituire il
relativo servizio.
Retribuzione a cottimo
Secondo sistema fondamentale di retribuzione previsto dall’art.2099 c.c. è quello a cottimo. In questo caso
non si tiene conto solo del periodo di tempo lavorativo del prestatore, ma anche del risultato ottenuto in
tale periodo di tempo. Come possiamo notare, quindi, la retribuzione a cottimo non esula dall’orario
lavorativo (come magari avviene per quella a provvigione), bensì tiene conto di un secondo fattore, il
risultato produttivo. Inizialmente questo tipo di retribuzione era prevista per i lavoratori autonomi come
corrispettivo della locazione d’opera. In seguito venne estesa anche al lavoro subordinato, ovviamente con
qualche modificazione: il cottimo a pezzo o a misura venne sostituito dal cottimo a tempo (quanto riesci a
produrre e quanto lavori nell’arco di tot ore? Tanto verrai retribuito). La retribuzione a cottimo puro o
integrale è in realtà limitata al lavoro a domicilio, mentre nei contratti collettivi viene sempre utilizzato il
cottimo misto, il quale prevede un minimo di paga base determinato a tempo ed un “utile di cottimo”,
calcolato sul lavoro eseguito (si configura quindi come una maggiorazione). Nella retribuzione a cottimo,
comunque, il rischio di mancato o insufficiente lavoro grava pur sempre sul datore, e si trasferisce a carico
del prestatore solo per ciò che concerne la quantità di retribuzione in base alle singole frazioni di risultato
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(non può essere imputabile al lavoratore il difetto o scarto della produzione). I contratti collettivi non
fanno altro che stabilire le tariffe di cottimo. Il lavoro a cottimo è previsto in tutti quei casi in cui
l’imprenditore possa aumentare il ritmo di lavoro (es. catene di montaggio) ed il legislatore impone a
quest’ultimo di aumentare anche la retribuzione.
L’art.2101 c.c. stabilisce che i sindacati possano decidere che le tariffe di cottimo non divengano da subito
effettive, ma ci sia un periodo di prova, la cosiddetta “fase sindacale”, cui segue un periodo definito come
“fase aziendale”, in cui le tariffe iniziano ad operare regolarmente, demandata all’imprenditore, che deve
rendere note le tariffe (ossia lavorazioni da eseguire e relativo compenso unitario) tramite la “bolla di
cottimo”.
La retribuzione a cottimo funge, quindi, da incentivo del rendimento, ma nei casi in cui il rendimento per
unità di tempo dipenda da macchinari con tempi prefissati, serve solo a controllare che il lavoratore
mantenga sempre uno stesso standard lavorativo.
Nozione di retribuzione
Nella definizione legislativa di retribuzione come corrispettivo del lavoro rientrano solo e solamente gli
elementi essenziali della retribuzione stessa, ossia tutti quegli elementi dovuti in via necessaria e non
eventuale. Quando un beneficio economico, un’attribuzione patrimoniale non è legata allo svolgimento
dell’attività lavorativa, e pertanto è corrisposto in via eventuale e non necessaria, allora non può far parte
della definizione omnicomprensiva di retribuzione.
Nozione di reddito da lavoro dipendente a fini contributivi
La retribuzione, oltre a rappresentare l’obbligazione corrispettiva rispetto all’attività lavorativa, è
considerata dalla legge come base imponibile per il calcolo dei contributi previdenziali e come reddito
imponibile ai fini fiscali. Il vecchio art.12 della L.153/1969 considerava come “retribuzione ai fini
previdenziali” tutto ciò che veniva corrisposto dal datore di lavoro in dipendenza del rapporto di lavoro
stesso. Il D.Lgs. 317/1997 ha riformulato l’art.12, prevedendo la definizione di “reddito da lavoro
dipendente a fini contributivi”, identica alla definizione per fini fiscali dello stesso decreto che, oltre a
modificare la L. 153/1969, ha modificato anche il TU delle imposte sui redditi. Per reddito da lavoro
dipendente non s’intendono più le sole somme previste come corrispettivo dell’attività lavorativa, ma
anche quelle percepite dal prestatore a qualsiasi titolo da parte del datore di lavoro. Sono escluse dalla
tassazione fiscale e dai fini previdenziali, le somme erogate a titolo di Trattamento di fine rapporto (TFR) e
quelle erogate per incentivare l’esodo di un lavoratore.
SEZIONE C: IL TRATTAMENTO RETRIBUTIVO NELLE IPOTESI DI SOSPENSIONE DEL RAPPORTO
Contratto di lavoro e rimedi sinallagmatici
Il contratto di lavoro, non ci stancheremo di ripeterlo, è un contratto sinallagmatico: tra le obbligazioni
delle parti vi è un nesso di interdipendenza che ne fa un contratto a prestazioni corrispettive. Ovviamente
la legge, al pari degli altri contratti sinallagmatici, offre anche a quello lavorativo una serie di “rimedi
sinallagmatici”, mediante i quali il contraente viene tutelato circa il reciproco adempimento degli obblighi
contrattuali. Come rimedi ritroviamo: la risoluzione per inadempimento (artt.1453 e ss. c.c.), per
impossibilità sopravvenuta (artt.1463 e ss. C.c.), per eccessiva onerosità sopravvenuta (artt.1467 e ss.c.c.).
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Preponderante, rispetto alle suddette, è l’eccezione d’inadempimento prevista dall’art.1460 c.c.: qualora
una parte tema che l’altra non intenda adempiere, potrà mettersi al riparo invocando l’eccezione
d’inadempimento e sospendendo l’esecuzione del contratto per un giusto motivo ed evitando lo squilibrio
economico dettato dall’esecuzione della prestazione dovuta di una sola parte.
Non è raro in un rapporto lavorativo che sopraggiunga un impedimento del prestatore (che magari viene
arrestato) o un impedimento del datore (distruzione dell’azienda o disposizione dell’Autorità) e che l’uno o
l’altro siano irreversibili al punto tale da determinare la risoluzione del contratto, liberando così le parti
contrattuali. Tuttavia la retribuzione erogata per lavoro già eseguito non deve essere, è ovvio
comprenderlo, restituita, a differenza della retribuzione anticipata percepita dal lavoratore. Alla risoluzione
per inadempimento, in materia lavorativa, è tuttavia difficile giungere, per via del precedente recesso
unilaterale o della sospensione del rapporto intervenute.
Sospensione del rapporto
Abbiamo già accennato al “principio di traslazione sul datore di lavoro del rischio dell’inattività del
prestatore” nei casi d’impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause fortuite o di forza maggiore
attinenti alla persona del lavoratore, ma a lui non imputabili. In un normale rapporto contrattuale,
l’impossibilità sopravvenuta di non poter eseguire la prestazione non imputabile al debitore darebbe luogo
alla risoluzione del contratto ed al venir meno delle rispettive obbligazioni delle parti. Nel rapporto di
lavoro il discorso è diverso proprio in forza della traslazione del rischio: se l’impossibilità sopravvenuta non
attribuibile al prestatore è solo temporanea, egli ha diritto a conservare la retribuzioni, nonché il posto di
lavoro qualora goda di una certa anzianità di servizio (periodo di irrecedibilità o, per quanto riguarda
malattia o infortunio, periodo di comporto). Il rapporto di lavoro, infatti, non si estingue automaticamente,
ma si sospende ed in questo periodo di sospensione vige un divieto di licenziamento del lavoratore: il
datore dovrà manifestare la volontà di recesso unilaterale qualora voglia far cessare il rapporto di lavoro,
ma essa avrà effetto solo dopo il decorso del periodo di tempo di conservazione del posto di lavoro.
Malattia, infortunio, gravidanza e puerperio
I casi più frequenti di sospensione dell’attività lavorativa collegate alla persona del lavoratore si hanno in
caso di malattia, infortunio, gravidanza e puerperio, riconducibili alla tutela costituzionale della salute e
della maternità. Questi casi sono contemplati dall’art.2110 c.c. e sono giustificativi dell’assenza del
lavoratore: il datore di lavoro, inoltre, è tenuto a corrispondere ugualmente la prestazione retributiva o
comunque un’indennità, salvo il caso in cui siano previste forme privatistiche di previdenza ed assistenza.
L’assicurazione contro le malattie è, nel nostro ordinamento, obbligatoria ed è posta a carico del datore di
lavoro e minimamente del prestatore. L’assistenza medica grava sul Servizio sanitario nazionale, mentre
l’indennità è corrisposta dall’INPS. Ovviamente lo stato di malattia può essere verificato in qualsivoglia
momento o su istanza del datore di lavoro (il quale potrà innescare la visita medica al domicilio del
lavoratore) o dallo stesso ente previdenziale: l’art.5 dello Statuto dei lavoratori vieta, comunque, che a
verificare quanto suddetto sia un medico di fiducia del datore di lavoro. Tra l’altro gli operai sono esclusi
dall’indennità per malattia per i primi 3 giorni lavorativi, al contrario degli impiegati che percepiscono tale
indennità sin dal primo giorno. Lo stesso discorso vale per gli infortuni sul lavoro, salvo tener conto che
l’assicurazione obbligatoria contro infortuni e malattie professionali non copre tutti i lavoratori, ma solo
quelli addetti a determinate attività individuate dalla legge.
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Diversi, invece, sono i trattamenti economici e normativi connessi a maternità, paternità ed aspettativa dal
lavoro connessa alla cura di figli con handicap grave (lo vedremo nel capitolo VI).
Altre ipotesi di sospensione del rapporto
L’art. 51 comma 3 della Costituzione prevede la tutela, per quanto concerne il mantenimento del posto di
lavoro, di tutti i soggetti chiamati a funzioni pubbliche elettive. Nello specifico: i parlamentari europei e
nazionali, nonché i membri delle assemblee regionali, hanno diritto di aspettativa (conservazione del posto
di lavoro) e vi è sospensione del rapporto di lavoro senza retribuzione. Gli amministratori di enti locali
possono optare per lo stesso trattamento oppure decidere di assentarsi giustificatamente dal posto di
lavoro per l’intera giornata in cui vi è la riunione del consiglio di appartenenza. Anche chi ricopre cariche
sindacali nazionali o provinciali ha il diritto di aspettativa. Speciali permessi sono poi previsti per i dirigenti
delle rappresentanze sindacali aziendali, così come per i lavoratori coinvolti in operazione elettorali, che
hanno diritto a maggiorazioni retributive o a riposi compensativi per i giorni festivi impegnati nello
svolgimento delle operazioni. Per ciò che concerne il servizio militare dobbiamo attuare una distinzione tra
la chiamata alle armi per adempiere gli obblighi di leva, nel qual caso è prevista la sospensione del
rapporto di lavoro senza diritto alla retribuzione, ma con conservazione dell’anzianità di servizio, e
richiamo alle armi, per cui vi è la sospensione del rapporto con diritto alla retribuzione. Al servizio militare
di leva sono equiparati il volontariato civile in Paesi in via di sviluppo ed il servizio civile degli obiettori di
coscienza.
Particolare è il caso di tossicodipendenza del lavoratore: egli, qualora voglia accedere a struttura di
riabilitazione, ha diritto all’aspettativa, con sospensione del rapporto ed il venir meno della retribuzione.
Inoltre non matura, in tal periodo, alcuna anzianità di servizio. Il periodo massimo consentito è di tre anni.
Ai lavoratori, infine, sono riconosciuti 3 giorni l’anno per problemi di natura familiare: morte o infermità
grave del coniuge o del convivente, nonché di un parente entro il secondo grado.
La mora credendi del datore di lavoro
Noi sappiamo che in un qualsivoglia rapporto obbligatorio oltre alla più frequente mora del debitore, può
sussistere anche la mora del creditore (mora credendi o accipiendi), il quale può, con un suo
comportamento, rifiutare la prestazione del debitore od impedirgli di eseguirla. E’ il caso della cosiddetta
“serrata”, che si ha nel momento in cui il proprietario di una fabbrica/azienda, insomma l’imprenditore,
chiude i locali lavorativi ed impedisce ai lavoratori di entrarvi e di esercitare le proprie prestazioni. Alla
serrata la Corte Costituzionale ha riconosciuto irrilevanza penale, ma ha attribuito rilevanza civile, in
quanto configura un’ipotesi di mora del creditore. Il creditore viene costituito in mora, essendo quella
lavorativa un’obbligazione di facere, con la sola intimazione da parte del debitore di ricevere la prestazione
o di cooperare per riceverla. Nel rapporto di lavoro, tale cooperazione prende il nome di substrato reale
della prestazione lavorativa. Ovviamente per essere costituito in mora, il creditore non deve avere un
legittimo motivo per la mancata cooperazione: in caso contrario, ossia in presenza di un motivo legittimo,
la mora è esclusa e la prestazione diviene impossibile, facendo perdere al prestatore il diritto alla
retribuzione, che invece conserva in caso di mora credendi.
In caso di mora il datore di lavoro deve il risarcimento del danno, in aggiunta alla retribuzione, oltre a
vedersi attribuito il rischio di impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause di forza maggiore. Non
rientra nel caso di mora accipiendi l’eventualità che il datore non si avvalga della prestazione lavorativa del
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prestatore ma lo tenga a disposizione, pur garantendogli la retribuzione: in tal caso l’imprenditore sta
semplicemente esercitando il proprio potere direttivo.
L’oggettiva impossibilità temporanea della prestazione lavorativa
Oltre che dalla volontà dell’imprenditore a non cooperare per l’esecuzione della prestazione lavorativa, la
sospensione dell’attività aziendale può dipendere anche da fatti direttamente o indirettamente
riconducibili all’organizzazione produttiva dell’impresa, ma non imputabili all’imprenditore (cause di natura
tecnico-funzionale, mancanza di energia, interruzione del funzionamento di macchinari ecc). In questo caso
si determina la sospensione del rapporto che per gli operai significa mancanza di retribuzione, mentre per
gli impiegati significa o continuare a recepire la retribuzione, o risoluzione del contratto ad opera
dell’imprenditore. Le sospensioni di breve durata (soste), invece, sono disciplinate dai contratti collettivi: il
datore è obbligato a retribuirle nel limite di due ore giornaliere, ma sorpassato tale limite può mettere in
libertà i lavoratori, non dovendogli alcuna retribuzione.
La mancanza di retribuzione in tutti questi casi dovuti alla sospensione del rapporto, può, ovviamente,
essere ovviata tramite il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni (la vedremo nel lontano capitolo XII).
Sinallagma genetico e sinallagma funzionale
In questo paragrafo vi è semplicemente un riassunto di quanto trattato nel capitolo in merito all’esistenza
residua di un sinallagma, ossia di un nesso di reciprocità, nel momento in cui la retribuzione viene
ugualmente offerta dal datore di lavoro, ma manca la prestazione lavorativa per svariati motivi (malattia,
infortunio, gravidanza e puerperio, esercizio di diritti sindacali, mancanza di connessione tra lavoro e
prestazione del datore ed è il caso del TFR).
Non credo sia determinante questo paragrafo e non credo che meriti l’attenzione dello studente ai fini del
superamento dell’esame.
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CAPITOLO SESTO – IL LAVORO DELLE DONNE E DEI MINORI
Il lavoro delle donne e dei minori. La tutela differenziata e la parità di trattamento
Il lavoratore, in linee generali, è il più delle volte tutelato per la propria condizione di sottoprotezione
sociale e di parte contrattualmente debole. Oltre a questa forma di tutela apprestata a tutti i lavoratori, il
legislatore, tanto nel codice quanto nella costituzione, si preoccupa poi di due categorie di soggetti: i
minori e le donne. La tutela apprestata, in tal caso, deriva sia dalla volontà di salvaguardare la persona
fisica e la personalità morale del minore e della donna, sia dalla volontà di non attuare alcuna
discriminazione, sia sotto il punto di vista del trattamento, sia sotto il profilo retributivo.
L’art.37 della Costituzione, norma dotata di efficacia precettiva immediata, prevede una tutela assoluta
delle due categorie in questione, sancendo non solo la parità di trattamento e la fissazione della soglia di
età lavorativa, ma salvaguardando le qualità personali di questi lavoratori. Ciò comporta che il datore di
lavoro potrà di certo applicare trattamenti differenziati per minori e donne, ma solo a loro vantaggio,
essendo impossibile discriminare negativamente le categorie.
Il lavoro minorile
Obiettivo principale è sicuramente la tutela dell’integrità psico-fisica dei minori, che si estrinseca
nell’osservanza di uno svariato numero di norme poste a tutela degli stessi. La disciplina sul lavoro minorile
è contenuta all’interno della L. 977/1967, modificata dal D.Lgs. 345/1999: è prevista una distinzione tra
“bambini”, ossia coloro che non hanno ancora compiuto il quindicesimo anno di età, e adolescenti, coloro
compresi tra 15 e 18 anni di età. Ai primi è fatto espresso divieto di esercitare un’attività lavorativa, se non
per fini culturali, artistici,sportivi, pubblicitari e tutelando comunque la propria integrità psico-fisica; agli
adolescenti, invece, è permesso l’accesso al lavoro, in quanto ultraquindicenni, ma a patto che terminino il
periodo di istruzione obbligatoria. Tra l’altro questo numero ristretto di lavoratori non può in alcun modo
esercitare attività lavorative particolarmente pericolose, faticose o insalubri e comunque sarà sottoposto
ad una visita medica volta ad accertarne la capacità psico-fisica di svolgere un lavoro. Inoltre gli adolescenti
non possono in alcun modo eccedere un determinato orario lavorativo o svolgere lavoro notturno. Il
contratto posto in essere dalle parti, in violazione delle norme imperative di legge, è nullo, in quanto
l’oggetto risulta illecito e pertanto sarà inefficace tra le parti, con l’applicazione dell’art.2126 c.c., il quale
prevede la retribuzione per la prestazione indebitamente offerta dal minore.
Tutela paritaria della donna: la L. 903/1977
La tutela paritaria ha assunto, col passare del tempo ed il susseguirsi di diversi interventi legislativi, sempre
maggiore importanza, fino ad arrivare alla completa parificazione tra i sessi in ambito lavorativo. Una
normativa determinante in tal senso è costituita dalla L. 903/1977: negli anni 70, infatti, i movimenti
femminili diedero una notevole spinta sull’argomento della condizione della donna. Il fine della legge è la
realizzazione della parità di diritti e il divieto di qualsiasi discriminazione nell’occupazione o nella
formazione, salvo i casi di mansioni particolarmente pesanti, individuate dalla contrattazione collettiva, o i
casi di attività di moda, arte e spettacolo in cui il sesso femminile è essenziale per la prestazione. Inoltre la
donna è tutelata anche sotto il punto di vista retributivo (la parità è collegata alle prestazioni richieste e
non a quelle eseguite) e dell’inquadramento professionale (potendo la donna far carriera ed acquisire
qualifiche superiori al pari dell’uomo). La legge ha modificato anche l’art.15 dello Statuto dei lavoratori che
oggi si scaglia contro qualsiasi discriminazione di sesso, razza e lingua, ponendo nel nulla qualsiasi
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contratto lavorativo in tal senso. Una parità di trattamento è stata, poi, prevista anche ai fini previdenziali,
sebbene le soglie di pensionamento delle donne siano sempre inferiori a quelle degli uomini.
Altro punto chiave della disciplina antidiscriminatoria è quello sui licenziamenti: la disciplina limitativa degli
stessi non si applica ai lavoratori in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia e la donna, essendo
in tal caso prevista una soglia inferiore per il conseguimento di questo tipo di pensione, veniva
indirettamente discriminata rispetto ai lavoratori di sesso maschile. Per questo l’art.4 della 903 previde, in
un primo momento e prima della pronuncia di illegittimità costituzionale della Corte, la possibilità di scelta
della donna di optare per il pensionamento alla stessa età degli uomini. La norma, però, fu ritenuta
incostituzionale e venne nuovamente modificata, prevedendo che la tutela contro i licenziamenti non
andasse applicata ai lavoratori ultrasessantenni, parificando in tal modo uomini e donne. Le successive
riforme pensionistiche, però, hanno innalzato i limiti di età per la pensione di vecchiaia (65 anni per gli
uomini e 60 per le donne), attuando quindi una nuova discriminazione e rendendo necessaria
l’interpretazione che del vecchio testo dell’art.4 aveva dato la Corte costituzionale: la tutela contro i
licenziamenti delle donne si estende fino alla stessa età prevista per il pensionamento degli uomini, senza
che la donna manifesti alcuna volontà.
Infine la L. 903/1977, riconoscendo alcuni diritti al padre lavoratore, ha in un certo senso alleggerito il
costo del lavoro femminile, data l’eventuale gravidanza della donna, in quanto solo alla stesa inizialmente
venivano riconosciuti diritti legati alla prole, il che comportava un sacrificio notevole per il datore di lavoro.
La tutela differenziata delle donne: le lavoratrici madri
La tutela fisica ed economica della lavoratrici madri è contenuta in diversi documenti legislativi che si sono
succeduti nel tempo, da ultimo il D.Lgs. 151/2001.
Anzitutto è sancito il divieto di licenziamento dal momento d’inizio della gravidanza fino al compimento di
un anno di età del bambino, salvo taluni casi:
• giusta causa dovuta a colpa grave della lavoratrice;
• cessazione dell’attività aziendale;
• ultimazione della prestazione per cui la lavoratrice era stata assunta o scadenza del termine
contrattuale;
• esito negativo della prova.
La donna tra l’altro non può svolgere l’attività lavorativa nei due mesi precedenti al parto e nei 3 mesi
successivi. Può optare per lo spostamento di tale periodo, da un mese prima del parto sino a 4 mesi dopo
lo stesso (periodo protetto). Ha comunque sempre diritto alla retribuzione, pagata nella misura del 80%,
ma dall’INPS e non dal datore. Questo periodo di sospensione lavorativa viene definito come CONGEDO DI
MATERNITA’ e viene computato ai fini dell’anzianità di servizio.
La donna non può comunque svolgere lavori faticosi, insalubri e pericolosi per se stessa e per il bambino e
qualora già li svolgesse, avrà diritto ad un cambio momentaneo di mansione per tutta la gravidanza e fino a
7 mesi dopo il parto.
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Disciplina paritaria dei congedi
Recenti discipline legislative hanno introdotto una nuova forma di parificazione sociale dei sessi,
prevedendo una serie di diritti legati alla figura di genitori anche a favore dei lavoratori di sesso maschile.
Inoltre si è attuata una sostanziosa tutela di salvaguardia delle relazioni affettive tra genitori e figli.
L’astensione obbligatori dal lavoro della donna, infatti, persegue lo scopo di tutelare la salute della madre e
del figlio nel periodo di gravidanza e puerperio. Accanto ad essa è stata prevista una forma di astensione
facoltativa, tanto a favore del padre quanto della madre, definita come CONGEDO PARENTALE. Può essere
goduto nei primi 8 anni di età del bambino e può riguardare un periodo di astensione (continuativo o
frazionato) di 6 mesi per la madre e 7 per il padre (10 mesi se vi è un unico genitore), con il limite
complessivo di 10 mesi, elevato ad 11 se il padre ha fruito di almeno 3 mesi. Fino al terzo anno di età del
bambino e per un periodo complessivo di non oltre 6 mesi, il genitore ha diritto al 30% della retribuzione;
dai 3 mesi all’ottavo anno di età si ha diritto a tale retribuzione solo se il reddito individuale è inferiore a
2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione. Il datore di lavoro, tra l’altro, per fronteggiare i
congedi parentali può assumere con contratto a termine un lavoratore in sostituzione, avendo diritto a
degli sgravi contributivi.
Al padre, inoltre, è stato garantito il cosiddetto CONGEDO DI PATERNITA’, ossia il diritto ad astenersi dal
lavoro nei primi tre mesi di vita del figlio in determinati casi:
• morte o grave infermità della madre;
• abbandono del bambino da parte della madre;
• affidamento esclusivo al padre.
Al padre che ne fruisca è garantita un’indennità pari al 80& della retribuzione a carico dell’INPS, la tutela
contro il licenziamento fino ad un anno di età del bambino ed il computo del periodo di astensione
nell’anzianità di servizio.
I genitori, inoltre, possono assentarsi anche per malattia del bambino di età inferiore ai 3 anni, mentre dai
3 agli 8 anni di età il limite è di 5 giorni l’anno per ciascun genitore. Non è prevista alcuna indennità.
I lavoratori che usufruiscono di tutte queste astensioni hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro
per i periodi previsti, nonché a rientrare nelle mansioni precedenti a tali periodi.
E’ previsto, in aggiunta, un periodo di 3 giorni l’anno per morte o infermità grave del coniuge o del
convivente, o di un parente entro il secondo grado.
Può essere richiesto anche un congedo non retribuito per un periodo di addirittura 2 anni, in cui non si
matura alcuna anzianità di servizio e previdenziale, ma si ha diritto alla conservazione del posto.
Parità tra i sessi e speciali occasioni di tutela delle donne
Il passaggio dalla L.1204/1971 all’attuale disciplina ha quindi posto sullo stesso piano, per ciò che attiene ai
figli, il padre e la madre. Il genitore di sesso maschile, infatti, non è più visto come accessorio nella cura
della prole, ma come soggetto che si occupa dei figli al pari della madre.
Le recenti discipline di matrice comunitaria, inoltre, hanno rafforzato la tutela della madre in relazione ai
lavori pericolosi ed al lavoro diurno, che può essere legittimamente rifiutato dalla stessa.
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Azioni positive e pari opportunità tra i sessi
Abbiamo visto come la L.903/1977 abbia inciso notevolmente sulla parificazione tra uomini e donne
all’interno della disciplina legislativa. A tale legge, però, non sono seguiti effetti nel mondo reale del lavoro
altrettanto significativi, tanto che si è reso necessario l’intervento del legislatore, il quale ha modificato la
903 con la L.125/1991. Il problema da risolvere è quello della sottorappresentazione delle donne, il quale si
pone nel momento in cui in un ambiente lavorativo la percentuale di donne al lavoro non corrisponde alla
percentuale di donne nel mercato del lavoro che abbiano quei requisiti professionali. Per risolvere tale
problema, sono state promosse delle misure apposite, note come “azioni positive”. La donna lavoratrice in
realtà non ha alcuna pretesa, in quanto le azioni positive rappresentano una facoltà incentivata del datore
di lavoro, non un obbligo. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, tra l’altro, ha chiarito come tutte
queste normative a favore della donna non debbano finire con la discriminazione dell’uomo nell’accesso ai
posti di lavoro, ossia non si deve attuare una discriminazione al contrario pur di favorire a tutti i costi la
donna.
Rafforzamento della tutela antidiscriminatoria
La disciplina della L. 125/1991 (modificativa a sua volta della 903/1977) ha subito ulteriori variazioni nel
corso degli anni per rafforzare sempre più la disciplina antidiscriminatoria. Per discriminazione s’intende
qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici
o i lavoratori in ragione del proprio sesso o attuando un trattamento meno favorevole rispetto ad un
lavoratore o ad una lavoratrice che si trovi in una posizione analoga. Si ha discriminazione “indiretta”
qualora un atto, patto o comportamento, pur non perseguendo formalmente lo scopo di cui sopra, attua
comunque una diversità in tal senso, ponendo un soggetto in una posizione di svantaggio. Nell’ambito
delle discriminazioni, inoltre, sono state ricomprese le molestie, tanto quelle che violino la dignità della
persona, tanto quanto quelle sessuali.
Anche in ambito processuale sono stati apportati dei miglioramenti in materia di discriminazioni: il
lavoratore o la lavoratrice ricorrente, infatti, vede attenuato l’onere della prova a suo carico, in quanto lo
stesso ricade sul convenuto nel momento in cui vengano forniti elementi di fatto, supportati da dati
statistici, che facciano nascere in qualsivoglia modo la presunzione di una discriminazione legata al sesso.
E’ prevista inoltre una procedura processuale d’urgenza, simile a quella inerente la repressione delle
condotte antisindacali, per qualsiasi forma di discriminazione: il lavoratore o la lavoratrice possono essere
assistiti dai Consiglieri di parità istituiti presso le varie sedi delle Commissioni per le politiche del lavoro.
L’accertamento di comportamenti discriminatori collettivi, inoltre, può dar luogo alla revoca dei benefici
finanziari di cui gode l’imprenditore o alla risoluzioni di contratti di appalto con enti pubblici.
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CAPITOLO SETTIMO – L’ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
SEZIONE A: L’ESTINZIONE IN GENERALE
Modi di estinzione del rapporto di lavoro. L’impossibilità sopravvenuta della prestazione
Il rapporto di lavoro, come ogni vicenda umana, ha un inizio ed anche una fine. L’effetto estintivo può
essere riconducibile ad un solo contraente (recesso unilaterale, dimissioni o licenziamento) o alla volontà
di entrambi (risoluzione consensuale). Ma i rapporti obbligatori possono anche risolversi per effetto di una
impossibilità sopravvenuta della prestazione che abbia carattere definitivo o quanto meno così tanto
temporaneo da essere assimilato a quello definitivo. Tale disciplina riguarda tanto il rapporto obbligatorio
in linea generale, quanto il rapporto di lavoro seppur con notevoli accorgimenti. Anzitutto la prestazione
del datore di lavoro, ossia quella retributiva, è molto improbabile, proprio per sua natura, che divenga
impossibile. Tutti i casi, invece, che potrebbero indurci a pensare che si abbia una risoluzione per
impossibilità sopravvenuta nel caso del lavoratore, vanno analizzati nel dettaglio: non è detto che
un’inidoneità fisica permanente del lavoratore porti a ciò, essendo possibile un cambio di mansioni magari
esercitabili dal lavoratore; non è detto neanche che il perimento di uno stabilimento porti alla risoluzione,
essendo possibile l’assegnazione ad altro stabilimento. Come vediamo, quindi, nulla è scontato, neanche in
caso di vis maior (forza maggiore) o factum principis (provvedimento delle Autorità), in quanto in tal caso
dobbiamo distinguere tra “eventi concernenti l’impresa” (distruzione dei locali aziendali, requisizione
dell’azienda), non l’imprenditore, ed eventi concernenti la persona del lavoratore (detenzione definitiva,
assoluta incapacità permanente, morte del prestatore).
Risoluzione consensuale. Risoluzione giudiziale per inadempimento
Primo modo di estinzione del rapporto lavorativo che andiamo ad analizzare è quello riconducibile alla
volontà ed all’autonomia negoziale dei contraenti, ossia la “risoluzione consensuale”. Le parti, così come si
sono obbligate reciprocamente, possono decidere di dismettere il proprio rapporto e liberarsi dalle relative
obbligazioni. Ovviamente ciò non deve configurare un negozio in frode alla legge, pertanto nullo,
sostitutivo del licenziamento, posto in essere per allontanare il lavoratore.
Inoltre, avendo il codice civile previsto il recesso unilaterale del contraente adempiente nei confronti di
quello inadempiente, non è ipotizzabile pensare che sia ammissibile il ricorso alla “risoluzione giudiziale per
inadempimento”: essa tutela, in maniera più macchinosa, lo stesso interesse del recesso di cui sopra e
pertanto risulterebbe inutile.
Recesso nel rapporto di lavoro: interessi in gioco
Il recesso è un negozio giuridico unilaterale, posto in essere cioè da una sola parte contrattuale, recettizio,
per la cui validità occorre la comunicazione all’altra parte contrattuale e l’effettiva conoscenza da parte
della stessa. Con il recesso il contraente fissa un termine a decorrere dal quale il rapporto cesserà di
esistere (la c.d. disdetta) dando luogo alla risoluzione unilaterale. Ovviamente occorre un preavviso dato
alla controparte con cui si configuri il recesso anche contro la volontà di quest’ultima. In questo caso
ampiamente descritto stiamo parlando pur sempre di “recesso ordinario”, il quale differisce da quello
straordinario, il quale si configura in presenza di anomali funzionali del rapporto obbligatorio e può essere
intimato senza preavviso e con effetto immediato.
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Nel rapporto di lavoro il recesso può provenire tanto dal lavoratore (dimissioni), quanto dal datore di
lavoro (licenziamento): occorre però prestare attenzione al fatto che il lavoratore appartenga ad una
categoria di per sé sottoprotetta e contrattualmente debole, come stabilito dalla carta costituzionale.
Il recesso ad nutum e l’obbligo del preavviso
Il codice civile, riprendendo il R.D.L. 1825/1924 sull’impiego privato, ha confermato la libera recedibilità (ad
libitum, ad nutum, per decisione arbitraria di una parte) di entrambe le parti dal contratto di lavoro,
prevedendo, però, che la parte recedente debba dare un preavviso a seconda di quanto previsto dai
contratti collettivi, o in mancanza secondo gli usi. La ratio del preavviso la ritroviamo nel fatto che la
cessazione del rapporto causi alla parte avversa danni di vario genere. Infatti qualora una parte ometta di
dare preavviso, dovrà l’indennità di mancato preavviso, corrispondente alle retribuzioni che sarebbero
spettate per il periodo di preavviso. Tale indennità, però, è risarcitoria e non sostitutiva del preavviso: il
datore non è chiamato a scegliere.
Recesso per giusta causa
Il recesso, inoltre, può essere esercitato da un contraente anche senza preavviso, a norma dell’art.2119 c.c.
nel momento in cui sussista una “giusta causa” che non consenta la prosecuzione del rapporto.
Ovviamente la giusta causa deve essere reale e non fittizia, altrimenti dovrà essere ugualmente corrisposta
l’indennità di mancato preavviso.
SEZIONE B: IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE
Disciplina limitativa dei licenziamenti e progressiva estensione
La disciplina che abbiamo descritto inerente il recesso unilaterale con o senza preavviso è da considerarsi
come valida ed efficace solo per ciò che concerne le dimissioni, ossia il recesso unilaterale esercitato dal
lavoratore.
