Università degli studi di Torino
Dipartimento di Economia e Statistica “Cognetti de Martiis”
Corso di laurea in Economia dell’ambiente, cultura e territorio
Tesi di laurea magistrale
SHARING ECONOMY:
REQUISITI, MODELLI, SOSTENIBILITÀ
Relatore:
Prof. Carlo Salone
Correlatori:
Prof. Marco Maria Bagliani
Prof.ssa Chiara Daniela Pronzato
Candidato
Silvio D’Elicio
Anno accademico 2014/2015
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Ringrazio mio padre e mia madre per avermi sostenuto in questo lungo percorso
Ringrazio gli amici di sempre, quelli su cui puoi contare
Ringrazio la compagnia dell’Università a cui devo molti sorrisi
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Sommario
Introduzione ........................................................................................................................ 4
Capitolo 1. Una panoramica per introdurre l’Economia collaborativa ............................... 5
Pillole di economia collaborativa passando per i Commons medioevali fino al
capitalismo moderno ...................................................................................................... 5
La collaborazione classica e la collaborazione 2.0 ........................................................ 13
Cosa mi dai in cambio? ............................................................................................. 13
Me lo presti poi te lo ridò! ........................................................................................ 20
Considerazioni generali sul consumo collaborativo ................................................. 39
Capitolo 2. L’individuo: da consumatore a “prosumer” ................................................... 41
Il consumo collaborativo: inquadramento e collocazione della sharing economy ...... 57
Capitolo 3. La sharing economy: un’analisi territoriale e di sostenibilità ......................... 70
Analisi territoriale: di densità del fenomeno e distribuzione territoriale ..................... 70
Un caso di sostenibilità della sharing economy: simulazione di Carpooling sulle tratte
del pendolarismo nel Sistema Locale del Lavoro di Torino .......................................... 82
Jojob: carpooling aziendale ....................................................................................... 85
Gli scenari sul Sistema Locale del Lavoro di Torino .................................................. 89
Gnammo: il social eating per creare valore economico localizzato........................ 107
Conclusioni ...................................................................................................................... 113
Bibliografia ...................................................................................................................... 117
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Introduzione
Il documento tratta in modo generale il fenomeno dell’economia collaborativa
descrivendone i principali attori, strumenti e modelli. Viene proposta una breve analisi
storica sul fenomeno descrivendo delle similitudini con quanto è di più attuale.
Successivamente si cercherà di catalogare la sharing economy all’interno di altre forme
economiche e si tenta di spiegarne alcuni approcci nonché esponendo alcune definizioni.
Passando da una trattazione più teorica ad una pratica si esporrà un esempio di
simulazione comportamentale di un individuo che passa da un approccio economico
classico ad uno collaborativo cercando di evidenziare su di un esempio quali leve possano
agire al fine di favorire tale transizione. In seguito si cercherà di localizzare la domanda
all’economia collaborativa sul territorio nazionale con la presunzione di individuare quelle
aree più adatte alla propagazione del fenomeno. In penultima analisi si proporrà un
modello di valutazione di scenari di efficienza economica e riduzione delle emissioni
sull’uso del carpooling sulle tratte stradali del pendolarismo all’interno del Sistema Locale
del Lavoro di Torino al fine di comprendere e quantificare i benefici ottenibili. Unitamente
a questa analisi verrà proposto uno spunto di analisi nel settore della ristorazione. Infine
verranno presentate le conclusioni e le considerazioni in merito al fenomeno.
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Capitolo 1. Una panoramica per introdurre l’Economia
collaborativa
Pillole di economia collaborativa passando per i Commons medioevali fino
al capitalismo moderno
Ci sono evidenti differenze tra fuseaux e leggins? A molti possono sembrare lo stesso
indumento ma probabilmente per un occhio esperto vi sono delle differenze tecniche (se
non si erra i fuseaux possiedono un elastico che va posizionato sotto al piede). I primi sono
una moda degli anni ’80, riconoscibile come indumento prettamente sportivo e talvolta
casual. I secondi sono una moda attuale, che oltre all’impiego sportivo vede il suo uso
nella quotidianità ed addirittura come capo di alta moda. Cosa c’entra tutto ciò con la
sharing economy? Si può dire in un certo qual modo che anche la sharing economy è un
fenomeno che ritorna come appunto accade per una moda. La difficoltà nell’individuare
questa riproposizione, risiede nel gap temporale nei due tipi di fenomeni e nella loro
differente complessità di analisi. Infatti se una moda molto spesso è individuabile più volte
all’interno di una o due generazioni di esseri umani, per quanto riguarda un particolare
tipo di economia bisogna affidarsi ad approfondite retrospezioni antropologiche.
Nell’analizzare quelli che sono le scienze e gli eventi storici “creati dall’uomo per l’uomo”,
può essere piacevole usare una tassonomia generale delle correnti marine al fine di dare
un paragone dell’importanza della tipologia di fenomeno sull’essere umano. Se si pensa
alle guerre, ai colpi di stato, alle migrazioni, alla costruzione di monumenti simbolici; si
possono catalogare come le onde superficiali del mare che vengono mosse dai venti.
Queste perché sono eventi che ben rimangono impressi nella memoria delle persone ma
mostrano le loro conseguenze per periodi di tempo relativamente brevi. Se ci si focalizza
alla costruzione, implementazione e durata di una ideologia politica (contenente quindi
una serie di valori), la si può collocare come corrente marina superficiale. Veloci ma meno
delle onde, percepibili ma meno visibili ma molto più grandi come portata e comuni a più
territori (si possono facilmente individuare storiche similarità in ideologie di destra e di
sinistra nelle differenti strutture politiche di molti paesi). Inoltre molto spesso
evidenziabile è come le stesse ideologie politiche sorreggano molti “moti ondosi”. Che
cos’è però che sorregge l’equilibrio climatico del nostro pianeta da migliaia di anni?
Sicuramente grande rilievo è dato dalle correnti profonde oceaniche, invisibili, ma che
spostano grandi masse di acqua, regolando la temperatura del pianeta. Se si analizza tutta
la storia umana, l’economia è la scienza che meno di tutte ha subito cambiamenti drastici;
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però è quella che più di tutte regola l’attività e le relazioni umane. Regola sia la convivenza
dell’umanità stessa sia la relazione dell’umanità con l’ambiente.
Questa descrizione, verosimilmente gerarchica, vuole anticipare sul come i fondamenti
economici alla base del fenomeno in analisi (che descriveremo in seguito), siano rimasti
semplicemente sottotraccia. Fanno parte dei comportamenti umani fin da tempi antichi
e la loro diffusione odierna è frutto per lo più di una riproposizione in altre vesti di forme
economiche già presenti in passato che semplicemente si rimodellano per adattarsi alle
esigenze delle società moderne.
Se si riflette alla vita di tutti i giorni è visibilmente frequente scambiare dei beni/favori tra
soggetti (un lavoro di idraulica per uno ad un impianto elettrico, un bianchetto per una
gomma e così via); questo avviene in seguito all’istaurazione di un rapporto di fiducia al
fine di ottenere un’utilità reciproca e se il rapporto da esito positivo, si ha una situazione
di prestigio per futuri scambi. Ma questa forma di scambio è all’origine del commercio. Di
seguito un’estrazione di alcuni esempi famosi di forme di collaborazione e condivisione
nella storia.
Nelle società antiche (3500 a.C. – 500 a.C) la situazione appena descritta comportava
conseguenze non solo economiche ma soprattutto sociali e quindi la qualità dello scambio
incideva in maniera preponderante nei rapporti tra i gruppi (solitamente clan familiari), in
quanto da esso poteva dipendere il futuro del gruppo stesso. Polanyi ha identificato la
moneta ad oggi come un mezzo che assolve: la misura del valore, elemento di scambio,
pagamento e tesaurizzazione. Nell’antichità la moneta o meglio “gli oggetti fungibili come
moneta” potevano essere destinati anche ad una sola utilità fra quelle elencate (Polanyi
& Dalton, 1980). Sempre secondo gli autori, le transazioni si concretizzavano in un sistema
di doni e controdoni governato appunto da convenzioni sociali. Quanto detto non vuol far
intendere che non vi fossero scambi per puri fini commerciali o unicamente sotto la forma
del baratto (si formarono forme di scambio con moneta naturale e moneta metallica);
piuttosto che vi era una componente di redistribuzione all’interno del gruppo di quella
che si è soliti definire utilità del bene. Si può definire che nello scambio stesso si percepisse
una qualche forma di prestigio.
Con un balzo temporale in avanti di 1000 anni rispetto al 500 a.C., si può individuare un
esempio più concreto di condivisione. Si vuol trattare il fenomeno delle Common lands
inglesi durante il periodo medioevale (V sec. – XVI sec.). Se oggi appezzamenti terrieri di
uso comune sono un’eccezione, nell’Inghilterra medioevale queste terre erano parte
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fondamentale dell’agricoltura e soprattutto indispensabili per la vita comune ed il
sostentamento del villaggio. Oggi il termine di “cosa comune” è riconosciuto molto spesso
in beni e servizi ricreativi, assistenziali ed essenziali, ma all’epoca il concetto di bene
comune era la normalità. Come erano organizzate le “terre comuni”? Vi era una tenuta
(“manor”) appartenente al signore feudale (“Lord”). Questa tenuta veniva concessa in uso
alla popolazione che era suddivisa in villaggi. Questi villaggi, a loro volta, erano suddivisi
in blocchi di abitazioni (“tenements”). Il “manor” era suddiviso in appezzamenti di terra
coltivabili definiti “yardland”. Ogni yardland era associato ad un tenement e quindi un
gruppo di abitanti del villaggio (“dwellers”). All’interno di ogni tenement vi era la
possibilità di stoccare, in magazzini comuni, le risorse raccolte durante i mesi estivi per
avere scorte in quelli invernali. In comune ai vari agglomerati di abitazioni vi era un’area
adibita a discarica comune, dove confluivano tutti gli scarti delle lavorazioni agricole
(molto spesso queste aree erano paludi). Le terre che non venivano coltivate in un
determinato periodo, con la tecnica del maggese, venivano fatte fertilizzare e quindi
concesse per il pascolo agli allevatori. Non vi erano quindi barriere ma ogni gruppo
definito di abitanti aveva la gestione comune di un pezzo di terra. All’interno di questa
suddivisione vi era poi la ripartizione del tratto da coltivare ed il contadino responsabile
di esso per il benessere del tenement. Su questo tipo di organizzazione viene fuori la
definizione di Common: “una situazione in cui una o più persone prendono o usano una
porzione di quello che il terreno di qualcun altro produce” (Gonner, 1912). Comunque tra
il XVII ed il XVIII secolo, sotto il regno dei Tudor, fu permesso di circondare gli
appezzamenti terrieri con delle barriere. La motivazione risiedeva nella carestia e nel
promuovere determinati tipologie di coltura. Tale processo ha però eliminato la possibilità
di accesso comune alle risorse dove i contadini che non potevano permettersi di
acquistare la terra, furono obbligati a coltivare le risorse che il Lord decideva. Tale
processo di “privatizzazione” fu portato avanti attraverso i cosiddetti Enclosure Acts.
(Slater, 1907)
Un estratto di Enclosure Act: 4 James I. c. 11.; “This is a really Enclosure Act. The people
of the parishes of Merden, Bodenham, Wellington, Sutton St. Micheal, Sutton St. Nicholas,
Murton-upon-Lug, and Pipe in Hereford, had all their lands, wheter meadow, pasture or
arable, open and intermixed, and commonable “after Sickle and Sithe.” They themselves
were accustomed to house their sheep and cattle throughout the year, and the people of
neighbouring villages took advantages of this custom to turn in cattle after harvest. The
enclosure of one third of the land in each parish is authorised by the Act.” (Slater, 1907)
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Un estratto di Acts for improving the cultivation of common fields: 41 George III. (1801),
c. 20; “This was a temporary Act to encourage this cultivation of potatoes in common
arable fields. The famine prices of 1800-1 caused a good deal of curious special legislation.
Any occupier of land in common fields is authorised to plant potatoes, and to guard them
form cattle grazing in the fields, on giving compensation for the loss of the common right
to the other occupiers.” (Slater, 1907)
Figura 1. Plan of a Mediaeval Manor – Fonte: http://dbagora.blogspot.it
Nel trattare l’argomento dei Commons, non si vuole peccare di escludere altre forme di
condivisione, sempre nate nel periodo medioevale. È possibile ricordare in questo periodo
che vi furono anche importanti progressi nel settore dell’energia. In particolare si stava
sempre più diffondendo l’utilizzo dell’energia eolica ed idrica come forza per svolgere
processi produttivi che prima erano portati avanti dalla forza dell’uomo e degli animali.
Esempi pratici di comune conoscenza sono i mulini a vento e ad acqua. Ebbene vi è traccia
certa sulle tariffe di uso di un mulino a vento a Weedley nello Yorkshire (Inghilterra) che
poteva essere noleggiato per 8 shilling l’anno nel 1185 (1 shilling equivaleva circa ad una
mucca o ad una pecora). (Lynn White, 1962)
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Nell’individuare tracce di comportamento collaborativo nel passato bisogna pensare a
quelle che sono le motivazioni che possono spingere una comunità a collaborare. Le
situazioni di emergenza sono molto spesso situazioni in cui la collaborazione è
fondamentale per raggiungere un determinato fine. Se estendiamo il concetto di
emergenza e collaborazione a livello globale e quindi situazioni che hanno coinvolto più
nazioni, viene in mente cercare forme di cooperazione durante i grandi conflitti mondiali.
Fondamentale in qualsiasi conflitto bellico è saper gestire le proprie risorse a disposizione.
Ebbene durante la seconda guerra mondiale, gli stati coinvolti propagandavano metodi
per risparmiare le risorse. Qui si vogliono citare in particolare gli USA in quanto,
nell’immaginario comune, rappresentano lo Stato che per antonomasia è la patria del
capitalismo e della produzione di massa. Nel maggio 1941, il Presidente Roosvelt
centralizzo le attività governative nella gestione delle risorse petrolifere sotto l’Office of
the Petroleum Coordinator (OPC). Organo che fu creato per far collaborare le compagnie
petrolifere al fine di conservare determinate risorse combustibili in vista dello sforzo
bellico. A tale scopo l’OPC lancio nel luglio dello stesso anno una campagna per ridurre
del 30% l’uso di benzina nei trasporti pubblici. In concomitanza furono lanciate campagne
comunicative che chiedevano alla popolazione di diminuire le velocità di percorrenza,
avere buona cura dei propri pneumatici e condividere le corse in auto. Nel novembre 1941
l’industria petrolifera fondò The Petroleum Industry War Council, con lo scopo di
disegnare e finanziare tutte le attività di conservazione del petrolio durante la seconda
guerra mondiale (MIT, 2009). L’organizzazione aveva lo scopo di:
promuovere il calo dei consumi attraverso una comunicazione governativa diretta
anche con dimostrazioni pratiche, al fine di far meglio comprendere il bisogno di
razionare,
ottenere una migliore compliance con i programmi di razionamento,
riuscire ad incentivare la conservazione delle risorse petrolifere attraverso il
carsharing ed il carpooling ed altre misure. Gli elementi comunicativi forti di questa
propaganda furono consolidati nella diffusione di poster, slogan ed avvertimenti sui
quotidiani. L’organizzazione rimase in piedi fino alla fine del conflitto.
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Figura 2. Propaganda WWII - Fonte: Oregon State Archives, US Archives and Records Administration
Forme di collaborazione esistono anche per conseguenze storico-politiche. In tal ambito
sono famosi i Kibbutz nati tra gli anni ’30 e ’40 in quello che è poi divenuto nel 1948 lo
stato di Israele. I kibbutzim furono inizialmente socialisti ebrei che provenivano
dall’Europa dell’Est. I migranti originari nell’area medio-orientale rifiutavano forme
capitalistiche adottando invece i principi Marxisti. Puntavano a creare un “homo socialis”
piuttosto che un “homo oeconomicus”. Questa visione idealistica spiega molte delle
caratteristiche chiave di organizzazione dei Kibbutz:
eguale divisione dei redditi
nessuna proprietà privata
una non-cash economy
mense comuni
elevata fornitura di beni pubblici per i membri
residenze comuni separate per i bambini al di fuori delle case dei genitori
pensando che in tal modo le donne venivano considerate al pari degli uomini
produzione comune
forza lavoro esclusivamente presa dai membri del kibbutz
I kibbutzim iniziarono con l’agricoltura attraverso la condivisione di campi ma dopo
l’industrializzazione di Israele negli anni ‘50 e ‘60, videro uno sviluppo maggiormente
legato alla produzione industriale che nella produzione di beni che agricoli. I sociologi
evidenziavano l’importanza dell’ideologia e norme sociali alla base della condivisione
equa delle risorse. Il termine ideologia può essere interpretato come l’insieme dei fattori
che determinano la lealtà tra i membri ed il movimento del kibbutz stesso. Le norme
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sociali si riferiscono alle tradizioni culturali alla base della cultura dei membri del kibbutz.
Inoltre “l’equal sharing” provvede come una forma assicurativa contro eventuali shock
economici all’interno del kibbutz. (Abramitzky, 2011)
Figura 3. Kibbutz lavi - Fonte: nbn.org.li
Gli esempi mostrati portano a riflettere sul fatto che il mercato distributivo, nell’accezione
economica semplicistica dove vi è una società che vende ed un privato che compra, non
è l’unica modalità che permette di gestire le transazioni di beni e servizi attraverso i
soggetti economici. Ciò che si sta rilevando oggi in quel fenomeno che delineerà in seguito
come sharing economy, sono delle integrazioni all’attuale sistema economico. L’economia
che oggi prevale è data dagli approcci neoclassici e capitalistici che però possono mostrare
fenomeni di stagnazione produttiva e saturazione della domanda. Lo sviluppo delle
tecnologie dell’informazione e soggetti sempre più sensibili ai concetti legati alla
sostenibilità; hanno portato a delle modifiche del citato ambiente economico. In
particolare si stanno diffondendo modalità di consumo collaborativo che permettono di
sfruttare le capacità inespresse di beni e servizi altrimenti non usufruite e non aggredibili
dall’attuale sistema economico (Botsman, 2010). È necessario essere molto cauti nel
definire quali soggetti economici siano effettivamente identificabili come compatibili con
la sharing economy. Si può affermare che il boom del concetto di condivisione è molto
spesso utilizzato come immagine per promuovere un bene-servizio che solo nel nome
contiene la parola sharing ma se analizzato nella pratica, esso non differisce da una
classica forma commerciale di vendita a cui la società può essere abituata. Una definizione
ed una più approfondita manifestazione di questo pensiero verrà data in seguito in due
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sezioni: brevemente quando saranno descritte le forme di scambio ed in maggiore
dettaglio quando si procederà alla struttura economica che porta alla definizione della
sharing economy. È doveroso introdurre il perché si dice che il sistema capitalista e le
teorie neoclassiche hanno subito delle integrazioni rispetto alle loro definizioni classiche.
Molti testi, come ad esempio “La società a costo marginale zero” (Rifkin, 2015), si
pongono di annunciare la fine del capitalismo e dell’economia neoclassica e più in
generale la teoria marginalista. In particolare l’autore cita come l’Internet of Things ed il
consumo collaborativo stiano aggredendo ed abbattendo i costi di produzione di beni e
servizi. Concetto sicuramente non errato, soprattutto se si fa un parallelismo con
l’industria editoriale, musicale e cinematografica. Concetto che continua ad essere valido
se si parla di beni fisici, infatti con l’IoT si assiste alla condivisione di mezzi produttivi per
molteplici scopi. È evidente davanti gli occhi di tutti la diffusione della stampa in 3D, per
citare un caso famoso. Essa viene utilizzata per produrre oggetti di qualsiasi genere da
bigiotteria a protesi mediche. In linea tecnica si può commissionare ad un unico impianto
la produzione adhoc di oggetti personalizzati alle esigenze del soggetto richiedente. Tale
concetto è estendibile alla produzione di massa, è infatti possibile ottimizzare l’impiego
di mezzi agricoli ed industriali in genere attraverso modalità di gestione delle risorse. Vi
sono modalità di condivisione di risorse quali impianti e macchinari in genere; su
prenotazione in base alle necessità in modo che il loro uso venga redistribuito tra i soggetti
interessati, evitando che ognuno di essi si doti di capitale fisico che rimanga inutilizzato e
che comporta un costo “insensato” per il soggetto economico. Il numero di esempi che si
possono fare è dato dalla creatività e dall’innovazione dell’essere umano. Non è però
conveniente asserire con certezza che ci si sta dirigendo verso un mondo dove l’efficienza
nel consumo e nella produzione sia sempre meno costosa e non più guidata da politiche
neoclassiche e capitalistiche. Vi si può insinuare all’interno dell’economia della
condivisione, una corsa capitalistica all’acquisizione di quei beni e servizi che sono
considerati consumo collaborativo. È infatti presumibile che una volta intercettato un
bisogno, colossi industriali si assumano di controllare forme di redistribuzione creando un
imprinting del concetto di collaborazione al consumo più simile al comportamento tipico
di una transazione commerciale di vendita classica e facilmente “masticabile” dal
consumatore, creando dei modelli di business non innovativi ma che comunque passano
per tali attraverso efficaci campagne di informazione (Blanchard, 2015). Se si avverasse
tale fenomeno, il concetto di proprietà privata non uscirebbe dagli attuali schemi e
soprattutto si avrebbe efficienza nella produzione ma non nel consumo. In termini
concreti. Se si produce un’automobile, non la si vende, ma la si mette a disposizione degli
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utenti ricevendo di contro un versamento di denaro e promuovendo la modalità di utilizzo
come bene di consumo condiviso dove però la titolarità all’uso (che può essere definita
su una scala temporale) è in capo ad una persona fisica per volta; non si ha una reale
redistribuzione di un bene ma piuttosto un’efficienza produttiva quantitativa perché si
può definire il numero di mezzi in circolazione ed un’efficienza produttiva qualitativa
perché si decide la qualità del servizio media disponibile ad un set di utenti e quindi una
forma di standardizzazione. Se però si ferma l’offerta a quanto detto, è possibile ottenere
solo una parziale efficienza nel consumo (un’auto per più persone ma ogni singolo
soggetto si sposta con le stesse modalità con sui si sposterebbe con un’auto privata) e
sicuramente non una redistribuzione del reddito localizzata ma la transazione sarebbe
verso una società con scopo di lucro che può liberamente spostare il denaro su sue
esigenze. Comprendere se tali azioni siano poi effettivamente meglio gestibili da strutture
aziendali che potrebbero avere un’oculata gestione manageriale oppure sia meglio che le
imprese si occupino solo di fare da intermediari e lascino che il mercato si faccia regolare
dai suoi consumatori e quindi con un’ottica più liberista del consumo, è un qualcosa che
deciderà la società con le sue dinamiche e nel suo insieme.
La collaborazione classica e la collaborazione 2.0
In questa sezione si analizzeranno le forme di collaborazione classiche e moderne. Per
forme classiche si intendono quelle forme di collaborazione che si sono formate al fine di
creare sistemi di cooperazione prima dell’esplosione dell’economia digitale. Sono
tendenzialmente realtà localizzate in specifici territori che coinvolgono soggetti della
stessa realtà territoriale. Per forme moderne invece si riconoscono una serie di
consistenze che derivano dalle esigenze della net-economy. Queste sono sia di carattere
fisico che virtuale. Si esaminano queste modalità di collaborazione inquadrandole
all’interno delle modalità di scambio di beni e servizi tra i soggetti. Tale inquadramento
permetterà anche di capire come le stesse modalità di scambio si siano adattate nel
tempo all’evoluzione dei sistemi economici. Ciò che verrà espresso qui di seguito non
vuole essere una mera elencazione ma piuttosto una base di conoscenza per poter meglio
comprendere le dinamiche che permettono la propagazione del consumo collaborativo
che avviene con i moderni mezzi informativi.
Cosa mi dai in cambio?
La prima modalità di scambio che la storia conosce è il baratto. Esso è un sistema nel quale
beni e servizi vengono direttamente scambiati per altri beni o servizi senza utilizzare una
“moneta di scambio”. Questo tipo di economia differisce dalla “Gift economy” dove vi è
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la cessione di un bene da parte di un soggetto ma senza che vi sia una esplicita richiesta
di contraccambiare la cessione (Cheal, 1988). Il baratto è una forma di scambio bilaterale
o multilaterale. Secondo Adam Smith nella sua celebre opera “The Wealth of Nations”, il
mercato nasce nel momento in cui l’individuo inizia a specializzarsi in beni specifici e
quindi diviene dipendente da altri per altre forme di beni. Questi beni furono inizialmente
scambiati attraverso il baratto. Alcuni antropologi come David Graeber e sociologi come
Marcel Mauss, criticano le considerazioni sul baratto fatte da Smith. Per una maggiore
comprensione delle critiche si rimanda alle opere degli autori citati, l’obiettivo della
presente esposizione è quella di comprendere come il baratto agisce sul consumo e non
come esso sia nato. Ci si approccia a tale analisi evidenziando innanzi tutto i vantaggi e gli
svantaggi. Lo scambio diretto di beni ovviamente non richiede uno strumento intermedio.
Nelle moderne società questo è dato dalla moneta. Dire con totale sicurezza che la
moneta sia il mezzo perfetto di scambio è altresì assurdo o meglio che anche essa può
soffrire di dinamiche di mercato. Se si ipotizza una società dove la moneta diminuisce il
suo valore unitario di acquisto e per riparare a tale situazione, viene stampata nuova
moneta, ci si trova in uno stato inflazionato. Se tale processo subisce una crescita
esponenziale in tempi ragionevolmente brevi, ci si può trovare nel caso definito di
iperinflazione (Mokyr, 2003). È chiaro che i vantaggi del baratto siano esigui rispetto alla
moneta altrimenti non la si sarebbe adottata così in larga scala. Come può derivare anche
dai meccanismi di scambio esposti nel caso storico delle società arcaiche, il baratto è un
vantaggio quando si pone nel bene stesso oggetto dello scambio, un elemento di
prestigio. Chiaramente con la diffusione degli scambi commerciali il prestigio in sé non è
più leva sufficiente. Nel identificare poi gli svantaggi dunque ci si trova davanti ad una lista
più lunga. È di intuitiva comprensione la difficoltà nel bilanciare il valore dei beni delle
parti che sono oggetto di scambio. Non esiste un valore comune di riferimento che può
aiutare nella valutazione del valore economico di un bene ed inoltre molti beni hanno la
caratteristica intrinseca dell’indivisibilità e difficilmente scambiabili se non che una parte
ottenga un valore inferiore nello scambio. Infine nel baratto, con l’assenza di una moneta,
risulta più complesso identificare una misura di crescita del valore nel tempo di alcuni
beni. Un’ampia descrizione del funzionamento di una società grazie al baratto è
individuabile nel popolo dei Lhomi, stanziato nell’estremo est del Nepal al confine con la
regione Tibetana. È possibile comprendere da tale popolo come le dinamiche del baratto
siano assai complesse e condizionate in maniera influente dai soggetti con cui si scambia
la merce. In particolare si nota come lo stesso tipo di merce scambiata possa diminuire
considerevolmente di valore rispetto ad un medesimo bene al mutare della provenienza
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di quest’ultimo (differenti qualità di riso per esempio). Inoltre nella cultura Lhomi il
volume degli scambi determina l’uso del baratto o della moneta. Quando si ha a che fare
con beni di largo consumo e/o comunque più facilmente reperibili, la forma preferita da
questo popolo è il baratto; la portata geografica degli scambi è locale (tra i villaggi). Per le
merci per loro “rare” e provenienti da soggetti esterni o lontani alla comunità (come il
sale), viene utilizzata la moneta. Bisogna chiarire che si tratta di un popolo maggiormente
basato su di un’economia rurale e dalla localizzazione geografica circoscritta, fattori che
hanno favorito questo tipo di economia (Humphrey, 1985). Se come appena mostrato, in
talune economie rurali e strettamente localizzate, il baratto può essere la norma;
approcciandosi su di una scala geografica più ampia e guardando ai paesi occidentali in
particolare, situazioni in cui forme di simil-baratto si sono venute a formare, si possono
individuare in momenti di crisi economica. Sono presenti in molti libri di storia che
trattano il periodo delle guerre mondiali, figure che ritraggono bambini tedeschi giocare
a costruire piramidi con banconote di Marchi. Durante questo periodo ed in particolare
con la salita al potere di Hitler, sono stati stabiliti diversi “Barter Agreements” tra la
Germania e altre nazioni mondiali. Questi agreements prevedevano un determinato
valore monetario a dei panieri in valuta di uno dei due paesi contraenti. Fin qui può
sembrare un normale contratto commerciale ma la differenza sostanziale risiede nello
scambio. La transazione non aveva come contropartita del denaro ma i beni previsti
nell’accordo (Rosinger, 1938). Questi due esempi analizzati in parallelo sono importanti
nel definire i fattori che possono favorire la scalabilità del fenomeno. Il fattore geografico
è sicuramente rilevante; si può dedurre che a livello localizzato è più facile lo scambio di
risorse se vi è in concomitanza un fattore di fiducia tra i soggetti coinvolti. Se si allarga la
scala geografica, si nota come vi è comunque l’importanza di assegnare un valore
economico monetario alle merci; ma è interessante scorgere che in caso di crisi
economica rilevante, il fattore geografico può venire meno a fronte di una prima necessità
come è stato per la Germania. Secondo fattore da evidenziare e molto importante ai fini
nell’analisi, risiede nell’identificazione dei soggetti coinvolti. Nel caso dei Lhomi le parti
dell’accordo, se si vuole definirlo tale, sono i comuni abitanti. Correlando questo fattore
con la scala geografica si capisce che la breve distanza (tra i villaggi) permette una più
facile comunicazione e definizione dei termini di scambio. Nel caso della Germania si parla
di accordi con altri stati. È chiaro che il valore dell’accordo ha un altro peso ma soprattutto
che la distanza coinvolge parti che sono ad un elevato livello gerarchico. Difficilmente
prima dell’avvento di Internet ed all’evoluzione del sistema commerciale, ed in particolare
quello dei trasporti, si poteva credere di veder barattare beni e servizi tra singoli individui
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residenti da parti opposte del globo. Internet ha sicuramente “avvicinato” molte persone
ed ha reso più pratici gli scambi. Ad oggi la pratica del baratto sembra avere fini pratici e
motivazioni diverse da quelli descritti sopra. Se per i Lhomi e la Germania del primo
dopoguerra il baratto era una modalità di scambio di beni nel mercato primario, oggi il
baratto ha la sua maggiore espansione nel mercato secondario. Qui non si vuol parlare di
mercato finanziario primario e secondario (Investopedia, s.d.) o usare impropriamente
queste definizioni; ma per meglio spiegare il baratto oggi (ed altre forme di scambio in
seguito), si ritiene opportuno prendere in prestito un parziale significato di tali definizioni
e riadattarle al contesto. Cosa si intende per mercato primario e secondario quindi? Molto
semplicemente un mercato primario si ha quando un bene o servizio viene introdotto nel
mercato la prima volta con lo scopo di ottenere un controvalore dalla produzione di quel
bene o servizio attraverso un definito sistema di scambio. Un mercato secondario si ha
quando un soggetto che ha acquisito un bene o servizio dal mercato primario, intende
riproporlo nuovamente su un qualche tipo di mercato, anche qui, tramite una
determinata modalità di scambio che può essere simile a quella del mercato primario o
differente. Perché si vuol definire che oggi il baratto è un mercato secondario? Grazie alla
diffusione comunicativa permessa dagli attuali mezzi di informazione (WorldBank, 2015),
risulta molto semplice poter inserire un annuncio su un sito o addirittura crearne uno
senza avere conoscenze approfondite di programmazione informatica. È possibile infatti
attraverso l’uso di piattaforme supportate da CMS (Content Management System) o
Digital Commerce Platforms, riuscire nello scopo. Queste piattaforme permettono,
certamente con un po’ di impegno, di creare siti web personalizzati senza però essere
obbligati a scrivere una cosiddetta riga di codice. Vi è la possibilità, con tool appositi forniti
dal servizio, definire layout, inserire contenuti, scegliere template e altre funzionalità. Se
non si hanno grosse pretese di personalizzazione, con un impegno economico accessibile,
si può andare online con un sito e poter pubblicare annunci dove si propone un bene o
servizio in baratto. Questo breve excursus che ha dato solo un accenno sulla tecnologia
disponibile, è mirato a dare una intuizione sulla relativa facilità con cui oggi è possibile
dotarsi di strumenti per poter essere parte integrante della sharing economy. Si è fatto
preciso riferimento all’accessibilità agli strumenti in quanto è opportuno precisare che
ottenere risultati soddisfacenti nello sviluppare un’attività nel settore digitale, richiede
una molteplicità di competenze e che quindi non basta il semplice supporto informatico.
