Rivolta Araba: Insurrezione o Rivoluzione?
Eugenio Orso
Chiede: Quando verrà il Giorno della Resurrezione?
[Il Corano, Sura LXXV, versetto 6]
Indice
Premessa pag. 1 I Topi di Tobruch pag. 2 Insurrezione o Rivoluzione, cambiamento o continuità? pag. 8
Eugenio Orso Rivolta Araba: Insurrezione o Rivoluzione? 7 marzo 2011
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Premessa Coloro che vivono in occidente e nel nord del pianeta, in qualche misura soggetti alle lusinghe, alle manipolazioni ed alle illusioni capitalistiche, sono portati a credere che lo stesso Antagonismo, la critica al capitalismo, l’opposizione politica e sociale al potere vigente non possono che nascere in quella parte del mondo, nella quale ha avuto origine il modo storico di produzione dominante e dalla quale si sono irradiati, per almeno due secoli, modelli politici ed economici, aspetti culturali ed ideologie venduti come universali, forme di governo particolari, stili di vita e nuovi costumi. Ma non è affatto scontato che in futuro sia l’occidente a guidare le trasformazioni del mondo, come non è scontato che le rivolte, le manifestazioni dell’Antagonismo, gli stessi processi rivoluzionari debbano per forza nascere nel centro del sistema e non nella sua periferia. Il capitalismo contemporaneo ed i processi di mondializzazione economica hanno creato una vasta periferia vitale, in espansione demografica ed economica, apparentemente sottomessa alle loro logiche e alle loro dinamiche come il nord e l’occidente del mondo, ma lacerata da nuove contraddizioni che si sovrappongono alle antiche mai definitivamente sopite, ed è in questa periferia che si è sviluppata la cosiddetta Rivolta Araba. La questione delle sollevazioni popolari del Maghreb, che hanno contagiato il resto del mondo arabo, l’Iran teocratico e sciita e la stessa Cina capitalista, merita di essere trattata con una certa attenzione, non soltanto per la sua complessità e i suoi possibili effetti sugli equilibri geopolitici mondiali, ma soprattutto perché questa catena di rivolte locali, che presentano qualche elemento in comune, potrebbe preludere all’avvio di un vero e proprio processo rivoluzionario. Solo il futuro potrà rivelarci se la generale rivolta dei popoli arabi, che pare aver spiazzato nella sua prima fase sia gli occidentali sia gli islamisti, assumerà i lineamenti peculiari di una vera ed inedita Rivoluzione, oppure sarà destinata a rifluire progressivamente, dopo aver abbattuto i despoti locali ed aver prodotto, all’interno dei paesi interessati, qualche cambiamento politico non sostanziale.
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I Topi di Tobruch Il titolo riecheggia una lunga e sanguinosa battaglia della seconda guerra mondiale, con gli anglo‐australiani che fronteggiavano le forze dell’asse nel Nordafrica ed occupavano la strategica fortezza di Tobruch, in Cirenaica, posta fra Tripoli di Libia e l’Egitto. I Topi erano quei militari australiani delle forze alleate che resistettero caparbiamente per mesi, circondati dall’armata d’Africa sotto il comando di Ervin Rommel, e respinsero gli attacchi dell’asse, prima di cedere definitivamente a metà del 1942. Ma i topi, a detta di un delirante colonnello Gheddafi che si appresta a “scendere nel bunker” forse per sempre [siamo alla fine di febbraio 2010, con i giochi ancora aperti], oggi sono gli insorti libici, e cioè tutti coloro che hanno invaso le piazze e le strade, mossi da una rabbia ultradecennale e incuranti dei rischi. I Topi, secondo il rais libico, sono coloro che hanno liberato la Cirenaica, il capoluogo Bengasi e la stessa Tobruch, e che ora combattono alla periferia di Tripoli e nei centri vicini alla capitale contro gli sgherri del regime e le bande mercenarie, sudanesi o nigeriane, ingaggiate con i soldi del popolo libico per contenerne le rivendicazioni. Antiche rivalità tribali, nella Jamāhīriyya araba, popolare e socialista gheddafiana prossima al definitivo crepuscolo, esplodono dopo quattro decenni di relativa calma, e si intrecciano inestricabilmente con una rivolta della popolazione apparentemente simile, e quasi contestuale, a quella egiziana o a quella tunisina. Se durante la seconda guerra mondiale le popolazioni nordafricane subivano un conflitto fra potenze esterne, per ragioni a loro estranee, oggi sono in prima linea nella lotta ai despoti locali, e pagano per questo un tributo di sangue e di distruzioni, come è accaduto a Tunisi, in Piazza Takrir al Cairo, e sotto i bombardamenti in molte città della Libia. La catena delle sommosse – Tunisia, Egitto, Libia – sembra non arrestarsi e i sommovimenti, improvvisi, non previsti con sufficiente anticipo da alcuno, ma forse non del tutto imprevedibili, continuano al momento presente, dall’Iran al Baharain, dall’Algeria al Marocco. Il sangue scorre abbondantemente, le situazioni che si creano sono talora caotiche e compromettono quel minimo di convivenza civile che ancora rimare, la situazione economica precipita ulteriormente con quella sanitaria, particolarmente in Libia, dove gli scontri sembrano portare verso la guerra civile. Gli effetti politici interni provocati e l’esempio dato alle altre popolazioni arabe costituiscono prove che in Tunisia, in Egitto e in Libia non si sono improvvisamente sviluppati moti insurrezionali “puri”, come quello di Los Angeles, agli inizi degli anni novanta, in cui la situazione è stata rapidamente ripristinata dalle autorità, o
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come quello delle periferie francesi, che non ha provocato cadute di governi o fughe di presidenti, poiché in tal caso ci sono precisi obbiettivi politici e sociali, per quanto circoscritti ed interni, che parte significativa dei manifestanti e dei rivoltosi persegue in modo cosciente. Se vi sono obbietti immediati e condivisi nella rivolta, si deve però rilevare che la “progettualità futura” è carente, non vi è un’ideologia alla base che legittima manifestanti e resistenti, e tutto ciò non potrà non avere riflessi su ciò che accadrà dopo, quando i fuochi si spegneranno e si renderà necessario ricostruire politicamente e moralmente quei paesi. La richiesta che si leva dalle masse arabe sembra quella di un cambiamento immediato e tangibile, ed è l’allontanamento dal potere del despota o dell’autocrate locale, come se ciò fosse sufficiente e potesse portare alla risoluzione di molti problemi, compresi quelli di natura economica e sociale. Nessuno sa dire con sufficiente chiarezza chi sono esattamente gli insorti, che cosa veramente rappresentano, data la loro eterogeneità da un punto di vista politico e del ruolo che occupano nell’ordine sociale, di quali idee e di quali prospettive di cambiamento sono portatori, né è possibile comprendere – in questi giorni ancora caldi, nei quali le situazioni sono in movimento – cosa faranno e quali vie sceglieranno se potranno decidere del loro futuro, ma quel che è certo è che in maggioranza non sono né burattini filo‐occidentali né sostenitori, all’opposto, dell’oscurantismo islamista. Del resto, il mondo arabo‐islamico non è certo un blocco granitico e ogni paese ha una propria storia politica, economica