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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN RELAZIONI
INTERNAZIONALI
La proliferazione nucleare alle origini: il legame tra nucleare civile e militare. Il caso dell’India.
(1945 – 1963)
Relatore Tesi di laurea di Prof.ssa Liliana Saiu MartaMereu
ANNO ACCADEMICO 2006 – 2007
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La proliferazione nucleare alle origini: il legame tra nucleare civile e militare. Il caso dell’India. (1945 – 1963)
INDICE INTRODUZIONE p. 4
Capitolo primo: LA PRIMA ERA NUCLEARE p. 9 1.1. Le origini dell’era nucleare p. 9 1.2. Il primo club nucleare p. 13 1.2.1. Gran Bretagna e Francia entrano nel club… p. 15 1.3. Il legame tra nucleare e civile: la nascita della cooperazione nucleare p. 17 1.3.1. I rapporti sovietico – statunitensi e Atoms for Peace p. 17 1.3.2. La Conferenza di Ginevra sulla cooperazione atomica e la nascita dell’Ente Internazionale per l’energia nucleare
p. 23
1.3.3. Dal nucleare civile a quello militare p. 27 1.4 La svolta balistica p. 28 1.4.1. Il dispiegamento dei missili balistici p. 28 1.4.2 La crisi di Cuba e le conseguenze sul sistema internazionale p. 33 1.5 Le trattative sul Disarmo nucleare p. 37 1.5.1. La ripresa delle trattative per la sospensione degli esperimenti nucleari
p. 37
1.5.2. Conferenza dei diciotto e il Limited Test Ban Treaty p. 39 1.6 L’ingresso della Cina nel club nucleare p. 44 1.7 Verso una nuova era nucleare: il Gilpatric Report e la politica statunitense
p. 51
1.8 La nuova era nucleare p. 61 Capitolo secondo: IL CASO INDIANO ALLE ORIGINI P. 64 2.1. La nascita del programma atomico indiano: propositi pacifici o militari? p. 64 2.2 Il contesto internazionale: le relazioni estere dell’India fino al 1963 p. 72 2.2.1. L’Unione Sovietica p. 73 2.2.2. La Cina p. 75 2.2.2.1. Reazioni internazionali alla crisi sino – indiana. p. 77 2.2.2.2. Implicazioni sulla politica nucleare e di difesa indiana p. 80 2.2.3. Gli Stati Uniti p. 81 2.2.3.1. L’amministrazione Eisenhower verso l’India p. 81 2.2.3.2. La cooperazione atomica con gli Stati Uniti p. 86 2.2.3.3. … e l’amministrazione Kennedy p. 91
BIBLIOGRAFIA p. 93
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INTRODUZIONE
La necessità di impedire o, quanto meno, di ridurre drasticamente la diffusione
delle armi nucleari è stata ben presente sin dall’inizio della prima era nucleare. Già nel
gennaio 1946, a pochi mesi dalla distruzione di Hiroshima e Nagasaki, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite adottò una risoluzione che impegnava gli Stati membri a
non dotarsi di ordigni nucleari e a limitare l’uso dell’energia atomica a scopi
esclusivamente pacifici. Quello stesso anno l’amministrazione americana propose la
costituzione di un’Autorità internazionale con poteri di controllo ed ispezione su tutte le
attività connesse con l’energia atomica. Tale iniziativa, così come l’idea da parte
sovietica qualche anno dopo, che proponeva il bando delle armi nucleari e la distruzione
di quelle già realizzate, non godette di grande successo. Nei fatti, la logica
dell’equilibrio strategico tra i blocchi contrapposti ebbe il sopravvento. Se da un lato ciò
contribuì ad evitare un conflitto generalizzato, dall’altro alimentò il grave rischio di una
proliferazione incontrollata di ordigni nucleari in Paesi diversi, più o meno instabili dal
punto di vista politico. La diffusa percezione di questo rischio favorì nel corso del
tempo la stipulazione di una serie di accordi internazionali che, ancorché parziali, hanno
avuto il merito di consentire un certo controllo del problema, tenendo aperto il tavolo
dei negoziati. Nel 1963, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica firmarono a
Mosca il Limited Test Ban Treaty, che vietava qualsiasi esplosione atomica
sperimentale nell’atmosfera, nello spazio esterno e nell’acqua. Questo primo trattato, a
cui inizialmente non aderirono né Francia né Repubblica Popolare Cinese, se non
costituì un passo rilevante nella direzione di una limitazione effettiva della
sperimentazione di ordigni nucleari, che proseguiva infatti a ritmi accelerati nel
sottosuolo, consentì almeno di eliminare la principale sorgente di contaminazione
radioattiva nell’atmosfera, che già aveva raggiunto livelli di una certa preoccupazione.
Questo lavoro ha come obiettivo quello di concentrarsi sulla stretta linea che
separa gli scopi prettamente civili e pacifici di un programma atomico da quelli militari.
Infatti, già nel 1943, nel corso del Manhattan Project, si sviluppò l’idea che il reattore
nucleare, con cui veniva prodotto il plutonio per la bomba che poi venne lanciata sulla
città di Nagasaki, generasse energia termica che poteva essere convertita in energia
elettrica. Apparve subito evidente ai generali e ai governanti il vantaggio di costruire
centrali nucleari civili che, mentre producono energia elettrica, possono fornire plutonio
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e altro materiale fissile per uso militare e allo stesso tempo ammortizzarne i costi
attraverso la vendita dell’energia prodotta.
Si avviò nel corso degli anni ’50 una fase di trattative diplomatiche, in
particolare tra le due potenze statunitense e sovietica, arrivando fino al completo
coinvolgimento delle Nazioni Unite, volte a studiare i “i mezzi per sviluppare gli usi
pacifici dell’energia atomica attraverso la collaborazione internazionale”. Questa fase fu
avviata dal discorso pronunciato nel 1953 dal presidente statunitense Dwight D.
Eisenhower in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in cui pronunciò la
necessità di istituire al più presto un ente internazionale “che potrebbe essere investito
della responsabilità di raccogliere, immagazzinare e proteggere i materiali fissili e di
altro genere forniti a titolo di contributo…”. L’idea di istituire un pool atomico fu
attentamente studiata nella fase successiva, caratterizzata dal cosiddetto “sistema di
Ginevra” che, aperto nel 1955, non senza numerosissime schermaglie diplomatiche,
soprattutto tra un blocco e l’altro, vide nascere nel 1957 la IAEA, agenzia internazionale
per l’energia atomica.
Nonostante il sistema di Ginevra avesse aperto una fase per così dire distensiva e
“cooperativa”, auspicando un graduale dispiegamento degli ordigni atomici, la corsa
agli armamenti proseguì ancor più sfrenatamente con lo schieramento dei più potenti
vettori nucleari a gittata intercontinentale: i missili balistici lanciati da terra (ICBM) e
quelli lanciati dal mare (SLBM). La contesa che prese il via con la sperimentazione di
missili balistici della gittata sempre più lontana mise in luce aspetti pratici e significati
simbolici, acquistando un importante peso politico, militare e soprattutto “strategico”.
Fu proprio in questa fase che avvicinò sempre di più il pericolo di una guerra nucleare.
Le due maggiori crisi, quella di Berlino e quella di Cuba, ebbero, tuttavia, effetti
terapeutici importanti, segnando un cosiddetto “momento culminante” dopo il quale si
avviò gradatamente un processo di distensione, che vide con la stipula del Limited Test
Ban Treaty il primo passo concreto verso una, seppur parziale, disciplina contro la
proliferazione degli armamenti nucleari.
Eclatante fu la denuncia, oltre che della Francia di de Gaulle, della Repubblica
Popolare Cinese che considerò il Trattato “una grossa frode per ingannare i popoli del
mondo…diametralmente opposto ai desideri di tutti i popoli amanti della pace del
mondo…perché questi chiedono il disarmo generale e una proibizione completa delle
armi nucleari… mentre questo accordo scinde completamente la cessazione degli
esperimenti nucleari e opera contro il disarmo”. E fu proprio il programma atomico in
atto nella Cina comunista ad aprire una nuova fase della prima era nucleare. Infatti, già
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nel 1955 era allo studio la possibilità di iniziare un programma di costruzione di armi
atomiche.
Quali erano gli effetti che tale progetto, ed eventuali test nucleari, avrebbero
avuto sull’intera comunità internazionale e, in particolar modo, sull’intera area asiatica?
Erano questi i principali quesiti che tormentarono l’intera amministrazione americana
agli inizi degli anni sessanta. E fu questo l’oggetto a cui la cosiddetta Commissione
Gilpatric, istituita nel 1964 dall’amministrazione Johnson, dovette rispondere, aprendo
una nuova politica estera nucleare negli Stati Uniti. Qual era la strategia da adottare
verso quei paesi che presto avrebbero preteso di sviluppare piani atomici sulla base di
quanto stava accadendo in Cina?
Il rapporto presentato al presidente degli Stati Uniti nel 1965 assumeva che le
armi nucleari rappresentavano, ormai ovunque nel mondo, un marchio distintivo di
prestigio e riconoscimento internazionale, un elemento essenziale per la propria
sicurezza nazionale, e, inoltre, non necessitavano più di grandi risorse industriali per
poter essere prodotte”. Tali capacità avrebbero, in poche parole, intensificato gli
squilibri regionali e le ostilità tra i “nuovi” stati-nucleari e i propri vicini; avrebbero
creato sbilanciamenti dal punto di vista economico alle aspirazioni di sviluppo dei paesi
coinvolti; e, in ultima analisi, avrebbero ostacolato il già difficile obiettivo di ridurre gli
armamenti nel mondo. Inoltre, sosteneva il rapporto, andava ad indebolirsi in alcune
aree strategiche la stessa influenza diplomatica americana, costringendo il paese ad una
situazione isolazionista, che eviterebbe il coinvolgimento in un “eventuale” conflitto
atomico globale.
Uno dei punti focali che il Rapporto Gilpatric aprì fu il caso indiano, del cui
questo stesso lavoro si occupa nella seconda parte. L’India, secondo Stato al mondo per
numero di abitanti e quindi destinato per forza di cose ad avere un impatto crescente
sulla politica internazionale e sullo scenario asiatico. Secondo le preoccupazioni destate
dalla stessa amministrazione statunitense avrebbe presto ambito a costruirsi un proprio
arsenale atomico, visti, in prima istanza, i non ottimi rapporti di vicinato con la Cina e,
in seconda analisi, con il Pakistan.
Tale preoccupazione americana non fu per niente infondata. Infatti, fin da prima
dell’indipendenza, nel 1947, il primo ministro indiano Jawaharal Nerhu e Homi
Bhabha, responsabile dell’Atomic Energy Commission indiano, cercarono di
guadagnare, per il proprio paese, il prestigio, lo status e i benefici economici derivanti
da un eventuale capacità nucleare. Anche per il governo di New Delhi, quindi, la
capacità di utilizzare l’energia atomica, sia che fosse a fini pacifici che militari, avrebbe
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significato modernità, prosperità, separazione dal passato coloniale, prodezza dal punto
di vista nazionale e individuale e, non ultima, influenza sul piano internazionale.
Sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando nacque l’Istituto privato
per la ricerca fondamentale guidato da Homi Bhabha formatosi in Inghilterra, l’India
aveva sviluppato un avanzato programma di produzione di energia nucleare a scopo
civile, grazie all’assistenza tecnico-scientifica ottenuta tramite accordi bilaterali con la
Francia, con il Canada e, infine, con gli Stati Uniti. È proprio sull’accordo di
cooperazione con gli Stati Uniti che questo lavoro si sofferma e termina.
Il programma nucleare indiano giungerà ad una svolta proprio quando la Cina
comunista effettuerà i suoi primi test atomici, scatenando le preoccupazioni e le
perplessità del governo indiano che, continuando a dichiarare gli intenti pacifici
dell’acquisita capacità nucleare, il 18 maggio 1974 effettuerà le sue prime esplosioni
nucleari nel sottosuolo del deserto del Rajasthan.
Questo progetto di tesi prende ad esame il caso dell’India alle sue origini,
fintanto che, quindi, non giungerà ad una svolta. L’obiettivo è quello di concentrarsi
sugli aspetti pacifici e civili del programma nucleare indiano, esaminando le cause
storiche e politiche che hanno consentito lo sviluppo del progetto indiano e gli aspetti
che ne hanno consentito la collaborazione tecnica con Paesi altri, in particolar modo con
gli Stati Uniti d’America.
Le fonti della ricerca sono state reperite principalmente presso i National
Archives di Londra, sia per le opere monografiche e le raccolte di saggi che per quanto
riguarda la documentazione diplomatica, visto lo stretto legame che stringe ancora la
Repubblica indiana con la Gran Bretagna. Altra parte importante del lavoro è stata
svolta con l’ausilio della documentazione diplomatica resa disponibile dai Foreign
Relations United States (d’ora in poi FRUS) e dal National Security Archives della
George Washington University. Altri ancora, disponibili grazie al Freedom of
Information Act (FOIA).
Questa ricerca è stata possibile grazie al prezioso contributo finanziario
erogatomi dalla Regione Sardegna e concessomi dall’Ente Regionale per il Diritto allo
Studio Universitario della Sardegna in favore di “tesi di laurea sui problemi della
Cooperazione allo Sviluppo e della Collaborazione Internazionale”, a cui va il mio
ringraziamento più sentito per aver ritenuto valido questo mio progetto. Un grazie
speciale al mio amico Dott. Christian Rossi per la sua disponibilità e i preziosissimi e
immancabili consigli, così come alla Prof.ssa Liliana Saiu per il costante sostegno e la
grande fiducia che ormai da anni ripone nel mio lavoro e nella mia persona.
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Un grazie speciale va poi a tutti i miei colleghi, ormai compagni di vita, per tutti
questi anni passati insieme a condividere gioie e disgrazie tra i banchi della biblioteca di
scienze politiche. E alla mia famiglia, ai miei genitori che supportano ogni mia scelta e
mi hanno guidato pazientemente fin qua. A loro dedico questo piccolo mio traguardo.
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CAPITOLO PRIMO
LA PRIMA ERA NUCLEARE
1.1.Le origini dell’era nucleare
La cronologia storica dello sviluppo degli armamenti nucleari inizia con le
scoperte scientifiche degli anni trenta, dando il via, nell’immediato dopoguerra, ai primi
test nucleari che apriranno la cosiddetta “corsa agli armamenti” durante la Guerra
Fredda. I precursori dei test atomici furono gli Stati Uniti (1945), seguiti da Unione
Sovietica (1949) e ancora più avanti da Gran Bretagna (1952), Francia (1960) e Cina
(1964). La fase successiva fu caratterizzata dall’ormai impellente problema che la corsa
agli armamenti poneva in essere: la proliferazione nucleare.
La prima bomba atomica fu realizzata presso i laboratori di Los Àlamos nel New
Mexico nel 1945, ad opera di un team di scienziati di eterogenea nazionalità (ma
prevalentemente britannica, statunitense e canadese), aderenti al cosiddetto Manhattan
Project coordinato dal fisico statunitense Robert Oppenheimer incaricato della sfera
scientifica, e dal Generale Leslie R. Groves per la sicurezza e le operazioni militari.
Formalmente conosciuto come Manhattan Engineering District (MED)1, esso fu posto a
capo di numerosi centri di ricerca, poiché considerato il più importante, e fu portato
avanti per tutto il periodo tra il 1942 e il 1946 sotto il controllo del U.S. Army Corps of
Engineers. Il bisogno di un miglior coordinamento, infatti, fu presto incalzante e nel
settembre 1942, le difficoltà connesse con la conduzione di studi preliminari sulle armi
atomiche in università sparse per tutti gli Stati Uniti, indicarono il bisogno di un
laboratorio dedicato unicamente a quello scopo. Tale bisogno era però oscurato dalla
1 Il Progetto Manhattan originariamente comprendeva diverse università statunitensi, come ad
esempio la famosa University of Chicago che eseguì i primi test sulla reazione a catena sotto la direzione del fisico italiano Enrico Fermi. Più tardi venne istituito il Laboratorio Nazionale di Lòs Alamos nel New Mexico, sotto la supervisione dell’University of California. I principali centri di ricerca messi a capo del progetto furono: Hanford Site di Washington, il Laboratorio Nazionale di Lòs Almos nel New Mexico, il Laboratorio Nazionale di Oak Ridge nel Tennessee, il Distretto Nazionale di Sicurezza Y-12, e numerosi altri centri. L’esistenza di questi centri di ricerca fu mantenuta segreta fino alla fine della Guerra. Il progetto comprese circa 130.000 persone che, nella maggior parte dei casi, non erano a conoscenza delle finalità del progetto, non sapendo, quindi, per cosa stessero lavorando. Il costo finale del progetto fu di 2milioni di dollari americani del tempo, pari a circa 20miliardi di dollari attuali (basato sul CPI del 2004 vedi in The Brookings Institutions, The cost of the Manhattan Project, da The U.S. Nuclear Weapons Cost Study Project, http://www.brookings.edu/FP/PROJECTS/NUCWCOST/MANHATTN.HTM; Stephen I. Schwartz Atomic Audit: The Costs and Consequences of U.S. Nuclear Weapons. Washington, D.C.: Brookings Institution Press, 1998); cfr. anche Ferec Morton Szasz, The Manhattan Project, in The Atom Bomb, Tamara L. Roledd (edited by), Greenhaven Press, San Diego, 2000. pp. 67-75. Vedi anche Leslie Groves, Now it Can be Told: The Story of the Manhattan Project. New York: Harper, 1962.
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richiesta di impianti di produzione per l'uranio-235 e il plutonio, i materiali fissili che
avrebbero fornito l'esplosivo nucleare.
Il progetto pone le sue radici nella preoccupazione di molti scienziati
statunitensi, primi tra tutti Oppenheimer e i suoi colleghi a Los Àlamos, convinti che
nella Germania Nazista fosse in atto un programma di ricerca finalizzato allo
sfruttamento dell’energia atomica per fini militari e, quindi, alla costruzione di armi
nucleari. Nel gennaio 1939 arrivò a New York un fisico danese, Niels Bohr, uno dei più
grandi fisici di tutti i tempi, che incontrò i colleghi americani e gli esuli europei che,
come Enrico Fermi, avevano dovuto lasciare l’Europa a causa delle persecuzioni
razziali. Rivelò dei risultati che i ricercatori tedeschi avevano raggiunto verso la fine del
1938 nei loro lavori di ricerca sulla fissione dell’atomo. La notizia diede un forte
impulso ai ricercatori americani.
Nel giugno 1940, mentre i Tedeschi sopraffacevano la Francia, il presidente
Roosevelt affidò la direzione del National Defence Research Committee (NDRC) a
Vannevar Bush, ingegnere matematico a cui venne assegnato il compito di assicurare
agli Stati Uniti il controllo delle risorse d’uranio (allora prodotto nel Katanga, una delle
regioni del Congo belga) per metterle a disposizione del progetto di “reazione a catena”
che l’NDRC avrebbe finanziato.2
Benché le conseguenze militari delle scoperte atomiche non fossero ancora ben
delineate, gli scienziati ne intravedevano la portata rivoluzionaria
Ricercatori rifugiatisi negli Stati Uniti come Leo Szilard, Edward Teller ed
Eugene Wigner ritenevano che l'energia rilasciata durante la fissione nucleare avrebbe
potuto essere utilizzata per una bomba dai tedeschi, e persuasero Albert Einstein, il
fisico più famoso negli Stati Uniti, ad avvertire il presidente Franklin Delano Roosevelt
di questo pericolo. L’aggravarsi della situazione internazionale faceva temere, infatti,
che Hitler potesse per primo entrare in possesso di una tecnologia così avanzata da porre
il resto del mondo in condizioni di estrema debolezza.
Fu l’intelligence britannico che, tra la fine del 1941 e settembre 1943, lavorò per
ottenere informazioni sulle attività atomiche in Germania. Nel 1942 un giovane
scienziato dell’Università di Stoccolma riferì al SIS (British Secret Intelligence Service)
circa i luoghi in cui erano in atto ricerche scientifiche nel territorio tedesco, e sui
contatti tra i suoi colleghi svedesi e la Germania. Vi fu un’altra fonte importante
all’interno della stessa Germania: Paul Rosbaud, un chimico austriaco consulente
scientifico della casa editrice Springer- Verlag, molto importante poiché fu la prima a
2 Ferec Morton Szasz, op. cit. pp.72-74.
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pubblicare, su un periodico scientifico, il rapporto sulla scoperta della fissione atomica
di Hahn e Strassman. Attraverso il suo lavoro Rosbaud ebbe la possibilità di conoscere
individui che probabilmente erano figure chiave nel programma di ricerca tedesco,
gestendo la trasmissione di alcune informazioni importantissime sulle loro attività
atomiche ai britannici, nonostante spesso vi fosse resistenza da parte di Svizzera e
Norvegia.3 Fu, quindi, grazie a questi e altri individui, e grazie alla collaborazione con
altri governi (i lavori di intelligence non diedero nessun tipo di contributo) che la Gran
Bretagna ricevette un gran numero di rapporti e indicazioni su cosa la Germania avesse
o non avesse portato a termine. Nell’estate del 1942 in un rapporto si ipotizzava che il
fisico tedesco Heisenberg fosse responsabile in Germania del progetto di produzione di
una bomba tipo U-235 e dello sfruttamento di energia attraverso il processo di fissione
atomica. Nello stesso anno un periodico scientifico tedesco pubblicò un rapporto
dettagliato sul metodo di diffusione termica della separazione degli isotopi, che si
esegue generalmente quando si attua un processo di separazione dell’uranio. I Britannici
scoprirono che dopo l’invasione del Belgio da parte tedesca nel 1940, la Germania ebbe
accesso alla più grande riserva di ossido di uranio d’Europa, tenuta nella raffineria
Union Miniére di Olen. Il SIS riportò che i nemici erano impegnati nel tentativo di
accrescere la produzione di acqua pesante nella struttura di Vemork, nei territori della
Norvegia occupata.4
Nonostante tutto, le informazioni in mano ai servizi segreti britannici portarono
alla conclusione che la Germania, con molta probabilità, non rappresentasse affatto una
minaccia nella costruzione di armi atomiche. Una conclusione che, comunque, non fece
accantonare le preoccupazioni dall’altra parte dell’Atlantico finché il servizio di
intelligence istituito in seno al Manhattan Project, proprio per indagare sulle attività in
atto nella Germania nazista, a cui Groves mise a capo il maggiore Robert Furman, non
ottenne abbastanza informazioni per giungere alla medesima conclusione. Verso la fine
del 1944 un gruppo di soldati e scienziati americani arrivarono all’Università di
Strasburgo dando il via all’Alsos Operation, una missione istituita sotto il Manhattan
Project, che si poneva come fine quello di ispezionare e mettere luce sul programma
energetico nucleare portato avanti dalla Germania nazista e verificare, finalmente,
quanto avanti fossero andate le ricerche in vista della costruzione di un’arma atomica.
Furono ispezionati, sequestrati e nascosti documenti, interrogati gli studiosi tedeschi
3 Jeffrey T. Richelson, Spying on the Bomb: American nuclear intelligence from Nazi Germany to
Iran and North Korea, W.W. Norton & Company, New York, 2006. pp. 30-31. Vedi anche Hinsley, Thomas, Ransom, and Knight, British Intelligence in the Second World War, Volume 2, pp.125-126.
4 Ibidem.
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catturati, esaminata ogni bozza di progetto a disposizione che sarebbe potuta cadere in
mano non statunitense. Gli addetti al progetto ispezionarono zone del territorio italiano,
francese e, ovviamente, tedesco.5
Fu presto chiaro che quanto affermato dai Britannici nel 1943 era
sostanzialmente vero: la Germania di Hitler non fu in grado di sviluppare e portare a
compimento il progetto di costruzione della bomba atomica prima che le truppe alleate
sconfiggessero e occupassero il territorio tedesco nel giugno del 1944. Ciò che convinse
gli Statunitensi e i Britannici fu che il programma energetico nucleare portato avanti
dalla Germania nazista non disponeva delle stesse risorse finanziarie e umane di cui,
invece, il Manhattan Project americano poteva godere. Hitler non aveva creduto nella
priorità delle ricerche nucleari e nel giugno del 1942 ne aveva ordinato la sospensione a
vantaggio delle ricerche missilistiche. Del resto, le operazioni di sabotaggio segreto
contro gli impianti di produzione di acqua pesante, necessaria come ambiente nel quale
gli scienziati tedeschi intendevano operare la fissione nucleare, crearono ulteriori
difficoltà scoraggiando anche i ricercatori più tenaci.
La Germania nazista rimaneva comunque la patria di molti tra i più grandi fisici
del mondo, il paese in cui Oppenheimer e altri si recarono per studiare e laurearsi, e,
soprattutto, il paese in cui la fissione atomica era stata scoperta.6
Le conoscenze tedesche in materia scientifico- nucleare furono utilizzate dagli
Stati Uniti dopo la fine del secondo conflitto mondiale poiché, grazie al Paperclip
Operation7, vennero reclutati quanti più possibili scienziati tra quelli nazisti per sottrarli
ad altri paesi (soprattutto all’Urss) che avrebbero potuto avvantaggiarsi similarmente dei
progressi scientifici compiuti dalla Germania nazista.
A loro volta anche scienziati sovietici avevano avviato ricerche nel settore
dell’energia nucleare, ma nel 1941 il loro lavoro fu paralizzato dall’attacco della
Germania. Stalin seppe dei preparativi americani grazie alle informazioni trasmesse da
alcuni agenti infiltrati nell’Atomic Energy Commission. Stalin affidò al fisico Igor
Kurčatov il compito di lavorare sulla base delle informazioni pervenute dai servizi
5 Ivi pp. 51-61. Cfr. anche Pash, T. Boris, The Alsos Mission, New York 1969; The National
Archive, Correspondence ("Top Secret") of the Manhattan Engineer District 1942-1946, Washington D.C., 1980, www.gwu.edu.
6 Jeffrey T. Richelson , op. cit., pp. 17-19. 7 Paperclip Operation fu il nome in codice sotto il quale l’intelligence statunitense e i servizi
segreti militari importarono un gran numero di nazi-tedeschi durante e dopo la II guerra mondiale. Il progetto era inizialmente chiamato Operation Overcast, e raramente Paperclip Project. Particolare interesse destarono esperti in aerodinamica, missilistica, armi nucleari, chimica e medicina. Questi furono segretamente portati con le loro famiglie nel territorio statunitense, senza l’approvazione del Dipartimento di Stato. La maggior parte degli esperti, circa 500, furono impiegati tra il White Sands Proving Ground, nel New Mexico; il Fort Bliss, nel Texas; e Huntsville, in Alabama, per lavorare nello sviluppo della tecnologia missilistica e balistica. Entreranno poi nella NASA e nel US ICBM program.
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segreti per organizzare anche nell’Unione Sovietica ricerche parallele. Ma solo
nell’estate del 1945 gli scienziati sovietici ebbero a disposizione quantità sufficienti di
minerale d’uranio per dare un carattere più concreto al loro lavoro.
Tutti i protagonisti politici e molti tra quelli scientifici del Mahattan Project si
resero conto anche della portata politica di ciò che essi stavano facendo, non solo in
relazione alla guerra che era in corso ma anche in prospettiva futura. Gli storici ufficiali
dell’Atomic Energy Commission hanno scritto: “Sia Roosevelt che Churchill sapevano
che il fondamento della loro diplomazia consisteva in una innovazione tecnologica così
rivoluzionaria, che la sua importanza trascendeva persino il compito sanguinoso di
portare la guerra sul territorio nazista”8. In altre parole, essi sapevano che l’arma
atomica avrebbe modificato la natura della guerra e perciò la natura delle relazioni
internazionali. Nel momento in cui nasceva, dunque, la questione atomica poneva
problemi tecnologici, problemi militari e problemi politici.
1.2. Il primo club nucleare
Un mese dopo il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, nel settembre 1945,
al Pentagono già si calcolavano quante bombe nucleari sarebbero servite contro un
nemico delle dimensioni dell’Urss.
All’epoca gli Stati Uniti possedevano 6 bombe9, che salirono a 11 nel 1946. Il 5
marzo di quell’anno, il discorso di Winston Churchill sulla “cortina di ferro” aprì
ufficialmente la guerra fredda.
Questa prima fase dell’era nucleare fu governata dall’Atomic Energy Act10,
varato nel 1946, che sostanzialmente poneva un embargo alle esportazioni di
informazione in campo scientifico- nucleare e di materiale fissile. Nello stesso anno gli
Stati Uniti portarono dinnanzi le Nazioni Unite le proposte formulate da Bernard
8 Scott. D. Sagan, Kenneth N. Waltz, The Spread of Nuclear Weapons, W. W. Norton & Company,
New York, 2003, pp. 47 – 48. 9 Dati del Bulletin of Atomic Scientists, in Global Nuclear stockpiles, 1945-2006, by Robert N.
Norris and Hans M. Kristensen, luglio/agosto 2006, Bulletin of Atomic Scientists 2006, pp. 64-66. http://www.thebulletin.org/article_nn.php?art_ofn=ja06norris
10 L’Atomic Energy Act of 1946 (Public Law 585, 79th Congress), conosciuto come MacMahon Act, fu firmato dal Presidente Truman il 1agosto 1946 a Washington. Disciplinava il modo in cui il governo degli Stati Uniti avrebbe controllato e gestito la tecnologia nucleare. Questo stabiliva che le armi nucleari sarebbero state sotto controllo civile, piuttosto che militare, istituendo la Atomic Energy Commission. Nella sezione n.5 intitolata “Control of materials” si legge che la Commissione è assolutamente non autorizzata a cedere informazioni a paesi stranieri sulla ricerca in materia di tecnologia nucleare negli Stati Uniti [The Commission shall not distribuite any fissionable material to…any foreign government…]. In Senate Special Committee on Atomic Energy, Atomic Energy Act of 1946. Hearings on S. 1717 January 22-April 4, 1946 (Washington, D.C., 1946), 1-9; Vedi anche Atomic Energy Act of 1946 (Public Law 585, 79th Congress), U.S. Department of Energy, Office of Scientific & Technical Information, http://www.osti.gov/atomicenergyact.pdf.; Atomic Energy Act of 1946, NuclearFiles.org, www.nuclearfiles.org.
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Baruch sui controlli internazionali dell’energia atomica, che anticiparono di qualche
anno il discorso “Atoms for peace” del presidente Eisenhower nel 1953. Già da allora
gli Stati Uniti sottolinearono il pericolo derivante dalle applicazioni militari delle armi
atomiche, esprimendo la necessità di istituire in breve tempo una forma di supervisione
internazionale nel campo della produzione e proliferazione atomica.11
Il 30 giugno e il 24 luglio del 1946 gli Stati Uniti effettuarono le prime
esplosioni sperimentali nell’atollo di Bikini (Isole Marshall, Oceano Pacifico), per
verificarne gli effetti su un gruppo di navi in disarmo. Nel 1947, l’arsenale statunitense
salì a 32 bombe nucleari, nel 1948 a 110, nel 1949 a 235.
Con un tal numero di testate, gli Stati Uniti nel 1949, possedevano già
abbastanza armi nucleari da attaccare l’Unione Sovietica. Esse potevano essere
trasportate dalle superfortezze volanti B-29, già usate per il bombardamento di
Hiroshima e Nagasaki. Questi erano bombardieri capaci di volare per 6.000 km ad una
velocità di crociera di 350km/h, raggiungendo una quota di 10.000 metri.12
Il monopolio atomico degli Stati Uniti diede per qualche anno l’illusione che
Washington potesse esercitare sino in fondo quella “diplomazia atomica” della quale
molti hanno parlato e che allora molti temevano.
Il sogno americano di conservare il monopolio delle armi nucleari svanì, però,
molto presto, quando il 29 agosto 1949, nonostante l’embargo posto con l’Atomic
Energy Act del 1946, l’Unione Sovietica effettuò la sua prima esplosione sperimentale,
chiamata in codice “First Lightning”, con un ordigno al plutonio, l’RDS-113. L’obiettivo
principale del programma nucleare russo nella fase iniziale era quello di far esplodere il
proprio ordigno il più presto possibile e a qualunque costo. Infatti, l’insistenza di
Lavrentij Pavlovic Beria, il capo della polizia segreta sovietica, fece si che il primo
ordigno russo fosse una copia identica del disegno atomico americano, esploso a
Hiroshima, Fat Man.
