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Un limoncello all'inferno (quarta stazione)

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Quel 27 gennaio mio papà mi ha liberata dalle zavorre della nostalgia; mi ha permesso di accettare la mia identità composta da due anime, da due culture, da due patrie: non potrei consistere senza una delle due. Storia di un reduce dai campi di sterminio nazisti, fra i molti che racchiude, è questo forse il messaggio conclusivo del libro memoria-romanzo di Centonze. Quello che condensa i caratteri del suo animo esuberante e mette in luce il legame profondo con il padre. Legame che non è banale attaccamento al genitore preferito, ma elogio della paternità – il senso acuto della responsabilità sopravvissuto in uomo pur così ferito e segnato da una esperienza atroce - e della maternità. Perché Cosetta (colei che scrive in prima persona) l’ha preso veramente per mano, come quei bambini che si sono persi in un contesto non più familiare, e che il sentimento materno spinge a raccogliere per “riportare a casa”. Rapporto unico ed esemplare sul quale fiorisce come sentimento maturo il perdono di Lui ai suoi aguzzini e la sapiente - sperimentata sulla sua carne - fraternità di Lei.

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Tu in quel continuo movimento da una stazioncina all'altra del Salento sembravi riprendere gusto alla vita.

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La novità ti animò come era accaduto quando avevi cambiato lavoro la prima volta: anche il gioco, a cui dedicavi ore di silenziosa applicazione, che ricordava quella di zia Naida al telaio, ti dava di nuovo soddisfazione Nella grande casa della famiglia di mia madre avevamo per noi due camere da letto ed un altro piccolo locale: là studiavamo Miranda ed io e tu cincischiavi con i tuoi quaderni per poi chiuderli sotto chiave. Quando Prisca raccontò senza malizia alle sue sorelle la tua precauzione, quelle sghignazzarono in modo che persino mamma ne fu mortificata: “Per carità, non lasciatevi sfuggire che ve ne ho parlato!” Zia Estrella non si frenava ed, essendo l’uomo della famiglia, era la più feroce: “Ma cosa crede di tenere chiuso a chiave? L’ingresso del pozzo di San Patrizio?” Zia Renata: “Sorella mia, che matrimonio ti è toccato! Che testa bislacca! Sembra che si diverta a cambiare in peggio! Si può proprio dire che non hai avuto fortuna nel matrimonio!” Io sbottai: “Care zie, voi, che avete esperienza di matrimoni combinati, voi sì che potete giudicare!” Ero consapevole del peso delle mie parole che

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attingevano forza dal romanzo delle zie. Le zie, infatti, si volsero verso di me: Renata con la faccia risentita, Estrella come una vespa: “Cosa significa questa uscita? Ragazzina, dico a te, cosa vai pensando! Per difendere tuo padre sei pronta ad inventare di tutto! Ah c’è da stare sicura con una così in casa: finirà per mandarci in carcere!” “Per carità!”- ripeteva mia madre e non sapeva più a cosa riferirsi- Per carità! Fate conto che non vi abbia detto niente!” “Sì, sì: prega di qua, prega di là, ma intanto insegna l’educazione a questa qui che è tutta suo padre.” “Me lo avete detto tanto tempo fa che sono tuttasuapadre! Ed eccovi che vi ho accontentato!” “Cosetta, ti prego!” disse Prisca “Taci! Fallo per me!” Io ero come presa dal piacere di irridere tutto ciò che le zie giudicavano sacro ed inviolabile e così risposi: “Sì, sì lo faccio per te, per Miranda, e per zia Naida!” Strizzai persino l’occhio ad Estrella così che capisse che sapevo tutto; forse ne sapevo più di mia mamma che mi guardava meravigliata. Ciascuno si ritirò: le zie in cucina da dove si sentivano giungere come in un diapason toni da sommessi ad acuti.