Si cerca ora di contestualizzare il baratto attraverso una descrizione dell’approccio a
questa antica forma di scambio attraverso le attuali tecnologie. Il sistema economico oggi
è prevalentemente costituito da scambi merce-denaro, unitamente a questo nella
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maggior parte dei Paesi a reddito elevato, vi è un sistema economico-sociale di tipo
consumistico (Finanza, 2012). Vi è quindi una tendenza ad acquistare un bene cosiddetto
“nuovo”, parlando di beni tangibili, sia in presenza di una nuova necessità sia che vi è il
bisogno di sostituire/aggiornare la dotazione utile al soddisfacimento di un qualsiasi
bisogno. Senza nessuna prova scientifica ma semplicemente dall’evidenza della
quotidianità e dalla comprovata strutturazione di siti che propongono forme di baratto, ci
si trova con beni che non hanno completamente esaurito la loro utilità ma che smettono
di essere utilizzati prima del loro reale ciclo di vita utile per differenti motivazioni intuibili.
Qui torna utile la definizione personalizzata di mercato secondario. Si riprende tale
definizione per evidenziare che, date le peculiarità del sistema economico vigenti ed
esplicitate sopra, i soggetti che possiedono tali beni con capacità non sfruttata ma
comunque “già usati”; tentano di riproporli su mercati, appunto secondari, al fine di
individuare altri soggetti interessati al tipo di merce ed ottenere in cambio un altro bene
necessario del quale la capacità d’utilizzo non sfruttata dal cedente sia per loro comunque
un valore aggiunto. Il termine maggiormente utilizzato oggi in rete per questo tipo di
commercio è swapping. Le diverse piattaforme di swapping che si possono trovare in rete
si dividono in due categorie: piattaforme generaliste e piattaforme verticalizzate
(suddivisione utile anche per altri settori in realtà). Quelle generaliste sono piattaforme
dove è possibile scambiare qualsiasi tipologia di bene materiale. Mentre quelle
verticalizzate trattano beni omogenei. Genericamente si propone uno scambio cedendo
un bene in cambio di un altro che possa avere un valore simile.
Piattaforma generalista. Se si va ad esempio su U-Exchange.com si può cercare
liberamente un bene o servizio di interesse, imponendo differenti possibilità di filtro
(parole chiave, località geografica ed altri) ed avere in risposta una lista di persone come
risultati dove per ognuno di questi è presente sia cosa esso richiede e sia cosa offre. Con
una logica molto simile si trova Barterquest.com. In seguito all’iscrizione al sito, è possibile
proporre o cercare un determinato bene o servizio ed attraverso il motore di ricerca del
sito ottenere dei risultati corrispondenti alla richiesta, la sostanziale differenza rispetto al
precedente è che vi è in più la possibilità di determinare un valore del bene in punti (nel
sito in questione 1 punto vale 1 dollaro). Con questa modalità è più semplice attribuire il
valore e permette un più facile confronto del bene con un sistema monetario di
riferimento e si precisa che è possibile scambiare solo beni e servizi in sé e non denaro
per essi. Se invece si vuole anche quest’ultima possibilità, andiamo su Swapace.com dove
si può vedere la scelta “swap or money” per garantire maggior successo allo scambio. Se
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si vuol dare un occhio al panorama italiano delle piattaforme generaliste zerorelativo.it
offre una modalità molto simile a U-exchange.
Figura 4. Esempio di offerta su zerorelativo.it - Fonte: zerorelativo.it
Con il sistema dei crediti invece vi è Reoose.com, anche questo italiano, dove però i crediti
sono assegnati in base ad una parametrizzazione fissa in base alla tipologia (ad esempio:
fotocamere compatte 100 crediti, fotocamere professionali 200 crediti e così via) su cui è
possibile aggiungere o diminuire un valore discrezionale in crediti massimo del 20%. E se
vi manca il sale ed al vicino servono due cipolle? Su neighborgoods.net vi è la possibilità
di barattare indicando la propria posizione di residenza e creare scambi con i propri vicini
in base ad un raggio di distanza personalizzabile dalla propria località scelta e/o
partecipare e creare dei gruppi locali di scambio.
Piattaforma verticalizzata. Nella transizione dalle piattaforme di baratto generaliste a
quelle verticalizzate, è opportuno ricordare che esistono portali che possono contenere
sezioni dedicate allo scambio diretto di beni e servizi. Ci si limita a citare un solo caso in
tal senso ma di certa fama soprattutto negli USA. La piattaforma in questione è il famoso
sito di annunci Craiglist.com dove è possibile trovare all’interno della sezione “forSale” la
possibilità di inserire annunci che permettono il baratto come modello di scambio. Se ci si
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sofferma ad analizzare quanto detto su questi siti, risulta evidente che, nonostante
l’introduzione di modalità di paragone (vedi appunto i crediti), permane la principale
difficoltà di paragonare beni e servizi di differente tipologia. Dove allora lo swapping
riesce a colmare questo gap? Sicuramente nelle piattaforme verticalizzate. Con tale
definizione si intende un luogo digitale dove è possibile far incontrare domanda ed offerta
su beni con caratteristiche omogenee. Per semplificare la descrizione si possono
individuare piattaforme dedicate a scambi di vestiario, scambi di attrezzature da lavoro,
scambi di case e varie altre categorie. Anche in questo caso è opportuno citare qualche
esempio per capire cosa si intende per baratto verticalizzato. Negli armadi di molte
persone esistono abiti per così dire “caduti in disuso” o accessori di vestiario che non si
usano più. Su Swapstyle.com ad esempio vi è la possibilità di scambiare i propri capi di
abbigliamento. Più in generale è possibile effettuare scambi di beni che ruotano attorno
al mondo della moda. Anche per questo sito vige la possibilità swap or buy per facilitare
la riuscita degli scambi. Passando da un soggetto fashion victim ad uno più cultore della
lettura, si scorge la possibilità anche qui di poter barattare i propri libri. Navigando per
esempio su Paperbackswap.com si può far incontrare la domanda e offerta di libri nei
diversi formati esistenti attraverso un sistema di matching degli articoli. Nel divulgare
esempi ci si ferma qua. La molteplicità di siti esistenti su specifici settori è assai variegata
e si lascia al lettore la possibilità di identificarne di suo interesse sui motori di ricerca web.
È chiaro come in una situazione dove vi è omogeneità di prodotto o servizio, la
comparazione è più facile; ed arrivare a quella soglia di fiducia che porta ad effettuare la
transazione risulta meno complesso. Questo tipo di omogeneità necessaria si potrebbe
ricondurre ad una “assuefazione” da moneta come oggetto di scambio. Il fatto che la
società si sia abituata ad avere una valuta come controvalore di scambio per millenni, ha
probabilmente portato a dimenticare o meglio sviluppare la necessità di vedere in un
unico strumento la capacità di assegnare un valore alle cose. Tale considerazione può
essere facilmente testimoniata dalla facile permeazione nel sistema economico
transazionale di alternative alla moneta ma con caratteristiche intrinseche simili: vedi i
Bitcoin. La situazione attuale del sistema economico ha ricondotto il baratto, nelle sue
varie accezioni, ad una dimensione spaziale circoscritta in determinati limiti territoriali ma
che attraverso piattaforme web, raggiungibili ovunque vi sia una connessione a Internet,
ha predisposto il fenomeno in un’ottica Glocale. Viene da esprimere tale affermazione dal
fatto che in molte delle piattaforme citate vi sia sempre la priorità a definire la località in
cui è presente il bene o il soggetto fornitore del servizio. Infatti è possibile effettuare
scambi ovunque nel mondo e conseguentemente definire, con qualche modalità, lo spazio
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geografico dove si vuole trovare un potenziale interessato. Si possono fare diverse ipotesi
per cui queste modalità di limitazione territoriale che vengono messe a disposizione. In
particolare a livello locale vi può essere: valutazione diretta dei beni da entrambe le parti,
fiducia in un soggetto proveniente da un luogo con simili valori culturali e modalità di
contrattazione, si evitano problemi di cambio valuta, risulta più facile operare scambi
successivi e quindi possibilità di instaurare un flusso di collaborazione, definire una rete
di scambio solida. Al contempo la dimensione globale acconsente di creare un network di
soggetti con simili necessità e per determinati volumi di scambio, permettere di collegare
reti locali con caratteristiche omogenee ma situate in diverse regioni geografiche (se i beni
di scambio sono di interesse comune alle due reti locali) oppure di collegare reti locali con
caratteristiche disomogenee con l’intento di creare opportunità di scambio di beni non
individuabili o meglio non nativi di una delle realtà locali considerate. Fino ad ora il main
topic del “Cosa mi dai in cambio?” è stato il baratto. Il motivo è molto semplice tale
modalità suona meglio se affiancata al concetto di condivisione e oltretutto è anche il più
diffuso (come si noterà nel capitolo successivo). Riducendo per così dire il livello di
pignoleria e abbracciando una più larga visione, anche la circolazione di beni in un
mercato secondario che prevede unicamente transazioni in denaro, non va a falciare i
principi di efficienza nel consumo ma li abbraccia e soprattutto mantiene la possibilità di
creare valore economico fra soggetti sullo stesso livello. Il caso per antonomasia che ha
permesso questo con i mezzi informativi attuali è Ebay. Tralasciando le varie funzionalità
che propongono differenti possibilità commerciali anche a soggetti diversi dal cosiddetto
consumatore finale, la piattaforma citata permette scambi di prodotti fra soggetti con le
modalità note (asta, compralo subito, ecc). Nonostante la Società applichi delle
commissioni per portare avanti il proprio business, i beni sono proposti da soggetti privati
che intendono cedere ciò che non intendono più possedere ad altri soggetti a cui
potrebbero invece interessare. Quanto detto fino ad ora risulta utile nel porre le basi sul
significato che sta assumendo la definizione di consumo collaborativo.
Me lo presti poi te lo ridò!
Affidandosi a momenti di infanzia, è facile ricordarsi situazioni in cui ci si trovava seduti
fra i banchi di scuola e si chiedeva la gomma da cancellare al proprio compagno perché la
si era dimenticata a casa. Può capitare di dover appendere un quadro ma si è troppo pigri
per andare a recuperare la cassetta degli attrezzi chissà dove e si bussa al vicino per
chiedergli in prestito un martello. Le motivazioni per chiedere in prestito qualcosa sono
molte. Lo scopo di questa sezione è nuovamente un confronto con modalità classiche di
scambio integrate dalle recenti capacità relazionali permesse dall’innovazione dei mezzi
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di informazione. Il focus sarà incentrato su concetti quali prestito, locazione
(commerciale), noleggio ed uso condiviso. Anche se non propriamente inerente con la
trattazione, una divagazione di precisazione giurisdizionale in merito alla discriminante
che differenzia i concetti di locazione e noleggio è qui opportuna. La sostanziale
demarcazione che esiste fra le due modalità, risiede nell’attribuzione del rischio di
gestione della cosa mobile che per quanto riguarda la locazione, risiede in capo al
locatario ovvero colui che la utilizza. Di contro, nel noleggio il rischio della gestione rimane
a carico del noleggiante che è l’equivalente del locatore (Corte di Cassazione, sent.
29/08/1997 n. 8248 del e 04/12/1997 n. 12303, s.d.). Per uso condiviso si intende la
possibilità di usufruire di un determinato bene/servizio tra due o più persone
contemporaneamente. Immagino che qui sorga spontanea la seguente considerazione: la
definizione appena citata di uso condiviso tecnicamente andrebbe bene anche per le
modalità di scambio della sezione precedente. Se ci si limitasse ad una mera
considerazione della tipologia di bene o servizio in esame, tale considerazione sarebbe
corretta e sarebbe perfettamente coerente anche con l’elemento di prestigio dello
scambio ma il concetto di uso condiviso viene trattato qui per enfatizzare il legame forte
che si è creato in particolare, tra le forme di scambio della locazione e del noleggio
applicate a nuove modalità di organizzazione degli spazi abitativi, negli ambiti lavorativi e
nella mobilità.
Prestito. La definizione economica è la seguente: “La cessione di un quantitativo di beni
presenti contro l’impegno di restituire un quantitativo analogo (p. gratuito) o maggiore
(p. a interesse) di beni futuri, secondo modalità diverse. Il p., secondo tale definizione, dà
luogo a un credito di chi presta (mutuante) nei confronti di chi si obbliga a restituire
(mutuatario). I p. possono essere: in natura o monetari; concessi da privati a privati (p.
privati), da banche a privati e ad altre banche (p. bancari), dai privati e dalle banche allo
Stato (p. pubblici o nazionali), da altri Stati o da cittadini e banche di altri Stati a uno Stato
o a enti e imprese esistenti nello stesso (p. esteri o internazionali). Possono inoltre
distinguersi: a seconda della durata, in p. a breve, a medio e a lungo termine; a seconda
della garanzia, in p. ipotecari, su pegno, fideiussori, cambiari, fiduciari, allo scoperto; a
seconda dell’impiego che ne fa il mutuatario, in p. consuntivi o produttivi. Dal punto di
vista economico, tutti i p., consuntivi o produttivi che siano per chi li riceve, possono dirsi
produttivi per il prestatore soltanto quando fruttino interesse e vengano regolarmente
rimborsati con gli interessi stessi al momento stabilito” (Treccani, s.d.).
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Per meglio capire la pertinenza del prestito con la sharing economy è opportuno
introdurre diverse considerazioni sul tema. Innanzitutto il mondo dei prestiti è variegato
e ciò è comprensibile dalla definizione. Per tale motivo ci si focalizzerà solo su alcuni
aspetti generali di tale mondo ed in particolare sui prestiti legati al consumo in quanto più
pertinenti con l’argomento trattato. Entrando quindi nel merito, è d’obbligo una
classificazione delle tipologie di credito al consumo utilizzate usualmente.
Rimanendo col cannocchiale puntato sull’Italia, le principali modalità di erogazione che
sono concesse in base alla legge dagli enti autorizzati sono le seguenti:
la Carta di credito, che concede la possibilità effettuare acquisti presso gli esercizi
aderenti. Il pagamento avviene in una data con cadenza predefinita. Tale pagamento può
avvenire in un’unica soluzione (carta di credito a saldo), o a rate con l’aggiunta del
pagamento degli interessi maturati (carte di credito revolving);
il Prestito finalizzato, si colloca tra le varie fonti di finanziamento che si attribuiscono
direttamente al bene soggetto di acquisto;
il Prestito personale, è la modalità prediletta in Italia, prevede la definizione di un importo
assoggettato ad un tasso di interesse fisso e tale quota diventa rimborsabile a rate
costanti. A differenza della tipologia precedente, è il richiedente che decide come
impiegare la cifra e quindi viene considerato un prestito non finalizzato;
la Cessione del quinto, prevede delle trattenute sulla busta paga o sulla pensione, fino ad
un valore soglia appunto di un quinto del valore dello stipendio stesso.
Tra le quattro modalità citate (Sole24ore, s.d.), il prestito personale è quello su cui si pone
l’attenzione. Non solo perché è il più diffuso ma perché il sistema che ha sorretto questo
circuito creditizio sta subendo delle influenze da parte del consumo collaborativo. In
termini concreti si stanno diffondendo piattaforme digitali dove è possibile prestare e/o
richiedere in prestito una somma di denaro messa a disposizione da privati risparmiatori.
Tale fenomeno si definisce con il nome di social lending ed il supporto su cui “viaggia” è
Internet. Tale tendenza presenta degli intermediari (le piattaforme) che gestiscono i
trasferimenti senza seguire quello che è l’iter classico di società finanziarie e banche. Una
definizione più ampia di tale fenomeno verrà data più avanti mentre qui si pone qualche
intuizione su quelle che sono state le cause che hanno permesso tale evoluzione. Si
incomincia asserendo che il prestito ha sempre avuto una funzione sociale. Guardando al
passato si può trovare nelle istituzioni religiose forme di assistenza economica. Il caso per
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antonomasia che permetteva ad una comunità locale di chiedere del denaro anche per
motivi di sopravvivenza risiedeva nei cosiddetti Monti di Pietà. Quanto segue è una
rielaborazione delle ricerche di Muzzarelli (Muzzarelli, 2015) esperta del settore. Il
contributo era corrisposto se veniva messo in pegno un qualcosa: tale oggetto doveva
valere almeno un terzo in più della somma richiesta. Mediamente il prestito aveva durata
annuale al termine del quale se non fosse stata ripagata la quota, si procedeva nella messa
all’asta del pegno. Ricerche storiche datano la nascita del primo Monte di Pietà a Perugia
nel 1462. La diffusione si è protratta maggiormente in Umbria e Marche ma più in
generale in città di medie e piccole dimensioni dove era elevata la domanda di credito. Gli
ideatori di questa istituzione furono i Francescani Minori Osservanti. Hanno assunto come
modello operativo il banco ebraico creando però un istituto che avesse mire solidali e
senza scopo di lucro. Inizialmente era già prevista una forma di interesse (pari circa al 5%)
ma fra i sostenitori dei Monti erano molti quelli che temevano che tale commissione
richiesta fosse una forma di usura in quanto i destinatari erano principalmente gente
povera. Vi erano dei vincoli sui soggetti in termini di residenza, località geografica e valori
morali di destinazione d’uso della somma pattuita, fattori legati al fatto che le istituzioni
erano appunto nate da enti religiosi. Le attività di fundraising erano propagandate con
prediche volte a favorire la formazione dell'istituto e da processioni alla fine delle quali
tutti venivano chiamati a contribuire per l’iniziativa. Con questo istituto si affrontava
direttamente il problema del credito con finalità solidaristiche ma anche adottando
modalità parabancarie (Muzzarelli, 2015). Anche in questo caso la rete di comunicazione
gioca un ruolo fondamentale. Se infatti la fiducia per il prestito sociale era localizzata in
luoghi specifici come appunto le città per motivazioni di sicurezza e facilità di
individuazione dei soggetti, oggi il social lending grazie alla sua virtualità intrinseca; facilita
il reperimento di fondi da parte di soggetti con differenti residenze geografiche ed allo
stesso modo chi chiede può farlo ovunque desideri. Se per quel che riguarda la struttura
del social lending si è dovuti risalire alla metà del ‘500. Il suo sviluppo o meglio la sua
rinascita la si deve a motivazioni economiche molto più recenti. Prima di trarre qualsiasi
considerazione è opportuno fotografare il trend dei prestiti in Italia negli ultimi anni. Si
può notare dal grafico estratto dal bollettino statistico della Banca d’Italia che a partire
dal 2008 e quindi con la recente crisi economica, la domanda di prestiti presso le istituzioni
finanziare e monetarie ha subito un forte calo. Si può constatare infatti una variazione
negativa di circa 5 punti percentuali dal 2008 al 2015 (BancaItalia, 2016). Per completezza
di indagine vi è però da analizzare anche la domanda delle famiglie unitamente ai fattori
condizionanti la scelta di tale strumento. Come si evince dal grafico della domanda delle
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famiglie per i prestiti da istituti bancari, i fattori che hanno principalmente demotivato la
forma classica di richiesta di credito sono la diminuzione della fiducia verso gli istituti
stessi e le prospettive del mercato degli immobili. A livello globale ed anche nel nostro
paese come evidenziato, sono state queste le cause scatenanti la diffusione di proposte
Peer to Peer di finanziamento come appunto il social lending ed il più famoso
crowdfunding (Masssolution, 2013).
Figura 5. Prestiti bancari ai residenti in Italia - Fonte: Banca d'Italia, Supplementi al bollettino statistico 13 gennaio 2016
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Figura 6. Indagini sul credito bancario - Fonte: Banca d'Italia, Eurosistema - ottobre 2015
Ma come funziona una piattaforma di social lending? Per meglio spiegare tutto ciò, si
riporta qui di seguito a titolo di esempio il caso di Bondora, una delle piattaforme europee
più accreditate (Carson, 2015).
Su Bondora.ee il processo di finanziamento funziona come segue:
Se si è un richiedente, non appena il processo di formulazione della proposta di prestito è
stato completato, il personale procede nell’analisi del credito, assegnando un livello di
rischio al soggetto richiedente. Il livello di rischio viene assegnato sulla base dello storico
dei clienti su precedenti prestiti, dati esterni provenienti da altri database, modelli di
comportamento su osservazioni della clientela del database dell’applicazione.
Successivamente tutti i papabili investitori riceveranno un avviso di differenti proposte di
credito da scegliere organizzate in base al livello di rischio che si vuole assumere (rating).
Chi può investire su Bondora? Praticamente chiunque abbia un’età dai 18 anni in su che
abbia residenza in Unione Europea, Svizzera compresa. Per i soggetti extra-EU è prevista
una verifica di accreditamento. Quali documenti deve presentare l’investitore? Sono
necessari lo stato del conto bancario, documentazione sugli investimenti e asset
immobiliari, altri documenti in generale quali piani assicurativi, certificati di deposito,
stato situazione contributiva, dichiarazione dei redditi e varie. La cosa importante è che
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tutte le informazioni non riportino una data maggiore di 3 mesi dalla presentazione della
domanda. È possibile presentare anche delle dichiarazioni sostitutive di garanzia fornite
da enti creditizi e non che saranno soggette a valutazione da parte dello staff. In generale
per tutti i soggetti, il periodo di accertamento dura 5 giorni lavorativi al fine dei quali viene
inviata una risposta di adesione o meno.
Si può dire, con un certo margine di errore, che il social lending sta al prestito personale
come il crowdfunding sta al prestito finalizzato. Se infatti il social lending permette la
circolazione di capitale fra privati, nel crowdfunding vi è la circolazione di capitale
solitamente col fine di portare avanti progetti di vario genere. Il margine d’errore consiste
nel fatto che nel crowdfunding si hanno differenti modalità di remunerazione del capitale
investito simili al social lending o anche nessuna se il versamento è fatto a titolo di
donazione come potrete leggere in seguito. Tale comparazione è frutto del fatto che nel
mercato totale del crowdfunding, a far da guida vi è il reward crowdfunding che occupa il
45% del mercato in Italia, seguito dal 19% per l’equity e le donazioni. I titoli di debito si
attestano al 12%, al 4% reward+donazioni e solo l’1% a donazioni più debito (Pais, 2015).
Qui di seguito i principali tipi di crowdfunding, secondo l’Unione Europea, per inquadrare
quanto appena citato (CommissioneEuropea, 2015):
Prestiti peer-to-peer: il pubblico presta denaro a un’impresa in base al presupposto che
questo verrà ripagato con gli interessi. È una situazione molto simile a quella del
finanziamento bancario se non per il fatto che prendete in prestito da un gran numero di
investitori.
Equity Crowdfunding: vendita di una partecipazione a un’impresa a diversi investitori in
cambio dell’investimento. È una situazione simile a quella in cui ci si trova quando si
acquistano o vendono azioni ordinarie in borsa o a quella del capitale di rischio.
Rewards Crowdfunding: i privati fanno una donazione per un progetto o un’attività
imprenditoriale attendendosi di ricevere in cambio del loro contributo una ricompensa di
carattere non finanziario come beni o servizi in una fase successiva.
Crowdfunding per beneficenza: i privati donano piccoli importi per contribuire ai più ampi
obiettivi di finanziamento di un determinato progetto caritativo senza ricevere nessuna
compensazione finanziaria o materiale. Condivisione dei proventi Le imprese possono
condividere gli utili o i proventi futuri con il pubblico in cambio di un ritorno sul
finanziamento effettuato in precedenza.
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Crowdfunding con titoli di debito: i privati investono in un titolo di debito emesso
dall’impresa, come ad esempio un’obbligazione.
Modelli ibridi: offrono alle imprese l’opportunità di combinare elementi di più tipi di
crowdfunding.
Nel crowdfunding proporre un’analisi storica porterebbe, in questo studio, ad una
sostanziale deviazione dal tema principale. Tale affermazione è comprensibile nella chiara
varietà delle forme economiche che vi sono contenute in questa singola parola. In parte
comunque sono riconducibili ad elementi già trattati in precedenza. Per non limitare la
curiosità sull’argomento si propongono alcune intuizioni di ricerca con particolare
riferimento al fundrising, ai modelli di donazione volontaria (è possibile ripercorrere la
storia degli enti caritativi per analizzare le radici antropiche di questo fenomeno e far
anche riferimento alle associazioni no profit), le dinamiche del mercato di capitali con
particolare riferimento all’incubazione di progetti ed al venture capital, ripercorrere i
trend del mercato del debito.
Nel descrivere il reale funzionamento di una piattaforma di crowdfunding, si limita l’analisi
ad un caso di piattaforma reward based. La motivazione è molto semplice e si deduce da
due aspetti: il primo è che il modello con ricompensa è il più diffuso mentre il secondo
aspetto è legato al fatto che vi è una sostanziale differenza nell’istruttoria di adesione
legata al tipo di modello stesso. In parole semplici, se prendiamo un equity crowdfunding
si andranno ad affrontare dinamiche molto più complesse di gestione rispetto ad un
progetto reward based.
Si prende come esempio Kickstarter. Questa è una piattaforma che ha come obiettivo
quello di finanziare progetti creativi. Ad esempio film, giochi, musica, forme artistiche in
generale ed anche tecnologia. Si può asserire che sia una piattaforma generalista.