I sovietici non riuscirono mai a superare gli americani dal punto di vista
tecnologico ma, ciò che importa, è che sotto il piano politico la fine del monopolio
statunitense cambiava le regole del gioco e i rapporti di forza. Benché la tendenza
generale della Guerra Fredda fosse verso una generale sicurezza e moderazione, vi
11 John A. Hall, Risks of nuclear proliferation: Atoms for Peace, or War, in “Foreign Affairs”,
1964-1965, pp. 602-603. 12 Robert S.Norris, Steven M. Kosiak, and Stephen I. Schwartz, Deploying the Bomb, in Atomic
Audit, Stephen I. Schwartz (edited by), Brookings Institution Press, Washington 1998, pp. 112-113. 13 La designazione RDS è ancora oggetto di arbitrario significato e di varie interpretazioni, delle
quali la più popolare sarebbe quella secondo cui significherebbe “Reaktivnyi Dvigatel Stalina” (il motore a razzo di Stalin), mentre un’altra ancora sarebbe “Russia Does it Alone”. In www.nuclearweaponarchive.org.
15
furono diverse situazioni di emergenza: due importanti guerre in Asia, la crisi di Berlino
e il Medio Oriente, e la pericolosa crisi dei missili di Cuba. In ciascuno di questi eventi,
ma non solo, Stati Uniti e Unione Sovietica minacciarono l’uso delle armi nucleari, che
non vennero mai impiegate.14
Nella fase iniziale, gli Stati Uniti mantennero un netto vantaggio: tra il 1950 e il
1951 il loro arsenale salì da 369 a 640 armi nucleari, mentre quello sovietico da 5 a 25.
Avvalendosi di tale superiorità, il Pentagono cominciò a schierare armi nucleari e a
preparare piani per un loro eventuale impiego. Nel settembre 1950, tre mesi dopo lo
scoppio della guerra di Corea15, trasferì nell’Isola di Guam (Micronesia, Oceano
Pacifico) dieci bombardieri con a bordo bombe nucleari.
Nel 1951, il comando statunitense si preparava ad una ritorsione nucleare contro
le forze sovietiche in Manciuria nel caso esse attaccassero in Corea.
1.2.2 Gran Bretagna e Francia entrano nel club. Mentre iniziava il confronto
nucleare tra Stati Uniti e Urss, Gran Bretagna e Francia, le due potenze minori uscite
vincitrici dalla seconda guerra mondiale, iniziarono a muoversi per entrare anch’esse nel
club nucleare. La prima a riuscirvi fu la Gran Bretagna che, in realtà, fu il primo paese a
studiare la fattibilità della bomba atomica, eseguendo numerose scoperte concettuali già
agli inizi degli anni quaranta. Il programma nucleare inglese nacque durante la II Guerra
Mondiale sotto il progetto Tube Alloys in cui vennero acquisite le conoscenze per la
costruzione di bombe al plutonio. Il progetto fu successivamente assorbito dal
Manhattan Project, che, comunque, non impedirà alla Gran Bretagna di proseguire per
proprio conto il programma mirante alla produzione di bombe al plutonio.
Nell’immediato dopoguerra, il 29 agosto 1945, il nuovo governo laburista presieduto
dal Primo Ministro Clement Atlee istituì una commissione segreta sull’energia atomica,
chiamata GEN.75 (informalmente conosciuta come Atomic Bomb Commitee) sotto cui
nascerà la politica nucleare britannica. L’istituzione della commissione, costituita da
una sottocommissione del Governo stesso, era stata resa necessaria dal rifiuto degli Stati
Uniti di proseguire la cooperazione nucleare con la Gran Bretagna dopo la II guerra
mondiale. Probabilmente il varo del MacMahon Act fu un ulteriore spinta affinché la
14 Prefazione di Ennio di Nolfo in Marilena Gala, Il Paradosso Nucleare, il Limited Test Ban
Treaty come primo passo verso la distensione, Ed. Polistampa, Firenze, 2002. pp. 9-12. 15 United States of America Korean War Commemoration, http://korea50.army.mil/; Cfr. anche
Brune, Lester and Robin Higham, eds., The Korean War: Handbook of the Literature and Research, Greenwood Press, 1994; Kaufman, Burton I., The Korean Conflict, Greenwood Press, 1999; Field Jr., James A. History of United States Naval Operations: Korea, University Press of the Pacific, 2001.
16
Gran Bretagna realizzasse una politica e un programma nucleare indipendenti.16 Il
programma proseguì dal 1946 sotto la supervisione civile, e quindi non militare,
dell’United Kingdom Atomic Energy Authority a cui era stato affidato l’incarico per la
produzione di materiale fissile, inizialmente solo plutonio 239, che rientrava,
comunque, nel programma stetegico – militare britannico.
Il 3 ottobre 1952 la Gran Bretagna mise in atto a Monte Bello Islands, in
Australia, l’operazione Hurricane. Il dispositivo utilizzato in questo primo test fu una
bomba ad implosione al plutonio, anch’essa, come quella russa, progettata con un
meccanismo quasi identico alla Fat Man statunitense. La prima bomba nucleare
operativa al plutonio britannica, chiamata Blue Danube, fu ultimata nel novembre 1953
grazie ai test realizzati un anno prima con la sopraccitata operazione Hurricane.17
Il vantaggio dell’Occidente, quindi, accresceva, aumentando ulteriormente
quando, il primo novembre dello stesso anno, gli Stati Uniti fecero esplodere la prima
bomba H (all’idrogeno), oltre ottocento volte più potente di quella di Hiroshima. La
capacità distruttiva di questi ordigni era eguale a diecimila tonnellate di tritolo; le
bombe H avevano una potenza misurata in megaton, cioè in migliaia di tonnellate.
In quel momento gli Stati Uniti avevano 1.005 armi nucleari, mentre l’Urss ne
possedeva 50.
Gli Stati Uniti erano in vantaggio anche nel campo dei vettori: nel 1955,
cominciavano a schierare bombardieri strategici B-52, appositamente concepiti per
l’attacco nucleare. Potevano volare per 14.000 km alla velocità di 1.000 km/h, fino ad
una quota di 15.000 metri, trasportando 31 tonnellate di bombe. Dal 1945 al 1961 ne
costruirono 744. Gruppi di B-52 del Comando aereo strategico, armati di bombe
nucleari, erano tenuti sotto controllo ventiquattr’ore su ventiquattro, pronti all’attacco.
Contemporaneamente, il 22 novembre 1955, l’Unione Sovietica fece esplodere
la sua prima bomba H, oltre 100 volte più potente di quella di Hiroshima, e, a iniziare
dal 1957, schierò il bombardiere strategico TU-95 Bear (secondo la dominazione
occidentale), anch’esso concepito per l’attacco nucleare: poteva trasportare per 13.000
km 12 tonnellate di bombe.18 Era inferiore , come capacità, al B-52 statunitense, ma non
per questo meno temibile: è un TU-95V che, nel test del 31 ottobre 1961, sganciava una
bomba H da 60 megaton, la cui potenza equivale a quella di 4.600 bombe di Hiroshima.
16 Sir M. Perrin, The Listener, 7 October 1982. Dello stesso autore vedi anche How Nuclear
Weapons Decisions are Made, Oxford Research Group, 1986. p.137. 17 Britain’s Nuclear Weapons, From MAUD to Hurricane, 14 maggio 2002,
http://nuclearweaponarchive. org/Uk/UKOrigin.html 18 Robert S.Norris, Steven M. Kosiak, and Stephen I. Schwartz, Deploying the Bomb, op.cit.
pp.116-117.
17
Dal 1955 al 1960, l’arsenale statunitense aumentò da 3.057 a 20.434 armi
nucleari; quello sovietico, da 200 a 1.605; quello britannico, da 10 a 30. Dal 1957 la
Gran Bretagna possedeva anche bombe H.
Entrambe le potenze si servirono delle armi nucleari per inviare segnali politici,
talora pubblicamente, talvolta velatamente. Quando Nikita Chrušcëv volle dimostrare il
proprio disappunto per l’intransigenza degli statunitensi riguardo Berlino nel 1958, lo
fece utilizzando l’opzione atomica: ordinò di far esplodere un’enorme bomba
all’idrogeno di cinquantotto megaton sopra l’Artide.
Nel 1960 i paesi in possesso di armi nucleari aumentarono da tre a quattro,
quando la Francia fece esplodere nel Sahara la sua prima bomba nucleare al plutonio.
La Francia arrivò al nucleare quando, nel 1953, mise in atto un piano quinquennale di
sviluppo dell’energia atomica destinato ufficialmente alla produzione di energia
elettrica.19 Con i reattori nucleari la Francia non produceva solo elettricità, ma anche
una quantità di plutonio, nell’ordine di 50 chilogrammi annui, sufficiente a costruire 6-8
bombe. Questo fu reso possibile dal programma militare che, varato segretamente nel
1956, le permise di effettuare la sua prima esplosione nucleare.
Fu proprio questo legame tra nucleare militare e civile che pose le basi per una
nuova fase politica nelle relazioni internazionali, incentrata su presupposti di
cooperazione in materia nucleare, che prese avvio con l’Atoms for Peace Program,
lanciato dal presidente Eisenhower agli inizi degli anni cinquanta.
1.3. Il legame tra nucleare militare e civile: la nascita della cooperazione
nucleare
1.3.1. Rapporti sovietico – statunitensi e Atoms for Peace. Già nel 1943, nel
corso del Manhattan Project, si sviluppò l’idea che il reattore nucleare, con cui veniva
prodotto il plutonio per la bomba che poi venne lanciata sulla città di Nagasaki,
generasse energia termica che poteva essere convertita in energia elettrica. Apparve
subito evidente ai generali e ai governanti il vantaggio di costruire centrali nucleari
civili che, mentre producono energia elettrica, possono fornire plutonio e altro materiale
19 Un decreto del governo provvisorio francese, emanato nell’ottobre 1945 sotto l’autorità del
Presidente e Generale de Gaulle, istituiva il Commissariat a l'Energie Atomique francese (CEA) che faceva della Francia la prima nazione che diede origine ad un’autorità per l’energia atomica civile. Come l’Atomic Energy Commission istituita più tardi negli Stati Uniti, la CEA aveva il potere su tutte le questioni nucleari – di carattere scientifico, commerciale e militare. Cfr. France’s Nuclear Weapons, Origin of the Force de Frappe, 24 dicembre 2004, http://nuclearweaponarchive. org/France/FranceOrigin.html.
18
fissile per uso militare e allo stesso tempo ammortizzarne i costi attraverso la vendita
dell’energia prodotta.
L’annuncio della futura nascita dell’industria elettronucleare venne fatto subito
dopo quello del primo uso militare dell’energia nucleare con il bombardamento di
Hiroshima: “L’energia atomica”, scrisse il presidente Truman nella dichiarazione del 6
agosto 1945, “potrebbe in futuro fornire l’energia che ora proviene dal carbone, dal
petrolio e dall’acqua, ma che allo stato attuale non può essere prodotta su base tale da
essere commercialmente competitiva”20. Il monopolio delle conoscenze tecnologiche in
campo atomico degli Stati Uniti, come già detto, terminò presto poiché l’Unione
Sovietica non tardò a sviluppare un importante programma nucleare con obiettivi
pacifici e militari.
L’ingresso dei sovietici nel club nucleare avviò una fase di impasse per ciò che
riguardava il problema più generale del Disarmo e del controllo atomico nel secondo
dopoguerra. L’iniziativa di maggior rilievo fu la dichiarazione comune anglo – franco –
statunitense fatta “in vista di procedere al più presto, sotto l’egida delle Nazioni Unite,
alla regolamentazione, limitazione e progressiva riduzione delle forze armate e degli
armamenti, compresi quelli atomici”.21 Il progetto tripartito fu preso in esame
dall’Assemblea Generale che mise allo studio una prima risoluzione, in base a cui
l’Assemblea
<<preoccupata della generale mancanza di fiducia che avvelena il mondo e ha per
conseguenza l’aumento degli armamenti e la paura della guerra… ritenendo che il mezzo
necessario a questo fine sia la creazione da parte delle Nazioni Unite di piani coordinati, basati
sulla reciproca comprensione e sotto il controllo internazionale, per il regolamento, la
limitazione e una equilibrata riduzione di tutte le forze armate e di tutti gli armamenti per la
eliminazione di tutte le armi più potenti atte alla distruzione di massa e per un effettivo controllo
internazionale dell’energia atomica volto a interdire le armi atomiche e a permettere l’uso
dell’energia atomica solamente e a scopi pacifici>>22
decise di creare alle dipendenze del Consiglio di Sicurezza una Commissione per il
Disarmo, in sostituzione della Commissione per l’energia atomica e della Commissione
per gli armamenti di tipo classico.
20 Statement by the President of United States, Immediate Release, Press Release of the White
House, 6 Agosto 1945. Cfr. Decision to drop the Atomic Bomb, in Truman Presidential Museum & Library, www.trumanlibrary.org.
21 Annuario di Politica Internazionale, 1952, Disarmo, Sicurezza e Armi Atomiche, Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 148 – 149.
22 Ibidem.
19
Il progetto di risoluzione, fissò, quindi, alcuni principi direttivi per il lavoro della
commissione e alcuni obiettivi del suo lavoro: formulazione di piani per l’istituzione,
nel quadro del Consiglio di Sicurezza, di un organo (o di organi) di controllo
internazionale sul rispetto del trattato o dei trattati, e delle funzioni e dei poteri di tale
organo o di tali organi; determinazione dei modi per calcolare e fissare
complessivamente i limiti e le restrizioni di tutte le forze armate e armamenti;
suggerimento di metodi per accordi tra gli Stati circa la ripartizione, nel quadro dei
rispettivi stanziamenti militari nazionali, delle forze armate e degli armamenti militari
nazionali. Il progetto di risoluzione delle potenze occidentali fu approvato con 42 voti,
contro 5 (Bielorussia, Cecoslovacchia, Polonia, Ucraina, Urss) e 7 astensioni
(Argentina, Birmania, Egitto, India, Indonesia, Pakistan, Yemen).
Il delegato sovietico Vishinskj respinse le proposte avanzate dalla dichiarazione,
valutando il progetto tripartito “insoddisfacente, fragile ed inadeguato ai problemi che
intende risolvere” e lamentando che la Commissione piuttosto che alla riduzione degli
armamenti si fosse preoccupata di ottenere illegalmente informazioni sugli armamenti
dei singoli Stati. Egli presentò controproposte per la condanna dell’arma atomica e del
riarmo e per l’istituzione di un controllo supernazionale sugli armamenti. Il progetto di
risoluzione sovietico, in 8 punti, stabiliva che l’Assemblea generale
<<inviti la Cina, la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’unione Sovietica a
concludere un patto di pace “unendo i loro sforzi in vista di questo alto e nobile fine”,
riconoscendo che “l’uso dell’arma atomica, come arma di aggressione e di distruzione in massa
della popolazione, è contrario alla coscienza e all’onore dei popoli ed è incompatibile con la
qualità di membro dell’Organizzazione delle Nazioni Unite”, proclami “il divieto assoluto
dell’arma atomica e l’istituzione di un rigido controllo internazionale sull’applicazione di tale
divieto… e incarichi la commissione per il disarmo di preparare e di sottoporre all’esame del
Consiglio di Sicurezza, un progetto di accordo contenente misure che assicurino l’applicazione
della decisione dell’Assemblea generale relativa al divieto delle armi atomiche, alla interruzione
della loro produzione, all’uso per scopi esclusivamente civili delle bombe già fabbricate e alla
istituzione di un rigido controllo internazionale sull’applicazione di detto accordo…
Raccomandi ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza di ridurre di un terzo gli
armamenti e le forze armate di cui essi dispongono…
Raccomandi che “tutti gli Stati forniscano rapporti ufficiali esaurienti sullo stato dei
loro armamenti e delle loro forze armate, incluse le informazioni relative all’arma atomica e alle
basi militari create in territorio straniero…
Raccomandi di creare , nel quadro del Consiglio di Sicurezza, un organo internazionale
di controllo che sarà incaricato di verificare l’applicazione delle decisioni relative al divieto
20
dell’arma atomica a alla riduzione degli armamenti e delle forze armate, così pure di verificare i
dati forniti dagli Stati riguardo allo stato dei loro armamenti… l’organo internazionale di
controllo sarà autorizzato a procedere ad un’ispezione continua senza aver il diritto di
intromettersi negli affari interni degli Stati…>>23.
In parole brevi, mentre le potenze occidentali intendevano dare la precedenza,
nei lavori della Commissione del disarmo, ai piani relativi alla denuncia e al controllo
graduale e continuativo degli effetti degli armamenti, comprese le armi atomiche, il
delegato sovietico insistette che si ponesse fine alla corsa al riarmo attraverso
l’immediato divieto dell’arma atomica e la riduzione degli armamenti. Il 21 marzo 1953
la Commissione, e l’8 aprile dello stesso anno l’Assemblea approvarono la risoluzione
proposta dagli occidentali.
Le due tesi, occidentale e sovietica, sugli armamenti atomici tornarono in
discussione nell’VIII° sessione dell’Assemblea delle Nazioni Unite, che respinse una
risoluzione sovietica tendente senz’altro all’interdizione delle armi atomiche e approvò,
invece, il 28 novembre 1953, una dichiarazione proposta dagli occidentali con la quale
si raccomandava alla Commissione competente di continuare lo studio delle proposte di
disarmo.
Fu in questo contesto che il presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower
pronunciò l’8 dicembre 1953, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il celebre
discorso “Atoms for Peace” 24, determinato a dimostrare che gli Stati Uniti intendevano
accogliere prontamente l’invito dell’Assemblea a conversazioni riservate tra i governi
maggiormente interessati a risolvere “the fearful atomic dilemma”. Egli, descrivendo
l’equilibrio del terrore, fece presente che “l’arsenale di bombe atomiche degli Stati
Uniti, che aumenta ogni giorno di più, supera di molte volte l’equivalente di tutte le
bombe e di tutti i proiettili lanciati da ogni aeroplano e ogni cannone in tutti i teatri
bellici, in tutti gli anni della seconda guerra mondiale”25.
In Atoms for Peace, Eisenhower pose l’accento sul fatto che “il terribile segreto
e gli spaventosi strumenti della potenza atomica” non erano dominio esclusivamente
statunitense ma, oltre a Canada e Gran Bretagna, egli sottolineò soprattutto le numerose
conoscenze nel campo che l’Unione Sovietica aveva recentemente dimostrato di
23 Ivi, p. 151. 24 In merito alla nascita del progetto vedere M.R. Beschloss, May- Day. Eisenhower, Khrushchev
and the U-2 Affair, New York, Harper & Row, 1986. 25 Atoms for Peace, address delivered by the President of the United States to the 470th Plenary
Meeting of the General Assembly of United Nations in New York, 8 Dicembre 1953. In the Dwight D. Eisenhower Library, http://www.eisenhower.utexas.edu/.
21
possedere, facendo riemergere, così, con sempre più impellenza i problemi che qualche
anno prima erano stati sollevati dal Baruch Plan.
Anche se gli Stati Uniti accumularono un grande vantaggio quantitativo negli
armamenti nucleari, Eisenhower affermò con preoccupazione che “la conoscenza ora
posseduta da alcuni paesi sarà infine condivisa da altri, forse da tutti gli altri”. Il
presidente sostenne, quindi, che molti altri paesi avrebbero presto acquisito la capacità
di costruire armi nucleari. A tal fine egli propose di costruire un’agenzia internazionale,
sotto l’egida delle Nazioni Unite, sostenendo che
<<I governi principalmente interessati, entro i limiti permessi da una elementare
prudenza, dovrebbero iniziare ora a continuare a fornire, prelevandoli dalle loro riserve di
uranio normale e di materiali fissili, contributi comuni ad un Ente internazionale per l’energia
atomica. Tale Ente dovrebbe essere, a nostro parere, posto sotto l’egida delle Nazioni Unite.
L’ammontare dei contributi, le procedure e gli altri particolari rientrerebbero opportunamente
nell’ambito delle “conversazioni sul piano privato”… Gli Stati Unito sono pronti ad iniziare in
buona fede questi contatti esplorativi…
L’Ente per l’energia atomica potrebbe essere investito della responsabilità di
raccogliere, immagazzinare e proteggere i materiali fissili e di altro genere forniti a titolo di
contributo… La più importante responsabilità di questo Ente sarebbe di elaborare sei sistemi per
cui questo materiale fissile verrebbe assegnato e distribuito allo scopo di servire il pacifico
progresso dell’umanità. Gli esperti verrebbero mobilitati per applicare l’energia atomica ai
bisogni dell’agricoltura, della medicina e di altre pacifiche attività. Un obiettivo speciale
sarebbe quello di assicurare abbondante energia elettrica alle zone del mondo che ne hanno
maggiormente bisogno. In tal modo le potenze partecipanti dedicherebbero parte delle loro
risorse a servire i bisogni anziché i timori dell’umanità>>26
.
Secondo Eisenhower, quindi, questo avrebbe consentito ai popoli di tutte le
nazioni di vedere che in questa “illuminata era”, le grandi potenze della Terra, tanto in
Oriente quanto in Occidente, si interessavano maggiormente alle aspirazioni
dell’umanità piuttosto che alla fabbricazione di armamenti bellici.27
L’offerta lanciata dal presidente americano per la creazione di un pool atomico
trovò presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite una favorevole accoglienza. Il
ministro degli Esteri sovietico Molotov annunciò il 21 dicembre 1953 all’ambasciatore
statunitense Bohlen il consenso del governo di Mosca a discutere sotto l’egida
26 Annuario di Politica Internazionale, 1953, Sicurezza, Disarmo ed Armi Atomiche, Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 252 – 253.
27 Annuario di Politica Internazionale, 1955, Conferenza di Ginevra sulla Cooperazione Atomica, Istituto per gli studi di Politica Internazionale, p. 754.
22
dell’ONU la proposta degli Stati Uniti.28 Già nel gennaio del 1954 il governo sovietico
annunciò di essere disposto a discutere la proposta statunitense per uno scambio di
vedute sul controllo dell’energia atomica.
Mentre si svolgevano queste conversazioni segrete, il presidente Eisenhower era
impegno per la realizzazione del pool atomico internazionale: il 17 febbraio 1954, con
un messaggio al Congresso degli Stati Uniti, propose una serie di emendamenti
all’Atomic Energy Act del 1946, che, evidentemente, non rispondeva più alla nuova
situazione creatasi nel campo degli armamenti atomici. Gli emendamenti proposti dal
presidente Eisenhower – approvati dal Senato il 27 luglio – miravano a consentire una
maggiore collaborazione con i paesi alleati in alcuni settori riguardanti l’energia
atomica e ad incoraggiare una più vasta partecipazione allo sviluppo dello sfruttamento
dell’energia atomica a scopo di pace negli Stati Uniti.29
Il 30 giugno dello stesso anno il governo sovietico iniziò sperimentalmente la
produzione di energia elettro e termonucleare a scopo industriale. Il 5 settembre
Eisenhower diede inizio ai lavori della prima centrale atomica statunitense in
costruzione a Shippingport in Pensylvania. Parlando in tale occasione, in presidente
confermò la volontà degli Stati Uniti di istituire un pool internazionale per lo
sfruttamento pacifico dell’energia atomica, a cui aderì poco più avanti il governo
canadese, che si rivelò disposto alla realizzazione del pool anche senza la partecipazione
dell’Unione Sovietica.
Il 25 e il 26 settembre 1954, di comune accordo, i governi sovietico e
statunitense resero di pubblico dominio le note scambiate tra i due governi tra l’11 e il
23 settembre di quell’anno, riguardo la proposta di Eisenhower per costituire un Ente
atomico internazionale. La pubblicazione dei tredici documenti confermò
l’inconciliabilità, almeno per il momento, delle rispettive posizioni, insistendo
pregiudizialmente l’Unione Sovietica per una dichiarazione delle grandi potenze
contenente l’impegno di non fare uso delle armi atomiche. Dal canto loro gli Stati Uniti
respinsero la tesi, successivamente sviluppata dai sovietici, per cui la proposta di
Eisenhower non rispondeva allo scopo, in quanto, invece di mirare all’interdizione delle
armi atomiche, si limitava a distrarre soltanto una parte dell’energia atomica a scopi
28 Per una dettagliata cronologia della reazione sovietica al discorso Atoms for Peace tenuto dal
presidente Eisenhower vedi Press Wire, Chronology of Soviet Bloc Reaction to Eisenhower's U.N. Speech, 14 Dicembre 1953, in The Dwight D. Eisenhower Library, http://www.eisenhower.utexas.edu/.
29 Annuario di Politica Internazionale, 1954, Sicurezza Disarmo ed Energia Atomica, , Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 232 – 238.
23
pacifici, affermando la necessità in un primo momento di accordi parziali per procedere
quindi a intese più ampie.30
Gli inizi di novembre del 1954 la Prima Commissione dell’Assemblea generale
delle Nazioni Unite iniziò il dibattito sul punto 67 dell’ordine del giorno –
“Cooperazione internazionale per lo sviluppo degli usi pacifici dell’energia atomica” –
sulla base di un rapporto del delegato statunitense Cabot Lodge, inteso ad illustrare
dettagliatamente la proposta avanzata da Eisenhower. Dopo aver riferito i piani
statunitensi per l’utilizzazione dell’energia atomica a scopi di pace sia nel campo
industriale sia in quello scientifico – sanitario, Lodge rinnovò la proposta, già presentata
dal segretario di stato Dulles qualche mese prima, per la convocazione di una
conferenza atomica internazionale con la partecipazione di scienziati e rappresentanti
dei governi interessati allo sviluppo dell’energia atomica, allo scopo di studiare i
progressi tecnici consentiti dall’era nucleare in tutti i campi e di scambiarsi informazioni
sullo stadio degli studi atomici.
L’Assemblea il 4 dicembre 1954, approvò all’unanimità una risoluzione
composta di due parti, oltre al preambolo: nella prima si auspicava la sollecita
istituzione dell’ente atomico internazionale; nella seconda stabiliva la convocazione
sotto gli auspici dell’ONU, non più tardi dell’agosto 1955, di una “conferenza tecnica di
governi”, la quale avrebbe dovuto esaminare “i mezzi per sviluppare gli usi pacifici
dell’energia atomica attraverso la collaborazione internazionale”.
1.3.2. La Conferenza di Ginevra sulla cooperazione atomica e la nascita
dell’Ente internazionale per l’energia nucleare. Il desiderio di evitare una
dispendiosa e pericolosa corsa agli armamenti nucleari, da un lato, e di raggruppare le
forze di molti piccoli e medi paesi singolarmente insufficienti a realizzare un
programma di impianti atomici per usi civili, dall’altro, furono le due principali cause
che portarono alla ribalta il problema della cooperazione nel campo nucleare.
In base alla risoluzione del 4 dicembre 1954 dell’Assemblea delle Nazioni
Unite, nell’agosto del 1955 si riunì a Ginevra la Conferenza internazionale sull’impiego
dell’energia nucleare per scopi pacifici, alla quale parteciparono esperti nucleari di fama
internazionale di tutto il mondo. Nella seduta inaugurale pronunciarono discorsi il
presidente della Confederazione elvetica, Petitpierre, il segretario generale delle Nazioni
Unite, il presidente della Conferenza, l’indiano Homi J. Bhabha, presidente della
Commissione per l’energia atomica dell’India. Egli ricordò la necessità di mettere a
30 Ibidem.
24
disposizione dell’economia mondiale nuove fonti di energia, in considerazione
dell’enorme aumento dei consumi e del fatto che l’80 per cento di questi ultimi era
attualmente fornito da carbone, petrolio e gas naturali, delle cui riserve si prevedeva
l’esaurimento entro un secolo. Egli sottolineò, a questo proposito, il fatto che prima o
poi sarebbe stato possibile ottenere energia atomica per fusione, come nella bomba H,
oltre che per fissione.31
L’ordine del giorno dei lavori fu ampio e complesso e prevedeva sedute
planetarie su (i)fabbisogno energetico mondiale; (ii) costruzione di centrali nucleari;
(iii) Reattori; (iv) condizioni di utilizzazione dell’energia nucleare; (v) effetti biologici
delle radiazioni; (vi) problemi di sicurezza; (vii) gli strumenti e le tecniche di
misurazione, nel quale furono descritti i metodi impiegati per misurare le proprietà
nucleari di materiali.32
La Conferenza fu un trampolino di lancio per l’energia termonucleare e inaugurò
un periodo di grande entusiasmo per le iniziative in questo settore: in molti Paesi fu
subito avviata la costruzione di centrali atomiche.
La nascita di svariati programmi elettronucleari poneva però il grave problema
della gestione dei materiali fissili; un problema che stava particolarmente a cuore agli
Stati Uniti, i quali non intendevano lasciare che altri Paesi potessero fare delle attività
elettronucleari un trampolino di lancio per gli usi militari dell’atomo. Gli Stati Uniti si
dichiararono allora disposti a fornire materiali e conoscenze a questi Paesi che
garantissero un impiego pacifico dell’atomo e che accettassero un controllo sul rispetto
di questo impegno tramite la stipulazione di accordi bilaterali33.
I problemi relativi alla cooperazione atomica internazionale ed all’utilizzazione
pacifica dell’energia nucleare, infatti, ritornarono in discussione alle Nazioni Unite
nell’ottobre dello stesso anno, quando la Prima commissione dell’Assemblea generale
prese in esame l’argomento. Fu innanzitutto discussa la relazione del segretario generale
della Conferenza di Ginevra, la quale si chiuse con un invito all’ONU affinché
mantenesse in funzione il Comitato consultivo.
Dal canto suo, il governo degli Stati Uniti, proponendo di iscrivere all’ordine del
giorno i progressi della cooperazione internazionale nel campo dell’impiego pacifico
dell’energia nucleare, sottolineò il favorevole sviluppo dei negoziati per la costituzione
dell’Ente internazionale per l’energia atomica. Su questo tema furono presentati vari
progetti di risoluzione: uno di Australia, Belgio, Gran Bretagna e Stati Uniti, e un altro
31 Annuario di Politica Internazionale, 1955, op. cit., pp. 756 – 757. 32 Ibidem. 33 Ivi, pp. 754 – 755.
25
di Unione Sovietica, Birmania, Egitto, India, Indonesia, Jugoslavia e Siria, entrambi
aventi ad oggetto sia la Conferenza di Ginevra, sia l’Ente nucleare. Sul primo tema, i
vari progetti dimostrarono molti punti in comune: soddisfazione per i risultati raggiunti
a Ginevra, invito all’ONU a proseguire nella sua azione in questo campo ed, in
particolare, a convocare altre conferenze. Quello sovietico sottolineò, in special modo,
l’opportunità che “tutti gli Stati proseguano nei loro sforzi intesi a raggiungere un
accordo sull’interdizione dell’arma atomica”. Sul secondo tema, invece, il progetto di
Australia, Belgio, Gran Bretagna e Stati Uniti rilevò con soddisfazione i progressi
raggiunti nei negoziati, auspicando un rapido raggiungimento di un accordo sull’Ente
nucleare.
La Prima commissione dell’ONU affrontò anche il problema degli effetti della
radiazioni atomiche, il quale fu oggetto di due richieste: una statunitense per l’iscrizione
all’ordine del giorno del “coordinamento delle informazioni relative agli effetti delle
radiazioni nucleari sulla sanità e sulla sicurezza delle popolazioni”, e una indiana per la
messa in discussione delle “informazioni sugli effetti delle radiazioni e su quelli delle
esplosioni sperimentali di bombe termonucleari”.
Il 3 dicembre 1955 l’Assemblea approvò una risoluzione che raccomandava la
convocazione entro due o tre anni di una nuova Conferenza atomica internazionale,
decise di mantenere in funzione il Comitato consultivo, auspicava ulteriori progressi nei
negoziati per la creazione dell’ente internazionale per l’energia nucleare e la
convocazione di una conferenza per redigere lo statuto suggerendo che, una volta
costituito, l’ente curi la pubblicazione di una rivista internazionale dedicata all’impiego
pacifico dell’energia nucleare. Inoltre, istituiva la creazione di un Comitato scientifico
incaricato della raccolta, classificazione e distribuzione delle informazioni in materia di
radioattività.34
Se il 1955 fu, come ho appena spiegato, l’anno in cui si ebbero i primi contatti di
un certo rilievo ai fini di una cooperazione nel campo dell’energia nucleare a scopi
pacifici, nel 1956 vennero delineandosi formalmente gli enti che a tale cooperazione
presidieranno. Sul piano sostanziale, però, la situazione non modificò particolarmente:
l’approvazione alle Nazioni Unite dello Statuto dell’Ente internazionale per l’energia
atomica non risolse, infatti, il contrasto di fondo esistente anche in questo campo tra
blocco occidentale e blocco sovietico e, mentre a Mosca venne raggiunto tra i Paesi
d’influenza sovietica un accordo per un Istituto Unificato di ricerche nucleari, le
34 Ivi, pp. 759 – 763.
26
analoghe e più ampie iniziative occidentali non riuscirono ancora a superare la fase
della preparazione e dei negoziati.