e sociale, nonché un differente atteggiamento nei confronti della religione e del laicismo. L’Egitto non è la Tunisia, e lo Yemen non è la Libia, e quindi ogni protesta si sviluppa secondo linee diverse dall’altra, l’una procede indipendentemente dall’altra, nonostante un certo “spirito di emulazione” che le innesca, ma tutte sono legate da un sottile fil rouge che ci rivela l’instabilità di un ordine mondiale postbipolare il quale rapidamente, in vaste aree del mondo, può convertirsi in disordine. Sono proprio il disordine e la sopraggiunta instabilità – quale terreno di coltura del cambiamento – che possono alimentare, da un lato, i fuochi insurrezionali nel breve periodo, e dall’altro, i processi rivoluzionari di lungo periodo. Per i filocapitalisti pro‐americani, i manifestanti e i rivoltosi sono principalmente dei “democratici” che vogliono cose come i diritti umani, la democrazia, naturalmente nella veste liberale gradita all’occidente, e che rivendicherebbero, di conseguenza, una società più laica ed “aperta”, in contrapposto al potere del satrapo o al governo del rais locale che la costringono sotto il loro giogo. Per i filocapitalisti anti‐americani [pro‐russi, pro‐cinesi, pro‐“emergenti” in generale] coloro che si sono sollevati, dalle coste mediterranee del Nordafrica
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all’Iran e al Golfo Persico, stanno facendo il gioco dell’amministrazione Obama e dei potentati che la sostengono orientandone le politiche. L’America, intesa come potenza planetaria e centro del Nuovo Capitalismo Globale, può così migliorare la sua immagine internazionale, appoggiando – spesso a parole, altre volte con l’azione politico‐strategica, ma sempre strumentalmente – i popoli e non i despoti, per quanto a lei favorevoli, e soprattutto può concretamente sperare che l’allargarsi dei disordini faccia cadere qualche regime ostile, come ad esempio quello teocratico‐iraniano. Queste le due ipotesi contrapposte, che vedono nei manifestanti rispettivamente una speranza di “occidentalizzazione” di quelle società, per i liberalcapitalisti che temono un rapido estendersi dell’egemonia islamica nell’Asia sudoccidentale e in Nordafrica, e una minaccia per filo‐russi, filo‐cinesi e simili, che temono, al contrario, il mantenimento e l’estensione dell’influenza americana in quelle importanti aree del mondo. Non è escluso, comunque, che quel soft power obamiano contrapposto alla guerra infinita di Bush e dei Neocon, il quale dovrebbe consentire all’America di porsi ancora per qualche tempo come garante degli interessi liberalcapitalistici nel mondo, contempli “soluzioni” di questo tipo per dispiegare i suoi effetti geopolitici, in quanto giudicate alternative efficaci e paganti ad un dispendioso, e ben più drammatico, intervento militare diretto. Fra le due ipotesi estreme – da un lato, i manifestanti sono laici e democratici, dei “liberali” che si stanno incamminando sulla strada dell’occidentalizzazione, e dall’altro lato, i manifestanti sono manipolati dagli americani per i loro scopi geopolitici – vi sono infinite sfumature, e quindi, differenti, possibili interpretazioni. Ma le scosse telluriche che sconvolgono la superficie di una parte importante del pianeta, non possono che nascere nelle profondità della globalizzazione neoliberista, originate dalle ineguaglianze in termini di distribuzione delle risorse che questa amplifica, e dalla subalternità effettiva di molti dei locali regimi – nepotisti e corrotti – al Grande Capitale Finanziario e al suo gendarme americano [ad esclusione dell’Iran teocratico, naturalmente]. L’assetto globalizzato dominato da Mercati [la Finanza] e Investitori [la Classe Globale] che ha assunto il mondo, non solo non ha favorito l’allontanamento dal potere dei satrapi nordafricani come Ben Alì, Gheddafi e Mubarak, che lo detenevano da decenni, ma ha esasperato la questione sociale fino a provocare, nel recente passato, aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari essenziali, a partire dal pane, e un ulteriore impoverimento di popolazioni che in molti casi [escluso forse quello della Libia] erano già malridotte, soggette alla disoccupazione endemica e ad un ordine politico e sociale oppressivo.
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In questo senso, la rivolta di popolo contro il despota locale nasconde una rivolta, purtroppo largamente inconsapevole, contro le dinamiche capitalistiche ultime, la globalizzazione, il dominio del Libero Mercato, e non soltanto una reazione, ampiamente giustificata, contro un potere locale corrotto e apparentemente inamovibile. La domanda che ci si deve porre, a questo punto, è: chi sono coloro che partecipano alle manifestazioni ed alle sollevazioni, cosa vogliono e cosa rappresentano, quale futuro annunciano per il Nordafrica e forse per l’intero Medio Oriente? Come affermato in precedenza, è fondata l’impressione che non si tratta di “rivoluzionari colorati” e sponsorizzati, pur indirettamente, dagli americani e dai loro collegati occidentali, e neppure di integralisti islamici che vorrebbero instaurare il dominio assoluto della Sharia [se ortodossi sunniti, come in gran parte del Nordafrica] o costituire una repubblica teocratica islamica su modello iraniano [se sciiti, come in Baharain]. Infatti, in Egitto i fondamentalisti del movimento dei Fratelli musulmani nei primi giorni della rivolta contro Mubarak se ne sono rimasti nascosti, per evitare la repressione, e soltanto dopo sono “comparsi” nelle piazze unendosi ai manifestanti che già le occupavano. Se la profondità è quella di una rivolta [purtroppo largamente inconsapevole] contro il Nuovo Capitalismo Finanziarizzato e le sue spietate dinamiche, la superficie del fenomeno ci mostra, più che l’innesco di un vero e proprio processo rivoluzionario, una sollevazione del Popolo contro il Despota – il Dittatore Ben Alì, il Faraone Mubarak, il Guardiano della Rivoluzione Gheddafi – simile alle rivolte che i popoli europei scatenarono nell’Ottocento contro i sovrani e i governi autoritari, da quelle del 1830 al sanguinoso epilogo, nel maggio del 1871, della breve ed eroica esperienza della Comune di Parigi. Vi è poi qualche somiglianza con i vecchi “moti del pane”, in cui si rivendicava un po’ di giustizia sociale, si chiedeva pane e lavoro, come nel caso della sollevazione della popolazione di Milano nel maggio 1898, repressa a suon di cannonate per ordine di re Umberto I di Savoia dall’ottuso generale Bava Beccaris. I Mig e gli elicotteri inviati da Gheddafi a bombardare i manifestanti‐insorti, e soprattutto gli spari della polizia di Ben Alì contro i manifestanti‐rivoltosi, sono un po’ come i cannoni di Bava Beccaris che sparavano dai vecchi bastioni sulla popolazione milanese. Ma pane e lavoro non sono le sole rivendicazioni dei popoli in rivolta, se la parte più giovane ed acculturata di coloro che hanno invaso le piazze nordafricane e medio‐orientali rivendica la libertà di espressione, la possibilità di decidere del proprio futuro e un’apertura culturale inedita, che ha ben poco da spartire con la riaffermazione della tradizione islamica in quelle società.