Per quanto riguarda il datore di lavoro, in ottemperanza agli articoli della Costituzione che individuavano
nei lavoratori una categoria socialmente sottoprotetta, vi sono stati diversi interventi legislativi volti ad
eliminare il recesso volontario (ad nutum) dell’imprenditore ed a favorire il prestatore tramite
l’introduzione del concetto di recesso vincolato.
Già gli accordi interconfederali, recepiti poi all’interno della L. 604/1966 sui licenziamenti individuali,
prevedeva una tutela obbligatoria a favore del lavoratore licenziato senza giusta causa: il lavoratore
doveva essere reintegrato o in alternativa avrebbe dovuto ricevere un pagamento a titolo di risarcimento
del danno.
L’art.18 della L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) ha del tutto stravolto tale materia, prevedendo una
forma di tutela reale del lavoratore: egli, qualora sia licenziato senza giusta causa, non solo ha diritto al
reintegro, ma anche ad un risarcimento del danno. L’art. 35 dello Statuto limitava l’applicazione dell’art.18
alle imprese con almeno 15 dipendenti. La L.108/1990 ha fatto, poi, in modo che il principio della
giustificazione del licenziamento si applicasse anche alle unità produttive con meno di 15 dipendenti.
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Il licenziamento ad nutum: da regola ad eccezione
Andiamo a vedere in quali casi si continua ad applicare la disciplina codicistica del recesso ad nutum
esercitato dal datore di lavoro.
Anzitutto nel caso di lavoratori domestici e di sportivi professionisti, i quali non ricevono né tutela reale
(reintegro e risarcimento), né tutela obbligatoria (reintegro o indennità).
Altra categoria è quella dei lavoratori in prova: per essi non c’è neanche bisogno del preavviso, almeno che
non fosse stato stabilito un periodo minimo di prova, in quanto in tal caso il recesso non può essere
esercitato prima della scadenza di tale periodo. Tuttavia il periodo di prova può giungere sino a 6 mesi,
dopo i quali il prestatore in prova è soggetto alla tutela contro i licenziamenti, in quanto considerato come
definitivo.
Il recesso ad nutum opera, inoltre, nei confronti dei lavoratori anziani che abbiano compiuto il 65esimo
anno di età ed abbiano maturato il diritto alla pensione di vecchiaia (NON di anzianità): ciò vale, in forza di
una pronuncia della Corte costituzionale di cui abbiamo già parlato, anche per le donne, nonostante il
requisito inferiore di età previsto dalla legge per la pensione di vecchiaia (60 anni), in quanto in materia di
licenziamenti devono essere equiparate agli uomini.
Il recesso ad nutum vale poi per i dirigenti apicali, ossia per coloro ai vertici dell’impresa, in forza di un
rapporto fiduciario diretto con l’imprenditore. Ad essi il preavviso va dato per iscritto ed opera la tutela
contro il licenziamento discriminatorio. Tuttavia i contratti collettivi dei dirigenti hanno previsto un obbligo
di giustificazione da parte dell’imprenditore ed il pagamento di un’indennità supplementare qualora si
accerti, dinanzi ad un collegio arbitrale, che il licenziamento fosse ingiustificato.
Ipotesi di limitazione temporale del licenziamento: infortunio, malattia, gravidanza e puerperio, servizio
militare e funzioni pubbliche elettive
Il licenziamento, secondo quanto dispone l’art. 2110 c.c., incontra un limite temporale in caso di
sospensione dell’attività lavorativa e conservazione del posto dovuta a cause riconducibili, ma non
imputabili, alla persona del lavoratore. Stiamo parlando di tutti casi quali la gravidanza ed il puerperio,
l’infortunio, la malattia, il servizio militare e l’esecuzione di funzioni pubbliche. In tutti questi casi è
ammesso solo il licenziamento per giusta causa. Il licenziamento ad nutum, in realtà, non è invalido, ma
temporaneamente inefficace: ciò vuol dire che trascorso il periodo di comporto, il licenziamento sarà
operativo (ad eccezione delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, per cui un licenziamento di tal genere
non è inefficace, ma del tutto nullo).
Limiti al licenziamento: principio di giustificazione e recesso vincolato
L’art.1 della L.604/1966 stabilisce che, affinché il licenziamento sia legittimo, occorre obbligatoriamente
una giusta causa o un giustificato motivo, che quindi legittimano il recesso del datore di lavoro. In questo
modo il potere di recedere è del tutto imbrigliato, dando seguito ad una sempre maggiore stabilità del
rapporto di lavoro. Sparisce, quindi, la differenziazione tra recesso ordinario e recesso straordinario, solo
per quanto riguarda il recesso del datore di lavoro: abbiamo, infatti, detto che il recesso ordinario
prevedeva il preavviso, mentre per quello straordinario occorreva un’anomali funzionale del rapporto,
ossia una giusta causa. Essendo ora sempre necessaria la giusta causa, il recesso ordinario e quello
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straordinario si trovano a coincidere. Il preavviso, invece, è necessario solo per il licenziamento per
giustificato motivo.
Nozione di giustificato motivo soggettivo e oggettivo
Le due nozioni di giustificato motivo e di giusta causa sono contenute all’interno di documenti legislativi
diversi. La nozione di giusta causa la ritroviamo all’interno dell’art.2119 c.c., mentre quella di giustificato
motivo nasce all’interno dell’art.3 L.604/1966. Partiamo da quest’ultima.
Anzitutto è doveroso attuare una differenza tra giustificato motivo subiettivo (o soggettivo) e giustificato
motivo obiettivo (od oggettivo).
Il primo inerisce ad un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore
(intendendosi per “notevole” un inadempimento di rilevante importanza); sono i contratti collettivi ad
individuare tutta una serie di infrazioni che possono dar luogo al licenziamento, che comunque non
vincolano il giudice nella propria decisione. Abbiamo già detto, inoltre, che in materia di lavoro, essendo
possibile il recesso della parte adempiente per inottemperanza ai propri doveri della controparte, non
risulta operativa la risoluzione per inadempimento. Tuttavia, è ad essa che possiamo rifarci per
comprendere che l’inadempimento e la sua gravità devono essere valutati nell’interesse del creditore. La
giurisprudenza, inoltre, in tema di giusta causa ha affermato che il licenziamento comminato in base ad
essa debba essere notificato entro un termine congruo (requisiti dell’immediatezza e della tempestività).
Tale regola giurisprudenziale vale anche per il giustificato motivo soggettivo.
Il secondo tipo di giustificato motivo, quello oggettivo, si realizza quando vi siano ragioni inerenti all’attività
produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa. Quindi non si configura in
nessuna maniera un inadempimento del lavoratore, ma prevale sul suo diritto alla conservazione del posto
di lavoro l’interesse primario dell’impresa (non dell’imprenditore). Il giudice, tra l’altro, dovrà verificare
solo la sussistenza del giustificato motivo addotto dall’imprenditore, non svolgere un controllo di merito, e
dovrà verificare che il licenziamento costituisse l’extrema ratio, ossia che il datore di lavoro non avesse
alternative per impiegare diversamente l’attività del prestatore, neanche ricorrendo a mansioni diverse.
Anche la sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni svolte, al di là di quella che sia la causa
(infortunio o altro), può fungere da giustificato motivo oggettivo: tuttavia deve essere impossibile il
reimpiego in altre mansioni del lavoratore per giustificare il licenziamento. Il giustificato motivo, inoltre,
ricorre anche quando vi è un periodo di comporto a lungo protratto nel tempo: è vero che il lavoratore
conserva il proprio posto di lavoro e che il rapporto risulta solo sospeso, ma è altrettanto vero che
l’impossibilità temporanea non deve assumere carattere definitivo. In tal caso il licenziamento potrà essere
comminato per tal motivo.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: il TU in materia di sicurezza del lavoro introdotto dal
D.Lgs.81/2008 ha previsto che in caso di sopravvenuta inidoneità del lavoratore alle mansioni specifiche, il
datore di lavoro, anche modificando l’assetto aziendale, ha l’obbligo di adibirlo ad altre mansioni cui risulti
idoneo, non solo equivalenti o inferiori con conservazione della retribuzione, ma anche superiori con
diritto di acquisire il definitivo inquadramento nella qualifica superiore.
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Nozione di giusta causa
La nozione codicistica di “giusta causa”, contenuta all’interno dell’art.2119 c.c., vedeva la stessa come un
accadimento che non consentisse la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro e più
specificatamente come un fatto che giustificasse la mancanza di preavviso del recesso.
Ovviamente dopo la L. 604/1966 e l’introduzione del giustificato motivo soggettivo, inerente
l’inadempimento del lavoratore, le cose sono cambiate.
Anche la giusta causa è riconducibile ad un inadempimento del lavoratore, ma si deve trattare di un
inadempimento ben più grave rispetto a quello del giustificato motivo soggettivo, e questo non in termini
qualitativi (facendo riferimento alla nozione di fiducia), bensì quantitativi. La contrattazione collettiva ha
individuato, inoltre, dei casi in cui si configura una giusta causa (furto, rissa sul posto di lavoro,
danneggiamento volontario dei macchinari ecc.), che comunque non sono vincolanti per il giudice. Inoltre
nel caso di licenziamento per giusta causa non è necessario il preavviso, benché il licenziamento debba
essere tempestivo ed immediato, senza far trascorrere troppo tempo.
Ipotesi di nullità del licenziamento
Sono nulli, secondo la legge, il licenziamento adottato per motivi discriminatori, per causa di matrimonio e
quello delle lavoratrici madri.
Si ha licenziamento discriminatorio nel momento in cui il recesso unilaterale del datore di lavoro sia dovuto
a ragioni di razza, lingua, handicap, sesso, religione o appartenenza ai sindacati, indipendentemente dalla
motivazione adottata. In tali casi è sempre applicabile la tutela reale (reintegro e risarcimento), ed a tali
casi è equiparato il licenziamento per ritorsione, ossia in base a comportamenti sgraditi al datore.
Anche i licenziamento per matrimonio è nullo, essendo già inapplicabili ad un contratto lavorativo clausole
di nubilato: esso è nullo se intimato dal giorno delle pubblicazioni inerenti il matrimonio sino ad un anno
dopo lo stesso, anche se il datore di lavoro ha la possibilità di dimostrare che ricorra una delle condizioni,
legittimanti il licenziamento, previste per la lavoratrice gestante o puerpera. Anche le dimissioni della
lavoratrice presentate in tal periodo, se non confermate entro un mese alla Direzione provinciale del
lavoro, sono nulle.
Sono nulli, inoltre, i licenziamenti delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri che abbiano ad oggetto
proprio la condizione di genitore.
Forma del negozio di licenziamento
Ulteriore requisito del licenziamento, oltre alla giusta causa o al giustificato motivo e fatta eccezione per le
ipotesi di nullità sopra descritte, è quello della forma del negozio. Il licenziamento va comunicato per
iscritto, mentre le motivazioni dello stesso non devono essere comunicate contestualmente, perché il
lavoratore potrebbe aver interesse affinché non vengano rese pubbliche. Il lavoratore ha 15 giorni dalla
comunicazione del recesso per richiederne i motivi ed il datore provvederà nei successivi 7 giorni
obbligatoriamente, perché è proprio nelle motivazioni che possiamo rinvenire l’effettività del
licenziamento. Tra l’altro le motivazioni non possono essere in alcun modo modificate in un secondo
momento dal datore di lavoro. Qualora non vengano osservati gli adempimenti formali, il licenziamento è
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inefficace, ma non in senso stretto (inopponibilità degli effetti negoziali), bensì in merito alla nullità dello
stesso. Il datore di lavoro potrà comunque riformulare, con effetti solo futuri, il licenziamento.
Impugnazione del licenziamento e termine di decadenza. L’onere della prova.
L’art. 5 della L. 604/1966 pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova inerente l’esistenza della
giusta causa o del giustificato motivo.
Ovviamente il licenziamento può essere impugnato dal lavoratore, ma non solo tramite ricorso giudiziale,
bensì anche tramite una comunicazione scritta al datore di lavoro, l’operato dei sindacati o tramite
comunicazione di espletamento della procedura di conciliazione obbligatoria. Tutto ciò deve essere fatto
entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento o dalla comunicazione dei motivi. Il termine si
applica anche in caso di licenziamento ritorsivo o discriminatorio, ma non negli altri casi di nullità
(matrimonio, mancanza di forma scritta, caso dei lavoratori-genitori).
Art. 18 dello Statuto e tutela reale del posto di lavoro
I rimedi contro il licenziamento illegittimo, al di là di quale sia la causa, tengono in considerazione le
dimensioni aziendali. L’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, infatti, prevede un forma di tutela reale, che
comporta la reintegrazione obbligatoria del lavoratore, solo a favore delle imprese con più di 15 dipendenti
all’interno della stessa unità produttiva o dello stesso comune (5 dipendenti per le imprese agricole), o
comunque con almeno sessanta dipendenti totali . In caso contrario si ha una tutela obbligatoria: il datore
di lavoro può scegliere tra la riassunzione ed il pagamento di una penale. Nel computo dei dipendenti utili
per raggiungere i limiti sopra citati, rientrano tutti i lavoratori occupati, compresi dirigenti, lavoratori con
contratto di formazione e lavoro (non più stipulabile), a tempo indeterminato parziale. Sono esclusi,
invece, i lavoratori assunti con contratto di reinserimento, quelli assunti sulla base di un contratto di
somministrazione, con contratto di apprendistato o di inserimento, e sono, inoltre, esclusi il coniuge ed i
parenti entro il secondo grado del datore di lavoro.
Entro questi limiti il licenziamento nullo, discriminatorio o altrimenti vietato, quello annullabile, per
mancanza di giusta causa o giustificato motivo, e quello inefficace, per mancata osservanza dei requisiti di
forma, il datore di lavoro è condannato alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno
subito dal lavoratore.
Il diritto alla reintegrazione ed al risarcimento si prescrive in 10 anni (diversamente dalle singole azioni di
nullità e annullamento in linee generali, l’una imprescrittibile, l’altra quinquennale).
L’incoercibilità dell’obbligo di reintegrazione: la prosecuzione del vinculumiuris
La sentenza di condanna di reintegrazione obbliga il datore di lavoro alla reintegrazione del prestatore. Il
datore deve semplicemente rivolgere un invito al lavoratore a riprendere l’attività e qualora non lo faccia,
versa in una situazione di mora credendi, dovendo comunque la retribuzione al lavoratore. Quest’ultimo,
però, deve riprendere l’attività lavorativa entro 30 giorni, altrimenti il rapporto si considera risolto per
dimissioni.
La reintegrazione, quindi, configura un obbligo di fare infungibile (può farlo solo il datore di lavoro) ed
incoercibile. Il legislatore ha però previsto, accanto alla reintegrazione, un’indennità a titolo di risarcimento
del danno, non inferiore a cinque mensilità di retribuzione, per il periodo compreso tra il licenziamento e
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l’effettiva reintegrazione. Inoltre il datore di lavoro dovrà versare per tutto questo periodo i contributi
previdenziali ed assistenziali.
L’art.18 dello Statuto dei lavoratori prevede, inoltre, che il lavoratore di cui è stato previsto la
reintegrazione, opti per un’indennità risarcitoria pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto: si
configura quindi un diritto potestativo che permette al lavoratore la scelta tra reintegrazione ed
indennità/risoluzione del rapporto.
Reintegrazione nel posto di lavoro e procedure d’urgenza: art. 700 c.p.c. ed art.28 dello Statuto
Per la tutela del licenziamento illegittimo è prevista una procedura giudiziale che acceleri i tempi della
decisione: si tratta del procedimento cautelare d’urgenza previsto dall’art. 700 del c.p.c: il lavoratore ha
l’onere di dimostrare l’illegittimità del licenziamento e più precisamente la NON MANIFESTA
INFONDATEZZA del diritto vantato (fumus bon iuris) e l’esistenza di un pregiudizio irreparabile ed
imminente per sé ed i familiari (periculum in mora).
Per i casi di licenziamento discriminatorio antisindacale è previsto un apposito strumento dall’art.28 dello
Statuto dei lavoratori: il giudice del tribunale, infatti, può decidere da subito per un reintegro del soggetto
e qualora il datore di lavoro non ottemperi, va incontro alle conseguenze previste dall’art.650 del codice
penale.
N.B. la pagina 201, almeno soggettivamente, non è comprensibile o almeno non si presenta dettagliata ed
esaustiva. La lettura dell’art.28 dello Statuto peggiora la situazione, non aiutando nell’interpretazione.
La tutela obbligatoria e l’alternativa tra riassunzione e pagamento di una penale
Nei casi esclusi dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori e, in linee generali, nei casi che non rientrano nella
tutela reale, si attua una tutela obbligatoria. Il datore di lavoro è comunque obbligato a giustificare il
licenziamento, ma qualora non lo faccia ha dinanzi a se due alternative: reintegrare entro tre giorni il
lavoratore o corrispondergli un’indennità in base alla scelta del giudice e relativa all’anzianità di servizio del
lavoratore. Si va da un minimo di 2,5 mensilità di retribuzione fino a 14 mensilità in caso di lavoratore con
almeno 20 anni di anzianità di servizio. Il licenziamento, comunque, è in tal caso illegittimo, ma NON
annullabile, semplicemente illecito: il rapporto di lavoro si estingue in ogni caso, almeno che il datore non
disponga la riassunzione del prestatore.
Licenziamento disciplinare ed applicabilità dell’art.7 dello Statuto dei lavoratori
Il licenziamento per motivi disciplinari deve conformarsi all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, il quale, come
abbiamo avuto modo di dire nel capitolo IV, sottopone il potere disciplinare a vincoli procedurali (affissione
del codice disciplinare, contestazione degli addebiti ecc).
N.B. se sei incerto rivedi il paragrafo, forse sei stanco e non riesci a fare mentalmente i diversi
collegamenti. O forse il libro riporta un testo in aramaico tradotto di merda.
Tutela del lavoratore nelle altre ipotesi di invalidità del licenziamento
Abbiamo visto come, per i casi contemplati dall’art.18 dello Statuto dei lavoratori, valga la regola della
reintegrazione del lavoratore e del risarcimento del danno in caso di licenziamento inefficace per ragioni
formali, annullabile per difetto di giusta causa o giustificato motivo, nullo per motivi discriminatori. La
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Corte costituzionale ha, poi, ribadito che tale applicazione va estesa anche a casi di licenziamento non
contemplati dalla L. 604. Tuttavia abbiamo avuto modo di precisare che l’art.18 incontra dei limiti dovuti
alle dimensione dell’impresa per ciò che concerne la tutela reale. Tra l’altro l’alternativa tutela obbligatoria
può applicarsi, in forza dell’art.8 della L. 604/1966, solo nei casi di licenziamento in cui difetta il giustificato
motivo o la giusta causa.
Ma che succede quando il licenziamento è invalido per ragioni diverse dal difetto di giustificazione o
quando si concretizza in rapporti soggetti al regime di libera recedibilità?
Anzitutto quando il licenziamento è discriminatorio è sempre sanzionato con la reintegrazione (art. 3 della
L. 108/1990).
In caso, invece, di licenziamento della lavoratrice madre (o del lavoratore padre), di licenziamento intimato
in base alla richiesta di fruizione dei congedi per motivi di cura familiare e di licenziamento per causa di
matrimonio, si deve ritenere che, tanto in caso di tutela obbligatoria quanto di libera recedibilità, vi siano
comunque i comuni effetti civilistici, ossia il rapporto continua e vi è la mora credendi del datore di lavoro.
In caso di licenziamento inefficace, e pertanto nullo, per mancanza di forma, in caso di tutela obbligatoria,
esso è da considerarsi come tamquam non esset, ossia come se non esistesse, anche se è rinnovabile per il
futuro (ex nunc) secondo le forme previste. La suddetta L.108/1990 ha previsto, inoltre, l’obbligo di
comunicazione in forma scritta per i dirigenti, che come sappiamo rientrano nell’area della libera
recedibilità: ciò vuol dire che anche in tutti gli altri casi appartenenti alla medesima area, l’obbligo di
comunicazione (rispetto della forma) è essenziale, onde evitare che esso venga considerato come “non
posto in essere”.
Nell’ipotesi, invece, di licenziamenti intimati in violazione dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, e quindi in
violazione delle garanzie procedurali, essendo essi parificati al licenziamento ingiustificato, nell’area della
tutela obbligatoria andrà applicato l’art. 8 della L. 604/1966, mentre nell’area della libera recedibilità sarà
dovuta esclusivamente l’indennità di mancato preavviso.
Le c.d. organizzazioni di tendenza
Per organizzazioni di tendenza s’intendono quelle organizzazioni che perseguono fini ideologici, senza
scopo di lucro, di natura politica, culturale, sindacale, di istruzione, di religione o di culto.
Tali organizzazioni, in forza dell’art. 4 della L. 108/1990, sfuggono all’applicazione dell’art. 18 L. 300/1970
anche in caso di rispetto dei requisiti dimensionali. Ad esse si applica una tutela obbligatoria, salvo i casi di
dirigenti, lavoratori in prova o anziani in età pensionabile, soggetti tutti alla libera recedibilità. Ovviamente
l’organizzazione non deve svolgere attività d’impresa, altrimenti sarà soggetta all’applicazione dell’art. 18.
Il tentativo obbligatorio di conciliazione
Prima della L.108/1990 l’esperimento del tentativo di conciliazione era facoltativo.
Con l’art. 5 della 108 il tentativo di conciliazione diventa necessario, nell’area della sola tutela obbligatoria,
per poter accertare giudizialmente l’illegittimità del licenziamento. Il giudice che nel corso della prima
udienza rilevi che non è stato esperito il tentativo di conciliazione, decreta l’improcedibilità della domanda,
sospende il giudizio e fissa un termine di 60 giorni per proporre il tentativo di conciliazione.
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Il D.Lgs. 80/1998 ha reso l’esperimento del tentativo di conciliazione, condizione necessaria di procedibilità
della domanda in tutte le controversie di lavoro, quindi anche in caso di tutela reale.
SEZIONE C: TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO
Dall’indennità di anzianità al trattamento di fine rapporto
Abbiamo precedentemente sottolineato in più occasioni come la retribuzione sia il corrispettivo
dell’attività lavorativa di un soggetto. Per ciò che concerne gli effetti patrimoniali al momento della
cessazione del rapporto di lavoro, la L. 287/1982 ha sancito la sostituzione della c.d. indennità di anzianità,
prevista dal testo originario (oggi modificato) dell’art. 2120 c.c., con il trattamento di fine rapporto (t.f.r.),
consistente in un somma di denaro, da corrispondere al lavoratore da parte del datore di lavoro, al
momento della conclusione del rapporto contrattuale. L’obbligazione, quindi, nasce al momento della
cessazione. Già la precedente “indennità di anzianità” aveva subito notevoli modifiche col passare del
tempo, dovute ad una variazione della sua funzione da riparatoria-previdenziale, in quanto vista come
un’indennità per il lavoro prestato, a retributiva-previdenziale, da corrispondere in qualsiasi caso di
cessazione del rapporto lavorativo. Il legislatore ha previsto l’istituzione di un fondo di garanzia presso
l’INPS, il quale assicura l’effettivo godimento del t.f.r. da parte del prestatore.
Mentre l’indennità di anzianità veniva calcolata tramite il prodotto (ricalcolo) di una quota dell’ultima
retribuzione per il numero di anni di servizio, il t.f.r. viene determinato dalla somma delle quote di
retribuzione accantonate annualmente.
Disciplina del t.f.r. e maturazione del diritto al t.f.r.
La disciplina del t.f.r. è contenuta nel novellato art.2120 c.c., il quale prevede che esso spetti al lavoratore
al momento della cessazione del rapporto, senza interesse verso la causa della cessazione e viene calcolato
in base agli anni di servizio. Più precisamente possiamo dire che si vanno a sommare le quote di
retribuzione accantonate annualmente, le quali si ricavano prendendo in considerazione la “retribuzione
annua” e dividendola per 13,5.
Va chiarito che non vi è un obbligo di accantonamento annuale del t.f.r. (salvo che per le s.p.a.) , ma una
quota annua viene vincolata nell’interesse del lavoratore, formando un conto a parte. Il lavoratore non può
goderne fino alla cessazione del rapporto di lavoro, ma può aver interesse a farne accertare, anche
giudizialmente, l’importo.
Base di calcolo, frazionabilità intro-annuale ed indicizzazione del t.f.r.
Per ciò che riguarda la base di calcolo del t.f.r. l’art. 2120 c.c. precisa che, per determinare la retribuzione
annua, vadano prese in considerazione tutte le somme che il datore di lavoro ha corrisposto al prestatore,
escluse quelle di carattere occasionale (rimborsi spese) ed incluse, invece, le prestazioni in natura, di cui si
computa l’equivalente in denaro. Il principio dell’omnicomprensività della retribuzione (secondo cui la
retribuzione include tutto ciò che a carattere predeterminato è corrisposto dal datore di lavoro) può essere
derogato solo dai contratti collettivi.
Va sottolineato, inoltre, il principio della “frazionabilità introannuale” del t.f.r., il quale prevede che la
quota di retribuzione annua venga ridotta per le frazioni di anno, in quanto vengono computati come mesi
interi solo le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni.
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In tutti i casi di sospensione momentanea del rapporto di lavoro (malattia, infortunio e maternità, nonché il
caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l’integrazione salariale) debba essere
computato nella retribuzione annua l’equivalente a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto qualora fosse
stato in servizio.
La quota annua va poi incrementata, alla scadenza dell’anno stesso, dell’1,5% più il 75% dell’aumento
dell’indice ISTAT dei prezzi di consumo.
Diritto all’anticipazione del t.f.r.
L’art. 2120 c.c. prevede, inoltre, la possibilità per i lavoratori con almeno 8 anni di servizio a chiede
un’anticipazione del t.f.r. di importo non superiore al 70% del t.f.r. fino a quel momento maturato.
L’anticipazione può essere richiesta una sola volta durante tutto il rapporto di lavoro e deve essere
giustificata da comprovati motivi di necessità di cure mediche o per l’acquisto della prima casa, nonché per
le spese da sostenere da parte del genitore lavoratore nei primi 8 anni di vita del bambino. Tra l’altro, il
datore di lavoro, non è obbligato a corrispondere l’anticipazione, in quanto legittimati all’anticipazione
sono solo il 10% degli aventi titolo per raggiungimento degli 8 anni di servizio e comunque non più del 4%
dei dipendenti di un’impresa. Tra l’altro l’impresa che versi in una condizione di crisi non potrebbe
fronteggiare il pagamento anticipato di t.f.r. e ne è esonerata.
I contratti collettivi, ma anche quelli individuali, possono prevedere condizioni di miglior favore per quanto
concerne i limiti soggettivi ed oggettivi imposti all’erogazione dell’anticipazione.
Indennità per causa di morte
L’art. 2122 c.c. prevede che in caso di morte del lavoratore, il t.f.r. sino ad allora maturato deve essere
corrisposto ai superstiti del lavoratore: coniuge, figli e, se viventi a suo carico, parenti entro il terzo grado
ed affini entro il secondo, dipendentemente dal bisogno di ciascuno. Insieme ad esso va corrisposta anche
una somma PARI all’indennità di mancato preavviso.
Un orientamento recente della dottrina e della giurisprudenza ha previsto che tali somme siano corrisposte
a titolo di successione, ed una prova è data dal fatto che il lavoratore può nel testamento specificare come
vadano attribuite in caso di mancanza dei soggetti aventi diritto, e non iure proprio ai soggetti indicati
dall’art. 2122 c.c., come invece credeva una parte della dottrina e la stessa giurisprudenza in precedenza.
Campo di applicazione della nuova disciplina. Efficacia assolutamente inderogabile
L’art. 4 della L.297/1982 ha previsto che la disciplina del t.f.r. si applichi a tutti i rapporti di lavoro
subordinato, ivi compresi quelli del personale navigante aereo e marittimo. In precedenza era escluso il
settore del pubblico impiego, ma dopo la privatizzazione dello stesso, la disciplina in questione si è estesa
anche ai lavoratori pubblici.
Viene meno, in materia di t.f.r., il principio del favor, il quale prevede che la contrattazione collettiva o
individuale possa prevedere trattamenti migliori per il lavoratore: in questo caso la disciplina fin qui
esaminata ha EFFICACIA ASSOLUTAMENTE INDEROGABILE, tanto in peggio quanto in meglio.
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Forme volontarie e complementari di previdenza
Accanto alle forme obbligatorie di previdenza previste dalla legge, sono previste forme volontarie di
previdenza che l’imprenditore può realizzare tramite l’ausilio e la partecipazione dei propri dipendenti, al
fine di erogare prestazioni economiche in caso di eventi e bisogni del lavoratore: sono vere e proprie forme
di retribuzione differita in funzione previdenziale. L’art. 2123 c.c. consente al datore di lavoro di farsi
carico, accanto all’erogazione del t.f.r., di prestazioni SOSTITUTIVE O INTEGRATIVE in caso di sospensione
dell’attività lavorativa.
Sono, inoltre, nati col passare del tempo e soprattutto con il ridimensionamento del sistema previdenziale
pubblico per far fronte alla spesa pubblica, forme pensionistiche complementari: il lavoratore, oggi, nel
termine di 6 mesi dall’assunzione, può scegliere se destinare il proprio t.f.r. a fondi pensione
complementari, istituiti dalle stesse imprese o da altre imprese private, rinunciando così alla totalità
dell’ammontare del t.f.r. o ad una percentuale dello stesso, per poter godere, una volta cessato il rapporto
di lavoro, oltre che della propria pensione anche di una pensione integrativa. Ciò può essere realizzato non
solo tramite il t.f.r., ma anche tramite pagamenti dello stesso lavoratore a favore di tali fondi: il lavoratore,
infatti, può liberamente scegliere di lasciare il t.f.r. al suo posto, godendone alla cessazione del rapporto di
lavoro e senza destinarlo a fondi pensionistici complementari, ma partecipando tramite il proprio apporto
individuale a fondi pensionistici alternativi. Va sottolineato che il termine di 6 mesi è abbastanza
importante: in assenza di una dichiarazione espressa del lavoratore, il t.f.r. verrà automaticamente
destinato alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, oppure a quella alla
quale l’azienda abbia aderito con il maggior numero di lavoratori, o in mancanza di accordo tra le parti e di
una forma pensionistica collettiva, ad una forma pensionistica complementare presso l’INPS.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: la L.296/2006 (finanziaria 2007) ha previsto che il
lavoratore debba scegliere se destinare il TFR ad una forma di previdenza complementare o lasciarlo
presso il datore di lavoro entro 6 mesi dall’assunzione. Qualora non effettui alcuna scelta, esso convoglierà
inevitabilmente presso la forma pensionistica collettiva. Tra l’altro, qualora l’azienda abbia più di 50
dipendenti, il datore di lavoro dovrà trasferire il TFR maturando lasciatogli dal lavoratore ad un fondo
apposito dell’INPS.
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CAPITOLO OTTAVO – GARANZIE DEI DIRITTI DEI LAVORATORI
Il sistema delle garanzie dei diritti del prestatore di lavoro
Per “garanzia”, sia essa costituzionale, giurisdizionale o patrimoniale, s’intende un rafforzamento della
tutela di un interesse o di un diritto soggettivo, già protetto all’interno dell’ordinamento perché meritevole
di tutela. I diritti dei lavoratori, in particolare, sono circondati da una serie di norme poste a garanzia di tali
diritti e che godono di inderogabilità, non potendo l’autonomia privata, in alcun modo, discostarsene.
SEZIONE A: LE GARANZIE DEL CREDITO E DEI DIRITTI DEI LAVORATORI
Garanzia generale patrimoniale e cause legittime di prelazione; azione di rivalsa; privilegio generale sui
mobili
Partiamo, nell’analisi delle garanzie poste a tutela dei lavoratori, da quelle inerenti il diritto di credito che il
lavoratore vanta nei confronti del datore di lavoro.
L’art.2740 c.c., in tema di responsabilità, prevede che il debitore risponda dell’adempimento
dell’obbligazione con tutti i suoi beni presenti e futuri. Quindi il datore di lavoro può arrivare a rispondere
con i suoi beni dell’obbligazione nei confronti dei lavoratori.
L’art. 2741 c.c. al comma 2 prevede che siano cause legittime di prelazione, per cui quindi alcuni creditore
si possano rifare prima degli altri sul debitore, il privilegio, il pegno e l’ipoteca. Il prestatore di lavoro può
vantare, nei confronti del datore di lavoro, un privilegio in considerazione della causa del credito: in
particolare si tratta di un privilegio generale sui mobili del debitore (il datore di lavoro) disposto
dall’art.2751 bis c.c., il quale prevede che tale privilegio gravi sui beni mobili in funzione delle “retribuzioni
dovute ai lavoratori subordinati, delle indennità dovute per effetto della cessazione del rapporto
lavorativo, dei danni conseguenti alla mancata corresponsione di contributi previdenziali ed assicurativi,
nonché del risarcimento del danno subito per effetto di licenziamento inefficace, nullo o annullabile”.
L’art.2777 comma 2 c.c. prevede che tale privilegio sia secondo solo a quello per spese di giustizia. Ancora
l’art. 2776 c.c. prevede che qualora i beni mobili siano insufficienti per soddisfare i relativi crediti
privilegiati esistenti, ci si potrà rifare sui beni immobili del datore di lavoro, dando precedenza ai crediti
relativi al t.f.r. ed all’indennità di mancato preavviso, in secundis ai crediti di lavoro, ed in ultima ipotesi ai
crediti dello Stato e dei creditori chirografari (ricordiamo, quelli che non godono di prelazione).