Dal mese di febbraio al mese di aprile del 1956 ebbe luogo a Washington una
conferenza preparatoria dello Statuto dell’Ente internazionale per l’energia nucleare,
alla quale parteciparono i rappresentanti di 12 Paesi. Alla Conferenza – la cui
convocazione era già stata prevista dalla risoluzione del 3 dicembre 1955 – il Segretario
Generale delle Nazioni Unite sottospose lo studio, da lui preparato in collaborazione
con il Comitato consultivo per l’energia nucleare, sui legami costituzionali da stabilire
tra il costituendo Ente e l’ONU. La riunione della conferenza a 12 si concluse con
l’approvazione all’unanimità, salvo particolari di scarso rilievo, di uno schema di statuto
il quale fu poi sottoposto alla prevista conferenza generale. Questa ebbe inizio il 20
settembre dello stesso anno a New York, con la partecipazione dei rappresentanti di 81
paesi e di 7 enti speciali dell’ONU.35
Il testo definitivo dello Statuto, approvato dalla Conferenza all’unanimità il 23
ottobre 1956, constava di 23 articoli e di un allegato.
<<L’Ente si sforzerà di accelerare il contributo dell’energia nucleare alla pace. Alla
salute ed alla prosperità del mondo ed escluderà dalla sua azione ogni possibile applicazione di
questa a fini militari.
Attribuzioni dell’Ente sono: l’incoraggiamento allo sviluppo ed all’utilizzazione pratica
dell’energia nucleare a fini pacifici e la ricerca in questo campo; la fornitura di prodotti, servizi,
attrezzature, specie nel campo termonucleare; l’incoraggiamento allo scambio di cognizioni
scientifiche e tecniche; lo sviluppo degli scambi e la formazione di esperti; l’istituzione e
l’applicazione di misure di garanzie per evitare l’utilizzazione dei materiali e delle attrezzature a
scopi militari; la fissazione di norme di sicurezza; l’acquisto e l’impianto di installazioni
necessarie all’esercizio di queste funzioni>>36.
Nel 1957 nacque la International Atomic Energy Agency (IAEA), organizzazione
autonoma intergovernativa sotto l’egida delle Nazioni Unite, a cui aderirono, in fasi
successive, 134 stati. L’obiettivo principale dell’ IAEA, come riporta lo statuto appena
citato, è “incoraggiare e assistere la ricerca sull’energia atomica per usi pacifici, e il
suo sviluppo e la sua pratica applicazione su scala mondiale. La IAEA dovrebbe
assicurare, fin dove le è possibile, che cooperazione e assistenza forniti sotto il suo
35 Annuario di Politica Internazionale, 1956, Energia Atomica, Istituto per gli studi di Politica
Internazionale, pp. 297 – 299. 36 Ivi, pp. 300 – 302.
27
controllo o supervisione, non saranno utilizzati per fini militari ”37. Più tardi, dopo la
conclusione del Trattato di non-proliferazione nucleare firmato nel 1968, la IAEA
assunse anche il compito di verificare che gli Stati non nucleari, aderenti al Tnp, si
attengano agli obblighi di non proliferazione.
1.3.3. Dal nucleare civile a quello militare. Lo sviluppo vero e proprio
dell’industria elettronucleare prese avvio negli anni Sessanta, quando entrarono in
funzione un gran numero di reattori in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, alcuni in
Germania, Francia e Unione Sovietica, uno rispettivamente in
Giappone e Italia, altri in Canada, India, Svezia, Belgio, Svizzera, Spagna e Olanda.
L’industria elettronucleare nacque dunque come ricaduta tecnologica del
nucleare militare e serve, a sua volta, allo sviluppo di quest’ultimo, permettendo alle
maggiori potenze nucleari di produrre crescenti quantità di plutonio e altro materiale
fissile e di ammortizzarne parzialmente i costi con la vendita di energia elettrica e di
intere centrali elettronucleari. Andò creandosi così un mercato internazionale del settore
nucleare, dominato in Occidente da un oligopolio di multinazionali come la
Westinghouse, la General Eletric, la Union Carbide.
In questo modo altri paesi vennero messi nelle condizioni di produrre plutonio e
uranio arricchito, la cui reale quantità può facilmente essere sottratta al controllo degli
ispettori della IAEA : ad un paese basta dichiarare una produzione inferiore a quella
effettiva, sovrastimando le perdite avvenute negli impianti di ritrattamento del
combustibile dei reattori nucleari. Per di più, nel ciclo di sfruttamento dell’uranio, non
esiste una netta linea di demarcazione tra uso civile e uso militare del materiale fissile.
Una volta estratto in miniera , l’uranio U238 viene arricchito, in un apposito
impianto, in U235 : al 3-4 per cento per i reattori termici, al 60 per cento per gli attuali
reattori veloci, a oltre il 90 per cento per le armi nucleari (anche se basta superare il 20
per cento per costruire una rudimentale bomba nucleare). Con l’uranio arricchito al 3-4
per cento vengono fabbricate le barre di combustibile per i reattori termici. Queste
vengono assemblate e installate nei reattori, di cui costituiscono il nocciolo, restandovi
per 2-3 anni. Il combustibile usato nelle centrali elettronucleari, ancora fortemente
radioattivo, forma le scorie, che vengono in parte trasferite in un impianto di
ritrattamento, dove vengono estratti gli elementi utilizzabili: uranio U235 e plutonio
37 “The Agency shall seek to accelerate and enlarge the contribution of atomic energy to peace, health and prosperity throughout the world. It shall ensure, so far as it is able, that assistance provided by it or at its request or under its supervision or control is not used in such a way as to further any military purpose”, art. II , Objectives of IAEA , Statute of the International Atomic Energy Agency, approvato dagli Stati membri il 23 ottobre 1956, entrato in vigore il 27 luglio 1957.
28
PU239. Mentre l’uranio estratto ritorna all’impianto di arricchimento o alla fabbrica di
elementi combustibili per reattori termici, il PU239 viene raccolto in un deposito.38
Parte di questo plutonio viene utilizzata, insieme a uranio arricchito al 60 per
cento, per fabbricare le barre di combustibili per reattori veloci. Nei reattori
autofertilizzanti veloci, che usano come combustibile plutonio producendo più materiale
fissionabile di quanto ne consumano, l’uranio (U238) si trasforma a sua volta in PU239,
che va ad accrescere il deposito di plutonio.
Per la fabbricazione di armi nucleari vengono usati PU239, proveniente dal
deposito di plutonio, e U235, proveniente dall’impianto di arricchimento. Il plutonio per
le armi nucleari viene fornito anche da reattori militari termici che, utilizzando barre di
combustibile e uranio metallico, ne producono una quantità maggiore dei reattori
normali che utilizzano barre e ossidi di uranio, ma sempre inferiore rispetto a quelli
autofertilizzanti veloci.39
È questo stretto legame tra nucleare civile e militare che favorì, e favorisce
tuttora, la proliferazione delle armi nucleari. Nel 1976 Victor Gilinsky, membro della
commissione statunitense che rilasciava le concessioni per la costruzione delle centrali
nucleari (Nuclear Regulatory Commission), dichiarò che: “Per ciò che riguarda il
plutonio prodotto nei reattori, è un dato di fatto che è possibile utilizzarlo per la
realizzazione di bombe atomiche in sistemi assai diversi di sviluppo tecnologico. In
altre parole, paesi meno progrediti dei principali paesi industrializzati portano avanti
programmi per l’energia nucleare e sono in grado di realizzare bombe atomiche di
qualità non trascurabile”.40
Quando Gilinsky lanciò questo avvertimento, sia la Cina che l’India avevano già
avviato un programma di costruzione di armi atomiche.
1.4. La svolta balistica
1.4.1. Il dispiegamento dei missili balistici. Come si è visto il ‘sistema di
Ginevra’ aprì una fase costruttiva e cooperativa che, pur mettendo le radici verso una
periodo di distensione, non mirava a interrompere quella frenetica e spietata corsa agli
38 U.S. Nuclear Regulatory Commission, Nuclear Materials: Uranium Enrichment, www.nrc.gov. 39 Laura Fermi, The First Nuclear Chain Reaction, in Tamara L. Roledd (edited by), op. cit. pp.
46-55. 40 Cfr. in Enrico Turrini, Energia e democrazia. La «Via del sole» mette in crisi la società dei
consumi, Cittadella, 1998.
29
armamenti da parte delle superpotenze ma, anzi, vide il pericolo di una guerra nucleare
molto più vicino.
Iniziò alla fine degli anni cinquanta, infatti, lo schieramento dei più potenti
vettori nucleari a gittata intercontinentale: i missili balistici lanciati da terra (ICBM) e
quelli lanciati dal mare (SLBM). La contesa che prese il via con la sperimentazione di
missili balistici della gittata sempre più lontana mise in luce aspetti pratici e significati
simbolici, acquistando un importante peso politico, militare e soprattutto “strategico”. Il
termine è da intendersi in due sensi o da due punti di vista. Per i sovietici aveva una
valenza strategica il dispiegamento di missili a gittata intermedia che, da basi situate ai
confini del territorio dell’Urss, potessero raggiungerlo direttamente.
Il primo ICBM statunitense fu l’Atlas41, che venne messo a punto in una serie di
test nel 1957-58. Questo, avendo una gittata di 12.000 km, poteva colpire con la sua
testata nucleare qualsiasi obiettivo all’interno dell’Urss.
Nel 1961 gli Stati Uniti riuscirono a dispiegare sul territorio britannico, turco e
italiano, dopo un no facile negoziato, un ICBM più sviluppato, il Titan II dalla gittata di
circa 1500 miglia nautiche che rappresentavano per i sovietici una minaccia reale, cioè
un problema strategico. Perciò, solo a prima vista la situazione poteva essere
considerata in termini di equivalenza. In realtà i missili sovietici non erano
strategicamente risolutivi poiché non mettevano al riparo l’Urss dagli attacchi potenziali
provenienti dalle basi situate lungo il suo confine, mentre il territorio americano restava
immune da ogni minaccia nucleare. In poche parole, il territorio degli Stati Uniti era una
sorta di “roccaforte” verso il quale i sovietici non erano in grado di agire ma dal quale,
grazie al sistema delle basi situate nei paesi alleati, potevano minacciare il territorio
dell’Urss. Esisteva una sorta di disparità di situazioni che i sovietici avevano ogni
intenzione a colmare. Così, mentre gli Americani erano sicuri di godere in proposito di
un consistente vantaggio e progettavano di costruire almeno 150 ICBM entro una
scadenza ravvicinata, nonché di riuscire a lanciare per primi un satellite artificiale nello
spazio, vi fu l’inatteso lancio da parte sovietica dello Sputnik (Compagno di Viaggio),
avvenuto il 4 ottobre 1957, che provocò reazioni quasi isteriche negli Stati Uniti.
Fu proprio questo l’elemento che spinse i sovietici ad investire enormi risorse
nella competizione per costruire i missili a lungo raggio e già nel 1960 misero a punto
il primo ICBM, l’R-7/SS-6 Sapwood42, che avendo una gittata di 10.000 km, può colpire a
41 Table of US ICBM Forces, 1959-2012, Archive of Nuclear Data, da Nuclear Weapons, Waste &
Energy www.nrdc.org/nuclear/nudb/datainx.asp. 42 Table of USSR/Russian ICBM Forces, 1960-2002, Archive of Nuclear Data, da Nuclear
Weapons, Waste & Energy www.nrdc.org/nuclear/nudb/datainx.asp.
30
sua volta gli Stati Uniti, con una testata nucleare di 3-5 megaton, partendo da basi
situate in Unione Sovietica. In breve tempo i sovietici schierarono un nuovo missile,
l’ R-16/SS-7 Saddler, con una gittata di 13.000 km e una testata fino a 6 megaton. La
politica di potenza nucleare sovietica, che aveva come principale obiettivo la parità
nucleare con gli statunitensi, raggiungeva, evidentemente, in questi anni la sua massima
espressione. Dopo il lancio dei primi ICBM, infatti, lo Stato Maggiore sovietico avviò
una revisione strategica culminata in un discorso di Chruščëv al Soviet Supremo il 14
gennaio 1960. Le armi nucleari, egli disse, erano diventate gli elementi principali di
qualsiasi tipo di guerra e stavano rendendo obsoleti molti degli armamenti
convenzionali. Una guerra nucleare sarebbe stata certo di breve durata, poiché la sua
fase iniziale ne avrebbe condizionato l’esito. I Sovietici, grazie all’estensione del loro
territorio e agli armamenti nucleari disponibili (dei quali egli ribadiva l’efficacia),
avrebbero potuto sopravvivere a un primo attacco a sorpresa, ma era necessario fare di
più. Bisognava ridurre di un terzo le forze convenzionali e destinare risorse a quelle
nucleari e ai missili.43 La NATO poteva contare su forze nucleari tattiche già
disponibili, ma la proposta di Chruščëv prevedeva sia una risposta con armi strategiche,
sia la riduzione del divario esistente in campo tattico. In altri termini, Chruščëv voleva
dire che sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica dovevano essere in grado di effettuare
una ritorsione contro l’attaccante dopo il first strike e che “esisteva un rapporto di
reciproca distruzione certa” rispetto al quale la dimensione geografica sovietica e la
dispersione della popolazione costituivano un vantaggio sull’Occidente.44
Il problema della parità era per i Sovietici soprattutto politico poiché la risorsa
nucleare era funzionale a un progetto politico di eguaglianza con gli Stati Uniti
nell’esercizio dell’influenza in ogni parte del mondo. Naturalmente esso presupponeva
che le due superpotenze, reciprocamente paralizzate dall’”equilibrio del terrore”, si
astenessero dal compiere operazioni destabilizzanti; perciò la parità era la precondizione
di un’intesa sostanziale, come il trattato per la sospensione degli esperimenti nucleari
avrebbe dimostrato qualche anno dopo e come dimostrerà, ancora più tardi, il negoziato
SALT. Detto in altri termini, il progetto di Chruščëv e quello dei suoi successori mirava
ad una politica di potenza e di equilibrio nel senso tradizionale dei termini, come
premessa per affrontare in modo efficace i problemi interni dell’Urss.
Contemporaneamente, gli Stati Uniti portarono avanti un programma che
prevedeva la produzione di massa e lo schieramento di un nuovo ICBM capace di
43 Nicolai N. Petro e Alvin Z. Rubistein, Russian Foreign Policy: from Empire to Nation-State,
Longman, 1997. pp. 140- 143. 44 David Holloway, Stalin and the Bomb, Yale University Press, 1994. pp. 344 – 345.
31
distruggere obiettivi di qualsiasi tipo: il Minuteman, che venne costruito da un
consorzio di cinque industrie e migliorato in quattro modelli successivi. I primi
Minuteman furono operativi nel 1961.
Come risposta, l’Unione Sovietica schierò gli ICBM R-36 , noti in Occidente
come SS-9 Scarp, con gittata fino a 12.000 km e una testata di 12-18 megaton: la
destinazione era quella di attaccare i cento centri di controllo del lancio dei 1.000 missili
Minuteman schierati negli Stati Uniti.
Lo sviluppo e lo schieramento dei missili balistici lanciati dal mare (SLBM)
procedevano di pari passo. Il primo fu lo statunitense Polaris A145, che fu testato il 20
luglio 1960 quando venne lanciato da un sottomarino in immersione, il George
Washington, il primo sottomarino del mondo a propulsione nucleare, armato di missili
balistici per l’attacco nucleare, capace di avvicinarsi in immersione all’Unione Sovietica
o alla Cina e, lanciando i suoi 16 missili Polaris, colpire qualsiasi obiettivo sul loro
territorio.
Anche l’Unione Sovietica costruì missili balistici lanciati da sottomarini: gli R-
21/SS-N-5 Serb46, che diventarono operativi nel 1963. Non si trattava degli stessi missili
poiché di gran lunga inferiori a quelli statunitensi, dato che hanno una gittata minore e
ogni sottomarino ne può portare “solo” tre.
La Gran Bretagna iniziò nel 1955 a sviluppare un missile balistico a gittata
intermedia armato di testata nucleare e successivamente, a partire dal 1968, schierò una
forza di quattro sottomarini armati di missili Polaris, forniti dagli Stati Uniti.
Il dispiegamento di missili a gittata intermedia installati in territorio europeo,
inoltre, creò la possibilità che gli europei stessi si dotassero di una loro capacità
autonoma di risposta nucleare. Risolto dagli Inglesi, come appena detto, in
collaborazione con gli Stati Uniti, il problema si poneva in modo diverso per la Francia,
la Germania federale e, sebbene in termini più sfumati, per l’Italia. L’atteggiamento
americano durante la crisi di Suez, infatti, non aveva scontentato solo i Francesi ma
anche i Tedeschi, che leggevano un “totale disprezzo” rispetto agli interessi europei,
condividendo la diffidenza di alcuni paesi europei rispetto alla credibilità della dottrina
della “rappresaglia massiccia”47, lanciata dall’amministrazione Eisenhower nel 1954.
45 Table of US Ballistic Missile Submarine Forces, 1960-2012, Archive of Nuclear Data, da
Nuclear Weapons, Waste & Energy www.nrdc.org/nuclear/nudb/datainx.asp. 46 Table of USSR/Russian Ballistic Missile Submarine Forces, 1958-2002, Archive of Nuclear
Data, da Nuclear Weapons, Waste & Energy www.nrdc.org/nuclear/nudb/datainx.asp. 47 La teoria della "rappresaglia massiccia", che il Segretario di Stato John Foster Dulles annunciò
all'inizio del 1954, prevedeva la creazione di un sistema difensivo anticomunista capace di dispiegare il massimo di efficacia a costi tollerabili, il che significava, in concreto, che il “modo migliore per prevenire l’aggressione” era quello di “basarsi in primo luogo su una grande capacità di risposta immediata” e
32
Inoltre, l’acquisita capacità sovietica di colpire gli Stati Uniti con i propri missili
balistici intercontinentali, non fece altro che incentivare gli ormai numerosi dubbi nutriti
dai leader europei circa l’effettiva volontà statunitense di usare il proprio arsenale
atomico per fermare un’aggressione da parte sovietica contro l’Europa occidentale,
perché ciò avrebbe inevitabilmente esposto il territorio americano alla rappresaglia
militare. Le tensioni generate da questo dilemma sull’effettiva credibilità del deterrente
nucleare americano, attenuarono, perciò, la coesione della NATO, generando un diffuso
clima di sfiducia, al quale l’amministrazione Eisenhower reagì con alcune iniziative
volte a rinvigorire la leadership degli Stati Uniti e al tempo stesso a prevenire il pericolo
di una proliferazione di armi nucleari all’interno dell’Europa occidentale, mediante
l’offerta agli alleati di una parziale compartecipazione alla gestione del proprio arsenale
atomico.48
Tra il 1957 e il 1959 gli Stati Uniti conclusero perciò numerosi accordi con i
governi inglese, italiano e turco per l’installazione nei rispettivi territori di missili
balistici a raggio intermedio con testata nucleare Thor e Jupiter, da usare con il
consenso sia degli Stati Uniti sia del paese ospitante, mentre tra il 1958 e il 1960
siglarono accordi di cooperazione, cosidetti PoCs (Programs of Cooperation) che
consentivano di fornire a vari stati europei maggiori informazioni circa determinate
caratteristiche delle armi atomiche; contemporaneamente il comandante supremo della
NATO in Europa, il generale Lauris Norstad, promosse un serrato dibattito all’interno
della NATO riguardo la possibilità di dotare l’Alleanza di un arsenale nucleare suo
proprio, e nel 1960 erano già in discussione vari progetti in questa direzione.49
Nonostante ciò, nel gennaio 1957 l’armonizzare della politica militare franco-
tedesca incominciò a prendere forma, arrivando, il 28 novembre 1957, alla firma di un
protocollo d’intesa franco- tedesco- italiano che prevedeva, come risposta al perdurare
della disuguaglianza imposta dagli anglo-americani, la collaborazione tra i tre paesi per
la produzione di armi nucleari.50 Nell’aprile del 1958 si raggiunse un accordo verbale
per la partecipazione della dell’Italia e della Repubblica Federale alla costruzione in
Francia di un impianto di separazione isotopica, primo passo verso l’acquisizione di
armamenti nucleari. L’ascesa al potere di de Gaulle, nel maggio del 1958, diede un forte
impulso ai programmi francesi ma suscitò in primo luogo negli Italiani e poi anche nei
massiccia contro qualsiasi atto ostile sovietico. Il presupposto di questa concezione era la fine di ogni aiuto agli alleati europei se non quello destinato a scopi militari.
48 Leopoldo Nuti (a cura di), I Missili di Ottobre, la storiografia americana e la crisi cubana dell’ottobre 1962, LED, Milano, 1994, pp. 38 – 40.
49 Ibidem. 50 L'Italia e la non proliferazione delle armi nucleari, in “Affari Esteri”, vol. 26, n. 103, 1994.
33
Tedeschi qualche esitazione.51 L’intera questione non dipendeva solamente dalle
decisioni che i due partner minori delle Francia avrebbero assunto, quanto piuttosto
dalla complessità globale dei problemi che essa metteva in gioco rispetto alle relazioni
fra i due blocchi, poiché investiva i rapporti tra la Germania Federale e gli Stati Uniti da
un lato, la Germania Orientale e l’Unione Sovietica dall’altro. Il problema rientrava
dunque nella fascia di tematiche riguardanti le regole generali della coesistenza pacifica.
Infatti se i Tedeschi occidentali dovevano rinunciare a un armamento nucleare proprio,
a causa della riluttanza o dell’opposizione statunitense, l’onere di difendere la Germania
sarebbe ricaduto soprattutto sugli Stati Uniti, con il risultato di costringerli ad assumere
la piena e permanente responsabilità della difesa dell’Europa, insieme a quello di
bloccare ogni speranza residua di rapida riunificazione della Germania. Ma la tutela
militare americana presupponeva il consolidamento della NATO rispetto a ogni ipotesi
basata sulla neutralizzazione dell’Europa centrale, come quelle che i Sovietici
continuavano a caldeggiare.
La Francia, comunque, costruì una serie di vettori nucleari: il bombardiere
supersonico Mirage IV, che cominciò ad essere schierato nel 1964; i missili balistici con
base a terra, S-2 e Pluton, e l’M-20 lanciato dal mare, che, nella prima metà degli anni
Settanta, formarono il nerbo della force de frappe52.
1.4.2. La crisi di Cuba e le conseguenze sul sistema internazionale. Mentre la
corsa agli armamenti era in pieno svolgimento, esplose nell’ottobre 1962 la crisi dei
missili a Cuba: dopo la fallita invasione armata dell’isola nell’aprile 1961, ad opera dei
fuoriusciti sostenuti dalla CIA, l’Urss decise di fornire Cuba di missili balistici a gittata
media (1.000-3.000 km) e intermedia (3.000-5.500 km). John F. Kennedy annunciò che
da quel momento gli Stati Uniti avrebbero preso una serie di iniziative per costringere il
governo sovietico a ritirare i propri missili da Cuba, cominciando con la messa in atto di
un blocco navale intorno all’isola per evitare che nuove armi “offensive” potessero
essere inviate: oltre 130 missili balistici intercontinentali Atlas e Titan furono pronti al
lancio; 54 bombardieri con a bordo armi nucleari vennero aggiunti ai 12 che il
Comando aereo strategico manteneva sempre in volo, pronti per l’attacco nucleare. 53
51 Simone Wisotzki, Nuclear Weapons Policy in Britain and France, Strategic Thinking and
Disarmament, in “Nuclear Weapons into the 21st Century”, 2001, in Parallel History Project on NATO and Warsaw Pact, http://www.isn.ethz.ch/php/index.htm.
52 Force de dissuasion nucléaire française, chiamata anche Force de Frappe, era stata pianificata da Mendés France e avviata sul piano pratico dal governo di Guy Mollet, e prevedeva la costituzione di una forza autonoma nucleare, senza godere, quindi, di alcun aiuto tecnologico statunitense.
53 Nicolai N. Petro e Alvin Z. Rubistein, op. cit., pp.140- 142.
34
Il discorso di Kennedy, mandato in onda su tutte le emittenti televisive
americane il 22 ottobre 1962, si concluse con il minaccioso avvertimento che ogni
attacco missilistico contro qualunque paese dell’emisfero occidentale proveniente da
Cuba sarebbe stato trattato dagli Stati Uniti come un attacco lanciato dall’Urss contro il
territorio americano e avrebbe perciò provocato una rappresaglia nucleare statunitense
sul territorio sovietico.54Gli Stati Uniti disponevano in quel momento di 27.297 armi
nucleari, cui se ne aggiungevano 205 britanniche, mentre l’Urss ne possedeva 3.322.
La crisi, che portò il mondo sulla soglia della guerra nucleare, venne
disinnescata la mattina del 28 ottobre 1962, quando Radio Mosca trasmise un
messaggio del Segretario Generale del PCUS con il quale si annunciava che l’Urss
avrebbe ritirato da Cuba le armi ritenute “offensive” dal governo degli Stati Uniti, in
cambio dell’impegno statunitense a togliere il blocco e rispettare l’indipendenza di
Cuba.
Fu soprattutto durante questa crisi che le superpotenze misurarono la portata dei
rischi non calcolati. Il dispiegamento di armi missilistiche sovietiche a Cuba mostrò agli
statunitensi il senso di pericolo avvertito dai sovietici per effetto della prossimità delle
basi missilistiche che circondavano il territorio dell’Urss. A loro volta, i sovietici,
furono messi di fronte alle responsabilità derivanti dal voler spingere oltre una certa
soglia la competizione.
La paura di un conflitto nucleare non dissuase, comunque, nessuna delle potenze
dal fabbricare armi di distruzione di massa: durante l’intero periodo della guerra fredda,
come ho evidenziato, ci furono a varie riprese rincorse ad accaparrarsi armi. Una volta
afferrato il meccanismo della deterrenza, alle potenze sarebbero dovuti restare ben pochi
motivi di continuare ad ammassare ulteriori riserve di armi. La storia, invece, testimonia
che avvenne l’esatto contrario: non appena l’equilibrio della deterrenza si stabilizzò
verso la fine degli anni Sessanta, iniziò un imponente programma di produzione, tanto
che il numero delle armi nucleari alla fine della guerra fredda era ben superiore a quello
di venti anni più tardi.
Questo suggerisce che le motivazioni spesso non avevano nulla a che vedere con
la strategia, ma riguardavano piuttosto la sfera burocratica e politica Ciò spiega perché
la guerra fredda fu caratterizzata da bruschi e apparentemente inspiegabili cambiamenti
di intensità. I calcoli militari e strategici, quindi, non sempre si applicano nell’ambito
delle armi nucleari: mancanza di tempestività, una certa sequenza negli avvenimenti
oppure la vicinanza delle elezioni possono avere un’influenza che è quasi impossibile
54 Leopoldo Nuti (a cura di), op. cit., 9 – 13.
35
prevedere o anche solo comprendere a posteriori. Quello che vale come principio spesso
si dimostra poco sensato a distanza di alcuni anni.55
C’era un altro fatto derivante dal lancio sovietico dello Sputnik, smentendo così,
nell’autunno del 1957, le illusioni statunitensi d’essere nettamente avanti rispetto
all’Unione Sovietica, e creando tra gli statunitensi uno stato d’animo pessimistico che
dominò, nonostante l’obiettiva realtà dei fatti, tutta l’ultima parte della presidenza
Eisenhower, durata sino al gennaio del 1961. Due elementi importanti convergevano tra
loro: da un lato vi era la scoperta della vulnerabilità americana e dall’altro l’analisi delle
potenziali conseguenze di un conflitto nucleare.56
Nel momento stesso in cui spremevano le loro risorse per vincere la contesa nel
campo degli armamenti strategici, statunitensi e sovietici iniziavano a rendersi conto
(anche per le reazioni provocate in tutto il mondo dalla ricaduta di scorie radioattive
derivante dagli esperimenti nucleari nell’atmosfera) che il possesso di arsenali poderosi
assicurava un certo status internazionale, confermava cioè il ruolo che le
“superpotenze” erano in grado di esercitare rispetto ai destini dell’umanità. In realtà,
come già accennato in precedenza, lo stesso possesso si traduceva nella disponibilità di
armamenti che nessuna delle due potenze avrebbe potuto utilizzare poiché nessuna di
esse era sicura di distruggere l’avversario con una sola bordata missilistica (la cosiddetta
first strike capability). Un altro fattore era rappresentato dall’analisi del rapporto
costi/benefici in relazione all’uso di armamenti nucleari, che dimostrava l’impossibilità
di calcolare i costi e quindi di individuare obiettivi adeguati al ricorso ad armi tanto
distruttive.57
Conclusioni divergenti derivavano dall’insieme di questi temi: da una parte vi
erano un certo numero di paesi appartenenti ai due blocchi (tra cui, in Occidente, la
Francia, l’Italia e, soprattutto, la Germania Federale; mentre nel sistema sovietico in
primo luogo la Repubblica Popolare cinese), che avvertivano i reali pericoli
dell’esasperazione di questo antagonismo tra Est e Ovest evidentemente senza
disciplina, ma che traducevano questa preoccupazione nel progetto di dotare se stessi di
armamenti nucleari o di garanzie politiche, giudicate indispensabili ad attutire la portata
del rischio; dall’altro lato vi erano i dirigenti politici delle superpotenze che percepivano
i pericoli impliciti nella corsa verso la supremazia nucleare.
55 Paul Bracken, Fuochi a Oriente, il sorgere del potere militare asiatico e la seconda era
nucleare, Corbaccio, Milano, 2001. 56 Prefazione di Ennio di Nolfo in Marilena Gala, op.cit. 57 Ibidem.
36
Le preoccupazioni dei paesi appartenenti sia al sistema occidentale sia a quello
sovietico, rafforzavano l’alternativa, prima solo sfiorata, figlia dell’equilibrio del
terrore, di individuare una soluzione negoziale, che si traduceva nella necessità che alla
competizione incominciassero a sostituirsi regole dapprima elementari, poi sempre più
sofisticate, grazie alle quali i rispettivi comportamenti fossero prevedibili e
controllabili.58
Un'altra conseguenza importante derivante dalla crisi cubana furono le relazioni
tra Stati Uniti e i loro alleati dell’Alleanza Atlantica per ciò che concerneva
l’impostazione strategica della NATO. Va ricordato che la crisi si sviluppò in un
periodo in cui si stava svolgendo un dibattito cruciale all’interno dell’Alleanza circa il
controllo e l’uso delle armi nucleari, che costituivano l’elemento cruciale dell’arsenale e
della strategia della NATO. Sia pure gradatamente e non senza contraddizioni,
l’amministrazione Eisenhower prese, come già accennato, numerose iniziative che
sembravano andare nella direzione di un accresciuto nuclear sharing tra gli Stati Uniti e
i suoi alleati europei. L’amministrazione Kennedy, invece, cominciò lentamente ad
abbandonare questi progetti: pur tra molte incertezze e contraddizioni, infatti, uno degli
elementi centrali della strategia che la nuova amministrazione intendeva perseguire fu la
riduzione del rischio di una guerra nucleare. Gli Stati Uniti abbandonarono la tesi della
massive retaliation contro qualsiasi azione offensiva sovietica o comunista dal mondo,
teoria alla quale Dulles aveva legato gli aspetti militari della sua politica estera, per
elaborare la dottrina della cosiddetta “risposta flessibile”, teorizzata dal segretario della
Difesa, Robert McNamara, e resa nota ai rappresentanti dei paesi NATO in un discorso
pronunciato ad Atene il 6 maggio 1962, nel corso del quale il ministro della Difesa
statunitense prese posizione anche contro la creazione di piccoli arsenali nucleari
nazionali come quello francese. L’obiettivo era quello di accentrare quanto più possibile
il controllo dell’impiego delle armi atomiche, riducendone, per l’appunto, la
disseminazione presso gli alleati, opponendosi alla moltiplicazione di deterrenti
nazionali autonomi e introducendo meccanismi di autorizzazione all’impiego delle
testate nucleari (i PALs, o Permissive Action Links), che ne impedissero l’uso senza il
consenso del Presidente. La ricerca, per quanto difficile, di accordi per il controllo degli
armamenti con l’Unione Sovietica avrebbe rappresentato l’altra faccia della medaglia
della politica americana.59
58 Ibidem. 59 Leopoldo Nuti (a cura di), op. cit., pp. 40 – 41.
37
Per Washington l’aspetto più complesso di questa politica consisteva nel
conciliare il controllo della diffusione delle armi nucleari con il mantenimento della
coesione all’interno dell’Alleanza Atlantica. Fu in questo contesto che
l’amministrazione Kennedy decise di ritirare i missili Jupiter dalla Turchia e dall’Italia:
benché fosse stata discussa più volte e accennata nel dibattito interno, la decisione non
era ancora divenuta esecutiva prima della crisi cubana. Questa svolse, dunque, un ruolo
centrale nel persuadere l’amministrazione della necessità di compiere un passo avanti
verso l’accentramento del controllo delle armi nucleari, attraverso la rimozione dei
missili dislocati nei due paesi mediterranei, e segnò, perciò, un punto di svolta generale
per ciò che concerneva tutta la politica di nuclear sharing con gli alleati europei:
costituì il momento di abbandono dei rapporti nucleari bilaterali in virtù dei quali
l’alleato aveva un margine di autonomia nel controllo dell’arma atomica, ritenuto troppo
pericoloso per la nuova strategia kennedyana.