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Il contagio è arrivato fino all’antica Arabia Felix e alle coste del Golfo Persico, e si è esteso all’Iran che aveva già vissuto la cosiddetta “rivoluzione verde”, repressa con brutalità da quel regime teocratico del quale il presidente Ahmadinejad è soltanto un agente ed un emissario. Dal Ponente al Levante arabo, dal Gran Maghreb al Mashriq passando per l’Egitto, le rivendicazioni economiche e sociali si sono intrecciate con le richieste di libertà e di cambiamento politico dei subalterni, ed hanno acceso la miccia. Accanto all’antica “ira popolare” mossa da ragioni molto concrete come il disagio economico e la richiesta di lavoro, in queste sommosse hanno avuto un ruolo non secondario le nuove tecnologie per la comunicazione, i blog come quello di Zenobia in Egitto e i programmi per telefonare come skipe utilizzati dai rivoltosi, a dimostrazione che accanto alle ombre del passato e all’atavica fame di libertà dei popoli si materializza già in questo presente, a tutte le latitudini, un futuro in cui virtualità e tecnologie influenzano la vita reale, gli scontri sociali e quelli politici. In tali casi, l’uso della rete e delle possibilità offerte dal cosiddetto software sociale hanno contribuito alla mobilitazione, informando i resistenti e i manifestanti, ed anche al “contagio” che si è esteso rapidamente oltre i confini dei singoli paesi, non relegando la protesta in spazi puramente virtuali, come è accaduto in Italia, per molti anni, con il comico‐predicatore Beppe Grillo e il suo frequentatissimo blog. Se l’origine di un movimento antagonista non può mai essere virtuale, le tecnologie della comunicazione e la rete possono costituire un “arma” efficace a disposizione degli antagonisti ed un veicolo di aggregazione, per poi consentirgli dilagare nel mondo reale, nelle piazze e lungo i viali, come nel caso dell’Egitto, in quel fatidico martedì 25 gennaio 2011 all’origine della sollevazione, in cui i blogger e la rete hanno giocato un ruolo importante. Il 25 gennaio era la giornata nazionale di festa della polizia egiziana, e il giorno è stato scelto per organizzare una manifestazione dal gruppo ʺWe Are All Said Khaledʺ – Khaled Sa`id è un giovane, diventato simbolo della resistenza alla repressione, ucciso dalla polizia nel giugno del 2010 in un internet caffè di Alessandria perché aveva rifiutato di esibire i documenti – e questa iniziativa ha raccolto decine di migliaia di adesioni, contribuendo ad innescare la miccia della protesta che avrebbe portato alle dimissioni di Mubarak. Il 25 gennaio che doveva essere un giorno di festa, si è trasformato nella giornata della collera, una collera esplosa in Tunisia che ha attraversato l’Egitto per sconvolgere, subito dopo, la Libia di Gheddafi. E’ chiaro che nella vicenda egiziana ha giocato un ruolo l’esempio tunisino della “rivoluzione delle 12 ore”, e che vi è stato l’intervento e l’appoggio dei movimenti di opposizione [i partiti di opposizione in Egitto sono una cinquantina], ma se la rivolta spontanea si è estesa da Assuan ad Assiut, da Suez ad Alessandria passando per Il Cairo, ciò è dovuto all’azione dei blogger egiziani, come la nota Zenobia di
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Egyptian Chronicles blogspot, molto attiva nel diramare comunicati e valutare l’entità della partecipazione. I blogger, valendosi delle loro reti di comunicazione attive fino in Europa e negli Stati Uniti, hanno “convocato” i manifestanti, fra i quali molte persone che altrimenti non sarebbero scese in piazza. Ma non si può ancora parlare di vere Rivoluzioni, purtroppo, in relazione ai moti di Tunisia, di Egitto e di Libia, poiché l’obbiettivo cosciente e immediato delle masse arabe è quello di liberarsi del despota e del suo regime, non di sovvertire completamente l’ordine costituito, di trasformare le istituzioni occupate per l’instaurazione di un nuovo socialismo, superando le spietate logiche capitalistiche, ed ovviamente di cacciare, assieme al despota, le multinazionali, i comitati d’affari e il capitale finanziario globalista. Anzi, probabilmente non esiste neppure, in quei paesi e fra i manifestanti‐insorti, un chiaro progetto in tal senso. Tutto ciò potrà forse verificarsi in futuro, se i militari che occupano il potere in situazioni di emergenza per “gestire la transizione”, come è avvenuto in Egitto dopo le dimissioni imposte a Mubarak, non restaureranno una forma di dispotismo senza il despota, una tirannia che sopravvive ad un tiranno ormai morto o moribondo, ridotto in un bunker o fuggito, o se gli integralisti islamici non approfitteranno dell’occasione per installarsi saldamente al potere e stabilire la loro legge arcaica e liberticida. Quale sarà l’effetto sugli equilibri planetari di questi grandi sommovimenti, di questi moti di popolo dal Mediterraneo al Golfo Persico, non ancora conclusi, e forse appena in una fase iniziale? Questo potrà rivelarcelo soltanto il futuro, ma una cosa è certa: all’attivismo vitale delle masse arabe e nordafricane si contrappone l’inerzia di molte popolazioni europee, prima fra tutte quella italiana, che avrebbe numerose ragioni per seguire l’esempio egiziano o quello tunisino. Alla vitalità delle nuove generazioni arabe, espressa senza riserve nei giorni della protesta e dell’occupazione delle piazze, si contrappone la relativa ma inquietante rassegnazione delle nuove generazioni in occidente e di quelle italiane in particolare, che dovrebbero destarsi da un sonno mortifero popolato di false lusinghe capitalistiche e seguire quel esempio molto concreto, per poter garantire a sé stesse ed al loro paese una prospettiva futura. Davanti all’entusiasmo, alla rabbia e al sacrificio dei nordafricani, gli italiani dovrebbero provare almeno un po’ di vergogna e trovare il coraggio per sussurrare: Evviva i Topi di Tobruch!