L’art. 1676 c.c. tutela, inoltre, il lavoratore, tramite un’azione diretta di rivalsa, nell’ipotesi di prestazione
del lavoro a favore di un appaltatore: in tal caso il lavoratore potrà rifarsi anche sul committente nei limiti
di quanto dovuto dallo stesso all’appaltatore. Tale tutela è stata rafforzata dall’introduzione della
responsabilità solidale dell’appaltante e dell’appaltatore, entro il limite temporale di un anno dalla
cessazione dell’appalto, per ciò che concerne i debiti retributivi e previdenziali: passato un anno continua
ad applicarsi il solo art.1676 c.c.
Tutela dei crediti di lavoro nelle procedure concorsuali. Garanzia per t.f.r. e altri crediti di lavoro
Le norme suddette sui privilegi valgono anche in caso di fallimento o di altre procedure concorsuali.
E’ previsto che in caso di esercizio provvisorio dell’attività d’impresa, i crediti maturati dai lavoratori siano
considerati crediti di massa e pertanto collocati al primo posto nella distribuzione delle somme ricavate
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dalla liquidazione dell’attivo. Tuttavia, nella maggior parte dei casi l’attivo scaturito dalla liquidazione è
insufficiente a sanare i debiti dell’impresa nei confronti dei lavoratori. In materia sono intervenute due
direttive dell’Unione Europea (allora Comunità), e precisamente la 987/1980 e la 74/2002, le quali hanno
previsto la tutela dei crediti di lavoro in tutte le ipotesi di procedure concorsuali. Per dare attuazione alla
prima di queste direttive, la 987/1980, nel 1982 venne istituito un fondo di garanzia presso l’INPS,
alimentato dal contributo delle aziende, il quale si sarebbe sostituito al datore di lavoro in caso
d’insolvenza o di semplice inadempienza di quest’ultimo nella corresponsione del t.f.r.
Dopo ben 10 anni trascorsi dall’emanazione della direttiva, lo Stato italiano non aveva ancora dato
applicazione integrale al documento di matrice europea, non avendo previsto una tutela nell’ambito delle
procedure concorsuali di tutti gli altri crediti di lavoro diversi dal t.f.r e pertanto venne condannato a
rispondere dei danni derivanti dalla mancata attuazione della direttiva. In seguito venne emanata una
disciplina apposita.
Torniamo per il momento al primo intervento legislativo italiano, quello del 1982, inerente l’istituzione del
fondo di garanzia. Lo stesso legislatore ha inteso tutelare i lavoratori tanto in caso di insolvenza del datore
di lavoro accertata in sede di procedura concorsuale, quanto in caso di inadempienza del datore di lavoro
non assoggettabile a procedure concorsuali a norma dell’art.1 della legge fallimentare. Nella prima ipotesi
il lavoratore, entro 15 giorni dal deposito dello stato passivo o dalla sentenza di omologazione del
concordato preventivo, può far domanda per il pagamento del t.f.r. da parte del Fondo. Nella seconda
ipotesi, invece, il lavoratore è tenuto prima ad esperire l’esecuzione forzata e solo nel caso in cui essa
risulti insufficiente per l’erogazione del t.f.r., può rivolgersi al Fondo. In ogni caso il Fondo di garanzia deve
eseguire il pagamento entro 60 giorni dalla richiesta, surrogandosi nella posizione di creditore privilegiato
del lavoratore.
Per quanto concerne il secondo intervento legislativo italiano di completa attuazione della direttiva
287/1980, possiamo dire esso si è avuto con il D.lgs. 80/1992, il quale ha previsto che il Fondo di garanzia si
occupi, anche, degli altri crediti da lavoro spettanti ai prestatori, nel limite però relativo agli ultimi 3 mesi di
rapporto di lavoro ed entro un massimale predeterminato. Il lavoratore, per questi crediti, può chiedere
l’intervento del Fondo in tutti i casi di procedure concorsuali. Qualora il datore non sia assoggettato alle
stesse in previsione della legge fallimentare, occorrerà, come abbiamo visto per il t.f.r., l’insufficienza
dell’esecuzione forzata per potersi rivolgere al Fondo. Gli “ultimi tre mesi” vanno calcolati o dalla data del
provvedimento di apertura della procedura concorsuale, o dalla data d’inizio dell’esecuzione forzata, o
dalla data di cessazione del rapporto lavorativo, o dalla data di cessazione dell’esercizio provvisorio o di
messa in liquidazione dell’impresa. La garanzia offerta dal Fondo si prescrive entro un anno ed il
pagamento non è cumulabile con il trattamento di CIG fruito nei 12 mesi precedenti la procedura
concorsuali, né tanto meno è cumulabile con l’indennità di mobilità corrisposto nei 3 mesi successivi alla
risoluzione del rapporto di lavoro.
La nuova direttiva 75/2002, invece, ha previsto una tutela a favore dei lavoratori le cui imprese siano
presenti in 2 Stati europei differenti e costituite nello Stato diverso da quello di appartenenza del
lavoratore.
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Vincoli alla destinazione del credito
Il credito che il lavoratore vanta in forza della propria attività lavorativa non è tutelato dalla legge solo nei
confronti del debitore, per cui abbiamo visto le cause di prelazione, ma anche nei confronti dei creditori
del lavoratore: gravano, sul credito da lavoro subordinato, dei vincoli alla destinazione. La legge stabilisce
l’assoluta indisponibilità degli assegna familiari, i quali però hanno carattere previdenziale e non
retributivo, mentre per i crediti da stipendio o salario e per le indennità di anzianità è previsto che essi
siano pignorabili, sequestrabili e soggetti a compensazione o cessione di credito nella misura di un quinto
(molto spesso si sente parlare della cessione del quinto dello stipendio: è proprio a questa misura che si fa
riferimento; il lavoratore vincola un quinto della sua retribuzione per aver accesso a prodotti finanziari).
Anche i fondi speciali di previdenza, predisposti dall’imprenditore a favore dei lavoratori, sono vincolati
nella loro destinazione, costituendo patrimonio separato sul quale i creditori non possono rifarsi.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: va aggiunto, a quanto appena detto, che le somme
percepite dal lavoratore a titolo di retribuzione o di qualsivoglia indennità, su provvedimento del giudice
competente per materia, possono essere pignorate per crediti alimentari. Il pignoramento è previsto,
anche, nella misura di 1/5 per i debiti da tributi dovuti allo Stato, alle Province ed ai Comuni.
Volontariamente, infine, il lavoratore può cedere 1/5 del proprio credito da retribuzione ai propri creditori
o al datore di lavoro per debiti con lo stesso.
Trasferimento d’azienda: tutela dei crediti di lavoro e dell’occupazione. Profili generali.
Un’ulteriore forma di garanzia dei crediti, accanto ai vincoli alla destinazione ed alle cause di prelazione, è
quella offerta dall’art.2112 c.c., il quale va a disciplinare gli effetti del trasferimento d’azienda sui rapporti
di lavoro, tutelando l’interesse non solo ai diritti di credito dei lavoratori, ma anche alla conservazione del
posto di lavoro.
Il trasferimento d’azienda è stato oggetto di ben 3 direttive europee, la 77/187, la 98/50 ed infine la
2001/23. L’Italia, come spesso avviene, è risultata inottemperante all’adeguamento dell’ordinamento
interno ed all’attuazione della direttiva. Inoltre gli interventi di attuazione in seguito posti in essere, sono
risultati confusionari, novellando dapprima una parte dell’art.2112 c.c. ed in seguito, per ben due volte,
l’intero articolo del codice, nonché l’art.47 della L.428/1990, attuativo delle direttive europee.
Nozione di trasferimento d’azienda. Concetto di entità economica organizzata
Per capire quale sia il campo di applicazione della disciplina legale che tutela i lavoratori, dobbiamo fornire
una definizione di “trasferimento d’azienda”, contenuta principalmente all’interno dell’art. 2112 c.c.
comma 5: per trasferimento d’azienda s’intende un’operazione volta al cambiamento della titolarità di
un’attività economica organizzata, per mezzo di fusione o cessione, preesistente al trasferimento e che
conserva nel trasferimento la propria identità, al di là di quale sia la tipologia negoziale o il provvedimento
che determina il trasferimento. Rientrano, quindi, in tale definizione tutti mutamenti della persona
dell’imprenditore, purché persista un’attività economica organizzata.
La seconda parte del comma 5 prevede, poi, che possano essere trasferite anche parti d’azienda, intese
come articolazioni funzionalmente autonome di un’attività economica organizzata, individuate come tali
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AL MOMENTO DEL TRASFERIMENTO, e non precedentemente come invece pretendeva la prima parte del
comma in questione. Ciò è stato previsto per garantire la cessione di parti d’azienda prive di una propria
autonomia funzionale prima del trasferimento.
Per la Corte di giustizia dell’Unione Europea, inoltre, si considera trasferimento d’azienda anche il semplice
mutamento di soggetti nello svolgimento di un’attività, senza che sia necessario il trasferimento di
elementi patrimoniali materiali o immateriali. Per uniformare il diritto comunitario, il legislatore europeo
ha dovuto emanare la direttiva 98/50, per fare in modo che quanto previsto dalla Corte di giustizia fosse
inglobato anche nel testo della vecchia direttiva 77/187.
Uno degli interventi legislativi italiani in materia, il D.Lgs. 276/2003, ha previsto che l’acquisizione di
personale già impiegato in un appalto, a seguito del subentro di un nuovo appaltatore, non sia da
considerarsi come trasferimento d’azienda o di parte di essa. Il testo di tale decreto sembrerebbe in
contrasto con l’interpretazione della Corte di Giustizia e con la direttiva comunitaria che ne ha recepito il
volere, almeno che non si interpreti in senso limitativo il disposto del legislatore italiano, ossia nel senso
che il mero trasferimento di personale non possa essere considerato come integrante la fattispecie del
trasferimento di un’attività economica organizzata.
P.S. a mio parere la dottrina e l’autore del libro hanno cercato una giustificazione al dettato legislativo, che
si presenta nettamente in contrasto con la direttiva.
Principio della continuità del rapporto di lavoro e cessione di parti o fasi dell’attività produttiva
Uno degli interessi principali del lavoratore in caso di trasferimento d’azienda è la conservazione del posto
di lavoro, senza tra l’altro mutamenti nelle proprie condizioni lavorative. L’art. 2558 c.c., in tema di
successione nei contratti in caso di cessione d’azienda, prevede il subentro dell’acquirente in tutti i
contratti dell’alienante, salvo patto contrario con lo stesso alienante. In tema di rapporti di lavoro la norma
è inderogabile, nel senso che non può esistere un tale accordo tra cedente e cessionario, salva la possibilità
del recesso giustificato del cedente. Si tende quindi a tutelare i rapporti di lavoro preesistenti rispetto al
trasferimento. Il consenso dei lavoratori non è in alcun modo richiesto, ma essi hanno comunque diritto,
nei tre mesi successivi al trasferimento e qualora riscontrino una variazione delle condizioni lavorative, a
rassegnare le dimissioni per giusta causa, avendo così diritto all’indennità di mancato preavviso.
La tutela apprestata dall’art. 2112 c.c. è però vantaggiosa solo nel caso di trasferimento totale dell’azienda,
mentre in caso di trasferimento di parti autonomamente o meno funzionali, i lavoratori potrebbero
trovarsi dinanzi a contratti collettivi meno favorevoli o alla mancata attuazione dell’art. 18 dello Statuto dei
lavoratori per evidenti limiti dimensionali e quindi alla mancanza di applicazione della tutela reale.
Tutela individuale e collettiva del lavoratore nel trasferimento. Trasferimento d’azienda in caso di
procedure concorsuali e crisi aziendali
A tutela del lavoratore l’art.2112 comma 2 c.c. prevede la solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti
retributivi e contributivi vantati dai lavoratori prima del trasferimento: il cedente, quindi, rimane obbligato
insieme al cessionario, solidalmente appunto, per il pagamento degli stessi, salvo liberazione del cedente
tramite procedure conciliative. Se tra cedente e cessionario, inoltre, è previsto un contratto d’appalto a
seguito del trasferimento d’azienda, per i trattamenti retributivi e contributivi è prevista la responsabilità
solidale dell’alienante e dell’acquirente per il periodo di un anno dalla cessazione dell’appalto.
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I lavoratori, inoltre, in seguito al trasferimento dell’azienda, devono conservare i trattamenti economici e
normativi previsti dai contratti collettivi.
Per quanto riguarda la consultazione sindacale, che tutela collettivamente i lavoratori, l’art. 47 della
L.428/1990 prevede che sia cedente che cessionario, se l’azienda di cui si vuole perfezionare il
trasferimento ha più di 15 dipendenti, devono comunicare in forma scritta la volontà di addivenire ad una
cessione alle r.s.u. o r.s.a. o comunque ai sindacati di categoria, almeno 25 giorni prima della conclusione
dell’atto di trasferimento, inserendo tutte le informazioni inerenti i motivi del trasferimento e le
conseguenze economiche, giuridiche e sociali per i lavoratori. Entro 7 giorni le rappresentanze sindacali
possono far richiesta di un “esame congiunto della situazione” ed il cedente ed il cessionario dovranno
provvedervi entro 7 giorni dalla richiesta. L’accordo dovrà essere raggiunto entro 10 giorni, altrimenti
l’esame congiunto si riterrà esaurito. La violazione degli obblighi fin qui previsti viene considerata come
condotta antisindacale.
Qualora si tratti di azienda in crisi o sottoposta a procedura concorsuali, impossibilitata nella continuazione
dell’esercizio di un’attività economica organizzata, la legge favorisce il trasferimento d’azienda, anche
qualora questo porti ad una conservazione parziale dell’occupazione. I lavoratori licenziati avranno diritto
di precedenza nelle assunzioni fatte entro un anno dall’acquirente dell’azienda, essendo inoperante per
essi, come per i lavoratori non licenziati, l’art. 2112 c.c., ossia il diritto al mantenimento dei diritti
precedenti al trasferimento d’azienda.
SEZIONE B: LE RINUNZIE E LE TRANSAZIONI. LA CERTIFICAZIONE.
Compressione della facoltà di disposizione dei diritti del prestatore di lavoro
E’ facile immaginare come un lavoratore, al quale norme inderogabili contenute in leggi o in contratti
collettivi attribuiscano dei diritti, possa essere portato a privarsene tramite una compressione, o
addirittura tramite una soppressione, della propria facoltà di disposizione. L’art. 2113 c.c., novellato dalla
L.533/1973 sulla riforma del processo di lavoro, prevede infatti l’invalidità delle rinunzie e delle transazioni
del lavoratore in tali casi.
Origini della limitazione della facoltà di disposizione, l’originario 2113 c.c. e la riforma del 1973
La tutela del lavoratore per quanto concerne la limitazione della facoltà di disposizione, in origine partiva
dal fatto che la volontà del lavoratore, nel porre in essere una rinunzia od una transazione, fosse viziata da
un timore reverenziale, assimilabile ad una violenza morale, del lavoratore nei confronti del proprio datore
di lavoro. Ciò portò ad una distinzione tra i negozi di disposizione antecedenti o susseguenti alla cessazione
del rapporto di lavoro, ritenendo invalidi i primi e validi i secondi.
Il codice civile accolse quanto appena detto solo parzialmente all’interno dell’art.2113, in quanto equiparò
i negozi di disposizione antecedenti e successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, ma fissò un termine
di tre mesi (dal negozio o dalla cessazione) entro il quale proporre la domanda giudiziale di annullamento
del negozio di disposizione. In un certo senso, quindi, partendo dalla cessazione del rapporto di lavoro, i
negozi successivi sarebbero risultati invalidi, mentre quelli precedenti, qualora fossero trascorsi i tre mesi,
sarebbero rimasti validi.
Il nuovo testo dell’art.2113 c.c., come novellato dalla L.533/1973, ha semplicemente prolungato il termine
per l’impugnazione da 3 a 6 mesi, rendendo la stessa stragiudiziale e non giudiziale. La norma è stata,
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inoltre, estesa ai lavoratori autonomi la cui opera prevalentemente personale abbia carattere continuativo
e coordinato all’impresa del datore di lavoro.
Invalidità delle rinunzie e transazioni del lavoratore
L’art.2113 c.c. dispone che siano invalide le rinunzie e le transazioni diritti del prestatore di lavoro derivanti
da norme inderogabili di legge o da contratti/accordi collettivi concernenti rapporti di lavoro subordinato o
autonomo ed associato. Sono, quindi, esclusi i casi di lavoratori autonomi titolari d’impresa o che abbiano
con l’impresa un rapporto discontinuo.
L’invalidità può essere fatta valere tramite impugnazione stragiudiziale per iscritto: si tratta di un negozio
unilaterale recettizio, in quanto la comunicazione della volontà di non dare effetto alla rinunzia od alla
transazione deve pervenire al datore di lavoro, entro il termine di 6 mesi dalla cessazione del rapporto o
dal negozio dispositivo, in caso di atto successivo alla cessazione. Tuttavia dovrà sempre essere un giudice
con sentenza costitutiva ad accertare l’invalidità dell’atto, in quanto esso si configura come annullabile e
non come nullo, con tutte le conseguenze del caso. L’azione si prescrive in 5 anni dalla data
d’impugnazione stragiudiziale, che rimane presupposto della suddetta azione giudiziaria. I termini previsti
tutelano tanto il lavoratore, quanto il datore di lavoro.
Inderogabilità delle norme di legge e dei contratti collettivi ed i limiti all’autonomia dispositiva del
lavoratore
La ratio dell’art.2113 c.c. non è da ricercare nella volontà del legislatore di privare totalmente il lavoratore
del potere di disposizione dei propri diritti, bensì nella volontà di aiutare una categoria socialmente
sottoprotetta come quella dei prestatori di lavoro. Il lavoratore, infatti, non può disporre dei diritti a lui
attribuiti OLTRE certi limiti previsti dall’ordinamento: oltre quindi il minimo inderogabile di trattamento
economico e normativo. Inoltre lo stesso art.2113 comma 4 del codice, prevede che siano VALIDE le
rinunzie e le transazioni avvenute in sede di conciliazione delle controversie individuali, in cui la
disposizione dei diritti avviene con l’assistenza dell’organo conciliatore. Ad esse, inoltre, sono equiparate le
sedi di CERTIFICAZIONE, introdotte dal D.Lgs. 276/2003. Tutto ciò dimostra come non ci sia una carenza del
potere di disposizione del lavoratore inerente i propri diritti, bensì una limitazione di tale potere nel suo
stesso interesse.
Per ciò che concerne le transazioni collettive poste in essere dai sindacati, esse necessitano della ratifica
dei lavoratori coinvolti, in quanto devono essere manifestazione del volere del lavoratore.
Il negozio di rinunzia ed il contratto di transazione. Le c.d. quietanze a saldo. La rinunzia tacita
Diamo (finalmente) una definizione di rinunzia e di transazione.
La rinunzia è un negozio unilaterale recettizio tendente alla dismissione, da parte del titolare, di un diritto
soggettivo. La transazione (art.1965 c.c.) è un contratto mediante il quale le parti, tramite reciproche
concessioni, prevengono o risolvono una lite. La transazione, in realtà, può ben celare una rinunzia: è per
tal motivo che l’art.2113 c.c. accomuna i due casi. In una lite esistente o nella prevenzione di una
eventuale, infatti, il peso specifico del lavoratore è di gran lunga inferiore a quello del datore di lavoro, il
che potrebbe portare alla realizzazione di pretese del datore di lavoro, più che a concessioni reciproche
proprie della transazione.
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Particolare è il caso delle quietanze a saldo o quietanze liberatorie, ossia dichiarazione del prestatore di
lavoro con cui egli asserisce, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, di aver ricevuto quanto gli
spettava e di non aver diritto a nient’altro da parte del datore di lavoro, rinunciando così a future pretese.
Esse sono semplici dichiarazioni di scienza, non idonee a dar luogo ad un negozio giuridico.
Altra ipotesi meritevole di attenzione è quella della rinunzia tacita, ossia della possibilità, da parte del
lavoratore, di manifestare la volontà di dismettere un proprio diritto tramite un comportamento
concludente. Per i negozi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, una simile ipotesi è impossibile,
in quanto il termine di decadenza decorre dalla data del negozio, e quindi implicitamente è richiesta la
forma scritta. Per le transazioni, addirittura, è lo stesso art.1965 c.c. a richiedere ad probationem la forma
scritta. Per i rapporti in corso, invece, è ritenuta insufficiente la mera inerzia o tolleranza del lavoratore per
manifestare la dismissione di un proprio diritto.
Certificazione
La certificazione è uno strumento finalizzato all’identificazione degli effetti del contratto ed alla
qualificazione a stregua delle c.d. tipologie di rapporto previste: le parti hanno l’onere di indicare
sull’istanza quali effetti civili, amministrativi, previdenziali o fiscali intendono far accertare. Gli effetti della
certificazione permangono non solo tra le parti, ma anche verso terzi (istituti previdenziali, autorità
pubbliche in genere ecc.).
Vi è poi l’individuazione degli organi competenti alla certificazione dei contratti di lavoro: commissioni
istituite presso Direzioni provinciali del lavoro, Università, Province, Direzione generale della tutela delle
condizioni di lavoro del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, enti bilaterali (organismi costituiti
grazie ad una o più associazioni dei prestatori di lavoro, soggetti quindi creati dall’autonomia collettiva).
Le commissioni di certificazione svolgono, poi, un ruolo di consulenza ed assistenza delle parti, sia in fase di
attuazione del rapporto di lavoro, sia in fase di stipulazione, per la determinazione di obblighi e diritti futuri
tra le parti. Il Ministro del lavoro ha, inoltre, il compito di stabilire con proprio decreto “codici di buone
pratiche” per individuare quali siano clausole indisponibili inerenti trattamenti economici e normativi da
accertare in face di certificazione.
Per contestare la certificazione occorre un ricorso al giudice del lavoro, dopo aver esperito tra l’altro un
tentativo obbligatorio di conciliazione dinanzi alla stessa commissione di certificazione. L’atto di
certificazione può, inoltre, essere impugnato per violazione procedurale o per eccesso di potere dei
soggetti legittimati al ricorso ordinario.
SEZIONE C: PRESCRIZIONE E DECADENZA
Prescrizione dei diritti dei lavoratori
In linee generali, i diritti del prestatore di lavoro (crediti retributivi) sono soggetti alla prescrizione
quinquennale disposta dall’art.2948 c.c., consistendo in un pagamento periodico ad anno o in termini più
brevi e non alla prescrizione ordinaria decennale. Tuttavia, ad essa sono riconducibili tutti quei diritti
diversi dalla retribuzione (diritto alla qualifica superiore, risarcimento del danno contrattuale, risarcimento
per mancato versamento dei contributi assicurativi che decorre dalla perdita della prestazione
previdenziale e non dall’inadempimento).
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La prescrizione, è appena il caso di ricordarlo, non può riguardare diritti indisponibili della persona, e
quindi anche del lavoratore, quali quello all’integrità fisica ed alla sicurezza del lavoro.
Diversa dalla prescrizione estintiva di diritti è la prescrizione presuntiva, la quale ammette prova contraria,
sebbene solo tramite confessione giudiziale o giuramento decisorio, fornita dalla controparte del
pagamento del debito. Essa è di un anno per il diritto dei prestatori a retribuzioni corrisposte a periodi non
superiori ad un mese ed a tre anni per quelle corrisposte a periodi di oltre un mese.
Condizione necessaria per il decorso del periodo di prescrizione è l’inerzia del titolare del diritto. Il regime
della prescrizione è inderogabile, oltre che irrinunciabile.
L’effetto estintivo della prescrizione è in qualche modo accomunabile all’effetto dismissivo della rinunzia e
della transazione di cui all’art.2113 c.c.
Decadenza. Clausole di decadenza nei contratti collettivi
La decadenza, disciplinata dall’art.2964 c.c., prende anch’essa, al pari della prescrizione, in considerazione
il decorso del tempo ed in tal caso l’esercizio di un diritto viene sottoposto ad un termine perentorio.
Diversamente dalla prescrizione, però, essa non produce la perdita del diritto a favore di un diverso
titolare, ma semplicemente la preclusione dall’esercizo del diritto.
Essa può essere tanto legale, quanto contrattuale, ossia apposta dalla legge o dall’autonomia delle parti.
E’,infatti, molto diffusa nei contratti collettivi, specie in tema di instaurazione delle controversie di lavoro.
Intervento della Corte costituzionale in materia di prescrizione
Prescrizione e decadenza, secondo quanto abbiamo detto, producendo la perdita o la preclusione
dell’esercizio del diritto, di fatto realizzano quanto previsto dalla rinunzia o dalla transazione: il lavoratore
perde una situazione di vantaggio, un vero e proprio diritto soggettivo. Questo avrebbe dovuto portare,
secondo una parte della dottrina, a decretare l’imprescrittibilità e l’indisponibilità dei diritti del prestatore
di lavoro. La Corte costituzionale, con la sentenza 63/1966, è intervenuta in materia dichiarando
l’illegittimità di alcuni articoli del codice (2948 n.4, 2955 n.2 e 2956 n.1) nella parte in cui prevedono che la
prescrizione del diritto alla retribuzione decorra in pendenza del rapporto di lavoro. Il diritto alla
retribuzione è un diritto costituzionalmente garantito, al pari della situazione soggettiva di sottoprotezione
sociale del lavoratore, il quale, nel timore di un eventuale licenziamento, potrebbe non agire, rimanendo
così inerte, per far valere il proprio diritto alla retribuzione. La Corte ha previsto il differimento del termine
per la prescrizione alla fine del rapporto: solo da quel momento acquista rilievo l’inerzia del prestatore.
Stessa cosa vale per la decadenza.
Si tratta di un vero e proprio esempio di giurisprudenza creativa ed innovativa, configurandosi la suddetta
sentenza come “manipolativa di illegittimità parziale”.
Giurisprudenza costituzionale in tema di prescrizione dopo il 1966
Nelle pronunce successive a quella del 1966, la Corte costituzionale è tornata sui suoi passi, sostenendo
che con l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, la resistenza al licenziamento è divenuta più forte, rendendo
così inutile il mancato decorso della prescrizione in pendenza del rapporto di lavoro, decisa nella sentenza
63 proprio in ragione del timore di licenziamento del lavoratore. La Corte è stata criticata ampiamente
dalla dottrina, per non aver tenuto conto che il datore di lavoro può manifestare la propria posizione di
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strapotere nei confronti del lavoratore anche tramite vie diverse dal licenziamento. La Corte, comunque,
interrogata svariate volte sulla questione, è rimasta ferma al pensiero che la prescrizione possa decorrere
anche durante il rapporto di lavoro, ridando vita così ad una norma dapprima ritenuta estranea
all’ordinamento.
La prescrizione, quindi, non decorre durante il rapporto di lavoro solo nei casi di libera recedibilità o nei
rapporti tutelati da stabilità obbligatoria.
SEZIONE D: TUTELA GIURISDIZIONALE DIFFERENZIATA DEL LAVORATORE
Composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro: conciliazione ed arbitrato
Per garantire strumentalmente i diritti del prestatore di lavoro, è previsto che la composizione delle
controversie individuali possa avvenire sia informa giudiziale che stragiudiziale.
Partiamo dalla “conciliazione”. Essa può essere sia:
• Giudiziale, ed in tal caso può essere tentata in ogni momento del processo dal giudice, il quale deve
tentarla sin dall’inizio. Qualora venga raggiunta va redatto il processo verbale, che è considerato
titolo esecutivo;
• Stragiudiziale, esperibile in sede sindacale, prevista dagli accordi collettivi, o in sede amministrativa,
sempre per mezzo dei sindacati, dinanzi ad apposite commissione della Direzione provinciale del
lavoro.
Inizialmente non era prevista l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione. La legge 108/1990 introdusse
tale obbligatorietà per le sole ipotesi di tutela obbligatoria, imponendo il tentativo di conciliazione come
presupposto necessario di procedibilità in giudizio della domanda di riassunzione del lavoratore
ingiustamente licenziato. La privatizzazione del pubblico impiego portò all’applicazione della suddetta
obbligatorietà anche nei confronti di coloro alle dipendenze delle pubbliche amministrazione. Infine nel
1998 venne introdotta per tutte le controversie di lavoro quale condizione necessaria di procedibilità della
domanda giudiziale.
Il D.Lgs. 276/2003 ha, inoltre, previsto che in caso di ricorso contro certificazione, debba essere esperito il
tentativo di conciliazione obbligatorio dinanzi alla commissione che ha emesso l’atto di certificazione.
Ulteriore strumento di tutela giurisdizionale del lavoratore è “l’arbitrato”, istituto tramite il quale le parti
deferiscono la decisione di una controversia ad un terzo. Tale deferimento può essere contenuto tanto in
un compromesso, vero e proprio negozio di deferimento del potere decisorio, tanto in una clausola
compromissoria appositamente apposta al contratto.
Possiamo da subito attuare una distinzione tra arbitrato rituale ed irrituale.
L’arbitrato rituale, la cui disciplina codicistica è stata modificata nel 2006, ha i medesimi effetti di una
decisione giurisdizionale, non potendo, però, inerire a diritti indisponibili. In materia di controversie di
lavoro, tra l’altro, il ricorso all’arbitrato rituale è possibile solo qualora sia previsto dalla legge o dai
contratti collettivi, quindi anche il compromesso o la clausola compromissoria che lo prevedano devono
essere inclini alle previsioni normative.
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In generale nell’arbitrato rituale la decisione degli arbitri può avvenire secondo diritto o secondo equità,
qualora le parti abbiano previsto quest’ultima ipotesi: in materia di lavoro, però, è prevista la sola
pronuncia secondo diritto. La decisione è incorporata nel “lodo”, il quale diviene equiparabile ad una
sentenza tramite un’omologazione del giudice, il quale si attiene semplicemente ad un controllo di
regolarità formale. Dinanzi alla Corte d’Appello è possibile impugnare il lodo per nullità, revocazione o per
opposizione di un terzo ed è sempre ammessa, per le controversie di lavoro, l’impugnazione per violazione
delle regole di diritto.
L’arbitrato irrituale (libero) quando le parti, sempre per mezzo di compromesso o clausola compromissoria,
prevedano che un terzo (l’arbitro) si pronunci sulla controversia in via negoziale e non giurisdizionale, ossia
per ciò che è attinente la natura e gli effetti del contratto. Anche l’arbitrato irrituale è possibile solo in caso
di previsione legislativa (arbitrato irrituale legalmente nominato) o dei contratti collettivi, che devono,
però, prevedere anche le norme procedurali per giungere al lodo, il quale è impugnabile dinanzi al giudice
del lavoro, la cui decisione non sarà a sua volta impugnabile se non in Cassazione. Dopo 30 giorni dal lodo,
salva accettazione preventiva delle parti per iscritto o rigetto del ricorso del tribunale, il lodo viene
depositato presso la cancelleria del Tribunale e viene dichiarato esecutivo con decreto.
La sostanziale differenza tra arbitrato rituale ed irrituale la ritroviamo nel fatto che quello rituale può
essere alternativo alla giurisdizione secondo una previsione vincolante in via preventiva delle parti.
Disciplina processuale delle controversie di lavoro
In materia di diritto del lavoro, considerata la situazione di sottoprotezione sociale del lavoratore e di parte
contrattualmente debole, vi è un rafforzamento della tutela giurisdizionale, in quanto il prestatore di
lavoro viene considerato parte debole non solo per ciò che attiene al rapporto, ma anche all’interno della
controversia. La L.533/1973, modificando il Titolo IV del Codice di procedura civile dedicato alle controversi
di lavoro, ha modificato tutta la disciplina del processo di lavoro.
La tutela differenziata dei lavoratori subordinati è stata estesa, inoltre, anche ai lavoratori associati nei
contratti agrari, nonché a quelli autonomi che svolgano un lavoro prettamente personale coordinato e
continuato nei confronti di un’impresa: non si tratta di una parificazione, in questo ambito, dei lavoratori
subordinati e di quelli autonomi, ma semplicemente di un’eguale tutela dei lavoratori autonomi in
posizione di subordinazione.
Le controversie di lavoro vengono decise da un giudice monocratico del Tribunale, in funzione di giudice
del lavoro, il quale, essendo necessaria l’osservazione dei principi dell’immediatezza (tempi più brevi del
processo), della concentrazione (difese precise ed indicazione dei mezzi di prova sin dall’inizio del
processo) e dell’oralità (interrogatorio delle parti e discussione orale), risolve la controversia all’interno di
un’unica udienza, pronunciando la sentenza al termine della stessa e leggendone il dispositivo. Solo nel
caso in cui sia necessaria la risoluzione di una questione inerente l’efficacia, la validità o l’interpretazione di
clausole apposte in un contratto collettivo, il giudice deve sospendere l’udienza e decidere con sentenza su
tale questione, contro la quale si può ricorrere in Cassazione nel termine di 60 giorni, attendendo in tal
caso la pronuncia della Corte.
Le norme del codice di procedura civile (artt.432, 431, 423, 429), inoltre, assicurano una forte tutela al
lavoratore: il giudice, per quanto riguardo i crediti di retribuzione, deve effettuare una valutazione
equitativa dell’ammontare della prestazione dovuta, disponendone la liquidazione quanto sia certo il
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diritto da cui essa nasce; la sentenza di condanna per i crediti di lavoro è munita della clausola di
provvisoria esecuzione; inoltre l’esecuzione forzata in favore del lavoratore può essere iniziata in forza del
solo dispositivo della sentenza e può essere sospesa, su istanza di parte, qualora superi le vecchie 500.000
lire se ciò apportasse un gravissimo danno alla parte soccombente; infine, senza che il lavoratore sia
gravato dall’onere di dimostrare il maggior danno subito, il datore di lavoro, in conseguenza del ritardato
pagamento, deve anche il risarcimento del maggior danno derivante da svalutazione monetaria dei crediti
di lavoro: si ha un effetto non solo rafforzativo della tutela del credito di lavoro, ma anche punitivo dello
stesso datore soccombente.