Chiunque può promuovere e/o finanziare un progetto. Ad ogni progetto viene assegnato
un funding goal ovvero una cifra da raggiungere in un determinato periodo di tempo. Tale
ammontare viene deciso dal creatore del progetto in base alle proprie esigenze. Il funding
su Kickstarter funziona con la logica tutto o niente. Il proponente riceve il denaro se
raggiunge la sua quota obiettivo, i finanziatori vedono il loro ammontare transato solo
quando il totale delle donazioni raggiunge la soglia altrimenti la quota viene restituita. Per
motivare il donatore, il proponente mette a disposizione solitamente in qualche forma da
lui decisa, un bene/servizio che è legato alla attività creativa del progetto. È onere del
creatore mettere a disposizione quanto più materiale possibile per meglio descrivere il
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suo progetto. Si parla di materiale documentale quali descrizioni, foto, video e la
possibilità di rispondere a dubbi e questioni degli interessati. È importante chiarire che la
proprietà intellettuale di ogni progetto rimane in capo all’ideatore.
Figura 7. Esempio progetto finanziato su Kickstarter - Fonte: Kickstarter.com
Spazi condivisi. Con un peso di notorietà simile al crowdfunding ma con un interesse
molto più legato alla sussistenza di una persona, si vogliono introdurre le varie
sfaccettature che legano il mondo dell’economia collaborativa alle varie richieste di
ospitalità, domanda abitativa e luoghi di lavoro. Le parole chiave in questo ambito sono
molte ma si analizzeranno sostanzialmente i tre fenomeni più diffusi ovvero il cohousing,
l’house renting ed il coworking. Se si lega a queste tipologie le modalità di scambio
commerciale di locazione e noleggio, probabilmente qualche intuizione sarà percepita. Il
prefisso “co” è inoltre un “campanello” per legare il concetto di uso condiviso. Si
procederà con ordine. Con il termine cohousing si identificano insediamenti abitativi
strutturati da alloggi privati, spazi ed ambienti comuni che sono destinati all’uso condiviso
da parte dei residenti dell’insediamento. Ciò che rende effettivo il termine è la presenza
negli spazi comuni di attrezzature condivise quali cucine, saloni, lavanderie, laboratori,
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giardini, luoghi per attività ricreative come palestre, biblioteche o altro. Unitamente a tali
elementi ciò che favorisce la promiscuità è la ridotta dimensione media degli spazi ad
esclusivo uso personale. Mediamente un progetto di questo tipo aggrega dalle 20 alle 40
famiglie. Gli obiettivi di una modalità residenziale di questo tipo sono di ridurre i costi
totali a carico di ogni singolo soggetto ed al medesimo tempo raggiungere standard
elevati di tipo ecologico e favorire la socializzazione (Chiodelli, 2009). Quali sono le origini
di questo fenomeno? Questo “moto” ha visto crescere le sue radici nei movimenti
utopistici, femministi e comunitari del diciannovesimo e ventesimo secolo. I paesi del
Nord Europa hanno aperto la loro cultura a questo tipo di organizzazione residenziale, in
particolare ci si riferisce ai Paesi Bassi, alla Danimarca ed alla Svezia. Tra questi il
precursore fu la Danimarca che costruì la prima comunità nel 1964. L’obiettivo era quello
di incrementare le relazioni sociali ed il senso di comunità mentre in Svezia la motivazione
principale fu quella di ridurre i confini del ruolo della donna “segregata” al lavoro
domestico. Chiaramente aveva anche altri scopi più comunitari come quello di aiutare le
persone più svantaggiate e sviluppare un senso civico comune. Il cohousing ha
attraversato l’Oceano Atlantico negli anni ‘80, sbarcando negli Stati Uniti. Come si può
presumere qui ha subito l’influenza di altre culture che hanno apportato alcune modifiche
nelle modalità di formazione del fenomeno. In particolare si creavano delle partnership
ma più in generale ci si aggregava per creare percorsi di sviluppo comune della comunità
residente. La terza apparizione del cohousing è avvenuta nel 1990 nel sud-est asiatico ed
in Australia. I temi della sostenibilità ambientale e del social housing si insinuavano nelle
menti degli architetti, ingegneri e pianificatori in genere che modificarono nuovamente il
concetto di cohousing integrando termini quali accessibilità fisica ed economica,
adattabilità, green architecture, abitazioni ecologiche e spazi che coniugassero differenze
culturali e regionali. In definitiva gli obiettivi del cohousing sono raggruppabili in tre aree.
Si hanno obiettivi sociali al fine di favorire la costruzione di comunità, si hanno obiettivi
ambientali con lo scopo di ridurre i consumi, la necessità di trasporto e l’estensione di
suolo convertito ad uso abitativo. Infine si hanno obiettivi culturali che mirano ad
avvicinare comunità e tradizioni differenti (Williams, 2005). Esperienze di social housing e
cohousing si possono riscontrare anche in Italia anche se tale fenomeno non è ancora
molto sviluppato. Se si prende ad esempio la città di Torino, si possono riscontrare due
esempi avviati. Per quanto riguarda il social housing e forme assistenziali di spazi condivisi
per necessità abitative temporanee, è in evidenza il progetto LuoghiComuni
(luoghicomuni.org, s.d.). Mentre per quel che riguarda il fenomeno dell’abitare insieme
in senso stretto si può far riferimento al modello di CohousingNumeroZero nella Zona di
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Porta Palazzo (cohousingnumerozero.org, s.d.). Nel coabitare si ha flessibilità per quanto
riguarda l’applicazione del modello economico. Vi può essere l’acquisto o la locazione. È
chiaro che si tratta di uno stile di vita condiviso dove si è responsabili direttamente non
solo dei propri spazi ma anche di quelli di uso comune. Risulta evidente inoltre che il
cohousing ha un peso sociale visibile ed impattante in modo sostanziale nella vita di una
persona o di una famiglia essendo una scelta in linea generale di lungo periodo. Se non si
è ancora pronti ad affrontare un livello di fiducia così elevato, si può pensare di provare
un’esperienza di home renting. La possibilità di affittare una casa per le vacanze non è di
certo una novità. Tanto meno prenotare un B&B. Anche gli ostelli vedono la possibilità di
condividere spazi comuni e certamente non sono un fenomeno recente. Ma allora dove
risiede la vera rivoluzione data dal mondo digital? Estendere la possibilità di essere
ospitati potenzialmente a casa di chiunque. In questo mondo i modelli prevalenti sono
due. Un primo modello è gratuito o con offerta libera. Vi è la possibilità di soggiornare a
casa di altre persone per definiti periodi di tempo gratuitamente oppure contribuendo a
qualche spesa come ospite. L’altro è più business, permette di condividere uno spazio
comune chiedendo all’ospite di pagare una quota per l’uso degli ambienti e delle
attrezzature (cucina, bagno, ecc). In questa seconda modalità si ha un modello ravvisabile
nel diritto alla locazione commerciale a carattere stagionale o temporanea. Non si
procederà però in un’analisi in merito alla regolarità di servizi di home renting in quanto
il tema principale è l’analisi del modello nel suo funzionamento e non se tale sia o meno
in contrasto con altre forme concorrenziali. D’altro canto non riconoscere che vi siano
dinamiche di Disruptive Innovation sarebbe una grave lacuna. Per meglio chiarire a cosa
si va incontro legando il termine all’home renting, si rende opportuno parlare prima
brevemente di tale definizione e successivamente riprendere il tema. La Disruptive
Innovation è un’innovazione che può essere legata ad un prodotto-servizio oppure ad un
processo che crea un nuovo mercato ed una nuova rete (soggetti e realtà coinvolte)
potenzialmente a scapito di un mercato già esistente e della rete legata a questo. Tale
fenomeno può portare a destabilizzare i precedenti leader di mercato ed alleanze
(Christensen, 1995). Vi è sostanziale differenza fra una rivoluzione distruttrice ed una
rivoluzionaria. Per fare un esempio banale, Internet ha rivoluzionato il mondo della
comunicazione ma non ha eliminato quella “cartacea” mentre il telefono ha eliminato il
telegrafo, suo precedente “antenato”. Ciò che rende un’innovazione distruttrice è la
possibilità di appoggiarsi ad altre innovazioni che ne facilitano lo sviluppo. Tanto più
queste crescono rapidamente tanto più velocemente l’innovazione distruttrice progredirà
una volta presente sul mercato (Assink, 2006). Questo breve inciso serve semplicemente
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per introdurre il fenomeno di AirBnB. Il sito si descrive come “luogo” dove poter scoprire
e prenotare location uniche in tutto il mondo. Di fatto però, secondo lo stesso sito, nel
2012 il 57% delle offerte era di interi appartamenti privati, il 41% camere private ed il 2%
camere condivise. Il sito si presenta come una classica piattaforma OTA (Online Travel
Agency, esempio:Booking.com). Una modalità di ricerca basata in forma semplice sulla
destinazione, il numero di persone ospiti ed il periodo interessato. Dopodiché sui risultati
si può ancora affinare la ricerca tramite dei filtri sul prezzo, servizi, ecc. Ogni annuncio può
essere fornito di foto, descrizione e fattore molto fondamentale nell’ottica del consumo
collaborativo, la recensione degli utenti che hanno precedentemente usufruito
dell’abitazione. Per poter procedere nell’operazione di booking si è vincolati dalla
registrazione al sito che porta alla creazione di un profilo personale. Se vi è una
manifestazione di interesse verso un annuncio, vi è la possibilità di inviare una richiesta di
prenotazione ed anche di usufruire di un tool di messaggistica per chiedere qualsiasi
informazione al proprietario del locale. I costi del servizio sono del 3% sul locatore ed una
percentuale tra il 6% ed il 12% in genere verso il locatario (AirBnB, 2015). La terminologia
qua è impropria ma è utilizzata per chiarire la posizione delle parti. Dire che AirBnB è un
fenomeno di Disruptive Innovation è per ora azzardato. Infatti è ad ora mancante in alcune
delle peculiarità che offrono le strutture alberghiere, quale attenzione e gestione diretta
della qualità del servizio di ospitalità, personale a disposizione dei clienti, brand reputation
e sicurezza. Vi sono però incentivazioni nell’usare la piattaforma spesso in riferimento al
fatto che vi è la possibilità di trovarsi come “a casa” anche in vacanza e spesso contare
sull’appoggio di una guida local. La rivoluzione essenziale di AirBnB è che ha permesso di
creare un marketplace peer to peer su larga scala grazie al Web. Probabilmente vi era già
da prima la possibilità di accogliere viaggiatori in casa propria. La differenza è che qui il
fenomeno è esteso a livello globale attraverso un ampliamento della rete (Guttentag,
2015). Come per quanto riguarda il cohousing, è vitale la creazione di una fiducia tra
l’ospite e l’affittuario. Su AirBnB ma in molti altri servizi della digital economy, si
strutturano dei meccanismi che permettono di favorire la fiducia attraverso sistemi di
reputazione. Sulla piattaforma in questione in particolare vi è un sistema che permette
agli ospiti dopo aver goduto del servizio, di recensire e votare quanto usufruito. Tale
operazione permette di incrementare un ranking rispetto alla singola offerta abitativa
dato dalle recensioni di tutti coloro che hanno vissuto in quel determinato ambiente. Su
scala superiore viene poi creata un’ulteriore graduatoria personalizzabile dall’utente, che
è calcolata sul totale delle offerte per quella località da egli scelta. Inoltre per aumentare
ulteriormente la fiducia vi è la possibilità di legare al profilo dell’utente il proprio profilo
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Linkedin o Facebook per avere una maggiore completezza di informazioni sul soggetto che
sia l’ospite o l’affittuario (AirBnB, 2015). Modalità simili di instaurazione della fiducia ma
dove non vi è una fee e tanto meno un prezzo di affitto, le si possono trovare in
Couchsurfing.com. Qui si entra a far parte di una community di travellers dove è possibile
condividere un posto letto ed organizzarsi tramite strumenti di messaggistica sulle
modalità di soggiorno. L’offerta di questa piattaforma è maggiormente rivolta a giovani
che hanno particolare propensione a viaggiare ma non dispongono di molte risorse
finanziarie. Attualmente la piattaforma conta circa 400.000 persone che mettono a
disposizione i loro spazi, circa 4.000.000 di utenti e offre la possibilità di partecipare a circa
100.000 eventi promossi dalla comunità (couchsurfing.com, 2016). Così come esiste la
condivisione di uno spazio residenziale esiste anche la condivisione di spazi lavorativi. Si
parla in questo caso di coworking. Che cos’è? Si tratta di condividere solitamente uno
spazio ad uso di ufficio che permette il confronto di persone che però individualmente
lavorano pressoché in ambiti diversi. Questi luoghi sono attrattiva di liberi professionisti
e persone che viaggiano frequentemente per lavoro e necessitano di un appoggio
temporaneo. Il valore maggiore che questi luoghi creano, si intravede nella possibilità di
condividere esperienza. Infatti è nelle sinergie che si creano dalla condivisione diretta di
conoscenza scritta e tacita dove si possono riscontrare veramente elementi di sharing
values. Questi luoghi offrono anche fonti di svago da condividere. Ciò che però suscita
emozione è la possibilità di individuare in questi luoghi uno spirito creativo nonché una
capacità di problem solving messa a disposizione della comunità. Ma chi sono i coworkers?
Solitamente il soggetto tipo ha un’età tra i 20 ed i 40 anni. Due terzi sono uomini ed il
rimanente donne e la maggior parte dei soggetti lavora nell’industria creativa. Vi è però
da dire che anche se la maggior parte degli utenti è freelance, vi è una tendenza negli USA
che vede circa il 35% dei soggetti coinvolti essere dipendenti salariati in quanto sempre
più aziende sembrano tendere a queste nuove modalità di gestione del personale non
direttamente vincolato ad un preciso luogo di lavoro (Foertsch, 2011 ). Ma come funziona
realmente un coworking? Per dare un manuale d’uso a questa tendenza, si prenderanno
in esempio una realtà conosciuta globalmente ed una esistente locale. Il primo caso è
ImpactHub. Questo modello ha portata internazionale, risulta infatti una specie di
franchising del coworking. La catena possiede 28 Hubs in diverse località del globo ma
ognuna di queste è gestita indipendentemente. Ciò che si deve mantenere è il modello di
business della catena e gli stessi principi. Un po’ come se si dovesse aprire un FastFood in
concessione. Si parla di un versamento iniziale che varia dai 10.000 ai 20.000 euro ed una
percentuale sulle revenues del 2.5% (DeskMag, 2011). Il gestore dell’Hub è in contatto con
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la comunità e la sede internazionale per avere sempre spunti su come aggiornare il
proprio spazio. Se si è invece interessati a usufruire di un servizio di questo tipo, ciò che
realmente si può fare varia a seconda dei propri interessi ed è modulabile o meglio
scalabile sulle proprie necessità. Questo tipo di ente è in grado di fornire servizi molteplici
legati al mondo lavorativo ed alla nascita di nuova imprenditorialità. In particolare è
possibile partire da un servizio base di richiesta di spazi, fino al perfezionamento di un
processo di incubazione di impresa, passando per la possibilità di seguire eventi formativi.
Qui di seguito uno screenshot delle tariffe in riferimento all’Hub di Milano.
Figura 8. Prezzi coworking ImpactHub Milano - Fonte: http://milan.impacthub.net
Secondo quanto proclamato dal sito, lo scopo di ImpactHub è quello di creare una rete
globale di persone, luoghi e programmi che ispirino, connettano e catalizzano forme
creative che si traducano in una qualche forma di impatto sulla società (ImpactHub, 2016).
Attualmente conta più di 11.000 iscritti n circa 77 località nel mondo.
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Figura 9. Mappa della diffusione di ImpactHub - Fonte: http://www.impacthub.net
Quanto appena descritto è un modello su larga scala. Ma esistono in realtà molti
coworking che nascono a livello locale senza essere legati a realtà internazionali. Le
modalità di gestione e funzionamento sono molto simili al modello descritto. Un esempio
preso dal “mucchio” è il Toolboxoffice di Torino (toolboxoffice.it).
Figura 10. Prezzi coworking toolbox Torino - Fonte: toolbox
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Come potete notare dall’immagine qui sopra e operando un confronto con l’Hub di
Milano, è facilmente comprensibile come la tipologia di offerta sia molto simile.
Chiaramente si parla di due realtà con dimensione molto differente (anche se vi è da
ribadire che Hub è appunto un franchising quindi lo spazio a disposizione dipende da ciò
che fornisce il gestore responsabile di quel centro). Conseguenza di questa similarità è la
concorrenza che si va a porre in atto con lo sviluppo di questo fenomeno. Sarebbe
interessante scoprire quale densità di centri coworking sia sostenibile in un dato luogo
affinché sia economicamente sopportabile la gestione degli spazi. A fronte di questo
quesito vi è anche da considerare la possibilità che l’attore che si pone in campo possa
essere Pubblico. Un curioso sviluppo in tal senso lo si può intravedere nella adattabilità di
spazi pubblici in luoghi di coworking. Da un articolo scritto da Anita Hamilton su
Fastcompany.com, si evince come molte persone trovino un luogo di lavoro all’interno
delle biblioteche pubbliche negli spazi condivisi e dalle interviste fatte ad alcuni direttori
di public libraries, si percepisce come una qualche esigenza di riammodernare gli spazi per
rendere questi luoghi più attrattivi ed usufruibili (Hamilton, 2014). Navigando sul sito della
Brooklyn Public Library si può scoprire una sezione dove è possibile affittare postazioni
informatiche dotate di software di lavoro, richiedere conference room ed affittare
laboratori dotati di strumentazione tecnica di vario genere (BrooklynPublicLibrary, 2016).
Certamente se iniziative di questo tipo prendessero piede, potrebbero risultare in
modalità innovative di gestione di spazi e creare forme utili di aggregazione interessando
luoghi pubblici per fini lavorativi che possano creare nuove modalità di aggregazione.
Pensiamo ad esempio alle possibilità formative che si potrebbero cogliere se in luoghi
pubblici come le biblioteche si venissero a creare connessioni fra i classici frequentatori,
che nella maggior parte dei casi sono studenti, ed i vari freelance in cerca di un luogo dove
lavorare. Possibilità di questo tipo potrebbero costruire competenze che facilitino il
passaggio dal mondo accademico a quello lavorativo.
L’altro grande settore che sta venendo sempre più influenzato dalla sharing economy è
quello dei trasporti. Se si considera la vita utile di un’auto personale, il tempo che
mediamente la si utilizza è del 10% mentre per il restante lasso di tempo, l’auto è
parcheggiata da qualche parte (Burns, 2013). Questa inefficienza nel nostro paese è
aggravata, secondo quando riportato su uno studio elaborato dell’Istat ed ACI pubblicato
nella sezione Motori della Gazzetta dello Sport, dal fatto che su ogni 1000 abitanti vi sono
685,7 auto in circolazione (compresi autocarri, autobus e veicoli speciali). Inoltre sempre
dallo stesso studio, si afferma che il nostro parco auto per il 47% del suo totale ha un’età
media di almeno 10 anni (LaGazzettaDelloSport, 2014). Queste informazioni definiscono
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quello che è il panorama attuale della circolazione e fanno intuire l’impatto che queste
variabili hanno sul territorio sia da un punto di vista ambientale sia sulle difficoltà nella
viabilità dei centri urbani. Queste complicazioni hanno facilitato anche in Italia la
permeazione di servizi di carsharing e carpooling. Anche se sempre più di dominio
pubblico come concetti, una loro descrizione risulta qui necessaria. Per CarSharing si
intende un servizio che fornisce ai membri iscritti ad esso, l’accesso ad una flotta di veicoli
su base oraria. La modalità di prenotazione possono essere diverse: online, telefonica,
direttamente presso l’autovettura con un sistema di fruizione elettronico. Solitamente il
sistema di fatturazione è in base al tempo di utilizzo oppure vi può essere una tariffazione
a chilometraggio (Millard-Ball, 2005). Vi è da precisare che non è una definizione
univocamente accettata ma si può asserire che essa sia abbastanza compatibile con
quanto è visibile oggi del fenomeno citato. Si tratta di un fenomeno in ascesa con una
massa di utenti di 3,5 milioni al 2013 in tutto il globo distribuiti su di un parco auto di
70.000 veicoli (FrostAndSullivan, 2014). Un po’ come dire che un’auto se la spartiscono 50
persone. Il modello di business in generale è misto e comprende una flat fee di
abbonamento ripartita su base annuale o mensile. Unitamente a questa vi è una modalità
di pagamento ad uso cioè legata al tempo di utilizzo. Queste sono modalità di pagamento
classiche individuabili praticamente in qualsiasi settore e per tal motivo non verranno
trattate in modo approfondito. Ciò su cui invece si vuol focalizzare l’attenzione riguarda
le differenti articolazioni che può assumere questo servizio. Ciò che le determina è la
proprietà del mezzo di trasporto. Tra le varie offerte disponibili troviamo due strutture
proprietarie principali; una prima struttura fa riferimento ad una, per così dire, persona
giuridica. Per chiarire alcuni nomi possono essere Car2Go ed Enjoy, citati in quanto
principali attori nel panorama italiano, legati a colossi industriali quali Daimler Group ed
Eni. È d’obbligo citare anche ZipCar che è sicuramente uno dei “portavoce” di fama
mondiale nel settore. Questi attori si assumono il rischio di gestione del parco (tasse,
carburante, assicurazione, manutenzione) e nel caso di esempio di Car2Go anche della
produzione del mezzo stesso. Anche qui descriveremo uno degli attori in “gioco” per
chiarire il funzionamento di una piattaforma tipo. Il caso in esempio sarà Enjoy. Vi è
l’obbligo di iscrizione alla piattaforma con i propri dati personali. Successivamente si può
individuare la disponibilità di uno dei mezzi del parco auto fornito all’interno dell’area di
uso consentito (il sito in questione designa un perimetro di uso dei propri mezzi). Una
volta individuata la vettura disponibile, la si può utilizzare certificandosi con un sistema
elettronico di riconoscimento che permette l’assegnazione del veicolo. Durante l’uso
diretto viene conteggiata una tariffazione al minuto. Il provider in questione non richiede
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una fee mensile od annuale come praticano alcuni dei suoi concorrenti. I fornitori di
carsharing in genere offrono taluni servizi per incentivare l’uso dei propri mezzi come ad
esempio la possibilità di poter parcheggiare il veicolo in zone di sosta a pagamento senza
dover pagare la quota oppure transitare in zone cosiddette a traffico limitato (Enjoy,
2015). La fama di queste piattaforme è data essenzialmente da due elementi quali
l’awareness del gestore e la “velocità” con la quale possono promuovere campagne
promozionali. Dall’altro lato della medaglia troviamo la proprietà da parte della persona
fisica. La differenza nella fornitura di un servizio di carsharing rispetto a quanto detto fino
ad ora risiede nel fatto che la piattaforma che gestisce il servizio fa unicamente da
intermediario tra il proprietario dell’auto, un soggetto privato in questo caso, ed il
consumatore. Su questo tipo di struttura di funzionamento i costi di gestione ricadono sul
proprietario dell’auto (fatta eccezione per il carburante che è onere del soggetto
richiedente) che però vede garantito un corrispettivo per il fatto di cedere l’auto in utilizzo
a terzi. La tariffazione la decide l’intermediario solitamente con le caratteristiche generali
descritte in precedenza. Inoltre spesso esso si pone a garanzia del proprietario dell’auto,
prestando una forma assicurativa sull’auto e definendo dei requisiti minimi per i driver
(età minima, anni patente, numero di sinistri e varie). Quanto appena definito è
ravvisabile nel mondo del carsharing peer-to-peer ed in tal mondo si citano due esempi
famosi quali Drivy.com e Getaround.com. Entrambe i siti offrono servizi molto simili. Il
primo è francese ed ha avuto il suo boom di espansione nel 2010. Contava a maggio 2015
una community di 600.000 membri tra Francia e Germania che si “spartivano” un parco
auto di 11.000 veicoli (Eccheli, 2015). Il secondo ha il suo maggior business negli USA e
conta “solo” 200.000 iscritti, ma già abbastanza se si considera il fatto che il servizio è
stato lanciato nel 2013 (Getaround, 2016). Se tanto successo è riscosso dal poter prendere
un’auto in prestito, lo è anche poter condividere una corsa con altre persone. Il carpooling
si può etichettare con una definizione molto generalista come la possibilità di condividere,
in accordo fra le parti, l’uso di un’auto da un pool di individui che hanno in comune uno
stesso tragitto con modalità e tempistiche accettate dai soggetti interessati (Ferreira,
2009). In questo servizio il mezzo di trasporto è praticamente quello privato ed il relativo
modello di business è quello di far pagare ai viaggiatori, una quota scelta dal soggetto che
mette a disposizione l’auto definita solitamente in base alle spese di viaggio. La
condivisione di un “pezzo” di strada è qualcosa non certamente recente come
brevemente descritto in precedenza. Esistono molti studi sul tema che mirano a definire
come poter meglio gestire la mobilità urbana ed extraurbana. Intorno agli anni ’70 ed ’80
ci si è molto concentrati sull’argomento. Le motivazioni principali che portano a studiare
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questa forma hanno due principali sorgenti. Una di carattere economico-sociale che si
esprime dal lato degli utilizzatori di questa modalità e con maggiore profondità di analisi
si analizzano i vantaggi in termini di risparmio di costi piuttosto che le dinamiche sociali
che portano a tali forme di partecipazione. L’altra sorgente è di carattere logistico, ovvero
si è analizzato e si analizza il fenomeno come forma di mobilità per gestire sistemi logistici
su scala territoriale (Akiva, 1977). Il caso del carpooling sarà espresso con maggiore enfasi
in seguito in un caso studio che lo vede applicato al mondo del lavoro. Si rende però
funzionale al completamento della panoramica delle recenti modalità di collaborazione
l’esposizione di una realtà esistente nel settore per “toccare con mano” anche questa
forma di consumo condiviso. Il servizio probabilmente più famoso in tal senso è BlaBlaCar.
Il suo funzionamento è assai semplice; è sufficiente impostare una prima ricerca
definendo una località di partenza ed una di arrivo, la data di partenza e dopo aver cliccato
su trova si attendono i risultati. Se la ricerca produce risultati, si possono identificare delle
schede legate all’itinerario scelto dove in ognuna di esse si riconoscono diversi elementi:
il soggetto proponente che vuol condividere la tratta con alcuni dati personali di base, la
componente che definisce il trust della persona ovvero i feedback ricevuti e le recensioni
sul suo stile di guida piuttosto che la sua personalità e quant’altro, il link al suo profilo
social se disponibile e le preferenze su alcune caratteristiche che devono avere i compagni
di viaggio. Di fianco alle informazioni personali si hanno invece quelle di carattere più
logistico: la tratta, la data e l’orario di partenza, la tipologia di auto se specificata, i posti
disponibili, le modalità accettate di prenotazione (se vi è il simbolo del fulmine si può
prenotare il posto anche all’ultimo minuto) ed infine il prezzo proposto a persona.
Figura 11. Scheda contatto su BlaBlaCar - Fonte: blablacar.it
Se le condizioni proposte sono accettate, si passa ad una finestra di dialogo dove si può
corrispondere con il soggetto promotore della tratta per ulteriori chiarimenti e
disposizioni finali (BlaBlaCar, 2016). Il sito di BlaBlaCar si pone come intermediario tra la
domanda ed offerta di viaggio tra due località, ponendo in un unico luogo le richieste di
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viaggio e soprattutto estendendo il concetto di trasporto condiviso a livello globale.
Certamente non è l’unico attore del settore e soprattutto esistono differenti modalità e
verticalizzazioni del carpooling. Si è voluto citare questo caso in quanto uno dei più
conosciuti nell’ambito ed inoltre offre modalità di approccio al servizio senza particolare
segmentazione della clientela.
Considerazioni generali sul consumo collaborativo
Quanto avete letto fino ad ora è un assaggio dell’immenso mondo del cosiddetto
consumo collaborativo, in esponenziale evoluzione. Spero che quanto descritto fino ad
ora sia stato abbastanza utile per dare una panoramica generale di questa “nuova” forma
di organizzazione economica che sta impattando sulla congiuntura mondiale. Come è
decifrabile dagli esempi fatti è possibile capire che essa sta permeando molti settori
industriali. Assegna terreno fertile nell’agricoltura, produce interessi nella finanza,
fornisce un tetto nel mondo immobiliare, aiuta a disporre di un luogo di lavoro, diversifica
il turismo, ridefinisce la titolarità dei prodotti, riorganizza gli asset nel settore dei trasporti
e redistribuisce la conoscenza. La motivazione dell’analisi delle modalità di scambio, del
fatto che i modelli non siano scoperte recenti ma modelli consolidati di consumo riadattati
alle nuove esigenze, e le modeste descrizioni di alcuni processi funzionali di alcune
piattaforme; hanno lo scopo di far comprendere come vi siano in gioco variabili sociali,
tecnologiche e culturali sia di livello globale sia di livello locale. Ciò implica che per
ottenere successo in un’economia condivisa, vi è da considerare forme collaborative che
debbano essere misurate e vestite su scale regionali. È possibile visionare la struttura
organizzativa aziendale di molte di queste nuove realtà ed identificare figure quali i
country manager o nomenclature simili che vestono il ruolo di gestori di piattaforme di
portata internazionale cercando di cogliere i risvolti sociali culturali e tecnologici propri di
una data regione al fine di costruire un prodotto mondiale su scala locale. Questo tipo di
modello organizzativo non è certo innovativo in senso stretto, però è interessante che
essa venga applicata a modelli digitali che nell’immaginario generale possono essere
gestiti stando dietro una scrivania ovunque nel mondo basta che si abbia una connessione
ad Internet. Prima di passare a definire il concetto di consumo collaborativo vi sarà una
sezione di completamento a questa visione d’insieme che riguarderà la figura del
consumatore “vittima” dell’economia condivisa. Comprendere chi subisce il fascino di
questo fenomeno è rilevante per riuscire ad avere uno schema completo. In ausilio al
lettore e per chiudere la trattazione di questa sezione, si riporta qui di seguito una
elaborazione prodotta da Jeremiah Owyang che fotografa, in una sorta di alveare, una
suddivisione per settore economico di alcune delle piattaforme attenenti al consumo
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collaborativo. Tale proposizione è fornita per poter dare uno spunto di analisi settoriale o
semplicemente per pura curiosità del lettore.