In parole brevi, il governo americano non si sentiva più impegnato a rispondere
con un massiccio attacco atomico ad un’aggressione ma avrebbe sperimentato (o
lasciato sperimentare) l’uso di forze convenzionali; poi sarebbe passato all’armamento
nucleare tattico e infine a quello strategico, a seconda della gravità del momento.60
A conclusione di ciò si può asserire che sia la crisi di Berlino e quanto mai
quella di Cuba ebbero effetti terapeutici importanti, segnando un cosiddetto “momento
culminante” dopo il quale si avviò gradatamente un processo di distensione.
1.5. Le trattative sul disarmo nucleare.
1.5.1. La ripresa delle trattative per la sospensione degli esperimenti
nucleari. Nel 1959, le trattative sul disarmo si concentrarono quasi esclusivamente sul
problema della sospensione degli esperimenti nucleari. La sede dei negoziati fu la
conferenza tripartita di Ginevra, che si era aperta il 31 ottobre 1958 e che aveva per
scopo il concordare un trattato sull’interdizione degli esperimenti. L’ostacolo principale
che la Conferenza si trovò di fronte fin dalla ripresa dei lavori, fu costituito dalla
complessa questione del controllo: le due delegazioni occidentali si opposero alle
proposte sovietiche miranti a limitare il numero e le prerogative degli osservatori
stranieri da ammettere nel territorio nazionale e a introdurre un diritto di veto all’interno
della commissione di controllo.
60 Lawrence S. Kaplan, The U.S. and NATO in the Johnson Years, in The Johnson Years, Robert
A. Divine (edited by), University Press of Kansas, 1994. pp. 134 – 135.
38
Su questo secondo problema, le discussioni furono particolarmente lunghe e
difficili e non si pervenne ad alcun risultato concreto malgrado la proposta, fatta dagli
occidentali, di introdurre rappresentanti di paesi neutrali nella commissione.
Su un altro punto le difficoltà di raggiungere ad un accordo apparvero
insuperabili: da parte statunitense, si sostenne che le esplosioni sotterranee e a grande
altezza erano difficilmente identificabili e si propose, quindi, di escluderle – in un primo
momento – dal divieto, in attesa di un miglioramento delle tecniche di identificazione.
La delegazione sovietica manifestò una ferma opposizione ad ogni accordo parziale;
opposizione confermata da Chruščëv nell’aprile del 1959. il primo ministro sovietico
accolse però, in linea di massima, la proposta – fatta da Macmillan durante il suo
viaggio nell’Unione Sovietica allo scopo di aggirare l’ostacolo di veto – di effettuare
annualmente un certo numero di ispezioni a intervalli regolari. Tuttavia, questo non
consentì passi in avanti: l’accordo non poté essere raggiunto né sul numero delle
ispezioni né sulla composizione del personale dei posti di controllo. Su queste posizioni
fu deciso di aggiornare la Conferenza all’ottobre successivo, cioè dopo il viaggio di
Chruščëv negli Stati Uniti.61
Quando la Conferenza nucleare riprese i suoi lavori, il 27 ottobre 1959,
diciassette articoli del futuro trattato erano stati approvati (molti di essi, peraltro, su
punti secondari), ma il dissenso permaneva sulla composizione dei gruppi di controllo,
sulle modalità delle ispezioni, sul sistema di votazione in seno alla commissione di
controllo e sull’identificazione delle esplosioni sotterranee. Nel tentativo di superare il
dissenso su questo ultimo punto, fu concordato, nel mese di novembre, un programma
di studi da affidare ad un gruppo di esperti dei tre paesi. Il rapporto da essi presentato
riprodusse però il contrasto tra i sovietici – convinti di poter utilizzare, anche per le
esplosioni sotterranee, strumenti di controllo di grande efficacia – e gli americani, che
insistevano nel ritenere che questo tipo di esplosione sarebbe potuta essere camuffata.62
Nel marzo del 1960, tuttavia, la delegazione sovietica avanzò delle proposte che
accoglievano quasi interamente il punto di vista occidentale. Le controproposte
occidentali, presentate dopo l’incontro di Camp David tra Eisenhower e Macmillan del
28 e 29 marzo 1960, sembrarono schiudere la via al superamento dell’unico serio
problema che ancora impediva la conclusione dell’accordo, ossia, appunto, la durata
della moratoria volontaria degli esperimenti sotterranei di minor intensità. Nonostante
ciò, la Conferenza risentì della mancanza di un programma effettivamente organico:
61 Annuario di Politica Internazionale, 1959, Trattative sul Disarmo Nucleare e Piano Sovietico di
Disarmo Integrale, Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 174 – 199. 62 Ibidem.
39
furono discusse, senza alcun ordine, numerose questioni di dettaglio, ma in nessun caso
le tre delegazioni sovietica – america – britannica riuscirono ad andare al di là di un
accordo di massima, privo di un vero effetto vincolante.63 La Conferenza tripartita fu,
ancora una volta, sospesa il 21 dicembre 1961, per riprendere i lavori nel gennaio
successivo: il disaccordo tra sovietici e americani si rivelò subito talmente profondo
che, dopo poche sedute, il 29 gennaio 1962 la Conferenza venne aggiornata sine die.
Così, alla 353° seduta (dall’ottobre 1958), la Conferenza concluse i suoi lavori, con
nulla di fatto quanto al risultato e con aspre recriminazioni da ciascuna delle parti circa
l’attribuzione della colpa del fallimento. Come già detto, mentre gli occidentali
imputavano ai sovietici il rifiuto a negoziare un trattato per l’interdizione degli
esperimenti nucleari sulla base di accertati controlli internazionali, i sovietici del canto
loro accusavano gli americani di aver silurato la Conferenza perché non riuscirono ad
assicurarsi la possibilità di spionaggio camuffato da controllo internazionale.64
1.5.2. Conferenza dei Diciotto e il Limited Test Ban Treaty. il fallimento di
Ginevra, tuttavia, non scoraggiò le potenze interessate dal continuare i tentativi,
puntando sulla riunione, sempre a Ginevra, il 14 marzo 1962, della Commissione del
disarmo dei 18 paesi.65
All’apertura della Conferenza sia Rusk che Gromiko esposero le proposte dei
rispettivi Governi in materia di disarmo, sia convenzionale sia atomico. Nelle proposte
statunitensi, che indicavano diverse misure da adottare come primi passi sulla via del
disarmo66, fu ribadita la questione dei controlli; le proposte sovietiche furono presentate
in un piano organico di 48 articoli, per il disarmo generale e completo, da raggiungersi
entro quattro anni, in tre fasi67.
Ancora una volta le posizioni portate avanti dai bue blocchi si dimostrarono
troppo distanti perché i lavori della Conferenza potessero portare al minimo risultato; e
infatti, dopo 46 sedute plenarie, 11 sedute del sottocomitato delle tre potenze nucleari
63 Annuario di Politica Internazionale, 1960, Conferenza dei Dieci sul Disarmo e Conferenza
Nucleare a Ginevra, Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 116 – 146 64 Annuario di Politica Internazionale, 1962, I Blocchi: Polemiche sul Disarmo e Berlino Accordo
sul Laos e Crisi per Cuba , Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 6 – 9. 65 Alla Conferenza dei 18 parteciparono: Brasile, Bulgaria, Burma, Canada, Cecoslovacchia,
Etiopia, India, Italia, Messico, Nigeria, Polonia, Romania, Svezia, URSS, RAU, Gran Bretagna, Stati Uniti. Alla Conferenza non inviò rappresentanti la Francia, tra la costernazione generale.
66 “United States’ Outline of Basic Provisions of a Treaty on General and Complete Disarmament in a Peaceful World”, 18 aprile 1962, in Further Documents Relating to the Conference of the 18-Nations Committee on Disarmament, Miscellaneous No. 22 (1962), London, Her Majesty’s Stationery Office, 1962, pp. 53 – 78.
67 “Soviet Draft Traty on General and Complete Disarmament under Strict International Control”, 15 marzo 1962, Ivi, pp. 18 – 39.
40
per il divieto degli esperimenti ed altre numerose sedute non formali e riunioni private,
il 31 maggio dello stesso anno la Conferenza inoltrò alle Nazioni Unite una relazioni sul
progresso dei lavori, che in realtà constatava non essersi compiuto alcun passo avanti.68
Tuttavia, nella terza ed ultima fase della Conferenza, durata dal 26 novembre al
20 dicembre 1962, svoltasi quindi dopo la crisi di Cuba, il delegato sovietico Zarapkin
introdusse un elemento di novità, con la proposta che ognuna delle tre potenze nucleari
accettasse l’installazione sul proprio territorio di due o tre stazioni sismiche automatiche
(le cosiddette “scatole nere”), da collocarsi in zone soggette a fenomeni sismici, allo
scopo di distinguere tra i sommovimenti tellurici e gli esperimenti nucleari sotterranei.
Benché il delegato statunitense Dean ammettesse che la proposta sovietica offriva “delle
interessanti possibilità per ulteriore studio e investigazione”, tuttavia la Conferenza non
sviluppò la proposta stessa e si chiuse il 20 dicembre sul nulla di fatto.69
Le discussioni di Ginevra furono, peraltro, contornate dal rombo delle esplosioni
atomiche, dall’una e dall’altra parte. Gli Stati Uniti, infatti, nell’aprile del 1962
concretizzarono la minaccia di riprendere gli esperimenti, cominciando tutta una serie di
prove atmosferiche nel Pacifico per un totale di 86. A sua volta anche l’Unione
Sovietica riprese in agosto i suoi test, con una serie di 40 esperimenti atmosferici.70
Come abbiamo visto la crisi di Cuba ebbe sui due blocchi effetti terapeutici
notevoli, apportando la necessità improrogabile di regolamentare il settore atomico
degli armamenti. Si avviò gradatamente uno scambio epistolare tra Kennedy e Chruščëv
dai toni particolarmente distesi e cordiali, che vide, peraltro, l’adesione dell’Unione
Sovietica al principio delle ispezioni in loco per il controllo della sospensione degli
esperimenti atomici. Chruščëv comunicò non solo tale adesione, ma anche
l’accettazione, da parte sovietica, della costruzione di tre stazioni sismiche automatiche
sul proprio territorio, accettando che personale straniero intervenga, se necessario, per
l’invio e il prelievo delle apparecchiature alle stazioni sismiche che verrebbero collocate
in territorio sovietico. Kennedy si dimostrò soddisfatto per il passo avanti compiuto da
Chruščëv e, benché l’offerta di tre stazioni appariva in sé piuttosto modesta, essa
costituiva pur sempre un rilevante progresso, considerate le resistenze sempre opposte
dai sovietici contro ogni richiesta occidentale di verifica sul posto.
Quest’atmosfera di distensione e di possibilità d’intesa non tardò a guastarsi con
la ripresa dei lavori della Conferenza dei 18 nel febbraio del 1963 quando il delegato
68 Annuario di Politica Internazionale, 1962, op. cit., pp. 10 – 13. 69 Annuario di Politica Internazionale, 1963, Impegno Kennedy – Chruščëv nel Dialogo tra i
Blocchi: Trattato per il Divieto degli Esperimenti Nucleari , Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 3 – 7.
70 Annuario di Politica Internazionale, 1962, op. cit., pp. 11 – 12.
41
sovietico, Kuznetsov, presentò uno schema di dichiarazione in quattro punti,
contenente, tra l’atro, la richiesta di eliminazione di tutte le basi allestite su territori
stranieri per il mantenimento di forze nucleari (aeree e navali). Una simile proposta,
così generica e di ampia portata, anziché restringere il discorso su quel limitato ma
concreto settore verso il quale si era rivelata una qualche possibilità d’intesa, sembrò
piuttosto destinata a ricondurre la discussione sul tradizionale e sterile terreno della
propaganda e della polemica. Il delegato statunitense Foster dichiarò lo stesso giorno
che il suo paese era pronto a continuare il colloquio sulla questione specifica della
sospensione degli esperimenti atomici ed in particolare sul numero delle ispezioni in
loco, unica materia che, secondo lui, offrisse prospettive incoraggianti di negoziabilità.
Durante l’ultima fase dei lavori della Conferenza i tre paesi africani (Etiopia, Nigeria e
RAU), per indurre le potenze nucleari ad arrivare ad un compromesso, mediante un
accordo globale comprendente sia l’intesa su un numero intermedio di ispezioni sia altre
misure in tema di disarmo in genere, proposero: la prevenzione della proliferazione
delle armi nucleari, riduzione del rischio di guerra per errore, accidente o mancanza di
comunicazioni; patto di non aggressione tra la NATO ed il patto di Varsavia.
L’unico risultato concreto della Conferenza fu l’accordo sovietico –
americano per l’istituzione di una “linea diretta” (detta altresì “linea rossa” o “linea
calda”) telegrafica e via radio tra Washington e Mosca, per scongiurare quanto più
possibile qualsiasi rischio di incomprensione o equivoco che potesse provocare lo
scontro atomico. Un accordo che, però, fu reso possibile soltanto dalle decisioni prese in
proposito fuori dalla Conferenza stessa, dai governi degli Stati Uniti e dell’Unione
Sovietica. E tali decisioni, a loro volta, non si inquadravano in un ambito veramente
tecnico, quale era quello proprio alle discussioni della Conferenza, bensì si riportano ad
una precisa volontà politica ed al conseguente mutamento del tono e della sostanza delle
relazioni tra i suddetti governi. Le conversazioni dirette tra Mosca e Washington sul
problema atomico giunsero, in ultima analisi, all’accordo, in sede ginevrina, all’altro e
più importante accordo sulla sospensione degli esperimenti nucleari, il Limited Test Ban
Treaty71, sottoscritto nel 1963 da Stati Uniti, Urss e Gran Bretagna.
Da una parte, come si è già detto, agì fortemente sui Governi statunitense e
sovietico, e personalmente su Kennedy e Chruščëv, il senso della grave responsabilità
ad essi spettante come corrispettivo del loro monopolio atomico; d’altra parte, quasi a
71 Sui negoziati che anticiparono la stipula del Limited Test Ban Treaty vedi Marilena Gala, op. cit.; cfr. anche Treaty Banning Nuclear Weapon Tests in the Atmosphere, Outer Space and Under Water, in NuclearFiles.org, www.nuclearfiles.org. Sul Limited Test Ban Treaty vedi in The National Security Archive, The Making of Limited Test ban Treaty, 1958-1963, William Burr and Hector L. Montford (edited by), 2003, Washington D.C., www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB94/.
42
concentrare l’attenzione sul problema atomico, vi fu la mancanza di altri fondamentali
problemi che fossero aperti nella prima metà del 1963.
Nell’aprile di quell’anno, gli ambasciatori statunitense e britannico a Mosca,
Kohler e Humphrey Trevelyan, consegnarono a Chruščëv un messaggio congiunto del
presidente Kennedy e del premier britannico McMillan, in cui i due leader occidentali
lamentarono la mancanza di progressi alla Conferenza di Ginevra, proponendo altre vie
per superare il punto morto e insistettero per un rapido accordo sul trattato per la tregua
nucleare. Il risultato di questa corrispondenza fu che nel giugno successivo venne
annunciato nelle tre capitali un incontro a Mosca, intorno alla metà di luglio, dei tre
ministri degli esteri per “discutere il problema di un trattato di interdizione degli
esperimenti nucleari”. Lo stesso 10 giugno Kennedy pronunciò nella sede
dell’American University, a Washington, un discorso nel quale, oltre a dare notizia del
suddetto accordo anglo – sovietico – statunitense, dichiarò che “per rendere ben chiara
la nostra buona fede e le nostre profonde convinzioni in merito alla questione degli
esperimenti nucleari, gli Stati Uniti non si propongono di effettuare esperimenti
nucleari nell’atmosfera fintantoché altri Stati non ne effettuino neppure loro. Noi non
saremo i primi a riprenderli”72. L’impulso impresso da Kennedy si rivelò veramente
decisivo: il fatto che il discorso sia pubblicato per intero nella Izvestia fu certamente un
sintomo indicativo della grande importanza ce immediatamente venne ad esso
riconosciuta dall’Unione Sovietica; ed anche Chruščëv personalmente, nelle risposte
fornite alle questioni postegli dai redattori delle Izvestia e della Pravda (pubblicate il 15
giugno), esaltò in generale la coesistenza pacifica, ed in particolare diede una
valutazione complessivamente più che positiva del discorso di Kennedy.73 Ad ogni
modo, il premier sovietico, sia per ragioni di merito sia per motivi di schermaglia
diplomatica, non si privò di sollevare diverse obiezioni, tra cui quella secondo cui il
governo sovietico “non consentirebbe a spalancare il territorio nazionale ad ispezioni a
scopo spionistico”.74
Il 15 luglio 1963 si aprirono a Mosca le conversazioni tra le delegazioni
statunitense, guidata da Averell Harriman, brittanica, guidata da Lord Hailsham, e
sovietica, alla cui testa il primo giorno si pose Chruščëv, lasciando poi il posto ed il
compito a Gromiko. Le conversazioni, che vennero ufficialmente descritte come
72 Commencement Address by President John F. Kennedy at American University Washington,
D.C., 10 giugno 1963, in National Security Archive, The Making of the Limited Test Ban Treaty, 1958 – 1963, Washington D.C., http://www.gwu.edu/~nsarchiv/NSAEBB/NSAEBB94/index2.htm.
73 Annuario di Politica Internazionale, 1963, op. cit., pp. 20 – 23. 74 Ibidem.
43
“cordiali e pratiche”, si conclusero positivamente il 25 luglio, con la sigla, a palazzo
Spiridonovka, del Trattato per l’interdizione parziale degli esperimenti nucleari.
Il Trattato consta di un preambolo e di cinque articoli, le cui principali
statuizioni sono:
1). L’obbligo che ciascuna parte si assume di “proibire, prevenire e non portare a
termine esperimenti con armi nucleari o qualsiasi altra esplosione atomica nell’atmosfera, nello
spazio extra – atmosferico e sott’acqua”, nonché “in qualsiasi altro ambiente se simili esplosioni
causassero la caduta di scorie radioattive al di fuori dei limiti territoriali dello Stato che effettua
l’esplosione”;
2). La facoltà lasciata alle parti di proporre emendamenti al presente trattato, che
dovranno essere approvati dalla maggioranza dei voti delle potenze firmatarie, inclusi i voti di
tutte e tre le parti prime contraenti;
3). La possibilità di aderire al trattato, aperta a tutti gli Stati;
4). Il diritto di ciascuna parte di denunciare il trattato, in caso che eventi straordinari,
connessi con la materia del trattato stesso, portino minaccia ai supremi interessi della parte in
causa, previo però il preavviso di tre mesi.75
Quest’ultima clausola rendeva ancora più limitato il Trattato, in quanto, nella sua
formulazione ampia e vaga, in pratica permetteva a ciascuna parte contraente larga
libertà d’azione. Di per sé, inoltre, il Trattato escludeva gli esperimenti sotterranei,
sicché si riduceva a vietare quegli esperimenti che, comunque, non potevano essere
tenuti segreti. Va poi sottolineato come il Trattato non intaccasse benché minimamente
il mantenimento, da parte delle potenze nucleari, delle loro ingenti riserve di armi
nucleari, né la facoltà di perfezionarle ed accrescerle a loro piacimento senza sottostare
ad alcun controllo.
Eppure, nonostante tutte queste limitazioni, la conclusione del Trattato fu accolta
dall’opinione pubblica e mondiale, a parte alcune eccezioni, con un senso di vero
compiacimento: sia perché la comunità internazionale si sentì liberata dall’incubo della
contaminazione radioattiva del suo ambiente vitale, sia perché si scorgeva nel Trattato il
primo accordo finalmente raggiunto dopo diciasette anni di vane discussioni sul disarmo
e, quindi, vi era la viva speranza che a questo primo passo altri, e più consistenti,
facessero presto seguito.
Diverse furono le voci che giunsero dai due paesi, la Francia e la Repubblica
Popolare Cinese, che costituivano l’opposizione interna a ciascuno dei due blocchi.
75 Ivi, pp. 27 – 28.
44
Quanto alla Francia, che, come si è visto, stava tentando di costruirsi una sua autonoma
forza atomica, e che proprio per questo motivo si trovava in aspro dissidio con la
politica atomica dell’Alleanza atlantica così come fu impostata da Kennedy, l’accordo
di Mosca andava ad incidere su un terreno particolarmente sensibile: de Gaulle dichiarò
che non solo non intendeva aderire all’accordo, ma era assolutamente deciso a
proseguire l’apprestamento del proprio armamento atomico, compresa, ovviamente,
l’effettuazione degli esperimenti che ritenesse opportuno fare.
Per la Cina, l’accordo di Mosca cadeva nel pieno del contrasto cino – sovietico,
l’ultimo episodio del quale fu il risultato nullo dell’incontro tra le delegazioni dei due
partiti, tenutosi nella capitale sovietica negli stessi giorni in cui le delegazioni
statunitense e britannica negoziavano e concludevano con quella sovietica l’accordo.
Nell’ambito di questo contrasto, l’accordo costituì per Pechino un’ulteriore prova della
grave deviazione ideologica di Mosca., ormai arrivata a stringere accordi con il blocco
imperialistico, a danno della solidarietà che doveva legare il movimento rivoluzionario
internazionale. Inoltre, la Cina comunista aveva da poco iniziato la messa in opera di un
piano volto alla costruzione di armi atomiche.
1.6. L’ingresso della Cina nel club nucleare
L’idea di possedere un’arma nucleare non tardò a maturare neanche nella
Repubblica Popolare Cinese. Nel 1955, quando ormai da oltre cinque anni il Partito
Comunista Cinese era al potere, il premier Zhou Enlai e Mao Tse-tung, ancora senior
member nel Politburo, incontrarono per la prima volta il fisico nucleare Qian Sanqiang,
a capo dell’Istituto di Fisica cinese che durante la guerra aveva lavorato e studiato nella
Francia occupata dai tedeschi nel team del premio nobel per la fisica Irène Joliot-Curie -
figlia della più nota Marie Curie. L’ordine del giorno dell’incontro fu uno solo: la
possibilità di iniziare un programma di costruzione di armi atomiche.
Le ragioni che indussero Mao ad una decisione tale furono diverse76: c’era una
guerra in Corea, in cui volontari cinesi andarono ad affiancare le forze nord-coreane e
gli Stati Uniti minacciavano l’uso dell’arma atomica; vi era poi il pericolo rappresentato
dal fatto che i nazionalisti di Chang Kai-shek avessero mantenuto il controllo delle due
isole di Quemoy (Jinmen) e Matsu (Mazu), prossime alle coste continentali e sulle quali
già nel 1954 i Cinesi popolari iniziarono un sistematico bombardamento, poiché esse
76 Zheng Wang, The Role of Nuclear Weapons in Strategic Thinking and Military Doctrines:
China, Thinking and Disarmament, in “Nuclear Weapons into the 21st Century”, 2001, pp.127-134. In Parallel History Project on NATO and Warsaw Pact, http://www.isn.ethz.ch/php/index.htm.
45
non rientravano nel trattato difensivo istituito tra Repubblica cinese e Stati Uniti77, che,
firmato nel dicembre 1954, costituiva un altro campanello d’allarme per il governo
cinese dal momento in cui tendeva a prevenire eventuali attacchi da parte di Pechino
contro l’isola di Formosa; infine, ma non meno importante, vi era il desiderio e
l’ambizione di acquisire prestigio e influenza sul piano internazionale.78
Benché inizialmente l’idea fosse, come il caso della Francia, quella di sviluppare
un programma di ricerca sugli usi pacifici dell’energia nucleare, Mao mai nascose
l’intenzione di dotare il paese di un proprio arsenale atomico. Nel 1958, in seguito alla
seconda crisi di Taiwan e allo schieramento di armi atomiche statunitensi su Taiwan, le
convinzioni di Mao sulla necessità di un proprio arsenale vennero ulteriormente
rinforzate. Nel luglio dello stesso anno venne posta in essere la costruzione del Nuclear
Weapons Research Institute con sede a Pechino. La Cina necessitava, per portare a
compimento il progetto, di uranio e dei mezzi per convertire l’uranio in materiale fissile
e poi in bomba.
In seguito alla dichiarazione nel gennaio del 1955 da parte dei Sovietici, che
annunciarono che avrebbero fornito assistenza alla Cina comunista e ad alcuni paesi
dell’Europa dell’est nel campo degli usi pacifici dell’energia atomica, tra il 1955 e il
1958 Pechino e Mosca firmarono una serie di accordi segreti che stabilivano delle forme
cooperative in campo nucleare. Contrariamente alla cooperazione nucleare alla base
delle potenze occidentali durante il secondo conflitto mondiale, ispirata piuttosto dalle
esigenze e dalle condizioni fornite dalla guerra, la cooperazione istituita dall’accordo
sino-sovietico aveva alla base, invece, motivazioni prettamente di affinità ideologica.79
L’assistenza sovietica prevedeva un ciclotrone, un reattore nucleare e materiale
fissile per la ricerca. L’accordo stipulato il 15 ottobre del 1957, il New Defence
Technical Accord, conteneva la promessa sovietica di fornire al più presto la Cina di un
prototipo di bomba atomica e missili, con le relative informazioni tecniche.80
Nel 1959 l’alleanza Sino-Sovietica iniziò a decadere: già dal 1956 le
dichiarazioni di Mao riguardanti sia la politica interna sia quella estera, si dimostrarono
77 Nel dicembre 1954 gli Stati Uniti firmarono con le autorità di Taiwan il cosiddetto “Trattato di
difesa comune”, inserendo la provincia di Taiwan sotto la protezione americana. Il governo americano continuò la politica di intervento negli affari interni cinesi, creando una situazione di tensione e antagonismo sul lungo periodo nella zona dello stretto. Da allora il problema di Taiwan è diventato la maggiore divergenza fra Cina e Stati Uniti.
78 Jeffrey T. Richelson, “Mao’s Explosive Thoughts”, op. cit., pp. 137-142; John Wilson Lewis and Xue Litai, China Builds The Bomb,, Stanford University Press, 1988, pp. 11-39.
79 Evgeny A. Negin and Yuri N. Smirnov, Did the URSS share atomic Secrets with China?, in Parallel History Project on NATO and the Warsaw Pact, China and the Warsaw Pact, Ottobre 2002. http://www.isn.ethz.ch/php/documents/collection_11/texts/Negin_Smirnov_engl.htm.
80 John Wilson Lewis and Xue Litai, op. cit., pp. 176-177.
46
molto più radicali e minacciose rispetto al modello comunista sovietico. Inoltre, sul
terreno ideologico, la riappacificazione sovietica con Tito rappresentò per il governo di
Pechino un primo sintomo di allarmante deviazionismo. Sul piano diplomatico, invece,
il viaggio di Chruščëv e Bulganin in India nel 1955 fu un segno non meno preoccupante
della propensione sovietica ad appoggiare i potenziali avversari della Cina in Asia.
Infatti il governo di Mosca non intendeva avere all’interno del proprio blocco un’altra
potenza capace di condizionarlo su troppi piani.
Un aspetto di questi squilibri ricaddero proprio sugli accordi di assistenza
atomica. Nel 1959 i Sovietici informarono il Partito Comunista Cinese che non
avrebbero continuato a sostenere la Cina nel suo programma nucleare. Questo rifiuto
comportò un notevole deterioramento delle relazioni tra i due paesi comunisti che ne
accelerò il declino completo.81
Nonostante la cessazione dell’assistenza sovietica, nel 1960 la Repubblica
Popolare Cinese aveva ormai acquisito abbastanza informazioni tecniche da poter
andare avanti per proprio conto nel programma atomico.82 Questo fatto comportava non
poche conseguenze poiché la Cina iniziava a bussare la porta del club nucleare.
“CHINA exploded an atom bomb at 15.00 hours on October 16, 1964,
and thereby conducted successfully its first nuclear test. This is a major achievement of
the Chinese People in their struggle to increase their national defence capability and
oppose the United States imperialist policy of nuclear blackmail and nuclear threats”83.
Così aprì la dichiarazione ufficiale del governo cinese il 16 ottobre 1964, giorno
in cui Pechino decise di compiere il primo test nucleare. Come si evince
immediatamente la natura dell’opzione atomica cinese era duplice: da una parte Pechino
dichiarò il diritto inalienabile di ciascuno stato sovrano di pensare alla difesa nazionale
e, dall’altra, mise in luce il proprio impegno alla lotta contro la “politica imperialista
statunitense” che, tramite la minaccia dell’arma atomica, stava rappresentando la causa
primaria dell’instabilità internazionale. Non potendo rimanere impassibile a tale
minaccia, dichiarava Pechino, la Cina sentì il “dovere” di impegnarsi essa stessa nella
costruzione e nello sviluppo di armi atomiche proprie, così da spezzare il monopolio
statunitense e delle altre potenze nucleari e, infine, eliminare capacità atomiche e
81 Ibidem. 82 Jeffrey T. Richelson, op. cit., pp. 137-148. 83 The official statement on the explosion of China’s first atomic bomb today (Peking, October
16), In “The Bomb”: a symposium on the implications of the demands for an independent nuclear deterrent, Seminar gennaio 1965, New Delhi, in India and the Making of Nuclear Defence, DO 182/154 National Archive, Kew Gardens, Londra.
47
conseguente paura verso un eventuale conflitto globale. Il governo cinese si esponeva
così come sostenitore della proibizione assoluta di utilizzo di armamenti atomici,
ricordando che fu esso stesso a opporsi contro il recente Limited Test Ban Treaty, che, a
parer suo, non era altro che un inganno per “all peace-loving countries”, poiché
consolidava il monopolio assoluto delle armi atomiche nelle mani di sole tre Potenze,
impedendo a tutti gli altri stati di compiere le medesime scelte per la propria sicurezza
nazionale. Tale trattato, quindi, continuava Pechino, non costituiva un segnale di arresto
per gli armamenti atomici ma anzi, gli Stati Uniti avrebbero continuato a condurre test,
ad accumulare le proprie riserve di armi, a esportare conoscenze e materiali atomici.
Così come stava avvenendo con la dislocazione dei sottomarini atomici lungo le coste
giapponesi, costituendo una minaccia per la popolazione giapponese in primo luogo, per
quella cinese e per tutte quelle dei paesi dell’Asia. Altrettanto stava avendo luogo in
Europa in cui, tramite il progetto di MultilateralForce, gli Stati Uniti preparavano per ri-
armare la Germania dell’Ovest, così da costituire una minaccia rilevante per la sicurezza
non solo della Repubblica Democratica di Germania, ma per tutti i paesi socialisti
dell’Europa dell’est.
E ancora, dichiaravano i Cinesi, vi erano missili Polaris statunitensi negli Stretti
di Taiwan, nel Golfo di Tonchino, nel Mar Mediterraneo, nell’Oceano Pacifico, in
quello Indiano e, infine in quello Atlantico, minacciando ovunque la tranquillità delle
nazioni e delle genti “che stanno combattendo contro l’imperialismo, il colonialismo e il
neo-colonialismo. La Cina, leale al Marxismo- Leninismo e al internazionalismo
proletario, crede nelle genti. E sono le genti che decidono il destino del mondo, non le
armi”.84
La Cina Popolare trovò, in parole brevi, una via del tutto anomala di dichiarare
la sua neo- capacità nucleare, dettata dall’ambizione più grande di auto- candidare il
paese a sostenitore delle cause nazionali dei paesi appena indipendenti o in procinto di
esserlo, realizzando così il duplice intento di proporre al mondo il modello comunista
cinese, indipendente rispetto a quello sovietico, e, contemporaneamente, intraprendere
una lotta in prima linea contro il modello capitalistico occidentale.