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Insurrezione o Rivoluzione, cambiamento o continuità? Come già affermato in precedenza, ci sono coloro che vedono dietro l’evento della Rivolta Araba, destinato forse a diventare un evento storico ed importante per il mondo intero, l’azione della cosiddetta “manina d’oltreoceano” di Geronimo/ Pomicino, e cioè l’ingerenza americana fin dall’inizio di questo processo, nel tentativo di anticipare un probabile crollo spontaneo dei regimi arabi nordafricani, togliendo così l’iniziativa agli islamisti e ad altre potenze ostili, nei fatti o in prospettiva futura, come l’Iran, la Russia e forse la stessa Cina, che oggi è ancora il principale partner capitalistico degli americani nella “globalizzazione” del pianeta, ma che domani, rafforzandosi, potrebbe rivelare nuove ambizioni e maggiori appetiti. Dall’altra parte, ci sono coloro che giurano che le proteste sono del tutto spontanee, originando dalla richiesta di maggiori diritti civili e politici – i quali nasconderebbero, però, quegli astratti “diritti umani” che non di rado hanno giustificato azioni militari americane e occidentali – e dall’ormai incontenibile malessere di popolazioni che da lunghi decenni, oltre un quarantennio nel caso libico, sono soggette a regimi dispotici, dittatoriali o “populisti”. Che ci sia un forte interesse da parte dell’amministrazione federale americana per l’area del Maghreb, nella versione dell’Unione del Maghreb Arabo [trattato di Marrakech del 1989] comprendente anche la Libia e la Mauritania oltre al Marocco, all’Algeria e alla Tunisia, e per tutta l’area di levante del Mashreq, è addirittura scontato ed è forse qui, come anche in Egitto e soprattutto in Iran, che si giocherà un’importante partita geopolitica, ma non certo l’unica, per mantenere ed estendere l’egemonia americana. E’ bene ripetere che la prima visione è sostanzialmente quella dei filocapitalisti anti‐americani, disposti a sostenere tutti e a qualsiasi costo – dai generali birmani all’Ayatollah Khamanei, da Putin a Gheddafi –, purché contrari agli interessi degli Stati Uniti d’America, in funzione dell’affermarsi di un mondo multipolare ancorché dominato dal peggior capitalismo. Questa è la posizione, nella penisola, dell’estremista filo‐capitalista Gianfranco La Grassa, ex marxista althusseriano ed attuale “guru” di un gruppuscolo di intellettuali obnubilati, nonché degli euroasiatisti pro‐russi che fanno il paio con il primo. Costoro considerano i popoli, i subordinati, la gente comune, semplici sacchi di patate che mai potranno esprime una volontà collettiva ed antagonista, e in una piena distorsione geopolitica ammettono soltanto il conflitto fra le potenze e le élite che le dominano, non riconoscendo alcun carattere di spontaneità alle rivolte in corso e gridando, sempre e comunque, al complotto nordamericano suscitato dalle subdole manovre di Washington.
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La seconda visione ci riporta ai filocapitalisti schierati con la potenza americana, con il “suo” occidente e il liberalcapitalismo globalizzante più vieto. Costoro vorrebbero il trionfo assoluto del cosiddetto impero americano e la definitiva penetrazione globalista nelle importanti aree del Nordafrica e dell’Asia sudoccidentale, Libia ed Iran compresi. In Italia ce ne sono molti di questi soggetti – politici, intellettuali, giornalisti, accademici –, dagli ambienti “liberali” del PdL berlusconiano a quelli dei “morti viventi” del Pd, i quali manifestano la più incondizionata subalternità nei confronti delle amministrazioni americane e della Classe Globale che le controlla. Per questi sciagurati – sciagurati quanto i primi, ai quali si contrappongono – i popoli in agitazione ed in rivolta non possono che volere la democrazia, ma soltanto nella versione liberalcapitalistica “esportabile”, e desiderano la società “aperta”, il Mercato, la globalizzazione, i Marchionne che vagano nel mondo al seguito dei grandi capitali, mercificando un lavoro senza diritti … Checché ne dicano, sia i primi sia i secondi se ne fregano bellamente, nel modo più cinico e disgustoso ma per opposti motivi, del destino dei popoli arabi e delle vere ragioni che li spingono a rivoltarsi, popoli che diventano così semplici pedine in un gioco di strategia mortale e ostaggi di una sporca geopolitica, nella più bieca esaltazione della Realpolitik. Vi è poi una terza interpretazione dei moti d’Egitto, di Tunisia ed anche della Libia in cui infuria la guerra civile, certo più “simpatica” delle precedenti e sicuramente anticapitalista, che vede in questi eventi una generale ribellione di quelle popolazioni, una reazione cosciente contro il capitalismo e le sue dinamiche, e lascia intendere, nelle sue formulazioni estreme, che gli accadimenti in corso potrebbero preludere ad un crollo finale del sistema, resuscitando così il “crollismo” novecentesco di matrice marxista. O in altri termini, se un grande sciopero generale, sorelianamente, avrebbe dovuto far collassare il sistema capitalistico del secondo millennio, la rivolta di popolo nordafricana non islamista e non liberaldemocratica, estesa a tutto il mondo arabo e destinata a dilagare al di fuori di questo, non potrà che portare al collasso il Nuovo Capitalismo Globale. In fondo, la Rivoluzione d’Ottobre è avvenuta nel punto più basso dello sviluppo capitalistico, cioè nell’impero zarista semi‐feudale, ed oggi i processi rivoluzionari potrebbero avere inizio nella periferia, anziché nel centro del sistema capitalistico globalizzato, per poi penetrare nel cuore del sistema, arrestandolo. Chi scrive è però convinto che queste fiducie sono [purtroppo] eccessive, ed anche un po’ ingenue, poiché non sono sufficienti dei sommovimenti, pur importanti ed eroici, nella periferia capitalistica per poter prevedere il sicuro collasso del centro, ed anche perché una rondine … non fa ancora primavera.