Depenalizzazione delle sanzioni previste per violazione di norme di lavoro. Vigilanza ed ispezioni
Negli anni 90 si è assistito ad un processo di depenalizzazione delle sanzioni per illeciti in materia di diritto
del lavoro. La L.449/1993 ha conferito al Governo il potere di revisione delle sanzioni corrisposte in
violazione di norme protettive del lavoro ed i vari decreti che si sono susseguiti nel tempo hanno portato a
termine tale processo. Tuttavia si è conservata la rilevanza penale di tutte quelle condotte che possano
pregiudicare l’integrità psico-fisica del lavoratore (far svolgere lavori pericolosi a donne in gravidanza o
puerpere o a minori), mentre negli altri casi il legislatore ha ritenuto sufficiente la sola sanzione
amministrativa, sempre o quasi sempre pecuniaria, a carico del datore di lavoro.
Il D.Lgs.124/2004 ha, poi, innovato la disciplina legislativa in materia di servizi ispettivi del Ministero del
lavoro e delle politiche sociali, garantendo una maggiore efficienza degli stessi (tramite una
riorganizzazione territoriale) ed una maggiore efficacia dell’azione di vigilanza (revisione degli strumenti
giuridici conferiti agli ispettori: prescrizione obbligatoria, ed in tal caso l’ispettore ha rilevato violazioni di
carattere penale, punibile con l’arresto o l’ammenda, ma non sanabili, e diffida, prevista se l’ispettore,
benché abbia rilevato delle violazioni, le ritenga sanabili). Particolare attenzione merita la conciliazione
monocratica presso le Direzioni provinciali del lavoro, strettamente collegata all’attività ispettiva. Con essa
si giunge ad una soluzione conciliativa della controversia.
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CAPITOLO NONO – RAPPORTI SPECIALI DI LAVORO
Introduzione. La specialità come differenza per l’attuazione di una diversa tutela del lavoratore
Accanto al modello normativo-tipo contrattuale del rapporto di lavoro subordinato, esistono dei sottotipi
qualificabili come rapporti “speciali” di lavoro. Bisogna tener presente, infatti, le differenze esigenze di
tutela del lavoratore, attuate tramite i contratti o accordi collettivi che vanno a disciplinare queste forme
speciali di lavoro, nonché da parte del legislatore, talune volte in sostituzione della stessa autonomia
collettiva insufficiente o del tutto assente. Numerose discipline speciali, ultimamente, al fine di favorire
l’occupazione, hanno introdotto rapporti lavorativi “flessibili o atipici”, attenuando le tutele in materia di
lavoro subordinato, proprio per salvaguardare interessi pubblici o collettivi.
SEZIONE A: RAPPORTI SPECIALI CARATTERIZZATI DALLA TIPICITA’ DEGLI INTERESSI PUBBLICI COINVOLTI
Rapporto di lavoro dei marittimi e della gente in aria
Primo rapporto di lavoro speciale che esaminiamo è quello inerente il personale addetto alla navigazione
marittima e della gente dell’aria. Tale rapporto è disciplinato all’interno del Codice di navigazione, fonte
esclusiva della disciplina dell’intera materia nautica e quindi anche per ciò che concerne i rapporti di
lavoro. La disciplina speciale dedicata a questa categoria di lavoratori è dovuta a ragioni di interesse
pubblico riguardanti la sicurezza e la regolarità della navigazione, nonché la conservazione del patrimonio
navigante. Per il personale marittimo l’assunzione deve avvenire tramite atto pubblico dinanzi all’autorità
marittima per il contratto di arruolamento, mentre per il personale di volo occorre solo la forma scritta del
contratto di lavoro. Inoltre entrambe le categorie di lavoratori sono iscritte in appositi albi e registri, dai
quali si evince la propria idoneità al servizio o abilitazione professionale.
I crediti lavorativi dei lavoratori marittimi e dell’aria sono assistiti da privilegio speciale sulla nave o
sull’aeromobile e nel loro caso la prescrizione non può decorrere in costanza del rapporto di lavoro. Inoltre
i marittimi hanno diritto alla retribuzione in ogni caso di sospensione del servizio per malattia o lesione,
oltre a dover essere mantenuti a bordo della nave se il proprio diritto di credito sia rimasto insoddisfatto,
con la continuazione della stessa retribuzione.
E’ prevista, inoltre, per queste due categorie speciali di lavoratori, una deroga alla L.300/1970 (statuto dei
lavoratori), la quale afferma che pur essendo prevista un’applicazione generale dello Statuto, si rinvia alla
contrattazione collettiva in materia (principio di cui è stato ridotto il rilievo dalla Corte costituzionale in
materia di licenziamento e sanzioni disciplinari).
Pubblico impiego. Origini storiche
Un altro esempio di rapporti di lavoro speciale ci viene offerto da quei particolari rapporti che intercorrono
tra le amministrazione pubbliche (prima fra tutte lo Stato, nonché gli enti territoriali) ed i prestatori di
lavoro. Tali rapporti, fino agli anni 90, venivano definiti come “di pubblico impiego”. Originariamente tale
figura nacque per disciplinare il lavoro dei c.d. funzionari, i quali rappresentavano l’amministrazione
pubblica e dipendevano dal potere politico. L’impiegato pubblico intratteneva con l’amministrazione un
duplice rapporto: uno organico, o d’ufficio, in base al quale egli era legittimato ad esercitare i poteri
connessi al proprio ufficio, ed uno di servizio, dal quale dipendevano diritti ed obblighi tanto
dell’amministrazione, quanto del lavoratore. Il rapporto organico, tuttavia, prevaleva notevolmente su
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quello di servizio, tanto che la materia era disciplinata dal diritto pubblico amministrativo, il quale
imprimeva al rapporto una supremazia ed un carattere autoritario da cui scaturivano diverse conseguenze:
• Il rapporto non prevedeva contratto, ma solo un “provvedimento di nomina”;
• Il rapporto era disciplinato interamente da leggi e regolamenti in tutti i suoi aspetti;
• La subordinazione era gerarchica, connessa alla struttura degli uffici, e non tecnico-funzionale, ossia
connessa all’adempimento della prestazione lavorativa;
• Il giudice competente era quello amministrativo (TAR in primo grado e Consiglio di Stato in appello).
Tale configurazione, col tempo, ha riguardato sempre più soggetti non investiti di una pubblica funzione
(come invece avveniva per i funzionari) e si applicava anche ai dipendenti di “enti pubblici economici”,
ossia enti che svolgevano un’attività d’impresa in settori in seguito privatizzati (poste, banche, energia).
Solo negli anni 70 la situazione è mutata, coinvolgendo anche l’operato dei sindacati ed attribuendo
rilevanza all’autonomia collettiva.
La L.93/1983, definita come legge-quadro sul pubblico impiego, ha stravolto la materia, distinguendo il
pubblico impiego dal lavoro privato, ma avvicinando notevolmente le due categorie.
Le due fasi della riforma del pubblico impiego e la contrattualizzazione del rapporto
Sono individuabili due fasi nel processo di riforma del pubblico impiego: una avviatasi con la L.421/1992, la
quale ha conferito al Governo la delega per riformare la materia del pubblico impiego, cui sono seguiti
interventi normativi notevoli; l’altra ripresa con la L. 59/1997, la quale ha riaperto il termine della delega
per riformare il lavoro pubblico ed equipararlo maggiormente a quello privato, per giungere ad una
riduzione degli sprechi gestionali e ad un recupero di efficienza nel settore pubblico.
La prima fase ha fatto in modo che venisse “contrattualizzato il rapporto di pubblico impiego”,
programmando un abolizione della giurisdizione amministrativa in materia a favore del giudice ordinario
per quanto riguardava le controversie di lavoro dei pubblici dipendenti. La L.421/1992 ha mantenuto la
distinzione tra lavoro pubblico e privato, riservando al lavoro pubblico lo status di rapporto di lavoro
speciale, anche se di natura privatistica. Inoltre la legge suddetta ha lasciato alla sola disciplina di norme di
legge e di regolamento ben sette materie, inerenti aspetti dell’organizzazione burocratica, organizzazione
degli uffici, ruoli e dotazioni organiche, responsabilità giuridica dei singoli operatori.
La seconda fase, invece, ha previsto anzitutto una delega legislativa in tema di contrattazione collettiva e
rappresentatività sindacale nell’area del lavoro pubblico, nonché un’estensione completa al lavoro
pubblico delle disposizioni del Codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro privato nell’impresa. Oltre a
ciò è stata disposto il completo trasferimento di competenza al giudice ordinario di tutte le controversie
relative al rapporto di lavoro.
Va sottolineato che sotto la disciplina del codice civile non rientrano alcune categorie: magistrati, avvocati
e procuratori dello Stato, personale militare e forze di polizia, personale delle carriere diplomatiche e
prefettizie.
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Profili fondamentali di specialità del rapporto pubblico. Disciplina della dirigenza pubblica
La riforma del lavoro pubblico, pur avendo assoggettato il rapporto in questione all’autonomia privata
individuale e collettiva, non ha eliminato i profili di specialità in riferimento alla prevalenza di un interesse
pubblico. Analizziamoli nel dettaglio.
1. Emerge una prima manifestazione di specialità per quanto concerne il “sistema delle fonti” di
disciplina del lavoro pubblico: la contrattazione collettiva non deve essere continuamente
modificata e stravolta da successivi interventi del legislatore. Per tal motivo i rapporti regolati
contrattualmente, pur essendo modificabili da leggi e regolamenti, permangono in tale stato di
modificazione sino ad un nuovo intervento del contratto collettivo. Gli incrementi retributivi,
inoltre, introdotti dal legislatore, sono in vigore sino a nuova disposizione dei contratti collettivi.
Infine è previsto che la disciplina del lavoro pubblico sotto il profilo retributivo sia derogabile
contrattualmente, ma nel rispetto di quanto previsto dai minimi retributivi imposti dalla
contrattazione collettiva;
2. Un’altra forma di specialità si evince nella definizione della qualifica dirigenziale e delle relative
responsabilità del dirigente. Egli ha sia una responsabilità di indirizzo politico, dovendo attenersi
alle linee guida imposte dal potere politico, sia una responsabilità di direzione amministrativa,
dovendo garantire l’efficienza della P.A. anche per quanto riguarda i rapporti di lavoro.
L’organizzazione dell’apparato a cui è preposto il dirigente e la gestione dei rapporti di lavoro dello
stesso, sono di competenza del dirigente in questione: egli, oltre ad essere responsabili per
l’attuazione dei programmi politici, deve far in modo che la macchina organizzativa funzione e sia
quanto più efficiente ed efficace. Il ruolo dirigenziale si presenta oggi articolato in due fasce: il
passaggio dalla seconda alla prima fascia costituisce un premio ed un’incentivazione al lavoro svolto
dal dirigente, in quanto egli, per potersi attuare il passaggio, deve aver ricoperto per almeno 3 anni
un incarico di direzione di uffici generali, senza essere incorso in alcuna responsabilità dirigenziale.
L’attribuzione di tali incarichi non può avere durata inferiore a tre anni e superiore a cinque. Benché
il rapporto di lavoro dei dirigenti sia stato contrattualizzato, esso non individua le funzioni
dirigenziali, le quali sono previste in un provvedimento di conferimento di incarico, che vada a
specificare oggetto dell’incarico, obiettivi e durata. Gli altri dirigenti, invece, svolgono un ruolo di
ricerca, consulenza e studio, nonché funzioni ispettive od altre funzioni previste dall’ordinamento.
Per evitare l’avvicendarsi continuo di dirigenti in base ai cambiamenti al governo di schieramenti
politici, è previsto il sistema dello “spoilsystem”, secondo cui possono variare solo i vertici apicali
decorsi 90 giorni dalla fiducia data al nuovo Governo: cessa l’incarico, non il rapporto di lavoro, dei
dirigenti uscenti;
3. Un’altra connotazione speciale del lavoro pubblico la possiamo ritrovare nell’intervento del
legislatore in merito ad alcuni istituti di particolare rilievo inerenti il rapporto di lavoro in questione.
Se è vero, infatti, che lo Statuto dei lavoratori si applica anche alle pubbliche amministrazioni
indipendentemente dal numero di dipendenti e che il rapporto di lavoro pubblico è oggi disciplinato
dalle disposizioni codicistiche e dai contratti collettivi, non di meno bisogna sottolineare come il
legislatore sia intervenuto in svariati casi:
• L’assunzione in posti di lavoro pubblico avviene tramite concorso, come costituzionalmente
previsto, ma in due modi diversi: laddove per il posto di lavoro sia richiesta la sola scuola
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dell’obbligo, il reclutamento avverrà tramite i Centri per l’impiego; nel momento in cui,
invece, sono richiesti particolari requisiti, si svolgerà una vera e propria prova di verifica
della professionalità (concorsi), adeguata ai criteri di pubblicità ed imparzialità, nonché a
meccanismi oggettivi di valutazione e rispetto delle pari opportunità;
• Nel lavoro pubblico l’istituto del part-time può essere realizzato solo su richiesta del
lavoratore e concesso dall’amministrazione per cui lavora. Qualora residui il 50% della
prestazione normale, il lavoratore potrà esercitare anche altro lavoro autonomo o
subordinato ed essere iscritto ad albi professionali. L’amministrazione può negare la
concessione del part-time in base a proprie esigenze. La riforma del mercato del lavoro
attuata tramite il D.Lgs.276/2003 non si applica alle pubbliche amministrazioni;
• Anche le amministrazioni pubbliche possono avvalersi di tipologie contrattuali di lavoro
flessibile, ma essendo state escluse dall’applicazione del D.Lgs.276/2003, non possono
utilizzare il contratto a progetto, ma solo e solamente contratti a tempo determinato,
contratti di formazione e lavoro, somministrazione a tempo determinato e contratti di
collaborazione continuativa e coordinata, e tra l’altro solo per esigenze temporanee ed
eccezionali;
• Per ciò che concerne il potere disciplinare e la responsabilità del lavoratore, è previsto un
sistema analogo a quello dell’art.7 dello Statuto dei lavoratori, il quale predilige una sorta di
patteggiamento secondo il quale, in presenza dell’accordo delle parti, il lavoratore viene
sanzionato in misura ridotta rinunciando all’impugnazione delle sanzione stessa. Inoltre le
funzioni del collegio di conciliazione e dell’arbitrato sono devolute allo specifico collegio di
conciliazione per le controversie dei lavoratori pubblici;
• Per quanto riguarda le mansioni, inoltre, va segnalato come il dipendente debba essere
adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni equivalenti, mentre
l’assegnazione temporanea a mansioni superiori è possibile solo per un periodo di 6 mesi
per carenza di organico, prorogabile a 12 mesi per sostituire un lavoratore che abbia diritto
alla conservazione del posto. L’attribuzione a mansioni superiore, benché dia diritto alla
retribuzione superiore per quel periodo, non costituisce presupposto del diritto alla
promozione;
• Va poi analizzato il caso di eccedenze di personale, disciplinato in maniera totalmente
diversa rispetto al lavoro privato. I lavoratori in eccedenza, infatti, vengono collocati in
“disponibilità” per un periodo massimo di 24 mesi con retribuzione a carico della stessa
amministrazione e pari all’80% della retribuzione base, ma a differenza di ciò che avviene
per la mobilità, la disponibilità non risolve il rapporto di lavoro, in quanto nella maggior
parte dei casi il lavoratore verrà riutilizzato diversamente con il consenso dello stesso.
4. Ultimo profilo di specialità è rinvenibile nella disciplina delle controversie relative al rapporto di
lavoro pubblico. Abbiamo già precisato che tali controversie devono essere, oggi, risolte dal giudice
ordinario ed è stato reso necessario anche il tentativo di conciliazione. Rimangono di competenza
del giudice amministrativo le sole controversie inerenti le assunzioni in seguito a concorso pubblico
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(quelle senza concorso sono competenza del giudice ordinario) e quelle relative ai rapporti non
contrattualizzati.
Contrattualizzazione del lavoro pubblico ed interessi generali
Nonostante per molti aspetti il lavoro pubblico sia stato parificato, in termini di disciplina, a quello privato,
trasformandosi così da rapporto di impiego in contratto di lavoro, permane un collegamento funzionale
NECESSARIO tra il rapporto e l’interesse istituzionale della pubblica amministrazione all’organizzazione dei
propri uffici, che si estrinseca nel potere negoziale per le micro-organizzazioni dei rapporti di lavoro,
pertanto simili all’organizzazione del lavoro privato, ma nella natura pubblicistica o istituzionale delle
macro-organizzazione inerenti gli atti generali di organizzazione. La potestà di autorganizzazione della
pubblica amministrazione prevale, quindi, sui connotati privatistici della disciplina del rapporto e dei poteri
del datore di lavoro.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: il Governo Berlusconi entrato in carica nel 2008 ha
deciso di riformare nuovamente la disciplina del lavoro pubblico, per rendere la macchina pubblica italiana
maggiormente efficiente tramite un’opera di risanamento e ristrutturazione. Un primo intervento è stato
attuato dal D.L.112/2008, con cui si opera una riduzione della spesa pubblica attuando uno specifico piano
in tema di reclutamento, di alcuni istituti del rapporto di lavoro e di relazioni sindacali. Anzitutto è stato
arrestato il turn-over inerente le assunzioni, in quanto le pubbliche amministrazioni devono adeguare
l’organico di cui dispongono alle proprie funzioni. Per far fronte all’assenteismo, inoltre, è stato previsto un
nuovo regime di giustificazioni in caso di assenze per malattia, oltre all’intensificazione dei controlli ed alla
previsione che nei primi 10 giorni di malattia venga corrisposto il solo trattamento economico
fondamentale.
Altro istituto ad essere toccato dalla riforma è stato quello del lavoro part-time pubblico: non è più diritto
del lavoratore chiedere la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, ma si tratta di
una concessione dell’amministrazione. Inoltre l’accesso all’assunzione part-time è ora più agevole per la
PA: sebbene per le esigenze ordinarie essa sia tenuta ad assumere a tempo indeterminato, per le esigenze
secondarie a carattere temporaneo essa può, al pari delle imprese private, far ricorso all’istituto del lavoro
part-time, nonché ad altre forme contrattuali di lavoro flessibile, utilizzando il medesimo lavoratore con
più tipologie contrattuali, sebbene per un limitato periodo di tempo (3 anni in un quinquennio).
Anche la materia della cessazione del rapporto di lavoro è stata profondamente innovata:
• E’ stato introdotto l’esonero dal servizio, il quale può essere richiesto dai lavoratori a cui manchino
5 anni al raggiungimento del 40esimo anno di contribuzione: l’amministrazione può concedere, a
sua discrezione, tale esonero, retribuendo per 5 anni il lavoratore al 50% della sua retribuzione
economica e garantendogli il 100% di quella contributiva, in modo tale che il lavoratore accederà
alla pensione come se avesse lavorato normalmente in quei 5 anni;
• Sono state apportate modifiche per il trattenimento in servizio: il lavoratore può farne richiesta un
anno prima del compimento dell’età massima prevista dal proprio ordinamento; l’amministrazione
ha la facoltà di negare o concedere il trattenimento, salvo il caso di soggetti che non siano ancora in
possesso dei requisiti pensionistici;
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• Indipendentemente dall’età anagrafica, inoltre, la PA può risolvere il contratto qualora il lavoratore
abbia raggiunto i 40 anni di servizio, dando un preavviso di almeno 6 mesi.
Si è ribadita, inoltre, la responsabilità dei dirigenti per violazione di norme imperative nella costituzione di
rapporti di lavoro (che non danno mai vita, nella PA, alla costituzione del rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, ma che danno diritto al risarcimento del danno per il lavoratore).
La L.15/2009, poi, al fine di migliorare la produttività del lavoro pubblico e l’efficienza, oltre che la
trasparenza, delle pp.aa., ha concesso una delega al Governo per intervenire su alcuni aspetti del lavoro
pubblico, quali:
• il sistema delle fonti in materia di lavoro pubblico, per cui è stato previsto che la deroga concessa ai
contratti collettivi in materia può operare solo per espressa previsione di legge;
• la disciplina della dirigenza: il dirigente deve essere indipendente del tutto dalla politica e dai
sindacati; deve avere una responsabilità maggiore, rispondendo anche economicamente del
proprio operato; deve accedere alla prima fascia dirigenziale tramite concorso. E’ limitato, inoltre, il
ricorso a dirigenti esterni;
• il miglioramento del sistema di valutazione delle pp.amm, dei loro dirigenti e dipendenti, con
l’introduzione di un’Autorità indipendente che garantisca trasparenza dei sistemi di valutazione,
affidata alla Corte dei conti ed agli stessi cittadini/utenti;
• il sistema disciplinare, il quale deve mirare al miglioramento dell’efficienza dei vari uffici,
potenziandone la produttività e combattendo l’assenteismo. Sono state precisate, infatti, alcune
tipologie di infrazioni suscettibili di licenziamento.
SEZIONE B: RAPPORTI SPECIALI DI LAVORO CARATTERIZZATI DALLA TIPICITA’ DELLA POSIZIONE DEL
DATORE E/O PRESTATORE DI LAVORO
Cenni generali
Si procede con l’analisi di tutti quei rapporti di lavoro qualificati come “speciali” non in forza di un interesse
pubblico, bensì della posizione del datore e/o del prestatore di lavoro. Tuttavia non è la semplice diversità
normativa a caratterizzare il rapporto di lavoro speciale, in quanto occorre che tale diversità incida su
elementi del rapporto di lavoro subordinato tipico (collaborazione, subordinazione, retribuzione) indicato
dall’art. 2094 c.c., come avviene per il lavoro subordinato a domicilio, per il lavoro sportivo e per diversi
altri.
Lavoro subordinato a domicilio: definizione e caratteristiche
La nozione di lavoratore subordinato a domicilio la ritroviamo all’interno dell’art.1 della L.877/1973, dove è
previsto che si per lavoratore a domicilio si intenda “chiunque, con vincolo di subordinazione, nel proprio
domicilio o in locale di cui abbia la disponibilità, anche con l’aiuto di membri familiari conviventi e a carico,
ma esclusi apprendisti o manodopera salariata, eserciti un lavoro retribuito per conto di uno o più
imprenditori, utilizzando materie prime ed attrezzature proprie o dello stesso imprenditore”. Quindi,
anzitutto vediamo come il legislatore abbia voluto evitare la condotta, in passato molto spesso posta in
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essere, di quegli imprenditori che, per sfruttare il lavoro a domicilio, utilizzavano la prestazione di
manodopera esterna all’azienda, regolando il rapporto come lavoro autonomo o come appalto.
Il comma 2 del suddetto articolo precisa, poi, la distinzione tra lavoratore subordinato a domicilio e
lavoratore autonomo, prevedendo e sottolineando il vincolo di subordinazione esistente nel primo caso, il
quale obbliga il lavoratore ad attenersi alle direttive dell’imprenditore nell’esecuzione della prestazione. Si
tratta, è appena il caso di dirlo, di una subordinazione tecnico-funzionale per cui è sufficiente attenersi al
potere direttivo dell’imprenditore, senza esserne alle dirette dipendenze.
Ovviamente è necessario che il committente, nel caso di cui stiamo trattando, sia un imprenditore,
altrimenti si tratta di lavoro autonomo, così come è necessario che l’attività venga svolta in locali
direttamente riconducibili al prestatore di lavoro.
Nel lavoro subordinato a domicilio si realizza un vero e proprio decentramento dell’attività di impresa,
collocando all’esterno una parte di essa, sebbene il prestatore, in tal caso, goda di un determinato potere
di gestione.
Disciplina del lavoro subordinato
La prestazione oggetto del contratto di lavoro subordinato a domicilio non può, in alcun modo, riguardare
attività che comportino l’impiego di sostanze nocive o pericolose, così di fatto escludendo la possibilità di
violare le norme di tutela sul posto di lavoro. E’ vietato, inoltre, affidare lavoro a domicilio per la durata di
un anno, a tutte quelle aziende che abbiano disposto licenziamenti, così salvaguardando l’impiego della
manodopera nelle imprese.
Per quanto riguarda, invece, la durata del lavoro e la retribuzione, essendo inipotizzabile un controllo sulla
durata effettiva dell’attività lavorativa, il prestatore di lavoro a domicilio potrà essere retribuito solo a
cottimo, ossia in funzione del risultato produttivo, ed in nessun caso a tempo. Le tariffe per la retribuzione
a cottimo pieno, inoltre, dovranno evincersi dalla contrattazione collettiva di categoria.
Particolare è la disciplina della concorrenza tra imprenditore e lavoratore: se il primo ha affidato al
secondo una quantità di lavoro tale da procurargli una prestazione lavorativa corrispondente all’orario
normale di lavoro, il secondo non potrà in alcun modo entrare in concorrenza con l’impresa.
L’impiego di lavoratori a domicilio, inoltre, è consentito solo previa comunicazione di un’apposita richiesta
agli organi istituiti dalle Regioni (la materia è stata modificata dalla riforma dei servizi per l’impiego).
Imprenditore e lavoratore, infine, sono tenuti alla conservazione di una documentazione scritta dalla quale
si possa evincere, in qualsivoglia momento, l’oggetto della prestazione, la durata e la retribuzione, nonché
(solo per l’imprenditore) l’individuazione dei prestatori di lavoro subordinato a domicilio.
Il lavoro domestico
Il lavoro domestico è caratterizzato da una prestazione eseguita nell’abitazione del datore di lavoro o, per
meglio dire, in convivenza con lo stesso. La disciplina è contenuta all’interno degli artt.2240 al 2246 c.c. ed
all’interno della L.339/1958, che non ha sostituito gli articoli codicistici, in quanto ha ad oggetto solo
prestazioni continuative e di almeno 4 ore giornaliere.
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La contrattazione collettiva in materia si è avuta solo recentemente, in quanto l’art.2068 comma 2 c.c.,
oggi abrogato, non permetteva alla stessa di disciplinare il lavoro domestico.
Contenuto ed oggetto del lavoro domestico sono i medesimi del lavoro subordinato in genere. Va aggiunto
che nel calcolo della retribuzione sono inclusi il vitto e l’alloggio del prestatore, in quanto convivente con il
datore di lavoro, che deve provvedere, in caso di malattia del prestatore, alle cure ed all’assistenza medica
dello stesso. E’ esclusa, dato l’ambito familiare in cui si attua questo tipo di lavoro, la tutela obbligatoria
tanto quanto quella reale contro i licenziamenti. Il datore di lavoro deve, al pari delle situazioni generali,
garantire il riposo settimanale, nonché quello giornaliero e notturno.
Per ciò che concerne durata del periodo di prova e ferie, il legislatore attua una distinzione tra lavoratori
con mansioni impiegatizie e prestatori d’opera manuale, riservando un trattamento di minor favore ai
secondi per ciò che concerne l’indennità di mancato preavviso.
Il lavoro sportivo
Il lavoro sportivo configura un altro rapporto speciale di lavoro subordinato, all’interno del quale figurano
come datore di lavoro una società sportiva e come prestatore uno sportivo professionista, intendendosi
con tale definizione gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici che esercitano
l’attività sportiva a titolo oneroso per un periodo di tempo continuativo nell’ambito di discipline regolate
dal CONI ed avendo conseguito tale qualificazione dalle federazioni sportive nazionali con l’osservanza di
direttive stabilite dal CONI per la differenziazione tra attività dilettantistica e professionistica.
La subordinazione, nel caso di lavoro sportivo, ricorre solo se l’attività sportiva è esercitata
continuativamente ed il rispetto di uno dei tre requisiti che andiamo adesso ad elencare, presuppone
l’assenza della subordinazione stessa, configurando il lavoratore come autonomo. I requisiti sono i
seguenti: svolgimento dell’attività nell’ambito di una sola manifestazione o di poche manifestazioni in un
breve periodo di tempo; mancanza del vincolo contrattuale di osservanza di sedute di preparazione e
allenamento; prestazione continuativa sportiva che non superi le 8 ore settimanali, i 5 giorni mensili o i 30
giorni annuali.
I contratti sportivi devono rispettare la forma scritta secondo i contratti tipo predisposti dalle federazioni
nazionali mediante accordo triennale; ogni clausola peggiorativa della condizione dell’atleta è
automaticamente sostituita da quella dei contratti-tipo. I contratti individuali devono essere depositati
dalla società stipulante presso la federazione per essere convalidati. Per rispettare, poi, il vincolo di
subordinazione, l’atleta deve essere tenuto all’osservanza degli scopi agonistici e delle istruzioni tecniche
impartitegli.
Non si applica la disciplina limitativa dei licenziamenti individuali. Il contratto può avere durata massima di
5 anni, rinnovabile alla scadenza. Frequente è, inoltre, la cessione del contratto da una società sportiva ad
un’altra prima della scadenza contrattuale, previo consenso dell’atleta. E’ stato, inoltre, abolito il vincolo
sportivo, consentendo allo sportivo professionista di recedere unilateralmente dal contratto. Unico vincolo
si ha per gli atleti il cui addestramento e la cui formazione tecnica sono stati assicurati da una società
sportiva, che ha il diritto di stipulare con lo stesso il primo contratto professionistico.
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SEZIONE C: I CONTRATTI DI LAVORO CON FINALITA’ FORMATIVA
Origini del contratto di apprendistato
Il contratto di apprendistato, dal Codice definito come tirocinio e disciplinato negli artt.2130 al 2134 c.c.,
risale agli statuti corporativi del Medioevo: già all’epoca, infatti, esisteva l’apprendista, colui che, tramite
un tirocinio d’arte o una professione inquadrata nella corporazione, mirava a diventare maestro o socio
dell’artigiano, per poter esercitare il mestiere. Quindi l’apprendistato, per propria definizione, fa in modo
che un soggetto impari un mestiere ed acquisisca delle competenze professionali utili nell’esercizio della
propria attività e questo è ciò che per lungo tempo è avvenuto, anche in epoca moderna. Infatti giovani
bisognosi, col passare del tempo ed attraverso un tirocinio, hanno acquisito una qualifica professionale che
gli ha assicurato un posto di lavoro.
Con l’evolversi della società e l’alternarsi dell’organizzazione taylorista e fordista all’industria tecnologica,
l’apprendistato ha conosciuto un netto periodo di crisi, in quanto la maggior parte delle mansioni sono
risultate per diverso tempo troppo elementari e per altrettanto tempo troppo complicate. Oggi non è
sufficiente un semplice addestramento o tirocinio, ma occorre una formazione professionale adeguata,
ecco perché il contratto di apprendistato è stato notevolmente rivisto, dopo essere stato utilizzato solo e
solamente nell’artigianato, mentre la medio grande impresa prediligeva il contratto di formazione e lavoro.
Il D.Lgs. 276/2003 ha previsto un nuovo apprendistato, distinto in tre diverse specie, che ha abbracciato
anche uno dei tipi del vecchio c.f.l., mentre il secondo tipo si è trasformato nel contratto di inserimento, il
quale più che mirare alla formazione di un soggetto, mira all’occupazione di lavoratori appartenenti a fasce
deboli.
Le tre specie di contratto di apprendistato
Abbiamo detto che esistono tre tipologie di apprendistato:
1. Qualificante: serve ad espletare il diritto-dovere di istruzione e formazione, ossia a conseguire una
qualifica professionale da parte di soggetti che abbiano compiuto il 15esimo anno di età e può
durare al massimo 3 anni;
2. Professionalizzante: serve ad acquisire una qualificazione attraverso la formazione sul lavoro, ed è
destinato ai giovani tra i 18 ed i 29 anni. Può durare da un minimo di 2 anni ad un massimo di 6,
anche se la durata è stabilita dai contratti collettivi;
3. Specializzante: serve per l’acquisizione di titoli di studio secondari ed universitari, nonché di alta
formazione o di specializzazione tecnica superiore. E’ rivolto ai giovani tra i 18 ed i 29 anni. Durata e
regolamentazione sono rimesse alle Regioni per quanto concernente la formazione. Fino
all’emanazione delle leggi regionali, tale disciplina è rimessa alla contrattazione collettiva.
Profilo causale. Fonti di regolazione del nuovo apprendistato
Il vecchio contratto di apprendistato disciplinato all’interno del Codice civile prevedeva che il datore di
lavoro si avvalesse della prestazione lavorativa dell’apprendista, impartendogli l’insegnamento necessario
per diventare un lavoratore qualificato e corrispondendogli una retribuzione per il lavoro svolto.
La situazione, con il nuovo apprendistato diviso in tre tipologie, non è mutata. Si mira sempre alla
formazione dell’apprendista ed alla sua retribuzione, sebbene la prima funga da obbligazione primaria del
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datore di lavoro. Il problema è nella disciplina, in quanto il D.Lgs.276/2003 non ha regolamentato, se non
sotto i profili essenziali, la materia. Si ritiene che debba applicarsi la disciplina del contratto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato.
Disciplina contrattuale e del rapporto di lavoro nelle tre specie di apprendistato
Il D.Lgs.276 detta una serie di principi valevoli per le tre tipologie di apprendistato. Anzitutto il numero di
apprendisti alle dipendenze di un datore di lavoro non può superare il 100% dei lavoratori qualificati già
dipendenti. Se il datore non ha lavoratori o ne ha meno di tre, potrà assumere 3 apprendisti. Inoltre gli
apprendisti non possono avere una categoria di inquadramento di oltre 2 livelli inferiore rispetto ai
lavoratori addetti a mansioni che richiedono le qualificazioni che l’apprendista raggiungerà al termine della
formazione. Sono previsti degli incentivi di carattere normativo ed economico a favore di imprese che
accoglieranno apprendisti al proprio interno.