Come sottolineò lo studioso Ralph L. Powell nel 1964, il primo test nucleare
cinese aprì una nuova e pericolosa fase dell’era atomica.85 Nonostante dal punto di vista
militare i test cinesi non ebbero nessun impatto immediato, questi mostrarono presto gli
effetti sul piano internazionale. L’effetto che più di ogni altro venne a galla fu la
84 Ibidem. 85 Ralph L. Powell, Risks of Nuclear Proliferation: China’s Bomb: Exploitation and Reactions, in
“Foreign Affairs” ,1964 – 1965, pp. 616- 625.
48
crescente preoccupazione, a livello internazionale, verso la proliferazione delle armi
atomiche: fu esplicito fin da subito che la capacità nucleare di un paese quale la
Repubblica Popolare cinese avrebbe avuto un’importanza cruciale per la pace e la
stabilità mondiale.
Mentre i test e le esplosioni precedenti a quelle cinesi furono eseguite da potenze
industriali, prevalentemente appartenenti alla sfera occidentale, quelle della Repubblica
Popolare Cinese non erano occidentali, e, cosa più importante, provenivano da un paese
semi-industrializzato.
Le preoccupazioni riguardanti le potenzialità atomiche del governo di Pechino
non sorsero in coincidenza con le prime esplosioni cinesi, ma avevano radici ben più
remote. Quando Kennedy prese la guida dell’amministrazione statunitense, ancora poco
si conosceva riguardo gli sviluppi del programma atomico cinese, e sulle implicazioni
che questo avrebbe potuto avere sulla politica estera americana, nonché sulla comunità
internazionale in generale.86 Ma, già nel giugno del 1961 un rapporto presentato dal
Joint Chief of Staff concluse che “the Chinese attainment of a nuclear capability will
have a marked impact on the security posture of the United States and the Free World,
particularly in Asia”.87 Qualche mese più tardi, George McGhee, direttore dello State
Department of Policy Planning, fece notare che l’acquisizione di armi nucleari da parte
del governo cinese avrebbe creato problemi a livello “psicologico” e “politico” piuttosto
che su quello militare. Una Cina nucleare e con un tale potere militare, quindi, avrebbe
creato “politically significant psychological dividends” 88, incentivando, negli altri paesi
dell’area asiatica, il convincimento che il comunismo potrebbe costituire per se stessi un
opzione futura, spezzando ogni potenziale legame regionale con Washington.89
In una conversazione90 tra George McGhee e il segretario di stato Dean Rusk, il
primo suggerì che una possibile soluzione per ridurre l’impatto psicologico di una Cina
nucleare, sarebbe potuta essere quella di incoraggiare, ed eventualmente assistere, un
altro “grande” asiatico come l’India nello sviluppo di un programma atomico. McGhee
86 Vedi ad esempio il memorandum steso nel 1955, dall’allora capo della CIA Sherman Kent che concludendo il suo rapporto scrisse “China almost certainly would not develop significant capabilities for the production of nuclear weapons within the next 10 years unless it were given substantial external assistance” , Sherman Kent, AD/NE, Memorandum for the Director, Subject: Chinese Communist Capabilities for Developing an Effective Atomic Weapons Program and Weapons Delivery Program, 24 giugno 1955, in Jeffrey T. Richelson, op. cit pp. 142-143.
87 Memorandum from the Joint Chiefs of Staff, “A strategic Analysis of the Impact of the Acquisition by Communist China of a Nuclear Capability”, 26 giugno 1961, in Jeffrey T. Richelson, op. cit pp. 142-143.
88 Ibidem. 89 Ralph L. Powell, op. cit., pp. 616- 625. 90 George McGhee to Secretary of State Dean Rusk, “Anticipatory Action Pending Chinese
Demonstration of a Nuclear Capability”, 13 settembre 1961, pp. 1-2, in Jeffrey T. Richelson, op. cit., pp. 142-143.
49
informò Rusk riguardo il programma per l’energia atomica in atto in India, sostenendo
che il paese aveva raggiunto uno stadio sufficientemente avanzato, tale da essere in
grado nel giro di qualche mese di poter produrre abbastanza materiale fissile per la
costruzione di un ordigno atomico.
La prospettiva che si faceva avanti era, quindi, la possibilità di sostenere un
paese “Asiatico e non- comunista” verso il nucleare, con l’obiettivo di sferrare un duro
colpo alla Cina Comunista. Nonostante questo apparisse da subito un obiettivo
difficoltoso, vista la strenua opposizione all’opzione nucleare dichiarata dal Primo
Ministro indiano Jawaharlal Nehru, “essi vedranno presto”, sostenne McGhee, “i
benefici che un simile programma avrebbero sull’India”. Primo fra tutti vi era la
possibilità di neutralizzare le minacce nucleari cinesi verso i propri vicini asiatici, verso
la stessa India in primo luogo.91
Alla vigilia delle sperimentazioni eseguite da Pechino, il Policy Planning
Council, in un documento92 inviato al Presidente Johnson il 30 aprile 1964, mise in luce
quelle che sarebbero state le implicazioni che la capacità nucleare cinese, ormai
prossima alla luce del giorno, avrebbe generato sulla politica estera americana. Il
documento, inoltre, era l’allegato ad un memorandum93 indirizzato al Presidente, steso
dal consulente per gli affari di sicurezza nazionale Walt Whitman Rostow, con
l’obiettivo di sollecitare il presidente stesso e tutta l’amministrazione statunitense verso
un implementazione degli sforzi e dei piani affinché la nazione godesse di una maggior
sicurezza. Il documento confermando quanto fu ipotizzato anni prima circa le
conseguenze psicologiche e politiche che una Cina nucleare avrebbero concretizzato,
sottolineava piuttosto il problema riguardante la possibilità di perdita d’influenza in aree
chiave dell’Asia. L’obiettivo del governo cinese, agli occhi del Policy Planning
Council, sarebbe stato quello di creare pressioni politiche verso la presenza militare
statunitense in molte zone asiatiche e, quindi, inibire la richiesta di assistenza Usa da
parte di queste stesse aree, convogliandole, piuttosto, su sé stesso. A questo punto il
documento profilava tutta una serie di azioni che l’amministrazione avrebbe dovuto
intraprendere per controbilanciare gli effetti della capacità atomica cinese. Ci si
chiedeva, in primo luogo, se la rottura dell’alleanza Sino-Sovietica, che privò la Cina
Comunista dell’ombrello nucleare da parte dell’Urss, avrebbe reso meno convincente la
politica nucleare statunitense nell’intera area asiatica. Il Policy Planning Council non
91 Ibidem. 92 Paper prepared in the Policy Planning Council, “The Implications of a Chinese Communist
Nuclear Capability”, senza data, in FRUS, 1964-1968, vol. XXX. pp. 57-58. 93 Memorandum of Conversation between Rostow and Johnson, 30 aprile 1964, in FRUS, 1964-
1968, vol. XXX, pp. 57-58.
50
riteneva questo fosse un problema impellente ma, piuttosto, metteva in luce la necessità
di attivare azioni che avrebbero ridotto la possibilità di sviluppo di capacità nucleari in
altri paesi, quali, in primo luogo, l’India. In tale prospettiva si proponeva di adottare
politiche con l’obiettivo di: (i) dichiarare pubblicamente la piena volontà di utilizzare la
propria capacità nucleare come obiettivo di difesa nazionale e internazionale; (ii)
avviare politiche di difesa nucleare comune con gli alleati; (iii) offrire, invece, agli stati
cosidetti “neutrali” la possibilità di consultazione; (iv) offrire la disponibilità ad impegni
bilaterali in materia nucleare; (v) dichiarare la disponibilità al dispiegamento della
propria capacità atomica in caso di minaccia nucleare destinata ad un paese terzo; (vi)
infine, attivare gli sforzi affinché le forme di cooperazione con l’Unione Sovietica
contro la proliferazione nucleare divenissero formali e giuridicamente applicate. Il
documento concludeva sostenendo che, nel caso in cui, una volta eseguiti i test, la Cina
comunista fosse riuscita nel duplice intento di creare una minaccia internazionale e,
contemporaneamente, dichiararsi portavoce di pace e sicurezza globale, gli Stati Uniti
avrebbero dovuto, a tal punto, deviare la propria politica nucleare, concentrandola,
principalmente, verso l’obiettivo principe di mantenere la propria influenza nelle aree a
rischio dell’Asia. Per ottenere un risultato simile era indispensabile promuovere, con
sempre maggior enfasi, le attività di indebolimento della crescente proliferazione
atomica.
I test di Pechino, quello eseguito nell’ottobre del 1964, e poi il secondo eseguito
nel maggio dell’anno successivo, attivarono i processi che fino a qualche mese prima
erano solo previsioni. Come ancora ci fa notare Ralph L. Powell, in primo luogo, la
Cina dimostrò, impiegando il mezzo nucleare, all’intera comunità internazionale le
proprie abilità propagandiste raggiungendo, così, l’obiettivo preposto di acquisire
maggior prestigio e influenza sul piano politico, tecnologico e militare. In seconda
analisi, il governo di Pechino, nel tentativo di placare il risentimento internazionale e
giustificare le proprie azioni, tentò di far ricadere ogni colpa della proliferazione
nucleare in corso sugli Stati Uniti. E, infine, in contraddizione con le proprie
rivendicazioni di “self- defence” e di sostegno alla pace, Pechino, ancora una volta,
dimostrò la sua indole rivoluzionaria capace di muovere le altre forze rivoluzionarie del
mondo, scuotendone, attraverso la propria determinazione e forza, morale e militanza.94
Attraverso questi tre fattori, che Powell mise in risalto già nel periodo dei test cinesi, è
facile comprenderne il contesto e la fase che la Cina aprì candidandosi quale potenza
94 Ralph L. Powell, op. cit., pp. 616-617.
51
nucleare, caratterizzata, evidentemente, dalla sempre più urgente necessità di
disciplinare la proliferazione e il disarmo atomico.
1.7. Verso una nuova era nucleare: il Gilpatric Report e la politica
statunitense
Il “Gilpatric Report”95 mirava a coprire i buchi informativi in materia
nucleare lasciati dai precedenti rapporti, riesaminando nel suo insieme la politica
statunitense nei confronti del problema della proliferazione nucleare.
Su richiesta del presidente Johnson, in occasione dei test eseguiti dal governo
cinese, fu affidato a Roswell Gilpatric, noto avvocato di Wall Street, nonché ex
Segretario alla Difesa, il compito di dirigere una speciale unità di investigazione, con
l’obiettivo di studiare a fondo i sistemi più idonei a prevenire la diffusione delle armi
nucleari. Gilpatric reclutò un ristretto gruppo di ex funzionari governativi, tra cui l’ex
capo della CIA Allen Dulles, l’ex High Commissioner to Germany John J. McCloy,
l’ex White House Science Adviser George Kistiakowsky, e infine il SACEUR
(Supreme Allied Commander) Alfred Gruenther. Il comitato completò la stesura di un
Rapporto all’inizio del 1965, e lo presentò al Presidente Johnson il 21 gennaio dello
stesso anno proprio mentre era in atto, tra diversi esponenti politici, un’accesa polemica
riguardo la programmazione strategica da attuare in ambito di proliferazione atomica.
Tutto ciò avveniva nel momento in cui gli statunitensi sviluppavano il loro massimo
sforzo nel Viet Nam.
Inoltre, all’interno della Nato era in corso un profondo lavorio di revisione
strategica che doveva portare al definitivo abbandono dell’ipotesi di creare quella forza
multilaterale (la Multilateral Force), in cui Johnson e il Segretario di Stato Dean Rusk
erano fortemente impegnati, nella quale potevano essere inserite anche, in un ruolo tutto
da definire, sia la programmazione nucleare francese, alla quale De Gaulle aveva dato
ulteriore slancio, sia le persistenti speranze della Germania Federale di poter disporre
anch’essa di tali armamenti.96 La MLF doveva essere sostituita, secondo i progetti
95 Report to the President by the Committee on Nuclear non-Proliferation, 21 Gennaio 1965, in
FRUS, 1964-1968, Vol. XI. Pp. 173-182. 96 La teoria della “risposta flessibile” elaborate da McNamara e la nuova strategia Americana
ebbero conseguenze politiche e militari di rilievo. La principale di queste conseguenze era già stata sperimentata durante la crisi di Berlino e, di fatto, lo fu anche durante quella cubana: nessuno era più in grado di prevedere se e a quali condizioni gli impegni assunti dagli Stati Uniti nell’ambito delle loro alleanze militari, e particolarmente della NATO, fossero ancora credibili. Ciò aprì una nuova fase di insicurezza in Europa. Come osservava Adenauer, se gli Americani non erano stati in grado nemmeno di impedire l’arrivo delle forze sovietiche a Cuba, a meno di 100 miglia dal loro territorio nazionale, che cosa pensare di un impegno lontano, come quello europeo? In questo clima di sfiducia riceveva
52
americani, da un organo di consultazione che, come disse McNamara nel giugno del
1965, sarebbe dovuto diventare la sede delle consultazioni interrelate per la
pianificazione dell’uso delle armi nucleari. La proposta, che fu studiata da uno speciale
comitato di ministri sin dal 1965 e perciò nell’intento di prevenire decisioni unilaterali
francesi, portò nel 1967 alla costituzione di un Nuclear Planning Group (nel quale fu
ammessa anche la Germania Federale), cui fu affidato il compito di formulare la
strategia nucleare della Nato.97
Questo tentativo di offrire alla Germania e ad altri paesi alleati europei un clima
di controllo condiviso e cooperativo sotto l’egida della NATO, andava, però, a
scontrarsi con i negoziati in corso con Mosca per la stesura di un trattato contro la
proliferazione nucleare.98 Nel 1961, infatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
aveva creato un comitato composto da 18 paesi membri, incaricato di studiare la
proposta di un trattato di non proliferazione degli armamenti nucleari.99 Il comitato
lavorò senza risultati concreti sino al 1965, quando sia statunitensi che sovietici
incominciarono a interessarsi davvero alla sua esistenza: i test nucleari effettuati dalla
Repubblica popolare cinese furono sufficienti a smuovere, come già detto, sì la
diplomazia americana ma, perlopiù, quella sovietica.
Alla vigilia del primo insediamento del Committee on Nuclear Proliferation, i
membri, in un incontro100 con il Segretario di Stato Rusk, colsero l’occasione per
stimolare e conoscere le posizioni riguardo al tema in oggetto all’interno
dell’amministrazione Johnson. La fase attuale, aprì Rusk, era caratterizzata dal desiderio
dichiarato di tutte le potenze nucleari di mettere fine alla crescente proliferazione
atomica in atto. Il problema proveniva, sostanzialmente, da coloro che, come il Primo
Ministro Indiano o quello del Giappone, alla luce dei test eseguiti dalla Cina, iniziavano
legittimazione la risolutezza con la quale De Gaulle proseguiva la costruzione della force de frappe francese, senza godere di alcun aiuto tecnologico americano, giacché le modificazioni al MacMahon Act favorivano solo la Gran Bretagna. Oltre a queste difficoltà vi erano anche le preoccupazioni tedesche. La Germania era infatti il campo di battaglia di qualsiasi scontro tra le superpotenze. La strategia della risposta flessibile, contrariamente a quella della rappresaglia massiccia, era basata sull’uso preventivo delle forze convenzionali – o anche di quelle nucleari tattiche – rendendo certo che il primo terreno di scontro, in caso di guerra, sarebbe stato quello della Germania.
97 Robert E. Hunter, The European Security and Defense Policy : NATO's companion or competitor?, Rand Corporation, Santa Monica, 2002.
98 L’unione Sovietica obiettò fortemente il programma di MLF, sostenendo che nessun accordo sulla proliferazione nucleare poteva essere raggiunto all’interno della NATO, sempre che gli Stati Uniti non tenessero “aperti” tali nuclear- sharing arrangements. Al contrario essi avrebbero incentivato, sosteneva l’Unione Sovietica, la proliferazione e lasciato intendere che presto la Germania Federale avrebbe avuto accesso al controllo di armamenti atomici. Sui legami tra la MultilateralForce e il TNP vedi George Bunn, Arms Control By Committee, Managing Negotiations with the Russians, Stanford University Press, 1992. pp 64-72, in The National Security Archive, www.gwu.edu/ ~nsarchiv/.
99 A. Alekseyev, Non Proliferation Talks, in “International Affairs”, 1965, Vol. V. pp. 19-23. 100 Promemoria di conversazione tra il Segretario di Stato e il Gilpatric Committee on Non-
Proliferation, 7 gennaio 1965, in FRUS, 1964-1968, Vol. XI, doc. 59.
53
a vedere la questione in maniera differente. Rusk sostenne che più facile sarebbe stato
discutere con una potenza come il Giappone o con le Filippine, in quanto governi amici,
ma, per quanto riguardava il governo di New Delhi, la soluzione sarebbe stata alquanto
difficoltosa, visto che la posizione nei confronti di un eventuale programma nucleare
non era ancora chiara. Le richieste del governo alla Commissione non partivano quindi
da presupposti scontati: la questione da risolvere si generava nella necessità di
individuare una politica che avesse lo scopo di fornire garanzie di sicurezza non solo in
Europa, con le richieste sempre più pressanti della Francia di De Gaulle, ma in aree
molto più remote e ardue, come, in primo luogo, l’area asiatica. Come prevenire,
insomma, un eventuale ricongiungimento dell’alleanza Sino-Sovietica, che avrebbe
generato, in circa dieci anni, milioni di morti? Agli occhi di Rusk, le soluzioni potevano
essere molteplici: vi era l’ipotesi di istituire una comunità di difesa nucleare asiatica,
tenuta in essere, magari, da una riserva atomica statunitense; un’altra opzione vedeva,
invece, la creazione di un Commonwealth Nuclear Committee per il sud-est asiatico. La
Gran Bretagna, continuò Rusk, era pronta ad impegnare la propria capacità nucleare
nella NATO, nel momento in cui “arriverà una risposta concreta da parte nostra per
supportare gli sforzi britannici nell’est di Suez”. In poche parole, il Segretario di Stato
americano teorizzò che una soluzione sarebbe potuta essere quella di creare
un’organizzazione di difesa nucleare “differente”.101
Le parole del Segretario di Stato americano si allontanavano dall’opzione di
istituire un trattato contro la proliferazione nucleare creato in cooperazione con
l’Unione Sovietica, che, agli occhi di molti, pareva, invece, essere la soluzione più
plausibile per risolvere il problema. E fu questo il nodo focale che anche i componenti
del Committee on Nuclear Proliferation misero in luce. Rusk dichiarò che l’opzione di
un trattato era ciò che a lungo l’amministrazione americana aveva cercato, trovando,
però, poche conferme da parte sovietica che pareva concentrare le proprie
preoccupazioni verso la proliferazione quasi esclusivamente in relazione alla
Repubblica Federale di Germania.102 In proposito Rusk confermò quanto era stato detto
da Foy Kohler – ambasciatore a Mosca, già Segretario di Stato assistente per gli Affari
101 Rusk si riferisce, evidentemente, alla MultilateralForce, auspicando la nascita di un programma
simile, supervisionato dagli Stati Uniti, anche all’interno dell’aria asiatica. Il riferimento alla Gran Bretagna è affinché si proclami essa stessa come garante della sicurezza nucleare per l’area europea, de-responsabilizzando gli impegni assunti dagli Stati Uniti.
102 A questo proposito vedi il Promemoria di Conversazione tra Gromyko e Rusk alla XIX Secretary’s Delegation of the United Nations General Assembly, New York, 5 dicembre 1964, in FRUS , 1964-1968, vol. XI. Pp. 129- 135.
54
europei fino all’agosto 1962 – nel luglio 1964 che, in un telegramma103 indirizzato al
Dipartimento di Stato americano, valutava con perspicacia che Mosca non solo aveva
paura dello sviluppo della Repubblica Federale come potenza nucleare, ma era forse
ancor più preoccupata delle implicazioni politiche della MultilateralForce, che per la sua
stessa natura e portata simbolica avrebbe posto anche nel blocco orientale la questione
della condivisione del monopolio nucleare tra il Paese leader e i suoi satelliti rivali.
Quindi, mentre Washington affrontava con una certa difficoltà ma, in fondo senza
eccessive esitazioni la questione dell’acquisizione di armi nucleari da parte dei suoi
alleati, i sovietici – già innervositi della prospettiva che nel prossimo futuro la Cina
facesse esplodere il suo primo ordigno e sfruttasse questa “promozione” di status per
aumentare il suo prestigio e la sua influenza in Asia e nel mondo – avrebbero dovuto
misurarsi con l’ipotesi di dotare di armi nucleari governi come quello polacco o quello
rumeno. Il che induceva Kohler a pensare che Mosca, nonostante gli attacchi tesi a far
abortire il progetto di MultilateralForce mentre era ancora in gestazione, al dunque
potesse optare in ogni caso a favore di un trattato contro la proliferazione, soprattutto se
la Carta istitutiva della nuova struttura fosse stata accompagnata da precise garanzie
contro la produzione nazionale, il possesso o il controllo di armamenti nucleari da parte
della Germania occidentale.
A ciò Rusk aggiunse che il progetto di MultilateralForce non era altro che una
spinta contro la proliferazione e, contrariamente a quanto aveva sostenuto Gromyko,
ministro degli Affari Esteri sovietico, secondo cui la MultilateralForce avrebbe
rappresentato un primo passo verso una Germania nuclearizzata, essa costituiva
piuttosto “the last step” aggiungendo, pertanto, che proprio i sovietici erano responsabili
d’aver dato origine alle ambizioni nucleari della Germania Federale.104
Constatata la piena reciprocità d’intenti, tra i membri della commissione
Gilpatric e il segretario di Stato, che convergevano tutti nell’idea che bloccare la
proliferazione nucleare fosse la migliore politica attuabile, la questione raggiungeva
finalmente il suo punto focale: “we apparently need a big effort, with many kinds of
measures, to have much chance of success” 105. Sacrificare un importante accordo
internazionale contro la proliferazione atomica, per intraprendere politiche autonome, e
103 Telegramma dall’Ambasciata americana a Mosca al Dipartimento di Stato, 31 luglio 1964, in
FRUS , 1964 – 1968, Vol. XIII, doc. 30. 104 Promemoria di conversazione tra il Segretario di Stato e il Gilpatric Committee on Non-
Proliferation, 7 gennaio 1965, in FRUS, 1964-1968, Vol. XI, doc. 59. 105 Mr.Dulles rivolgendosi al Segretario di Stato Dean Rusk, Promemoria di conversazione tra il
Segretario di Stato e il Gilpatric Committee on Non-Proliferation, 7 gennaio 1965, in FRUS, 1964 – 1968, Vol. XI, p. 158.
55
quindi con maggiori margini di successo, era davvero un’opzione desiderabile? Rusk
fece notare che la non-proliferazione non era affatto un elemento preponderante delle
relazioni internazionali degli Stati Uniti ma che, per alcune aree particolari, essa
avrebbe potuto esserlo. Un esempio poteva essere rappresentato, nell’area
mediorientale, da Israele e dalla RAU. Questo suggeriva un approccio politico “caso per
caso” poiché, agli occhi di Rusk, ciascun contesto, essendo differente, necessitava di
risoluzioni ad hoc. Il caso dell’India era ciò che destava più preoccupazione: Gilpatric
chiese cosa sarebbe successo se, per esempio, l’amministrazione statunitense avesse
deciso che era nei propri interessi far sì che l’India acquisisse lo status di “nazione non-
nucleare”. “L’India chiede garanzie”, sosteneva Rusk , “e le chiede sia a noi che ai
Sovietici. Ma noi siamo convinti che offrire garanzie comuni in cooperazione con i
sovietici non sarà un’impresa fattibile, né tantomeno allettante e, pur optando per una
soluzione simile, crediamo che quelle che i sovietici potrebbero offrire non porterebbero
a niente di significativo”. La soluzione auspicabile, per Rusk, riguardo il caso indiano,
pareva un accordo interno al Commonwealth, in cui la Gran Bretagna avrebbe potuto
impegnare la propria capacità atomica in sostegno di New Delhi.
In parole brevi, quindi, ciò che emerse in proposito dell’India, come per altre
potenziali capacità atomiche, fu l’indispensabilità di offrire loro soluzioni concrete
affinché rinunciassero a dotarsi di un arsenale atomico indipendente. Un accordo
internazionale, sia di carattere bilaterale che multilaterale, probabilmente non avrebbe
prodotto maggiori effetti di quelli derivanti, ad esempio, dal Kellog-Briand Pact del
1928. Ma contemporaneamente pensare di riporre fiducia negli stati donandogli “carta
bianca” appariva come la peggiore delle soluzioni. L’istituzione di alleanze
caratterizzate da reciproche obbligazioni, con specifiche e definite condizioni che
avrebbero soddisfatto sia le esigenze americane che quelle, come nel caso in questione,
dell’India, appariva la prospettiva più allietante. Rusk si dimostrò profondamente
convinto rispetto a questo punto, sottolineando che benché la politica del governo
indiano fosse radicalmente cambiata rispetto al tempo di Nehru, ciò che da sempre
caratterizzava le scelte politiche di New Delhi non era tanto il cambio di leadership,
quanto piuttosto le circostanze internazionali in cui si ritrovava ad essere.
Accordi mirati bilaterali, alleanze di difesa strategiche, ma anche un accordo
internazionale stipulato con le altre potenze nucleari erano, in sostanza, le tre opzioni
che il Governo ambiva a conciliare, mirando all’obiettivo principale di allentare la
proliferazione delle armi atomiche. L’ultima opzione sembrava essere quella più
caldeggiata dall’intero Committee on Nuclear Proliferation che, però, come affermò
56
Rusk, pareva anche la più ardua da portare a termine, per i motivi già elencati e per
quello, irrisolto, secondo cui i Sovietici ancora rifiutavano di sottoporsi ai controlli
internazionali che, come dichiarò Gromyko, rientravano in una questione prettamente
politica. All’aspetto tecnologico, insomma, l’Urss non attribuiva lo stesso valore di
quello dato dall’amministrazione di Washington, sostenendo che avesse poco rilievo ai
fini del problema della proliferazione. La questione lasciava ogni perplessità al governo
americano che continuava a vedere in un eventuale riavvicinamento Sino-Sovietico il
pericolo più temibile. La cooperazione americano-sovietica non era, concluse Rusk, ciò
che avrebbe risolto il problema.
Dello stesso parere si trovava l’ambasciatore statunitense a Mosca Thomson, che
sottolineò come la politica sovietica verso l’occidentale avesse altre priorità. Piuttosto
che concentrarsi sulla non-proliferazione essa era incentrata a (i) consolidare il proprio
potere; (ii) risolvere i problemi di politica nazionale lasciati da Chruščëv; (iii) occuparsi
dell’Europa orientale; (iv) estendere la propria influenza nelle aree comuniste del
mondo. Il punto importante che l’Ambasciatore Thomson volle far emergere riguardava
la Cina comunista e il fatto che, a differenza dell’Urss, essa mantenesse una linea
decisamente più dura e strategica e che, nel realizzare l’obiettivo di estendere la propria
influenza soprattutto nell’area asiatica, rappresentava, al momento, la vera minaccia da
placare.
Questi i presupposti alla base dei lavori del Committee on Nuclear Proliferation
che, benché non privi di opinioni contrastanti, si conclusero unanimemente delineando
in maniera precisa la futura linea politica in materia nucleare del governo di
Washington.
Il “Gilpatric Report”106 indirizzato al Presidente, apriva marcando le
numerose difficoltà che il Committee on Nuclear Proliferation incontrò durante la sua
stesura, sottolineando le numerose differenze d’opinione, esistenti all’interno dello
stesso Governo, sulla fattibilità e sui costi che la prevenzione alla proliferazione
nucleare avrebbe dovuto sostenere, e, conseguentemente, sulla diversità delle linee
politiche realizzabili. Diversità che, pertanto, furono presenti anche all’interno della
commissione. A conclusione dei lavori la Commissione dichiarò unanimemente la
propria convinzione secondo cui la prevenzione alla proliferazione atomica fosse un
chiaro interesse statunitense, a dispetto delle decisioni difficili che ne sarebbero derivate
nei rapporti con gli alleati. A tal proposito il rapporto spingeva affinché gli Stati Uniti si
106 Report to the President by the Committee on Nuclear non-Proliferation, 21 gennaio 1965, in
FRUS, 1964-1968, Vol. XI. Pp. 173-182.
57
attivassero, con una certa urgenza, affinché fossero intensificati tutti gli sforzi e le
attività atte alla prevenzione e al blocco della proliferazione. Tali sforzi dovevano
indirizzarsi necessariamente, scriveva la Commissione, verso tre linee principali,
costituite da (a) negoziati mirati alla stipula di accordi multilaterali; (b) sano esercizio di
influenza sui singoli Paesi che stavano prendendo in considerazione l’ipotesi di
acquisire armamenti nucleari; infine, (c) coerenza ineccepibile ed esemplare della
politica americana.
Prima di fornire i possibili indirizzi a livello politico e strategico, il Rapporto si
soffermava sulle implicazioni e sugli effetti che le nuove capacità atomiche avrebbero
costituito sulla già gravosa instabilità internazionale, derivante dall’equilibrio della
deterrenza. “La realtà dei fatti”, assumeva il Rapporto, “pone le relazioni internazionali
attuali in un punto di non ritorno. Significativi programmi di armamento atomico sono,
oggi, tra le priorità dei governi di un numero sempre maggiore di stati. I recenti test
atomici eseguiti dalla Cina comunista, non hanno fatto altro che incentivare tali
ambizioni. Le armi nucleari rappresentano, ormai ovunque nel mondo, un marchio
distintivo di prestigio e riconoscimento internazionale, un elemento essenziale per la
propria sicurezza nazionale, e, inoltre, non necessitano di grandi risorse industriali per
poter essere prodotte”. Tali capacità avrebbero, in poche parole, intensificato gli
squilibri regionali e le ostilità tra i “nuovi” stati-nucleari e i propri vicini; avrebbero
creato sbilanciamenti dal punto di vista economico alle aspirazioni di sviluppo dei paesi
coinvolti; e, in ultima analisi, avrebbero ostacolato il già difficile obiettivo di ridurre gli
armamenti nel mondo. Inoltre, andrebbe ad indebolirsi in alcune aree strategiche la
stessa influenza diplomatica americana, costringendo il paese ad una situazione
isolazionista, che eviterebbe il coinvolgimento in un “eventuale” conflitto atomico
globale.
Il rapporto richiamava l’esigenza di istituire al più presto un trattato sulla “non-
dissemination and non-acquisition of nuclear weapons”, che inibisse l’acquisizione di
capacità atomiche, specialmente in determinate regioni dell’Europa, del Vicino Oriente
dell’Asia. In tal proposito, nonostante iniziative e negoziati sul disarmo avvenuti
all’interno delle Nazioni Unite avevano ottenuti scarsi risultati, la Commissione ricordò
che la Irish Resolution107 del 1961 così come il Limited Test Ban Treaty del 1963
continuavano ad offrire le basi su cui costruire gli scalini successivi, dichiarandosi
107 Nel 1961 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò all’unanimità l’Irish Resolution che chiamava tutti gli Stati, in particolare le potenze nucleari, affinché concludessero un accordo internazionale che frenasse il trasferimento e l’acquisizione di armi nucleari. Inoltre, i programmi di disarmo generale, sottoscritti da Stati Uniti e Unione Sovietica nel periodo 1960-1962, prevedevano la messa al bando di ogni attività di trasferimento e acquisizione di armamenti nucleari.
58
convinti che l’Unione Sovietica, preoccupata delle crescenti capacità atomiche dei suoi
vicini, avrebbe presto condiviso con gli Stati Uniti l’obiettivo di impedire la diffusione
degli armamenti nucleari. Inoltre, il cambio di leadership sovietica, contrariamente a
quanto aveva dichiarato il Segretario di Stato Rusk, e il probabile riesame della loro
linea strategico- nucleare avrebbero costituito ulteriori intenti di unirsi agli sforzi
statunitensi per attivare azioni parallele in un futuro non troppo lontano. La
partecipazione dell’Unione Sovietica al tentativo d’arresto della proliferazione andava
riconosciuta senza ombra di dubbio come un fattore essenziale.