Figura 12. Collaborative Economy Honeycomb - Fonte: Jeremiah Owyang, 2014
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Capitolo 2. L’individuo: da consumatore a “prosumer”
“Ogni città si divide in quattro parti eguali, e nel mezzo di ciascuna è una piazza, ove ogni
famiglia porta i suoi lavori, e li dispone per ordine in certi granai. Ogni padre di famiglia
piglia di qui ciò che fa bisogno ai fatti suoi, senza prezzo alcuno; quando che hanno copia
di ogni cosa, né alcuno teme che gli manchi, e si contenta solamente di quanto gli fa
mestieri. Essendo manifesto che dove non è il timore di dover mancare delle cose
necessarie, né superbia di volersi aumentare di ricchezze soverchie (le quali cose fanno
l’uomo avido e rapace; il che non avviene per gli Utopi), ivi è un vivere tranquillo (Moro,
1821)”. Così descriveva il comportamento delle genti Tommaso Moro nella sua Utopia.
Certamente si parla di una narrazione rinascimentale di una società ideale e circa mezzo
secolo di storia non è sicuramente bastato a concretizzare tale desiderio. È però
ravvisabile che vi sono iniziative che si dirigono verso una più accentuata collaborazione
gli uni con gli altri e che stanno avendo foraggio da parte delle emergenti realtà legate al
consumo collaborativo. La componente culturale gioca un ruolo fondamentale in tutto ciò
e soprattutto le componenti che pongono in essere le relazioni sociali. Tra tutte le
componenti, la condivisione gioca un ruolo importante nella cultura e nelle relazioni
sociali stesse ed essa è condizionata dalla distribuzione della conoscenza all’interno di una
società; tale aspetto inoltre ha la sua magnitudine in relazione alle opportunità di
apprendimento che possono avvenire nella società stessa. Le relazioni sociali e la rete su
cui sono costruite contribuiscono anch’esse nella variabilità della condivisione. Ergo forti
relazioni sociali incoraggiano gli individui a comunicare e, in simbiosi, la comunicazione
porta una maggiore propensione a credere nelle possibilità di condivisione. Se si
ripercorre il concetto a ritroso individuiamo che la cultura è essa stessa frutto della
condivisione di differenti disegni e pensieri individuali, sociali e differenti sistemi di fedeltà
che si combinano per creare punti di relativo accordo o disaccordo tra i membri di una
società (Ajay K. Sirsi, 1996). Certamente i comportamenti umani hanno differenze legate
a fattori caratterizzanti quali il sesso o più propriamente la propria identità sessuale
percepita e più in generale il proprio ruolo all’interno della società; concetto riduttivo in
tal sede, espresso unicamente al fine di comprendere la varietà di sfaccettature che esso
contiene al suo interno come una serie di valori che spaziano dalla propria posizione e
soddisfazione lavorativa, alla disposizione di determinati beni e servizi, all’appartenenza
a determinate categorie politiche e religiose fino alla definizione di concetti intangibili
legati ai propri valori morali ed etici. Questa mescolanza di fattori determinano il
comportamento verso il consumo. Allo stesso tempo questo stesso comportamento del
consumatore è condizionato da processi come l’influenzamento e forme di
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coinvolgimento tra individui e gruppi di individui. Questi processi possono avvenire sia tra
soggetti interni alla propria sfera di relazioni personali più strette (famiglia, amici,
conoscenti) sia da soggetti esterni con svariate modalità legate al mondo del marketing
quali attività di promozione, politiche di prezzo, distribuzione e prodotto-servizio fornito
(Said, 2002). Analizzando il consumo sotto un altro aspetto, si nota come il suo concetto
sta assorbendo elementi dall’ecologia e dai temi sulla sostenibilità dello sviluppo. Concetti
come il cambiamento climatico, consumo comune e le specificità locali stanno sempre più
diventando questioni di interesse nella scelta dei consumi (Botsman, 2010). Questo
contesto è di particolare interesse dal momento che vi è sempre più una considerazione
generale di far qualcosa di buono per le altre persone e per l’ambiente e che tali scopi si
possono raggiungere condividendo ed aiutando gli altri ad essere coinvolti in
comportamenti sostenibili (Prothero, 2011). Chiaramente bisogna anche rimanere con i
piedi per terra e considerare che le condizioni per cui ci si offre di collaborare è anche per
ottenerne dei benefici individuali che siano pure di carattere etico ma anche reale in
termini di risparmio economico piuttosto che avere la possibilità di poter ottenere delle
risorse che senza collaborazione non si sarebbero potute raggiungere. A prescindere da
quelle che possono essere le motivazioni, è opportuno riportare una esemplificazione
teorica del comportamento di un soggetto rispetto all’ambiente in cui si trova. Si riporta
parte dello studio sulla concettualizzazione del contesto ambientale ed il comportamento
(H. C. Clitheroe Jr, 1998), per meglio comprendere il funzionamento del comportamento
stesso. Si mostrerà una versione di tale modellizzazione adattata al consumo
collaborativo.
Figura 13. Il contesto, elementi identificabili nel processo comportamentale - Fonte: H.C. Clitheroe Jr. et Al., 1998
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Come si può vedere nell’immagine sopra, secondo l’autore, ciò che spinge a definire un
certo comportamento è un “prompt” ovvero un punto di partenza dato da un processo
psicologico intenzionale o non intenzionale e/o un processo reale. Una sorta di iniziativa
di qualche tipo che può essere data da stimoli interni o esterni. Il processo quale esso sia,
avviene in un determinato intervallo di tempo e dà un input a quella che è la sfera
comportamentale condizionata da: fattori personali (personalità, attitudini, capacità
comunicative, …), sociali informali (relazioni di amicizia, conoscenze, …), sociali formali
(relazioni aziendali, relazioni politiche, …) e fisici (condizioni fisiche ambientali, materiali
circostanti, …). Il risultato del comportamento partorisce tre tipologie di output. Come
primi output avremo quelli definiti intenzionali cioè che sono figli diretti dell’iniziativa per
cui è avvenuto un comportamento e quelli non intenzionali che sono i cosiddetti effetti
collaterali. In seconda abbiamo una classificazione di essi come output reciproci cioè che
hanno rilevanza di impatto o addirittura di cambiamento del contesto in cui ci si trova.
Infine possiamo catalogarli come finali se tale comportamento è stato sufficiente a
portare a termine il “prompt”; intermedi se hanno completato solo una parte del
proposito. Il contesto tendenzialmente subisce delle modifiche a causa dei
comportamenti. Se ciò che cambia nella sfera comportamentale è solo uno dei fattori ed
il suo mutamento è lieve, avremo un contextual shift cioè una leggera variazione del
contesto ma non così sconvolgente. Esempio banale: bisogna tagliare l’erba del giardino
ma improvvisamente si mette a piovere e si dovrà rimandare perché il contesto di quello
specifico giardino è in condizioni inagibili per il comportamento di tagliare l’erba. Vi è
quindi una condizione intermedia che modifica la sfera comportamentale ma non
stravolge l’output finale bensì lo rimanda nel caso specifico.
Figura 14. Contextual shift – Fonte: H.C. Clitheroe Jr. et. Al. 1998
Vi possono essere però dei prompt che implichino sostanziali cambiamenti nella sfera
comportamentale cioè vi è una modifica radicale di uno o più fattori della sfera stessa.
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Oppure durante il processo comportamentale, possono scaturire nuove iniziative che
modificano il comportamento e conseguentemente il contesto in itinere. Una
trasformazione del contesto può portare ad un fondamentale cambiamento nel
comportamento del soggetto o di un gruppo di soggetti. Il nuovo contesto sarà
condizionato dall’eterogeneità dei comportamenti all’interno del gruppo oppure dalla
loro omogeneità. Inoltre è importante il quando avviene la manifestazione
comportamentale in quanto la situazione del contesto è condizionata anche dal tempo
stesso. Per chiarire una trasformazione del contesto si può fare l’esempio di una fusione
aziendale. In un caso del genere potremmo avere variazioni sostanziali nei fattori sociali
formali (nuova politica relazionale ed organizzazione aziendale nella governace),
variazioni sostanziali nei fattori fisici (cambio di ufficio), variazioni nei fattori personali
(cambio di umore), variazioni nei fattori sociali informali (nuovi legami di amicizia nel
posto di lavoro o nuove “rogne”).
Figura 15. Contextual transformation – Fonte: H.C. Clitheroe Jr. et. Al. 1998
Dopo aver riportato qui una semplificazione teorica del modello comportamentale
sviluppato da Clitheroe, risulta opportuno alterare tale modello fornendo una
rappresentazione applicata ad un caso pratico dell’economia collaborativa. A costo di
essere ridondante si propone un adattamento al caso del carpooling. Si vuole qui spiegare
quali fattori potrebbero agire nella sfera comportamentale nella scelta ed adesione ad un
fenomeno di questo tipo. Si riprende un esempio in tal settore in quanto la questione del
trasporto e le motivazioni nelle scelte su di esso si credono abbastanza comprensibili da
un largo pubblico. Ipotizziamo che il prompt in questo caso sia “recarsi sul luogo di lavoro”.
Nel contesto al tempo iniziale la sfera comportamentale induce ad usare l’auto privata. I
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fattori che portano a questo possono essere diversi da soggetto a soggetto e per tal
motivo se ne proporranno solo alcuni a titolo esemplificativo per categoria.
Fattori personali: si può ipotizzare la mancata fiducia nei mezzi pubblici, la
convinzione che in auto diminuiscono i tempi di percorrenza, è una comodità perché si
può decidere autonomamente quando uscire di casa;
Fattori fisici: i mezzi pubblici non passano nell’orario utile per andare a lavoro,
bisogna portarsi dietro del materiale non trasportabile comodamente a mano, il meteo è
quasi sempre piovoso e la fermata del bus non ha la pensilina;
Fattori sociali informali: si pensa che le persone all’interno del bus abbiamo
differenti standard di igiene, che ci siano rischi di furto in quanto durante il tragitto vi sono
persone poco raccomandabili e quindi si è diffidenti ad intraprendere relazioni con altri
passeggeri;
Fattori sociali formali: nel luogo di lavoro è richiesto un abito formale e viaggiare
sul bus comporterebbe la presenza di odori che rischierebbero di compromettere l’abito,
per immagine aziendale i dipendenti devono mostrare un certo livello di benessere che si
traduce nell’uso di determinati beni quali l’auto aziendale;
Questi fattori possono essere condivisibili o meno ma servono a motivare la scelta di
comportamento di un soggetto (Sig. Mario) che sceglie l’auto privata per recarsi sul luogo
di lavoro. Ipotizziamo ora che vi sia un cambiamento del contesto dato da un’evoluzione
tecnologica e da cambiamenti nel comportamento di altri soggetti magari perché vi è
sempre più una sensibilizzazione nelle tematiche ambientali per scoperte scientifiche
dovute ai rischi dell’inquinamento sul cambiamento climatico oppure che i tempi di
percorrenza tra mezzi pubblici ed auto private siano gli stessi a causa dell’aumento dei
veicoli in circolazione o ancora che per motivi socio-politici, il costo del carburante sia
aumentato. A causa di queste variazioni del contesto, si sono avute delle iniziative da
parte di soggetti nello sviluppare forme alternative nell’ambito della mobilità come può
essere appunto il carpooling. Come può variare quindi il comportamento del Sig. Mario a
questa variazione del contesto? Il signor Mario si potrebbe fare i “conti in tasca” sul costo
di viaggio maggiorato che ogni giorno dovrà sopportare per andare a lavoro; ha avuto
notifica dall’azienda che non è più vincolato a presentarsi in auto in quanto la nuova
politica aziendale legata alla Corporate Social Responsability vuole dare una nuova
immagine aziendale che favorisca la sostenibilità ambientale e promuova programmi di
mobilità sostenibile per i suoi dipendenti. Permangono però all’interno della sua sfera
comportamentale le considerazioni sull’impraticabilità dei mezzi pubblici e sulla “bella”
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presenza sul luogo di lavoro. Il mix tra le vecchie abitudini, le nuove tendenze e necessità
personali portano il Sig. Mario ad essere propenso nell’adottare nuove forme di mobilità.
Qui di seguito una riproposizione applicata del modello.
Figura 16. Esempio di Contextual transformation sul comportamento decisionale nell’adozione del carpooling – riproposizione personalizzata basata su H.C. Clitheroe Jr. et. Al. 1998
Si ribadisce che quanto descritto è unicamente una posizione casuale di modifica
comportamentale ma serve per comprendere quali approcci si possono intraprendere per
favorire determinati output. È importante notare come il Sig. Mario non ha avuto nessuna
imposizione normativa nel modificare il suo comportamento ma si è adattato
all’evoluzione del contesto.
Il fatto che si sia citato nell’esempio la questione della sostenibilità ambientale ed il
risparmio economico non è dato dal caso. Tali tematiche infatti hanno evidenza empirica
come elementi motivazionali nella scelta di forme di consumo collaborativo. In uno studio
pubblicato sul journal of the association for information science and technology a luglio
2015 (Juho Hamari, 2015), si evincono quattro possibili fattori che determinano la volontà
di approcciarsi al consumo collaborativo. La percezione di ottenere una qualche forma di
sostenibilità ambientale derivante dall’uso di una piattaforma di questo tipo, il piacere
ottenuto dal coinvolgimento nella causa stessa, la reputazione derivante da essere
membro di una determinata piattaforma ed il beneficio economico derivante dalla forma
collaborativa. Su tale analisi è stata fatta un’ulteriore supposizione ovvero cosa incide
direttamente sull’attitudine al comportamento ed il comportamento stesso. Si può notare
47
nella rappresentazione relazionale a sinistra come la sostenibilità agisce direttamente
sull’attitudine ad un comportamento collaborativo (linea continua) ed indirettamente
sull’intenzione (linea tratteggiata). Tale motivazione è data dal fatto che magari si è
predisposti a comportarsi in modo sostenibile ma tale comportamento comporta costi
elevati e quindi non si manifesta l’intenzione di procedere. Si può comunque evincere che
gli elementi significativi nel determinare l’adesione ad un’iniziativa di consumo
collaborativo siano da ricercarsi nell’attitudine verso un fenomeno di questo tipo che può
essere generata ed alimentata da motivazioni di sostenibilità ambientale, dal piacere
stesso di usufruire piattaforme di questo tipo e solo marginalmente dal beneficio
economico che esse possono garantire. È risultata non influente la reputazione generata
da essere membri di queste piattaforme.
Figura 17. Risultati ricerca sui fattori motivanti il consumo collaborativo – Fonte: The Sharing Economy: Why People Participate in Collaborative Consumption – Hamari, 2015
In particolare gli autori fanno notare che vi è una differenza tra l’attitudine ad un tipo di
comportamento ed il comportamento stesso anche nel mondo del consumo
collaborativo. Le motivazioni all’origine di questa differenza sono riconducibili per una
questione di approccio alla capacità di operare con determinate tecnologie da parte dei
soggetti mentre nel lungo periodo tale predisposizione è data da fattori molto eterogenei
ma comunque legati alla sfera del coinvolgimento per motivi di piacere verso la
piattaforma. Andando però ad analizzare il campione di tale analisi vi è qualche
pregiudizio sulla sufficiente dimensione del numero di individui intervistati e soprattutto
che tali conclusioni valgano in modo assoluto. Per questo motivo si sono cercate altre
testimonianze in altri campioni. A tal proposito sono state effettuate diverse ricerche e
sono emerse molte survey eseguite da organizzazioni statistiche private. Un’indagine
dell’Ipsos sul territorio italiano, basata su di un campione di 1000 soggetti, mostra che il
38% degli intervistati la trova conveniente. Per il 37% è una risposta temporanea alla crisi
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e quindi emerge che tale fenomeno sia percepito come un’economia di transizione. Per il
36% è una forma di baratto utile (Ipsos, 2014). Sembra emergere da questi dati che la
motivazione principale per collaborare sia più di carattere economico. Continuando nella
ricerca dei risultati della survey, emerge anche un interesse verso l’ambiente per il 26%
degli intervistati ed un interesse sociale per il 14%. Per scopo cautelativo si sono volute
sondare anche altre indagini. Secondo il rapporto Listening to Sharing Economy Initiatives
(Wagner, 2015), basato su una survey globale a cui hanno partecipato diversi enti di
prestigio; si definisce il consumatore come soggetto socialmente coinvolto per l’81% delle
risposte e per lo stesso valore anche sensibile al prezzo. È un consumatore competente
nell’uso della tecnologia per il 69% dei risultati ed è un soggetto coinvolto e sensibile in
questioni legate all’ambiente per il 61% dei riscontri. Da quanto emerge dai tre studi citati
non si può asserire con certezza che vi sia un unico driver che trascini l’economia
collaborativa. È possibile però effettuare delle considerazioni sui segmenti. Vi è una
propensione al risparmio, vi è una inclinazione ad essere socialmente sempre più coinvolti
e la questione sulla sostenibilità ambientale sembra avere un certo successo. Chiaramente
essendo un’economia che sfrutta le recenti tecnologie comunicative e della rete, quali
soprattutto smartphone e dispositivi portatili in genere, risulta logico che il pubblico che
sappia sfruttare questi mezzi come parte integrante della sua quotidianità, si possa sentire
maggiormente coinvolto ed adatto al progredire di tale fenomeno. La questione che
comunque rimane in comune a tutte le indagini è la componente del prezzo che
chiaramente è un fattore rilevante in qualsiasi forma di mercato. L’intuizione che
potrebbe emergere in questo senso può far riferimento ad un discorso di elasticità di
sostituzione su queste forme economiche. Quanto appena detto sarà meglio trattato in
seguito, qui vuole essere solo uno spunto di ragionamento. Continuando a profilare il
consumatore, è possibile carpire come: questioni sociali, sensibilità di prezzo ma
soprattutto la questione ambientale ed ancor di più la propensione verso la tecnologia;
siano fattori segmentabili ed individuabili in precisi “comparti” della popolazione. Meglio
definendo vi sono segmenti di popolazione che raccolgono una maggiore propensione di
interesse verso queste tematiche ed è quindi percepibile una densità di interesse per
classi di età. A fomentare tale ipotesi si riporta un’analisi su di una survey globale eseguita
da Nielsen che clusterizza proprio per classi di età il consumo collaborativo. Tale rapporto
mostra come a far da padrone in questa forma di economia siano i cosiddetti millenials
(Nielsen, 2014). Sono loro infatti ad occupare parte del loro tempo in forme di economia
della condivisione; per un valore del 35% del campione. I millennials sono la generazione
compresa tra i 21 ed i 34 anni. Persone pienamente coinvolte nell’odierno sviluppo
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tecnologico che sta favorendo il fenomeno. A seguire questo segmento si vede la
generazione X ovvero quegli individui che hanno tra i 35 ed i 49 anni. Una modesta
partecipazione è ravvisabile nei baby boomers ovvero quella generazione tra i 50 ed i 64
anni. Si riscontra invece una bassa partecipazione nella generazione Z ovvero i soggetti al
di sotto dei 20 anni ma tale indice è comprensibile dal fatto che sia una fascia di età dove
indicativamente si può partecipare attivamente al consumo dai 18 anni in su. Una
considerazione ulteriore si genera in questo segmento sul fatto che tale generazione
potrebbe vedersi imposta un’economia collaborativa e quindi usufruire di tali servizi come
parte integrante del proprio stile di vita. Ancor più scarso interesse invece lo si trova negli
over 65. Le motivazioni potrebbero essere molteplici come la caducità della vita o il fatto
di essere ancor più consapevoli di cosa vuol dire condividere avendo probabilmente
passato tempi bui o semplicemente per il fatto che vi è un gap tecnologico sempre più
incolmabile e che cresce in maniera esponenziale rispetto ai ritmi di un tempo.
Chiaramente tali affermazioni potrebbero sembrare irriverenti ma di fatto essere
parsimoniosi e condividere o meglio ancora razionare le risorse è una questione che vede
origine nella notte dei tempi e probabilmente nessuno come le generazioni più anziane
ha presente tale concetto. Per completezza di informazione, si riporta anche uno studio
pubblicato su Nova24 del Sole24Ore basato su una ricerca di Credit Suisse, che mostra
come il risparmio sia la motivazione principale a condividere. A breve distanza troviamo
anche qui uno spirito di socialità con la definizione più precisa di “sentirsi utili” ovvero
percepire la condivisione come un gesto di mutua utilità. Al terzo posto troviamo “ridurre
l’impronta ecologica” ovvero vi è la percezione di fare qualcosa di positivo ed
ecologicamente giusto per l’ambiente (Nova04, 2015). Spostando l’attenzione invece sulla
geografia del fenomeno è possibile individuare anche la sua distribuzione. Sembra che sia
l’Asia, il Medio-oriente con l’Africa e l’America Latina a vedere la classe dei millennials
maggiormente coinvolta. Per gli altri segmenti invece la situazione è più livellata.
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Figura 18. Share community participation willingness by generation – Fonte: Nielsen Global Survey of Share Communities Q3 2013
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Ad ultimare l’analisi spaziale è opportuno considerare i luoghi dove questa forma di
economia si sviluppa ed ha libero sfogo evolutivo. Si stima infatti che le iniziative di
consumo collaborativo si sviluppino maggiormente nelle Megacity per il 59% delle
probabilità, per il 44% nelle small city e si ha una probabilità del 15% che queste tendenze
si sviluppino in aree rurali (Wagner, 2015). Per Megacity si intendono città con una
popolazione uguale o superiore ai 10 milioni di persone, per Small city quelle al di sotto
dei 10 milioni e per Rural areas si intendono quei luoghi dove non vi sono insediamenti
urbani. Si precisa che tale classificazione non è ufficiale ma è utile unicamente a
comprendere la ripartizione territoriale in funzione del fenomeno. Tale analisi fa
riferimento però al lato dell’offerta. Espresso in termini semplici questo si traduce con
l’individuazione della culla di queste piattaforme all’interno delle aree urbane. Resta da
definire con certezza quali siano i luoghi fertili per questo tipo di economia dal lato della
domanda. Risulta intuibile che le aree urbane siano un buon campo da gioco in quanto
adattabili per questioni di densità di popolazione a molte delle idee creative
dell’economia collaborativa ma resta pur sempre non scritta una precisa potenzialità
territoriale del fenomeno che si proverà a delineare in seguito. Come ulteriore
inquadramento sul coinvolgimento delle persone in questa “nuova” storia economica e
dopo aver visto il chi ed il dove; si ritiene opportuno esporre il come vi si è coinvolti. Per
meglio dire, cosa si vuol condividere e quanto? Sicuramente a causa della loro facile
portabilità ed al facile riadattamento alla persona che possono avere, i beni elettronici
sono i principali oggetti scambiati (28% della popolazione globale). Ciò avviene con
particolare enfasi nei paesi asiatici. Attaccato al fanalino di coda con un 26%, troviamo le
persone disposte a condividere la loro proprietà intellettuale. Pensiamo molto
semplicemente a Wikipedia dove ognuno di noi può integrare l’enciclopedia mondiale con
la propria conoscenza. O se si vuol essere più tangibili, mettere a disposizione le proprie
capacità in cambio di altre prestazioni. Esempio banale: tu mi aiuti con l’inglese ed io ti
insegno a suonare la chitarra. Seguono le persone disposte a noleggiare utensili elettrici
(23%), biciclette, vestiti, elettrodomestici ed articoli sportivi (22%), automobili (21%).
Meno interesse di condivisione si trovano nelle attrezzature da campeggio (18%), beni di
consumo primari come cibo, legna e varie (17%), case (15%) e motocicli (13%) (Nielsen,
2014). Se queste sono le tendenze del fenomeno nel mondo, come lo si percepisce in
Italia?
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Figura 19. Mobilità, baratto, alloggi e servizi culturali le aree con maggiore potenzialità di sviluppo futuro - Fonte: “Sharing economy italiana: chi, cosa, quanto… quando e dove?” – TNS Milano, Novembre 2015
Secondo uno studio di TNS Milano, in Italia vi è una propensione a concepire l’economia
collaborativa come un utile mezzo di scambio e baratto di oggetti. Tale risultato è
pienamente in linea con quanto emerge nella survey mondiale redatta da Nielsen di cui
sopra. A distaccarsi da tale trend sono i settori, per così dire, dal secondo posto in giù.
Risulta infatti che ciò che ad oggi ha maggiormente prolificato sono i servizi di alloggio,
quelli di mobilità e raccolta fondi. Considerazione che vale sia per chi ha già usufruito di
servizi di questo tipo sia per coloro che intendono farlo. Come è presumibile motivare
queste tre tendenze? Sicuramente è possibile farlo basandosi su tre peculiarità che sono
alla base degli assetti economici del Bel Paese. Per capire perché vi sia una propensione
nel favorire i servizi in alloggio a terzi bisogna risalire alla distribuzione della proprietà
immobiliare. Eseguendo un’analisi sui dati dell’Agenzia delle Entrate è possibile scoprire
tale ripartizione. Anche se può essere probabilmente un’informazione di largo dominio,
la maggior parte degli edifici è di proprietà di privati in qualità di persone fisiche, dato
traducibile nella priorità della popolazione residente in una visione di avere come proprio
il “tetto” dove risiedere. Risulta infatti che il 35,8% degli immobili di persone fisiche siano
adibite ad abitazioni principali di cui pertinenze il 23,6% (cantine, box, altro). È
interessante notare inoltre che l’11,6% degli immobili è a disposizione, quindi
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configurabili come seconde case liberamente usufruibili dai proprietari e non soggette a
locazione. Infine solo il 9,6% è in locazione. La percentuale residuale è attribuita ad altre
tipologie di utilizzi. Questa suddivisione è riscontrabile nell’88,1% dello stock di proprietà
e quindi il rimanente 11,9% della proprietà immobiliare è da attribuire a persone non
fisiche. Anche all’interno di questa modesta percentuale, il numero degli immobili locati
è pari all’11,3% (AgenziaEntrate, 2015). Da tali dati è asseribile che vi è un’elevata
potenzialità abitativa disponibile alla condivisione ed è presumibile che il trend in
aumento nella domanda di servizi di questo genere possa avere carburante da questa
configurazione degli asset immobiliari.