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Nello studiolo Prisca fingeva di aiutare Miranda nei compiti, ma mi sbirciava. In realtà non ero contenta di me stessa: donna Rirì non mi aveva raccomandato il segreto, ma soltanto perché quelle robe intricate di famiglie composte soltanto di donne lo richiedono per intrinseca natura. E comunque era stato meschino rivangare vecchi torti a cui non c’era più modo di rimediare. Mi dissi che lo avevo fatto per zia Naida per testimoniare che sapevo quanto avesse patito e che non era giusto che con la sua morte tanto dolore fosse dimenticato. Forse perché avevo quindici anni ebbi la malizia di pensare che la mia amica potesse aver esagerato qualche tratto del romanzo di Naida. Magari per distrarmi da quella notte di veglia funebre e dal pallore dei cadaveri. Visto la baraonda accaduta, pensai che era preferibile lasciare lo studiolo tutto a te. Miranda ed io ci trasferimmo nella grande cucina il cui tavolo saldo e rettangolare offriva spazio per i miei vocabolari. In conseguenza ad attriti vecchi e recenti, tu ed io abitavamo con le zie come fossimo a pensione. Tu pranzavi a casa di rado; dicevi che la mensa ferrovieri aveva orari più comodi per i tuoi turni.

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Prisca, però, non ti credé e strinse le labbra quasi come quelle di zia Naida: tanto che per la prima volta scorsi la somiglianza tra voi due. Ed intanto pensavo: “Non so perché mamma se la prenda tanto per il nuovo impiego di papà.” Immaginavo la figura che dovevi fare nella divisa di ferroviere con il cappello! E poi sentivo che quel lavoro si adattava alla tua inquietudine. Non avevamo seguito i circensi, non eravamo diventati la fortunata attrazione assieme a Porfirio, ma avevi ritenuto che scegliere di essere controllore nella sud-est fosse ciò che più somigliava a quelle condizioni. Io attendevo una tua mossa: come mi avevi condotta al mare con lo chauffeur, al bar Lux per gli appuntamenti della sisal, come avevamo nascostamente girovagato per Lecce la sera che avevi sbagliato film, certamente avresti voluto condividere con me la nuova condizione. Mentre aspettavo che tu decidessi, studiavo latino e greco. Infatti un giorno mi portasti a fare un giro sul treno locale. Avevi progettato un piccolo itinerario turistico che aveva come meta Otranto. L'orario del treno e del tuo servizio di controllore si incastrava in modo che noi potessimo permetterci una sosta di un paio di ore. Ero eccitata all'idea di visitare un'altra città ed in

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particolare quella che, dalla storia e dalla religione, mi veniva incontro colma di bellezza e di violenza. Ero impaziente di arrivarci, ma anche il viaggio in sé mi prese. Il treno era una littorina con le panche di legno e vi sedevano persone che noi cittadini individuavamo subito, per i modi e gli abiti di chi è vestito a festa a sproposito, e che schernivamo con il nome di cafoni. Io però pensai alle figurine di un presepio: qui la vecchietta che portava uova, origano e basilico al mercato in città. E là lo storpio che faceva il pendolare per e dal capoluogo per l'accattonaggio; e ancora l'uomo che teneva galline starnazzanti a testa in giù e ora parlava loro con tenerezza, ora le sbatacchiava perché non era riuscito a venderle. Altri si lamentavano per le lunghe attese negli uffici della città per sbrigare pratiche. Altri, ancora, erano un po' taciturni e compitavano le ricette dei medici che avevano consultato. Tu eri sempre gentile con i viaggiatori e davi tutte le informazioni che ti chiedevano anche quelle che non avevano a che fare con il treno, ma a cui eri in grado di rispondere grazie all'esperienze acquisite nei tuoi precedenti lavori. Quando i passeggeri capirono che ero tua figlia,

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dalle frequenti sbirciatine che mi venivi a dare, mi coccolarono in tutti i modi. Si informavano sui miei studi e mi dissero che sarei diventata senz’altro un’avvocatessa. Poi mi chiesero del resto della famiglia ed augurarono ogni bene a mamma e a mia sorella. Io vantai il limoncello di Prisca e subito ne nacque una gara mangereccia: chi offriva un mandarino, chi biscotti fatti in casa o una pagnotta con il salame. Io non sapevo se accettare; intanto presi nota delle dosi e dei segreti che una campagnola mi confidò per ottenere un limoncello superlativo. Un ragazzo, che aveva brontolato per tutto il viaggio contro la lentezza del treno, vantando la velocità delle auto, mi offrì una gomma da masticare. Io ero cresciuta nel timore, istillatomi da donna Rirì, che le gomme da masticare si incollassero all'intestino e che richiedessero una dolorosa asportazione. Per questo al ragazzo dissi: "No, grazie." Quello si offese, lasciò il suo posto e si addossò al corridoio del treno mettendosi in mostra ogni volta che dalla gomma faceva venir fuori un palloncino. Scendemmo ad Otranto ed iniziammo il nostro giro con un po’ di affanno per via dell'orario del treno di ritorno, su cui tu dovevi riprendere