A questo punto il Gilpatric Report passava all’esame della fattibilità delle
politiche da attuarsi. Le linee suggerite, come già detto, erano tre:
1) Multilateral Agreements: il rapporto sosteneva che alcuni paesi potrebbero
sottrarsi alle proprie ambizioni nucleari, se fossero coinvolti in un accordo
internazionale di grande portata, caratterizzato dalla proibizione di dotarsi di un arsenale
atomico indipendente, che avrebbe coinvolto molte nazioni. Gli accordi multilaterali
avrebbero dovuto essere di tre tipi: a) Non- proliferation agreement, b) Comprensive
Test Ban; c) Nuclear Free Zone. In tutti e tre i sistemi, l’elemento che viene
rimarcato assiduamente è, come già sottolineato, la necessità di convergere i propri
obiettivi e sforzi con quelli sovietici affinché si attuassero, quindi, politiche reciproche
per risolvere il problema. A tal fine diventava fondamentale dare le appropriate garanzie
ai sovietici riguardo la propria fermezza e convinzione nella lotta alla proliferazione,
sciogliendo eventuali dubbi riguardo i contrasti in seno al progetto di MultilateralForce
della NATO.
Sotto il profilo multilaterale, dunque, Washington avrebbe dovuto puntare alla
firma di un accordo di non proliferazione, spingendo in particolare la Germania
occidentale, la Francia, il Giappone, Israele, la Repubblica Araba Unita e la Svezia ad
aderirvi. Ciò non avrebbe dovuto interferire con i programmi relativi alla MLF, ma,
come il rapporto ricorda spesso, se i due percorsi avessero cominciato ad interagire, i
negoziatori avrebbero dovuto ricordare l’ordine di priorità suggerito dal Committee on
Nuclear Proliferation.
Per quanto riguarda il Comprensive Test Ban, il Rapporto asseriva che, benché
ci si dovesse rassegnare al no di paesi come Francia e Cina, l’obiettivo da perseguire era
quello di evitare che l’Unione Sovietica rinunciasse o abbandonasse l’accordo del 1963,
ragion per cui era necessario non far pressioni sulle richieste sovietiche di diminuzione
delle ispezioni on-site. La disciplina delle ispezioni internazionali necessitavano,
sicuramente, di una rivisitazione, in modo da favorire una più vasta e concreta
59
applicazione del trattato, così come ci si dichiarava favorevoli ad immettere una
clausola che non sanzionasse eventuali esperimenti nucleari con scopi pacifici, sempre
che tali esperimenti non celassero in realtà scopi strategico- militari, che sarebbero stati
concessi solo alle potenze nucleari oramai dichiarate.
Un altro obiettivo riguardava l’eventuale istituzione di zone non nuclearizzate
nell’America Latina, in Africa e se possibile nel Medio Oriente.
2) Policies toward non- nuclear powers. Congiuntamente alle misure
multilaterali, il Rapporto prospettava una politica precisa verso le potenze non nucleari:
coordinamento tra il Dipartimento di Stato, il Tesoro e gli altri dicasteri interessati per
l’elaborazione di restrizioni economiche che scoraggiassero programmi di costruzione
autonoma o di acquisizione degli armamenti.
Al caso dell’India, potenza non nucleare, il Rapporto dedicò un ampio spazio.108
Il Committee on Nuclear Proliferation propose quattro opzioni affinché il governo
indiano abbandonasse le proprie ambizioni di armamento atomico:
I. Offrire garanzie concrete che avrebbero assicurato la protezione
americana nel caso in cui l’India fosse soggetta ad attacco nucleare proveniente
dall’esterno. In tale prospettiva si evidenziava come azioni svolte in parallelo con
l’Unione Sovietica, o anche con la Gran Bretagna (visto che l’India faceva parte
del Commonwealth), avrebbero garantito maggiori margini di successo.
II. Assistere il governo indiano in “reasonable and economically justificable
scientific programs” progettati per realizzare quel prestigio che altrimenti avrebbe
ottenuto con lo sviluppo di un programma nucleare indipendente. Particolare
attenzione sarebbe stata attribuita alle problematiche sociali ed economiche (come
le risorse naturali, la salute o il controllo delle nascite) più rilevanti nel continente
indiano. A tal fine si prospettava per una crescente e sempre più salda
cooperazione tra Stati Uniti e India, che avrebbero portato a scambi in campo
scientifico, culturale e educativo.
III. La terza opzione prospettava di supportare l’India per più ampio ruolo
all’interno delle Nazioni Unite. Questo sarebbe stato possibile se il governo di
New Delhi avesse garantito di rinunciare allo sviluppo di una propria capacità
atomica.
108 La Commissione Gilpatric dedicò un paragrafo all’India, uno al Giappone, uno allo stato
d’Israele e l’ultimo alla RAU.
60
IV. Nel caso in cui l’India avesse deciso comunque di dotarsi di tali capacità,
il governo americano avrebbe dovuto riconsiderare la propria assistenza
economica e militare in questa regione.
3) La terza linea suggerita dalla Commissione Gilpatric, che ambiva l’attuazione
di una politica coerente ed esemplare, considerava quattro aspetti basilari:
a) Policies toward Europe and the Atlantic Nuclear Force109: il rapporto
auspicava che appropriate agenzie del Governo lavorassero per trovare una soluzione
alternativa alla MLF/ANF, che avrebbe inibito permanentemente l’ambizione di
acquisire armi nucleari da parte della Germania e, nel caso in cui non fosse prossima
una riunificazione tra le due Germanie, bisognava attivare ogni sforzo possibile affinché
quella occidentale rimanesse un proprio alleato.
b) Policies toward existing nuclear powers: Riguardo la Francia il Rapporto
dichiarava l’assoluta opposizione al suo programma nucleare, prospettando di
provvedere a sanzioni internazionali nel caso in cui il governo francese continuasse
nelle sperimentazioni nucleari nell’atmosfera e nello spazio cosmico.
Diverso il discorso per la Gran Bretagna110, per cui la Commissione auspicava il
proseguo di un accordo sulla base dell’ANF che permetteva al governo britannico di
possedere programma di deterrenza nucleare indipendente. Inoltre, affinché la Gran
Bretagna potesse perfezionare la propria portata atomica e strategica, si chiedeva una
revisione dell’emendamento del 1958 all’Atomic Energy Act per concedere assistenza
nucleare a nazioni in possesso di avanzate capacità militari. Ciò porterebbe Stati Uniti e
Gran Bretagna ad un’azione comune, quindi più incisiva, nella lotta contro la
proliferazione nel resto del mondo. Nei confronti dell’Unione Sovietica, data
l’importanza che un’azione parallela tra le due potenze avrebbe potuto costituire ai fini
109 L’Atlantic Nuclear Force rappresentava l’alternativa alla MLF proposta dal governo britnnico.
Infatti i Britannici mostrarono da subito le proprie perplessità nei confronti degli aspetti militari che la MLF avrebbe adottato. Il nuovo governo laburista dichiarò senza esitazioni la propria intenzione a non partecipare al progetto. Durante la visita a Washington del primo ministro britannico Harold Wilson, nel Dicembre 1964, dopo aver dichiarato che le difficoltà economiche e finanziarie stavano forzando la Gran Bretagna a ridurre il respiro dei loro impegni mondiali, la delegazione britannica introdusse la bozza intitolata “Atlantic Nuclear Force, Outline of Her Majesty’s Government’s Proposal”. La ANF avrebbe visto la forza strategica nucleare britannica impegnata in una nuova forza nucleare Alantica, con l’eccezione di alcune bombe tra cui i sottomarini Polaris; avrebbe ridimensionato il ruolo della Germania Federale nella forza, evitando di configurare intese privilegiate per la Gran Bretagna o per gli altri partner in tal modo da non provocare i Sovietici. In Massimiliano Guderzo, Interesse Nazionale e Responsabilità Globale: Gli Stati Uniti, l’Alleanza Atlantica e l’integrazione europea negli anni di Johnson 1963- 69, Il Maestrale, 2000, pp. 176- 180.
110 Al punto n. 3 del Rapporto intitolato “Policies toward Europe and the ANF” la Commissione sosteneva che il numero dei Paesi in possesso di indipendenti arsenali atomici in Europa doveva essere ridotto ad uno solo, indicandovi la Gran Bretagna.
61
della non-proliferazione, si raccomandava di aprire un nuovo dialogo, possibilmente
meno intransigente, allo scopo di garantirsi il suo supporto, così da raggiungere quel
clima di distensione ricercato da entrambi i blocchi, in cui anche le potenze ambiziose
di armamenti avrebbero accettato con minor perplessità le restrizioni in campo atomico
che la disciplina internazionale avrebbe presto imposto loro.
Anche riguardo la Cina Comunista si consigliava al Governo di intraprendere
una politica meno dura, poiché, tenuto conto della sua pericolosità, essa, facendo parte
delle Nazioni Unite, non poteva venir meno alle proprie responsabilità davanti alle
misure di controllo degli armamenti.
c) Peaceful uses of atomic energy. Ancora una volta veniva riconosciuta
l’enorme importanza che gli usi pacifici dell’energia atomica rivestivano, e avrebbero
rivestito, per l’economia nazionale di un Paese. Il Committee on Nuclear Proliferation,
seppur attribuendo grandissima importanza ad organizzazioni internazionali come
l’IAEA o l’Euratom, puntò ad attivare gli impegni dell’amministrazione americana a
questo fine, assumendo che sostenere programmi di sviluppo economico attraverso
l’utilizzo dell’energia atomica sarebbe stato un enorme passo avanti nella lotta contro la
proliferazione degli armamenti. Contemporaneamente tali sforzi dovevano essere tali da
non incoraggiare in nessun modo gli eventuali usi militari dei programmi atomici. Per
tale motivo si rendeva sempre più urgente disciplinare i controlli internazionali che
accertassero la realtà dei programmi nucleari all’interno di ciascuna nazione.
d) United States weapons policies. Il Committee on Nuclear Proliferation, a
conclusione dei suoi lavori, scrisse che la politica nucleare degli Stati Uniti, mirante a
bloccare la crescente diffusione degli armamenti atomici, avrebbe dovuto avviare
iniziative tali da garantire il favore sovietico alla linea americana, sfruttando con astuzia
il cambio della guardia al Cremino e l’evidente dissenso tra Mosca e Pechino. Il tutto
sullo sfondo della revisione strategica in ambito NATO lanciata dalle proposte di
McNamara, fondata sulla promozione dell’opzione non nucleare.
1.8. La nuova era nucleare
La lenta marcia verso il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) si
sarebbe conclusa più di tre anni dopo, il I Luglio 1968.
Forse nessuno all’inizio della prima era nucleare si sarebbe aspettato che le armi
atomiche sarebbero riamaste a lungo un monopolio dell’Occidente, e alcuni credevano
che sarebbero state di nuovo usate in guerra, certamente prima della fine del secolo. Un
numero ancora minore di persone credeva che la collaborazione internazionale avrebbe
62
posto un freno al proliferare delle armi atomiche: il presidente Kennedy riteneva che nel
1980 “tutti” avrebbero avuto la bomba: i Tedeschi, i Brasiliani, perfino gli Svizzeri.111
Il controllo sugli armamenti era un elemento delle relazioni tra le grandi potenze
fin dal XIX secolo, ma le conseguenze terrificanti della guerra atomica conferirono
certo una nuova importanza. Le coscienze pubbliche nell’Europa occidentale e negli
Stati Uniti lo richiedevano a gran voce, e perfino in Unione Sovietica le preoccupazioni
sul controllo delle armi gradualmente si impose, almeno negli ambienti politici.
L’apice fu raggiunto, appunto, nel 1968 con il TNP che ottenne risultati
superiori ad ogni aspettativa. Infatti, grazie alle pressioni esercitate dalle grandi potenze,
fu possibile interrompere i programmi atomici di Brasile, Argentina, Corea del Sud e
Taiwan, mentre il Sudafrica si spinse fino al punto di trasformarsi da paese dotato di
armi nucleari a paese che, dopo la fine dell’apartheid, smantellò il proprio arsenale.
La condanna internazionale obbligò coloro che volevano la bomba a costruirla di
nascosto: il fatto di desiderare la bomba atomica – per quei paesi che non la
possedevano ancora – venne associato a una forma di perversione, qualcosa che, se si
faceva, avveniva nascosto nella massima segretezza.
La prima era nucleare fu caratterizzata principalmente dalla corsa agli
armamenti tra le due superpotenze, a cui si aggiunsero le altre potenze occidentali quali
Gran Bretagna e Francia, determinata dagli equilibri della guerra fredda. La prima arma
di fabbricazione asiatica, quella cinese, fu ciò che più di ogni altra questione interruppe
questo meccanismo costringendo tutto il mondo a preoccuparsi della proliferazione
nucleare.
Se inizialmente i test cinesi preoccuparono tanto l’amministrazione americana
quanto quella sovietica, alla fine Pechino venne ammessa nel club nucleare. Il TNP
infatti contemplava la presenza di sole cinque potenze nucleari: Stati Uniti, Unione
Sovietica, Gran Bretagna, Francia e Cina (anche se firmò di sottoscrivere il trattato solo
nel 1991).
Non esistevano clausole per cui altri paesi avrebbero dovuto fabbricare o
procurarsi armi nucleari. I nuovi firmatari del TNP avrebbero potuto farlo unicamente in
qualità di potenze non nucleari.
Il primo test eseguito dall’India nel 1974 segnò il fallimento del tentativo da
parte occidentale di tracciare un confine contro ulteriori diffusioni della bomba. Il test
indiano ebbe una rilevanza storica considerevole per diverse ragioni.
111 Paul Bracken, op. cit., pp. 96-124.
63
L’India era il secondo paese al mondo per numero di abitanti, quindi destinato
per forza di cose ad avere un impatto crescente sulla politica internazionale e in
particolare sullo scenario asiatico. Inoltre essa non faceva parte del blocco occidentale
né di quello sovietico, ma anzi era uno di quelli stati che si era posto alla guida prima
del movimento neutralista e in seguito di quello dei paesi non allineati, proponendo un
possibile “terzo modello” da seguire nelle relazioni internazionali.112
L’India non aveva la grande ricchezza economica e di conoscenze tecnologiche
di altre nazioni, né usufruì di una collaborazione con uno dei due blocchi. Tuttavia le
capacità per condurre i primi test atomici non furono il frutto di un progetto
indipendente, tanto meno l’India le acquisì unicamente con i propri mezzi.113
Benché il Governo di New Delhi avesse sempre sostenuto l’ordine mondiale con
metodi pacifici e, quindi, contrario per principio all’uso della guerra come mezzo per
risolvere le dispute internazionali, passò gradualmente dalla parte della logica
dominante della Guerra Fredda prendendo la strada dell’armamento nucleare, per di più
in un periodo in cui dall’equilibrio del terrore si giungeva ad una fase di cosiddetta
“distensione”.
La decisione di dotarsi di un proprio arsenale atomico non fu assolutamente
improvvisa ma, come ho evidenziato precedentemente, ha alle sue spalle cause e
meccanismi determinati, primo fra tutti i test eseguiti dalla vicina Cina comunista già
dal 1964. La storia del programma atomico indiano, quindi, si può far risalire a diversi
anni addietro, in cui le grandi potenze, come Stati Uniti e Gran Bretagna, non furono
certo all’oscuro di tali ambizioni. Lo stesso Gilpatric Report nel 1965 diede grande
risalto alle ambizioni atomiche del governo indiano, delineando quella che poi sarebbe
stata la linea del blocco occidentale nei confronti di casi come quello dell’India.
Ciò che l’evoluzione cronologica della storia nucleare ci mostra è che la
diffusione della bomba in Asia fece del mondo un luogo meno eurocentrico: l’Asia non
si limitava più solo a riflettere l’interazione di forza in Europa e nell’ambito della guerra
fredda, ma si poneva quale protagonista assoluta delle relazioni tra gli stati.
112 Michelguglielmo Torri, Storia dell’India, Laterza, 2000, pp. 659 – 663. 113 Verghese Koithara, Coercion and Risk-Taking in Nuclear South Asia, in CISAC Working
Paper, Marzo 2003, Stanford University.
64
CAPITOLO SECONDO
IL CASO INDIANO ALLE ORIGINI
2.1 La nascita del programma atomico indiano: propositi pacifici o militari?
L’ambiguità prodotta dalla locuzione “potere nucleare”, determinata dagli usi
pacifici o militari dell’energia atomica, risulta particolarmente appropriata in relazione
alla ricerca del governo indiano di una capacità nucleare, avviata dal Primo Ministro
Jawaharal Nerhu e dall’allora responsabile dell’Atomic Energy Commission Homi
Bhabha114, già dal 1948.
Fin da prima dell’indipendenza, nel 1947, Nerhu e Bhabha cercarono di
guadagnare, per il proprio paese, il prestigio, lo status e i benefici economici derivanti
da un eventuale capacità nucleare, senza escludere, se necessaria, l’opzione di
costruzione di armi. Nel giugno del 1946, il futuro presidente Nerhu annunciò:
“As long as the world is constituted as it is, every country will have to devise and use
the latest devices for its protection. I have no doubt India will develop her scientific researches
and I hope Indian scientists will use the atomic force for constructive purposes. But if India is
threatened, she will inevitably try to defend herself by all means at her disposal”115.
Anche per il governo di New Delhi, quindi, la capacità di utilizzare l’energia
atomica, sia che fosse a fini pacifici che militari, avrebbe significato modernità,
prosperità, separazione dal passato coloniale, prodezza dal punto di vista nazionale e
individuale e, non ultima, influenza sul piano internazionale.
L’ambiguità indiana nel campo atomico deriva dal fatto che il governo fin
dall’inizio fu restio a dichiarare i propri intenti militari, professando piuttosto le
tendenze pacifiche del progetto. Così Nehru nel 1957, in un discorso alla camera bassa
del Parlamento, la Lok Sabha, dichiarò:
114 Homi Bhabha si laureò in fisica alla Cambridge University nel 1935. Prima del suo ritorno in
India nel 1939, Bhabha visitò numerosi laboratori e istituti di fisica a cui lavoravano tra i più grandi scienziati fisici del mondo, tra cui Niels Bohr, James Franck ed Enrico Fermi che giocarono un ruolo importante all’interno del Manhattan Project statunitense. Essi rappresentavano l’elite scientifica mondiale e su cui Bhabha costruì il suo talento, nonché la sua educazione. In Bhabha Atomic Research Center, Governement of India, Department of Atomic Energy, http://www.barc.gov.in/.
115 In Nuclear Notebook: India's nuclear forces, 2005, Bulletin of the Atomic Scientists, Settembre/Ottobre 2005.
65
“We have declared quite clearly that we are not interested in and we will not make these
bombs, even if we have the capacity to do so”116.
Indubbiamente Nerhu voleva ostentare alla comunità internazionale la sua
singolare indole politica basata piuttosto sulla moralità che, come erede del Mahatma
Gandhi, non avrebbe mai concesso di abbracciare l’opzione militare candidandosi quale
potenza atomica. Così, ancorato ad una saggezza del tutto convenzionale, fu il fisico
parsi Bhabha, e non Nerhu, il più propenso a dotare il programma atomico indiano del
doppio proposito pacifico e militare. Nel 1948, Bhabha, di ritorno da un viaggio di
studio negli Stati Uniti e in Europa, preparò per Nerhu un rapporto accompagnato da
una lettera personale, in cui sosteneva che, nei successivi due decenni, l’energia atomica
avrebbe avuto un ruolo decisivo nello sviluppo economico delle maggiori nazioni
industrializzate. Nella medesima lettera Bhabha argomentava che, se l’India non
desiderava vedere aumentare ulteriormente il suo ritardo rispetto ai paesi
industrialmente avanzati nel mondo, sarebbe stato necessario prendere energiche misure
per lo sviluppo della ricerca nucleare in India, investendo a questo fine consistenti
risorse economiche.117
Le argomentazioni di Bhabha, presentate quando in tutto il mondo mancavano
ancora circa dieci anni alla creazione della prima centrale atomica, in perfetta sintonia
con la visione della nuova India dello stesso Nerhu, vennero pienamente accolte dal
primo ministro. Da quel momento, la creazione di un’industria atomica indiana, così
come era stata ideata da Bhabha, divenne una parte importante della politica economica
voluta dallo stato indiano.118
I piani di Bhabha nei primi anni ’50, indirizzati principalmente all’acquisizione
di plutonio, contemplavano anche un’approfondita analisi che studiasse come una
nazione avrebbe potuto produrre armi atomiche sottraendosi ai controlli internazionali,
che rappresentano un primo passo verso una strategia caratterizzata da intenti
evidentemente militari.119
Ciò che emerge dall’atteggiamento e dalle parole di Nerhu e, non di meno, di
Bhabha, è un’ambiguità dualistica di fondo che caratterizzò il programma atomico
indiano fino al 1997, e che tende a continuare ancora alla luce degli ultimi test eseguiti
dall’India nel 1998. La visione moralista del primo ministro Nerhu aborra lo smodato
116 Discorso al Lok Sabha di Nerhu, 24 Luglio 1957, in George Perkovich, India’s nuclear Bomb:
The Impact on Global Proliferation, University of California Press, 2001. p.13. 117 Michelguglielmo Torri, Storia dell’India, Ed. Laterza, 2000. p. 657. 118 Ibidem. 119 George Perkovich, op. cit.
66
utilizzo dell’arma nucleare che, macchiando di un pericolo estremo le relazioni tra gli
stati, offende quella che è la tradizionale politica non violenta portata avanti dal governo
di New Delhi. Ma, contemporaneamente, convive un altro lato della linea politica di
Nerhu che riconosce quanto un eventuale capacità strategico militare atomica possa
rafforzare lo status dell’India, nonché accrescere il prestigio e il potere del governo
indiano alla luce della logica determinata dalla Guerra Fredda, che, come lo stesso
Primo Ministro dichiarò, si preferiva evitare optando per la strada del cosiddetto “non
allineamento”.
La politica estera di Nerhu fu, infatti, improntata, sin da prima dell’India
indipendente, sul principio dell’indipendenza rispetto ai due blocchi contrapposti.
Questo principio, che venne definito dell’equidistanza, aveva un ovvia giustificazione
sia dal punto di vista pratico sia da quello morale. Dal punto di vista pratico il pericolo
di essere coinvolto in una contrapposizione frontale tra le due superpotenze non
rispondeva all’interesse nazionale, tanto più che, all’epoca, tale contrapposizione
minacciava, come visto nel precedente capitolo, in un conflitto totale, con il concreto
pericolo dell’uso di armi nucleari. Da un punto di vista morale, l’equidistanza tra i due
blocchi era vista non come una posizione passiva, ma come l’opportunità di esercitare
un attivo ruolo di mediazione tra Occidente e mondo comunista, in modo da facilitare
un processo globale di distensione.120
Nerhu provò sostanzialmente a incarnare una “terza via” che, come alternativa al
blocco sovietico piuttosto che a quello occidentale, si improntasse sulla tradizione
storica e filosofica indiana. Per realizzare tale obiettivo, che si aggiungeva al processo
di creazione della ricchezza e il compito di far uscire il paese dal sottosviluppo, Nerhu
sapeva di dover puntare su strumenti importantissimi come scienza e tecnologia, che
avrebbero condotto ad una pianificazione strategica dal punto di vista economico,
grandi investimenti nel settore industriale incluso quello nucleare e, infine, rigoroso
controllo statale sull’operatività delle attività industriali tramite un’azione di
promozione e regolamentazione dello sviluppo. Perseguendo tali obiettivi, minor
priorità e importanza assumevano settori come quello agricolo e rurale, che furono
oggetto in quegli anni di un importante razionalizzazione.
La tecnologia nucleare assumeva, nei piani di sviluppo indiani, un ruolo
notevole che, accompagnandosi al crescente bisogno di provviste energetiche, creavano
tutti i presupposti affinché la produzione di energia derivante dalla fusione nucleare
fosse la soluzione più auspicabile per lo sviluppo indiano. Tutto ciò andava, però, a
120 Michelguglielmo Torri, op. cit. pp. 659-663.
67
scontrarsi con la memoria di Hiroshima e Nagasaki che in India, ancor più che altrove,
appariva come il più crudo e violento sistema di risoluzione delle controversie
internazionali ma che, allo stesso tempo, creava tutte le condizioni affinché uno stato
potesse realizzare le proprie ambizioni sul piano della sicurezza.
Come lo stesso Nerhu notò in alcuni suoi discorsi, da una parte la distruzione di
Hiroshima e Nagasaki tramite armi atomiche illustrava al mondo la terribile rivoluzione
che stava avvenendo sotto un punto di vista militare e strategico ma, dall’altro lato,
l’applicazione dello sfruttamento dell’energia nucleare, per fini pacifici e produttivi,
aveva aperto infinite possibilità per lo sviluppo umano, nonché prosperità e benessere.
Questa sfida, proseguiva Nerhu, metteva il mondo davanti ad una scelta tra co-
distruttività e co-prosperità, rendendo indispensabile disciplinare la guerra, in
particolare quella nucleare.121
A tal proposito, Nerhu sostenne già dal 1946 che, nel caso tale guerra non fosse
stata messa “fuorilegge”, l’India avrebbe dovuto esercitare la propria influenza
strategico- militare tramite l’opzione atomica.
Se il regime coloniale britannico ritardò, strategicamente, lo sviluppo industriale
indiano, sia il primo ministro Nerhu che Bhabha si dimostrarono ottimisti nel pensare
che la scienza e il sapere indiano avrebbero presto superato l’eredità lasciata dagli
Inglesi e ottenuto un altissimo livello di modernità.
Prima della fine del 1945 fu creata in India the Tata Institute of Fundamental
Research (TIFR), a cui fu posto come direttore Homi Bhabha, il quale iniziò i propri
lavori con uno straordinario budget finanziario e libero da ogni interferenza burocratica
da parte del governo centrale. L’Istituto divenne la sede di uffici, laboratori e, più
avanti, di reattori nucleari dove avvenivano i processi di lavorazione del plutonio e di
arricchimento dell’uranio.122 Negli anni seguenti Bhabha diventò il presidente del
nascente Atomic Energy Research Committee, creato per promuovere la diffusione della
fisica nucleare tra i colleghi indiani e nelle università ma, nel 1948, il primo ministro
Nerhu, che scrisse che “the future belongs to those who produce atomic energy”,
promosse la nascita dell’ India’s Atomic Energy Commission (AEC). L’Atomic Energy
Act istituì i presupposti legali e istituzionali sotto cui la Commissione avrebbe operato.
Esso era basato sul Britain’s Atomic Energy Act, ma caratterizzato da una maggiore
segretezza riguardo gli studi e gli sviluppi del progetto rispetto alla legislazione
121 Scott D. Sagan and Kenneth N. Waltz, The spread of Nuclear Weapons: A debate Renewed, W.
W. Norton & Company, New York – London, 2003. pp. 90- 95. 122 Jeffrey T. Richelson, op. cit., pp. 218- 221.
68
sull’energia atomica dei Britannici o degli Americani. Richiamava quindi un
programma di ricerca e sviluppo compiuto nella più stretta riservatezza e designava
come proprietà dello stato tutti i materiali fissili, in particolare uranio e torio. La AEC fu
creata, appunto, per istruire scienziati e ingegneri in ogni campo fisico, chimico e
metallurgico e per dare ulteriore impulso alle già frequenti esplorazioni di minerali
nucleari.123
Tale segretezza, sostenne Nerhu, era resa necessaria affinché conoscenza
tecnologica e materie prime nazionali fossero preservate da ulteriori ingerenze coloniali,
così come assicurare agli eventuali paesi124 che avessero voluto cooperare con l’India,
che i propri piani nucleari sarebbero stati al sicuro nelle mani del governo di New Delhi.
La segretezza del programma non fu privo di polemiche. Vi fu infatti chi all’interno del
Parlamento indiano si chiedeva perché tali programmi, che per giunta avevano
dichiaratamente fini pacifici, dovessero essere nascosti a nazioni come Stati Uniti o
Gran Bretagna in cui, al contrario, era attiva la produzione di armi.
Coloro che, come il Professor Shibban Lal Saksena, erano di tale opinione si
dimostrarono convinti nel sostenere che era inutile dichiarare il programma nucleare
indiano come pacifico, perché finché fosse esistita nel mondo la possibilità di utilizzare
l’energia atomica per fini militari non avrebbe avuto senso, soprattutto per un paese
come l’India, credere di poter impiegare tali opportunità solo per soddisfare il proprio
fabbisogno energetico.125
Nonostante i dibattiti interni, segretezza e riservatezza caratterizzarono la
disciplina legislativa in materia nucleare, su cui il programma atomico indiano si basò
dal lì fino agli anni a seguire.
Tutto ciò avveniva nel 1948, prima che la Cina diventasse comunista, prima
delle future minacce militari in arrivo dalla Cina e, comunque, prima di qualsiasi
minaccia militare proveniente dall’esterno.
Gli anni cinquanta videro ulteriori sviluppi burocratici, la realizzazione di nuovi
progetti e la concretizzazione delle ambizioni di acquisire le risorse necessarie affinché
l’opzione atomica fosse realizzata. Nel 1951, infatti, fu stipulato un accordo di
cooperazione atomica con la Francia, che vide l’anno seguente l’inizio di un programma
quadriennale che avvicinò il governo indiano al desiderio di possedere una propria
capacità nucleare. Il piano prevedeva, oltre all’estrazione di materiali nucleari, lo studio
123 George Perkovich, op. cit., pp. 17- 21. 124 Ci si riferiva in particolar modo agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. 125 Constituent Assembly of India (Legislative Debates), vol. 5, Aprile, 1948, pp. 3332-3333. In
George Perkovich, op. cit, pp. 18-19.
69
della tecnologia necessaria alla costruzione di un reattore che, già nel 1955, fu realizzato
a Trombay, a nord di Bombay, nella costa occidentale indiana.126
Nel 1958, il governo di Nerhu adottò le proposte di Bhabha di impiego atomico
dell’energia per stimolare lo sviluppo economico, tracciate nel novembre del 1954 alla
Conferenza sullo sviluppo dell’Energia Atomica per Fini Pacifici tenuta a New Delhi. Il
progetto studiato da Bhabha si sviluppava su tre livelli di produzione.
Il primo prevedeva la costruzione, tramite l’assistenza del Canada, di reattori
alimentati da uranio naturale che avrebbero sviluppato energia e plutonio. In secondo
luogo vi era la messa in opera di reattori che, successivi ai primi, sarebbero stati
alimentati dal plutonio trattato e da torio, che l’India possedeva in abbondanza. Il
plutonio-torio fissile, prodotto nei reattori di seconda generazione, avrebbe a sua volta
prodotto U-233. L’U-233 rappresentava il prodotto chiave per il terzo stadio di
produzione. In aggiunta con il torio, infatti, sarebbe poi stato utilizzato ulteriormente in
reattori di terza generazione, che avrebbero prodotto a sua volta più U- 233 di quello
prodotto dalla fissione nucleare iniziale.127 Poiché l’India possedeva abbondanti risorse
di torio, la produzione di U-233 avrebbe generato risorse illimitate di torio- uranio-233.
Tutto ciò rientrava quasi completamente nelle aspettative di Bhabha.128
Ciò che mancava era un’adeguata produzione di plutonio, ritenuto fondamentale
per le ambizioni nucleari che il fisico parsi si era preposto. Secondo quanto sostenne
Bhabha, il plutonio avrebbe rappresentato una valida alternativa all’uranio arricchito,
visto e considerato che l’India era oltretutto carente di uranio naturale. Il plutonio
prodotto nei reattori di prima generazione, e poi utilizzato come combustibile pesante
per quelli di seconda, avrebbe prodotto l’uranio-233 in quantità illimitate per alimentare
i reattori del terzo stadio di processo. Tale programma richiamava l’India verso una
crescente conoscenza tecnologica che avrebbe presto portato alla realizzazione del
primo reattore.
L’ Aspara fu il primo reattore di ricerca indiano, costruito nel 1955 sulla base di
un progetto firmato da un ingegnere britannico, il quale divenne “critico” non appena la
Gran Bretagna iniziò a fornire al governo indiano uranio arricchito.129 Il reattore
divenne in seguito la sede dell’Atomic Energy Establishment, a cui venne assegnata la
126 George Perkovich, op. cit, pp. 21-22. 127 U-233, U-235 e Plutonio- 239 rappresentano i materiali fissili primari per la costruzione di
ordigni atomici esplosivi. In United States Nuclear Regulatory Commission, Nuclear Materials, http://www.nrc.gov/.
128 India Nuclear’s Weapons Program: The Beginning 1944- 1960, 30 Marzo 2001, in The Nuclear Weapons Archive, http://nuclearweaponarchive.org/.