Figura 20. Utilizzi degli immobili di persone fisiche –Fonte: Agenzia Delle Entrate, Immobili 2015
Figura 21. Utilizzi degli immobili di persone non fisiche – Fonte: Agenzia Delle Entrate, Immobili 2015
Cosa accadrà in futuro in Italia da tutto ciò è da scoprire. I più acclamati dubbi da questo
settore sono legati alle potenziali ripercussioni che piattaforme come AirBnB possono
avere sulle sue alternative concorrenziali più classiche come ad esempio gli alberghi. Se
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andiamo oltre l’Oceano Atlantico e diamo un’occhiata alle città del Texas ed in particolare
ad Austin, possiamo vedere come la piattaforma citata ha avuto un impatto negativo tra
l’8 ed il 10% sui ricavi degli hotel (Georgios Zervas, 2015). Oltre alla questione economica,
la dimensione concorrenziale è legata anche a problematiche normative. Vi sono infatti
questioni in sospeso su come tassare questa forma economica e su come normarla al fine
di poter creare, o meglio non stravolgere drasticamente il mercato dell’ospitalità
(Guttentag, 2015). Non si sta qui ad indagare cosa sia giusto o sbagliato e probabilmente
a farlo ci penserà la politica; un fatto è però certo cioè molti hotel stanno trasformando
AirBnB da nemico ad amico. Per meglio dire alcuni proprietari di hotel utilizzano tale
piattaforma per offrire a potenziali ospiti le loro stanze. Questo non viene solo fatto per
avere un luogo ricercato dove poter acquisire nuovi clienti ma anche per una questione
economica. Molte OTA infatti offrono i loro servizi (ai clienti) con commissioni fra il 10%
ed il 25% mentre AirBnB chiede il 3% (Kessler, 2015). Come si è detto in precedenza,
“carburante” per sostenere queste evoluzioni è assai disponibile. Spostando l’attenzione
sul secondo fattore rilevante ovvero la mobilità per capire come le piattaforme di
carsharing e carpooling possano avere un futuro importante, è necessario indagare il
settore dei trasporti. Si riporta qui di seguito l’analisi d’insieme eseguita dall’Istat dalla
sezione NoiItalia su quanto concerne l’attuale stato della mobilità per motivi di studio e
lavoro. Viene esclusa dall’analisi il trasporto commerciale in quanto non molto influenzato
ad ora dall’ economia collaborativa ed inoltre il focus generale è sul consumo e non
sull’industria. Di seguito si cita quanto definito dall’ente statistico: “La maggior parte degli
spostamenti per motivi di lavoro e studio avviene con mezzo proprio. Gli spostamenti
quotidiani di coloro che escono per motivi di studio o di lavoro hanno un impatto
significativo sia sulla qualità della vita dei singoli individui, sia sul contesto in cui
avvengono, soprattutto se vengono effettuati con mezzi di trasporto privati. La maggior
parte delle persone - nel 2014 risultano essere il 71,8 per cento degli studenti e l’88,1 per
cento degli occupati - utilizza un mezzo di trasporto e in particolare l’automobile: come
passeggeri per il 35,8 per cento degli studenti e come conducenti per il 68,3 per cento degli
occupati. Il mezzo pubblico o collettivo è utilizzato soprattutto dagli studenti (32,7 per
cento), molto meno dagli occupati (11,4 per cento) e anche lo spostamento a piedi è più
frequente tra gli scolari e gli studenti che tra gli occupati (27,7 per cento contro 11,1 per
cento). Analizzando le modalità di spostamento a livello territoriale si nota una maggiore
propensione ad andare a piedi nel Mezzogiorno (il 33,9 per cento tra gli studenti e il 15,2
per cento tra gli occupati). Nel Centro-Nord si rileva un uso più elevato dei mezzi di
trasporto per gli studenti (75,5 per cento) e per gli occupati (89,6 per cento). Osservando
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nel dettaglio il tipo di mezzo di trasporto utilizzato, quello pubblico collettivo è impiegato
soprattutto nel Centro per quanto riguarda gli studenti (37,4 per cento) e nel Nord-ovest
per quanto riguarda gli occupati (14,6 per cento). Nel Nord-est si evidenzia la quota
maggiore di studenti che si spostano in automobile come passeggeri (39,2 per cento),
mentre la quota più bassa si registra nel Mezzogiorno (34,1 per cento). Il Nord-est ha
anche la percentuale più alta di occupati che si spostano in auto come conducenti (71,2
per cento)” (Istat, 2014). La “gomma” ha quindi un peso rilevante negli spostamenti e
favorire sistemi di mobilità che possano agevolare la riduzione del traffico, diminuendo
l’impatto ambientale e ripartendo i costi; può avere terreno fertile. L’ultima delle tre aree
di interesse è quella legata al fundrising. Le varie sfaccettature che esso può assumere
sono già state descritte in precedenza. Riprendendo brevemente quanto esposto sopra
sul trend dei prestiti presso gli intermediari finanziari, cioè il loro andamento in calo, si
nota come in concomitanza con tale trend e compatibilmente con esso; il risparmio sia in
aumento. Questo significa che le famiglie lasciano in stagnazione le proprie disponibilità
economiche presso gli istituti finanziari; dato che riflette la scarsa fiducia negli
investimenti di rilevante portata e lascia costante il divario tra ricchi e poveri se non
aumentandolo (Malagutti, 2015). Questo fattore in correlazione con la scarsa fiducia
verso gli investimenti rilevanti può aver dato adito ad una maggiore attenzione verso
progetti il cui impegno può essere non così vincolante e dove la questione sociale di
mutuo aiuto può aver ulteriormente spostato la leva. È inoltre da considerare che vi è
anche un maggior interesse da parte di coloro che si pongono come obiettivo lo sviluppo
di un’idea, quello di tentare comunque la via del fundrising (crowdfunding e altre forme)
per ottenere dei finanziamenti. Si può venire a creare una specie di circolo virtuoso che
alimenti sempre più questa forma di credito. Ad oggi si possono vedere finanziati sia
progetti da pochi euro sia progetti importanti; il futuro ci dirà se tali forme di
finanziamento si adatteranno a specifici livelli di investimento e/o settore economico,
soprattutto su come reagiranno gli intermediari finanziari classici nel lungo periodo. Per
concludere la riflessione vi è comunque da considerare l’affinità del consumatore verso il
settore da finanziare che resta comunque una componente da non sottovalutare nel
catturarne l’attenzione. Dopo tutto quello che è stato definito circa le motivazioni, la
struttura e le preferenze dei consumatori dell’economia collaborativa; si può attribuire un
nuovo ruolo al consumatore o meglio estendere la sua capacità di azione nel mondo
economico. Si possono cogliere infatti le possibilità produttive in termini di beni e servizi,
seppur limitate, che anche il singolo può mettere a disposizione degli altri. Per riassumere
tale doppia sfaccettatura con cui può vestirsi il consumatore, è stato coniato il termine
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prosumer. Non è una definizione attuale bensì si ripropone nuovamente come una moda
per facile adattabilità al contesto. La sua prima apparizione la si trova nel libro di Alvin
Toffler The third wave (1980): deriva dalla fusione dei termini produttore e consumatore.
Nel suo primo significato esso intendeva rappresentare i consumatori che videro la fine
dalla produzione seriale di massa e che si ritrovavano a dover scegliere tra una
molteplicità di gusti e tendenze all’interno delle società occidentali. Dopo un suo lungo
inutilizzo, il termine prosumer risorge nell’era digitale a causa del fenomeno che vede la
Rete autoalimentarsi di contenuti ed informazioni.
Figura 22. Person of the Year – Fonte: Time, 25 december 2006 – 01 january 2007
Evolvono dal 2001 in poi, i siti che permettono agli utenti di condizionare a vicenda il
proprio comportamento: i motori di ricerca dove l’utente, in base alle sue ricerche,
determina il prezzo delle inserzioni pubblicitarie; il commercio elettronico viene regolato
dalle recensioni e dalle valutazioni; i blog e siti in genere sono a carattere partecipativo
(Menduni, 2008). In definitiva da quanto emerge dalla Rete, si può dire che la massa intera
dei consumatori è sempre più determinante nel delineare le politiche stesse del consumo
grazie agli strumenti forniti dall’era digitale. La sfida e riuscire a comprendere come
coniugare al meglio queste possibilità e convogliarle verso un loro uso in un’ottica di
miglioramento delle condizioni di sostenibilità ambientale e miglioramento degli stili di
vita.
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Il consumo collaborativo: inquadramento e collocazione della sharing
economy
Dopo aver parlato di come funziona l’economica collaborativa, dopo aver dato qualche
esempio pratico e dopo aver descritto chi sono i suoi consumatori, si rende opportuno
fornire qualche definizione ed inquadramento generale. La presunzione di voler
introdurre solo ora le definizioni è dovuta al fatto che si è preferito cercare di stimolare
prima la curiosità del lettore attraverso la realtà del settore dando qualche esempio col
fine di dare un input per procedere con ricerche sul Web. È quindi dopo essersi “sporcati
le mani” sulla tastiera ed avendo dato uno sguardo al panorama che si può creare un filo
di pensiero con quanto i ricercatori del settore si sforzano di classificare. Come già narrato
in precedenza, l’economia collaborativa non è in sé qualcosa di innovativo ma
comprendere come essa, attraverso la sua sinergia con l’evoluzione tecnologica, dia una
percezione potenziale di poter gestire, cambiare e rivoluzionare le società; crea una
situazione ignota in cui la tensione per l’attesa di poter sapere i suoi sviluppi risiede a pelo
d’erba come una tigre che freme di azzannare la sua preda sperando che quest’ultima non
si accorga della sua presenza. Si è voluta usare una metafora da romanzo salgariano per
introdurre come anche misurare in termini economici il fenomeno sia assai difficile, ed in
ulteriore composizione, “snervante” per gli analisti. Secondo Credit Suisse, nello
spostamento dell’economia dai settori tradizionali a quelli della condivisione vi è sempre
più difficolta a misurare il reale valore economico prodotto, impendendo di rilevare con
completezza il quadro economico generale di un paese (Feubli, 2015). Attualmente
l’economia della condivisione non è quindi misurabile con esattezza e ci si chiede se vi
sarà la necessità di modificare i calcoli degli attuali indicatori economici per riadattarli ad
i nuovi modelli economici. Il problema che emerge è quindi nella difficoltà di misurare il
fenomeno su dimensione globale. In realtà non è che vi è una mancanza completa di
informazioni, però tali dati si riferiscono più a stime che valori assoluti. Pwc ha stimato
che il rental sector tradizionale (noleggio di attrezzature, B&B ed ostelli, prestito libri,
noleggio auto e noleggio dvd), al 2013 avrebbe generato un totale ricavi pari a 240 miliardi
di dollari rispetto ai 15 miliardi generati da settori a questi compatibili della sharing
economy (prestito P2P, online staffing, pernottamenti P2P, car sharing, streaming musica
e video). Nelle loro previsioni al 2025, i settori si spartiranno i ricavi suddividendo a metà
un ammontare globale di 670 miliardi di dollari (PwC, 2013). Non essendo in grado di
avere a che fare con dati certi e non essendoci indicatori in grado di comprendere ad ora
la portata di tale fenomeno, si limiterà la descrizione ad un inquadramento generale
basato sulla conoscenza esistente.
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Un grosso sforzo nell’ordinamento del fenomeno è individuabile nel testo What’s mine is
yours (Botsman, 2010). Dal libro emergono le seguenti definizioni (traduzione libera):
Economia collaborativa: sistemi che rinnovano il valore di asset sottoutilizzati
permettendo l’incontro di domanda ed offerta con modalità che svincolano dall’affidarsi
ad intermediari e canali distributivi tradizionali.
Consumo collaborativo: sistemi che reinventano i tradizionali meccanismi di mercato –
noleggio, prestito, baratto, condivisione, dono – con modalità e scalabilità non possibili
antecedentemente la presenza di Internet.
Economia della condivisione: sistemi che facilitano la condivisione di asset o servizi
sottoutilizzati, con scambio gratuito o a pagamento; direttamente tra individui o
organizzazioni.
La disposizione del testo non è casuale. L’autore annida la sharing economy all’interno di
due precedenti categorie. Inizia dall’economia collaborativa descrivendola come una
forma di collaborazione generica che può anche prescindere dal mezzo tecnologico e può
riguardare non solo l’aspetto del consumo ma anche quello produttivo. Il fatto che escluda
la presenza di intermediari e canali distributivi tradizionali potrebbe far intendere che a
prescindere dal modello commerciale applicato (B2B, B2C, …) si possa instaurare un
collegamento diretto tra due soggetti. L’intuizione più concreta e plausibile da questa
definizione è che non è che vi sia la scomparsa assoluta di un canale o intermediario
quanto piuttosto che questi ultimi non si comportino come gli attori della GDO che
puntano a creare un valore aggiunto sul prezzo finale del prodotto servizio che collocano
sul mercato. L’unica forma di valore che viene creato dall’intermediario-canale
distributivo risiede solitamente in una forma di commissione che acquisisce per poter
mantenere in piedi il sistema senza però andare ad agire in maniera diretta sul valore del
prodotto o servizio. Un’ultima deduzione può anche far sostenere che vi sia una qualche
prevalenza nel mantenere una filiera corta tra i soggetti interessati o per meglio dire una
sorta di sistema “dal produttore al consumatore”. Il consumo collaborativo risiede
all’interno dell’economia collaborativa; specifica modelli di scambio che possono anche
non cedere la proprietà del bene ma soprattutto specifica che queste forme di consumo
alternative alla compra-vendita classica, vedono una facile diffusione grazie alla Rete che
fornisce strumenti in grado di poter organizzare forme economiche attraverso
l’abbassamento di barriere comunicative. Per fare un esempio estremo, la famiglia Polo
ha dovuto ripercorrere l’intera Via della Seta per poter sperare di commerciare con
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l’impero del Khan mentre oggi gli sarebbe bastata un’email. Un altro aspetto utile di
questo esempio ricade nella dimensione del rischio. I costi di transazione, di sicurezza, di
viaggio ai fini dello scambio sono più elevati in quanto implicano un incontro diretto con
la controparte e quindi la valutazione di ogni accordo sarà molto più oculata. Effettuare
uno scambio oggi attraverso la Rete vede abbattuti molti di quei costi ed il ragionamento
“la spesa non vale l’impresa” risulta meno considerato. All’interno del consumo
collaborativo troviamo la Sharing Economy o Economia della Condivisione. Il filtro
applicato qui, interpretando la definizione, risiede nel fatto che a prescindere dal modello
di scambio utilizzato, il bene o servizio in oggetto sia sempre disponibile in qualche modo
al soggetto che pone in atto la condivisione ed inoltre che tale bene o servizio con capacità
d’uso inutilizzata sia posto in essere da un soggetto che appunto ne fa o ne ha fatto o ne
farà un uso diretto. L’autore nello spiegare il significato di capacità inutilizzata intende
anche la distribuzione di un valore che può essere sociale, economico o ambientale. Nella
tassonomia di Botsman vi è in parallelo alla sharing economy una peer economy. Nella
sharing economy vi può essere anche un modello di consumo B2C oltre che P2P mentre
nella peer economy è intuitiva la risposta anche se vi può essere in quest’ultima una forma
di partecipazione collaborativa alla produzione. Un esempio si può avere parlando di
Wikipedia, dove tutti possono contribuire ad incrementare la base di conoscenza con
nuove schede informative piuttosto che aggiornare il lavoro di altri.
Figura 23. Adattamento schema rappresentante l’inquadramento della Sharing economy, collaborative lab – Fonte: http://www.slideshare.net/collablab
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Per completezza di informazione si riportano qui di seguito le principali tipologie di
commercio elettronico:
“Business to Business: si tratta di una locuzione utilizzata nel commercio elettronico o e-
commerce, che di solito prende la forma di processi automatizzati tra partner commerciali,
e che può anche riferirsi a tutte le transazioni effettuate in una catena di valore industriale,
prima che il prodotto finito venga venduto al consumatore finale” (Wikipedia, 2016).
“Business to Consumer: si indicano le relazioni che un'impresa commerciale detiene con i
suoi clienti per le attività di vendita e/o di assistenza. Questa sigla è utilizzata soprattutto
quando l'interazione tra impresa e cliente avviene tramite internet, ovvero nel caso del
commercio elettronico” (Wikipedia, 2016).
“Consumer to Consumer: si indicano le transazioni che avvengono tra singoli soggetti per
via telematica attraverso appositi siti internet (che fungono da intermediari); tali siti
gestiscono l'ambiente nel quale gli utenti interagiscono, lasciando ampia autonomia nella
regolazione delle modalità delle transazioni che vengono appunto decise dai singoli
venditori e acquirenti. Le entrate di questi siti derivano maggiormente dalla percentuale
che ricevono sulle transazioni degli utenti” (Wikipedia, 2016).
Peer to Peer: è una forma specifica di relazione dinamica, basata su fattori di equità dei
suoi partecipanti, organizzati attraverso modalità di libera cooperazione al fine di
compiere un obiettivo comune attraverso strumenti e strutturazione di scelte decisionali
che sono largamente distribuite in rete (Wikipedia, 2016) - traduzione libera.
È necessario precisare che la definizione di P2P è una bozza.
Sempre riprendendo le parole di Botsman, per far sì che la sharing economy funzioni, sono
necessari alcuni requisiti. Uno è stato già citato ed è la capacità d’uso non sfruttata di un
bene o servizio. Gli altri sono: una massa critica di soggetti interessati e la fiducia in una
comunità.
La forma migliore per descrivere dei requisiti e spiegarli con degli esempi. Che cos’è la
capacità d’uso non sfruttata di un bene? Molto semplicemente il tempo che un oggetto
rimane inutilizzato oppure la mancata possibilità di mettere a disposizione un servizio.
Sempre prendendo spunto dal libro What’s is Mine is Yours; si riporta un esempio
concreto di sottoutilizzo. Nelle case degli Statunitensi vi sono circa 50 milioni di trapani.
Ora un trapano ha un costo, un’obsolescenza e l’aggiornamento delle versioni porta a non
produrre pezzi di ricambio per le vecchie serie. La stima d’uso media totale di un trapano
61
in funzione nel suo intero ciclo di vita va dai 6 ai 13 minuti. Questo implica che per la
maggior parte del tempo l’attrezzo rimane a prendere polvere e considerata l’innovazione
i vecchi trapani inutilizzati saranno molto spesso da buttare. È quasi come se si comprasse
un trapano per ogni buco. Parafrasando quanto detto dal designer Victor Papanek, quello
che in realtà si vuole è il buco e non il trapano (Botsman, 2010). Comprendere cosa vuol
dire massa critica è anche qui assai semplice, quantificare tale valore risulta assai più
complesso. Per massa critica intendiamo un certo numero di persone funzionale a rendere
un sistema di condivisione efficiente ed usufruibile comodamente. Dall’esperienza di
analisi vi possono essere delle soglie minime o massime o entrambe di funzionamento.
Esempi semplici chiariranno i concetti. Una soglia minima di funzionamento la si può avere
quando si vuol fare carpooling; infatti se non si è almeno in due per auto non ha senso
definirlo tale e non si avrebbe un qualche valore di efficienza. Per soglia massima di
funzionamento possiamo pensare all’home renting. Se tutti i proprietari di casa di una
città collocassero un annuncio sulla piattaforma e quindi creando una capacità ricettiva
che supera la reale necessità data ad esempio dall’affluenza turistica, non solo si rischia
di non rendere efficiente il capitale immobiliare della località in quanto non pienamente
sfruttato ma si rischia di porre in essere un mercato concorrenziale tra pari che abbassa i
prezzi dell’ospitalità e magari mette in crisi anche altri settori ricettivi. Come esempio che
abbia entrambe le soglie si può presentare il carsharing ed il bikesharing. In entrambi i
modelli se vi fossero pochi utenti non avrebbe senso implementare un sistema di
condivisione in quanto i costi di gestione del servizio sarebbero troppo elevati per il
gestore del servizio. Di contro se vi fossero troppi utenti il servizio si saturerebbe in fretta
e anche in caso di espansione si arriverà comunque ad un punto dove ci si scontrerà con
il limite di risorse a disposizione. A questo punto il prezzo minimo di utilizzo del servizio
dovrà essere sufficientemente elevato da rendere agevole il suo consumo perlomeno ad
una cerchia ristretta di utenti ma che al contempo ripaghi i fattori produttivi; il risultato
sarà di un innalzamento della soglia minima di utilizzo in termini economici ed una soglia
massima data dalla disponibilità di risorse. Questi ragionamenti inducono a pensare che
vi possa essere una qualche possibilità di modellare economicamente, almeno in parte,
fenomeni di economia della condivisione con la teoria dei club goods (Buchanan, 1965).
Che cosa sono i club goods? Sono beni che si trovano a metà strada fra i beni pubblici ed
i beni privati. In breve un bene pubblico si ha quando esso è disponibile per un numero
potenzialmente infinito di individui e non è rivale nel consumo. La situazione opposta si
ha per un bene privato. I beni di club in particolare sono caratterizzati da una bassa rivalità
e da un’alta escludibilità. Ovvero difficilmente si possono far valere vincoli di accesso al
62
consumo di un bene (potenzialmente chiunque ne faccia richiesta può utilizzarlo) ma al
contempo se qualcuno sta usando quel bene in un determinato periodo di tempo è
impossibile farlo utilizzare ad un altro individuo o al più vi è un numero massimo
funzionale di individui che lo possono utilizzare nel medesimo periodo. Quali sono i beni
classici definibili di club? Le piscine pubbliche, le autostrade, le aule studio, i parcheggi, le
sale cinematografiche e molti altri. A chiunque è concesso di usufruire di quei beni, ed in
questo senso vi è una bassa rivalità data unicamente dal prezzo del bene (beni come le
aule studio possono sembrare gratuiti ma il prezzo è incluso all’interno delle tasse
universitarie). D’altro canto se troppi individui usassero quel bene contemporaneamente
si incorrerebbe in una congestione. Buchanan modellizza questa teoria e semplifica la
comprensione ideando un grafico che mostra come appunto variano i benefici ed i costi
su beni di questo tipo. Tali valori sono condizionati dal numero di individui che
usufruiscono del bene contemporaneamente in un dato periodo di tempo e dalla quantità
usufruibile di quel bene. È possibile comprendere il comportamento economico degli
individui dal grafico sottostante. Partendo da N=1 si vede un solo individuo che valuterà
ad E1 il beneficio di utilizzare unicamente per sé il bene e Y1 sarà il suo costo per poter
utilizzare quel bene. Con l’aumentare del numero di persone si nota che la curva dei costi
tenderà a zero mentre quella dei benefici sarà parabolica. La distanza massima tra la curva
dei benefici e quella dei costi sarà il massimo beneficio netto. Nel caso la quantità totale
del bene aumenti; le curve trasleranno e diventeranno Bn e Cn. Il problema nell’analisi di
questo tipo di beni è identificare non solo la quantità ottimale di bene ma anche il numero
ottimale di individui che massimizza l’utilizzo del bene in un determinato periodo di
tempo.
63
Figura 24. Curve costi benefici club goods – Fonte: Buchanan, 1965
La soluzione del problema di massimizzazione si ha quando i benefici marginali ottenibili
dal far partecipare un membro in più nel club sono uguali ai costi marginali dell’utilizzo
del bene con quell’individuo in più. La teoria economica inoltre mostra che tutte le
soluzioni ottimali per l’individuo per il numero di persone e per la quantità di bene.
L’ottimo si avrà nel punto G che vede la quantità che consente il soddisfacimento massimo
dell’individuo in relazione alla dimensione del club. Oltre quel livello qualsiasi aumento
della disponibilità del bene ed aumento del numero di individui ottimali comporteranno
livelli di soddisfacimento non massimizzati. Quanto appena detto è raffigurato nel grafico
sottostante.
64
Figura 25. Curve quantità e numero individui ottimali – Fonte: Buchanan, 1965
Chiaramente non si può asserire che fra sharing economy e teoria dei club goods vi sia
una completa adattabilità. Prima di affermare tale ipotesi è necessario procedere in una
profonda analisi settoriale di tutti i modelli prevalenti.
Da uno studio di Camagni riportato su un documento dell’Associazione Italiana Scienze
Regionali; si riesce a comprendere una tassonomia dei beni, incardinati per la loro rivalità
e la loro materialità. Si descrive come “quadrato tradizionale” quello formato dai quadrati
agli angoli della matrice mentre la croce centrale viene definita come “innovativa”. La
versione, forse più famosa, di questa matrice vedrebbe sull’asse orizzontale l’escludibilità
che in parole semplici significa comprendere se anche chi non ha pagato un prezzo può
godere o meno di un determinato bene. In questo caso però un’analisi che considera la
materialità si presta meglio all’inquadramento del fenomeno.
65
Qui di seguito si riporta la tabella elaborata da Camagni (Camagni, 2015).
Tabella 1. Tassonomia teorica delle componenti del capitale territoriale - Fonte: Lo sviluppo territoriale nell'economia della conoscenza: teorie, attori, strategie.
Riv
alit
à Rivalità alta
(beni privati)
Capitale fisso privato
Esternalità pecuniarie
(hard)
Beni pubblici tariffati
(escludibili)
Servizi privati
relazionali:
- Rapporti esterni delle
imprese
- Trasferimento di
risultati R&D
Spin-off università
Capitale umano:
- Imprenditorialità-
creatività
- Competenze private
Esternalità pecuniarie
(soft)
(beni di club)
(beni pubblici
impuri)
Reti proprietarie
Beni collettivi
(Paesaggio, cultural
heritage, risorse
culturali “di sistema”)
Reti di cooperazione:
- Alleanze strategiche
- Servizi in partenariato
p/p
Governance su suolo e
risorse culturali
Capitale relazionale
(associazionismo):
- Cooperazione
- Azione collettiva
- Reputazione
(beni pubblici)
Rivalità bassa
Risorse (naturali e
culturali puntuali)
Capitale fisso sociale
Agenzie di transcodifica
R&D
Sollecitatori di
ricettività
Connettività
Economie di
agglomerazione
Capitale sociale
(civicness):
- Institutions
- Comportamenti
- Valori
- Rappresentazioni
Beni materiali
(hard)
Beni misti
(hard + soft)
Beni immateriali
(soft)
Materialità
Nella narrazione si rileva l’importanza della “croce innovativa” ma per una comprensione
globale della matrice si rinvia a studi sulla classificazione dei beni. L’inquadramento che
più si omogenea con le peculiarità riscontrate fino ad ora con la sharing economy; è
riscontrabile nella riga centrale della tabella. Sull’asse verticale della riga considerata
troviamo una un’ulteriore suddivisione della rivalità in beni di club e beni pubblici impuri.
Sull’asse orizzontale troviamo una scala di tangibilità dei beni; senza dilungarsi troppo si
passa da beni materiali a beni immateriali passando per quelli che si compongono di
entrambe le forme (esempio: in una fusione aziendale si possono avere nuovi macchinari
e nuove conoscenze-competenze per usarli). Si inizia partendo dalla cella centrale della
prima colonna. Nella sharing economy molto spesso si affrontano beni che hanno
66
caratteristiche di bassa rivalità ed alta escludibilità. Riprendendo nuovamente le forme di
carsharing e carpooling e portando l’analisi su un piano più dettagliato, notiamo che non
vi è una particolare rivalità in quanto i beni anche se tangibili vengono messi in gioco con
un’ottica di equità. Ovvero chi detiene la proprietà del bene cede questo in uso a chiunque
ne faccia richiesta, certamente con tempi e modalità definiti (eventualmente da un
intermediario), ma senza vincolare determinati soggetti al suo uso. Per il carpooling chi
prima si prenota può prendere un passaggio ed idem per chi trova prima un’auto libera
nel carsharing. Per quanto riguarda l’escludibilità invece risulta più evidente nel momento
in cui si tratta di beni tangibili. Banalmente se in un dato momento l’auto è in circolazione
questa non è utilizzabile da altri. In questo senso vi è una perfetta analogia con le reti
proprietarie. Ad esempio sulla rete proprietaria dei trasporti vi può transitare chiunque
(bassa rivalità) ma viaggia solo chi è disposto a pagare il prezzo della tratta (alta
escludibilità) ed in casi estremi finché c’è posto sulla strada. È qui che si possono analizzare
le considerazioni sui limiti di soglia inferiore e superiore. Infatti se pochi utilizzano
l’autostrada il prezzo del biglietto sarà elevato perché su di essi dovrà ricadere l’intero
costo di gestione della tratta. Viceversa se si è in troppi ad utilizzarla non si otterranno i
benefici di scorrimento veloce desiderati. Per il carsharing il ragionamento può essere
simile. Se troppe poche persone utilizzano il servizio il costo orario dell’auto sarebbe
troppo elevato e converrebbe acquistare un’auto personale nel lungo periodo viceversa
se troppe persone richiederebbero il carsharing ci si avvicinerebbe al limite di fornire
un’auto per le esigenze di ognuno. Scenario quasi impossibile perché come detto in
precedenza vi sarebbe un vincolo di risorse dedicabili. Nel carpooling avremo solo un
limite inferiore che deve essere dato dal numero di persone minimo funzionale a
condividere una tratta. Il limite superiore esiste ma non è rilevante in quanto fisicamente
vi è una possibilità limitata di persone per auto e su scala aggregata il fenomeno porta a
ridurne il numero e non ad aumentarlo. Non vi sono quindi i presupposti per una
congestione se non che in un caso estremo o quasi utopistico almeno oggi; il numero di
persone che richiede il carpooling superi abbondantemente il numero di auto in
circolazione. Il riferimento al settore dei trasporti è stato utilizzato perché si ritiene che si
possa avere una maggiore familiarità nel contestualizzare anche mentalmente le
considerazioni date. Per quanto riguarda i beni materiali in generale è plausibile un
ragionamento simile pensando ad i beni in prestito, all’home renting ed al co-working. Vi
sono invece livelli di più elevata rivalità se si pensa a forme di cohousing a lungo termine.
Spostandosi sulla cella centrale della terza colonna, si vede Camagni descrivere il capitale
relazionale come “l’insieme dei rapporti bilaterali/multilaterali che sono sviluppati dagli
67
attori locali, sia all’interno che all’esterno del territorio locale, facilitati da un’atmosfera di
interazione e fiducia, condivisione di modelli di comportamento e di valori.” (Camagni,
2015). Se si considera che quando l’autore scrisse tale definizione probabilmente non
aveva in mente la sharing economy, si può dire che sia stato abbastanza premonitore. Per
rendere però la definizione più corretta nell’ambito dell’economia della condivisione,
bisogna integrarla considerando anche attori globali che portano ad agire gli attori locali
con nuove forme di interazione. La concretezza intangibile del capitale relazionale la si
può riscontrare nelle community virtuali che sono la rappresentazione delle interazioni,
della fiducia, del comportamento e valori condivisi. Come molti avranno intuito è qui che
risiede il secondo requisito cioè quello della fiducia in una comunità. Considerata
l’eterogeneità delle scienze coinvolte nel fenomeno, si ritiene necessario interrompere la
spiegazione, spiegando che cosa si intende per virtual community.