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servizio. Fuori dalla stazione ci accolse una fitta vegetazione di oleandri con il loro bouquet in cui si mescolava una nota dolciastra con quella della salsedine. La cittadina era gentile e tranquilla con la sua fisionomia levantina appena, appena intaccata dai primi negozi a catena che con il tempo si sarebbero visti ovunque. Ci fermammo presso un bar-tabaccheria: ci sedemmo all'esterno perché la giornata di fine aprile era già calda e mi offristi la prima granita di limone della stagione. "Ti assicuro che le grattate di donna Rirì sono migliori. Chissà se ancora ne prepara." Ma nell'insieme parlammo poco: gustavamo la granita e guardavamo il sole abbagliante e i pescatori che lavoravano le reti contro lo sfondo del mare smeraldino. I loro movimenti impercettibili erano in sintonia con il loro silenzio. Ci guardarono di sfuggita come si fa quando giungono forestieri fuori stagione, ma subito tornarono al loro immobile travaglio. Quando ti sembrò che ci fossimo goduti abbastanza la granita e la vista pittoresca, chiedesti al ragazzo del bar di indicarti la strada per la famosa cattedrale. Ci incamminammo. C'era un chiarore insolito per me: il chiarore tipico delle contrade d'oriente che avrebbe

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dovuto rendere acuta la vista, ma, al contrario, ci costringeva a procedere con gli occhi socchiusi per l’insopportabile barbaglio cosicché la cittadina, apparentemente aperta, finiva con il negarsi: la luce, invece che denudarne ogni angolo, sembrava nasconderla in un bozzolo soffuso. Il vento di scirocco faceva la sua parte e noi danzavamo a casaccio in quel pulviscolo dorato e quasi ci convincevamo di essere divenuti invisibili. Forse non c’erano ancora i cartelli gialli per i turisti o in quell’abbaglio non li vedemmo. Io percepivo ostilità in quegli eccessi di luce, scirocco e silenzi. Per strada non incontrammo nessuno come se gli abitanti fossero tutti in quel manipolo di pescatori e nel bar. Immaginai che come un popolo di albini gli idruntini si fossero rintananti nelle case al riparo della luce. Infastiditi da quei due turisti fuori tempo avevano tirato a sorte per stabilire chi dovesse mostrarsi per recitare la parte degli abitanti soltanto per noi. “Ci smarriremo?" Ti domandai eccitata da quella evenienza. "Be' se sono tornato a piedi dalla Germania a Lecce..." Ci avviammo per una stradina stretta e in salita che costeggiava il fabbricato di una chiesa.

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Voltato l’angolo,infatti, la cattedrale in persona con il rosone e il portale butterati dal vento e dal tempo si presentò. All'interno c'era una tale penombra che, seduti su uno scanno, dovemmo attendere un po' per abituare la vista provata dal dominio indiscusso di sole. Il pavimento pieno di bozze faceva da cimasa a quello della navata centrale interamente ricoperto da un unico mosaico. Lo costeggiammo ed io che avevo la vista migliore ti indicavo: “Ci sono due date,1163-1165, e dei nomi ben evidenziati dalle tessere in nero: Guglielmo il Malo, Arcivescovo Gionata, prete Pantaleo.” Man mano che la vista si assuefaceva e le candele di tutti gli altari, che prima non avevamo notato, dardeggiavano, distinguevamo meglio ogni cosa. Ciascuno di noi due comunicava all'altro, a bassissima voce, quello che scorgeva del mosaico. Tu: "Quello è l'albero del bene e del male." "Sì. Ci sono Adamo ed Eva scacciati dal Paradiso terrestre." "Mostri con due teste… pesci che ingoiano uomini… addirittura un asino arpista!" Tutta la storia dell'umanità era raccontata attraverso figure umane bibliche e storiche, o vegetali e animali fantastici.