129 Itty Abraham, Making of the Indian Atomic Bomb: Science, Secrecy and the Postcolonial State, Orient Longman Ltd., 1999, p.85.
70
missione di dirigere le ricerche e gli sviluppi nucleari indiani. Ovviamente il progetto fu
affidato alla supervisione di Homi Bhabha.
Più importante dell’Aspara fu il reattore di ricerca a 40-megawatt Canadese-
Indiano - Statunitense, chiamato CIRUS , alimentato ad acqua pesante, capace di
fondere l’uranio naturale. Tale reattore era stato concesso dal Canada nel 1955
all’interno del più vasto progetto denominato Colombo Plan, un’iniziativa lanciata dai
paesi ricchi del Commonwealth per fornire assistenza e aiuti agli stati più poveri
(facenti parte dello stesso Commonwealth) del Sud e del Sudest Asiatico. Il Canada si
offrì di pagare tutti i costi di scambio internazionale affinché fosse, in ultimo, costruito
tale reattore. Il governo di Ottawa mise, però, una clausola di notevole importanza
contenuta in un allegato segreto dell’accordo di cooperazione, che stabiliva che il
governo indiano avrebbe usufruito del reattore e del plutonio da esso derivato
unicamente per fini pacifici.130 A tale accordo con il Canada, faceva seguito quello con
gli Stati Uniti che, stipulato anch’esso nel 1956, prevedeva la vendita da parte
statunitense di acqua pesante. Come l’accordo indo- canadese, anche quello con gli Stati
Uniti non prevedeva particolari precauzioni, mostrando la relativa preoccupazione
americana verso i rischi derivanti dalla proliferazione atomica. Tale accordo fu oggetto
di controversia nel 1974, quando saltò fuori che il plutonio utilizzato nei test atomici
eseguiti dal governo indiano era stato prodotto nel reattore CIRUS, alimentato, per
l’appunto, dall’acqua pesante venduta dagli Americani.131
Più tardi, nel 1958, mentre il reattore CIRUS era in lavorazione, Bhabha decise
avviare la costruzione di un impianto di estrazione di plutonio a Trombay, che, non
appena realizzato nell’Aprile del 1961, sarebbe stato chiamato Phoenix. Questo sarebbe
divenuto parte del più grande establishment di Trombay, il quale dal 1961 comprendeva
circa un migliaio tra ingegneri e fisici impiegati nei laboratori e, dopo Phoenix, un
reattore nucleare e un impianto di arricchimento dell’uranio.132 Il complesso fu poi
chiamato Bhabha Atomic Research Center (BARC), nel 1967 quando Indira Gandhi lo
130 L’accordo di cooperazione nucleare tra il governo indiano e quello canadese fu sottoscritto il 28
Aprile del 1956, e prevedeva la fornitura da parte del Canada della metà dell’uranio naturale fissile necessaria all’India, mentre essa avrebbe pensato al resto. Questo andava incontro alla determinazione ideologica del governo di New Delhi, secondo cui il paese doveva mantenere un ampio margine di autosufficienza. La ragione per cui l’India scelse la tecnologia Canadese, come è stato dichiarato recentemente dal presidente dell’AEC indiano Sethna, fu principalmente perché allora il Paese era troppo isolato, senza scambi internazionali importanti. Ciò, continua Sethna, non ebbe niente a che fare con l’ideologia. L’India scelse tale strada solo perché diversamente non sarebbe stata in grado di produrre tecnologia e materiale necessari. In George Perkovich, op. cit. pp. 519.
131 Ibidem. 132 Nuclear Weapons Archive, cit.
71
ribattezzò in onore di Homi Bhabha che morì in un incidente aereo nel gennaio del
1966.
Apparentemente, le tappe che l’India stava percorrendo in vista di realizzare un
proprio progetto atomico, possedevano tutti i requisiti per credere che avesse
unicamente fini civili e pacifici. Ciò che emergeva come ambiguo era la produzione di
plutonio.
Durante tutti gli anni cinquanta, fino agli inizi dei sessanta, Nerhu sostenne a più
riprese la genuinità e gli intenti pacifici del progetto nucleare indiano, sostenendo,
quindi, di non essere interessato alla costruzione di armi. Più precisamente, egli espresse
la speranza di non dover incorrere in futuro a tali ordigni che, non solo avrebbero
immesso il paese nella logica della corsa agli armamenti in corso in quegli anni ma,
cosa ben più preoccupante, una tale scelta sarebbe stata causata da minacce provenienti
dall’esterno. La speranza di Nerhu risiedeva proprio in questa preoccupazione, che, in
tal caso, avrebbe costretto l’India a dotarsi di una capacità nucleare tale da
salvaguardare la propria sicurezza nazionale.
Che ne fosse convinto o meno, il discorso portato avanti da Nerhu aveva una sua
logica e finalità. Infatti dichiarare l’intento pacifico del programma atomico non solo
era in perfetta coerenza con l’ideologia indiana, ma contribuiva efficacemente a
mantenere una certa stabilità sia all’interno del paese, che nel contesto internazionale.
Contemporaneamente però, nel 1958 Nerhu dichiarò che per quanto civili fossero i
propri intenti, e per quanto il paese escludeva a priori la possibilità di poter costruire
ordigni atomici strategico- militari, l’India sarebbe stata assolutamente in grado di
portare avanti l’opzione militare in tutta autonomia e senza l’aiuto di paesi altri.133
Un discorso tale introduceva il paese indiano verso la nascita di un proprio
deterrente che, pur tranquillizzando la comunità internazionale delle proprie intenzioni,
metteva in guardia chiunque fosse interessato a minacciare la sicurezza interna della
nazione indiana. Fu proprio in questa fase che Homi Bhabha iniziò a esplicitare quella
che apparve come un inversione di rotta in cui, sebbene mantenendosi coerente con le
intenzioni manifestate da Nerhu, con sempre maggior assiduità comparivano nelle sue
dichiarazioni riferimenti alla possibilità, nel caso in cui ve ne fosse bisogno, di
produzione di armi nucleari, che rientrava nelle capacità tecnologiche e militari del
governo indiano.134
133 Ashley J. Tellis, India’s Emerging Nuclear Posture, Rand Corporation, 2001, pp. 10 – 14. 134 George Perkovic, op. cit., pp. 34 – 37.
72
Nel dicembre 1959, mentre arrivarono le prime avvisaglie riguardo gli sviluppi
del programma atomico di Pechino, Bhabha dichiarò al Parliamentary Consultative
Committee on Atomic Energy che il programma nucleare indiano, da lui coordinato,
aveva realizzato passi in avanti enormi tali da poter, eventualmente, sviluppare la
produzione di ordigni esplosivi senza alcun appoggio esterno e, quindi,
indipendentemente.
Benché il programma atomico indiano andasse acquisendo forma con gli anni,
esso non rappresentava che qualche saltuaria eccezione all’interno del dialogo politico
nazionale.
Infatti, quella che poi si dichiarò la definitiva politica atomica, che prese la
strada strategico- militare, ricercata fortemente da Bhabha, ma voluta anche da Nerhu,
emerse solo nel 1964, quando i test cinesi erano oramai alle porte.
2.2 Il contesto internazionale: le relazioni estere dell’India fino al 1963
Quando Bhabha e Nerhu iniziarono ad alludere alle potenziali applicazioni
militari della capacità atomica indiana ancora non facevano riferimento a nessuna
precisa minaccia proveniente dall’esterno. Come nazione relativamente sviluppata, le
priorità della politica estera del governo si rivolgevano, ovviamente, alle due
superpotenze – Stati Uniti e Unione Sovietica – e alla vicina Cina.
Oltre all’idea di base del non allineamento, la politica estera nerhuviana
prendeva le mosse da una serie di altri principi che incarnavano gli ideali antimperialisti
del movimento di liberazione e quelli non violenti di Gandhi. Di conseguenza le prese
di posizione dell’India a livello internazionale vennero caratterizzate
dall’anticolonialismo, dall’antirazzismo, dall’enfatizzazione dell’importanza delle
nazioni afro – asiatiche nel contesto internazionale e, infine, dal richiamo al metodo
negoziale.135
Nel complesso si trattò di una politica che, nella misura in cui venne posta in
pratica, permise all’India di giocare il ruolo di portavoce dei popoli afro – asiatici e che
le conferì un peso notevole, soprattutto quando trovò espressione in tutta una serie di
iniziative diplomatiche a livello internazionale. Fra queste ultime vi fu la mediazione
prima tra le forze comuniste e quelle delle Nazioni Unite nella Guerra di Corea e, poi,
fra le forze rivoluzionarie vietnamite e quelle francesi nella guerra che vide la fine del
dominio coloniale in Indocina. La politica del non allineamento e quella rivolta ai
popoli afro-asiatici, furono formalizzate con la Conferenza di Bandung, voluta da Nerhu
135 Michelguglielmo Torri, op. cit., pp. 659 – 663.
73
nell’aprile 1955, a cui parteciparono 29 nazioni afro – asiatiche di recente indipendenza;
essa rappresentò per il governo indiano un importante occasione per affermare visibilità
e prestigio a livello internazionale.
La politica del non allineamento, benché rientrasse nell’ideologia tradizionale
indiana, faceva parte in realtà di una strategia per più ampia attuata dal governo di New
Delhi. Non allineandosi con nessuna delle due parti, infatti, l’India poteva sperare di
ricevere assistenza economica da entrambe le parti e, contemporaneamente, rimanere
libera da eventuali conflitti all’interno della Guerra Fredda.
Per quanto concerne le origini della politica atomica avviata dall’India, come nel
precedente paragrafo, già dal 1948, i fattori chiave nella politica estera furono le
relazioni con la Cina e con gli Stati Uniti, e, di notevole importanza, fu la diplomazia
avviata dai governi americano e sovietico per il controllo degli armamenti e il disarmo.
In generale si può affermare che fino a tutto il 1963 le relazioni diplomatiche
indiane con i paesi chiave non furono caratterizzate dalla politica nucleare, ma fu in
questi anni che si generarono i presupposti per le decisioni che il governo di New Delhi
prese negli anni a seguire.
2.2.1 Unione Sovietica
La politica dell’equidistanza dell’India fu, fin quasi dal principio, caratterizzata
dal fatto che, paradossalmente, i rapporti con l’altra più grande democrazia al mondo,
cioè gli Stati Uniti, rimasero sostanzialmente freddi. Viceversa, quelli con l’Unione
Sovietica, dopo un primo periodo in cui quest’ultima considerò molto poco l’India,
diventarono sempre più cordiali.
Il prestigio conquistato da Nerhu e dall’India a Bandung, infatti, contribuì ad
innalzare l’importanza agli occhi delle due superpotenze, in particolare dell’Unione
Sovietica. La conseguenza fu che, alla fine del 1955, Nikita Chruščëv e Nikolai
Bulganin, presidente dell’Urss, visitarono l’India e stipularono una serie di importanti
accordi economici e politici. A livello economico, l’Urss accettò di dare all’India
notevoli contributi soprattutto per alcune grandi acciaierie; dal punto di vista politico,
l’Urss accettò, fra l’altro, le posizioni indiane per quanto riguardava la controversia con
il Pakistan sul Kashmir e quella con il Portogallo su Goa.136
136 Nel momento in cui l’India divenne indipendente, portoghesi e francesi mantenevano ancora il
controllo di alcune enclaves, gli ultimi resti dei loro falliti tentativi imperialisti in Asia meridionale. Nel 1954, la Francia rinunciò volontariamente a Pondicherry, l’ultimo brandello del subcontinente ancora in mano francese. La politica delle trattative pacifiche non funzionò invece nel caso del Portogallo, retto dalla dittatura fascista di Salazar. Analogamente furono senza esito diversi tentativi di lotta non violenta volti a ottenere l’estinzione degli ultimi resti dell’Estado de India (che, d’altra parte, insieme alle altre
74
Da quel momento in avanti, l’equidistanza dell’India rispetto ai due blocchi
cominciò ad essere messa in dubbio e si sottolineò il fatto che, in realtà, le sue posizioni
erano più vicine a quelle di Mosca che a quelle di Washington. Questa percezione
sembrò trovare conferma nel fatto che, nel 1956, l’India, mentre condannò
immediatamente l’aggressione israelo-franco-britannica all’Egitto, dimostrò
considerevoli esitazioni prima di fare lo stesso nei confronti della contemporanea
repressione sovietica della rivolta d’Ungheria. Ma il dato rilevante fu che, sia pure dopo
un periodo iniziale di esitazione, Nerhu finì per condannare anche l’intervento sovietico
in Ungheria.
A partire dal 1958, anzi, i rapporti tra India e Urss attraversarono una fase di
raffreddamento, dovuta a due fattori fondamentali. Uno fu l’esecuzione, nella primavera
del 1958, dell’ex primo ministro ungherese, Imre Nagy, coinvolto nella rivolta del 1956.
L’altro fu la ripresa dell’ostilità sovietica contro la Jugoslavia, che, sotto la guida di
Tito, per quanto regime comunista, aveva mantenuto una posizione di autonomia nei
confronti dell’Unione Sovietica e, accanto a Nerhu in India e Nasser in Egitto, aveva
portato avanti la politica del non allineamento. Questa consonanza di posizioni nella
politica internazionale si tradusse in un cordiale rapporto, anche sul piano personale tra
Nerhu e Tito.137
Le relazioni indo- sovietiche, comunque, continuarono a svilupparsi agli inizi
degli anni sessanta. Nerhu andò in Unione Sovietica nel settembre del 1961 e, in
accordo con il Presidente del Ghana Kwame Nkrumah, inviò una lettera a Chruščëv in
cui si faceva appello affinché Stati Uniti e Urss riprendessero i negoziati sul controllo
internazionale delle armi e sul disarmo. La medesima lettera fu inviata al Presidente
statunitense John Kennedy.
L’intransigenza sovietica verso la questione delle ispezioni internazionali sui test
atomici, non impedì all’India di stipulare un accordo di cooperazione con Mosca sugli
usi pacifici dell’energia atomica, che fu firmato il 6 Ottobre 1961. E’ da sottolineare che
lo stesso Bhabha, circa otto mesi prima della firma dell’accordo con l’Urss, sottintese ad
un potenziale accordo con Mosca, con il doppio intento di assicurarsi sia maggiore
assistenza da Washington e da Ottawa, che far sì che l’India fosse sempre meno
soggetta al rigore delle ispezioni internazionali.
colonie, erano stati dichiarati da Salazar parte integrante e irrinunciabile della nazione portoghese). Nel dicembre 1961, quindi, Nerhu fece ricorso alla forza e, nel giro di poche ore, pose fine all’esistenza del più lontano dominio europeo nel subcontinente indiano. In Michelguglielmo Torri, op. cit., 791- 792.
137 Michelguglielmo Torri, op. cit., pp. 662 – 663.
75
Le relazioni tra l’India e l’Unione Sovietica si deteriorarono pesantemente
nell’Ottobre del 1962, quando Mosca sembrò tradire New Delhi nella guerra con la
Cina. Dopo il 1962 tali relazioni ripresero pienamente quando Mosca si affiancò
all’India e Pechino abbracciò la causa pakistana.
In poche parole, si può affermare, però, che i rapporti con l’Unione Sovietica
non giocarono un ruolo determinante nella politica nucleare indiana di questo periodo.
2.2.2 Cina
Le relazioni Sino- Indiane nel periodo tra il 1948 e il 1963 furono definite
dall’occupazione da parte cinese del territorio del Tibet, ai confini nord dell’India, nel
1950.138 La nuova dimensione cinese, non solo geografica ma soprattutto politica,
allarmò la leadership indiana costretta a subire un rapido stravolgimento della sua
politica estera e nazionale.
La reazione del governo indiano fu, comunque, quella di accettare come
legittima l’occupazione militare cinese, riconoscendo la correttezza della pretesa di
Pechino, secondo cui il Tibet era parte integrante della Cina. Anzi, il governo dell’India
indipendente rinunciò volontariamente al diritto di mantenere guarnigioni in territorio
tibetano, diritto ereditato dal governo coloniale. Nell’Aprile 1954, l’India riconobbe
ufficialmente la Repubblica Popolare cinese, compresa la posizione cinese a proposito
del Tibet su cui, nello stesso anno, venne firmato un trattato sino- indiano che confermò
i preesistenti diritti indiani a commerciare con la regione attraverso un certo numero di
passi di frontiera. L’accordo si basava principalmente sui cinque principi che Nerhu
enunciò alla Conferenza di Bandung, conosciuti come i Pancha Shila, che prevedevano:
il rispetto dell’integrità territoriale di ogni stato; la non aggressione; la non interferenza;
lo sviluppo di rapporti basati sulla parità e su reciproci vantaggi e, infine, la coesistenza
pacifica.
In realtà Nerhu, prima di accettare pubblicamente la validità delle posizioni di
Pechino, aveva preso in seria considerazione la possibilità di una spedizione armata a
Lhasa, che, però, fu scartata, non solo per l’impossibilità logistica delle forze armate
indiane, impegnate allora nel Kashmir, ma fu bensì il risultato del realistico
138 Al momento dell’indipendenza dell’India, il Tibet, per quanto formalmente sotto l’egida
sovranità cinese, era di fatto una regione autonoma, governata da una teocrazia, i cui abitanti avevano ben poco in comune, dal punto di vista etnico e culturale, con i cinesi. Ma, immediatamente dopo la conquista del potere, il nuovo regime comunista decise di dare un contenuto concreto all’alta sovranità sul Tibet ereditata dal governo nazionalista e, attraverso questi, dal governo imperiale. Di conseguenza, nel 1950, l’armata popolare cinese si impadronì della regione (anche se, per il momento, lasciò formalmente sussistere il governo preesistente).
76
riconoscimento di una situazione di debolezza. Questo non impedì, però, che Nerhu
mettesse, per così dire, le mani avanti, dichiarando in Parlamento che la linea
MacMahon rappresentava il confine tra il Tibet e l’India, fissato, secondo il primo
ministro indiano, dalla convenzione di Simla del 1914139, che si scontrava con la
volontà di Pechino di rivisitare tali accordi frutto del passato coloniale britannico in
India. Fu proprio su questo punto che iniziarono i veri problemi tra le due nazioni, in cui
la ricerca dei “confini storici” da parte del governo di New Delhi andava a scontrarsi
con la visione rivoluzionaria del governo cinese, fortemente convinto che i trattati sui
confini geo-politici tra le due nazioni andassero urgentemente rivisti.140
La disputa territoriale iniziò nel Gennaio del 1959, quando Chau En-lai, ormai
primo ministro cinese, dichiarò ufficialmente al governo di Nerhu la rivendicazione di
tre regioni. Il tutto avveniva sullo sfondo della ribellione tibetana all’invasione cinese,
che causò in ultima istanza la fuga del Dalai Lama verso l’India, provocando
l’inasprimento della Cina nei confronti del governo di New Delhi.
I dettagli riguardo la controversia cino- indiana non sono importanti in questo
contesto. Ciò che è importante dire è che durante il biennio 1959 – 1960 tra i due
governi vi fu un intenso scambio diplomatico per risolvere la questione.
La situazione al confine himalayano non subì nel corso del 1961 mutamenti di
rilievo: perdurò in sostanza la stasi dell’attività militare determinatasi dopo la crisi del
1959. Sul piano diplomatico, il tentativo della Cina di indurre l’India a trattative globali
sul problema confinario non ebbe successo, così come non aveva avuto successo nel
1960 la visita di Chou En- lai a New Delhi. In questa situazione, la Cina si adoperò per
accerchiare diplomaticamente l’India e per giungere con gli altri paesi che avevano
confini in comune con la Cina, a trattative che non soltanto valessero a definire i confini
in proposito, ma implicassero anche la codificazione di principio del fatto che i confini
himalayani non erano mai stati in precedenza determinati e che quindi dovevano essere
139 Nella Convenzione di Simla del 1914 il Foreign Secretary del governo dell’India, sir Henry
McMahon, riuscì a convincere il rappresentante del governo tibetano ad accettare una linea di confine (dalla Birmania al Bhutan) che, in sostanza, seguiva la cresta più alta delle montagne che separavano l’altopiano tibetano dell’Asia meridionale. Si trattava di una delimitazione territoriale che incorporava sotto il controllo britannico non solo ampi territori tribali, di fatto non amministrati né da inglesi, né da tibetani, ma anche aree già sotto il controllo effettivo di Lhasa. Nonostante la linea di confine, denominata McMahon Line, venne inizialmente ripudiata dal governo di Lhasa, venne successivamente firmato il trattato da governo coloniale britannico indiano e governo tibetano. Pechino, sospettando l’esistenza di qualche accordo segreto ai suoi danni, dichiarò nullo qualsiasi trattato bilaterale tra Lhasa e New Delhi. La McMahon Line non giunse quindi mai ad avere qualsiasi validità giuridica. In Annuario di Politica Internazionale, 1959, Controversia di Frontiera Cino- Indiana. Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 541 – 550.
140 James Bernard Calvin, The China – India Border War (1962), Marine Corps Command and Staff College, 1984. In www.globalsecurity.org.
77
fissati con negoziati condotti su un piano di parità e con lo scopo di pattuire per comune
consenso un tracciato.141
Sullo sfondo della crisi tra i due governi, in Cina il programma atomico aveva
fatto enormi passi avanti. Sebbene i programmi nucleari della Cina popolare non
influirono, in questa fase, sulla disputa di confine con l’India – o comunque sulla
politica di sicurezza indiana fino al 1964 – le allusioni nucleari di Pechino registrarono,
anche se debolmente, i propri effetti nella politica indiana.
Il 10 Marzo 1959 nel dibattito annuale alla Lok Sabha riguardante il Dipartment
of Atomic Energy, due membri sollevarono la necessità di espandere le ricerche in
materia atomica alla “sfera difensiva”. Alla proposta Nerhu rispose assicurando al
Parlamento che il programma atomico stava procedendo talmente velocemente da
essere “più avanzato e sviluppato” di quello di altre potenze. L’allusione non fu casuale,
Nerhu si riferiva chiaramente alla vicina Cina.142 Nel Dicembre dello stesso anno il
Parliamentary Consultative Committee on Atomic Energy inziò la sua opera di raccolta
di informazioni riguardo, appunto, gli sviluppi delle ricerche in campo atomico della
Cina. Parallelamente Mosca decideva di non provvedere più al trasferimento di
conoscenza tecnologica e prototipi di arma nucleare verso Pechino, rescindendo così
tutti gli accordi di cooperazione nucleare con la Cina.
Benché vi fossero state parecchie avvisaglie riguardo lo stadio dei piani atomici
cinesi, gravate da false dichiarazioni che vedevano un imminente svolta militare del
programma nucleare ad opera del governo indiano, gli sviluppi atomici non
rappresentarono in questa fase alcunché di rilevante nelle relazioni tra i due stati fino
alla guerra del 1962.
La fine del 1961 vide i primi segnali che, dopo tante schermaglie diplomatiche,
portarono la crisi sul piano militare. Fu proprio in questa fase che l’India, dopo il varo
della forward policy nel Novembre 1960 (che consisteva nell’inviare pattuglie indiane
in profondità del Ladakh, in modo da avvicinarsi il più possibile al «confine
internazionale»), collocò quarantaquattro nuovi posti di frontiera stabili nei territori
della regione Ladakh che, nelle intenzioni del governo indiano, avrebbero impedito, con
la loro mera presenza, ogni ulteriore avanzata cinese. Inoltre il governo di New Delhi
acquistò velivoli, elicotteri e altra attrezzatura militare da Stati Uniti e Unione Sovietica,
necessari all’invasione, nel Dicembre 1961, di Goa che fu rapidamente incorporata alla
141 Annuario di Politica Internazionale, 1962, Conflitto di frontiera tra India e Cina: ripercussioni
locali e generali. Istituto per gli studi di Politica Internazionale, pp. 134 – 135. 142 George Perkovich, op. cit. pp. 43 – 44.
78
Repubblica Indiana. Questo non fece altro che rinforzare il punto di vista di Pechino,
sempre più convinta che l’India stesse attuando una politica espansionistica.143
Sia la Cina che l’India sembravano muoversi verso lo scontro armato. In
particolar modo, il governo di Pechino percepì agli inizi del 1962 come imminente un
attacco delle Indian Army troops contro le truppe cinesi nella zona del North East
Frontier Administration (NEFA). Fu questo uno dei motivi per cui mesi più tardi,
precisamente il 20 ottobre del 1962, che le forze cinesi intrapresero un offensiva in
forze sia nel Ladakh, sia nella NEFA, entrando in larghi tratti dei territori contesi tra i
due governi in entrambe le regioni pur senza superare mai la linea rivendicata dalla Cina
come confine cino – indiano. In ondate successive tuttavia i cinesi riuscirono ad
occupare tutti i posti che erano stati contesi nei primi mesi dell’anno fino a giungere
esattamente alla linea rivendicata dalla Cina. L’offensiva cinese, nel giro di pochi
giorni, annientò le truppe indiane sia nel settore orientale che in quello occidentale.144
2.2.2.1. Reazioni internazionali alla crisi sino – indiana. Parallelamente alla
crisi militare sino- indiana, sussisteva la Crisi dei missili di Cuba. L’India si ritrovò ad
essere tra due fuochi nella guerra diplomatica tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina.
La crisi cubana, che teneva saldamente impegnati sia Washington che Mosca, fornì a
Pechino la possibilità di accrescere la sua posizione nella lotta per la leadership nel
mondo comunista contro l’Unione Sovietica.145
Se già in precedenza l’atteggiamento sovietico nel conflitto cino- indiano era
stato lungi dal coincidere con quello della Cina, la crisi di confine, ma soprattutto i
successivi sviluppi, cioè l’attacco cinese alla soluzione adottata dall’Urss sul problema
cubano e l’intensificato dissenso ideologico tra Cina e Unione Sovietica avvicinarono
ulteriormente le posizioni di Mosca a quelle di New Delhi.
In un primo tempo, quando la crisi cubana era in pieno corso e di esito ancora
incerto, l’Unione Sovietica prese posizione in sostanza a favore delle proposte cinesi sul
cessate il fuoco, denunciando come invalida la McMahon Line. Questa prima presa di
posizione non fu espressa, tuttavia, in un documento ufficiale, bensì in un articolo di
fondo della Pravda. L’atteggiamento sovietico si rivelò mutato già un mese più tardi,
quando un ulteriore articolo della Pravda chiese un’immediata cessazione del fuoco e
conversazioni tra Cina e India su basi di parità e senza condizioni preliminari (che
143 James Bernard Calvin, op. cit. 144 Annuario di Politica Internazionale, 1962, cit. pp. 181 – 182. 145 George Perkovich, op. cit. pp. 45 – 46.
79
venne considerato come un rifiuto di appoggiare la tesi cinese sulla necessità di
interporre una fascia smilitarizzata tra le forze dei due paesi).146
La rottura dei rapporti sino-sovietici e il raffreddamento del conflitto cino-
indiano portarono tuttavia l’Unione Sovietica a dichiarare, in ultima istanza, che la
posizione cinese nella disputa di confine con l’India era assolutamente priva di
fondamento. Il governo di New Delhi, però, non tardò ad esplicitare le proprie
perplessità sulla presa di posizione sovietica, facendo poco affidamento sul sostegno di
Mosca.
Già da prima New Delhi indirizzò le proprie richieste d’aiuto militare altrove. Il
26 Ottobre 1962, infatti, Nerhu inviò un messaggio a numerosi capi di Stato
presentando la tesi indiana contro i cinesi, ricevendo, nel periodo successivo, risposte
che esprimevano solidarietà ed appoggio da numerosi governi. Le maggiori potenze
occidentali presero addirittura in esame un piano per fornire all’India un aiuto militare
effettivo che si concretizzò nei mesi successivi. La presa di posizione più netta ed
impegnativa a favore dell’India fu, in un primo tempo, quella della Gran Bretagna e,
successivamente, ulteriori aiuti militari arrivarono dagli Stati Uniti, dimostrando tutta
l’inconsistenza della politica nerhuviana del nonallineamento.147 Tuttavia, il governo
indiano emanò una dichiarazione nella quale si impegnava ad utilizzare le armi fornite
dagli Stati Uniti e l’altro equipaggiamento “soltanto per respingere l’aggressione cinese
nella NEFA e nel Ladakh”.148 La dichiarazione fatta dal governo di New Delhi provocò
una grave tensione tra Stati Uniti e Pakistan in seguito all’aiuto statunitense all’India.
Sull’inasprirsi della lotta per i confini sino-indiani, inoltre, venne ad inserirsi una
complessa serie di motivi di frizione tra India e Pakistan, riguardo il territorio del
Kashmir, ormai strettamente connessa alla vertenza tra India e Cina. A rendere difficili i
rapporti tra India e Pakistan contribuì infatti il riavvicinamento tra governo pakistano e
Cina popolare che, dopo una serie di contatti diplomatici contraddistinti da un tono
sempre più amichevole, decisero di procedere alla demarcazione consensuale della
frontiera tra la zona del Kashmir occupata dal Pakistan e il Sinkiang cinese. Nel
Febbraio del 1963, il Pakistan iniziò le negoziazioni con la Cina, che avrebbero portato
alla stipula di un accordo sui confini. L’aiuto militare statunitense alla causa indiana,
infatti, non fece altro che accrescere il desiderio del governo pakistano di estendere il
numero dei governi “amici”, generando però un contesto asiatico abbastanza
difficoltoso per il governo di New Delhi.
146 Annuario di Politica Internazionale, 1962, cit. pp. 209 – 211. 147 Michelguglielmo Torri, op. cit., pp. 670 – 671. 148 Ivi, pp. 202 – 204.
80
2.2.2.2. Implicazioni sulla politica nucleare e di difesa indiana. Uno degli
esiti più eclatanti del conflitto tra India a Cina popolare fu il significativo aumento delle
spese militari del governo di New Delhi. Il budget complessivo della spesa per la difesa
del biennio 1963 – 1964 raddoppiò nel Febbraio del 1963, ammontando a circa il 28%
della spesa nazionale, se paragonato al 15 – 17% degli anni precedenti.149 Questo influì
notevolmente sull’intera sfera economica del paese, generando un’inflazione e un
aumento dei prezzi senza precedenti.
Nel Dicembre del 1962 il Jana Sangh Party in un’interrogazione parlamentare,
chiese esplicitamente un’inversione di marcia della politica atomica nazionale,
esprimendo la necessità per l’India di dotarsi di armi nucleari.
La sconfitta del 1962 con la Cina, ebbe effetti catastrofici sia per il prestigio
dell’India, sia per quello personale di Nerhu. Egli dovette fare i conti con una nazione
fortemente demoralizzata e con la stampa che, con sempre maggior insistenza, si
domandava se il governo avrebbe escluso di dotarsi di un deterrente atomico ancora per
molto tempo.
A questo proposito Nerhu rispose:
“To be quite practical, either you have a very powerfull deterrent, or you achieve little
practical value with nuclear weapons… It’s no good having something showy… It will not have
the slightest effect on India as such, if they [the Chinese] have a test tomorrow… We are not
going to make bombs, not even thinking of making bombs, although we are in nuclear science
more advanced than China”150.
La politica nucleare, sostanzialmente, non cambiò il proprio corso in questa fase.
Nerhu, ancora una volta, espresse le proprie perplessità sull’opzione strategico –
militare del progetto, evidenziando che tale ipotesi sarebbe andata a scontrarsi
profondamente con tutto ciò che la Repubblica Indiana andò professando sin dalla sua
nascita.
Diverse conclusioni si possono trarre dagli sviluppi della crisi cino- indiana. Di
fatto, dopo la dèbâcle himalayana, l’India perse ogni capacità di esercitare un incisivo
ruolo internazionale. Ciò fu causato principalmente dall’incapacità e dalle difficoltà del
governo di New Delhi nel negoziare militarmente con la Cina, nonché dalla mancanza
149 Colonel Sonathau Alford, Zones of Peace: the Case of the Indian Ocean, In India’s Security Considerations in Nuclear Age, Gautam Sen (edited by), Atlantic Publishers & Distributors, New Delhi, 1986, pp. 142 – 143.
150 In George Perkovich, op. cit., p. 46.
81
di una strategia militare calzante. L’incompetenza, o piuttosto l’inesperienza,
dell’organizzazione militare indiana si riprodusse, inoltre, nello squilibrio generato tra
lo sviluppo socioeconomico e le spese militari per la difesa nazionale.