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Ciò non toglie che nella genesi della Rivolta Araba, il peso maggiore deve essere attribuito proprio alla volontà – non manipolata dalla “manina d’oltreoceano” o da altre entità esterne onninvasive – delle popolazioni del Maghreb e del Levante arabo, alle giuste rivendicazioni sul piano politico e su quello economico‐sociale che questa esprime, lasciando ben sperare in una generale “presa di coscienza” della nuova Pauper class capitalistica in quelle aree del mondo, molto al di là delle frammentarie e localizzate rivolte di Popolo contro il Desposta. Le giornate della collera rappresentano dunque un riscatto delle popolazioni arabe e un’affermazione di dignità e consapevolezza che nessuno potrà cancellare, e che produrrà i suoi effetti nel lungo periodo, quali che saranno gli esiti delle sollevazioni nel breve termine. Mentre gli eventi sono ancora in corso e la situazione è in pieno movimento, soprattutto in quella Libia che rischia la guerra civile e la frantumazione, mentre vi è il rischio che “esplodano” altri paesi investiti dalla protesta, come lo Yemen, la cui popolazione vorrebbe allontanare il presidente Saleh dal potere, o il Bahrain, a maggioranza sciita ma governato dalla minoranza sunnita che esprime la dinastia reale degli Al Khalifa, ci sono almeno due questioni rilevanti sulle quali si dovrebbe concentrare l’attenzione, per tentare una prima analisi. Una questione riguarda le differenze fra le singole rivolte fin dal loro innesco, e l’altra le prospettive future, seppure in un orizzonte di breve‐medio periodo. Quella che è stata chiamata genericamente ed unitariamente la “Rivolta Araba”, non è un unico fenomeno politico e sociale, ma un insieme di episodi distinti che riflettono le differenze esistenti – in termini di sviluppo storico ed istituzionale, di struttura economica e di situazione sociale – fra le singole società interessate dai sommovimenti. Ad esempio, l’Egitto ha la più antica struttura industriale non soltanto del Maghreb, ma dell’intero mondo arabo, mentre la Libia, che fino agli anni cinquanta era decisamente un paese povero, è ora il paese con il reddito pro‐capite più alto del Nordafrica, grazie al petrolio e al gas naturale. O ancora, in Egitto c’è uno spirito nazionale ed almeno un’istituzione solida, rappresentata dalle forze armate [astraendo da giudizi di valore in merito], mentre la Libia è divisa in tre entità territoriali ‐ Cirenaica, Tripolitania e Fezzan – che hanno avuto una loro autonomia ed una loro storia separata prima dell’occupazione italiana, è un paese percorso da rivalità tribali [Tuareg, Warfala, Orfella e tanti altri clan] e non ha quella solidità istituzionale e quello spirito nazionale che caratterizzano l’Egitto. Se in Egitto la giornata della collera è stata dedicata alla memoria di Khaled Said, vittima della brutalità della polizia, ed oltre alla richiesta dell’innalzamento della soglia minima salariale e di un sussidio di disoccupazione decente ha pesato la voglia di libertà e democrazia [ma non in senso occidentale e capitalistico] del
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popolo che vuole andare finalmente al potere, nella Tunisia in cui la disoccupazione è elevata e il 72% dei disoccupati ha meno di trent’anni, fin dall’inizio il sommovimento ha assunto caratteri simili ai “moti del pane”, anche se è stato chiamato con l’espressione gentile di Rivolta del Gelsomino per i fiori che i manifestanti intendevano offrire alla polizia, il che però non esclude affatto la preferenza per la democrazia [non occidentale e liberale] e la volontà di potere del popolo, fino ad allora privo di voce. L’ottuagenario Hosni Mubarak si è dimesso, sotto la spinta di pressioni interne ed esterne[provenienti dall’amministrazione americana ed anche dai sauditi], dopo diciotto giorni di manifestazioni dal Sinai ad Alessandria, l’11 di febbraio del 2011, ritirandosi nella località turistica di Sharm‐el‐Sheikh, sul Mar Rosso, e lasciando la patata bollente temporaneamente nelle mani del vice presidente Suleiman, del premier Shafiq, ma soprattutto in quelle dell’esercito, che dagli anni cinquanta governa ininterrottamente, a detta degli esperti, al punto che oggi i militari, quali rappresentanti dell’istituzione più forte nel paese nordafricano, controllano con i loro quadri circa il 40% delle attività economiche nazionali. Il potente Hussein Tantawi, attuale ministro della difesa, è a capo del Consiglio supremo delle forze armate egiziane, incaricato di gestire la fase di trapasso dal vecchio regime ad un nuovo ordine, e si può supporre che sarà questa, anche dopo le elezioni di settembre, la vera autorità garante dell’ordine nel paese. La sorte dell’Egitto è di fondamentale importanza per l’intero mondo arabo, essendo stato, in particolare negli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo, la sua guida politica con la diffusione del panarabismo nasseriano, successivamente entrato in crisi e “sconfitto” a livello di consenso delle masse arabe dall’islamismo in ripresa, a partire dalla fratellanza musulmana d’Egitto, fondata con scopi caritatevoli da Hassan Banna nel 1928 e messa fuorilegge da Nasser nel 1954. La transizione sarà guidata dall’esercito e potrebbe formalmente concludersi con le elezioni di settembre 2011, ma dei circa cinquanta partiti di opposizione le forze più strutturate sono quelle del movimento islamico dei Fratelli musulmani, con oltre centomila militanti e una struttura di assistenza sociale [per acquisire ed estendere il consenso popolare]. Questa formazione politica islamista non è legale, in Egitto, vigendo il divieto di costituire partiti che utilizzano la religione come fondamento dell’attività politica, e non è stata all’origine della rivolta di popolo, ma potrebbe ottenere risultati elettorali imprevisti il prossimo settembre, ribaltando la situazione a suo favore. In verità, i partiti nati dal movimento della fratellanza che intendono presentarsi alle prossime e forse decisive elezioni di settembre, sono già due: il nuovo al‐hurriyya wa‐l‐`adala [più o meno Libertà e giustizia in italiano] e Hizb al‐Wasat al‐Jadid [il partito al‐Wasat con supposte “tendenze liberali”], originato da una scissione nel gruppo islamista egiziano che risale al 1996.