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"Ecco l'arca di Noè, e la torre di Babele!” "Quelli sono certamente dei re per via delle corone… " "Là c'è un poveretto quasi nudo che ha come bastone un tau e aspetta di fronte alla porta del Paradiso.“ “Chi sarà?" Qualcuno tossì discretamente e scorgemmo alle nostre spalle il prete della cattedrale: "Scusate, avete bisogno di qualche chiarimento? Ho giusto terminato di leggere il breviario e ho un po' di tempo per farvi da guida, se volete. In questa stagione non siamo abituati ai turisti. D'estate, invece, ne vengono a frotte e allora, all'ingresso della cattedrale, collochiamo dei foglietti con le informazioni sull’architettura e le spiegazioni del mosaico.” Fece una piccola pausa, si guardò attorno e poi ci confidò: “Le spiegazioni che possiamo dare… s’intende… Perché , come sapete, e se non lo sapete ve lo dico io, i sensi delle scritture sono quattro. E queste immagini altro non sono che una scrittura.” "Grazie- dicesti tu- non abbiamo molto tempo, ma mi farebbe piacere che mia figlia ricordasse questa giornata non solo per la gita, ma anche per la sua cultura: frequenta il quinto ginnasio, sapete…"

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Il prete continuava come se non fosse stato interrotto. "Insomma qui avete di fronte un’enciclopedia! Questi simboli vengono da civiltà diverse. Bizantina: vedete là Alessandro Magno; francese-normanna, ecco re Artù. Araba, notate le scritte in arabo che ornano quei grandi corni che si chiamano olifanti; ed occidentale con la sua rappresentazione dell'inferno e del paradiso." Mentre il sacerdote parlava, noi lo seguivamo ed egli ci portò verso l'abside divisa in tre navate. Quella di sinistra rappresentava i tormenti dell'Inferno e la beatitudine del Paradiso. “Vedete che effetti terrificanti che esprimono questi peccatori e che sguardi estatici mostrano i beati! L’artista doveva essere un mezzo pagano! Non poteva immaginare che un Dio intollerante che si bea a distribuisce pene e premi. Avrete certamente notato le date in cui è stato steso il mosaico: sappiate che è stato completato esattamente un secolo prima della nascita di Dante, il sommo poeta! E’ noto che egli sentì parlare di questo mosaico lontano ed ogni volta che si metteva all’opera per la sua Commedia, non riusciva a procedere per la smania di conoscerlo. Un angelo, quindi, prese Dante tra le ali e lo condusse fin qui dove l'attendeva prete

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Pantaleo che lo aveva ideato e che ne conosceva tutti i sensi. Prete Pantaleo indicò ogni cosa al poeta che in tal modo ebbe l’autorità ed il sostegno del mosaico per affrontare la mole della Divina Commedia. Senza il mosaico di Otranto, la Commedia non esisterebbe. “ Fece un’altra pausa godendo dell’effetto che le sue parole sortivano in noi. Quindi riprese: Per me quello che conta è il senso anagogico e, poiché il mosaico si legge partendo dall’altare maggiore fin giù all’uscita, ebbene il senso anagogico dice che la salvezza è fuori dalla chiesa!” Il prete si fregò le mani e aveva una bella faccia furba e serena. Io non ero abbastanza addentro per capire la portata inquietante della conclusione della sua omelia e tu non abbastanza interessato. Infatti domandasti: "Cosa rappresenta quell'uomo mezzo nudo con il bastone a forma di tau che bussa e bussa alla porta del Paradiso?" "Ah ecco! Non per nulla si dice che la funzione di questo mosaico sia quella di uno specchio: l’attenzione di ciascuno si ferma sull’ immagine con cui più ci si identifica! E allora vi dirò che si tratta di Dismas, il buon ladrone.