Le comunità virtuali, dalla definizione di Rheingold, sono aggregazioni sociali che
emergono nella Rete quando un quantitativo sufficiente di persone mantiene delle
relazioni costanti per un indefinito periodo di tempo, con almeno un uso sufficiente
di sentimento umano, che permettono di formare reti di relazioni personali nel
cyberspazio. Il termine cyberspazio è stato ideato dall’autore di opere
fantascientifiche William Gibson per intendere un luogo concettuale dove parole,
relazioni umane, dati, salute e forze sono manifestate dalle persone attraverso la
comunicazione generata attraverso i computer (Rheingold, 1993). Sempre secondo
l’autore le comunità virtuali incoraggiano forme di interazione che possono avere un
focus su di un particolare interesse oppure unicamente per comunicare. Il riferimento
dell’autore si incentrava su strumenti quali servizi di messaggistica, chat rooms, siti di
social networking e mondi virtuali. La connessione tra una comunità classica (quella
di una parrocchia, di un quartiere, di una scuola, ecc) e una comunità virtuale risiede
nel fatto che entrambe forniscono forme di mutuo aiuto, forniscono informazioni, si
instaurano legami e vi sono forme che permettono aggregazione fra sconosciuti
(Wellman, 1999). Questa forma di comunità con l’uso degli strumenti poco fa citati, è
parte integrante della sharing economy. Quanto spesso è possibile aggiungere nuovi
contatti o iscriversi a piattaforme attraverso i social network? Se avete mai utilizzato
un servizio di carpooling; come vi siete messi d’accordo con l’autista o coi i vostri
passeggeri? E prima di contattarlo avete per caso guardato la valutazione e le
recensioni degli individui? Vi è mai capitato di voler partecipare ad un evento di social
eating ed avete chiesto qualche informazione sul menù ed aver scelto l’evento sulla
68
base dei commenti degli altri? Quanto spesso cercate su TripAdvisor un ristorante e
cercate di capire in che posizione si trova rispetto agli altri? Sapete cosa ha generato
quel ranking? Gli esempi di come comunità virtuali supportano l’economia
collaborativa in generale possono essere svariati. Il fulcro della questione risiede nel
fatto che una massa critica di individui partecipanti ad una comunità virtuale
“nascosta” all’interno di una piattaforma, può condizionare le scelte della comunità
stessa attraverso i sistemi di valutazione e recensione messi a disposizione dalla
piattaforma stessa al singolo individuo. Molto spesso è possibile definire un ranking
che permette di dare una classificazione a singoli individui o gruppi o attività in genere
che siano esse tangibili o intangibili al fine di poter porre ad altri individui delle basi di
scelta sul bene di interesse (attività commerciali, veicoli, consulenze, informazioni,
servizi di divulgazione, oggetti, autisti, …). Tali meccanismi sono posti in essere per
creare e gestire la fiducia verso gli individui e/o i beni-servizi che fornisce la
piattaforma. Per mantenere in piedi una comunità virtuale si sta scoprendo sempre
più il ruolo del community manager, una posizione che si occupa di gestire la comunità
virtuale, progettarne la struttura e coordinarne le attività (Wikipedia, 2016).
Ora che è stato chiarito il significato ed il ruolo della comunità virtuale, ci si può
dirigere verso la conclusione dell’analisi della tabella che colloca le componenti del
capitale territoriale. Prima di andare a concludere l’analisi dell’ultima casella è però
opportuno completare il discorso rispetto ad i beni intangibili. Nei fenomeni
dell’economia collaborativa dove i prodotti e servizi sono immateriali può non essere
applicabile la teoria del club goods. Se pensiamo ai contenuti presenti su YouTube,
Wikipedia e più in generale tutti i materiali individuabili e scaricabili dalla Rete
gratuitamente o senza particolari restrizioni di accesso (immagini, video, audio, testo,
software) hanno valore in termini di conoscenza ma posseggono una bassa rivalità ed
escludibilità. Queste forme di conoscenza sono prodotte anch’esse con l’ottica della
condivisione ma potenzialmente tutti coloro che possono avere accesso alla Rete vi
possono accedere certamente finché la banda sia sufficiente per tutti. L’ultima casella
che si adatta alla sharing economy è quella centrale. Camagni intitola questo fulcro
come reti di cooperazione (Camagni, 2015). È composto da elementi materiali ed
immateriali tradizionalmente realizzati attraverso forme di collaborazione fra
pubblico e privato o anche solo fra privato. Le identifica come alleanze strategiche per
ricerca e sviluppo nonché creazione della conoscenza. Nell’economia classica tali
69
accordi sono maggiormente vincenti per grandi opere. L’economia collaborativa di cui
la sharing economy, nasce non solo grazie ad iniziative spontanee ma ha supporto da
alleanze tra pubblico e privato o privato con privato. Sono infatti gli incubatori e gli
acceleratori sia pubblici, a partecipazione pubblica che privati, che si occupano di far
crescere idee di impresa al fine di farle diventare startup. In tali luoghi troviamo sia
beni tangibili (spazi, attrezzature) che intangibili (consulenze, testimonianze, know-
how) che nel loro mix permettono di sviluppare nuovi prodotti, servizi, conoscenza.
Molte delle idee di condivisione nascono da queste realtà. In modo reciproco queste
organizzazioni trovano il loro finanziamento dai progressi che le loro startup riescono
a fornire sia in termini economici che di risultati in generale. Vi è quindi una
motivazione a favorire questo circolo virtuoso. Tali luoghi favoriscono anche il
reperimento di fondi necessari alla crescita delle idee. Questi fondi possono avere sia
origine pubblica che privata e organizzazioni che pongono come una delle loro
funzioni la capacità di filtrare le idee che pervengono presso di loro attraverso le
proprie competenze interne; vedono attribuirsi un requisito prelativo da parte dei
finanziatori nella concessione o scelta di investimento dei capitali.
70
Capitolo 3. La sharing economy: un’analisi territoriale e di
sostenibilità
Analisi territoriale: di densità del fenomeno e distribuzione territoriale
Analizzare il potenziale della sharing economy sul territorio nazionale è un compito assai
complesso. Per meglio dire, comprendere quali siano le località che meglio possono far
sviluppare fenomeni collaborativi richiede un’attenta analisi sulla popolazione. La
motivazione è assai semplice; innanzitutto vi sono caratteristiche endogene del territorio:
fattori fisici, economici, sociali e culturali. Da un altro canto vi sono fattori esogeni:
sviluppi politico-economici internazionali, diffusione scientifica, flussi migratori. La
variazione di questi fattori muta il comportamento di una popolazione. Se poi il fenomeno
da analizzare non mostra delle caratteristiche instradabili su binari precisi, ci si trova in
una situazione di dover fare alcune supposizioni. Purtroppo questo è il caso in questione.
Come già precedentemente analizzato, non si possiedono indagini universalmente
attendibili riguardo al fenomeno tanto meno degli indicatori; quindi per comprenderne le
dinamiche sul territorio, risulta necessario aggregare le informazioni generalmente
accettate e supporre di poter definire delle località territoriali maggiormente predisposte
al fenomeno rispetto ad altre. Dalle indagini già citate nel Capitolo 2, ed in particolare
nella sezione che cerca di identificare l’individuo più propenso a forme economiche di
condivisione, si estrae un ulteriore dettaglio di segmentazione. In particolare per l’analisi
in questione oltre ad aver compreso come siano i millennials i più propensi, si deve portare
in evidenza che ad oggi l’economia della condivisione è più frequente nei soggetti con un
elevato grado di istruzione ed anche presso gli individui con un livello reddituale medio,
medio-alto (Ipsos, 2014). Vi sono ulteriori indizi di segmentazione in tale analisi ma non
tutti sono omogenei con i risultati delle altre survey sul settore e quindi come
precedentemente definito si rimanda ad utilizzare solo queste informazioni. È qui che
risiede la supposizione ovvero di poter identificare quella parte di popolazione che
potenzialmente può essere più disponibile ad adattarsi a questa forma economica;
considerando come variabili degli indicatori che non potrebbero considerare pienamente
il fenomeno o magari essere solo parzialmente comprensivi della realtà. Essendo però
questi in comune alle diverse ricerche, si ha la presunzione di ipotizzare che esse siano le
principali direttrici del fenomeno. Nell’analisi in questione si definisce un intervallo di età,
una o più fasce di reddito ed il livello di istruzione. Le informazioni per le analisi sono state
reperite per quanto riguarda l’età ed il livello di istruzione dal sito dell’Istat (Istat, 2011).
71
In particolare ci si è riferiti alle analisi sulla popolazione rispetto ai SLL in quanto risulta la
ripartizione più idonea in un’ottica di analisi economica nel senso che essi racchiudono le
dinamiche della popolazione rispetto alle sue azioni reali sul territorio (sociali,
economiche). Demarcazione più utile rispetto all’utilizzo di confini amministrativi. Le
informazioni rispetto ad i livelli reddituali sono state reperite dal sito del Ministero delle
Finanze sull’anno d’imposta 2014 redditi 2013 (MEF, 2015). Il database appena citato
riporta le informazioni considerando come unità statistica i comuni. Una volta individuate
le fonti, è necessario supporre se, come intuibile a livello di consapevolezza generale, tali
individui si collochino maggiormente in aree urbane e se sì in quali. La somma di tali
informazioni è utile nel concretizzare quanto premeditato nel Capitolo 2 in merito ai
luoghi che favoriscono lo sviluppo delle forme collaborative in analisi. Se infatti esistono
già documenti sulla distribuzione delle piattaforme e delle iniziative collaborative sul
territorio che possiamo definire come offerta collaborativa, troviamo difficoltà nel
reperire qualche localizzazione della domanda collaborativa. È proprio quest’ultima
definizione che riassume lo studio che si sta per esporre. Prima di procedere però in tal
senso si vuol dare un qualche “assaggio” dell’offerta collaborativa senza essere troppo
dettagliati ma è opportuno dare una visione d’insieme. Secondo un’analisi condotta da
Collaboriamo.org, le piattaforme dell’economia collaborativa in Italia sono per l’81% di
origine Nazionale, il 2% sono promosse da enti istituzionali, il 17% sono straniere
(Mainieri, 2014). Sempre secondo lo stesso rapporto i settori trainanti sono il
crowdfunding, i trasporti, il turismo ed il lavoro. Quando poi il rapporto si dedica alla
geografia delle piattaforme, esso definisce quanto segue: “Il 64% delle piattaforme sono
nate al nord Italia e in particolare tra la Lombardia (16 a Milano, 1 a Monza, 1 a
Bergamo, 1 a Varese), e il Piemonte, dove le 8 aziende presenti si concentrano su Torino.
Al di fuori di queste regioni troviamo una sola compagnia a Rovereto. Il 22% degli
intervistati, invece, ha lanciato il proprio servizio fra Roma (5 piattaforme) Firenze (2),
Civitanova Marche (1) e San Benedetto del Tronto (1). Non sono state rilevate, al
momento, aziende al sud d’Italia, mentre, di contro, si registra un interessante movimento
nelle isole: 5 le piattaforme aperte in Sicilia – 3 a Palermo, 1 a Catania, 1 a Caltagirone - 2
in Sardegna (Serramanna e Sassari). Ovunque rimane un fenomeno prevalentemente
urbano.” (Mainieri, 2014). Quanto appena citato considera le piattaforme nel panorama
dell’economia collaborativa. Se invece andiamo ad analizzare più in generale
l’imprenditorialità innovativa è interessante comprendere la dispersione territoriale delle
startup. Tale indicazione è utile a capire quali sono le località che spingono il progresso.
In tal senso si riporta a titolo esplicativo un’infografica prodotta da digitalic.it su dati delle
72
Camere di Commercio che rappresenta la crescita delle startup in Italia e la loro
numerosità a livello regionale (Marino, 2015).
Figura 26. La corsa delle startup - Fonte: Marino, 2015
Dall’immagine è possibile comprendere come il Nord sia il contenitore più grande di
progetti innovativi nell’aggregato. È però interessante comprendere come Lazio,
73
Campania e Sicilia si comportino egregiamente. L’altra questione notevole è la crescita
esponenziale che queste forme aziendali neonate stanno avendo. Permettendo un
parallelismo fra quanto definito da Collaboriamo.org e quanto risulta dall’infografica;
sembra plausibile che le aree urbane delle regioni più prolifiche in termini di
imprenditorialità innovativa siano quelle che promuovano maggiormente anche le forme
di economia collaborativa. Ora che una breve dimensione dell’offerta collaborativa è stata
fornita, si può ritornare all’individuazione della domanda.
Per comprendere quali siano le aree urbane di maggior rilevanza sul territorio, si è
scandagliato l’ultimo rapporto dell’Istat sui SLL intitolato “La nuova geografia dei Sistemi
Locali”. L’informazione estrapolata vede identificate come principali realtà urbane e
relativi Sistemi Locali, i seguenti nomi:
Figura 27. Comuni, popolazione residente e superficie dei sistemi locali delle principali realtà urbane – Fonte: Istat, 2015
Avendo come punto fermo quanto espresso dall’Ente statistico Nazionale, si è andata ad
individuare la localizzazione nei SLL dei mIllennials. A tal scopo è stato estratto dal
database della popolazione dei SLL citato prima, il numero di individui appartenente alla
fascia di età considerata dal gruppo (nel documento la ripartizione iniziava da 20 anni
rispetto che da 21; si è deciso di non modificare il dataset in quanto un anno come
margine lo si ritiene ininfluente ai fini dell’analisi). La rilevazione sull’istruzione è presa dal
numero di individui che risiedono in una medesima località da almeno 6 anni ed anno
74
raggiunto un livello di istruzione che comprende almeno una laurea di primo livello; si è
deciso di escludere coloro che posseggono un titolo di licenza media superiore per
rimanere coerenti con quanto indicato nelle survey. Per le fasce di reddito sono state
estratte le frequenze di individui che hanno un reddito compreso fra i 15000 ed i 26000
euro ed un reddito fra i 26000 ed i 55000 euro. Gli obiettivi dell’analisi sono due. Il primo
è comprendere quale percentuale di millennials sia individuabile all’interno dei SLL delle
principali aree urbane. In concomitanza con questo si cerca di capire se tale
addensamento si possa individuare anche per coloro con un livello di istruzione medio-
alto e con un livello di reddito delle fasce considerate. Una volta compreso questo dato è
necessario verificare, sui valori assoluti delle categorie selezionate, se vi è una
corrispondenza tra le località urbane principali e le località contenenti i valori più elevati
delle categorie.
Il primo passo è definire la relazione dimensionale del campione in analisi rispetto al totale
della popolazione italiana. È rilevante notare come i millennials rappresentino circa un
quarto della popolazione italiana. Per quanto riguarda invece gli individui con
un’istruzione medio-elevata che siano residenti da almeno 6 anni, ci si attesta in un valore
di 10,5 unità percentuali. Il totale di coloro che risiedono nelle fasce di reddito più
soggette dal fenomeno sono circa il 34% della popolazione. Quanto emerge da questa
analisi, ricordando che si stanno trattando dati Istat 2011, fa riflettere come sia
assoggettabile alla sharing economy un bacino massimo potenziale tra i 15 ed i 20 milioni
di abitanti. Chiaramente si parla di stime spannometriche. Asserire che sia quello il
mercato massimo è un errore grossolano ma è un dato indicativo quantitativo di coloro
che potrebbero essere più propensi nell’aderire al fenomeno. Oltretutto vi è da dire che
sarebbe stato un altro grosso errore filtrare gli individui che abbiano in comune la somma
delle caratteristiche selezionate. Errore in quanto non sono categorie che escludono
mutualmente il consumo collaborativo.
75
Tabella dati generali delle classi selezionate confrontate con i totali delle classi sull’intera
popolazione del territorio italiano
Dati in rapporto alla Popolazione Italiana Valori %
Millennials 21,84
Popolazione residente totale da 6 anni e più - laurea vecchio e nuovo ordinamento+diplomi universitari+diplomi terziari di tipo non universitario vecchio e nuovo ordinamento
10,55
Popolazione con Reddito fra i 16000 ed i 25000 euro 20,95
Popolazione con Reddito fra i 25000 ed i 55000 euro 13,15
Somma Popolazione delle due fasce di reddito 34,10
Elaborazione su dati Istat 2011
Ora che si è compresa la portata massima del fenomeno, si può passare alla sua pesatura.
È infatti opportuno ora capire la distribuzione geografica delle classi considerate. Secondo
l’intuizione di fondo secondo per cui le aree urbane meglio si prestano da “nido” alle varie
forme di collaborazione, si sono ricercati i valori delle categorie in analisi sui SLL delle
principali aree urbane definite dall’Istat.
76
Tabella delle classi selezionate nelle principali realtà urbane definite dall’Istat.
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ROMA 583.688 564.916 486.287 496.181 982.468
MILANO 520.207 578.838 257.827 245.903 503.730
TORINO 199.054 269.365 204.488 143.218 347.706
GENOVA 91.029 91.280 140.867 110.414 251.281
NAPOLI 230.152 500.493 123.549 95.167 218.716
BOLOGNA 130.962 127.107 95.218 72.899 168.117
PALERMO 91.056 171.157 91.967 73.767 165.734
FIRENZE 103.902 100.270 82.835 67.489 150.324
VENEZIA 66.328 88.720 63.390 46.720 110.110
VERONA 56.764 73.982 60.314 41.685 101.999
BARI 80.504 136.627 56.718 43.659 100.377
TRIESTE 33.024 30.814 52.020 39.139 91.159
PADOVA 87.946 106.547 44.151 36.042 80.193
CATANIA 73.212 131.145 43.017 29.377 72.394
MESSINA 36.359 49.247 38.002 28.198 66.200
TARANTO 32.871 72.236 36.306 26.834 63.140
CAGLIARI 61.669 90.947 27.852 26.532 54.384
REGGIO DI CALABRIA
31.102 42.121 30.268 22.442 52.710
BERGAMO 72.511 139.039 24.798 20.992 45.790
BUSTO ARSIZIO
57.374 101.505 20.804 13.680 34.484
COMO 53.000 87.888 18.743 13.610 32.353
Elaborazione su dati Istat 2011
77
Una volta che sono stati individuati i valori, il passo successivo è quello di rilevare
l’importanza delle dimensioni urbane rilevanti rispetto alle realtà degli altri territori. In
pratica si sta cercando di definire quale quota del mercato massimo potenziale si localizza
all’interno delle principali aree urbane. Dalle analisi sui dati è emerso come circa il 43% di
coloro con un’istruzione medio-elevata si localizzi all’interno delle aree in analisi. I
millennials urbani sono circa il 27% del totale mentre coloro che hanno un reddito nelle
due fasce considerate sono circa il 18%. Queste percentuali fanno comprendere come su
tutto il territorio italiano, circa un quarto di ogni categoria (tranne i laureati che sono
sopra il 40%), risiede all’interno delle 21 aree urbane definite dall’Istat.
Tabella delle classi ricadenti all’interno delle aree urbane in relazione al totale delle classi.
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Totale SLL
Aree Urbane
2.692.714 3.554.244 1.999.421 1.693.948 3.693.369
Totale SLL
Italia 6.270.958 12.978.729 12.450.419 7.818.248 20.268.659
% Aree Urbane su Italia
42,94 27,39 16,06 21,67 18,22
Elaborazione su dati Istat 2011
78
L’ultima analisi che rimane è quella di verificare se in termini assoluti vi è una
corrispondenza tra i SLL urbani e quelli con i valori più elevati per ogni classe. In pratica si
sta cercando di capire se le aree urbane definite dall’Istat sono anche quelle che
contengono il maggior numero di individui che rientrano nelle classi in analisi. Per fare
questo sono state prese le 21 aree urbane e le si sono confrontate in valore assoluto per
categoria con le prime 21 località di ogni classe andando a verificare le corrispondenze. Si
è scoperto per una corrispondenza che va per tutte le classi dal 70% all’85%, che le aree
urbane principali sono le stesse che contengono i valori più elevati di ogni singola
categoria rispetto ad altre località.
Corrispondenza % fra i SLL con valori massimi di classe rispetto ai valori di classe dei SLL
delle aree urbane (campionamento effettuato sui primi 21 SLL di ogni categoria ordinati
in modo decrescente)
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Corrispondenza % fra i SLL con valori massimi
di classe rispetto ai
valori di classe dei SLL delle aree urbane
80,95 85,71 71,43 76,19 71,43
Elaborazione su dati Istat 2011
Al fine di comprendere meglio la distribuzione del fenomeno sul territorio, sono state
prodotte le mappe tematiche delle classi rispetto alla loro localizzazione sul territorio
italiano.
79
Mappa del numero di millennials ripartiti all’interno dei Sistemi Locali del Lavoro.
80
Mappa del numero di individui residente totale da 6 anni e più con una laurea vecchio e
nuovo ordinamento + diplomi universitari + diplomi terziari di tipo non universitario
vecchio e nuovo ordinamento.
81
Mappa dei Comuni per concentrazione di individui con reddito fra i 15.000 ed i 55.000
euro.
82
Un caso di sostenibilità della sharing economy: simulazione di Carpooling
sulle tratte del pendolarismo nel Sistema Locale del Lavoro di Torino
Si parla oggi sempre più spesso di sostenibilità ed efficienza energetica e su come poterla
raggiungere. Molti credono di poter aggredire tale obiettivo attraverso la sharing
economy. È possibile individuare differenti analisi e stime di sostenibilità, soprattutto in
termini di efficienza, che potrebbero scaturire da alcune forme di condivisione. Essendo
però un’economia relativamente nuova, vi è carenza di analisi settoriali e le uniche
informazioni molto spesso si riducono ad indagini promosse dalla stessa piattaforma dove
però vi può risiedere uno scopo puramente promozionale ed oltre tutto vi può essere una
qualche forma di dissimulazione nel fornire l’informazione. La difficoltà nel riprodurre
un’analisi economica generale valida, ha portato a definire delle stime in merito ad un
modello specifico di economia collaborativa applicato al fenomeno del pendolarismo per
recarsi al luogo di lavoro. Il caso nello specifico è il carpooling. Si è già definito in
precedenza in che cosa consiste tale modalità di viaggio quindi si sorvolerà su questa
definizione. L’ambizione della ricerca è stata quella di cercare di individuare in termini
quantitativi, il valore di efficienza in termini di riduzione di emissioni di CO2 e di risparmio
di carburante, che si può raggiungere sugli spostamenti casa-lavoro da parte dei pendolari
sul Sistema Locale del Lavoro di Torino. In particolare ci si è concentrati su quella fascia di
pendolari che hanno il loro luogo di lavoro al di fuori della località di residenza. Ciò che ha
spinto a focalizzarsi su questo aspetto risiede in due ragioni: la prima è individuabile anche
nel paragrafo precedente ovvero la maggior parte degli spostamenti per recarsi sul luogo
di lavoro avviene con auto propria; la seconda ragione è l’interesse che sta accumulando
sempre più il carpooling. Su richieste dirette al servizio BlaBlaCar si è avuta conferma che:
Milano, Roma, Torino, Bologna, Firenze sono le principali città interessate dal loro servizio
di carpooling; ma più che altro raggruppano circa il 50% della community italiana di
BlaBlaCar e che le stesse città menzionate raggruppano il 70% o più degli utenti all'interno
della regione di appartenenza. Sempre su loro testimonianza dal 2013 al 2014, l’offerta di
passaggi sulla loro piattaforma era aumentata del 300%. Si sta parlando di una
piattaforma di carpooling che in Italia offre circa 10 milioni di passaggi ogni 3 mesi
(BlaBlaCar, 2016). Considerato il fatto che nel 2013 il settore dei trasporti ha contribuito
per circa un quarto (24.4 %) delle emissioni clima alteranti prodotte dall’EU-28; si è
ritenuto opportuno testare se potenziali effetti positivi in termini di efficienza sul
consumo attraverso il carpooling possano avere un qualche riscontro.
83
Il Sistema Locale del Lavoro di Torino
Breve descrizione per identificare il sistema in analisi. Come definito dall’Istat, i sistemi
locali del lavoro (SLL) rappresentano una griglia territoriale i cui confini,
indipendentemente dall'articolazione amministrativa del territorio, sono definiti
utilizzando i flussi degli spostamenti giornalieri casa/lavoro (pendolarismo) rilevati in
occasione dei Censimenti generali della popolazione e delle abitazioni. Poiché ogni
sistema locale è il luogo in cui la popolazione risiede e lavora e dove quindi esercita la
maggior parte delle relazioni sociali ed economiche, gli spostamenti casa/lavoro sono
utilizzati come proxy delle relazioni esistenti sul territorio. Il SSL di Torino ospitava al 2011
una popolazione di 1.734.202 abitanti ed è il quarto Sistema per numero di abitanti dopo
quelli di Roma, Milano e Napoli. Se invece si guarda alla superficie territoriale, è il terzo in
estensione con i suoi 2467,1 km2 dopo Roma e Bologna (Istat, 2011).
Il dataset
Per poter produrre un’analisi utile a definire il carpooling è risultato necessario associare
due database prodotti dall’Istat (Istat, 2015) ed un terzo db prodotto dal ministero dei
trasporti, dello sviluppo economico e della tutela dell’ambiente e del territorio
(Sole24Ore, 2015). Uno dei due database dell’ente statistico nazionale contiene la matrice
del pendolarismo cioè tutti gli spostamenti organizzati per: Tipo residenza, Provincia di
residenza, Comune di residenza, Sesso, Motivo dello spostamento, Luogo di studio o di
lavoro, Provincia abituale di studio o di lavoro, Comune abituale di studio o di lavoro, Stato
estero di studio o di lavoro, Mezzo, Orario di Uscita e Tempo Impiegato. La distanza fra le
località è stata rilevata dal file matrice delle distanze sempre prodotto dall’Istat, contente
appunto le distanze in metri tra i vari comuni italiani, misurate sui tratti stradali
commerciali. I due database sono stati relazionati ed è stato eseguito un filtro sui flussi di
pendolarismo legati al SLL di Torino. La limitazione a tale area è data sia dalle motivazioni
di cui sopra sia da una limitata disponibilità di mezzi con capacità computazionale
sufficiente per fare analisi più estese. Il risultato è un dataset contenente 81 dei 112
comuni del SLL Torino. Il numero dei comuni e la stima dei soggetti coinvolti è stata
eseguita con i seguenti filtri: luogo di studio/lavoro differente dalla propria località di
residenza, spostamento per motivi di lavoro, autoveicoli e motoveicoli come mezzi
utilizzati. Il campione in esame è risultato essere di 220.528 individui ripartiti in 3.894
tratte di pendolarismo che giornalmente si recano sul luogo di lavoro all’interno del
Sistema locale in esame e ad ogni tratta è associato il tempo di percorrenza medio e la
distanza in metri sui percorsi stradali commerciali tra i due comuni. La terza base dati
84
deriva dal Ministero dei Trasporti e contiene alcuni dati utili sulle automobili in commercio
che sono pratici ai fini delle analisi. In particolare su ogni mezzo definisce: la casa
costruttrice, il modello, il tipo di alimentazione, la cilindrata, i consumi di carburante (ciclo
urbano, ciclo extraurbano, ciclo misto), le emissioni di CO2 in grammi al chilometro.