Il decreto in questione, inoltra, fissa dei principi comuni per ciò che riguarda l’apprendistato qualificante e
quello professionalizzante, lasciando escluso e privo di disciplina il terzo tipo, quello specializzante. Per i
primi due è previsto che il contratto rispetti la forma scritta ad substantiam e che contenga la prestazione
lavorativa oggetto dello stesso contratto ed un piano di formazione individuale per il soggetto con
individuazione della relativa qualifica. L’apprendista, inoltre, deve essere retribuito a tempo e non a
cottimo. Il datore di lavoro, al termine dell’apprendistato può liberamente recedere dal contratto,
dandone preavviso, mentre in costanza del rapporto non può recedere se non per giusta causa o
giustificato motivo. I periodi di apprendistato del primo tipo possono sommarsi a quelli del secondo tipo
per il raggiungimento dell’obiettivo formativo del secondo, ossia per il riconoscimento di una qualifica
professionale.
Formazione professionale nelle 3 forme di apprendistato
Spetta alle leggi regionali stabilire la disciplina relativa ai tre tipi di apprendistato. Se, però, per quanto
concerne il terzo tipo non vi è alcun vincolo previsto dal decreto 276, per il primo e secondo tipo di
apprendistato sono previsti dei criteri direttivi, che limitano l’operato delle Regioni.
Uno di questi limiti è costituito da un tetto di ore minimo di formazione esterna o interna all’azienda,
congruo al raggiungimento della qualifica (per l’apprendistato del secondo tipo deve essere di almeno 120
ore annue).
Per entrambe le forme di apprendistato, inoltre, l’apprendista ha diritto a conseguire la qualifica
professionale inerentemente al percorso di formazione interna o esterna all’impresa, la quale deve essere
registrata su un libretto formativo. L’apprendista deve essere affidato ad un tutor aziendale che abbia
competenze adeguate.
La materia, comunque, resta di competenza concorrente tra Stato e Regioni.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: La L.133/2008 di conversione del D.L.112/2008, sulla
scorta di un precedente Protocollo tra Governo e Parti sociali del 2007, ha modificato la materia
dell’apprendistato del secondo (professionalizzante) e del terzo tipo (specializzante), lasciando inutillizabile
il primo.
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Per l’apprendistato professionalizzante è stato prevista la soppressione della durata minima di 2 anni,
lasciando inalterata la durata massima di 6 e rimettendo alla contrattazione collettiva la decisione circa la
durata dello stesso. Sotto il profilo della formazione è stato introdotto un canale parallelo di formazione
interamente previsto dalla contrattazione collettiva, con l’esclusione della competenza regionale.
Per l’apprendistato specializzante è stato previsto che esso possa essere utilizzato per conseguire il titolo di
dottore di ricerca in ambito universitario. Tale tipologia di apprendistato, inoltre, tramite una convenzione
tra Università e datore di lavoro, può operare anche in assenza di regolamentazioni regionali. Infine è stata
estesa anche all’apprendistato specializzante la disciplina di quello professionalizzante per ciò che
concerne gli incentivi ed i principi disciplinanti (forma scritta, compenso NON a cottimo ecc).
Inoltre la nuova disciplina ha abrogato, a grandi linee, gran parte della vecchia inerente l’apprendistato
(visita sanitaria preassuntiva degli apprendisti, informativa semestrale alla famiglia, comunicazione alla
Regione degli apprendisti e dei relativi tutori aziendali per la formazione esterna).
Contratto d’inserimento. Progetto individuale d’inserimento
Il D.Lgs.276 disciplina il contratto di inserimento, un nuovo tipo di contratto che, tramite l’adattamento
delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto lavorativo, mira a favorire
l’inserimento di lavoratori appartenenti alle c.d. fasce deboli del mercato. Anche qui si ha una finalità
formativa, su cui però è preponderante l’inserimento del lavoratore.
Per quanto riguarda i lavoratori, possono accedere alla stipulazione di un contratto d’inserimento:
• Giovani di età compresa tra i 18 ed i 29 anni;
• Disoccupati di lunga durata di età compresa tra i 29 ed i 32 anni;
• Lavoratori con più di 50 anni di età privi di posto di lavoro;
• Donne di qualsiasi età appartenenti ad aree geografiche il cui tasso di occupazione femminile sia
inferiore del 20% rispetto a quello maschile, o il cui tasso di disoccupazione femminile sia superiore
del 10% rispetto a quello maschile;
• Lavoratori che vogliono riprendere l’attività lavorativa e che non lavorino da almeno 2 anni;
• Soggetti affetti da grave handicap fisico, psichico o mentale.
Per ciò che concerne i datori di lavoro, invece, possono stipulare il contratto d’inserimento:
• Enti pubblici economici;
• Imprese e consorzi;
• Gruppi di imprese;
• Associazioni professionali, sportive e socio-culturali;
• Fondazioni;
• Enti di ricerca pubblici e privati;
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• Organizzazioni ed associazioni di categoria.
Sono esclusi i datori di lavoro che non abbiano mantenuto in servizio almeno il 60% dei lavoratori il cui
contratto di inserimento sia scaduto nei 18 mesi precedenti, salvo che si tratti di un solo contratto scaduto.
Per la validità del contratto il datore di lavoro deve aver predisposto, d’accordo con il lavoratore, un
progetto di inserimento individuale. I piani individuali possono scaturire, anche, da contratti collettivi
nazionali o territoriali. La formazione eventualmente maturata deve essere registrata sul libretto
formativo.
Disciplina del contratto d’inserimento e del rapporto di lavoro. Incentivi economici
Per il contratto d’inserimento è prevista la forma scritta ad substantiam, oltre alla previsione del piano
individuale d’inserimento: in mancanza dell’osservanza di queste regole, il lavoratore si considera assunto
a tempo indeterminato.
Il contratto stesso non può avere durata inferiore ai 9 mesi e superiore ai 18 (36 per portatori di handicap).
Il rinnovo del contratto è vietato, ma è concessa la proroga di altri 18 mesi (36 per i portatori di handicap).
Si applica la disciplina del contratto a tempo determinato così come prevista dal D.Lgs.368/2001, salvo che
i contratti collettivi non stabiliscano diversamente.
Analogamente a quanto previsto per l’apprendistato, il lavoratore, durante il rapporto, non può avere una
categoria d’inquadramento inferiore di più di due livelli a quella dei lavoratori regolarmente assunti le cui
mansioni corrispondano alla qualifica che il lavoratore vuole conseguire.
I lavoratori assunti con contratto d’inserimento non possono essere computati nei limiti numerici previsti
da leggi o contratti collettivi per l’applicazione di determinate normative. Inoltre i datori di lavoro hanno
diritto ad incentivi economici per la stipulazione di contratti d’inserimento, che perdono in caso di gravi
inadempienze nella realizzazione del progetto individuale di inserimento.
Il contratto di formazione e lavoro (c.f.l.)
Il contratto di formazione e lavoro è stato totalmente vietato, all’interno del settore privato, dalla riforma
del mercato del lavoro del 2003. Tuttavia, essendo ancora possibile stipularlo da parte delle pubbliche
amministrazioni, è doverosa una trattazione dell’argomento, ricordando che la riforma suddetta non ha
riguardato il settore pubblico.
Con il c.f.l. possono essere assunti lavoratori tra i 16 ed i 32 anni ed esistono due tipologie di c.f.l.: una
destinata all’acquisizione di professionalità intermedie o elevate, nella quale prevale una finalità formativa,
l’altra volta ad agevolare l’inserimento professionale del giovane dopo un adeguamento delle proprie
capacità professionali, in cui prevale appunto l’inserimento occupazionale. Come possiamo notare, la
prima tipologia di c.f.l. assomiglia all’apprendistato, mentre la seconda è quasi identica al contratto di
inserimento.
Il c.f.l. di primo tipo può avere durata massima di 24 mesi, mentre quello di secondo tipo può durare 12
mesi. Inoltre le amministrazioni interessate devono predisporre un progetto formativo (un po’ come
avviene per l’inserimento), da sottoporsi all’approvazione preventiva di competenti organi individuati dalle
regioni, salvo che il progetto non sia conforme a quanto previsto dall’autonomia collettiva.
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Anche in caso di c.f.l. vi sono, poi, dei tetti orari di formazione teorica oltre all’attività lavorativa: 20 ore per
la seconda tipologia ed 80 e 130 per la prima.
Il contratto di formazione e lavoro deve essere stipulato in forma scritta ad substantiam e copia del
contratto deve essere consegnata al lavoratore. La disciplina contrattuale è quella del rapporto di lavoro
subordinato in generale, almeno per le parti non derogate da leggi speciali.
Alle amministrazioni pubbliche che stipulano questo tipo di contratti vengono garantiti incentivi economici,
consistenti in una ridotta contribuzione previdenziale, che la Commissione Europea ha ritenuto, in alcuni
casi, configurare l’ipotesi di aiuti di Stato alle imprese, pertanto vietati. Ecco perché il c.f.l. è stato vietato
per quanto concerne il settore privato.
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CAPITOLO DECIMO – TUTELA DEL LAVORATORE NEL MERCATO DEL LAVORO
Tutela del lavoratore nel mercato del lavoro: diritto al lavoro
L’art.4 della Costituzione italiana del 1948 sancisce il diritto al lavoro di qualsiasi cittadino, sottolineandone
l’importanza, al comma 2, anche dal punto di vista del dovere. Il diritto al lavoro contempera due interessi
diversi: quello del cittadino a poter accedere ad un’attività lavorativa tramite la quale esprimere le proprie
capacità e quella del soggetto a poter percepire, in cambio proprio dell’attività lavorativa, una retribuzione
che funga da mezzo di sostentamento dell’individuo. Se, infatti, il lavoratore è visto come appartenente ad
una categoria socialmente sottoprotetta e parte debole a livello contrattuale già all’interno del rapporto di
lavoro, dal punto di vista sociale il singolo soggetto bisognoso di un’attività lavorativa è di per sé debole, in
quanto necessita di un’attività lavorativa per poter ricavare un reddito.
Da un diverso punto di vista, l’art.41 comma 1 della Costituzione garantisce la libertà d’iniziativa
economica privata (vincolata alla sicurezza, libertà e dignità della persona, nonché all’utilità sociale), la
quale esprime la possibilità del soggetto di poter esercitare un’attività d’impresa.
La tutela del diritto al lavoro si scontra obbligatoriamente con le decisioni economiche delle imprese: per
questo motivo la disciplina del mercato del lavoro deve regolare le relazioni di interdipendenza tra
DOMANDA ed OFFERTA. Ruolo preminente, in tal senso, assume l’attività dei pubblici poteri, i quali devono
garantire da un lato politiche economiche volte a far crescere le attività e gli investimenti produttivi, e
dall’altro devono combattere la disoccupazione. Quest’ultima, tra l’altro, determina non solo la perdita del
reddito, ma anche l’esclusione sociale di tutti coloro che ne sono colpiti, ed è per tal motivo che contro la
disoccupazione si è mossa anche l’Unione Europea, promuovendo lo sviluppo del livello occupazione come
proprio obiettivo e cercando di garantire, tramite l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri, un
sistema europeo in grado di accogliere i lavoratori di qualsiasi cittadinanza.
SEZIONE A: I SERVIZI ALL’IMPIEGO
Le origini dell’istituto del collocamento
Ruolo preminente, tra i servizi all’impiego, spetta sicuramente all’istituto del collocamento, per mezzo del
quale si realizza un primo incontro tra domanda ed offerta nel mercato di lavoro, antecedente
all’instaurazione dei vari rapporti lavorativi. Con esso il legislatore mira a contrastare tanto la
disoccupazione strutturale, quanto quella frizionale, ossia derivata dall’andamento ciclico dell’economia.
Nel periodo corporativo le leggi del tempo introdussero il monopolio pubblico del collocamento: nessun
intermediario privato avrebbe potuto fungere da tramite tra domanda ed offerta. Tale principio, tra l’altro,
è stato mantenuto anche all’interno della prima legge successiva alla caduta del sistema corporativo, la
L.264/1949, la quale ha previsto che il collocamento vada a realizzare l’equa ripartizione delle occasioni di
lavoro mediante la c.d. richiesta numerica: le imprese indicano di quanto personale e di quali categorie
necessitano, mentre è il collocamento ad occuparsi dell’avviamento della forza lavoro.
Dal controllo pubblico sull’incontro tra domanda ed offerta di lavoro alle politiche attive per
l’occupazione
Durante il periodo del boom economico italiano, avvenuto tra gli anni 50 e 60 del secolo scorso, e
soprattutto in seguito ad esso, la disciplina dei servizi per l’impiego è risultata sempre più insufficiente e
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carente. Occorreva trasformare la semplice struttura amministrativa in una vera e propria attività per
garantire l’incontro tra domanda ed offerta.
Il collocamento, rimasto d’attualità solo nell’area delle assunzioni obbligatorie, si è dimostrato insufficiente
per realizzare un sempre crescente impiego e per tal motivo si è trasformato, nel corso del tempo, in un
sistema integrato di servizi per favorire la crescita del livello occupazionale: in un primo momento si è
passati dalla richiesta numerica alla richiesta nominativa (le imprese indicavano il nome del lavoratore da
assumere) ed in seguito addirittura all’assunzione diretta, svuotando di significato lo stesso collocamento.
Inoltre quest’ultimo ha perso il carattere monopolistico che aveva in precedenza, per lasciar spazio ad
operatori privati con identico ruolo d’intermediazione nel mercato del lavoro.
Sono nati, proprio per attuare una politica attiva della manodopera, sistemi formativi per garantire che le
imprese trovino lavoratori professionalmente pronti per essere impiegati nella forza lavoro.
Riforma del mercato del lavoro operata dal decentramento amministrativo
La normativa in materia di servizi per l’impiego è stata ampiamente modificata in seguito alla riforma del
titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001.
Prima di essa, tuttavia, nel 1997 si era attuato un sistema decentrato, con l’attribuzione alle Regioni di un
notevole numero di competenze, in sostituzione di un sistema centralizzato non più in grado di rispondere
alle esigenze ed all’evoluzione del mercato del lavoro.
Il decentramento amministrativo ha previsto la costituzione, a livello provinciale, di Centri per l’impiego, in
sostituzione dei precedenti uffici del collocamento, ed ha soppresso la Commissione centrale per l’impiego,
sostituendola con la Conferenza Stato-Regioni per i relativi compiti.
Molte introduzioni a livello regionale attuate dal decentramento, inoltre, sono state col tempo dichiarate
illegittime dalla Corte costituzionale, in quanto configgenti con l’autonomia delle Regioni, già riconosciuta
in determinate materie prima della riforma costituzionale del 2001.
Un’importante innovazione è stata costituita dal Servizio Informativo Lavoro (SIL), il quale ha posto in
essere una rete di governo del mercato del lavoro, introducendo una sezione anagrafica nella quale
iscrivere i lavoratori in cerca di occupazione, con le relative schede professionali, in modo tale da garantire
tanto agli intermediari quanto alle aziende un database a loro disposizione.
La riforma costituzionale
La L.Cost.3/2001, la quale ha riformato il Titolo V della seconda parte della Costituzione, ha continuato
nell’opera di decentramento attuata in precedenza, facendo rientrare la materia di “tutela e sicurezza del
lavoro”, e quindi anche la disciplina dei servizi all’impiego, nella competenza concorrente tra Stato e
Regioni, laddove è previsto che lo Stato fissi i principi fondamentali e la Regione, attenendosi ad essi,
disciplini la materia nel dettaglio. Questa previsione ha permesso alle Regioni di attuare un decentramento
dei servizi e degli uffici, dapprima impossibile, introducendo anche strumenti di formazione utili per la
preparazione dei lavoratori ad operare nelle imprese.
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Disciplina dei servizi per l’impiego. Le politiche sociali comunitarie.
Le discipline normative contenute nel provvedimento di decentramento amministrativo e di riforma
costituzionale, hanno portato all’abrogazione delle norme contenute nella legge del 1949 sul
collocamento, oggi non più visto come struttura di regolazione dell’incontro tra domanda e offerta, ma
come servizio per l’impiego. L’unico operatore monopolistico del collocamento, è stato sostituito dalle
agenzie per il lavoro, operatori privati che si occupano di gestire il mercato del lavoro, iscritti in appositi
albi ed a cui è imposto il divieto di percepire compensi dal lavoratore che vanno ad aiutare, salvo specifici
casi (lavoratori altamente professionalizzati e specifici servizi). Il D.Lgs.276 ha previsto 5 tipi di agenzie per
il lavoro:
• Agenzie di somministrazione del lavoro, adibite a svolgere i compiti previsti dall’art.20;
• Agenzie di somministrazione a tempo indeterminato, adibite a svolgere una sola funzione prevista
dall’art.20;
• Agenzie di intermediazione;
• Agenzie di ricerca e selezione del personale;
• Agenzie di supporto alla ricollocazione del personale.
Le agenzie di somministrazione del lavoro possono svolgere anche attività di intermediazione, di ricerca e
selezione del personale e di supporto alla ricollocazione dello stesso. Le agenzie di intermediazione
possono svolgere anche attività di ricerca e selezione, nonché di ricollocazione del personale.
Le agenzie che percepiscano compensi dai lavoratori, in cambio dei propri servizi, sono soggette a sanzione
penale ed a cancellazione dall’albo.
Anche altri soggetti possono affiancarsi alle agenzie: università pubbliche e private, associazioni di datori di
lavoro e lavoratori più rappresentative che stipulino contratti collettivi, associazioni nazionali di tutela ed
assistenza degli imprenditori, del lavoro e della disabilità, così come le camere di commercio, i comuni, le
scuole medie superiori, fondazioni volte a tal scopo.
Le competenze provinciali sono rimaste intatte così come previsto dal D.Lgs.469/1997, ritenute dalla Corte
costituzionale legittime purché operanti in continuità con le regioni.
E’ stata istituita, inoltre, la Borsa continua nazionale del lavoro, un sistema aperto di incontro tra domanda
ed offerta di lavoro, a cui possono accedere tanto imprenditori quanto lavoratori in cerca di occupazione o
di un cambio di occupazione. Esso è stato affiancato al SIL e la diffusione dei dati immessi deve essere
autorizzata dai soggetti che vi accedono.
Inoltre, è stato ribadito dal D.Lgs.276/2003 il principio di non discriminazione nell’effettuare indagini,
trattamento di dati o preselezione di lavorato: queste operazioni, infatti, non possono essere svolte sulla
base di discriminazioni di qualsivoglia genere, se non nel caso di attività lavorativa per cui sia necessaria
una determinata situazione (religiosa, culturale o di altro tipo).
I Centri per l’impiego istituiti presso le Province hanno oggi il mero ruolo di accertamento dello stato di
occupazione/disoccupazione, utile per l’erogazione di sussidi.
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Quindi, nell’ottica delle modificazioni apportate dai vari interventi legislativi, il disoccupato deve assumere
un atteggiamento attivo nella ricerca di un lavoro, onde evitare di permanere nel suo stato di inattività. Lo
stato di disoccupazione viene meno nel momento in cui il soggetto inizia a lavorare o non si presenti, senza
giustificato motivo, ad una convocazione del Centro per l’impiego oppure rifiuti una congrua offerta di
lavoro nell’ambito del bacino territoriale di appartenenza.
Sui datori di lavoro grava, poi, l’obbligo di comunicazione ai Centri per l’impiego in caso di modificazione
delle originarie condizioni di assunzione di un lavoratore, per sopravvenute modifiche contrattuali.
Il servizio offerto dalle amministrazioni locali, quindi, si configura come un servizio pubblico a sostegno
dell’occupazione, in concorrenza con quello offerto dai privati ed in base alle discipline regionali che si
vanno moltiplicando in materia.
Il problema dell’arresto della crescita occupazionale riguarda tutta l’Unione Europea, il che ha giustificato
l’inserimento, da parte del Trattato di Amsterdam, del raggiungimento di un elevato livello occupazionale e
di protezione sociale da parte, all’interno degli obiettivi dell’UE previsti nell’art.2 TUE.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: già all’interno del testo, al di là dell’appendice, si è
avuto modo di precisare che il datore di lavoro è obbligato, nella maggior parte dei rapporti lavorativi
(subordinati o autonomi in forma coordinata e continuativa, anche a progetto o nel caso di socio
lavoratore di cooperativa e di associato in partecipazione con apporto lavorativo), a dare comunicazione
dell’instaurazione di un rapporto lavorativo un giorno prima della stessa al Servizio per l’impiego
competente a livello territoriale. Inoltre ogni datore di lavoro era obbligato a tenere il libro paga ed il libro
matricola, unificati dal D.L.112/2008 (convertito con L.133/2008) all’interno del LIBRO UNICO, il quale deve
contenere informazioni retributive, previdenziali, fiscali ed assicurative di tutti i lavoratori. Sono obbligati
ad averlo tutti i datori di lavoro privati, ad eccezione di quelli domestici, ed all’interno dello stesso vanno
iscritti tutti i lavoratori subordinati, anche a domicilio, i collaboratori continuativi e coordinati, anche quelli
a progetto, nonché gli associati in partecipazione con apporto di lavoro, anche misto. Solo collaboratori di
imprese familiari, coadiuvanti di imprese commerciali e soci lavoratori di attività commerciale e di imprese
in forma societaria sono esclusi. Il libro può essere conservato presso la sede legale dell’impresa, presso lo
studio del consulente del lavoro o presso le associazioni di categorie delle imprese artigiane e delle piccole
imprese.
Va precisato che i rapporti di lavoro devono rientrare nell’ambito della legalità ed il legislatore, infatti, si è
scagliato contro il lavoro in nero, ossia contro il lavoro esercitato da quei soggetti che non risultano da
alcuna scrittura o da altra documentazione obbligatoria. Per i datori di lavoro che si avvalgono del lavoro in
nero è prevista una sanzione amministrativa da €1500,00 sino a €12.000 per ciascun lavoratore,
maggiorata di € 150,00 per ogni giornata di lavoro effettivo e comminata dalla Direzione provinciale del
lavoro. E’ prevista, inoltre, la sospensione dell’attività d’impresa in caso di reiterate violazioni o nel caso in
cui si riscontri che il 20% almeno del totale dei lavoratori sia “a nero”.
Collocamento in agricoltura. Collocamenti speciali. Lavoratori italiani disponibili a lavorare in Paesi
extra-comunitari e lavoratori extra-comunitari
La riforma del mercato del lavoro ha riguardato, oltre al collocamento ordinario, anche il collocamento in
agricoltura, nonché i collocamenti speciali dapprima previsti. In tema di agricoltura, infatti, il collocamento
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concepito come incontro tra la domanda e l’offerta, aveva fallito nel proprio compito, specie con
riferimento alle regioni meridionali.
Sono stati, pertanto, soppressi gli uffici del Ministero del lavoro per il collocamento in agricoltura, le cui
competenze sono passate ai Centri per l’impiego e la cui disciplina deve essere emanata dalle Regioni.
Anche gli altri sistemi di collocamento speciale sono venuti meno o comunque sono stati ricondotti alla
disciplina delle Regioni: lavoratori dello spettacolo e lavoratori a domicilio.
Presso le regioni, tuttavia, vi sono delle speciali liste per ciò che concerne i lavoratori italiani disposti a
svolgere la propria attività all’estero in Paesi extra-comunitari, a cui continua ad applicarsi una disciplina
speciale.
Per ciò che riguarda, al contrario, i lavoratori extra-comunitari nel nostro Paese, è previsto un controllo dei
flussi migratori tramite la previsione annuale del Governo delle quote massime di stranieri che possono
lavorare nel nostro Paese, tenuto conto delle quote-flussi, misure di protezione temporanea volte ad
occupare più lavoratori italiani. Inoltre il cittadino extra-comunitario che voglia lavorare all’interno dello
Stato italiano necessita di un contratto di soggiorno per lavoro subordinato a tempo determinato o
indeterminato, o per lavoro stagionale: in tale contratto è previsto che il datore di lavoro si faccia garante
della disponibilità di un alloggio, che deve rispettare determinati standard, per il lavoratore, nonché delle
spese per il ritorno del lavoratore nel Paese d’origine. Un’integrazione socio-economica è, invece, prevista
per i lavoratori regolarmente immigrati, nei confronti dei quali non si deve applicare alcuna
discriminazione.
SEZIONE B: IL COLLOCAMENTO DEI DISABILI
Dal collocamento obbligatorio al collocamento mirato dei disabili
La disciplina del collocamento originaria, benché agevolasse l’incontro tra domanda ed offerta, non
vincolava, per la generalità dei lavoratori, l’autonomi privata dei datori di lavoro in alcun modo. Per gli
invalidi di guerra, ed in seguito per un numero sempre crescente di categorie di disabili, era prevista,
invece, un’ulteriore tutela, dovuta alla più ampia debolezza sociale e contrattuale dei soggetti in questione.
Era posto a carico dei datori di lavoro l’obbligo a contrarre nei confronti di queste categorie in cambio di
agevolazioni di vario tipo: il datore di lavoro che non avesse ottemperato a tale obbligo sarebbe andato
incontro a sanzioni amministrative e per la PA anche penali.
La disciplina è stata modificata dalla L.68/1999, la quale prevede un sistema di sostegno e collocamento
mirato dei disabili coordinato con il sistema dei servizi all’impiego: sono le Regioni a doversi occupare
dell’intera disciplina in materia, prevedendo anche dei nuovi servizi per l’impiego che vadano a sostituire le
vecchie commissioni provinciali per il collocamento obbligatorio.
Inserimento al lavoro dei disabili
Rientrano nella disciplina della L.68/1999 le “persone disabili”, una volta accertata la propria situazione di
disabilità, secondo criteri stabiliti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la quale deve stabilire anche
come effettuare il controllo di permanenza di tale stato invalidante.
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I datori di lavoro pubblici e privati che abbiano alle proprie dipendenze più di 15 dipendenti, devono
impiegare anche un numero variabile di disabili: 1 disabile se occupano dai 15 ai 35 dipendenti, 2 disabili se
occupano dai 36 ai 50 dipendenti, il 7% dei lavoratori impiegati se occupano più di 50 dipendenti.
In queste quote, definite come quote di riserva, non rientrano i lavoratori già dipendenti divenuti inabili
con una riduzione della capacità lavorativa di almeno il 60% qualora tale inabilità sia dovuta a malattia o
infortunio o, comunque, quando l’inabilità sia dovuta all’inottemperanza delle regole di sicurezza sul lavoro
da parte dell’imprenditore. Non sono, inoltre, computabili nelle quote di riserva i lavoratori a tempo
determinato assunti per un periodo inferiore a 9 mesi, i disabili già occupati dal datore di lavoro ed i
dirigenti, nonché gli apprendisti e coloro assunti con contratto d’inserimento o di formazione e lavoro nel
caso di PA.
Tra l’altro sono esclusi dall’assumere disabili le agenzie di somministrazione ed alcuni soggetti (partiti
politici e sindacati) per cui l’obbligo non è eliminato, ma temperato. E’ sospeso, ovviamente, tale obbligo
per le imprese per cui è in corso la CIG o una procedura di mobilità. Sulla base di un’apposita richiesta, i
datori di lavoro possono ripartire i lavoratori disabili tra più unità produttive, oppure chiedere l’esonero
parziale in quanto impossibilitati ad assumere, pagando un piccolo contributo per ogni disabile non
occupato.
Presso i Centri per l’impiego si trovano appositi elenchi di disoccupati disabili da poter impiegare ed il
Ministero del lavoro pretende, entro determinati periodi, che i datori di lavoro presentino dei prospetti dai
quali si evinca quanti lavoratori disabili sono occupati, nonché i posti di lavoro disponibili per gli stessi.
Se la quota d’obbligo di un’impresa risulti scoperta, entro 60 giorni il datore di lavoro deve presentare, al
Centro per l’impiego di riferimento, una richiesta di avviamento del disabile, tramite richiesta nominativa e
numerica per i privati, solo numerica per la PA.
Le imprese, anche qualora non siano vincolate ed obbligate, possono stipulare delle convenzioni per
l’inserimento dei lavoratori disabili, in cambio di agevolazioni di vario genere.
Oltre che con l’assunzione del disabile, il datore di lavoro può coprire la propria quota d’obbligo tramite
una commessa di lavoro a favore di una cooperativa sociale.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: la disciplina dell’inserimento al lavoro dei disabili ha
subito alcune modificazione che meritano di essere evidenziate. La L.247/1997 ha previsto che per le
convenzioni di inserimento lavorativo temporaneo con finalità formativa, si instauri un rapporto trilaterale
tra imprenditore obbligato all’assunzione, soggetti ospitanti (per tali intendendosi le cooperative sociali di
tipo b) o imprese sociali e disabile: il datore di lavoro/imprenditore affida delle commesse ai soggetti
ospitanti che faranno lavorare il disabile e contestualmente quest’ultimo viene assunto dall’imprenditore,
così risultando nella quota di riserva.
Diverso è il caso delle convenzioni di inserimento lavorativo definitivo, all’interno delle quali sussiste
sempre il rapporto trilaterale, ma il disabile viene assunto dai destinatari, non dagli imprenditori obbligati,
che si limitano a conferire le commesse ai destinatari (è possibile solo in caso di imprese con più di 50
dipendenti e nel limite del 10% della quota di riserva, nonché per un periodo massimo di 3 anni,
rinnovabile una sola volta per altri 2, al termine del quale il datore può chiedere il rinnovo o assumere il
lavoratore disabile). La L.247/1997 ha poi previsto che siano le Regioni e le Province autonome a stabilire
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gli incentivi a favore di imprese che adoperino disabili. Tutte le modifiche della L.247/1997 sono state
apportate alla L.68/1999, di cui abbiamo parlato.
Tutela del disabile nel rapporto di lavoro
Nei confronti del lavoratore disabile assunto obbligatoriamente non devono essere poste in essere
condotte discriminatorie, in quanto egli ha diritto al trattamento retributivo e normativo disposto dalle
leggi e dai contratti collettivi, oltre a non poter essere impiegato in modo incompatibile con la propria
disabilità.
Qualora la disabilità di un soggetto si aggravi, egli ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di
lavoro fino a che l’aggravamento persiste. Tuttavia se l’aggravamento, ovviamente accertato da apposite
commissioni, si presenta come definito, il datore di lavoro può ottenere la risoluzione del rapporto, tramite
esercizio del diritto di recesso, ossia per mezzo di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il
disabile, inoltre, può essere licenziato anche per giusta causa o giustificato motivo al pari di ogni altro
lavoratore che non attenga alla sua condizione personale di inabilità, o anche per riduzione del personale,
sempre che non si leda la quota di riserva, in quanto in tal caso il licenziamento è annullabile. Comunque il
datore di lavoro dovrà sostituirlo con altro disabile.
La Corte costituzionale, tra l’altro, prima dell’emanazione della L.68/1999 aveva previsto che l’assunzione
obbligatoria prevista a favore dei disabili non è anticostituzionale, in quanto garantisce l’osservanza
dell’art.38 comma 3 della Costituzione, secondo cui gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed
all’avviamento professionale.
SEZIONE C: FORMAZIONE PROFESSIONALE
Formazione professionale e trasformazioni economiche. L’alternanza scuola-lavoro
La misura di politica attiva del lavoro sicuramente più idonea a garantire l’incremento dell’occupabilità e
quindi un crescente numero della forza lavoro qualificata è offerta dalla “formazione professionale”, intesa
come l’insieme di interventi finalizzati ad agevolare l’ingresso, il reingresso e la permanenza nel mercato
del lavoro, in quanto la sempre maggiore evoluzione tecnologica e la conoscenza di essa non permette solo
ai disoccupati di accedere a nuove attività lavorative, ma anche ai già occupati di mantenere il proprio
posto di lavoro senza che l’imprenditore necessiti di nuovo personale maggiormente qualificato.
Inoltre la crisi del contratto di lavoro a tempo indeterminato e l’agevolazione, consecutiva, di forme di
lavoro subordinato flessibili (o atipiche) ha permesso il moltiplicarsi di offerte di lavoro diversificate, in cui
è richiesta, volta per volta, una formazione professionale diversa.
La materia della formazione professionale è, in forza dell’art.117 della Costituzione dopo la riforma del
2001, di competenza esclusiva delle regioni: ciò significa che solo a tali enti territoriali, e non più al sistema
centralizzato dello Stato, è permesso intervenire in materia, salvo casi eccezionali di mancanze da parte
delle Regioni.
Tra l’altro la stessa Unione Europea ha posto la formazione professionale tra i propri obiettivi per garantire
un livello crescente di occupazione, all’interno di un sistema in cui il mercato del lavoro sembra in crisi
continua.
90
Tra l’altro la formazione professionale deve sposarsi anche con l’istruzione obbligatoria prevista dalla
legge, innalzata di recente al compimento del diciottesimo anno di età. Tuttavia può essere prevista una
forma di alternanza tra istruzione e formazione professionale, dettata da un’organizzazione del sistema: le
scuole medie superiori possono prevedere l’avvicendarsi di orari scolastici e periodi di apprendimento in
situazioni lavorative.
Inserimento dei giovani nel mondo del lavoro: gli stages in azienda
Il legislatore ha previsto la possibilità, per garantire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, di poter
realizzare un’alternanza tra tirocini formativi e studio scolastico all’interno delle scuole superiori. Oltre a
questo, però, è stata prevista la possibilità, anche per coloro che abbiano già assolto l’obbligo scolastico, di
poter effettuare degli stages di orientamento e preparazione all’interno di aziende, affiancati da un tutor
preparato e competente: questo strumento permetterebbe ai giovani non solo di entrare in contatto col
vero mondo del lavoro, ma anche di avere una maggiore conoscenza delle scelte professionali alle quali
potrebbero andare incontro.