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Pentitosi, è accolto in cielo, secondo la promessa di Cristo. Siete dunque un buon ladrone!” Il prete continuava a godere delle proprie parole e del nostro stupore e gli ci volle un po’ di tempo perché capisse la tua perplessità: “Non preoccupatevi: non vi sto dando del ladro perché debiti e crediti non sono quelli che intendono i commercianti.” Neanche questo sembrava averti tranquillizzato tanto che il prete si sentì in obbligo di aggiungere: “E soprattutto debiti e crediti non sono nei confronti di Dio, ma degli altri uomini! Dio, per sua intrinseca natura non è interessato a castigare. Forse, signore, non vi sembra giusta questa faciloneria di Dio al perdono?" Il prete rise sommessamente non so se su di noi o sulla faciloneria di Dio. Tu assentisti. "Riflettete bene: di fronte all’Infinito cosa volete che siano le nostre buone azioni? Scarabocchi che Lo inteneriscono come una mamma di fronte a quelli del suo bimbo. Ed il male che noi facciamo lo ha già messo in conto quando ci ha creato liberi. Vi assicuro che Lui è pazienza infinita perché aspetterà fino alla fine che, di generazione in generazione, l’uomo scopra la stupidità del male che ci procuriamo gli uni gli altri.

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Questa è la fede, fede nella pazienza di Lui! E per questa fede sono vissuti o sono morti tanti martiri sconosciuti o conosciuti come questi... seguitemi." Noi esitavamo per via dell’ora che incombeva. "Venite- insisté il parroco - vi mostrerò." Ci condusse ad un altare laterale: le teche erano tutte aperte ed egli si fece da parte aspettando, rispettosamente, la nostra reazione di fronte allo spettacolo del biancheggiare di decine di teschi e di ossa ammassate. "Sono i resti di circa ottocento persone di ogni età; i martiri che, presa Otranto dai turchi, non vollero abiurare la fede cristiana: la fede nella pazienza di Dio.” Rise nuovamente: "Guardate la pietra sotto l'altare. Vedete che ha una macchia scura al centro? E' la pietra su cui furono decapitati i martiri. Quella macchia è la traccia del loro sangue. Ora vi dirò la cosa più sorprendente. Lo stesso boia barbaresco, alla vista di tanta fede nella pazienza di Dio, abbandonò la sua fede in un dio intollerante, si fece cristiano all'istante ed affrontò il martirio. E volete che Dio non lo abbia accolto? Eppure le sue mani grondavano ancora del sangue delle sue vittime! Ma erano gli stessi martiri che Lo forzavano, se ce ne fosse stato bisogno, a mostrare fin dove giunge la Sua pazienza e, quindi, fin dove deve

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giungere la nostra che poi è l’altro nome del perdono. Nostro Signore lo ha simboleggiato con la sua morte e risurrezione. Pietrificati dal peccato possiamo riconquistare un cuore umano attraverso il perdono. E che ne sappiamo noi di quello che può passare nel cuore degli uomini più efferati? La condanna di molti di questi uomini terribili consisterà forse nel non poter chiedere il perdono alle loro vittime, nel tormento di non poter disfare il male compiuto. E gli altri, le vittime, perseverando nel loro rancore, nel compiacersi delle proprie ferite non si trasformano a loro volta in carnefici?" Il prete parlava con passione e con gioia e tu osservasti: "Ce n'è stata di sofferenza a questo mondo, in tutti i tempi!" Il prete si fece più vicino e ti toccò su una spalla: "Forse ora vorreste confessarvi?" Mio padre fece cenno di sì con la testa e accennò ad incamminarsi verso il confessionale, ma il prete si sedette su una panca e ci invitò a fare lo stesso. Dunque mi sarebbe toccato anche fare da testimone alla tua confessione? Mi sembrava che fosse lo stesso che volerti annusare le mani, di notte. Ma si trattò di una confessione in cui tu non