Lo strumento
Per poter analizzare diversi scenari si è ritenuto opportuno costruire uno strumento adhoc
su foglio elettronico che permette di calcolare scenari comparati tra condizioni BAU
(Business As Usual) e situazioni che vedono implementato il carpooling. In particolare è
possibile inserire in Input i seguenti parametri: numero medio di persone per auto BAU,
percentuale utilizzatori del carpooling, numero medio di persone per auto carpooling,
Prezzo Benzina, Prezzo Gasolio, Consumo medio al litro Benzina, Consumo medio al litro
Gasolio, Emissioni g/km benzina, Emissioni g/km gasolio, Limite inferiore distanza, Limite
superiore distanza. Le variabili sono state scelte a seguito di incontri effettuati con il
personale di Jojob, spin off di BringMe, startup specializzata nell’offrire servizi di
carpooling aziendale (Jojob, 2016). In particolare è possibile ricavare per ogni singolo
tragitto di pendolarismo:
le emissioni sulla tratta scenario BAU Benzina (grammi CO2) e le emissioni sulla
tratta scenario BAU Gasolio (grammi CO2), tali valori vengono calcolati dividendo il
numero di pendolari per il coefficiente di occupazione medio di persone in un’automobile
ottenendo così il numero di autovetture che effettuano la tratta, tale risultato viene
moltiplicato per la distanza in chilometri della tratta ed infine moltiplicato per il valore di
emissioni in g/km;
scenario di adesioni Benzina e lo scenario di adesioni Gasolio sono calcolati
similmente come da punto precedente ma ponderati in base ad un valore di adesione in
termini percentuali dei pendolari ad un servizio di carpooling. Valore condizionato dal
numero di persone per auto che va ad incidere sul numero di veicoli utilizzati per tratta. È
inoltre possibile da parametri impostare una condizione di funzionamento minimo di
carpooling sulla tratta. Esistono infatti tratte dove non vi è un numero sufficiente di
persone che possano garantire un servizio di carpooling e quindi è possibile escluderle;
BAU emissioni su benzina e BAU emissioni su Gasolio sono valori calcolati come
da parametri al secondo punto fatta eccezione per il numero di persone per auto che
viene preso dallo scenario BAU, tale variabile è funzionale a misurare la variazione tra gli
scenari BAU e carpooling;
85
costo benzina per il totale delle auto per tratta in euro BAU e costo gasolio per il
totale delle auto per tratta in euro BAU sono il costo economico in euro di carburante
utilizzato per effettuare la tratta in base allo scenario BAU selezionato, viene calcolato
moltiplicando il costo del carburante a litro per il consumo del mezzo a km per i chilometri
della tratta per il numero di auto che la percorrono;
costo carburante BAU Benzina e costo carburante BAU Gasolio sono l’equivalente
delle variabili BAU emissioni benzina e gasolio, hanno il compito funzionale di calcolare la
variazione di costi tra i due scenari. Si compone delle condizioni vincolati delle variabili di
scenario di adesioni e se vere viene calcolato il costo carburante sulla tratta in base alle
auto dello scenario BAU;
Costo carburante carpooling scenario Benzina e costo carburante carpooling
scenario Gasolio sono calcolati con le stesse modalità di costo carburante BAU ma le auto
prese in considerazione sulla tratta sono quelle date dallo scenario di carpooling.
Tutti gli indicatori citati sono calcolati per ogni tratta. È da considerare che sono stati usati
i carburanti Benzina e Gasolio per poter effettuare ulteriori confronti tra la tipologia di
alimentazione utilizzata ed i relativi consumi sia in termini di costi che di emissioni. Lo
strumento risulta però facilmente riconfigurabile per altre tipologie di carburanti ed
eventuali combinazioni di essi. È possibile infine generare degli indici aggregati per l’intero
Sistema Locale del Lavoro di Torino e calcolare il potenziale risparmio in emissioni di CO2
nonché quello in termini economici sul consumo di carburante. È inoltre possibile
calcolare l’incidenza di utilizzo di una tipologia di carburante rispetto ad un’altra sia in
termini di emissioni che di costi. Infine come ulteriore dato utile, si mostra la riduzione
potenziale del numero di auto in circolazione fra lo scenario BAU e lo scenario carpooling.
Per motivare gli scenari che si andranno a delineare è necessario citare la fonte utilizzata
e descriverla al fine di motivare le scelte di alcuni parametri.
Jojob: carpooling aziendale
Quanto segue è il risultato di un’indagine fatta direttamente sul sito del servizio di
carpooling di Jojob (Jojob, 2015) sia da informazioni dirette reperite intervistando il CEO
dell’azienda (Albertengo, 2015).
Jojob offre un servizio di carpooling B2B al fine che le aziende aderenti creino un servizio
di carpooling aziendale per i propri dipendenti. Cioè consente ai dipendenti di un cluster
di aziende limitrofe di condividere gli spostamenti casa-lavoro. Mediante un sistema
86
integrato, la piattaforma permette di quantificare la quantità di CO2 emessa nella tratta.
Ciò può essere fatto attraverso l’applicazione mobile dove i viaggi dei dipendenti sono
monitorati e servendo così all’azienda dati reali sul risparmio di CO2. Jojob attraverso un
portale web dedicato, da un lato permette ai dipendenti di diverse aziende presenti in
uno stesso territorio di mettersi in contatto, per garantire più ampie possibilità di
individuare persone con cui condividere la tratta, dall’altro fornisce alle singole aziende
aderenti al servizio un sistema di monitoraggio, con dati e statistiche sull’adesione dei
dipendenti e sul risparmio di CO2. Con l’applicazione mobile, i dipendenti possono
certificare la propria presenza in auto quando fanno carpooling (la certificazione fornisce
all’azienda dati accurati e veritieri) e possono inoltre accumulare punti spendibili in
promozioni attive sul territorio. Con questo sistema l’impresa ha creato una struttura di
controllo delle emissioni e quindi può ottenere un tassello in più verso il conseguimento
di certificazioni quali i sistemi di gestione ambientale, in particolare ISO 14001 ed EMAS.
Sempre attraverso la piattaforma è possibile avere a disposizione un tool che permette di
monitorare gli spostamenti, i km percorsi e il numero di passeggeri che fanno parte
dell’equipaggio. Questi dati permettono di derivare la quantità totale di CO2 risparmiata
oltre che assegnare ai singoli utenti un punteggio relativo al proprio risparmio ambientale.
Nella pratica quando i dipendenti si uniscono ad un equipaggio, devono registrare la
propria presenza in auto inquadrando il QR Code che viene generato sullo smartphone
dell’autista alla partenza: l’app terrà conto di ogni nuovo passeggero e calcolerà i dati
relativi al percorso, che saranno restituiti graficamente all’arrivo. Attestando gli
spostamenti casa-lavoro, gli utenti hanno un incentivo e quindi vengono fidelizzati al
sistema in quanto facendo carpooling, essi collezionano punti spendibili in promozioni sia
su scala locale (attività limitrofe al cluster aziendale) che su scala nazionale. Le promozioni
sono acquistabili e fruibili direttamente tramite l’applicazione.
Vantaggi
Certificazioni - Ottenimento e mantenimento delle certificazioni ambientali come EMAS,
ISO ed impiego utile per la definizione di una CSR.
Meno assenze - Riduzione delle assenze dei dipendenti, dovute a scioperi dei mezzi di
trasporto o altri imprevisti.
Accessibilità e risparmio – Mobilità accessibile a tutti i dipendenti e soluzione economica
per l’azienda.
87
Meno spese - Condividendo l’auto, i dipendenti hanno la possibilità di dividere le spese e
risparmiare.
Meno tempo - Il viaggio in auto permette una maggiore flessibilità di orari rispetto agli
spostamenti con i mezzi pubblici, ovviando inoltre ai ritardi.
Meno stress - Più flessibilità e più comodità negli spostamenti casa-lavoro comportano
anche meno stress per i dipendenti.
Svantaggi
Vincolati all’orario e guida dell’autista ed eventuali suoi imprevisti
Rischio di incompatibilità con gli altri passeggeri
Legato ad un numero di utenti minimo per poter funzionare con una certa regolarità
Costo del servizio
Utenti: il servizio è completamente gratuito.
Aziende: sotto i 100 dipendenti gratuito, tra i 100 ed i 1000 dipendenti 2500 euro di costo
di attivazione più 1000 euro di canone annuo, oltre i 1000 formulazione contrattuale
AdHoc.
Comuni: 2500 euro per l’attivazione più 1000 euro di canone annuo.
Dati Jojob Carpooling Aziendale dichiarati dall’azienda intervistata:
“Essendo il ns servizio Aziendale, la maggior parte degli utenti si concentra nelle aree
limitrofe alle sedi delle Aziende nostre clienti. Nel 2015 siamo attivi su diverse aree del
territorio nazionale. 11.000 sono i viaggi condivisi su 434.000 km percorsi ed 87 le
tonnellate di anidride carbonica risparmiate. Analizzando i risultati su scala annuale, si
segnala inoltre il coinvolgimento di più di 50 grandi aziende a livello nazionale ed oltre 600
piccole aziende sono state caricate dai singoli utenti. L'offerta di servizi è rivolta ad oltre
50.000 dipendenti in Italia”.
Alcune Aziende clienti di cui è possibile rilasciare la conferma di uso del servizio:
AZIENDA REGIONE PROVINCIA
Arka Service Lombardia MI
Auchan Lombardia MI
Coop Nord Ovest Lombardia MI
Heineken Lombardia MI
88
Coop Nord Ovest Piemonte TO
Coop Nord Ovest Liguria GE
Istituto Italiano Tecnologia Liguria GE
Findomestic Toscana FI
Kedrion Toscana LU
Unicoop Toscana FI
MBDA Lazio Roma
YOOX Lombardia MI
YOOX Emilia Romagna BO
Hanno aderito anche i Comuni di:
Abbiategrasso (MI)
Cesano Boscone (MI)
Castelvetro di Modena (MO).
Le forme di Comunicazione
“Non è molto intensa la comunicazione B2B, quasi nulla B2C. Partiamo dall’azienda con
contatti commerciali a Mobility Manager e CSR Manager, e poi partiamo con l’attivazione.
89
L’utente finale generico non è stato mai coinvolto con campagne di marketing specifiche.
Le comunicazioni B2C viene fatta successivamente all’attivazione in Azienda. Le
promozioni ai dipendenti sono scelte internamente dal Team di Jojob, che si occupano di
stipulare partnership e accordi di mutua collaborazione per creare coinvolgimento e
incentivare gli utenti all’utilizzo del servizio.”
Risparmio annuale di un dipendente che va a lavoro in carpooling
“Distanza casa-lavoro: 45 Km, 3 passeggeri, 220 giorni lavorativi, consumo 15Km/l, costo
carburante 1,8€/l = 1782 euro”
Rilevazioni empiriche su piattaforma hanno riportato le seguenti informazioni:
Distanza media percorsa 40 km giornalieri A/R
Numero di persone medio per auto: 3
Dipendenti che si iscrivono a JOJOB nei primi 2 mesi di attivazione servizio:
o 93% Iscritti con almeno 1 contatto in rubrica
o 76% con 3 contatti in rubrica ed hanno usato almeno una volta il servizio
o 57% con 5 contatti in rubrica ed usano il servizio saltuariamente
o 13% con 10 contatti in rubrica ed usano regolarmente il servizio
La formazione del cluster
Varia a seconda della localizzazione territoriale dell’azienda:
contesto urbano: 500 m di raggio
contesto non urbano o area industriale periferica: fino 3 Km
Gli scenari sul Sistema Locale del Lavoro di Torino
A seguito delle informazioni reperite da Jojob ed in base alle informazioni reperite nei
dataset e sulla base delle informazioni dei costi del carburante presi dal Sole24Ore
(Sole24Ore, 2016), è stato possibile parametrizzare lo strumento ed ottenere degli scenari
su come il carpooling può interessare la mobilità, l’efficienza energetica in termini di costi
economici e consumo di carburante nonché la potenziale riduzione delle emissioni dovute
dal pendolarismo lavorativo nel SLL di Torino. La scelta dei veicoli benzina e diesel con
relativi valori di consumo ed emissioni è stata presa in base a due considerazioni. La
maggior parte delle auto vendute in Italia appartiene al segmento B ovvero berline di
bassa e media cilindrata (Panda, Punto, 500, Clio, Yaris, Corsa, ecc) che comprendono la
maggior parte del parco auto circolante ed inoltre Fiat ha il maggior numero di veicoli in
90
circolazione nel paese (Ansa, 2015). Per ottenere un valore medio di emissioni è stata
fatta un’analisi sul dataset dei veicoli in commercio, al fine di valutare il trend di emissioni
associato alla cilindrata dei veicoli.
Dalle informazioni reperite si è scelto di optare per due modelli di auto della stessa casa
produttrice per tipologia di alimentazione e considerato che la maggior parte dei veicoli
in commercio ha un valore di emissione dichiarato sul dataset del Mit tra i 100 ed i 200
grammi di CO2 al chilometro, si è optato per le seguenti scelte:
Alimentazione Modello Cilindrata
(cm3)
Consumo
Urbano
(l/100 km)
Consumo
Extraurbano
(l/100 km)
Consumo
Misto
(l/100)
Emissioni
CO2
g/km
Fiat
GRANDE
PUNTO
B 1.4 ber 3/5P 1368 7,5 5 5,9 139
Fiat
GRANDE
PUNTO
D 1.6 Multijet
16v 120 CV
ECO ber 3/5P
DPF
1598 5,8 3,8 4,5 119
In entrambe gli scenari che verranno proposti si è utilizzato il valore di consumo
extraurbano in quanto si simula che il servizio venga adottato per tratte prevalentemente
91
non urbane. Inoltre le tratte scelte saranno quelle comprese tra i 10 ed i 60 km dal luogo
di lavoro, range basato sulle rilevazioni d’uso del servizio di Jojob.
Scenario Business As Usual (BAU)
Per scenario Business As Usual si intende descrivere una situazione in cui l’economia non
si smuove dalle attuali tendenze comportamentali verso il consumo. Tale mondo vuole
essere rappresentato per quanto possibile il più vicino alla realtà. Per fare questo si sono
fuse una serie di considerazioni pervenute dai dati forniti dagli enti citati in precedenza e
si è cercato di definire uno scenario BAU, per così dire di partenza, che vuole
rappresentare quanto più possibile l’attuale stato della mobilità pendolare lavorativa in
termini di impatti sul consumo di carburante ed emissioni all’interno del SLL di Torino. Per
fare questo è stato necessario inizializzare il foglio elettronico con alcuni parametri.
Innanzitutto si è scelto di impostare il numero medio di persone per auto definito dall’Istat
come citato in precedenza. Tale valore è rappresentativo del paese e non del SLL di Torino
in particolare quindi non si è riuscito a rilevare se vi sono differenze nella mobilità BAU
per il Sistema Locale considerato. Resta comunque un’informazione plausibile in quanto
fornita da una fonte ufficiale. Per quanto riguarda i prezzi della benzina e del gasolio
risulta chiaro che essi siano variabili a seconda del mercato ed oltretutto hanno una
variabilità giornaliera nei mercati borsistici. Ulteriore variabilità del dato è individuabile
nel prezzo al singolo distributore che si differenzia già su scala locale ristretta quale un
quartiere urbano o addirittura nella dimensione di qualche isolato. A tal proposito si sono
scelti i prezzi medi al pubblico del mese di febbraio 2016. Per quanto riguarda il consumo
medio di carburante si è fatto riferimento alle vetture selezionate nella tabella sopra.
Stessa considerazione vale per le emissioni. È possibile visualizzare in breve i parametri
utilizzati nella tabella seguente.
92
Lo scenario BAU si basa sui seguenti valori:
Parametri Valori Nota descrittiva
Numero medio di
persone per auto BAU
1,2 Numero
Prezzo Benzina 1,402 €/l
Prezzo Gasolio 1,195 €/l
Consumo medio al litro
Benzina
0,05 l/km
Consumo medio al litro
Gasolio
0,038 l/km
Emissioni g/km benzina 139 g/km
Emissioni g/km gasolio 119 g/km
Dall’elaborazione del software emerge che il parco auto circolante all’interno del SLL di
Torino per motivi di lavoro ed in condizioni BAU sia di circa 183.887 autovetture. Si ricorda
che tali vetture effettuano unicamente spostamenti per recarsi sul luogo di lavoro al di
fuori della località di residenza del lavoratore. Non conoscendo la suddivisione precisa del
tipo di alimentazione delle vetture in circolazione specifica dei pendolari ma sapendo su
rielaborazione dati ACI sul mercato dell’automobile in Italia (ACI, 2015) che:
Nel 2012 l’87% delle auto immatricolate erano a benzina e diesel ed il 68% delle
auto in circolazione va da una cilindrata dai 1000 cc ai 1600 cc e che in particolare
nell’Italia Nord Occidentale l’88% del parco auto immatricolato era ad alimentazione
benzina e diesel;
Nel 2013 l’86% delle auto immatricolate erano a benzina e diesel ed il 65% delle
auto in circolazione va da una cilindrata dai 1000 cc ai 1600 cc e che in particolare
nell’Italia Nord Occidentale l’88% del parco auto immatricolato era ad alimentazione
benzina e diesel;
Nel 2014 l’85% delle auto immatricolate erano a benzina e diesel ed il 67% delle
auto in circolazione va da una cilindrata dai 1000 cc ai 1600 cc e che in particolare
nell’Italia Nord Occidentale l’89% del parco auto immatricolato era ad alimentazione
benzina e diesel;
si presume quindi che la maggior parte delle vetture in circolazione sia a benzina e diesel.
Per questa motivazione si è scelto di creare uno scenario che comprendesse solo queste
93
due tipologie di alimentazione in quanto più approssimabile alla realtà. Sono state escluse
dall’analisi le alimentazioni ibride quali GPL, metano ed elettrico in quanto appunto poco
influenti nell’analisi aggregata. È riscontrabile però un lieve trend in aumento delle auto
a metano e GPL dai dati dell’ACI ed a tal fine è stata impostata anche una valutazione
incrociata per tali modelli nello strumento che però non sarà menzionata in questa sede.
Rimanendo oscura la ripartizione dei veicoli per tipo di alimentazione sono stati creati due
scenari dove si hanno da una parte l’uso totale di auto a benzina e dall’altro l’uso totale
di auto a gasolio. Sui due valori è stata eseguita una media aritmetica semplice. La
simulazione basata sui due modelli di auto scelti ha mostrato come la differenza fra i due
scenari sia molto lieve. Nello scenario giornaliero con tutte le auto a benzina si ha una
produzione di CO2 pari a 562,41 tonnellate mentre per i diesel si hanno 481,49 tonnellate.
La media tra i due valori è di 521,95 tonnellate. Simulando che tale produzione di
emissioni si protragga per 220 giorni lavorativi, avremo dei valori annuali di emissioni BAU
pari a 123.730,60 tonnellate per lo scenario a benzina, 105.927,63 tonnellate per lo
scenario a gasolio ed una media fra i due scenari di 114.829,11 tonnellate.
Passando ora all’analisi dei costi economici sul carburante. Nello scenario BAU con l’uso
di benzina, la spesa per recarsi a lavoro in automobile in una giornata nell’intero SLL di
Torino è pari a 283.633,58 € mentre se si usasse il gasolio sarebbe di 183.734,67 €. La
media dei due valori è pari a 233.684,12 €. Moltiplicando tali valori per 220 giornate
123.731
562
105.928
481
114.829
522
200,00
2.000,00
20.000,00
200.000,00
Stima emissioni Totali su pendolarismo SLLTorino su 220 giorni lavorativi
Stima emissioni totali su pendolarismo SLLTorino giornalieri
Emissioni scenario BAU Benzina (tCO2) Emissioni scenario BAU Gasolio (tCO2)
Media (tCO2)
94
lavorative, sempre nel medesimo ordine, otteniamo una spesa di 62.399.386,50 €, una di
40.421.628,26 € ed una media di 51.410.507,38 €.
Scenario carpooling 13%
Cosa succederebbe se a partire dallo scenario BAU, un 13% dei pendolari decidesse di
utilizzare il carpooling? Eseguendo semplicemente un calcolo percentuale si
commetterebbe l’errore di ottenere un dato fuorviante e sovrastimato di riduzione
potenziale delle emissioni. Sono infatti presenti tratte in cui il calcolo percentuale del
numero di individui porterebbe ad avere un numero di pendolari inferiore ad uno
(chiaramente impossibile) oppure tratte in cui il valore del numero minimo di persone per
auto sia inferiore al valore definito nel numero di persone per auto nello scenario
carpooling. Se non si facesse tale distinzione si considererebbero tratte in cui il numero di
persone risulta comunque insufficiente per praticare il carpooling. Come ulteriore filtro
sulle tratte estratte dalla prima considerazione, si applica una limitazione chilometrica. Si
imposta infatti un valore minimo di km da percorrere ed un numero massimo su tutte le
tratte. Tale range è rilevante in quanto da informazioni empiriche reperite presso Jojob,
gli utilizzatori del servizio tendono a percorrere delle distanze che vanno dai 10 km ai 60
km per raggiungere il proprio luogo di lavoro dalla propria residenza. Sempre da dati
empirici, si definisce il numero medio di persone per auto nel caso di utilizzo di un servizio
di carpooling. Tale numero è attestato in 3 persone. Qui di seguito la tabella riassuntiva
con l’integrazione dei nuovi parametri.
€62.399.387 €40.421.628
€51.410.507
€283.634 €183.735
€233.684
€100.000,00
€1.000.000,00
€10.000.000,00
€100.000.000,00
Costo in euro della benzinaper il totale delle tratte
BAU
Costo in euro del gasolioper il totale delle tratte
BAU
Costo medio in euro delcarburante BAU
Stima costi totali su pendolarismo SLL Torino su 220 giorni lavorativi
Stima costi totali su pendolarismo SLL Torino giornalieri
95
Elaborando le informazioni con il programma in base ai due scenari, si vuole analizzarne
gli scostamenti. Ciò che emerge secondo la parametrizzazione fatta, è un risultato di
leggero miglioramento. Risulta infatti che le differenze tra i due scenari sono lievi.
Andando ad analizzare unicamente il dato giornaliero sulla media e lasciando al lettore la
lettura del grafico sottostante per una visione più ampia dei singoli valori; si evince come
passare da una media emissioni BAU ad una media di emissioni carpooling vi sia un
differenziale di CO2 di circa 23 tonnellate.
Parametri Valori Nota descrittiva
Numero medio di persone
per auto BAU
1,2 Numero
Percentuale utilizzatori del
carpooling
13 %
Numero medio di persone
per auto carpooling
3 Numero
Prezzo Benzina 1,402 €/l
Prezzo Gasolio 1,195 €/l
Consumo medio al litro
Benzina
0,05 l/km
Consumo medio al litro
Gasolio
0,038 l/km
Emissioni g/km benzina 139 g/km
Emissioni g/km gasolio 119 g/km
Limite inferiore distanza 10000 m
Limite superiore distanza 60000 m
96
Confrontando ora i costi notiamo come anche qui la differenza fra i due valori non sia
molto sensibile. Infatti la variazione sui costi medi giornalieri è poco più di 10.000 €.
Mentre a livello aggregato si attesta su circa 2.300.000 €. Come però già notato in
precedenza per lo scenario BAU, vi è una maggiore differenza tra l’uso di carburante
benzina e gasolio sugli scenari unici. Tale differenziazione potrebbe essere considerevole
sull’acquisto del mezzo per raggiungere il luogo di lavoro. Infatti se si paragona il risparmio
tra i due scenari di carpooling con differenti carburanti si vede un maggiore risparmio
nella scelta del gasolio per un differenziale di quasi 100.000 € giornalieri rispetto allo
scenario BAU.
100
1000
10000
100000
1000000
Emissioniscenario
BAU Benzina(tCO2)
Emissioniscenario
CarpoolingBenzina(tCO2)
Emissioniscenario
BAU Gasolio(tCO2)
Emissioniscenario
carpoolingGasolio(tCO2)
Mediaemissioni
BAU (tCO2)
Mediaemissioni
carpooling(tCO2)
123.731 118.324 105.928 101.299 114.829 109.812
562 538 481 460 522 499
Stima emissioni Totali su pendolarismo SLL Torino su 220 giorni lavorativi
Stima emissioni totali su pendolarismo SLL Torino giornalieri
97
Possiamo vedere riassunte le informazioni in termini percentuali nel grafico sottostante.
Si stima infatti che la differenza tra i due scenari in termini di risparmio di emissioni di CO2
ed in termini di costi di carburante sia del 4,37%. Le incidenze che si notano nello stesso
grafico vogliono misurare il peso dei differenziali tra gli scenari BAU e carpooling pesandoli
sui rispettivi scenari di risparmio. L’incidenza emissioni benzina su gasolio misura il
differenziale di emissioni tra gli scenari BAU e carpooling dello scenario benzina sul valore
delle emissioni gasolio dello scenario carpooling. Viceversa per l’incidenza scenario
emissioni gasolio su benzina. Per quel che riguarda i termini incidenza costo carburante
benzina su gasolio e viceversa, il ragionamento è lo stesso. A titolo di chiarimento, si pesa
il differenziale dei costi fra lo scenario benzina BAU e Benzina carpooling sul costo in euro
dello scenario carpooling gasolio. Anche qui il ragionamento è opposto per l’altro
indicatore di incidenza. Valori di incidenza positivi indicano che vi è efficienza ed un
risparmio tra l’utilizzare un carburante rispetto all’altro. Valori negativi indicano la perdita
netta che si ottiene non solo nel non utilizzare l’altra tipologia di carburante ma anche il
peso del non utilizzare quella tipologia sullo scenario più efficiente e che dà il risparmio
economico maggiore.
€100.000,00
€1.000.000,00
€10.000.000,00
€100.000.000,00
Costo ineuro della
benzinaper il
totale delletratte BAU
Costo ineuro della
benzinacon
scenarioCarpooling
Costo ineuro del
gasolio peril totale
delle tratteBAU
Costo ineuro del
gasolio conscenario
Carpooling
Costomedio ineuro del
carburanteBAU
Costomedio ineuro del
carburanteCarpooling
€62.399.387
€59.672.882
€40.421.628
€38.655.429
€51.410.507
€49.164.156
€283.634 €271.240 €183.735 €175.706
€233.684 €223.473
Stima costi totali su pendolarismo SLL Torino su 220 giorni lavorativi
Stima costi totali su pendolarismo SLL Torino giornalieri
98
Tirando le somme su questo scenario notiamo in effetti che non vi è un consistente
risparmio nell’aggregato; vi è comunque da notare un effettivo guadagno di efficienza
energetica ed una riduzione nell’utilizzo di carburante e relativa spesa economica. Per
comprendere invece quale può essere il guadagno per il singolo soggetto si è deciso di
prendere una tratta pendolare con scelta casuale fra quelle più “battute” ed effettuare
un’analisi puramente economica. La scelta di mostrare il potenziale risparmio del singolo
a livello economico può essere funzionale a costruire una campagna di comunicazione,
nel caso si pensasse di attuare politiche di promozione di questa forma di mobilità; che
possa facilitare la comprensione di un reale risparmio di risorse. Risulta presumibile infatti
che sia più funzionale far comprendere maggiormente il risparmio economico rispetto a
-60,00
-50,00
-40,00
-30,00
-20,00
-10,00
0,00
10,00
20,00
30,00
40,00
Percentuale
riduzioneemissionidi CO2 e
risparmionel costo
delcarburan
te
IncidenzascenarioemissioniBenzina
suGasolio
IncidenzaemissioniscenarioGasolio
suBenzina
IncidenzaCosto
Carburante
Benzinasu
Gasolio
IncidenzaCosto
Carburante
Gasoliosu
Benzina
% utilizzatori del carpooling 13 % 4,37 -16,81 14,39 -54,37 35,22
Per
cen
tual
e
Scenario variazione emissioni e costo carburante sul SLL di Torino su adesione
carpooling per pendolarismo verso località di lavoro differente dalla propria residenza
99
quello ambientale. Questa motivazione è data dal fatto che a livello di singolo soggetto,
nell’operare le proprie scelte comportamentali quotidiane che non direttamente agiscono
sul prossimo, vi è una meno pressante responsabilità verso la comunità rispetto a quella
che può pesare sulle spalle di un’azienda. Questa motivazione unitamente al fatto che vi
è anche un fattore di maggiore tangibilità del consumo di risorse economiche rispetto alla
produzione di emissioni, porta a dare presunzione ad una comunicazione di costo-
efficienza. Per concretizzare tale scelta si pone l’esempio della tratta pendolare Torino-
Bruino. In questa tratta l’Istat stima un flusso pendolare quotidiano di 800 soggetti.
Sempre su stime dell’Ente Statistico Nazionale, la distanza tra i due luoghi è poco più di
17 km, considerati come punti di partenza ed arrivo i limiti amministrativi dei due comuni
su tratte stradali commerciali. Utilizzando come autoveicolo la versione a benzina della
Grande Punto sopra selezionata, avremo un costo carburante giornaliero andata e ritorno
pari a circa 2,44 €. Il calcolo sul consumo è anche qui stato fatto sul consumo extraurbano.