L’India di Nerhu sostanzialmente continuava a credere che, per proteggere i suoi
interessi nazionali nel contesto globale, fossero necessari i principi tradizionali a cui la
sua politica si ispirava, e cioè diplomazia piuttosto che armi, una politica non
interventista e, ancora, nonallineamento. Diventare una potenza militarmente forte,
avrebbe rappresentato per l’India rompere quel carattere democratico che le permise di
raggiungere l’indipendenza.
Nonostante ciò, il programma di energia atomica condotto da Bhabha procedeva
velocemente verso la costruzione di armi che, lungi ancora dal possedere lo status di
deterrente, aveva il solo scopo di “equiparare” lo sviluppo del paese a quello delle altre
potenze, soprattutto quelle vicine.
In conclusione si può asserire che benché Nerhu continuasse a mantenersi
coerente con la propria linea di pensiero, rifiutando l’opzione nucleare a pie pari, il
paese era stato profondamente toccato dalla crisi con la Cina. Dopo la sua morte, nel
1964, le èlites politiche si preoccuparono di ridare al paese l’orgoglio nazionale
rassicurando se stesse e la popolazione circa le possibilità di proteggere la posizione e il
prestigio indiani davanti alla minaccia generata dalla spietatezza della Cina.
Ciò non costituì un’immediata inversione del programma atomico indiano, ma,
la nuova fase, fu caratterizzata dalla volontà concreta di un sempre maggior numero di
esponenti politici, di incrementare gli sforzi in ambito nucleare, tali da poter competere
con le altre potenze in un contesto internazionale fortemente minacciato.
2.2.3 Stati Uniti
2.2.3.1. L’amministrazione Eisenhower verso l’India. La politica statunitense
tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta contribuì ad aumentare la capacità
dell’India di acquisire armi nucleari. Come già osservato nel precedente capitolo,
nonostante il governo americano riconoscesse la volontà del governo di New Delhi di
utilizzare il proprio programma nucleare esclusivamente per fini pacifici e civili, in
molti tra le fila del governo si dimostrarono convinti che aiutando l’India a sviluppare
una capacità d’armi atomiche, si sarebbero potuti arginare gli effetti psicologici e
politici derivanti dalla capacità atomica che la Cina popolare andava sviluppando. La
lotta contro la proliferazione atomica passava, evidentemente, in secondo piano di
fronte alla volontà di contenere l’influenza comunista anche nel Sudest asiatico.
82
All’inizio della Guerra Fredda i rapporti tra India e Stati Uniti furono tutt’altro
che buoni, segnati perlopiù dalla politica del nonallineamento nerhuviana, più vicina
alle posizioni di Mosca piuttosto che a quelle di Washington, subirono un grave
peggioramento nel 1954 quando il Pakistan, il cui contenzioso con l’India sul problema
del Kashmir continuava a rimanere irrisolto, entrò nel sistema di alleanze anticomuniste,
diventando membro della Seato (South East Asian Treaty Organization). Nerhu reagì
condannando quello che considerava come espressione di un disegno egemonico da
parte degli americani.
Il presidente Eisenhower non fu mai completamente convinto degli aiuti forniti
dal governo americano al Pakistan, preoccupato che avrebbero indubbiamente
contribuito a danneggiare le relazioni con il governo di New Delhi. Nel 1957, infatti,
Eisenhower decise di rivedere completamente la politica statunitense nel Asia
meridionale. Nel meeting di gennaio del 1957del National Security Council (NSC), egli
dichiarò che l’accordo con il Pakistan fu “perhaps the worst kind of a plan and a
decision we could have made. It was a terrible error, but we now seemed hopelessly
involved in it”.151 Eisenhower, convinto che gli obiettivi della politica estera
statunitense dovessero riguardare gli aiuti in campo economico piuttosto che militare
(com’era successo nel caso del Pakistan), sostenne che rientrava negli interessi primari
del governo non accaparrarsi le antipatie di un paese come l’India, dalle enormi
potenzialità economiche. Non restava altro da fare, quindi, che accettare i principi di
nonallineamento e neutralità dichiarati dal governo di Nerhu poiché, continuò
Eisenhower, in alcuni casi, come quello indiano, questi andrebbero a solo vantaggio del
governo statunitense.
L’India iniziò, quindi, ad assumere un ruolo importantissimo nella logica della
guerra fredda, che vedeva aumentare esponenzialmente l’influenza della Cina
comunista. Le parole di Eisenhower non risultarono tuttavia insensate, ma rientravano
in una strategia specifica in cui “India was very important in itself to United States
policy” 152. Per tale motivo, l’NSC 5701 proponeva di non aumentare gli aiuti militari al
Pakistan, in modo da disincentivare le preoccupazioni di New Delhi, che vedevano
Washington sostenitrice di una futura eventuale aggressione pakistana all’India, e, così,
creare i presupposti affinché i rapporti tra i due paesi andassero pian piano migliorando.
L’amministrazione Eisenhower, sulla base del NSC 5701 e del NSC 5409,
suggerì una manovra nella politica verso l’India che fornisse ingenti aiuti finanziari in
151 Memorandum of Discussion at the 380th Meeting of the National Security Council, 3 Gennaio
1957, in FRUS, 1955 – 1957, Vol. VIII, doc. 4. pp. 25 – 27. 152 Ibidem.
83
campo militare, provvedesse ad accordi bilaterali commerciali e a scambi nell’ambito
culturale.153 Inoltre, aspetto importante in questo contesto, si decise di incoraggiare il
governo indiano affinché considerasse la possibilità di stipulare un accordo di
cooperazione tra i due paesi nell’ambito nucleare, che avrebbe avuto come obiettivo
ultimo la costruzione di un reattore, mettendo in risalto, così, la volontà statunitense di
fornire informazioni tecniche in campo atomico strategicamente a chi interessava
loro.154
I propositi americani di incentivanti il programma nucleare indiano, furono
simultanei al dibattito sui sistemi di ispezione internazionale in seno all’IAEA che
videro gli Stati Uniti accettare le richieste di New Delhi per indebolire i controlli nel
loro territorio.
La situazione sofferente dell’economia indiana155 e la pericolosità
dell’avvicinamento sovietico156, intenzionato a portare l’India sotto la propria influenza
comunista, indussero nel 1959 Eisenhower a prospettare in primo luogo un
allargamento generale degli aiuti statunitensi alla Repubblica indiana e, in un secondo
tempo, l’ingresso americano in determinati settori pubblici e privati
dell’amministrazione di New Delhi.157 In particolare ci si proponeva di far in modo di
velocizzare gli intralci burocratici, istituendo un programma di aiuto triennale o
quinquennale di sviluppo economico, che, comunque, avrebbe avuto come punto di
partenza i piani quinquennali lanciati da Nerhu. In tale prospettiva il governo
statunitense ambì a partecipare al settore pubblico indiano, cooperando in diversi
progetti e dando sostegno più concreto a organizzazioni quasi- governative come, ad
esempio, l’ISI o il National Council of Applied Economic Research. Ugualmente, nel
settore privato, si prospettò di ridare enfasi agli investimenti privati americani in India,
minacciati dalla concorrenza sovietica, istituendo meccanismi di erogazione finanziaria
e garanzie sui rischi di ingenti flussi di capitale privato e know-how verso la Repubblica
indiana. In particolare, il governo americano avrebbe incentivato in territorio indiano la
nascita di industrie militari americane.
153 Progress Report by the Operations Coordinating Board, Progress Report on “ United States
Policy toward South Asia” (NSC 5409), 28 Novembre 1956, in FRUS, 1955 – 1957, Vol. VIII, doc. 3. p. 17.
154 George Perkovich, op. cit., p. 50. 155 Vedi Memorandum of Conversation, Department of State, 12 Luglio 1958, in FRUS, 1958 –
1960, Vol.XV, doc. 212; Memorandum of Conversation, Department of State, 16 Luglio 1958, in FRUS, 1958 – 1960, Vol. XV, doc. 213. pp. 437 – 443.
156 Vedi Paper Prepared in the Embassy in India, The Sovietic Economic Offensive in India, 12 Maggio 1959, in FRUS, 1958 – 1960, Vol. XV, doc. 228. pp. 483 – 488.
157 Ivi, pp. 488 – 489.
84
Inoltre, ancora una volta, Washington propose di impiegare le capacità e le
conoscenze tecnologiche e scientifiche indiane in campo atomico, affinché nascesse
presto una forma di cooperazione tra i due paesi.
Le mozioni per aumentare gli aiuti statunitensi all’India non furono accolte di
buon grado dall’opposizione al Congresso, in quanto insita ancora in molti esponenti
politici la convinzione che la politica di nonallineamento indiana rappresentasse una
forma di anti – americanismo e andasse contro gli interessi statunitensi. Tuttavia, nel
Dicembre del 1959 Eisenhower fu il primo presidente americano a far visita alla
Repubblica Indiana, portando milioni di persone nelle strade ad onorare il presidente per
la sua visita.
La visita fu la prima di una serie di incontri tra Eisenhower e Nerhu, di cui lo
scopo primario statunitense fu quello di tranquillizzare il presidente indiano circa gli
aiuti militari americani al Pakistan che, a detta di Eisenhower, non intendevano armare
il governo pakistano contro l’India.158 A questo proposito, Eisenhower ordinò
all’ambasciatore statunitense in Pakistan di impegnarsi affinché il Presidente pakistano
Ayub Khan garantisse la propria volontà di non intraprendere azioni militari contro il
governo di New Delhi, proposta che, però, fu accolta sfavorevolmente da Ayub Khan,
convinto del fatto che la questione sul Kashmir avesse oramai acquisito toni troppo
accesi per non convergere in uno scontro armato e, in secondo luogo, egli non avrebbe
permesso che la sua popolazione considerasse persa una causa così importante per il
paese.159
Il 1960 vide un’enorme opportunità per gli Stati Uniti di dimostrare l’ampio
rilievo rappresentato dall’India nella propria politica. Il Ministro della Difesa indiana,
Krishna Menon, famoso per i suoi orientamenti critici verso gli Stati Uniti e
decisamente a favore dell’Unione Sovietica, domandò all’ambasciatore statunitense in
India di negoziare con Washington per la vendita di ventinove velivoli Fairchild C-
119.160 Washington, soddisfatta della svolta occidentale indiana, accolse con favore la
proposta di Menon, apprestandosi a riaprire una fase di cooperazione militare tra i due
paesi, ormai chiusa da parecchi anni che, inoltre, forniva la possibilità di rinforzare le
difese militari indiane contro la Cina Comunista.161 In breve tempo Menon aumentò le
158 Memorandum of a Conversation Between the President and the Ambassador to India (Bunker),
25 Aprile 1960, in FRUS, 1958 – 1960, Vol. XV, doc. 256. pp. 535 – 536. 159 Memorandum of Conversation in Karachi, 8 Dicembre 1959, in FRUS, 1958 – 1960, Vol. XV,
doc.375. pp. 783 – 787. 160 Telegram From the Embassy in India to the Department of State, 5 Maggio 1960, in FRUS,
1958 – 1960, Vol. XV, doc. 258. pp. 538 – 539. 161 Ibidem.
85
proprie richieste, domandando agli Stati Uniti di poter acquistare i nuovissimi missili di
progettazione americana Sidewinder, cui di recente furono concessi al governo del
Pakistan.162 Una richiesta simile mise finalmente alla prova la duplice politica
statunitense verso il Pakistan e, simultaneamente, verso l’India, costringendo il governo
a prendere una posizione concreta. Il Dipartimento di Stato, tuttavia, rifiutò di vendere
all’India tali armamenti, ritenendo di fare un torto al governo pakistano e riconoscendo
“ the Pakistan’s military alignment with us against the Communist bloc”.163
Nel Settembre del 1960 Eisenhower e Nerhu si incontrarono per l’ultima volta in
coincidenza con la sessione autunnale dell’Assemblea Generale dell’ONU che, a sua
volta, si verificò non molto tempo dopo l’incidente aereo dell’U-2, che causò un
ulteriore raffreddamento delle relazioni americano-sovietiche e la cancellazione del
viaggio di Eisenhower a Mosca per un summit con Chruščëv. Ciò non poté non causare
l’accantonarsi delle speranze, riposte da entrambi i blocchi, sul progredire del dialogo
contro il disarmo e la proliferazione atomica.
Così, quando Nerhu incontrò il presidente Eisenhower, e ribadì la visione
indiana sulle politiche contro il disarmo e la proliferazione, in particolare sul nuclear
test ban, il presidente statunitense si dimostrò abbastanza pessimista al riguardo
mettendo in luce la riluttanza sovietica sulla spinosa questione dei controlli
internazionali sugli armamenti. A questo punto Nerhu, in comune con altri leader “non-
allineati”, invitò pubblicamente, davanti all’intera Assemblea Generale ONU, americani
e sovietici a dichiarare i propri intenti e le proprie posizioni riguardo gli sviluppi della
questione sul disarmo. La retorica indiana non produsse i risultati sperati né da parte
americana, né tantomeno da quella sovietica, che, consapevoli dei progressi nucleari
compiuti dalla stessa Repubblica d’India, non attribuirono particolare importanza alle
pretese di chiarimento di Nerhu.
Agli inizi del 1961 l’India annunciò il proprio interesse a stipulare un accordo di
cooperazione con un paese altro, per la costruzione di quello che più avanti diventò il
Bhabha Atomic Research Center.
2.2.3.2. La cooperazione atomica con gli Stati Uniti. Tuttavia fu già
nell’Aprile del 1959 che Homi Bhabha, in un incontro con l’ambasciatore statunitense
162 Memorandum by the Officer in Charge of India, Ceylon, and Nepal Affaire (Fleck), Indian
Request to Purchase Sidewinder Missiles, 7 Giugno 1960, in FRUS, 1958 – 1960, Vol. XV, doc. 260. pp. 541 – 542.
163 Letter from the Assistant Secretary of State for Near Eastern and South Asian Affairs (Jones) to the Ambassador in India (Bunker), 13 Luglio 1960, in FRUS, 1958 – 1960, Vol. XV, doc. 262. pp. 545 – 547.
86
Bunker, dichiarò d’essere interessato ad una forma di cooperazione in ambito nucleare
con gli Stati Uniti, che avesse, eventualmente, le stesse caratteristiche di quello che di
recente fu siglato tra americani e l’EURATOM.
L’iniziativa indiana non tardò ad essere presa in seria considerazione
dall’amministrazione statunitense che, insieme all’AEC, iniziò a valutarne prospettive e
conseguenze. Il telegramma inviato dal Dipartimento di Stato all’Ambasciata americana
in India, sottolineava, tuttavia, che ogni azione da parte del governo americano volta ad
incoraggiare il progetto nucleare indiano, avrebbe necessitato di negoziazioni ulteriori
con il governo di New Delhi, che, oltremodo, sarebbero stati approvati dalle agenzie
governative competenti di Washington. Il Dipartimento di Stato affidò all’Ambasciata il
compito di studiare attentamente il programma di cooperazione nucleare istituente
l’ EURATOM.164 Il Dipartimento di stato americano sottolineò quanto fossero stati
convincenti gli aspetti politici ed economici che posero in essere questa forma
cooperativa con l’EURATOM che, non solo contribuiva al progresso della questione
dell’integrazione europea, ma, in via principale, offriva all’industria americana – così
come a quella europea – la possibilità di acquisire sempre più esperienza nella
progettazione e sperimentazione nucleare su larga scala. Inoltre, notava il Dipartimento,
l’US – EURATOM program distribuiva equamente i costi associati alle ricerche e agli
sviluppi del progetto.
Un tale programma, che prevedeva uno stretto sistema cooperativo in campo
tecnologico, apparve non altrettanto convincente. Ci si domandava, in primo luogo, che
sistema di reattore avesse in mente Bhabha e, con non meno perplessità, a che tipo di
cooperazione ambisse, ovvero: reciproco scambio tra i due paesi, o semplicemente
ricevere informazioni dal governo statunitense, per poi accaparrarsi i vantaggi sia in
campo tecnologico sia economico? Il Dipartimento sottolineò, tuttavia, la recente
esperienza di cooperazione indo – canadese in campo atomico, che, come lo stesso
governo canadese dichiarò, non portò a nulla di positivo poiché “any cooperation in
nuclear power field requires bilateral power agreement which includes detailed
safeguard provisions”165. L’unica possibilità affinché un accordo tra i due paesi fosse
possibile sarebbe stata quella in cui il governo statunitense esercitasse il diritto di
amministrare in prima persona le ispezioni gestite dall’IAEA e, simultaneamente, il
governo indiano acconsentisse i controlli internazionali nel proprio territorio, sia che
essi vengano gestiti dagli stessi Stati Uniti, sia da un’agenzia come l’IAEA.
164 Telegram From the Department of State to the Embassy in India, 15 maggio 1959, in FRUS,
1958 – 1960, Vol. XV, doc.229, p. 490. 165 Ibidem.
87
Tuttavia il Dipartimento di stato tentò di individuare i vantaggi a livello politico
che un accordo di cooperazione con il governo di New Delhi avrebbe portato, in
evidente sproporzione con gli altissimi costi economici. Ad ogni modo, nonostante
sembrasse sufficientemente remota la possibilità di soddisfare le ambizioni di Bhabha, il
Dipartimento statunitense spronò la propria Ambasciata in territorio indiano affinché si
potesse giungere ugualmente alla stipula di un accordo bilaterale in campo atomico, che
avrebbe, eventualmente, soddisfatto le esigenze di ambedue i governi. I governi
britannico e canadese, impegnati in accordi di cooperazione atomica con la Repubblica
indiana, sarebbero dovuti essere avvisati circa le modalità e i tempi che futuri negoziati
tra il governo di Washington e di New Delhi avrebbero intrapreso.166
Nel giugno del 1959 in un incontro tenutosi al Dipartimento di stato americano
tra numerosi funzionari dell’AEC statunitense e l’ambasciatore americano in India,
l’ordine del giorno fu proprio “the Atomic Plant for India”.167 Ancora i dettagli riguardo
il programma nucleare indiano non erano stati ben delineati. John Hall, dirigente degli
affari internazionali dell’AEC, dichiarò d’aver avuto un incontro con Homi Bhabha a
Vienna, in cui egli stesso ebbe la possibilità di chiarire alcuni aspetti circa un eventuale
collaborazione in campo atomico tra i due paesi. Qui Bhabha svelò la propria ambizione
a sviluppare un progetto di reattore da un milione di kilowatt, incontrando le
considerazioni di Hall che, riassumendo l’opinione generale di gran parte
dell’amministrazione americana riguardo una forma di cooperazione con l’India, illustrò
l’enorme vantaggio che un programma di condivisione scientifico- nucleare con gli Stati
Uniti avrebbe avuto per la Repubblica indiana, dal momento in cui il vantaggio
sull’Unione Sovietica era ormai netto. Bhabha riferì a questo punto il desiderio di
ottenere un finanziamento a lungo termine e il disinteresse a una forma di cooperazione
come quella attivata con l’ EURATOM.
In risposta alle perplessità dimostrate dal Dipartimento di stato, l’Ambasciata a
New Delhi espose l’enorme importanza a livello politico che una cooperazione
scientifica avrebbe avuto con l’India, auspicando ogni possibile sforzo affinché fosse
concessa assistenza nello sviluppo del programma nucleare indiano, nonché cercare un
graduale avvicinamento in tutte le questioni in campo atomico in atto.168
166 Ibidem. 167 Memorandum of Conversation, Department of State, 17 giugno 1959, in FRUS, 1958 – 1960,
Vol. XV, doc.234, pp. 499 – 502. 168 Telegram From the Embassy in India to the Department of State, 27 dicembre 1959, in FRUS,
1958 – 1960, Vol. XV, doc.249, pp. 526 – 527.
88
<<For following reasons US atomic power reactor would have significant political value
to US in India.
(1)Lack of power is a bottleneck in Indian economy; expansion of power facilities,
conventional or atomic, is of fundamental importance to Indian economic development; power
has high priority in five-year plans. Our helping to meet and economic need is politically
important. A special political merit in the proposed atomic power plants. However, is fact that
they would be located in Southern India where power shortage in notably acute and where
feeling is widespread that disproportionate share of US assistance has thus far gone to Northern
India.
(2) Atomic development has much appeal in India as an advanced scientific
accomplishment. US – Indian cooperation in atomic power would probably have exceptional
political benefit to US, pleasing to Indian pride and also demonstrating the application of US
science.
(3) If US or other free world countries do not assist India we may expect Government of
India seek Soviet cooperation, for Government of India seems firmly determined have atomic
power plants. Soviet atomic expert Emilyanov, for example, scheduled visit India next month
for conversation with Bhabha. Soviet would probably welcome opportunity play major role in
atomic power in India just as they are doing in such key public sector undertakings as
petroleum, steel, heavy machine tools. US assistance in power plants would have the political
value of providing something important the Indians want from US and also the advantage of
helping deny access to Soviets.
(4) Political effectiveness of US – Indian atomic power collaboration would, of course,
be maximized if US were sole source of such aid. If this not possible for us the objective should
be assistance from both US and other free world countries to assure India’s Western orientation
in this important field. We should not be deterrent by possible British atomic power
project>>.169
Un gruppo di scienziati americani visitò l’India tra la fine di febbraio e l’inizio
di marzo del 1960, con l’obiettivo di studiare la fattibilità degli aiuti statunitensi al
programma atomico in atto nella nazione indiana. Come già pronunciò un memorandum
dell’AEC statunitense, il team inviato in India concordò che “the cost of constructing
nuclear plants were much higher than those for conventional plants”170.
Bhabha, affinché si riuscisse a coprire gli ingenti costi del suo programma
nucleare, propose che gli fosse concesso, da una parte, un prestito da una banca “Import
– Export” in modo da coprire i costi aggiuntivi previsti dal potenziamento del
169 Ibidem. 170 Atomic Energy Commission, memorandum of record, 13 novembre 1959, Joint Committee of
Atomic Energy files, International Affairs, India, National Security Archives, Washington D.C.
89
programma e, dall’altra, un piano di pagamento differito così da poter importare
direttamente dagli Stati Uniti il combustibile necessario al funzionamento del reattore
nucleare indiano. Questo secondo piano di finanziamento, chiedeva Bhabha, sarebbe
stato saldato in rupie e prodotti indiani, che stava a indicare la debolezza della valuta
indiana. L’amministrazione Eisenhower accolse positivamente la proposta avanzata da
Bhabha, avviando nel giro di breve tempo la concretizzazione del programma di
cooperazione nucleare con l’India.
Durante la fase di sviluppo del piano nucleare indo – americano, diventato
ufficialmente contratto durante il 1963 per la costruzione da parte americana di due
light-water power reactor nel territorio di Tarapur, l’amministrazione statunitense fu
informata riguardo la possibilità che il governo indiano sovvertisse gli intenti civili del
proprio programma nucleare iniziando a pensare alla costruzione di un’arma atomica.171
Il programma di riprocessamento del plutonio di Trombay, il quale la costruzione prese
avvio nell’aprile del 1961, rappresentava, infatti, la prova di tale capacità indiana.
Una volta ancora, quindi, il pericolo scaturito dalla proliferazione nucleare,
passò in secondo piano nelle priorità della politica statunitense tra la metà degli anni
cinquanta e la metà dei sessanta, cedendo il posto alle esigenze dettate dalla logica della
guerra fredda.172 Come visto nel precedente capitolo, la minaccia proveniente dallo
sviluppo del programma nucleare cinese procurò nell’amministrazione americana l’idea
di sostenere l’altro gigante asiatico in modo tale da intimorire le ambizioni di Pechino.
Questa prospettiva non fu priva di perplessità tra le fila di gran parte di esponenti
politici statunitensi. In particolar modo alcuni funzionari del Dipartimento di stato
identificarono sette questioni a riguardo, sottolineando i fattori importanti da tener
presenti circa l’avanzamento della politica nucleare indiana e la politica statunitense
nell’area asiatica.173
In primo luogo, “India might require considerable technical assistance in order
to explode a nuclear device before Communist China does”. Secondo, non bisognava
dimenticare che gli aiuti tecnologici in campo atomico a paesi altri, forniti sia dalla
Gran Bretagna sia dagli Stati Uniti sarebbero potuti essere legalmente bloccati. In terzo
luogo, sosteneva il promemoria redatto dal Dipartimento di stato, “We are not good at
keeping such things covert”. A tal proposito, al quarto punto il Dipartimento si
domandava come sarebbe stato possibile eseguire test nucleari che, pur dichiarati a fini
171 Secretary of State Dean Rusk to U.S. Embassies, 3 marzo 1961, 172 George Perkovich, op. cit., p. 52. 173 McGhee to Rusk, “Anticipatory Action Pending Chinese Communist Demonstration of a
Nuclear Capability”, 13 settembre 1961, in FOIA files, India, National Security Archive, Washington D.C., www.gwu.edu ~nsarchiv/.
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pacifici, non avrebbero destato perplessità e denuncie da parte del resto della comunità
internazionale (punto cinque). Sesto, il Pakistan, conosciuto il ruolo degli stati Uniti
nella politica atomica indiana, avrebbe reagito in maniera estremamente negativa
sentendosi tradito da un paese che ormai da tempo gli era stato amico. Settimo, un test
nucleare indiano sarebbe stato utilizzato dalla Cina per far leva sull’Unione Sovietica, al
fine di potenziare gli aiuti al proprio programma atomico.174 Nel promemoria inviato da
McGhee, quindi, era evidente la sua contrarietà all’opzione di aiutare la Repubblica
indiana nel potenziamento del programma nucleare, evidenziando, oltremodo, quanto
sarebbe stata remota la possibilità che il primo ministro indiano acconsentisse ciò.
Rusk declinò l’auspicio avanzato da McGhee, facendo notare che egli era “not
convinced we should depart from our stated policy that we are opposed to the further
extension of national nuclear weapons capability”175. Questa frase dimostra come
l’amministrazione statunitense percepisse la “politica nucleare” nell’aria asiatica, e
particolarmente in India: da una parte vi era la priorità di contenere l’influenza sovietica
e cinese nel resto dell’Asia, da un’altra vi era la promozione e divulgazione della
tecnologia in campo atomico. A questi due obiettivi si aggiungeva la ferma opposizione
contro la proliferazione delle armi atomiche portata avanti ormai da tempo. Questo
stava a significare che, nonostante gli statunitensi fossero per gran parte favorevoli ad
aiutare la Repubblica indiana in campo atomico, stipulando, come già detto, accordi di
cooperazione e piani di finanziamento ad hoc, fossero assolutamente contrari ad un
programma che dai dichiarati intenti civili e pacifici degenerasse verso quelli
prettamente militari, consci che ciò avrebbe inoltre spinto la Cina Comunista ad
incrementare gli sforzi per ottenere ordigni nucleari militari. Nel tentativo di conciliare
queste tre linee politiche, perciò, Washington sperava di poter mantenere ottimi rapporti
con tutti i paesi, e particolarmente con l’India.176
2.2.3.3. … e l’amministrazione Kennedy. Nel maggio 1961, proprio quando
l’amministrazione Kennedy si preparava ad inviare all’India il più consistente dei
finanziamenti, il vice presidente Lyndon Johnson fece un viaggio nel continente indiano
in vista di alcuni impegni importanti nell’area. Così come era successo anche in passato,
con Dulles e con altri funzionari americani, anche Johnson mostrò una particolare
propensione nei rapporti con il Pakistan piuttosto che con la nazione indiana. Johnson
174 Ibidem. 175 Memorandum of Secretary of State Dean Rusk to State Department Executive Secretary, 7
ottobre 1961, Nuclear Non – Proliferation Policy, FOIA files, India, National Security Archive, Washington D.C., www.gwu.edu ~nsarchiv/.
176 George Perkovich, op. cit., p. 53.
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riferì al presidente Kennedy circa la stima nei riguardi del dittatore pachistano Ayub
Khan, sostenendo che fosse “the singulatly most impressive and, in his way,
responsabile head of state encountered in the trip”. Il vice presidente, constato ciò,
avanzò di sostenere economicamente la modernizzazione militare della nazione
pachistana, poiché Ayab “wants to resolve the Kashmir dispute to release Indian and
Pakistani troops to deter the Chinese rather each other” 177. Ancora una volta, quindi, i
leader del Pakistan giocavano una partita a scacchi talmente abilmente da accrescere
consapevolmente il proprio ruolo nell’area asiatica. Statunitensi e indiani, per
l’ennesima volta, trovarono difficoltà a stringere rapporti eccellenti, condizionati,
evidentemente, dal ruolo sempre più insistente giocato dal Pakistan. A ragion di ciò,
Kennedy definì la visita statunitense di Nerhu nel novembre del 1961, come “the worst
state visit I have had”. Tutto ciò avveniva a circa un mese di distanza dall’avanzata
indiana nella colonia portoghese di Goa, azione duramente criticata dal governo degli
Stati Uniti in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Questo non fece altro
che infangare ancora di più le relazioni indo – americane, andando a influire anche sulla
questione atomica. Se, tuttavia, il congresso degli Stati Uniti intravide la possibilità di
ridurre drasticamente tali tipi di finanziamento alla nazione indiana, l’accordo che
Nerhu stava per firmare con i sovietici per la fornitura di aerei MiG-21, allarmò non
poco l’intera amministrazione Kennedy che propose seduta stante un implemento dei
finanziamenti e delle forniture all’India in comune con la Gran Bretagna.
Quando poi la Cina invase il Tibet nel novembre del 1962, come già visto sopra,
nonostante la retorica nerhuviana, l’India non tardò a rivolgersi verso gli Stati Uniti in
cerca di aiuto.
L’amministrazione Kennedy, in congiunzione con la Gran Bretagna, accordò nel
dicembre del 1962 un finanziamento di centoventi milioni di dollari per assistere l’India
militarmente, che, come notarono in molti, rappresentava l’ultima possibilità per
avvicinare una volta per tutte la nazione indiana al blocco occidentale. Kennedy e tutta
l’amministrazione da lui guidata sperava, in tale prospettiva, di poter aumentare ancora
questo finanziamento, in modo da scongiurare una volta per tutti il pericolo
dell’influenza cinese e sovietica nell’intero subcontinente asiatico. Non fu, comunque,
impresa facile poiché, come già notato, le pressioni esercitate dal Pakistan,
estremamente frustrato dopo gli aiuti che gli amici statunitensi avevano fornito al
nemico indiano, non furono sottovalutabili.
177 Ibidem.
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Nonostante tutte queste questioni, tra il 1962 e il 1963, americani e indiani
stipularono un accordo importante che vedeva l’aiuto statunitense nel potenziamento dei
primi reattori nucleari indiani, con sede a Tarapur. Tuttavia, ancora una volta il
problema principale che caratterizzò tali negoziati fu la questione dei controlli. Bhabha
insistette come sempre sul fatto che le ispezioni internazionali in territorio nazionale
non facevano altro che invadere la sovranità indiana. Contemporaneamente da parte
americana vi era l’esigenza, dettata dal sistema IAEA, di garantire che laddove
avrebbero fornito assistenza tecnologica in campo nucleare, vi sarebbero state le
ispezioni previste dalla disciplina internazionale. Le parti raggiunsero comunque un
accordo, in cui l’India accordava di usare esclusivamente il reattore per l’arricchimento
dell’uranio fornito dagli Stati Uniti e concesso all’IAEA di verificare che tale tipo di
alimentatore fosse un impianto con scopi civili e pacifici. Simultaneamente gli Stati
Uniti promettevano di fornire l’India di un impianto alimentato al plutonio, sempre sotto
la supervisione dell’IAEA e sotto regime di ispezioni.
Gli americani, quindi, ottennero il permesso per le ispezioni IAEA in territorio
indiano, e il governo di New Delhi ottenne ciò che desiderava, ossia sarebbero stati
oggetto di ispezione solo gli impianti di Tarapur forniti dagli Stati Uniti ma non gli altri.
L’accordo prevedeva anche che “no material, equipment or device transferred to the
Government of India… will be used for atomic weapons or for research on the
development of atomic weapons or for any other military purpose”.
Le relazioni internazionali dell’India durante il periodo 1948 – 1963,
antecedente alla minaccia nucleare proveniente dalla Cina comunista, mostrarono come,
nonostante Bhabha fosse deciso a portar avanti un programma evidentemente non a fini
civili e pacifici, la sicurezza internazionale giocasse un ruolo ancora poco influente sulla
politica nazionale indiana. In questa fase, infatti, possiamo asserire che gli intenti di
dotarsi di ordigni nucleari propri non erano forti e, piuttosto, riconducibili all’ambizione
di Bhabha di offrire alla sua nazione modernità, prosperità e uno status internazionale
più forte. Così come Bhabha, anche chi gli susseguì fu fermamente convinto che la
capacità nucleare di un paese come l’India avrebbe scongiurato gli stereotipi sulle
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