Eugenio Orso Rivolta Araba: Insurrezione o Rivoluzione? 7 marzo 2011
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Dopo che un nuovo movimento per i diritti e la giustizia sociale – diverso da ciò che fu il “socialismo nasseriano” e ad oggi non troppo caratterizzato politicamente – è nato all’interno della società egiziana, provocando le dimissioni dell’autocrate e cogliendo in contropiede il movimento islamico, ciò che non dovrebbe accadere è un’ampia affermazione elettorale islamista, che blocchi il processo di cambiamento evolutivo in quella società. Si può quindi affermare che fin dal suo innesco la rivolta egiziana non ha rappresentato semplici “moti del pane” suscitati dal carovita e dalla disoccupazione, avendo unito alle rivendicazioni economiche e sociali quelle politiche, e non è stata diretta dall’oscurantismo islamista, ma orientata dal desiderio di maggiore libertà politica e di cambiamento espressi dalle componenti politicamente e socialmente più avanzate. Siamo di fronte a qualcosa di più di una semplice insurrezione, o meglio, si tratta di un’insurrezione in qualche modo “strutturata” e finalizzata, con obbiettivi squisitamente locali e sostanzialmente di breve‐medio periodo, come le dimissioni di Mubarak e la fine della sua era [un intero trentennio], libere elezioni in luogo delle precedenti consultazioni a bassa partecipazione, già vinte a priori dal Partito Nazionale Democratico che fu di Mubarak, ed il miglioramento generale delle condizioni di vita della popolazione. Non è però certo che si tratti dell’avvio di un vero processo rivoluzionario di lungo periodo, in grado di influenzare il destino futuro del Nordafrica e dell’intero mondo arabo, anche se la cosa può avere qualche probabilità in più non nel breve, ma in una prospettiva di lungo periodo. Mohamed Bou’azizi, tunisino di Sidi Bouzid, una località al centro del paese, aveva soltanto ventisei anni e nonostante fosse laureato era costretto a tirare aventi vendendo, come ambulante, frutta e verdura. La polizia gli ha confiscato il banchetto abusivo che rappresentava la sua unica fonte di sostentamento. Il suo suicidio con il fuoco, che risale al 18 dicembre 2010, non è stato un gesto isolato, perché poi altri disperati l’hanno ripetuto nel Mahgreb, dalla Tunisia all’Algeria. Mohamed Bou’azizi è deceduto per le gravi ustioni riportate il 5 gennaio del 2011, dopo aver ricevuto in ospedale una visita del tutto “interessata” del presidente Zine El‐Abidine Ben Ali, l’autocrate locale al potere dal 2 aprile 1989 che aveva deposto per “senilità”, agli inizi di novembre del 1987, il socialista panarabo Habib Bourguiba del quale era da poco più di un mese primo ministro. Ben Ali non ha trovato di meglio da fare, dinanzi alla grave questione sociale tunisina che lui stesso a contribuito a creare negli oltre due decenni di “conduzione familiare” del paese, che cercare di tamponare la situazione sostituendo il ministro della gioventù.
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Fra il 17 ed il 18 dicembre 2010, sono iniziate le sommosse nella parte centro meridionale della Tunisia, a partire da Sidi Bouzid, Regueb, Souk Jedid e numerose altre località, motivate dal suicidio del giovane ambulante – al quale l’arroganza del potere di Ben Ali ha negato anche i mezzi di sussitenza, con il sequestro del suo banchetto – e dalla condizione critica in cui versa gran parte del paese, le cui attività economiche principali sono l’agricoltura, il turismo e un po’ di produzione industriale per l’esportazione ed il mercato globalizzato. E’ chiaro che Mohamed Bou’azizi è stato assunto come simbolo di una condizione di svantaggio che colpisce soprattutto i giovani, nel quadro di sommovimenti che almeno nella fase iniziale sono stati motivati d insufficienze di reddito e dall’assenza di lavoro dignitoso, e se poi gli obbiettivi sono diventati più ambiziosi, fino ad arrivare alla richiesta politica di “cambio del regime” e di maggiori libertà, oltre che di miglioramenti economici, queste proteste – più di quelle egiziane dove hanno prevalso fin dall’inizio gli aspetti della democrazia, della libertà popolare e della critica “artistica” al sistema – hanno avuto una forte connotazione economico‐sociale ed hanno rappresentato veri e propri “moti del pane” contemporanei. Del resto, già nel 1983, ai tempi di Bourguiba e del suo PSD [Partito Socialista Desturiano] vi furono estese manifestazione spontanee in seguito all’annuncio dell’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari essenziali, fra i quali il pane, subito rientrato proprio a causa dei disordini. Dopo essere arrivata a Tunisi, alla fine di dicembre del 2010, ed essersi radicalizzata con abbondante uso di bombe molotov e violenti scontri fra manifestanti e polizia, la protesta ha portato il 14 di gennaio del 2011 alla fine anticipata del mandato presidenziale di Ben Ali ed alla sua fuga dal paese, assieme alla famiglia e ad una tonnellata e mezza di oro. Inseguito da un mandato di cattura internazionale, respinto dalla Francia, Ben Ali potrebbe essere morto in Arabia Saudita, mentre a Mubarak è andata un po’ meglio, perché si è ritirato – probabilmente fino alla sua dipartita, date le condizioni di salute e l’età avanzata – nella più nota località turistica egiziana. L’instabilità politica, in questo periodo che è di transizione fra i vecchi regimi ed un nuovo ordine, è maggiore in Tunisia, poiché in Egitto le forze armate che si sono fatte carico di gestire il trapasso hanno sempre avuto molto potere, e un certo rispetto da parte della popolazione, un po’ come accadeva nella Turchia kemalista prima dell’avvento degli islamisti al governo del paese. La censura che investiva la televisione, i giornali e la rete era più stringente ed oppressiva in Tunisia di quanto lo fosse in Egitto, e dopo la rivolta i giornalisti indipendenti tunisini hanno chiesto misure urgenti per quanto riguarda l’informazione, in particolare, hanno richiesto la creazione di un’istituzione indipendente dei media e la revisione della legge sulla stampa e delle altre normative usate dal regime per imbavagliare la libertà d’espressione.
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Volendo schematizzare le principali differenze fra le manifestazioni in Egitto e le sommosse in Tunisia, si può procedere come segue:
1) La questione sociale, la critica di natura sociale al potere, i problemi dell’occupazione, della sotto‐occupazione e del carovita hanno avuto un peso maggiore in Tunisia, rispetto a ciò che è accaduto in Egitto, fin dall’inizio delle sommosse, pur considerando che in base a dati 2008 il reddito pro‐capite annuale tunisino risultava significativamente superiore a quello egiziano – circa ottomila dollari a fronte di meno di seimila – ma come si sa, questi indicatori capitalistici di cui spesso si sovrastima l’importanza, non sempre riflettono in modo adeguato la reale condizione di disagio delle popolazioni e lo stato di bisogno in cui versano, concretamente, ampie fasce di subordinati.
2) Le questioni della libertà politica e della sovranità popolare hanno
caratterizzato maggiormente la protesta egiziana, accanto ai problemi economici, pur non essendo estranee alla rivolta tunisina.
3) In Egitto ci sono alcune istituzioni molto “solide”, come le forze armate, in
grado di governare i processi di crisi [senza voler dare giudizi di valore in merito], mentre in Tunisia vi è una minor solidità “istituzionale”, ed infatti, la cosiddetta transizione che dovrebbe concludersi con libere elezioni, è più difficile nel secondo paese.
4) Il peso e la diffusione dell’islamismo sono maggiori in Egitto, dato il
radicamento del movimento dei Fratelli musulmani, ma anche in Tunisia esiste un movimento islamico nato più di recente [negli anni ottanta], l’Ennahda, che ha avuto qualche diffusione fra la popolazione e per questo è stato colpito dalla repressione del regime di Ben Ali nel 1991.