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CAPITOLO UNDICESIMO - LA DISCIPLINA DELLA DOMANDA DI LAVORO C.D. FLESSIBILE
Dalla legislazione antifraudolenta alla flessibilità controllata
Per lungo tempo, nonostante le pressioni provenienti dal mercato e dalle imprese, il legislatore italiano ha
ritenuto opportuno imporre una legislazione antifraudolenta in difesa del lavoratore, assicurando allo
stesso continuità e stabilità dell’occupazione. A partire dagli anni 70, tuttavia, si è assistito ad un
ampliamento delle ipotesi in cui è consentita la stipulazione di contratti a tempo determinato,
consentendo alla contrattazione collettiva di allentare i limiti imposti alla flessibilizzazione. Nel 1997, con la
disciplina del lavoro temporaneo o interinale, dando luogo a forme di flessibilità controllata e negoziata, si
è assistito ad un’altra tappa della graduale liberalizzazione del ricorso a forme di lavoro flessibile. Nel 2001,
poi, è stata emanata una disciplina legislativa che permette le assunzioni a tempo determinato per ragioni
oggettive e nel 2003, il già più volte citato D.Lgs.276, ha disciplinato nuovamente il lavoro interinale,
definito ora come somministrazione di lavoro, rendendo la disciplina meno vincolistica per le imprese.
Ovviamente tutti questi interventi normativi hanno reso la sicurezza di un posto sicuro sempre più lontana
dalle aspettative di un giovane che si affaccia sul mondo del lavoro.
SEZIONE A: CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO
Evoluzione della disciplina legislativa a partire dal codice civile
Il contratto di lavoro a tempo determinato è caratterizzato dall’apposizione di un termine di scadenza del
rapporto di lavoro fissato dalle parti o comunque sui cui le parti sono d’accordo, il quale si conclude in quel
momento senza necessità di alcuna dichiarazione.
Il codice civile, all’interno dell’art.2097 c.c., guardava con sfavore a tale tipo di contratto, vedendolo in
sostanza come potenzialmente fraudolento e teso ad eludere le norme in materia di contratto a tempo
indeterminato. Per tale motivo, l’articolo prevedeva che, nel caso in cui non fosse stata rispettata la forma
scritta ad substantiam o nel caso in cui si fosse dimostrata l’intenzione fraudolenta del datore di lavoro, il
contratto sarebbe stato considerato come a tempo INDETERMINATO. Ovviamente l’onere di dimostrazione
gravava in capo al lavoratore, per il quale sarebbe stato abbastanza difficile dimostrare una tale volontà da
parte del datore di lavoro.
Per tal motivo il legislatore ha emanato la L.230/1962, con la quale non solo ha abrogato l’art.2097 c.c., ma
ha riformato l’intera materia, guardando al contratto di lavoro a tempo determinato come un’ipotesi di
eccezionalità nei casi espressamente previsti dalla legge o nel caso di dirigenti, e prevedendo un forte
sistema sanzionatorio.
La normativa è stata sostituita dal D.Lgs.368/2001, che ha attuato, anche in forza di previsioni di matrice
europea, una liberalizzazione controllata della materia, mutando il proprio indirizzo politico originario.
Direttiva europea e nuova disciplina del D.Lgs.368/2001. Requisiti per l’apposizione del termine; forma e
onere di prova
In attuazione della Direttiva comunitaria 99/70, contenente l’accordo quadro sul lavoro a tempo
determinato concluso tra le organizzazioni sindacali a livello comunitario, il Governo italiano ha emanato il
D.Lgs.368/2001, che ha riformato la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, abrogando
totalmente la L.230/1962 e le norme ad essa collegate, fatta eccezione per le ipotesi di assunzione a
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termine dei lavoratori in mobilità e per quelli assunti in sostituzione di lavoratori in congedo parentale, di
maternità e paternità.
In linea con la precedente L.230, anche il decreto suddetto prevede che il contratto di lavoro a tempo
determinato debba recare delle causali, ma priva esse del carattere della “tassatività”, prevedendo che
debbano semplicemente rispondere a ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo.
Vengono, quindi, rimossi i limiti all’eccezionalità del rapporto di lavoro a tempo determinato, consentendo
all’autonomia contrattuale di prevedere una moltitudine di casi in cui è permesso stipulare questo tipo di
contratto. Ovviamente la causa giustificatrice deve realmente esistere ed anche nella nuova disciplina è
previsto che il contratto sia stipulato per iscritto ad substantiam, anche se il carattere di norma aperta
permette al datore di lavoro di trovare una qualsivoglia giustificazione alla conclusione di un contratto a
tempo determinato in luogo di uno a tempo indeterminato.
Il contratto deve specificare la causa e la scadenza del termine ed essere consegnato entro 5 giorni
lavorativi dall’inizio della prestazione al lavoratore, altrimenti perderà di efficacia e verrà considerato come
contratto a tempo indeterminato. Il giudice, tra l’altro, che si dovesse ritrovare dinanzi all’impugnazione di
un siffatto contratto, potrà, senza entrare nel merito, verificare la sussistenza effettiva della causa
giustificatrice.
Divieti; esclusioni; discipline speciali
L’apposizione del termine è vietata e pertanto il contratto si considera come a tempo indeterminato nei
casi di:
• Sostituzione di lavoratore in sciopero;
• Unità produttive dove sono stati licenziati collettivamente lavoratori adibiti alle medesime funzioni,
salvo che si tratti di sostituzione di lavoratori assenti, assunzione di lavoratori in mobilità o di
contratti di durata inferiore a tre mesi;
• Unità produttive interessate da riduzione di orario o sospensioni di lavoro con diritto
all’integrazione salariale per lavoratori adibiti alle medesime funzioni di quelli da assumere;
• Imprese inadempienti agli obblighi di sicurezza e tutela della salute dei lavoratori sul posto di lavoro
L’interesse dell’imprenditore, in questi casi, non merita la tutela del legislatore, dato il contrapporsi
d’interessi con alto valore sociale.
Sono esclusi, inoltre, dall’applicazione della disciplina del D.Lgs.368/2001 il contratto di formazione e
lavoro, il contratto di apprendistato, il contratto di lavoro temporaneo (poi reintegrato nella disciplina ad
opera del D.Lgs.276/2003 che ha previsto la somministrazione di lavoro in luogo del lavoro temporaneo), il
rapporto di lavoro degli operai a tempo determinato nell’agricoltura, nonché i rapporti a termine instaurati
con aziende di esportazione, importazione ed commercio all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli, ed i c.d.
rapporti a giornata di durata inferiore a 3 giorni.
Discipline speciali sono poi dedicate a determinate categorie di lavoratori. Per i dirigenti è previsto che il
contratto non superi la durata di 5 anni, che non debba prevedere obbligatoriamente la forma scritta, che
dia la facoltà al dirigente di recedere dopo un triennio, sebbene con preavviso, e che l’apposizione del
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termine è libera. Tutto ciò in ragione della maggiore facilità con cui il dirigente può spostarsi nel mercato
del lavoro.
Altra disciplina speciale è quella inerente il settore del trasporto aereo e dei servizi aeroportuali, per cui è
libera l’apposizione del termine.
Proroga del termine e successione di più assunzioni a tempo indeterminato
La proroga (continuazione) e la reiterazione (successione di più stipulazioni) del contratto di lavoro a
tempo determinato non sono vietate all’interno del D.Lgs.368/2001, ma semplicemente vincolate al
rispetto di determinati termini o periodi di tempo, il cui mancato rispetto comporta uno o più effetti
sanzionatori nei confronti del datore di lavoro.
In caso di proroga il termine fissato all’interno del contratto può essere liberamente (senza forma scritta)
prorogato solo se la durata del contratto stesso è inferiore a tre anni e se la proroga è resa necessaria da
una causa sopravvenuta, anche identica a quella del contratto originario. Inoltre la proroga è ammessa una
sola volta e comunque la durata totale del rapporto, in forza della proroga, non può essere superiore a tre
anni (ciò vuol dire che se nel contratto era previsto un termine di 2 anni e 11 mesi, la proroga potrà essere
di un solo mese). In mancanza, tra l’altro, della prova della necessità della proroga, il contratto si considera
a tempo indeterminato a partire dalla scadenza del termine.
Diversa dalla proroga è la continuazione del rapporto di lavoro oltre il limite contrattuale: in tal caso è
prevista una maggiorazione della retribuzione del 20% per i primi 10 giorni e del 40% per i successivi entro
il limite di 20 giorni per i contratti di durata inferiore a 6 mesi e 30 giorni per i contratti di durata superiore
a 6 mesi. Se il rapporto prosegue oltre i limiti dei periodi di tolleranza (20 o 30 giorni a seconda della durata
del contratto), il contratto diventa a tempo indeterminato a partire dalla scadenza dei termini.
Diversa ancora è la reiterazione o successione di più assunzioni a termine del medesimo lavoratore. Essa
non è vietata, ma tra la scadenza di un contratto a tempo determinato e la stipulazione del successivo
devono decorrere alcuni periodi di tempo: 10 giorni se il contratto aveva durata inferiore a 6 mesi e 20
giorni se aveva durata superiore a 6 mesi. Se tali periodi di tempo non vengono rispettati, il contratto
diventa a tempo indeterminato.
Disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato
Al rapporto di lavoro a tempo determinato si applica la medesima disciplina, in un’ottica di non
discriminazione, del lavoro a tempo indeterminato: il lavoratore ha diritto allo stesso trattamento
economico e normativo, oltre che alle ferie, alla tredicesima mensilità, al t.f.r. e ad ogni altro trattamento
di cui gode il lavoratore assunto a tempo indeterminato. Ovviamente tutti i trattamenti si devono riferire al
periodo lavorativo del soggetto, in forza del termine apposto al proprio contratto. L’inosservanza di tutti
questi obblighi da parte del datore di lavoro, legittima una responsabilità per inadempimento di
quest’ultimo, con le relative sanzioni amministrative pecuniarie.
I lavoratori a tempo determinato, qualora il contratto abbia durata superiore a 9 mesi, sono computabili ai
fini numerici per l’applicazione della disciplina d’attività sindacale. Anche tali lavoratori, tra l’altro, hanno
diritto ad una formazione professionale che, aumentandone capacità e preparazione, possa farli integrare
definitivamente nell’impresa in cui lavorano o in altra impresa.
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Per ciò che concerne lo scioglimento ante tempus del contratto è escluso il recesso unilaterale, data
l’apposizione del termine, se non nel caso di giusta causa che non permette la prosecuzione, neppure
temporanea, del rapporto. E’ escluso il giustificato motivo.
Limitazioni quantitative all’apposizione del termine; esenzioni; diritto di precedenza
Abbiamo visto come il D.Lgs.368/2001 abbia aperto all’individuazione da parte dell’autonomia individuale
della cause giustificatrici del contratto a tempo determinato, eliminando la tassatività prevista dalla
L.230/1962 inerente le stesse. Tuttavia il decreto ha rimesso all’autonomia collettiva ed ai contratti
nazionali di lavoro stipulati dai sindacati più rappresentativi l’individuazione di limitazione quantitative
dell’uso del contratto a tempo determinato. Si tratta delle c.d. clausole di contingentamento che, a
secondo di diversi criteri (numero di lavoratori, numero di lavoratori con una specifica mansione, numero
di lavoratori in un determinato territorio), limitano l’uso diffuso del contratto in questione. Lo stesso
decreto, però, ha previsto tutta una serie di casi, contenuti all’interno dell’art.7, esenti dalla limitazioni
quantitative:
• Avvio di nuove attività limitatamente a periodi definiti;
• Attività stagionali e ragioni di carattere sostitutivo;
• Intensificazione dell’attività in determinati periodi (punte periodiche);
• Specifici spettacoli o programmi televisivo-radiofonici;
• Esecuzione di opera o servizio a carattere straordinario o occasionale;
• Contratti di inserimento di giovani dopo un tirocinio o stage, o di lavoratori con più di 55 anni di età;
• Contratti di durata non superiore a 7 mesi (o altra durata stabilita dall’autonomia collettiva).
Inoltre il lavoratore che esercita attività stagionali o in determinati periodi dell’anno, entro 3 mesi (termine
di decadenza) dalla cessazione del rapporto di lavoro, può manifestare la propria volontà ad esercitare il
diritto di precedenza nel caso in cui l’impresa volesse porre in essere un’assunzione. Tale diritto di
precedenza si estingue entro un anno dalla cessazione del rapporto (prescrizione estintiva breve).
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO DELL’INTERA SEZIONE A: La L.247/2007 ha modificato
notevolmente la normativa in materia di lavoro a tempo determinato contenuta nel D.Lgs.368/2001. Oggi
è previsto che, in presenza di più contratti a termine ed indipendentemente da quale sia l’arco di tempo
trascorso tra i vari contratti, qualora il rapporto nel complesso superi i 36 mesi non è ammessa alcuna
reiterazione ed il rapporto stesso diviene a tempo indeterminato. Un ulteriore contratto a termine può
essere stipulato solo dinanzi alla Direzione provinciale del lavoro con l’assistenza di un rappresentante
sindacale che coadiuvi il lavoratore. La durata massima sarà stabilita da “avvisi comuni” adottati dalle parti
sociali. Sono esclusi dal limite di 36 mesi le attività stagionali e quelle eventualmente individuate dai
contratti collettivi nazionali e dagli avvisi comuni, nonché i dirigenti (ai quali la disciplina sul contratto a
termine non si applica) ed i contratti somministrazione a tempo determinato, di apprendistato e quelli con
finalità formative.
Altre modifiche sono state previste per ciò che concerne il diritto di precedenza dei lavoratori a tempo
determinato: è previsto che essi, qualora abbiano lavorato per almeno 6 mesi, hanno precedenza nelle
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assunzione a tempo indeterminato effettuate nei successivi 12 mesi dall’imprenditore. Stesso diritto hanno
i prestatori di lavoro di attività stagionali. La volontà di esercitare il diritto di precedenza deve essere
comunicata entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto nel caso di assunzioni a tempo indeterminato ed
entro 3 mesi nel caso di attività stagionali.
SEZIONE B: LA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO. DISCIPLINA DEGLI APPALTI E DEL COMANDO O
DISTACCO
Intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro. Decentramento produttivo ed
esternalizzazioni
Il fenomeno dell’interposizione ed intermediazione nel rapporto di lavoro, configurabile per mezzo di
diverse forme giuridiche (somministrazione, appalto ecc), prevede la presenza di un soggetto terzo,
intermediario tra i prestatori di lavoro e l’imprenditore. In sostanza un’impresa, senza la necessità di
assumere personale, si rivolge ad un intermediario, che gli procurerà la manodopera necessario per
l’esercizio dell’attività lavorativa e che si accollerà il rischio economico e giuridico della gestione della forza-
lavoro, tutto ciò per ricavare, dalla differenza tra il monte-salari ed il costo sopportato dall’impresa, un
proprio guadagno.
Ovviamente ciò comporta una minore tutela del lavoratore: un qualsivoglia evento potrebbe condurre alla
decisione dell’impresa di non necessitare più della forza-lavoro, il che lascerebbe i lavoratori tutelati
inferiormente rispetto a quanto lo sarebbero se fossero stati assunti dall’impresa stessa.
Per tal motivo il legislatore del 1960 guardava con sfavore a questa tipo di rapporto lavorativo, ponendo un
divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro.
Diversamente dalla mediazione codicistica, che agevola la formazione e la conclusione di un contratto,
l’intermediazione nei rapporti di lavoro è finalizzata al soddisfacimento dell’interesse delle imprese.
Al di là della semplice intermediazione, inoltre, ritroviamo altre fattispecie interpositorie che attuano un
decentramento produttivo, il quale prevede una dislocazione all’esterno dell’azienda principale di
segmenti del complessivo processo produttivo (esternalizzazione o outsourcing). Il fenomeno in questione
utilizza diversi tipi contratti sia sotto il profilo commerciale (appalto, franchising ecc), sia lavorativo (lavoro
autonomo, subordinato, parasubordinato).
Divieto di intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro. Il lavoro temporaneo
La L.1369/1960 aveva introdotto un divieto assoluto di intermediazione ed interposizione nel rapporto di
lavoro, vietando in sostanza tanto la fornitura di manodopera reclutata dall’assuntore interposto e messa
al servizio dell’imprenditore interponente (somministrazione di lavoro), quanto l’appalto di manodopera
utilizzata dall’interponente sotto la direzione dell’imprenditore (pseudo-appalto, differente dall’appalto in
quanto si fornisce solo una prestazione di lavoro, senza organizzazione dello stesso e gestione d’impresa a
proprio rischio). In caso di violazione delle norme previste dalla L.1369 erano previste sanzioni penali,a
carico dell’imprenditore e dell’intermediario, e sanzioni civili, in quanto i prestatori di lavoro venivano
considerati come dipendente dell’imprenditore.
La L.1369, inoltre, dettava una nuova disciplina propria degli appalti leciti, distinguendo tra appalti interni,
inerenti il normale ciclo produttivo dell’impresa committente, ed appalti esterni, estranei al normale ciclo
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produttivo della stessa. Era prevista un’uniformità di trattamento normativo e retributivo, nel caso di
appalto interno, tra i dipendenti dell’appaltante e quelli dell’appaltatore.
La L.1369, impedendo la somministrazione di manodopera, lasciava l’Italia fuori da un quadro normativo
pressoché unico dei Paesi industrializzati, europei e non.
La L.196/1997 introdusse il lavoro interinale (fornitura di lavoro temporaneo), il quale configurava un
rapporto trilaterale in forza del quale un’agenzia intermediatrice (o impresa fornitrice) inviava
temporaneamente la forza lavoro, da essa assunta, presso un terzo (utilizzatore) per effettuare una
prestazione lavorativa a favore di quest’ultimo. Venivano alla luce, quindi, due rapporti distinti: quello di
fornitura, intercorrente tra l’intermediario fornitore e l’imprenditore-utilizzatore, e quello di lavoro,
stipulato tra l’agenzia fornitrice ed i prestatori di lavoro. Va sottolineato come i lavoratori, pur essendo
dipendenti del fornitore, obbedivano al potere direttivo e di controllo dell’utilizzatore. La disciplina, però,
appariva molto rigida: solo le agenzie autorizzate dal Ministero del lavoro, in quanto società di capitali o
cooperative con unico scopo sociale la fornitura, potevano ricorrere al lavoro interinale ed esercitare
attività di fornitura. Inoltre l’utilizzatore doveva avvalersi del lavoro interinale solo per esigenze
temporanee, individuate tassativamente dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi.
La L.1369/1960, tra l’altro, non risultava abrogata dalla L.196/1997 e continuava ad operare per il pseudo-
appalto.
Somministrazione di lavoro: ipotesi di ricorso alla somministrazione
Il D.Lgs.276/2003, in attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla
L.30/2003 (Legge Biagi), ha abrogato definitivamente la L.1369/1960 inerente il divieto di intermediazione
ed interposizione, nonché gli artt.1 al 11 della L.196/1997 in tema di lavoro interinale, introducendo una
nuova disciplina normativa in tema di somministrazione del lavoro.
Essa permette ad agenzie per il lavoro, autorizzate dal Ministero del Lavoro in base a requisiti di
professionalità ed affidabilità e distinte tra agenzie abilitate alla somministrazione a tempo determinato ed
agenzie abilitate alla somministrazione a tempo indeterminato, di esercitare l’attività di somministrazione.
La somministrazione a tempo determinato, unica ipotesi possibile in caso di pubbliche amministrazioni, è
consentita solo in caso di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo riferibili
all’ordinaria attività dell’utilizzatore (art.20 comma 4). Limiti quantitativi a questo tipo di somministrazione
possono essere previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi.
La somministrazione a tempo indeterminato (art.20 comma 3) è consentita nei casi TASSATIVAMENTE
elencati dalla legge, in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo ed organizzativo:
• Per servizi di consulenza/assistenza nel settore informatico;
• Per servizi di custodia, portineria e pulizia;
• Per servizi di trasporto persone, merci e macchine da e per lo stabilimento;
• Per la gestione di parchi, biblioteche, musei, archivi, magazzini;
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• Per attività di consulenza direzionale, ricerca e selezione del personale, gestione dello stesso,
programmazione delle risorse;
• Per attività di marketing, analisi del mercato;
• Per la gestione di call-center;
• Per l’avvio di iniziative imprenditoriali previste dall’Unione Europea in zone ad alta disoccupazione;
• Per costruzioni edilizie in stabilimenti, per installazioni/smontaggio di macchinari ed impianti, per
particolari attività produttive legate all’edilizia e cantieristica navale;
• Altre ipotesi contemplate da contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi.
La somministrazione, sia essa a tempo determinato o indeterminato, è vietata per la sostituzione di
lavoratori in sciopero, per imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi, per lavoratori
adibiti ad unità produttive interessate da licenziamenti collettivi o da intervento della CIG.
Disciplina del contratto di somministrazione
Il contratto di somministrazione deve essere stipulato in forma scritta e contenere una serie di elementi
fondamentali, che andranno comunicati anche al lavoratore, per iscritto, al momento della stipulazione del
contratto o al momento dell’invio presso l’utilizzatore, e sono:
• Gli estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore;
• Il numero dei lavoratori da somministrare;
• Le ragioni che giustificano la somministrazione;
• I rischi per la salute del lavoratore;
• Data di inizio e durata del contratto;
• Mansioni alle quali adibire il lavoratore;
• Luogo, orario e trattamento economico/normativo delle prestazioni lavorative;
• Assunzione da parte del somministratore dell’obbligazione del pagamento del trattamento
economico e degli onere previdenziali al lavoratore;
• Assunzione da parte dell’utilizzatore dell’obbligo di rimborsare al somministratore le somme di cui
sopra;
• Assunzione dell’utilizzatore dell’obbligo del pagamento diretto al lavoratore, qualora il
somministratore sia inadempiente, salvo il diritto di rivalsa.
Disciplina del contratto e del rapporto dei lavoratori soggetti a somministrazione
Anzitutto dobbiamo specificare che il D.Lgs.276/2003 non disciplina palesemente il contratto di lavoro dei
prestatori soggetti a somministrazione, ma gli elementi principali sono rinvenibili all’interno del decreto.
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E’ previsto, infatti, che la somministrazione possa essere tanto a tempo determinato, ed in tal caso andrà
applicata la disciplina del D.Lgs.368/2001 sul lavoro a tempo determinato, quanto a tempo indeterminato,
applicando in questo caso la disciplina generale dei rapporti di lavoro.
Ovviamente le discipline legislative si applicano laddove siano compatibili. In caso di somministrazione a
tempo determinato, per esempio, non si applicano le norme contenenti il divieto di riassunzione del
lavoratore laddove non siano trascorsi 10 o 20 giorni: per il lavoratore assunto ai fini della
somministrazione, infatti, è previsto che il contratto possa essere prorogato con il consenso del prestatore
e per iscritto, nei casi stabiliti dai contratti collettivi.
Un altro esempio di disciplina speciale per la somministrazione lo ritroviamo nel caso di assunzione a
tempo indeterminato: qualora i prestatori di lavoro non stiano esercitando la propria attività presso alcun
utilizzatore, essi dovranno percepire un’indennità mensile di disponibilità salvo che, per giustificato motivo
o giusta causa, non operi una risoluzione del contratto. Inoltre nel caso di fine dei lavori relativi alla
somministrazione, non si applicano le norme in materia di procedura di mobilità, ma quelle previste nel
caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Per ciò che concerne, poi, il rapporto di lavoro è previsto che i prestatori di lavoro nel caso di
somministrazione, benché dipendano da un’agenzia, operano sotto la direzione ed il controllo
dell’utilizzatore, ma non sotto il suo potere disciplinare, anche se quest’ultimo potrà esercitarlo
indirettamente, rivolgendosi all’agenzia di fornitura. I prestatori, comunque, hanno diritto allo stesso
trattamento retributivo e normativo dei dipendenti dell’utilizzatore, nonché a svolgere le mansioni per cui
sono stati assunti, in quanto qualora vengano assegnati a mansioni superiori, dovranno ricevere, loro così
come l’agenzia di somministrazione, una comunicazione da parte dell’utilizzatore, che altrimenti
risponderà in via esclusiva per le differenze di retribuzione e per l’eventuale risarcimento del danno.
Ovviamente il prestatore di lavoro in caso di somministrazione gode anch’egli dei diritti sindacali previsti
dallo Statuto dei lavoratori, che potrà esercitare presso l’utilizzatore. R.s.a. ed r.s.u., inoltre, devono essere
informate del numero dei lavoratori somministrati di cui si avvale l’utilizzatore, nonché delle motivazioni
per cui se ne avvale, così come ogni 12 mesi devono essere informate degli eventuali contratti di
somministrazione conclusi.
L’apparato sanzionatorio
Qualora il contratto di somministrazione non rispetti la forma scritta è nullo, ritenendo che il prestatore sia
alle dipendenze dell’utilizzatore. La violazione degli altri requisiti formali da luogo, inoltre, a sanzioni
amministrativo pecuniarie, cui vanno incontro tanto l’utilizzatore, quanto l’agenzia di somministrazione. A
carico di questi ultimi, infine, sono previste sanzioni penali nel caso di attività di somministrazione
illegittima, in quanto non autorizzata.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO DELL’INTERA DISCIPLINA DELLA SOMMINISTRAZIONE:
la L.247/2007 ha abolito il contratto di somministrazione a tempo indeterminato e quindi tutte le norme in
materia contenute nel D.Lgs.276/2003 (e quindi tutta la trattazione del libro di testo). E’ stata modificata
anche la disciplina della somministrazione a tempo determinato, prevedendo che si applichi la disciplina
del contratto a tempo determinato, laddove compatibile, con l’esclusione però dell’ apparato
sanzionatorio previsto per la violazione delle norme in materia di riassunzioni a termine, della disciplina in
tema di successione di contratti a termine (che ha fissato un limite temporale massimo di 36 mesi) e del
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diritto di precedenza del lavoratore sia nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di
lavoro nei successivi dodici mesi, sia con riferimento alle nuove assunzioni a termine nei lavori stagionali.
Inoltre il nuovo Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro ha disposto che tutti gli obblighi di
prevenzione e protezione sono a carico dell’utilizzatore.
Va sottolineato, infine, che i lavoratori somministrati devono essere iscritti sia nel Libro unico dell’agenzia
di somministrazione, sia in quello dell’utilizzatore (solo dati identificativi).
Disciplina degli appalti
Dopo l’emanazione del D.Lgs.276/2003, venendo meno la L.1369/1960, anche la disciplina dell’appalto è
mutata. Si ritiene lecito il c.d. “appalto di manodopera”, in forza del quale in relazione alla particolare
natura e modalità dell’opera o servizio oggetto dell’appalto, l’organizzazione dei mezzi da parte
dell’appaltatore, richiesta dall’art.1655 c.c., si risolva nella mera organizzazione delle prestazioni dei
lavoratori utilizzati. Vietato, al contrario, rimane lo pseudo-appalto, vera ipotesi di interposizione illecita,
che si configura nel momento in cui la natura e la modalità dell’opera o servizio oggetto dell’appalto non
giustifichino una tale semplificazione dell’organizzazione della sola manodopera. Nel caso in cui si configuri
una tale situazione, il lavoratore potrà richiedere giudizialmente l’instaurazione di un rapporto di lavoro
alle dipendenze del soggetto che ha utilizzato la sua prestazione, al quale andrà notificato il ricorso
giudiziale a norma dell’art.414 c.p.c.
Inoltre va sottolineato come il committente imprenditore (non persona fisica che non eserciti attività
d’impresa) e l’appaltatore siano obbligati in solido, nel limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, a
corrispondere ai lavoratori trattamenti retributivi e previdenziali.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: anzitutto interventi normativi più recenti hanno
previsto che sia raddoppiato da uno a due anni dalla cessazione dell’appalto il termine di decadenza entro
il quale i dipendenti dell’appaltatore possono far valere la responsabilità solidale tra committente e
appaltatore. Inoltre, la suddetta disciplina è stata estesa anche ai dipendenti del subappaltatore. La
responsabilità solidale riguarda anche il versamento delle ritenute fiscali sui redditi da lavoro dei
dipendenti addetti all’appalto ed al subappalto ed al risarcimento danni non indennizzati dall’INAIL. Tale
regime di solidarietà è inderogabile, anche da parte dei contratti collettivi.
Le catene di appalti, specie dopo l’abolizione della somministrazione a tempo indeterminato, risultano
fondamentali per i processi di esternalizzazione, anche se il legislatore si disinteressa dell’uniformità di
trattamento tra dipendenti di appaltatori e subappaltatori.
Va ricordato, infine, che ai licenziamenti derivanti da una cessazione dell’appalto, pur in presenza dei
requisiti numerici, dimensionali e temporali, non si applica la procedura prevista per i licenziamenti
collettivi, a condizione che il datore di lavoro subentrante riassuma tutti i lavoratori e offra condizioni
economico – normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni
sindacali comparativamente più rappresentative.
Vale la pena ricordare che a far data dal 1° luglio 2007, tutti i benefici sia normativi che contributivi,
previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale sono subordinati al possesso, da parte
dei datori di lavoro, del documento unico di regolarità contributiva (DURC). Il rilascio del DURC è inoltre è
necessario negli appalti privati in edilizia soggetti al rilascio di concessione, ovvero a denuncia di inizio
100
attività (DIA) e costituisce un requisito per la partecipazione a gare per appalti pubblici di servizi e
forniture.
Il documento attesta la regolarità dei versamenti dovuti agli istituti previdenziali e per i datori di lavoro
nell’edilizia, la regolarità dei versamenti dovuti alle casse edili. Possono rilasciare il DURC, l’INPS, l’INAIL
nonché gli altri istituti previdenziali che gestiscono forme di assicurazione obbligatoria previa stipulazione
di apposita convenzione con gli enti predetti.
Il comando o distacco
L’istituto del comando (o distacco) del lavoratore da un’azienda ad un’altra è stato per lungo tempo
disciplinato solo dalla giurisprudenza, la quale prevedeva che qualora un datore di lavoro decidesse di far
beneficiare un altro soggetto della prestazione lavorativa di un proprio dipendente, egli avrebbe dovuto
avere un interesse al distacco, in mancanza del quale lo stesso sarebbe stato considerato come ipotesi di
interposizione vietata dalla L.1369/1960.
L’art.30 del D.Lgs.276/2003 ha modificato la materia, in realtà tramutando in legge quelle che erano le
previsioni giurisprudenziali: il datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone
temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una
determinata attività lavorativa; vediamo quindi come la temporaneità e l’interesse del datore di lavoro
siano essenziali affinché, nonostante l’abrogazione della L.1369, non si configuri un’ipotesi di
interposizione vietata e non si dia luogo al ricorso giudiziale, attuato dal lavoratore a norma dell’art.414
c.p.c., per far costituire un rapporto di lavoro tra lui e l’utilizzatore della propria prestazione, ossia il
beneficiario del comando.
Il datore di lavoro rimane, in ogni caso, responsabile del trattamento retributivo e normativo dei lavoratori
distaccati. Egli, inoltre, può attuare un comando che comporti il trasferimento ad unità produttiva distante
più di 50 km da quella a cui è adibito il lavoratore, solo in caso comprovate ragioni tecniche, produttive ed
organizzative o per evitare licenziamenti.
Il comando può configurarsi anche come uno strumento di scambio di personale tra diverse società
collegate, secondo la definizione che delle stesse offre l’art.2359 c.c.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: in forza delle nuove disposizioni in materia di sicurezza
sul lavoro, è previsto che gli obblighi di prevenzione e protezione gravino sul distaccatario, mentre sono a
carico del distaccante gli obblighi di informazione e formazione del lavoratore sui rischi connessi all’attività
che andrà a svolgere.
Nel Libro Unico del distaccante devono risultare a tutti gli effetti i lavoratori comandati, mentre in quello
del distaccatario devono risultare solo a fini indicativi.
Distacco di lavoratori in una prestazione di servizi transnazionale
Data la continua crescita di società multinazionali operanti in diversi Stati europei, l’UE ha emanato la
direttiva 96/71 in materia di distacco di lavoratori nel quadro di una prestazione di servizi transnazionali. Il
D.Lgs.72/2000 ha dato applicazione a tale normativa comunitaria, prevedendo un’uniformità di
trattamento tra i lavoratori stranieri operanti all’interno del territorio italiano in forza di un contratto di
appalto o di fornitura di servizi ed i lavoratori comparabili normalmente operanti in tal ambito.
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SEZIONE C: IL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO PARZIALE E LE ALTRE TIPOLOGIE CONTRATTUALI AD
ORARIO FLESSIBILE
Direttiva 97/81 e D.Lgs.61/2000. Modifiche introdotte dal D.Lgs.276/2003
Il rapporto di lavoro a tempo parziale (part-time) è il tipico esempio di strumento di flessibilità dell’impiego
con riferimento al tempo: esso è caratterizzato da un orario di lavoro ridotto rispetto a quello
normalmente previsto, al fine di incentivare l’occupazione e fornire una migliore conciliazione tra tempi di
vita e tempi di lavoro.
Della materia si è occupata l’UE con l’emanazione della direttiva 97/81, alla quale ha fatto seguito il
D.Lgs.61/2000 di attuazione della stessa, dettando una nuova normativa in tema di lavoro part-time, tesa
ad incentivare la diffusione dello stesso. In materia è poi intervenuto anche il D.Lgs.276/2003, per garantire
la diffusione all’interno del nostro ordinamento dello strumento del part-time, il quale però si applica solo
ai privati e non alle pubbliche amministrazione, alle quali continua ad applicarsi il D.Lgs.61/2000.