Il costo per recarsi a lavoro su 220 giorni lavorativi è pari a circa 538 €. Presumendo che
sia possibile identificare un luogo di ritrovo nella città di Torino che permetta ad almeno
3 di questi soggetti di riempire una macchina per andare a lavoro assieme a Bruino e che
in questa località di arrivo le aziende siano limitrofe se non che, nella migliore delle ipotesi,
i tre soggetti siano colleghi. Presumendo inoltre che i 3 soggetti si mettano d’accordo per
dividere le spese di viaggio in parte equa, il costo di viaggio a persona risulterebbe in un
anno pari a circa 179 € con un risparmio evidente di circa 358 € annuali. Il problema come
si può intuire non è tanto quindi nel capire quanto si può risparmiare ma piuttosto
nell’implementare un sistema che possa facilitare e convincere le persone ad essere
propensi ad usare questa forma di mobilità. Viaggiando un po’ con la fantasia si può
ipotizzare che i passeggeri in Torino, nel caso non abitassero in prossimità, si riuniscano
nel luogo specificato dall’autista attraverso l’uso dei mezzi pubblici oppure che i
passeggeri siano “di strada” o ancora forme ibride. Essi effettuino il viaggio assieme e nella
località di arrivo vi può essere un servizio navetta aziendale in un luogo specifico, oppure
un luogo di ritrovo stabilito da altri colleghi, passandosi il passeggero; nel caso i soggetti
non lavorassero in località limitrofe. In definitiva il problema maggiore è creare dei sistemi
di smistamento e di aggregazione nelle località di arrivo e partenza che ovviamente
devono essere pesati in termini di costo-efficienza ed includendo in tale analisi la
variazione dei tempi di percorrenza casa-lavoro con l’introduzione di tali sistemi. Anche
se non vi è una prova empirica si può ipotizzare che quanto detto nelle ultime battute
possa allungare il tempo di percorrenza della tratta e quindi potenzialmente doversi
svegliare prima o correre il rischio di arrivare a lavoro in ritardo. Asserire che tale
100
affermazione sia prossima al vero può però essere un errore. In quanto si può considerare
che la diminuzione per tratta del numero di auto circolanti possa diminuire i tempi di
percorrenza stessi. Comprendere cosa agisca di più sui tempi di percorrenza fra il numero
di auto in circolazione ed i sistemi di aggregazione e smistamento richiede analisi
empiriche. Quello che però si può definire è una valutazione aggregata della variazione
del numero di auto in circolazione sull’intero SLL di Torino rispetto allo scenario BAU. Con
lo scenario carpooling del 13% avremo una riduzione stimata del parco auto circolante
pari a 45.680 veicoli rispetto ai 183.887 totali stimati nello scenario BAU.
Concludendo l’analisi sullo scenario in cui il 13% delle persone adotti il carpooling, si può
dire che il guadagno in termini di efficienza economica e di riduzione delle emissioni sia
lieve ma comunque può essere considerato un pezzo del puzzle generale di come
raggiungere gli obiettivi di efficienza sulle emissioni oltre che nel consumo di risorse non
rinnovabili. Inoltre può essere una modalità che potrebbe ridurre di quasi 1/3 il numero
di veicoli in circolazione. In ultima analisi si fornisce il dato medio annuale sul risparmio
economico ottenibile per il singolo individuo che pratica il carpooling sul SLL di Torino.
Mediamente il singolo risparmierebbe 272 € all’anno.
101
Scenario carpooling 50%
Cosa potrebbe succedere se un sistema di questo tipo entrasse a regime per il 50% dei
pendolari? Chiaramente qui stiamo parlando di uno scenario più utopistico rispetto al
precedente. Per poter fare un confronto con lo scenario precedente l’unico valore nella
parametrizzazione che si è andato a modificare è appunto il numero percentuale di
utilizzatori del carpooling. Considerato che le valutazioni precedenti permangono, qui di
seguito si riportano i nuovi grafici e si opereranno solo considerazioni sugli scostamenti al
fine di non essere ridondanti nella trattazione.
Come si può notare dal grafico, la media emissioni carpooling scende da un valore
giornaliero di 499,14 tonnellate di CO2 ad un valore di 422,90 tonnellate. Vi sarebbe
quindi un ulteriore risparmio di 76 tCO2 rispetto allo scenario di adesione del 13%.
100
1000
10000
100000
1000000
Emissioniscenario
BAU Benzina(tCO2)
Emissioniscenario
CarpoolingBenzina(tCO2)
Emissioniscenario
BAU Gasolio(tCO2)
Emissioniscenario
carpoolingGasolio(tCO2)
Mediaemissioni
BAU (tCO2)
Mediaemissioni
carpooling(tCO2)
123.731 100.252 105.928 85.827 114.829 93.040
562 456 481 390 522 423
Stima emissioni Totali su pendolarismo SLL Torino su 220 giorni lavorativi
Stima emissioni totali su pendolarismo SLL Torino giornalieri
102
Passando alla stima dei costi, passare da uno scenario del 13% ad uno del 50% porta ad
avere una riduzione giornaliera di spesa di carburante da circa 223.473 € ad un valore di
circa 189.341 € quindi un risparmio giornaliero sull’intero SLL di 34.132 €.
Tirando le somme nel grafico sottostante, si può evincere come un’adesione del 50% dei
pendolari ridurrebbe consumo di carburante ed emissioni del 18,98%. Una cifra
considerevole rispetto al precedente scenario. Rimanendo invariati i prezzi dei carburanti
ed i parametri sul consumo, i valori percentuali di incidenza rimangono gli stessi
nonostante siano variati i termini assoluti.
Infine se andiamo a valutare la variazione del numero di auto in circolazione, la variazione
qui risulta minima. In un primo approccio potrebbe sembrare strana questa sottile
differenza ma bisogna ragionare sul fatto che si aggiungono solo quelle tratte dove è
possibile che tale diminuzione si verifichi ovvero quelle tratte dove il numero di pendolari
aderenti permette un ulteriore riduzione del parco auto. Quindi tenendo costante il
numero di persone per auto, l’indicatore decresce con un trend meno che proporzionale
all’incremento del numero di adesioni al servizio. Completa tale ragionamento il fatto che
in uno scenario del 100% di adesioni vi è comunque da considerare un parco auto minimo
funzionale a tale servizio comunque condizionato dal numero di pendolari per tratta e la
variazione delle distanze chilometriche in rapporto al peso del numero di auto su ogni
€100.000,00
€1.000.000,00
€10.000.000,00
€100.000.000,00
Costo ineuro della
benzinaper iltotale
delle tratteBAU
Costo ineuro della
benzinacon
scenarioCarpooling
Costo ineuro del
gasolio peril totale
delle tratteBAU
Costo ineuro del
gasolio conscenario
Carpooling
Costomedio ineuro del
carburanteBAU
Costomedio ineuro del
carburanteCarpooling
€62.399.387
€50.558.775
€40.421.628
€32.751.412
€51.410.507
€41.655.093
€283.634 €229.813 €183.735 €148.870 €233.684 €189.341
Stima costi totali su pendolarismo SLL Torino su 220 giorni lavorativi
Stima costi totali su pendolarismo SLL Torino giornalieri
103
tratta. Asserire quindi che un’adesione del 100% di individui con 3 soggetti per auto porti
ad una riduzione di 2/3 del parco auto circolante sarebbe una stima errata. Passare da
uno scenario del 13% ad uno scenario del 50% porterebbe ad una riduzione ulteriore del
parco auto di circa 4.600 vetture. Infine il risparmio medio annuale per individuo che
utilizza il carpooling in questo scenario si attesterebbe sui 306 €.
-60,00
-50,00
-40,00
-30,00
-20,00
-10,00
0,00
10,00
20,00
30,00
40,00
Percentuale
riduzioneemissionidi CO2 e
risparmionel costo
delcarburan
te
IncidenzascenarioemissioniBenzina
suGasolio
IncidenzaemissioniscenarioGasolio
suBenzina
IncidenzaCosto
Carburante
Benzinasu
Gasolio
IncidenzaCosto
Carburante
Gasoliosu
Benzina
% utilizzatori del carpooling 50 % 18,98 -16,81 14,39 -54,37 35,22
Per
cen
tual
e
Scenario variazione emissioni e costo carburante sul SLL di Torino su adesione
carpooling per pendolarismo verso località di lavoro differente dalla propria residenza
104
In conclusione si può dire in merito al carpooling aziendale che se scenari di un incremento
di interesse in queste forme di mobilità sia nei prossimi periodi maggiore, esse possono
contribuire seriamente a ridurre gli impatti. Risulta chiaro che nel momento in cui si scelga
di favorire un fenomeno di questo tipo, sarebbe opportuno stilare delle linee guida su
come meglio poter creare le condizioni affinché le probabilità che si avverino gli scenari
stimati siano le massime possibili. Sarebbe interessante capire se l’intervento di attori
istituzionali potrebbero favorire la propagazione di questo fenomeno attraverso sistemi
di incentivazione. Se l’adozione di tali sistemi fosse misurabile in capo ad ogni individuo,
risulterebbe interessante proporre ad esempio delle incentivazioni fiscali quali deduzioni
o detrazioni sulle imposte reddituali da lavoro (IRPEF) calcolate in base al numero di volte
che si raggiunge il luogo di lavoro in carpooling o utilizzando mezzi pubblici. È chiaro che
tale diminuzione ricadrebbe in una minore disposizione di entrate da accise sui carburanti
ed una riduzione delle imposte sul reddito ma porterebbe ad una minore dipendenza
energetica. Calcolare la convenienza in termini di riduzione di dipendenza energetica
rispetto ad una riduzione delle entrate fiscali è da stimare. Anche qui ci si ritrova davanti
ad un bivio, si può scegliere di optare per una via più ecologista ponendo come obiettivo
assoluto quello della riduzione delle emissioni oppure pendere più verso un obiettivo di
welfare. Se analizziamo il problema da un punto di vista concorrenziale, in un primo
sguardo non vi è una diretta implicazione sul settore pubblico dei trasporti in quanto si
agirebbe unicamente sul comparto che utilizza il mezzo privato quotidianamente e sono
stati espressamente esclusi coloro che invece fanno uso di mezzi pubblici (autobus, treni)
per il pendolarismo. Se l’introduzione di sistemi di incentivazione possa far pendere la
domanda da un settore ad un altro è da comprendere. Altra conseguenza che si può
105
stimare se un sistema di questo tipo entrasse a regime sarebbe inerente alla ricaduta
economica sul comparto automotive. Si può presumere che una riduzione del parco
circolante possa indurre nel lungo periodo ad una contrazione della domanda di
autovetture. È anche però plausibile che nel lungo periodo il mercato si assesti in base alle
nuove tendenze aumentando ad esempio il prezzo di vendita della singola vettura e/o
tendere a produrre automobili che “annullino” i costi di carburante attraverso una spinta
di accelerazione verso tecnologie di alimentazione alternative che possano garantire
risultati equiparabili alla riduzione di emissioni e consumi che scenari carpooling
apporterebbero. Se uno scenario carpooling sia migliorativo in termini di emissioni e costi
rispetto ad uno scenario BAU è un risultato. Comprendere le dinamiche sociali e quali
comportamenti favorire per poter apprezzare tale fenomeno è un’altra sfida. Molte delle
forme della sharing economy necessitano di una densità di funzionamento. Risulta
intuitivo credere infatti che è più plausibile che si verifichi un fenomeno di carpooling su
tratte con una maggiore pendolarità. In termini semplici dove vi è un numero maggiore di
pendolari si presume sia più possibile identificare soggetti propensi ad adottare questa
forma di mobilità. Tale densità è funzionale sotto due punti di vista. La prima è palese, se
non vi fossero almeno 2 persone per auto non lo si potrebbe chiamare carpooling; la
seconda importanza è relativa invece al fatto che più una tratta è “battuta” tanto maggiori
saranno i risultati in termini di riduzione di emissioni, risparmio di carburante e viabilità al
crescere del numero di individui che condividerebbero passaggi in auto. Per completare
la descrizione ed a titolo puramente indicativo, si riporta una ricerca operata su web che
fotografa l’interesse di BlaBlaCar a livello amministrativo regionale in Italia. La mappa
riprodotta qui di seguito mostra come vi è, nel periodo considerato, un maggiore interesse
verso il servizio nelle regioni Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Lazio. Vi è da precisare
che tale fotografia non esprime la domanda reale del servizio ma l’interesse cioè quante
persone cercano la piattaforma sul web mensilmente per regione. Tali stime sono
eseguite con strumenti forniti da Google. Risulta comunque interessante comprendere
dove questo tipo di mobilità riscontri forme di attenzione da parte della popolazione.
106
107
Gnammo: il social eating per creare valore economico localizzato
La presente trattazione è un breve spunto al fine di poter suggerire un’analisi di efficienza
sul consumo nel mondo della ristorazione. Qui si introdurrà il caso di Gnammo
piattaforma legata al mondo della sharing economy. Non si proporranno modelli o scenari
analitici ma piuttosto una proposta di analisi.
Intervistando il Presidente di Gnammo Cristiano Rigon e reperendo informazioni presso
il sito della piattaforma si sono raccolte le seguenti informazioni.
Gnammo è la prima piattaforma italiana dedicata al social eating. Per meglio chiarire il
significato di social eating è necessario inquadrare la definizione all’interno delle altre
forme di concorrenza.
“Ristorante”: Location che è un locale aperto al pubblico attrezzato per
somministrare al pubblico alimenti e bevande.
“Home Restaurant”: Ristorante che è una casa di civile abitazione nella quale si
organizzano eventi abitualmente, con strumenti professionali o con organizzazione
imprenditoriale.
“Social Eating”: Evento organizzato in una Location che è una casa di civile
abitazione, con carattere occasionale, senza strumenti professionali e senza
organizzazione imprenditoriale.
La piattaforma di Gnammo ha le stesse funzionalità di una community.
Il funzionamento della piattaforma e gli strumenti a disposizione degli utenti che
offrono un evento di social eating.
Per creare un evento è necessario cliccare su "PUBBLICA" e compilare tutti i campi
richiesti. È rilevante descrivere il tipo di evento inserire i propri dati e quelli della location.
Questi non saranno pubblici e verranno comunicati solo agli gnammers prenotati e
accettati dal promotore.
Dopo aver completato il form di creazione evento, richiedine la pubblicazione cliccando
sull'apposito tasto. Al fine di creare una “barriera” per eventuali problematiche ogni
evento di cui viene richiesta la pubblicazione viene controllato dal team di Gnammo che
verifica eventuali errori nella fase di creazione. In base al numero di eventi ricevuti può
variare il tempo entro il quale l'evento sarà visibile alla Community.
Dal momento della pubblicazione trascorreranno al massimo 24 ore per trovare il proprio
evento tra quelli proposti. Al momento della pubblicazione il promotore riceverà una mail
108
di notifica.
Il funzionamento della piattaforma e gli strumenti a disposizione degli utenti che
domandano un evento di social eating.
Si seleziona liberamente un evento tra quelli pubblicati, si può selezionare il numero di
posti disponibili nel caso si voglia partecipare in più di una persona e si clicca sul tasto
"PRENOTA".
Nella finestra successiva apparirà un riepilogo della tua prenotazione, dopo aver cliccato
su "ACQUISTA" inserisci i dati del tuo account Paypal o di una qualunque carta di credito
(anche prepagata), selezionando la voce "non ho un conto Paypal". Come si può
intendere, la piattaforma trattiene una commissione per la gestione del servizio pari al
12% sul prezzo a persona del menù offerto. Vi è poi una mail di conferma che definisce
l’esito della transazione.
Ora che si sa cosa è Gnammo, si visualizzano alcune informazioni legate al territorio.
109
Nella mappa sottostante è possibile comprendere come è distribuito l’interesse del
servizio. I dati in questo caso sono empirici e forniti direttamente dall’azienda.
110
Nella grafica sottostante si evince invece la reale domanda del fenomeno. È possibile
comprendere infatti in quali provincie il social eating stia avendo maggior successo.
111
Nella seguente mappa invece si ha l’informazione probabilmente più interessante. Viene
mostrato qui di seguito il valore economico localizzato che è stato creato dalla
piattaforma all’interno dei confini amministrativi provinciali.
112
Chiaramente i numeri paragonati alla grande industria della ristorazione non destano
clamore. Bisogna però far presente che si tratta di una Startup nata nel 2012 e se forse
non stupiscono i numeri è rilevante pensare alla diffusione territoriale che sta avendo.
Lo spunto di analisi che si vuol offrire qui, come detto all’inizio, ricade sull’efficienza nel
consumo. Ciò che sarebbe interessante stimare infatti è se vi è a parità di coperti serviti,
una maggiore efficienza nell’uso di risorse rispetto ad altre forme di ristorazione
comparabili. Per meglio comprendere tale gap è necessario livellare i segmenti. È infatti
necessario confrontare il consumo sulla spesa media di un consumatore di servizi di social
eating rispetto ad una equivalente spesa del consumatore della ristorazione classica.
Da dati empirici forniti dalla piattaforma, il valore medio delle transazioni è di 21,17€.
Secondo uno studio della Federazione Italiana Pubblici Esercenti risalente al 2010 (FIPE,
2010), il 41% dei ristoranti propone “un pasto” al di sotto dei 50 €. Risulta quindi da
comprendere quali di questi si attestino in una fascia media di prezzo corrispondente alla
quota media pagata su Gnammo. La proposta di ricerca è effettuabile attraverso un
campionamento degli utenti della piattaforma ed andando ad analizzare le materie prime
utilizzate nel proporre i menù in termini di quantità ed inoltre raccogliendo informazioni
sulle attrezzature e consumi energetici effettuati nella produzione dei piatti.
Parallelamente è consigliabile effettuare un’indagine su un campione di ristoranti che
rientra nella categoria suddetta ed a parità di coperti individuare quali risorse sono
impiegate sia in termini di materie prime che di consumi energetici. Tale raffronto sarebbe
utile più che altro per comprendere se il processo di prenotazione gestito dalla
piattaforma possa portare ad un qualche risultato di reale efficienza nell’acquisto degli
ingredienti e nell’uso delle utenze in quanto la transazione economica viene effettuata
prima dell’evento e si può quindi disporre del budget antecedentemente il consumo del
pasto. È importante comprendere tali dinamiche per verificare se tali forme di approccio
possono portare un’ottimizzazione dei consumi nella ristorazione classica. Il team della
piattaforma ha già proposto forme di social restaurant per coinvolgere anche i ristoranti
stessi a proporre eventi di social eating. Tirando le somme ciò che comunque si può
asserire è che questo modello di sharing economy proposto da Gnammo, genera
attraverso la piattaforma, delle economie reali sul territorio in quanto gli scambi
economici avvengono con modalità P2P. Inoltre desumendo informazioni aggregate dalle
carte topografiche redatte su dati della piattaforma, sembra esserci anche qua una
propensione del fenomeno a svilupparsi nelle aree urbane. Rimane da indagare se vi sia
una qualche forma di densità di popolazione e/o particolari tratti socio-culturali che
113
possano spingere le persone ad essere più propense a scavalcare quella soglia di fiducia
che permette di ospitare o entrare nelle case di “sconosciuti”.
Conclusioni
Probabilmente la domanda più importante è questa. La sharing economy è quindi una
moda o no? Comprendere se il fenomeno del momento rimarrà in mano alle piattaforme
di maggior successo o se invece si radicherà sui territori adattandosi alle peculiarità locali,
sarà da attribuire ad una responsabilità politica e sociale nonché all’andamento
congiunturale. È infatti nelle mani dei decisori che si deve la fiducia nello sviluppo di tale
economia. Come si è visto la sharing economy è forte sulle motivazioni di risparmio
economico più che su quelle sociali e sostenibili. Nel caso l’economia si risollevasse da
apportare una crescita generale delle disponibilità reddituali degli individui, quanto
durerebbe la sharing economy rispetto fronte alla tentazione del consumismo? Certo se
un individuo avesse la piena possibilità di scegliere tra comprare un vestito usato ed uno
nuovo sceglierebbe quello nuovo. È qui che deve intervenire il legislatore. Se le
potenzialità dell’economia collaborativa possono effettivamente ridurre l’impatto
ambientale ed al contempo generare valore economico risulta opportuno normare questa
forma economica al fine di renderla stabile nel tempo. La chiave di volta porta a sostenere
che sia necessario mantenere costante il risparmio economico delle forme di condivisione
generate in questa economia rispetto a quelle classiche. Forme di condivisione che
devono essere selezionate nei principi di sostenibilità ed importanza sociale. Economicità,
sostenibilità e socialità sono tre elementi che per essere mantenuti vivi devono essere
veicolati dal legislatore al fine di non correre il rischio che uno prevalga sugli altri. Nella
tesi si è mostrato come sia possibile indagare all’interno di questa nuova economia. Per
alcune di queste forme economiche ci sono reali potenzialità ottenibili in termini di
efficienza sul consumo. La sfida più grande è definire degli strumenti per poterla misurare
sia in termini economici che sociali ed ambientali. Si è parlato di una figura ibrida
produttore/consumatore. È importante comprendere come tale ruolo sia rilevante nel
fornire nuove modalità per distribuire reddito ed è per questo motivo che deve essere
comprensibile come si trasferisce ma soprattutto verso chi si trasferisce il flusso di denaro.
Tale concetto è rilevante nell’ottica di guidare l’espansione di questa forma di economia
al fine di mantenere i principi di uno stato di benessere riuscendo a mappare anche questi
flussi. La teoria dei club goods, proposta come potenziale strumento di approccio, induce
a definire dei limiti quantitativi sulla domanda ed offerta. Tali limiti a seconda del settore
economico coinvolto, possono essere dei paracadute di transizione al fine di non
114
stravolgere nel breve periodo forme economiche classiche. Per meglio chiarire, se
prendessimo un servizio che permette a singoli individui di dare passaggi in auto e tale
servizio si scontra con una forma concorrenziale classica, che adempie similmente allo
stesso bisogno ma questo secondo fornitore deve rispettare delle regole più ferree
rispetto all’altro; può portare alla formazione di squilibri concorrenziali, soprattutto se la
percezione di sostituibilità fra i due servizi per l’utente finale è indifferente. Una di queste
differenze normative può ricadere nel fatto che il nuovo servizio di trasporto non abbia
vincoli sul numero di auto in circolazione e che gli individui che offrono la prestazione non
appartengano ad una categoria o meglio ad un club e quindi agiscano ognuno per proprio
conto. Per il servizio di trasporto classico invece ci sono dei vincoli sul numero di auto in
circolazione e il totale degli individui appartiene ad un club e quindi vi è una qualche forma
di interesse comune a cui tutti sentono di dover contribuire. Entrambe le categorie
possono praticare un prezzo variabile. Secondo la teoria di un mercato perfettamente
concorrenziale, nel primo servizio entreranno attori finché non si satura la domanda.
Essendo che tutti agiscono come attori individuali, vi sarà una tendenza a definire un
prezzo che possa garantire l’acquisizione di un cliente. La supposizione è che con
l’aumentare del numero di attori i prezzi tenderanno al ribasso affiche tutti possono
garantirsi una quota di profitto e si fermeranno al punto in cui i costi non superino i ricavi.
Se il prezzo di questa situazione dovesse essere inferiore al prezzo praticato dalla
categoria di trasporto classica, considerando la perfetta sostituibilità tra i due servizi, gli
utenti adotteranno il servizio meno caro. I proponenti del servizio classico essendo in
numero limitato ed appartenenti ad un club, non sono incentivati ad abbassare i prezzi
perché peggiorerebbero la situazione dell’intero club. Senza normare questo gioco si
ricadrebbe in una situazione di perdita per entrambe le categorie. I fornitori del servizio
innovativo avrebbero degli utili esigui per il sovraffollamento dell’offerta ed i fornitori del
servizio classico allo stesso modo vedrebbero il numero dei loro clienti diminuire perché
“mangiati” dall’altro servizio e di conseguenza anche i loro introiti. Se questo fenomeno
avviene in un arco temporale breve, è presumibile pensare che non vi sia il tempo
materiale per l’economia di riadattarsi rapidamente al cambiamento e quindi si
potrebbero creare delle crisi di settore. In tal esempio si potrebbe pensare di introdurre
un limite di vetture circolanti anche per il servizio innovativo al fine di bilanciare il fattore
concorrenziale. In tal sede la concorrenza si sposterebbe fra le due categorie che
comporterebbe un abbassamento dei prezzi ma entrambe le categorie si
comporterebbero ora come un club. Vi sarebbe quindi una sorta di concorrenza fra club.
Si può presumere che in tal situazione la concorrenza si traduca solo marginalmente in un
115
abbassamento dei prezzi quanto piuttosto in una gara verso la prestazione di un servizio
di qualità. La motivazione risiede nel presumere che all’interno del club vi sarà una
tendenza a definire un prezzo comune da proporre al pubblico che non vada a sconvolgere
gli interessi generali del club mentre tra club stessi si andrà ad imporre una concorrenza
sulla qualità del servizio che potrebbe andare a modificare la percezione di sostituibilità
fra i due servizi. La definizione dei limiti funzionali della teoria dei club goods risulta quindi
utile non solo per garantire un uso ottimale del servizio quanto anche per prevenire
potenziali crisi di settore. Quanto espresso è solo un esempio ma estendibile anche ad
altre realtà. L’altra grande domanda è capire se il consumo che emerge dalla sharing
economy sia più sostenibile rispetto al consumo tradizionale. Si può affermare che possa
essere così per alcune forme, in questa trattazione lo si è dimostrato per il carpooling.
Creare strumenti valutativi che possano analizzare il consumo nelle altre forme di
condivisione è sicuramente interessante. Interessante non solo per il fatto che si può
avere una metrica, ma nel momento in cui si può avere una valutazione quantitativa e
raffrontabile, come si è presentata nel caso del carpooling appunto, risulta più facile
disegnare politiche sul fenomeno ed analizzare i costi ed i benefici di applicazione della
medesima. Uno spunto di analisi è stato dato con il social eating che nel caso prendesse
piede nella ristorazione, sarebbe molto interessante comprendere se il pagamento
anticipato possa creare un budget che ottimizzi la spesa al fine di evitare sprechi di
materie prime. Ciò che emerge è che vi possono essere alcuni modelli di economia della
condivisione che possono sostenere l’efficienza energetica e diminuire il consumo di
risorse. Per comprendere quanto si può essere sostenibili è necessario ideare strumenti
di misurazione adatti ad ogni singolo settore dell’economia collaborativa. L’ultima
domanda è quella legata alla dimensione territoriale del fenomeno. Dove si svolge il flusso
di collaborazione? È stato stabilito che il flusso creativo, cioè coloro che inventano la
sharing economy, risiede nelle aree urbane. Nel documento si è provato anche ad
analizzare il lato della domanda e sembra plausibile che il risultato sia simile cioè che
anche coloro che sono propensi a fare uso di queste forme economiche risiedano
prevalentemente nelle aree urbane. Tale chiarificazione è utile per avere una dimensione
geografica del fenomeno che aiuta a comprendere come siano necessarie le
caratteristiche dell’urbanizzazione (elevata densità abitativa, mescolanza di fattori
culturali, numerosità delle relazioni sociali, struttura comunicativa, ecc.) a rendere
possibile lo sviluppo delle varie reti collaborative che abbiamo poi uno sviluppo in termini
di forniture di prodotti e servizi tangibili ed ancor più che diffondano conoscenza. Tirando
le somme si può dire che la sharing economy ha delle potenzialità e sicuramente sta
116
avendo una diffusione rapida quanto importante. Il tema è sensibile al punto che è
argomento di discussione in diverse istituzioni mondiali. In particolare si vuol citare che il
Comitato Europeo delle Regioni, organo consiliare dell’Unione Europea, ha espresso una
posizione formale sul tema dichiarando che vi è una necessità di normare questa forma
di economia garantendo una forma di concorrenza leale tra i vari settori che riesca ad
andare d’accordo con l’innovazione (CommiteeOfRegionsUE, 2015). Ci sono state molti
fatti di cronaca negativi e positivi legati all’economia condivisa. Per esprimere un parere
generale su queste vicende, si può dire che non può essere sufficiente “copiare”
piattaforme che si sono rivelate un successo in alcuni paesi ed “incollarle” in altri perché
può accadere che si trascurino i valori culturali di una determinata nazione. L’economia
collaborativa per poter funzionare al meglio deve funzionare anch’essa adattandosi alle
singole realtà locali altrimenti si corre il rischio di danneggiare l’economia locale. Un po’
come introdurre una specie aliena in un ecosistema. Le conseguenze potrebbero essere
devastanti.
I risultati della ricerca in pillole
Territorialità dell’economia collaborativa: dalle analisi emerge che gli individui coinvolti
in questo fenomeno risiedono prevalentemente nelle aree urbane le cui stesse aree
favoriscono il fenomeno. Si stima che per le classi considerate vi sia una prevalenza urbana
(aree urbane principali definite dall’Istat) degli individui propensi ad aderire a questa
forma di economia che va dal 18% al 40% degli individui di ogni classe (millennials,
istruzione medio-alta, reddito dai 15000 ai 55000 euro). Limiti della ricerca: si tratta di
un’analisi basata su diverse indagini che potrebbero non considerare tutte le variabili che
identificano il consumatore tipo di questa forma di economia. Per avere un dato più
preciso è necessario indagare la localizzazione geografica del consumo di queste forme
economiche, reperibili molto spesso direttamente dai soggetti che forniscono il servizio.
Sostenibilità carpooling sul Sistema Locale del Lavoro di Torino: su uno scenario del 13%
di adesione da parte dei pendolari che si spostano in auto, il risparmio sull’intero Sistema
si attesta in termini di efficienza economica e riduzione di emissioni in un valore del 4%. Il
risparmio economico medio per il singolo individuo calcolato sull’intero sistema si attesta
sui 272 € annui (220 giorni lavorativi). In uno scenario del 50% di adesioni il risparmio
economico ed in termini di emissioni sale ad un valore prossimo al 20%. Il risparmio medio
per ogni singolo individuo si alzerebbe a 306 € annui. Limiti della ricerca: le stime si
basano sui parametri e sui dati forniti dalle fonti citate. Non si possono misurare le scelte
individuali e le stime si basano sugli scenari considerati. I calcoli sono effettuati sui dati
disponibili ed i risultati potrebbero differire da analisi empiriche.
117
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