5) L’ultima considerazione, in merito alle differenze fra i due fenomeni
politico‐sociali unificati nell’espressione “Rivolta Araba”, è che il peso specifico dell’Egitto all’interno del mondo arabo è ancora elevato, è sempre stato superiore a quello tunisino, e potrà essere elevata l’influenza che avrà un nuovo esecutivo egiziano – operando scelte di politica interna ed estera al momento non prevedibili – su molti paesi di quella vasta area.
Se il confronto fino ad ora è stato fatto soltanto fra Egitto e Tunisia, escludendo la Libia, ciò dipende dal fatto che l’insurrezione libica è particolare, e presenta caratteristiche che la differenziano nettamente dai sommovimenti tunisini, dalle
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manifestazioni in Egitto, ed anche da altri eventi di minor portata che hanno riguardato, ad esempio, il Marocco, il Baharain o l’Algeria. La spiegazione delle rivendicazioni di carattere economico e sociale, ed anche quella della lotta per la libertà politica, rivestono minore importanza nel caso libico, in cui ha un rilievo drammatico la spaccatura storica fra la Cirenaica senussita, con Bengasi nelle mani del Consiglio Nazionale di Liberazione, e la Tripolitania, in cui si è asserragliato Gheddafi, e pesano come un macigno gli antichi rancori tribali, che oggi paiono riaffacciarsi nel paese nordafricano. Anche i simboli adottati dai rivoltosi riflettono la spaccatura esistente nella società libica, ed infatti, la loro bandiera è quella pre‐rivoluzionaria del regno di Idris Senussi, nato con l’indipendenza del dicembre 1951 e finito in seguito alla rivoluzione del primo di settembre 1969. La giornata della collera ha scoperchiato, quindi, un vero e proprio Vaso di Pandora, fino ad allora sigillato dal regime di Gheddafi, e sono esplose le contraddizioni interne alla Libia, gli squilibri fra la parte occidentale del paese [Tripolitania e Fezzan], in qualche misura ancora favorevole a Gheddafi, e la parte orientale, in cui i ribelli hanno avuto la meglio. Per quanto riguarda il caso libico, si può parlare a pieno titolo di guerra civile e non di rivolta popolare come in Egitto e in Tunisia, ma l’innesco della guerra civile può essere fatto risalire ad eventi insurrezionali ben precisi. Nella Grande Repubblica di Gheddafi, che pretende di aver introdotto nel paese una forma di democrazia diretta affiancando al consiglio di comando ed ai comitati rivoluzionari i congressi e i comitati del popolo, gli scontri sono iniziati il 16 e il 17 febbraio del 2011, in Cirenaica, coinvolgendo la popolazione di grandi centri come Bengasi, Al Bayda e Derna, in un escalation che ha visto, nei primi tre giorni, una cinquantina di morti, con l’occupazione dell’aeroporto e l’incendio della sede della radio a Bengasi, l’impiccagione di tre poliziotti ad Al Bayda, l’abbattimento di un monumento del regime a Tobruk e tanti altri episodi, più o meno violenti. L’antefatto, l’evento scatenante e simbolico, è stato l’arresto di Fathi Terbil, l’avvocato che rappresentava gli interessi delle famiglie dei detenuti uccisi nel 1996 dalle forze di sicurezza nel carcere Abu Salim, circa un migliaio, molti dei quali di Bengasi, e questa scintilla ha acceso un incendio che potrà continuare ad ardere a lungo, con la possibile divisione della Libia in due o più entità statuali, in base a linee di divisione politiche e tribali. Da quei giorni non lontani ad oggi – primi di marzo del 2011 – la situazione è precipitata fino al punto che il paese è ora letteralmente spaccato in due, e persino le forze armate si sono divise, con il despota asserragliato a Tripoli e in parte della Tripolitania, dove ha una base di consenso ancora forte, e la Cirenaica, ad oriente, governata da un Consiglio Nazionale di Liberazione che si è dotato di proprie
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milizie ed è attualmente guidato dall’ex ministro della giustizia di Gheddafi, Jalil, il quale ha aderito alla rivolta di febbraio. Se Gheddafi e i suoi figli, con l’uso di mercenari africani, di “volontari” stranieri [come ad esempio i Tuareg del Mali e di altre località del Sahara] e della parte delle forze armate ancora fedele alla Jamāhīriyya, cercano di colpire ad oriente, organizzando incursioni via terra ed attacchi aerei contro obbiettivi militari, industriali e civili, i ribelli avanzano in senso di marcia opposto, verso occidente, per investire in prima battuta la strategica Sirte, città natale di Gheddafi che domina l’omonimo golfo, e poi penetrare nella periferia di Tripoli con l’obbiettivo di liquidare il rais e il suo traballante regime. Le notizie si fanno di ora in ora più drammatiche – bombardamenti a Bengasi, spari nei pressi del compound di Gheddafi a Tripoli, attacchi alla città petrolifera di Ras Lanuf in mano ai ribelli, centinaia di migliaia di civili in fuga – e tutti gli accadimenti riportano ad una guerra civile in corso, con due governi e due milizie armate, il che potrebbe preludere alla disintegrazione della Libia. L’isolamento internazionale di Gheddafi – sconfessato dai governi arabi, “ripudiato” anche dai russi che furono tradizionali alleati ai tempi dell’Unione Sovietica – ed il mandato di cattura internazionale che grava su di lui, non preludono necessariamente ad un intervento militare esterno, magari di natura “umanitaria”, poiché la cosa non sembrerebbe, per ora, nelle intenzioni dell’amministrazione federale americana. In questi giorni i combattimenti continuano, il numero di profughi e di vittime aumenta e continuano a salire i prezzi del petrolio e della benzina [esclusi quelli della compagnia libica Tamoil, per evidenti motivi]. Si inizia a parlare di armi chimiche che sarebbero ancora nelle disponibilità del regime di Tripoli, nonostante gli accordi del 2003 che ne prevedevano la distruzione, e che potrebbero essere usate, all’interno del paese, contro i rivoltosi della Cirenaica e contro gli insorti ad occidente. Purtroppo, viste le finalità che ci si propone in questa sede, non è possibile fornire un adeguato e dettagliato resoconto della vicenda libica, una vicenda che si differenzia nettamente dagli altri fenomeni politici e sociali che hanno interessato, in questo primo scorcio del 2011, una parte significativa del mondo arabo. Pur essendoci significative differenza fra la vicenda egiziana e quella tunisina, e differenze ancora più marcate fra queste e la situazione libica, tali da consentirci di parlare di Rivolta Araba quale fenomeno politico e sociale unitario – come fanno molti media italiani – soltanto con estrema cautela, vi sono, però, alcuni elementi comuni che non possono essere trascurati. Questi elementi sono essenzialmente due:
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I) Le condizioni economiche e sociali in cui versano i subalterni in quei paesi, le insufficienze di reddito e la disoccupazione, in particolare quella giovanile, con molti egiziani e tunisini costretti ad emigrare, in particolare in Europa. Questo aspetto è comune a tanti paesi arabi, ad eccezione dei paesi del Golfo e della Libia, in cui il reddito è più alto, grazie alla rendita petrolifera, e in cui i lavori esecutivi, più umili e meno pagati sono spesso a carico degli immigrati. Le situazioni di disagio socio‐economiche nel mondo arabo non dipendono soltanto dai regimi dispotici al potere in quei paesi, rimuovendo i quali non si risolverà il problema, ma dalle dinamiche e dalle logiche del Nuovo Capitalismo Globale Finanziarizzato, estese a tutto il pianeta. Può sembrare una contraddizione il fatto che gli aspetti economici e sociali costituiscano anche una delle principali differenze fra le singole rivolte, ma non è così, perché la diversità risiede nel grado di importanza da attribuire a questo elemento rispetto agli altri, e non nella sua presenza o nella sua completa assenza.