Disciplina del rapporto di lavoro a tempo parziale
Il D.Lgs.61/2000 sancisce che nel rapporto di lavoro subordinato l’assunzione può avvenire tanto a tempo
“pieno” quanto a tempo parziale”. Individuiamo, quindi, le rispettive nozioni. Per “tempo pieno” si intende
l’orario normale di lavoro previsto dalla legge o dagli specifici contratti collettivi; per “tempo parziale”
(part-time) si intende l’orario fissato dal contratto individuale di lavoro, ridotto rispetto all’orario normale.
All’interno della categoria del tempo parziale, ritroviamo poi altre definizioni: per part-time orizzontale
s’intende una riduzione del tempo di lavoro, rispetto all’orario normale, su scala giornaliera, mentre per
part-time verticale s’intende una riduzione del tempo di lavoro su scala settimanale, mensile o annuale,
essendo previsto, all’interno della giornata, un orario normale di lavoro; per part-time misto, infine,
s’intende una riduzione dell’orario di lavoro data dalla combinazione tra il part-time orizzontale e quello
verticale. Inoltre i contratti collettivi, o addirittura le r.s.a o r.s.u. aziendali, possono prevedere riduzioni
dell’orario lavorativo del tutto assestanti.
Il contratto part-time deve rispettare la forma scritta ad probationem, ossia per poter essere provato in
giudizio, e deve contenere l’indicazione della durata dell’attività lavorativa e delle relativa ripartizione
dell’orario di lavoro. Annualmente, tra l’altro, l’impresa deve rendere noto l’andamento delle assunzioni
part-time ai rispettivi sindacati.
Sia la normativa comunitaria, quanto quella italiana, prevedono che sia adottato, nei confronti dei
lavoratori a tempo parziale, il principio di non discriminazione (o uniformità di trattamento) secondo cui
alcuna diversità di trattamento, rispetto ai lavoratori a tempo pieno della stessa categoria e con le stesse
mansioni, deve essere posta in essere nei confronti dei lavoratori part-time, se non quella inerente la
diversa retribuzione e proporzione dei diritti (es.ferie).
Il lavoratore, inoltre, può optare per il lavoro a tempo parziale, qualora in quel momento lavori a tempo
pieno, o addirittura fare il contrario in alcune ipotesi. In alcun modo, però, il rifiuto del lavoratore di
cambiare da part-time a pieno o viceversa, potrà costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento.
Potrà, però, figurare come giustificato motivo oggettivo in caso di importanti esigenze produttive e
organizzative dell’impresa. Qualora un lavoratore accetti di passare dal tempo pieno a quello parziale, egli
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dovrà convalidare la sua scelta presso la Direzione provinciale del lavoro ed avrà un diritto di precedenza
rispetto alle nuove assunzioni, per ciò che concerne il ritorno al tempo pieno.
La disciplina del tempo di lavoro; clausole elastiche, lavoro supplementare e straordinario
Abbiamo già detto che il D.Lgs.276/2003 ha modificato la disciplina del lavoro part-time (almeno per i
privati) rispetto al D.Lgs.61/2000. Una delle modificazioni ha riguardato il lavoro supplementare e
straordinario e le c.d. clausole elastiche.
Per lavoro supplementare s’intende il lavoro svolto oltre l’orario di lavoro concordato ed entro il limite del
tempo pieno ed esso è applicabile solo e solamente al part-time orizzontale (es. lavoro giornalmente per 4
ore: il lavoro supplementare sarà costituito da un numero di ore superiore a 4 e fino ad 8, che di solito
configurano il tempo pieno). Ai contratti collettivi, in caso di lavoro supplementare, è rimesso il compito di
stabilire un numero massimo di ore di lavoro supplementare e l’obbligo di corresponsione di una
maggiorazione retributiva. In presenza di un contratto collettivo, non occorre il consenso del lavoratore,
che però potrà legittimamente rifiutarsi, non costituendo ciò giustificato motivo di licenziamento.
Per lavoro straordinario, invece, s’intende il lavoro svolto oltre il normale orario di lavoro giornaliero, in
caso però di part-time verticale o misto, dove abbiamo visto che durante l’arco della giornata si lavoro lo
stesso numero di ore dei lavoratori a tempo pieno, mentre la riduzione dell’orario avviene su scala
settimanale, mensile o annuale.
Inoltre nei contratti di lavoro a tempo parziale, dopo le modifiche apportate dal decreto 276, è possibile
apporre specifiche clausole flessibili, che comportino la modificazione unilaterale della collocazione
temporale dell’attività lavorativa (es. lavoravi la mattina, lavorerai la sera), così come è possibile apporre
clausole elastiche, che comportino un aumento della durata della prestazione lavorativa nel suo insieme a
seguito di una scelta da parte del datore di lavoro, che deve comunicarlo ai prestatori almeno due giorni
prima. L’accordo tra le parti sull’inserzione di clausole flessibili e di clausole elastiche deve essere
contemplato in un atto scritto, ed il rifiuto di stipulare il patto non costituisce giustificato motivo di
licenziamento.
Normativa incentivante ed apparato sanzionatorio
La normativa in materia di lavoro part-time ha sempre avuto, come obiettivo primario, la promozione
dell’occupazione, per realizzare la quale il legislatore ha previsto delle incentivazioni di carattere
economico a favore dei datori di lavoro che vedremo più avanti.
Altra forma d’incentivazione all’assunzione part-time da parte delle imprese la ritroviamo prendendo in
considerazione la consistenza dell’organico delle stesse: i lavoratori part-time vengono computati nel
numero complessivo dei dipendenti in relazione all’orario svolto rapportato al tempo pieno e
l’arrotondamento opera per le frazioni di orario eccedenti la somma degli orari individuati a tempo parziale
corrispondente ad unità intere di orario a tempo pieno.
Sotto il profilo previdenziale, inoltre, è previsto il riproporzionamento tra tempo lavorato e contribuzione
previdenziale.
Oltre ad un apparato incentivante, inoltre, è previsto un sistema sanzionatorio per tutelare il rapporto di
lavoro part-time. Anzitutto abbiamo detto che la forma scritta del contratto è richiesta solo ad
103
probationem, quindi ai fini della prova giudiziale dell’esistenza dello stesso: il legislatore ha sancito che la
prova per testimoni è ammessa solo in caso di perdita senza colpa dell’atto scritto (art.2725 c.c.),
aggiungendo che, in difetto di tale prova, il lavoratore potrà chiedere che venga accertata l’esistenza di un
rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dal momento in cui il giudice ha accertato che manchi la prova
scritta. Se manca, poi, l’indicazione della durata all’interno del contratto, il giudice potrà dichiarare
l’esistenza di un rapporto a tempo pieno a partire dalla sentenza. Qualora manchi, invece, l’indicazione
della collocazione temporale della prestazione, questa sarà determinata dal giudice, secondo i contratti
collettivi o secondo equità.
Inoltre nel caso di violazione del diritto di precedenza del lavoratore part-time nell’ipotesi di nuove
assunzioni a tempo pieno, egli avrà diritto al risarcimento del danno, calcolato tramite la differenza tra la
propria retribuzione e quella che avrebbe conseguito se fosse passato a tempo pieno, moltiplicata per sei
mesi (tale diritto non opera automaticamente, dopo il decreto 276 deve essere inserito nel contratto
individuale).
Specialità del rapporto di lavoro a tempo parziale e ruolo della contrattazione collettiva
Il rapporto di lavoro part-time si configura come un rapporto speciale, volto a rispondere all’esigenza di
flessibilità dei datori di lavoro con la forza-lavoro disponibile a lavorare ad orario ridotto. Si tratta, quindi,
di un rapporto che garantisce la crescita occupazionale.
In precedenza un ruolo di riferimento era detenuto dalla contrattazione collettiva, che avrebbe dovuto,
nell’interesse generale, derogare ed integrare la normativa in materia. Il decreto 276/2003 sembra non
avere riconosciuto un tal ruolo all’autonomia collettiva, ponendo in risalto l’autonomia individuale.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: mentre in precedenza abbiamo detto che l’autonomia
individuale poteva introdurre clausole elastiche e flessibili, la L.247/2007 ha previsto che tale introduzione
non sia più consentita in assenza di una disciplina collettiva. Il periodo di preavviso dato al lavoratore in
funzione dell’aumento della durata della prestazione o della diversa collocazione temporale della stessa
viene aumentato da 2 a 5 giorni lavorativi.
Il lavoratore che da rapporto a tempo pieno sia passato al rapporto a tempo parziale ha diritto di
precedenza nelle assunzioni a tempo pieno, SENZA CHE SIA UN ACCORDO INDIVIDUALE A DOVER
PREVEDERE TALE DIRITTO.
Infine, anche ai lavoratori del settore pubblico affetti da patologie oncologiche è riconosciuto il diritto alla
trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, salvo tornare automaticamente al
lavoro a tempo pieno su richiesta dello stesso soggetto.
Il lavoro intermittente
Una forma particolare di contratto a tempo parziale si ha con il lavoro intermittente o, anche detto, a
chiamata. Esso è stato disciplinato ed introdotto dal D.Lgs.276/2003. Con il contratto di lavoro
intermittente il lavoratore mette le proprie energie a disposizione del datore di lavoro, il quale, qualora ne
necessiti, contatta il prestatore per usufruirne, retribuendolo per il periodo effettivamente lavorato e
riconoscendogli un’indennità di disponibilità per il periodo di attesa. Lo svolgimento delle prestazioni è
quindi discontinuo ed è la disciplina collettiva ad individuare per quali attività sia consentito il lavoro a
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chiamata (in assenza si osserva il R.D.2657/1923, contenente l’elenco delle occupazioni che richiedono
lavoro discontinuo).
Possono concludere il contratto di lavoro a chiamata solo giovani sotto i 25 anni di età o lavoratori con più
di 45 anni, anche pensionati. E’ vietato il ricorso al lavoro intermittente per sostituire lavoratori in sciopero,
o lavoratori licenziati collettivamente o posti in CIG.
Per tale contratto è richiesta la forma scritta ad probationem, la quale deve provare una serie di elementi
inerenti il rapporto di lavoro a chiamata, ossia la durata, il luogo, le modalità di disponibilità del lavoratore
e la consecutiva indennità, le modalità di preavviso del prestatore (il quale deve avvenire almeno un giorno
prima), tempi e modalità di pagamento, nonché tutte le indicazioni previste dalla contrattazione collettiva.
Il prestatore di lavoro intermittente viene computato nell’organico dell’impresa in proporzione all’orario di
lavoro svolto nell’arco di 6 mesi.
Abbiamo visto come il lavoratore soggetto ad un tal tipo di rapporto debba prestare la propria
disponibilità, affinché il datore di lavoro, qualora ne necessiti, possa avvalersi della sua prestazione.
Legittimo motivo di rifiuto della chiamata è la malattia o un evento che renda impossibile la prestazione,
ma in ogni caso si perde l’indennità di disponibilità. Qualsiasi altra giustificazione addotta dal lavoratore
può rappresentare un motivo di risoluzione del contratto.
Nessuna discriminazione deve essere posta in essere nei confronti del lavoratore a chiamata, né indiretta
né diretta, né tanto meno dovuta al particolare contratto di lavoro, in quanto nei periodi di attività
lavorativa, il prestatore a chiamata ha diritto ad una retribuzione e ad un trattamento normativo pari a
coloro che svolgono le medesime mansioni a tempo pieno. Ovviamente è intuibile che il lavoratore avrà
diritto ad trattamento retributivo, previdenziale e normativo proporzionati alla quantità del proprio lavoro,
ma sarà ugualmente tutelato in caso di malattia, infortunio sul lavoro, maternità, malattia professionale.
Quindi notiamo come una gran parte del contratto a chiamata sia stabilita non dalle parti, ma dal solo
datore di lavoro, il che potrebbe condurre la Corte costituzionale a pronunciarsi contro la legittimità di una
tale previsione legislativa.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: la disciplina del lavoro intermittente è stata abrogata
all’interno della L.247/2007, per poi essere ripresa ripristinata del tutto dal D.L.112/2008. La disciplina
rimane, pertanto, immutata.
Il lavoro ripartito
Un altro tipo di contratto a lavoro parziale è costituito dal contratto di “lavoro ripartito”, introdotto
dall’art.41 del decreto 276, in forza del quale due lavoratori assumono solidalmente l’adempimento
dell’obbligazione di lavoro nei confronti del datore. Entrambi rispondono per l’intera obbligazione,
concordando autonomamente la ripartizione del lavoro, ma l’impossibilità di uno dei due ricade anche
sull’altro e la risoluzione del rapporto causata da uno, si ripercuote anche sull’altro lavoratore, almeno che
il datore di lavoro non chieda al prestatore non colpevole di assumere su di se l’intera obbligazione.
Il contratto deve rispettare la forma scritta per provare una serie di elementi, quali la misura e la
collocazione temporale della prestazione di ogni lavoratore, nonché il trattamento economico e normativo
spettante ad ognuno.
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SEZIONE D: I CONTRATTI PARASUBORDINATI
Il lavoro a progetto ed il lavoro occasionale
A partire dagli anni 80 si è assistito ad un continuo proliferare delle collaborazioni coordinate e
continuative. Il D.Lgs.276/2003 ha ridisegnato la fattispecie, al fine di differenziare i rapporti di
collaborazione autonoma da quelli che mascherano un lavoro subordinato, ha introdotto una nuova
disciplina inerente il lavoro autonomo coordinato e continuativo “a progetto”. Per alcune attività
lavorative, tuttavia, rimane in vigore la figura tradizionale della collaborazione continuativa e coordinata:
• Rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale;
• Professioni intellettuali per le quali è richiesta l’iscrizione in appositi albi o elenchi;
• Collaborazioni rese da amministratori, sindaci di società, soggetti che percepiscono la pensione di
vecchiaia;
• Settore della PA, escluso palesemente dall’applicazione dell’intero decreto.
Il contratto di lavoro a progetto sembra configurare un sottotipo del contratto d’opera previsto
dall’art.2222 c.c. Tale contratto, infatti, deve OBBLIGATORIAMENTE prevedere un “progetto specifico, un
programma di lavoro o una fase dello stesso”, ma mentre per il progetto specifico potremmo pensare che
occorra una particolare professionalità e competenza, il concetto di programma di lavoro o fase di lavoro
potremmo ricondurlo ad una qualsiasi attività, anche elementare, per cui non è richiesta alcuna particolare
preparazione. Il progetto o programma, comunque, definisce l’oggetto della prestazione lavorativa, nonché
il limite di durata del contratto: eseguito lo stesso, infatti, il contratto può ritenersi risolto.
Il contratto deve rispettare la forma scritta ad probationem, proprio per poter provare alcuni degli
elementi fondamentali del rapporto, quali la durata determinata o quanto meno determinabile dettata
dalla realizzazione del progetto o programma. Si tratta comunque di un rapporto parasubordinato, in
quanto benché permanga un autonomia del prestatore nel compimento del programma/progetto/fase di
lavoro, egli rimane pur sempre dipendente dalla necessità del committente, suo datore di lavoro. E’
tutelata comunque l’attività inventiva del collaboratore, al quale viene riconosciuta la proprietà
intellettuale delle invenzioni realizzate in costanza del rapporto. In caso di impossibilità temporanea della
prestazione, il prestatore ha diritto ad una sospensione non retribuita del rapporto in caso di gravidanza,
malattia ed infortunio, ma solo in gravidanza tale sospensione è garantita per un periodo di 180 giorni,
mentre per malattia o infortunio non si ha proroga del termine contrattuale, della durata contrattuale,
cosicché il contratto si estingue alla scadenza, ed anzi il committente prima della scadenza del termine se la
sospensione si protrae per oltre 30 giorni o oltre 1/6 della durata contrattuale. Il contratto, comunque,
come abbiamo già detto, si estingue al momento della realizzazione del progetto o programma, anche se è
consentito il recesso ante tempus per giusta causa o con preavviso nei casi stabiliti dalla contrattazione
collettiva o dalle parti.
Il contratto a progetto è un contratto a causa rigida, in quanto la mancata previsione di uno specifico
progetto o programma o fase di lavoro, da luogo alla conversione in contratto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato, anche se la conversione non opera automaticamente, ma può essere decisa solo e
solamente dal giudice, che potrà optare anche per altre soluzioni e tipologie contrattuali.
106
Sono escluse dalla tipologia del contratto a progetto le prestazioni di lavoro occasionali, che non eccedono
i 30 giorni annui di lavoro ed i 5000 euro di compenso. In caso contrario, ossia in caso di travalicamento dei
limiti fissati, si applicano le disposizioni sul lavoro a progetto.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: la recente disciplina legislativa ha avvicinato il lavoro
autonomo coordinato e continuativo a progetto al lavoro subordinato: il compenso per la prestazione a
progetto deve essere uguale a quello corrisposto per prestazioni di analoga professionalità sulla base dei
contratti collettivi di riferimento. Una speciale indennità è stata prevista per i casi di malattia, ed alle
donne assunte con contratto a progetto è stato riconosciuto di non poter lavorare durante la gravidanza ed
il puerperio e di aver diritto al congedo di maternità. Sono state, inoltre, modificate le norme che
limitavano a 180 giorni la durata del periodo di sospensione del rapporto per gravidanza ed escludevano
l’erogazione del corrispettivo in caso di malattia e di infortunio. Resta salva la possibilità del committente,
qualora il periodo di sospensione sia superiore a 30 giorni o ad 1/6 della durata contrattuale, di recede
ante tempus.
Una pronuncia di illegittimità costituzionale ha travolto la previsione secondo cui si dovevano conservare i
contratti di collaborazione continuativa e coordinata preesistenti alla riforma SOLO PER IL PERIODO DI UN
ANNO: essi proseguono fino alla scadenza originaria.
107
CAPITOLO DODICESIMO – ECCEDENZE DI PERSONALE E TUTELA DELL’OCCUPAZIONE
Introduzione: eccedenze di personale e processi di riaggiustamento industriale
Nell’ambito della disciplina dei rapporti di lavoro e della tutela dell’occupazione dobbiamo prendere in
considerazione due interessi coesistenti e talvolta confliggenti all’interno del mercato e della società:
quello all’occupazione ed al mantenimento del posto di lavoro e quello alla continuazione dell’esecuzione
dell’attività economica da parte degli imprenditori. L’andamento ciclico dell’economia, la concorrenza con
Paesi in cui la manodopera ha un costo nettamente inferiore e la necessità dei processi di
ammodernamento della produzione, delle tecnologie e dei sistemi organizzativi, spesso conducono ad un
eccedenza del personale all’interno delle imprese e ad una conseguente riduzione dello stesso. Non fa
piacere sottolinearlo, ma tale riduzione spesso è necessaria per la stessa sopravvivenza di un’impresa
all’interno del mercato, in quanto la stessa potrebbe ritrovarsi a non potere sostenere i costi di una
consistente manodopera. Importanti, in tal senso, sono stati gli interventi legislativi volti, in certi casi, ad
un supporto economico delle imprese nei processi di riaggiustamento industriale ed altrettante volte ad un
sostegno dei lavoratori coinvolti nella riduzione del personale.
Evoluzione storica della disciplina delle eccedenze di personale
Gli interventi legislativi, cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente, ha subito un’evoluzione storica
all’interno della quale distinguiamo 3 fasi.
La prima fase, immediatamente successiva al dopoguerra, prevede l’introduzione della “gestione ordinaria
della CIG, Cassa Integrazione Guadagni” e la soppressione del blocco ai licenziamenti. La CIG viene
configurata come un mezzo transitorio al quale i datori di lavoro possono fare ricorso in caso di eventi
eccezionali, in maniera tale da non dover licenziare i propri dipendenti.
La seconda fase, successiva alla L.604/1966 sui licenziamenti individuali, vede l’introduzione della “gestione
straordinaria della CIG”, che configura la CIG come intervento non più transitorio, ma di lunga durata a
favore dei lavoratori ed a sostegno del proprio reddito. Vengono introdotti, inoltre, la disciplina della
mobilità interaziendale dei lavoratori in esubero, ed altri strumenti a sostegno dei lavoratori licenziati.
Nella terza fase, aperta con la L.223/1991 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di
disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni
in materia di mercato del lavoro), i licenziamenti collettivi tornano ad essere lo strumento “normale” da
utilizzare in caso di eccedenze di personale e la CIG viene ridisegnata come strumento anch’esso da
utilizzare in maniera transitoria, a sostegno della ristrutturazione industriale e non direttamente del
reddito dei lavoratori.
Nel corso degli anni 90, inoltre, è stato previsto che possano essere introdotti nuovi ammortizzatori sociali,
quali strumenti di garanzia del reddito di tipo privatistico e non esclusivamente pubblicistico.
SEZIONE A: LA CASSA INTEGRAZIONE GUADAGNI
L’intervento ordinario della Cassa integrazione guadagni (CIG)
Per sostenere le imprese, del settore industriale, in brevi periodi di contrazione dell’attività produttiva è
previsto l’intervento ordinario della CIG, ossia di sospensioni del lavoro o riduzioni dell’orario lavorativo
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dovute ad eventi transitori non imputabili al datore o ai prestatori, o a determinate situazioni temporanee
del mercato (cause integrabili), per sostenere il reddito dei lavoratori coinvolti.
L’intervento è finanziato da:
• Contributi statali;
• Contributi di tutte le imprese;
• Contributi dell’impresa coinvolta.
L’ammontare del trattamento corrisponde, per i primi sei mesi, all’80% della retribuzione, ma dopo il
primo semestre non può superare un tetto massimo, che comunque viene incrementato annualmente
nella misura dell’80% dell’aumento dei prezzi di consumo secondo l’ISTAT.
La procedura per giungere alla CIG prevede la consultazione dei sindacati da parte dell’imprenditore, nel
caso in cui si renda necessaria una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario lavorativo: egli deve
comunicare alle r.s.a. o, in mancanza, agli organismi provinciali, la durata prevedibile della
contrazione/sospensione del lavoro ed il numero di prestatori coinvolti.
Successivamente all’informazione e consultazione sindacale, l’impresa deve fare richiesta di CIG alla sede
provinciale dell’INPS, laddove se non lo facesse sarebbe obbligato a corrispondere egli stesso la somma
pari all’importo di integrazione non percepita.
La durata massima dell’integrazione ordinaria è di 3 mesi, tuttavia prorogabile in casi eccezionali sino ad un
anno. Qualora si tratti di un’integrazione discontinua, non può comunque superare il periodo di 12 mesi in
un biennio.
L’intervento della CIG è stato esteso anche ai settori dell’edilizia e dell’agricoltura, in cui fronteggia la
discontinuità dell’occupazione e non le difficoltà dell’impresa.
Intervento straordinario della Cassa integrazione guadagni (CIGS). Le fattispecie causali; procedure per la
concessione del trattamento; durata dell’integrazione e meccanismi di rotazione tra i lavoratori
L’intervento straordinario della CIG, valevole per il settore industriale, assicura, attraverso la sospensione
dei rapporti di lavoro, sia la continuità del reddito e dell’occupazione dei lavoratori, sia la limitazione dei
licenziamenti, per garantire all’impresa di conservare il proprio patrimonio di professionalità. Se, però,
l’intervento ordinario mira a far fronte a situazioni di tipo congiunturale, quello straordinario tende a
fronteggiare situazioni di tipo strutturale, cioè di durevole eccedenza di personale.
L’intervento straordinario della CIG è finanziato nella medesima maniera dell’intervento ordinario e la
disciplina è contenuta all’interno della L.164/1975, nonché all’interno della L.223/1991 che l’ha
ridisegnata, aprendo la terza fase di cui si è parlato in precedenza.
Sono cause integrabili in presenza della quali può essere concessa l’integrazione straordinaria:
• Ipotesi di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione aziendale;
• Crisi aziendale di particolare rilevanza sociale in merito alla situazione produttiva del settore o a
quella occupazione locale;
109
• Ipotesi di procedura concorsuale;
• Ipotesi di contratto di solidarietà interna.
Nelle prime 2 ipotesi l’obiettivo della CIGS è quello di permettere all’impresa in difficoltà di continuare ad
operare sul mercato senza ricorrere a licenziamenti. Nella terza ipotesi la CIGS ha il compito di evitare che
gli organi incaricati dell’amministrazione ricorrano ai licenziamenti. Della quarta ipotesi si parlerà in
seguito.
L’integrazione salariale straordinaria spetta ad operai, impiegati e quadri intermedi con un’anzianità di
almeno 90 giorni, ed a quelle imprese che nei 6 mesi precedenti la richiesta di CIGS abbiano occupato
mediamente almeno 15 dipendenti, inclusi apprendisti ed ipotesi di contratto di formazione e lavoro.
La procedura di consultazione sindacale, già descritta per l’intervento ordinario della CIG, deve essere
obbligatoriamente esperita nelle prime 2 ipotesi di cause integrabili sopra descritte (ristrutturazione…e
crisi). Richiesta di ammissione all’intervento in cui si attesti l’avvenuta consultazione sindacale e
programma di risanamento vanno, poi, consegnati al Ministro (nelle ipotesi di crisi aziendale) o alla
Direzione provinciale del lavoro (nelle altre ipotesi). La presentazione tardiva da luogo alla responsabilità
dell’imprenditore, che dovrà corrispondere egli stesso l’integrazione.
Il programma, tra l’altro, va approvato dal Ministro del lavoro, previa istruttoria di un apposito comitato
tecnico sulla base di criteri generali fissati dal Comitato Interministeriale di Programmazione Economica
(CIPE) e tocca al Ministro concedere, con decreto, l’intervento straordinario di integrazione salariale.
L’intervento può durare, in caso di ristrutturazione, riorganizzazione e conversione aziendale, al massimo 2
anni, salvo che l’impresa, previo confronto con le r.s.a. o comunque con le organizzazione sindacali, non ne
chieda una modificazione: il Ministro potrà autorizzare massimo 2 proroghe, del periodo di 12 mesi l’una,
qualora il programma di risanamento presenti delle difficoltà di attuazione.
In caso, invece, di crisi aziendale, l’intervento ha una durata limitata a 12 mesi, non prorogabile ed una
nuova concessione, per la medesima causa integrabile, può essere stabilita solo dopo un periodo pari ai
2/3 di quello relativo alla prima concessione.
Abbiamo accennato a come la CIGS, nella seconda fase, fosse divenuta un surrogato dell’indennità di
disoccupazione, potendosi prolungare per periodo indefiniti. La L.223/1991, rispristinando la funzione
originaria della CIGS, ha previsto un periodo massimo di trattamento straordinario pari a 36 mesi in un
quinquennio per ogni unità produttiva, al di là della causa di concessione e salvo proroghe o casi in cui la
CIG sia stata concessa in forza di un contratto di solidarietà interna, secondo le condizioni stabilite dal
Ministro. Tra l’altro dopo il primo trimestre, l’erogazione del trattamento avviene per periodi semestrali,
qualora sia stata verificata la regolare attuazione del programma da parte dell’impresa, che tra l’altro non
potrà chiedere l’intervento straordinario per le unità produttive per cui ha richiesto quello ordinario.
In forza del generale divieto di discriminazione diretta o indiretta dei lavoratori, per quanto concerne
l’individuazione dei lavoratori da collocare in CIGS non deve essere attuata alcuna discriminazione o
distinzione per sesso o per altro motivo. L’impresa, tra l’altro, per continuare ad operare nel mercato,
potrebbe non adottare meccanismi di rotazione tra i lavoratori, così di fatto sfavorendo quelli collocati in
CIGS e favorendo quelli rimasti a lavoro: essa deve indicarne i motivi all’interno del programma di
risanamento, ma il Ministro del lavoro è competente a verificarne la fondatezza e qualora egli ritenga che il
110
meccanismo di rotazione debba operare ugualmente, può tentare per 3 mesi di promuovere un accordo
tra le parti; in mancanza di un accordo, stabilisce egli stesso il meccanismo di rotazione da attuare, ed in
caso d’inottemperanza dell’impresa, è previsto un inasprimento del contributo addizionale per
disincentivare il comportamento sfavorito.
I lavoratori collocati in CIGS, inoltre, non possono rifiutarsi di partecipare e frequentare a corsi di
formazione o riqualificazione, in quanto decadrebbero dal trattamento d’integrazione, almeno che la
propria residenza non disti più di 50km dal luogo del corso o che non sia raggiungibile lo stesso con mezzi
pubblici in 80 minuti.
Intervento della CIG nelle ipotesi di procedure concorsuali
Abbiamo detto che anche le imprese sottoposte a procedure concorsuali possono far richiesta di CIGS nel
caso in cui vi sia stata dichiarazione di fallimento, provvedimento di liquidazione coatta amministrativa,
sottoposizione alla procedura di amministrazione straordinaria, ammissione a concordato preventivo con
cessione di beni ed ammesso che NON SIA STATA DISPOSTA O SIA CESSATA LA CONTINUAZIONE
DELL’ATTIVITA’ PRODUTTIVA. Se, infatti, l’attività continua il curatore, il liquidatore o il commissario
possono ugualmente far richiesta di CIGS, ma per “cause integrabili diverse” ed avendo diritto ad un
periodo di trattamento integrativo superiore rispetto ai 12 mesi previsti in caso di procedure concorsuali
(aumentabili a 18 se sussistano prospettive di continuazione o ripresa dell’attività, tramite anche una
cessione a qualsiasi titolo).
Contratti di solidarietà interna: nozione e disciplina legislativa
L’intervento straordinario della CIG può essere collegato anche ad un contratto di solidarietà interna,
introdotto nel 1985 al fine di salvaguardare l’occupazione. Tramite tale contratto viene stabilito, in caso di
crisi o di ristrutturazione aziendale, un sacrificio che coinvolge tutti i lavoratori, ossia viene distribuito tra
gli stessi il tempo di lavoro disponibile, con conseguente diminuzione dell’orario lavorativo e calo della
retribuzione per tutti. Questo permette all’impresa di continuare ad operare senza ricorrere a
licenziamenti dei dipendenti. Tale contratto può riguardare tanto le imprese industriali, quanto quelle
appaltatrici di servizi di mensa e ristorazione, quanto le imprese editoriali, nonché quelle commerciali con
più di 1000 (oggi 200) dipendenti. In tutti questi casi può essere fatta richiesta di un trattamento di
integrazione salariale, pari al 60% della retribuzione perduta per effetto della riduzione dell’orario di
lavoro, che può essere corrisposto per un periodo di 24 mesi, rinnovabile per altri 24 (36 per il meridione).
Agevolazione contributive sono previste per un biennio per i datori di lavoro. La CIG deve essere
autorizzata dal Ministro del lavoro, su parere favorevole dell’amministrazione regionale.
Estensione progressiva dell’ambito di applicazione dell’intervento straordinario della CIG
Il trattamento straordinario d’integrazione salariale è stato inizialmente concepito per le sole imprese
industriali, mentre in seguito è stato esteso a:
• Imprese industriali addette alla commercializzazione dei prodotti delle imprese aventi diritto alla
CIGS;
• Imprese appaltatrici di servizi di mensa e ristorazione, nonché di servizi di pulizia, che esercitino il
proprio lavoro presso un’impresa in crisi e soggetta a sua volta a CIGS;
111
• Imprese commerciali con più di 200 (inizialmente dovevano essere 1000) addetti;
• Imprese artigiane su cui un’altra impresa industriale o commerciale, che abbia dato luogo ad
intervento straordinario della CIG, abbia un “influsso gestionale prevalente”: occorre che l’impresa
artigiana dipenda, per più del 50% del proprio fatturato, dalle commesse dell’impresa industriale o
commerciale;
• Soci di cooperative di produzione e lavoro;
• Imprese operanti nel settore dell’informazione e dell’editoria;
• Personale, anche navigante, di vettori aerei.
Nel settore agricolo l’intervento ordinario della CIG si ha anche in situazione che nel settore industriale
diano luogo all’intervento straordinario.
Inoltre, anche dopo l’emanazione della L.223/1991 e dei limiti rigidi da essa imposti, la CIGS è stata spesso
utilizzata anche in ambiti esclusi dal suo campo d’applicazione.
CIG e sospensione del rapporto di lavoro: disciplina speciale e principi generali di diritto civile
Abbiamo avuto modo di precisare, nel corso dei precedenti capitoli, che il contratto di lavoro è un
contratto a prestazioni corrispettive, in quanto alla prestazione lavorativa di una parte corrisponde quella
retributiva dell’altra. Abbiamo anche sottolineato come, al di fuori dei casi di oggettiva impossibilità
sopravvenuta della prestazione, l’imprenditore che rifiuti la prestazione lavorativa, sospendendo di fatto il
lavoro, è da considerarsi in mora credendi. E’ quindi ipotizzabile che, se dovessimo attenerci alle regole
generali, dovremmo osservare che in molti casi in cui può essere richiesta la CIG, sia ordinaria che
straordinaria, non sussista realmente un’impossibilità sopravvenuta della prestazione retributiva, ma
semplicemente una maggiore difficoltà nell’eseguirla, che non attribuisce all’imprenditore il potere di
sospendere il rapporto unilateralmente. La verità è che alla base della sospensione del rapporto di lavoro vi
è un accordo, sia pure implicito, tra le parti, in forza del quale il lavoratore, dovendo scegliere tra la
continuità del rapporto o le dimissioni per giusta causa, decide di accettare la sospensione dell’attività
produttiva, che sta alla base del procedimento amministrativo di concessione dell’integrazione salariale.
N.B. trattasi di paragrafo inutile ai fini dell’esame, ma utile per capire il diritto in quanto tale.