II) Il rifiuto popolare dei regimi locali e la ricerca di un’alternativa che non
sia la Sharia, il rigorismo islamico, il dominio dei dogmi religiosi su ogni aspetto della vita sociale. Potrebbe essere questo il momento di svolta, che segna l’inizio della fine della cosiddetta “rinascita islamica” nel mondo arabo, e l’inizio di un difficile cammino, in quei paesi, che potrà forse portare il popolo al potere. Lo stesso atteggiamento schizofrenico del presidente iraniano Ahmadinejad – preso in contropiede – che da un lato loda strumentalmente i manifestanti ed i rivoltosi, e dall’altro impedisce manifestazioni simili nel suo paese, con una dura repressione e gli arresti di esponenti dell’opposizione, potrebbe confermarlo. L’abbattimento dei regimi locali e l’allontanamento del despota è un obbiettivo comune delle piazze arabe.
Esaurita la breve ed ancora insufficiente panoramica relativa ai moti del Maghreb e alle manifestazioni arabe in generale, non resta che rispondere in modo chiaro alle due domande “Insurrezione o Rivoluzione?” e “cambiamento o continuità?”. Per quanto riguarda la prima domanda, si è già risposto in precedenza, evidenziando che non si tratta di semplici insurrezioni, del tutto spontanee e senza alcuna organizzazione, destinate a spegnersi rapidamente lasciando dietro di sé soltanto una scia di danni e di lutti. Si è usata l’espressione di “insurrezioni strutturate e finalizzate”, per definire in modo sintetico questi eventi e per distinguerli da episodi come quelli di Los Angeles o delle periferie francesi, ma è altrettanto chiaro che non si tratta ancora di
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rivoluzioni, anche se vi è la possibilità che i moti arabi aprano la strada, in un periodo di tempo più lungo, ad un processo rivoluzionario vero e proprio. Prova ne è che l’instabilità governativa tunisina continua, nonostante la fuga di Ben Ali, e nello stesso Egitto la situazione è ancora in movimento, se è vero che ci sono ancora disordini in occasione dell’insediamento del nuovo governo di Essam Sharaf, al Cairo, a Marsa Matruk e in altri centri, con uomini armati di coltelli che attaccavano i manifestanti ed assalti ad edifici pubblici contenenti archivi della sicurezza. Anzi, il “contagio” dal Maghreb e dall’Egitto sembra essersi esteso ben al di là dei confini del mondo arabo, con le proteste che arrivano fino nella Cina capitalista e mercatista in piena espansione economica, in cui, per impedire a testimoni scomodi di diffondere notizie sugli incidenti e sulla repressione, si arrestano i giornalisti stranieri. Non resta che rispondere alla seconda domanda – “cambiamento e continuità?” – e per farlo diventa necessario mettere in campo le proprie capacità predittive [ma con molta moderazione] delineando cinque possibili scenari futuri, elencati di seguito in un ordine casuale, essendo ardua, al momento presente, l’attribuzione di maggiori o minori probabilità:
A) La caduta del despota non porta ad un vero e proprio cambio di regime e ad un maggior accesso del popolo al potere politico. Le forze armate, influenti particolarmente in Egitto, si risolvono a gestire un lungo e mai concluso trapasso, garantendo, nei fatti, lo status quo ante, i loro privilegi e gli interessi dei “comitati di affari”, interni ed esterni. In tale caso, la lotta popolare non potrà che continuare.
B) In seguito a libere elezioni si affermano i partiti islamisti – cosa più probabile
in Egitto di quanto può esserlo in Tunisia – ed instaurano il loro regime, con connotati teocratici, oscurantisti e dispotici. Potrà esservi forse una maggior assistenza per i poveri [se islamici, naturalmente], ma tanti altri aspetti della vita quotidiana e sociale peggioreranno. L’azione popolare di lotta dovrà continuare e rivolgersi direttamente, con tutti i rischi e le asprezze del caso, contro il potere teocratico.
C) Dopo la rivolta apparentemente vittoriosa emerge una figura forte, che una
volta arrivata al governo del paese, promettendo riforme e stabilità, si trasforma in un nuovo despota. Al momento non sembra che ci sia una personalità siffatta in Egitto e in Tunisia. Se ciò accadrà, il problema non potrà che ripresentarsi e nuovi sommovimenti saranno possibili.
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D) Lo stato si disgrega e si va incontro, nel caso peggiore, ad una situazione di tipo afgano o di tipo somalo. Poco probabile che si verifichi in Egitto e in Tunisia, drammaticamente possibile in Libia.
E) La rivolta del popolo contro il despota, che ha raggiunto lʹobbiettivo del suo
rovesciamento, apre la via a libere elezioni ed a governi disposti a rimettere il mandato in caso di caduta del consenso, pur permanendo nella sostanza gli squilibri sociali e le disuguaglianze economiche. Non è certo “il popolo al potere”, ma potrebbe costituire la premessa per cambiamenti futuri più consistenti, e non escluderebbe l’avvio di un vero processo rivoluzionario.
Vi sarebbe un sesto scenario che lo scrivente ha omesso nell’elencazione, in quanto assai poco probabile: la rivolta popolare continua e si pone obbiettivi sempre più ambiziosi, non fidandosi delle “autorità”, sia di quelle vecchie ormai screditate sia di quelle nuove che vorrebbero sostituirle, ed innesca così un processo rivoluzionario dagli effetti politici, sociali e storici di ampio respiro che trasformerà, alla fine, l’intero mondo arabo. Ma questa potrebbe essere soltanto una speranza, che è sempre l’ultima a morire.
Rivolta Araba_COPERTINA con immagineRivolta Araba_EpigrafeRivolta Araba_IndiceRivolta Araba di Eugenio Orso 7 3 2011