SEZIONE B: I LICENZIAMENTI COLLETTIVI
I licenziamenti collettivi per riduzione di personale. Disciplina collettiva ed elaborazione
giurisprudenziale
A partire dal secondo dopoguerra sino all’inizio degli anni 90, il legislatore si è più volte dedicato alla
disciplina dei licenziamenti individuali, di cui abbiamo abbondantemente parlato, escludendo sempre e
comunque che a tale disciplina fosse accomunabile quella inerente i licenziamenti collettivi, in quanto
espressione del potere di organizzazione dell’imprenditore, in grado di essere attuato in caso di esigenze di
riduzione o trasformazione di attività o di lavoro. Neanche la L.604/1966, che pure ha introdotto limiti
sostanziosi al potere di licenziamento individuale, ha saputo far corrispondere un parallelo accrescimento
della tutela dell’interesse collettivo. A tutelare lo stesso è dovuta, più volte, intervenire la giurisprudenza,
in assenza di una specifica disciplina legislativa.
112
La funzione suppletiva della giurisprudenza e le sua contraddizioni. La disciplina comunitaria
Oltre agli accordi interconfederali, quindi, all’interno del sistema italiano non si sono avuti, fino agli anni
90, interventi legislativi inerenti il licenziamento collettivo. Per anni la giurisprudenza ha cercato di
indirizzare il legislatore, dapprima prevedendo che, in mancanza di consultazione sindacale, il
licenziamento collettivo venisse considerato come una somma di licenziamenti individuali; in seguito
prevedendo che la riduzione o trasformazione di attività o lavoro fosse un requisito per dar luogo al
licenziamento collettivo, non essendo possibili licenziamenti dovuti ad altre motivazioni, come quelli
tecnologici, scaturiti cioè dall’ammodernamento degli impianti. In seguito la giurisprudenza è tornata sui
propri passi, includendo tra le motivazioni possibili dei licenziamenti collettivi, anche la riduzione
dell’attività produttiva (purché definitiva). Insomma la giurisprudenza, per molto tempo, è stata unica
fonte della disciplina dei licenziamenti collettivi, seppur spesso sia entrata in contraddizione.
Nel 1975 venne emanata, dal Consiglio delle Comunità Europee, la direttiva 75/129 in materia di
licenziamenti collettivi, che lo Stato italiano lasciò inattuata per anni, fino ad un richiamo della Corte di
Giustizia nel 1985. Nel 1991 lo Stato italiano ha dato applicazione alla disciplina comunitaria, tramite la
L.223. Tuttavia la direttiva comunitaria è stata modificata altre 2 volte da altre due direttive, la 92/56 e la
98/59, di cui lo Stato italiano non ha tenuto conto, in quanto la disciplina interna è stata ritenuta
sufficiente ad integrare le due direttive successive. La Corte di Giustizia, comunque, ha richiamato
all’attenzione dello Stato italiano che la L.223/1991 non contempla il caso dei datori di lavoro non
imprenditori, inclusi invece nella disciplina comunitaria, alche il legislatore italiano è dovuto nuovamente
intervenire.
La disciplina delle riduzioni di personale introdotta dalla L.223/1991
La tanto auspicata disciplina sui licenziamenti collettivi è arrivata nel 1991 con la L.223. Essa, oltre a
regolare la fattispecie dell’eccedenza temporanea di personale, tramite la previsione della CIG, ha regolato
anche l’ipotesi di eccedenza definitiva di personale, distinguendo tra “collocamento in mobilità”, nel caso
in cui l’eccedenza si manifesti nel corso di un processo di ristrutturazione o di crisi aziendale per cui sia
stato concesso l’intervento della CIGS, e “licenziamento collettivo per riduzione del personale”, quando la
decisione dell’imprenditore prescinde dall’intervento o meno della CIGS.
A dire la verità la disciplina in materia si può ritenere unitaria, al di là della differenza terminologica tra le
due ipotesi, in quanto il legislatore, nella normativa inerente il licenziamento collettivo per riduzione del
personale, molto spesso rinvia al caso di collocamento in mobilità. Va sottolineato, inoltre, come il
licenziamento collettivo per riduzione del personale possa essere attuato anche in caso di applicazione
della CIGS quando l’impresa voglia ugualmente licenziare collettivamente al di fuori dell’intervento della
Cassa.
La disciplina, tra l’altro, dal 2004 si applica anche ai datori di lavoro non imprenditori, in quanto il
legislatore italiano, per ottemperare alle previsione giurisprudenziale della Corte di Giustizia, ha previsto
tale innovazione.
Va notato, infine, come il collocamento in mobilità possa intervenire solo per le unità produttive con più di
15 dipendenti, in quanto esse devono aver fatto ricorso alla CIGS, alla quale, come abbiamo già detto,
possono ricorrere solo le imprese con un tal numero di prestatori di lavoro.
113
La procedura di collocamento in mobilità
Abbiamo visto come, in tema di CIGS, sia necessario che il datore di lavoro proponga un piano di
risanamento dell’impresa per poter avere accesso al trattamento integrativo e per evitare il licenziamento
dei lavoratori. Qualora, nel corso dell’attuazione di tale piano, l’imprenditore si renda conto di non poter
evitare in alcun modo il licenziamento di tutto o di parte del personale, egli deve avviare una procedura di
collocamento in mobilità. Nello specifico la procedura di mobilità prevede che:
• L’imprenditore ha l’obbligo di informare immediatamente ed analiticamente le r.s.a. ed i rispettivi
sindacati di categoria della situazione di difficoltà, indicando i motivi che determinano l’eccedenza
ed impediscono il ricorso a soluzioni alternative, specificando il numero di lavoratori interessati e le
relative mansioni;
• Copia della comunicazione deve essere inviata alla pubblica autorità, in particolare ai relativi uffici
competenti regionali;
• Le r.s.a. e le associazioni di categoria, entro 7 giorni dal ricevimento della comunicazione, possono
richiedere un esame congiunto della situazione per cercare, insieme all’impresa, una soluzione che
eviti il licenziamento (procedura di consultazione);
• Se entro 45 giorni dalla consultazione non si trovano soluzioni reali al problema, il responsabile
dell’Ufficio regionale competente, ricevuta comunicazione dell’esito dell’incontro, tenta una
mediazione tra le parti (sindacati ed impresa) che deve esaurirsi entro 30 giorni (se i lavoratori
interessati sono meno di 10, i termini diventano rispettivamente di 23 e di 15 giorni).
Va specificato che il legislatore, pur di impedire il licenziamento dei lavoratori, permette alle parti di
concordare anche cambiamenti di mansioni, in deroga all’art.2103 c.c., così come distacchi di più lavoratori
presso altre imprese, seppur momentanei.
Collocamento in mobilità dei lavoratori eccedenti. Aspetti formali del recesso. Sanzioni per
licenziamento illegittimo.
Esaurita la procedura di mobilità, anche in assenza di accordo con i sindacati l’imprenditore può procedere
al collocamento in mobilità ed all’esercizio del proprio diritto di recesse, tramite la risoluzione del rapporto
di lavoro per ciò che concerne i lavoratori in esubero.
Ovviamente il legislatore ha previsto che dei criteri di scelta siano fissati in concerto con i sindacati più
rappresentativi, ma in assenza di un accordo di tal genere, l’imprenditore dovrà osservare altri criteri:
dovrà tener conto dei carichi di famiglia, dell’anzianità e delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative
dell’impresa. In ogni caso la percentuale di disabili da licenziare dovrà equivalere alla percentuale dei
disabili in caso di assunzione; inoltre dovrà essere mantenuto il rapporto percentuale tra manodopera
femminile e maschile, tenendo presente sempre le esigenze dell’impresa. Alcuna discriminazione, diretta o
indiretta, potrà essere posta in essere nel collocamento in mobilità.
La comunicazione del licenziamento dovrà essere individuale e rispettare la forma scritta, altrimenti sarà
inefficace, non producendo alcun effetto. Dovrà, inoltre, essere rispettato l’obbligo di preavviso ed una
comunicazione con l’elenco dei soggetti da licenziare dovrà pervenire agli Uffici regionali competenti, con
l’indicazione dei criteri di scelta. La violazione dei criteri di scelta, tra l’altro, comporterà non l’inefficacia,
114
bensì l’annullabilità del licenziamento, con la conseguente reintegrazione, a norma dell’art.18 dello Statuto
dei lavoratori, nel posto di lavoro. Il licenziamento sarà impugnabile entro il termine di 60 giorni, anche in
forma stragiudiziale, a pena di decadenza dal diritto all’impugnazione. Se uno o più licenziamenti vengono
annullati per violazione dei criteri di scelta, l’imprenditore, nel rispetto degli stessi, potrà licenziare un
numero pari di lavoratori, comunicandolo semplicemente alle r.s.a.
Lo statuto dei lavoratori in mobilità: indennità di mobilità ed iscrizione nelle liste di mobilità.
Cancellazione dalle liste di mobilità
I lavoratori collocati in mobilità, qualora possano vantare un periodo di anzianità aziendale di almeno 12
mesi di cui 6 effettivi (inclusi i periodi di infortunio, ferie e festività), hanno diritto all’indennità di mobilità
per un periodo di 12 mesi pari al trattamento d’integrazione salariale goduto prima del licenziamento,
elevabile a 24 qualora il prestatore abbia compiuto 40 anni ed a 36 qualora ne abbia già compiuti 50. Nei
mesi successivi ai primi 12, comunque, l’indennità diviene pari all’80% di quella precedentemente goduta,
tuttavia aumentata in base alla rivalutazione annuale dell’ISTAT. L’indennità, comunque, non può essere
corrisposta per un periodo superiore a quello di anzianità aziendale (se per esempio il lavoratore ha
un’anzianità aziendale di 18 mesi ed ha compiuto i 40 anni, non potrà ricevere l’indennità per 24 mesi, ma
solo per 18). Tra l’altro se un soggetto ha maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia non ha diritto alla
corresponsione dell’indennità di mobilità; stessa cosa nel caso in cui percepisca una pensione di invalidità,
incompatibile con la mobilità, al pari del sussidio di disoccupazione. I periodi di corresponsione
dell’indennità di mobilità vengono computati anche ai fini pensionistici. Un soggetto, tra l’altro, può
chiedere la corresponsione in un’unica soluzione, qualora egli abbia dei fini imprenditoriali. Dovrà, però,
restituire le somme percepite qualora, nel termine di 24 mesi, venga assunto e riprenda l’attività
lavorativa.
I lavoratori collocati in mobilità, inoltre, vengono iscritti in una “lista di mobilità”, la quale attribuisce loro il
diritto di precedenza rispetto alle nuove assunzioni effettuate dalla stessa azienda nel termine di 6 mesi dal
licenziamento; la legge, inoltre, assicura alle altre imprese degli incentivi economici e contributivi qualora
assumano a tempo indeterminato un lavoratore in mobilità. Medesimi diritti hanno anche coloro che non
percepiscono l’indennità di mobilità per mancanza dei requisiti di anzianità aziendale: essi, di fatto, sono
esclusi solo dagli interventi previdenziali a tutela del reddito.
La cancellazione dalle liste di mobilità avviene alla scadenza dei periodi massimi per i quali è prevista la
corresponsione dell’indennità di mobilità, anche per coloro che non ne hanno diritto. Ovviamente la
cancellazione segue anche alla cessazione dello stato di disoccupazione, qualora il soggetto venga assunto
da qualsivoglia impresa. La cancellazione, inoltre, può avere anche un fine sanzionatorio, qualora il
soggetto si sia rifiutato di prendere parte ad un corso di formazione o abbia rifiutato un’offerta lavorativa
professionalmente equivalente e che dai contratti collettivi risulti inquadrarlo in un livello retributivo solo
del 20% inferiore rispetto a quello delle mansioni di provenienza. Il soggetto può legittimamente rifiutarsi,
senza incorrere nella cancellazione dalla lista di mobilità, qualora il corso di formazione o l’offerta
lavorativa propinatagli si svolgano in un luogo lontano più di 50 km dalla propria residenza o non
raggiungibile, tramite mezzi pubblici, in 80 minuti.
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Licenziamento collettivo per riduzione di personale: estensione delle norme sulla procedura, indennità
ed iscrizione nelle liste di mobilità
Prima di trattare il licenziamento collettivo per riduzione di personale, dobbiamo ricordarci che
l’imprenditore che rientri nel campo di applicazione della CIGS e per cui ricorra una delle cause che
potrebbero dar luogo all’intervento straordinario della CIGS, non obbligatoriamente deve ricorrere alla
stessa, potendo da subito optare per una riduzione del personale, qualora la stessa risulti definitiva da
subito. Dobbiamo, infatti, tener conto della necessità di un programma di risanamento per poter accedere
alla CIGS, che l’imprenditore non potrebbe mai porre in essere qualora sia convinto che la riduzione debba
essere definitiva, anche se l’evenienza che egli opti per la riduzione del personale può verificarsi anche in
costanza della CIGS. In attuazione, quindi, della normativa comunitaria, il legislatore italiano, all’interno
dell’art.24 della L.223/1991, ha disciplinato il “licenziamento collettivo per riduzione di personale,
stabilendo che:
• Si applichi alle imprese con almeno 15 dipendenti;
• Si applichi in conseguenza di una “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro”;
• Si applichi ad almeno 5 dipendenti nell’arco di 120 giorni in un’unica unità produttiva;
• Si applichi a licenziamenti riconducibili tutti alla medesima “riduzione o trasformazione”;
• Si applichi in caso di cessazione totale e definitiva dell’attività.
L’esistenza di tali requisiti va riscontrata nella fase di attivazione della procedura, non in quella conclusiva: i
sindacati possono anche convincere l’imprenditore a licenziare un numero inferiore di lavoratori, ma ciò
non cambia la situazione, in quanto si permane all’interno della disciplina del licenziamento collettivo.
Un eventuale controllo giudiziario, inoltre, può riguardare solo la sussistenza di una riduzione o
trasformazione di attività o di lavoro, ma non entrare nel merito delle scelte imprenditoriali; ovviamente
occorre, anche, che vi sia un nesso di causalità tra scelta imprenditoriale e licenziamento.
Per ciò che concerne il rispetto dei criteri di scelta, del preavviso e dei vincoli formali, nonché tutti gli
aspetti procedurali, si fa espresso rinvio all’art.4 della L.223/1991 in materia di collocamento in mobilità.
Stessa cosa per il regime di inefficacia ed annullabilità del licenziamento.
La legge, tuttavia, nulla prevede in caso di mancanza del nesso di causalità tra licenziamento collettivo e
scelta imprenditoriale di riduzione o trasformazione. C’è chi pensa che il licenziamento collettivo sia
soggetto a differente disciplina, in quanto considerato come somma dei licenziamenti individuali. C’è chi
crede che sia invalido per vizio procedurale e che quindi sia invalido e vada applicato l’art.18 dello Statuto
dei lavoratori. Va detto, comunque, che il licenziamento in tal caso presenta un’anomalia, anche se non
sono chiare le conseguenze della stessa. Il giudice, comunque, che ravvisi che dei licenziamenti individuali
fondati su una riduzione o trasformazione di attività o lavoro possano rientrare nell’applicazione
dell’art.24, può statuire che essi siano inefficaci per inosservanza dei vincoli procedurali, dando così la
possibilità di operare all’art.18 dello Statuto.
Qualora, tra l’altro, il licenziamento collettivo per riduzione di personale riguardi imprese che avrebbero
potuto beneficiare dell’intervento straordinario della CIG, è previsto che i lavoratori licenziati abbiano
116
diritto all’indennità di mobilità ed all’iscrizione nelle liste di mobilità (senza indennità per coloro che
manchino del requisito di anzianità di 12 mesi). Il diritto all’iscrizione nelle liste di mobilità è stato previsto
anche per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro non imprenditori, così come per quelli che abbiano
subito un licenziamento collettivo ai sensi dell’art.24 da imprese non soggette alla disciplina della CIGS.
Oneri economici posti a carico delle imprese
Il datore di lavoro che opti per una riduzione del personale e che sia soggetto alla disciplina della CIGS va
incontro ad oneri economici sostanziosi, ossia al c.d. “contributo di mobilità”. Per ogni lavoratore licenziato
secondo la procedura descritta dall’art.4 L.223/1991 (collocamento in mobilità), l’impresa deve
corrispondere all’INPS, in 30 rate mensili, un contributo pari a 6 volte il trattamento mensile iniziale di
mobilità; deve corrispondere, invece, un contributo pari a 9 volte qualora abbia eseguito i licenziamenti
secondo l’art.24 della L.223 (licenziamento collettivo per riduzione di personale). Quindi, come possiamo
notare, viene incentivato il ricorso alla CIGSS, proprio per una maggior tutela dei lavoratori. Nel caso in cui
ci sia stato un accordo sindacale, gli oneri sono ridotti ad una somma pari a 3 volte il trattamento di
mobilità; l’imprenditore ha diritto ad una riduzione degli oneri anche qualora si sia attivato per cercare
occasioni di lavoro per i lavoratori licenziati. Dalla somma complessiva da versare all’INPS, inoltre,
l’imprenditore può detrarre l’anticipazione (una mensilità del trattamento massimo di CIGS per ogni
lavoratore) versata prima della comunicazione dell’attivazione della procedura di mobilità, che recupererà,
tra l’altro, qualora rinunci alla mobilità o licenzi meno persone.
L’imprenditore vede aggravarsi l’onere a proprio carico qualora il collocamento in mobilità avvenga tra la
fine del 12esimo mese dalla concessione della CIG e la fine del 12esimo mese successivo al completamento
del programma di risanamento (l’importo viene maggiorato del 5% per ogni mese di ritardo).
Procedure concorsuali, collocamento in mobilità e licenziamento per riduzione di personale
Nel caso in cui sia stata avviata una procedura concorsuale, gli organi della procedura (curatore, liquidatore
o commissario) possono optare per diverse scelte, a seconda che sia stata o meno disposta la cessazione
dell’attività. Se la continuazione dell’attività non è possibile, l’art.3 della L.223/1991 prevede che essi
possano scegliere di ricorrere al licenziamento collettivo, oppure possono richiedere, laddove sia possibile,
l’intervento straordinario della CIG per procedura concorsuale, nel cui ambito attivare il collocamento in
mobilita. Qualora, invece, l’esercizio dell’attività continui, essi, operando come un qualunque
imprenditore, possono scegliere la procedura di licenziamento per riduzione del personale in forza
dell’art.24 L.223, oppure richiedere l’intervento straordinario della CIG, stavolta utilizzando come causa
integratrice la ristrutturazione, riorganizzazione e conversione dell’impresa o la crisi aziendale, optando per
il collocamento in mobilità.
Il legislatore, riconoscendo la particolare situazione di imprese soggette a procedura concorsuale, esonera
le stesse dal contributo di mobilità, oltre a prevedere tempi più brevi per la consultazione sindacale.
Dobbiamo sottolineare che, laddove sia attuato un trasferimento d’azienda o di parte di essa, il
trasferimento in se stesso non costituisce giustificato motivo di licenziamento, fermo restando il diritto
dell’alienante, o anche dell’acquirente dopo la cessione, di attuare licenziamenti secondo la disciplina
generale.
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Licenziamento collettivo in caso di datori di lavoro privati non imprenditori
Si è già accennato al fatto che l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia per mancato
ottemperamento alle direttive comunitaria, in quanto con la L.223/1991 non aveva incluso nella disciplina i
datori di lavoro NON imprenditori. Ovviamente il legislatore italiano si è conformato alla scelta della Corte
nel 2004, integrando la L.223. Oggi, quindi, la disciplina contenuta nell’art.24, inerente il licenziamento
collettivo per riduzione del personale, si applica anche ai datori di lavoro non imprenditori, fermo restando
che essi non debbano corrispondere il contributo di mobilità (e quindi neanche l’anticipo in sede durante
l’avvio della procedura) e che i propri lavoratori licenziati non abbiano diritto all’indennità di mobilità (in
quanto non rientranti nel campo della CIGS), ma solo all’iscrizione nelle liste di mobilità con i diritti che ne
conseguono. Le sanzioni per licenziamento illegittimo sono le medesime previste per gli imprenditori, ossia
inefficacia in taluni casi ed annullabilità in altri, con conseguente tutela reale a favore dei lavoratori
prevista dall’art.18 dello Statuto. Una sola eccezione è prevista per le organizzazioni di tendenza (datori di
lavoro non imprenditori che svolgono attività di natura politica, culturale, sindacale, d’istruzione o
religione, senza fini di lucro): in caso di inefficacia o annullabilità del licenziamento opera solo e soltanto
una tutela obbligatoria e non reale.
Residua area di operatività della disciplina interconfederale del 1965
La disciplina degli accordi interconfederali, unica disciplina (ricordiamo politica ma non legislativa) sul
licenziamento collettivo presente prima della L.223, continua ad operare solo nel caso di licenziamenti
collettivi sotto il punto di vista sindacale ma NON legale, o perché adottati da imprese con meno di 16
dipendenti o perché privi di requisiti numerici, temporali e spaziali.
Interventi di carattere transitorio ed eccezionale in materia di mobilità. Prepensionamenti e mobilità
lunga
Così come per la CIGS, anche in materia di mobilità il legislatore è spesso intervenuto a favore dei
lavoratori, attuando una disciplina non presente nella normativa a riguardo.
Per esempio, molto spesso, si è concessa la cosiddetta “mobilità lunga” a favore di quei lavoratori anziani
di difficile ricollocazione all’interno del mercato del lavoro: a loro favore veniva prevista l’indennità di
mobilità, per un periodo protratto di tempo, che li accompagnasse fino al compimento dell’età
pensionabile. Praticamente una forma di prepensionamento o se vogliamo di mobilità con
accompagnamento alla pensione.
Altrettanto spesso, inoltre, si è assistito all’estensione, da parte del legislatore, del regime di mobilità nei
confronti di lavoratori licenziati da imprese con meno di 15 dipendenti.
SEZIONE C: SOSTEGNO ED INCENTIVAZIONE DELL’OCCUPAZIONE
Contratti di solidarietà esterna ed altre misure analoghe
Il continuo processo di terziarizzazione e le profonde modificazioni del sistema economico ed industriale,
hanno fatto in modo, col passare del tempo, che si creasse una vera e propria crisi occupazionale, sia per i
lavoratori già occupati, sia per i giovani non ancora occupati.
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Per tali motivi si sono resi necessari degli interventi legislativi volti ad incentivare l’occupazione da parte
delle imprese, tramite nuovi sistemi:
• Il contratto di solidarietà ESTERNA che, diversamente da quello di solidarietà interna non tende ad
evitare il licenziamento di lavoratori già occupati, ma tramite un accordo con i sindacati più
rappresentativi, tende a promuovere l’occupazione di nuovi lavoratori, con conseguente riduzione
dell’orario lavorativo e della retribuzione per i lavoratori già occupati, che non beneficiano, tra
l’altro, di alcuna indennità integrativa da parte dello Stato. Le imprese, invece, beneficiano di
incentivi finanziari. Solo i lavoratori più anziani che accettino di lavorare a tempo parziale
beneficiano di incentivi previdenziali;
• Nel 1991 è stato previsto un altro tipo di contratto aziendale volto ad evitare i licenziamenti: tra
un’impresa beneficiaria dell’intervento straordinario della CIG da più di 24 mesi ed i sindacati più
rappresentativi, può essere stipulato un accordo in forza del quale, per favorire l’occupazione di
nuovi lavoratori o evitare licenziamenti, i lavoratori di età inferiore di non più di 5 anni a quella
prevista per la pensione di vecchiaia e che abbiano almeno 15 anni di contribuzione, possono
chiedere la trasformazione del contratto da tempo pieno a part-time, godendo temporaneamente
della retribuzione e del trattamento pensionistico;
• Nel 1994 sono stati concessi notevoli incentivi alle imprese che stipulino contratti part-time per
incrementare gli organici esistenti, proprio a favore, quindi, dell’occupazione.
L’esperienza dei lavoratori socialmente utili
Prima di parlare dei lavoratori socialmente utili, è necessario specificare la distinzione esistente tra un
sistema di welfare ed uno di workfare. Welfare significa “benessere, assistenza, sussidio pubblico, aiuto
sociale” ed indica un sistema che tenda ad aiutare un lavoratore bisognoso tramite interventi previdenziali
ed assistenziali. Il concetto di workfare, invece, è diverso: in cambio dell’aiuto sociale, del sussidio,
dell’intervento previdenziale ed assistenziale, il ricevente deve eseguire un’attività di assistenza, di utilità
sociale.
Il concetto di lavoro socialmente utile, introdotto dal D.Lgs.468/1997 proprio per promuovere
l’occupazione di nuovi lavoratori o occupare temporaneamente quelli che godono di trattamenti
previdenziali (indennità di mobilità o di disoccupazione, CIGS), prevede che il soggetto venga impegnato in
un’attività di utilità sociale, all’interno di progetti predisposti da soggetti pubblici e privati. L’esperienza dei
l.s.u. avrebbe dovuto dare un contributo al sistema occupazione, riqualificando alcuni e collocandone altri,
cosa che, invece, non è accaduta. Il D.Lgs.81/2000 ha soppresso buona parte delle tipologie di l.s.u.
Promozione delle cooperative di produzione e lavoro a fini occupazionali. Inserimento e reinserimento
dei lavoratori nel mercato del lavoro
Sempre nell’ottica di promuovere l’occupazione, il legislatore ha previsto, con la L.49/1985, l’introduzione
delle cooperative di produzione e lavoro, attraverso le quali si attua una mutualità imprenditoriale tra i
lavoratori, molto spesso provenienti da aziende in crisi. Tali cooperative vengono incentivate dal
legislatore, tramite un privilegio nei finanziamenti.
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Altri interventi hanno riguardato incentivi economici per le imprese che assumono lavoratori disoccupati o
collocati in CIGS: gli incentivi consistono in aiuti economici, in sgravi fiscali o contributivi, o in erogazioni
una tantum.
Anche il D.Lgs.276/2003 che ha riformato il mercato del lavoro è intervenuto in materia, prevedendo che le
agenzie di somministrazione possano prevedere piani individuali d’inserimento o reinserimento di
lavoratori svantaggiati nel mercato del lavoro, e che venga meno, in tali casi, il principio di parità di
trattamento tra lavoratori somministrati e lavoratori dipendenti dall’utilizzatore, potendo quest’ultimo
attuare una diversa disciplina retributiva. Il soggetto che gode di un’indennità di disoccupazione, decade da
tale diritto qualora rifiuti un’offerta in tal senso.
Forme negoziali di sostegno al lavoro: contratto di reinserimento; lavoro accessorio; contratto di
inserimento
Per favorire ulteriormente l’occupazione, il legislatore del 1991 e del 2003 ha previsto altri tipi di rapporto
di lavoro:
• Contratto di reinserimento, introdotto dalla L.223/1991, destinato a lavoratori che fruiscano da
almeno 12 mesi del trattamento speciale di disoccupazione (poi venuto meno) o della CIGS. Essi
possono essere assunti con tale contratto da imprese che nell’anno precedente non abbiano dato
luogo a licenziamenti e che non abbiano, al momento dell’assunzione, in corso una CIG. Il contratto
deve rispettare la forma scritta ed essere inviato, in copia, all’INPS ed alla Direzione provinciale del
lavoro. I datori di lavoro che danno luogo a tale rapporto ricevono delle agevolazione contributive;
• Lavoro accessorio, introdotto dal D.Lgs.276/2003, destinato a categorie di soggetti a rischio di
esclusione sociale o non ancora entrati nel mondo del lavoro o in procinto di uscirne, come dice la
stessa disciplina. Si tratta di casalinghe, disoccupati da oltre un anno (che non perdono tale status),
studenti, pensionati, disabili e soggetti in comunità di recupero, lavoratori extracomunitari che
abbiano perso il lavoro da almeno 6 mesi. Essi potranno svolgere prestazioni di tipo accessorio
qualora comunichino la propria disponibilità ai servizi per l’impiego, che rilascerà loro una tessera
magnetica che attesti la loro condizione. Potranno svolgere attività meramente occasionali
(insegnamento privato, pulizia e manutenzione di edifici e monumenti, lavoretti in impresa
familiare, piccoli lavori domestici e cose del genere). Il soggetto potrà soddisfare le esigenze di
qualsiasi committente, purché non riceva da ognuno di essi compensi superiori a 5000 euro.
Sembra configurarsi, quindi, una fattispecie di lavoro autonomo. Il pagamento dagli
utilizzatori/committenti ai soggetti esercenti lavoro accessorio dovrà avvenire tramite specifici
buoni, che il committente acquisterà presso le rivendite autorizzate e che il lavoratore tramuterà in
denaro presso il concessionario. I buoni sono esenti da imposizione fiscale, ma grava sul
concessionario l’obbligo di versamento contributivo all’INPS ed all’INAIL, una volta trattenute le
proprie competenze. INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO: è da segnalare che con
specifico riguardo alle attività agricole non integrano in ogni caso un rapporto di lavoro autonomo o
subordinato le prestazioni svolte, da parenti e affini sino al quarto grado, in modo meramente
occasionale o ricorrente di breve periodo, a titolo di aiuto, mutuo aiuto, obbligazione morale senza
corresponsione di compensi, salvo le spese di mantenimento e di esecuzione dei lavori.
Concludendo, va precisato come l’applicazione di questo istituto sia ancora in fase sperimentale
perché la sua diffusione dipende in buona parte dalla costituzione di una rete informativa tra i
120
diversi soggetti coinvolti nella gestione del sistema. In ogni caso è utile distinguere tra il lavoro
accessorio reso nei confronti delle famiglie e quello reso nei confronti delle imprese. Quest’ultimo,
infatti, presenta maggiori rischi di utilizzazione fraudolenta ed a tal fine sono stati individuati
particolari limiti procedurali in sede di applicazione della normativa. Per tutti coloro che vogliano
utilizzare il lavoro accessorio è necessaria la registrazione anagrafica presso l’INPS, ma solo per i
lavori in agricoltura e nei settori del commercio, turismo e servizi sono necessarie alcune
comunicazioni: le indicazioni anagrafiche relative al lavoratore e al periodo di svolgimento
dell’attività occasionale, sono immesse telematicamente ed è necessaria la comunicazione
preventiva all’INAIL.
• Contratto di inserimento, con finalità formative, di cui abbiamo già parlato.
Incentivi all’occupazione. Sostegno all’autoimprenditorialità ed all’autoimpiego
Vi sono, infine, interventi diretti a fronteggiare la disoccupazione tramite la promozione dell’iniziativa
imprenditoriale e dell’autoimpiego (lavoro autonomo) nelle aree ad alta disoccupazione e per garantire
un’eguaglianza sostanziale tra i sessi. Tipico esempio è la L.215/1992.
INTEGRAZIONE APPENDICE DI AGGIORNAMENTO DELL’INTERA SEZIONE C: abbiamo già accennato a come
gli ammortizzatori sociali siano spesso intervenuti, date le continue crisi di molti settori sia a livello
nazionale che territoriale, al di fuori del proprio campo di applicazione ed a favore di imprese che non
hanno mai contribuito finanziariamente a questo sistema previdenziale. E per tal motivo che spesso si è
parlato di “ammortizzatori sociali in deroga”. Nell’anno 2009, a causa della crisi mondiale che assale anche
lo Stato italiano, è stata riconosciuta al Ministro del lavoro, di concerto con il Ministro dell’economia e
delle finanze, la facoltà di concedere e prorogare trattamenti di cassa integrazione guadagni, mobilità e
disoccupazione speciale, con riferimento a particolari settori produttivi o a particolari aree geografiche,
sulla base di specifici accordi governativi e per un periodo massimo di 12 mesi. Ai lavoratori non rientranti
nell’ambito della CIGS, poi, è stata riconosciuta l’indennità di disoccupazione ordinaria, a condizione che il
20% di tale indennità sia corrisposto dagli enti bilaterali istituiti dalla contrattazione collettiva.
Infine, sperimentalmente per il biennio 2009-2011, anche ai lavoratori coordinati e continuativi, se in
regime di monocommittenza e solo in caso di fine lavoro, è stata riconosciuta un’indennità pari al 10% del
reddito percepito nell’anno precedente.
Ovviamente, nel caso di ammortizzatori in deroga, il lavoratore deve sottoscrivere una dichiarazione di
immediata disponibilità al lavoro o ad un percorso di riqualificazione professionale.
FINE
N.B. per gli studenti: quest’opera non è solo un riassunto del GHERA (anche), ma una rielaborazione
personale dei temi in esso trattati. Aver scartato alcune parti e sottolineato l’importanza di altre, non fa di
me un docente, ma semplicemente uno studente che fa delle valutazioni personali. Dal canto mio, con una
minima vena di vanto ed arroganza, possono dirvi che le mie rielaborazioni mi hanno sempre portato a
conseguire voti non inferiori al 27. Tuttavia è doveroso, da parte mia, precisare che ognuno di noi è
portatore di una singolarità che gli permette di recepire le informazioni in maniera diversa, migliore o
peggiore che sia. Quello che posso assicurare è che, all’interno della mia rielaborazione, non ho trascurato
nulla di rilevante, ma pur sempre dal mio punto di vista, che potrebbe differire da quello degli assistenti e
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del docente. Vi invito, pertanto, ad integrare gli argomenti trattati con il libro di testo, scritto da un
docente e luminare in materia, qualora l’esposizione non vi abbia soddisfatti, o anche a confrontare la mia
rielaborazione con quella di altri colleghi. Mi scuso in anticipo, inoltre, qualora doveste riscontrare errori
grammaticali, dovuti, vi assicuro, alla stanchezza ed al peso specifico della materia. Rielaborare non è mai
semplice, per questo motivo in alcune parti ritroverete pari pari le parole del testo, magari selezionate a
mia discrezione, magari ricopiate e basta. In altre, invece, troverete elementi di diritto privato (o anche
commerciale) che il testo da per scontato che voi abbiate appreso, ma che io ho voluto ricordarvi
ugualmente.
Spero davvero che questa mini-opera possa esservi d’aiuto.
Vi auguro di prendere un buon voto all’esame!!!
Foxshark