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parlasti. "Ascoltatemi, buon ladrone, la vostra colpa sta nel vantare crediti, mentre siete debitore! Che cosa aspettate ad azzerare i debiti e a condonare i crediti? Dopo vivrete in pace." Guardò l'inclinazione del sole: "Ora devo andare. Parlate di questa cattedrale, del mosaico, dei martiri, della fede nella pazienza di Dio." "Grazie, padre! Padre? Il vostro nome?" "Mi chiamo Pantaleo.- Sorrise vedendoci trasalire-Ah ma non sono quello. E' un nome molto diffuso in questa zona." Dopo che se ne fu andato compimmo un altro giro nel perimetro della cattedrale ed uscimmo nel sole così abbagliante da farci dimenticare che esso è soltanto una stella. Prendemmo una stradina al cui fondo brillava il mare. Ci sporgemmo dal parapetto lasciandoci bagnare dall’acqua delle onde che sbattevano contro i frangiflutti. In quel luogo, la bellezza e la signoria degli elementi era tale che male e odio apparivano remoti ed incomprensibili pesi. Quando salimmo sul treno mi lasciasti in uno scompartimento e fingesti che il lavoro di controllore ti assorbisse troppo per fare qualunque commento su quanto avevamo condiviso.

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Compimmo altri viaggi in giro per il Salento: il Salento accidioso come un gatto che si lecca al sole le sue belle forme. A volte qualche collega, che risiedeva in uno di quei paesetti, ci invitava a pranzo ed io conobbi famiglie normali senza cortei di zie che inquinavano la loro vita. Spesso ricevevamo regali in natura che variavano a seconda delle stagioni. Così tornammo a casa con rami di pesco e orecchiette fatte in casa, con pomodori e zucchine, con melanzane ed angurie, con fichi ed uva. Mamma sorrideva vedendoci arrivare con quelle innocenti regalie, ma le zie continuavano a mostrare noncuranza. Conoscemmo tanti preti di campagna con una passione erudita che ci fecero da guida tra le chiese rupestri. Ma uno come padre Pantaleo non lo ritrovammo più. Io cercai, come avevo fatto anni prima per il cinema, di darti una mano a convincere mamma a compiere qualche gita, assieme a te, in treno. Ma questa volta non la spuntammo. Prisca, nonostante le mie vivaci ed entusiastiche relazioni su Otranto e la sua cattedrale a cui aggiungevo, man mano che mi venivano in mente, particolari coloriti riguardanti le figure del mosaico, non si lasciò

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mai convincere. "Per ora non posso -replicava- c'è Miranda, la casa, il pranzo da preparare." Quello che mi colpiva era l'accorgermi che le sue non sembravano scuse, dovute a scrupoli, che accampava prima di concedersi quel piacere, ma appariva distratta, estraniata oramai dalla tua vita e dai tuoi interessi. Era forse un estremo lampo di protesta nei confronti del cambiamento di lavoro? Io, però, capivo anche lei: la morte prematura dei suoi genitori e le ristrettezze, dovute alla tua cattiva amministrazione, avevano creato in Prisca un grande bisogno di stabilità che quanto più tu eludevi, tanto più lei cercava, ritornandosene in seno alla famiglia d'origine. Da parte tua sfuggivi il clima sempre tanto pedante e pieno di rimbrotti, creato dalle zie, il loro trattarti con sufficienza, specialmente da quando eri diventato ferroviere, ferroviere della Sud-est! Per questo assieme al resto della famiglia ti trattenevi non più di una volta alla settimana, adducendo sempre i tuoi turni, i tuoi orari, la mensa. Un pomeriggio d’agosto, dopo la controra, Prisca, Miranda ed io sedevamo nel terrazzino ventilato annesso alla grande cucina. Estrella e Renata preparavano in cucina la limonata cosicché io mi misi a pensare al baronetto Francesco.

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Ma le zie ci chiamavano dentro: sul tavolo c’erano alcune scatoline. Scatole ricoperte di marocchino rosso con la chiusura a scatto: mi sarebbe piaciuto fare collezione di scatole simili. Erano scatoline da gioielleria dei primi del ‘900 teneramente usurate che conservavano della loro funzione un che di mollemente disfatto come di cuscini destinati a sostenere languidamente ogni voluttà. Parlò zia Estrella che oltre che l’uomo di casa era donna di mondo: “Ecco ragazze, -si rivolgeva a noi nipoti- abbiamo pensato che ora, che Cosetta sta per compiere diciotto anni e Miranda va per i dieci, sia venuto il momento per dividere tra voi due i gioielli della povera Naida. Siccome era la maggiore ebbe due catene d’oro della bisnonna materna, due bracciali da quella paterna; e due anelli: uno zaffiro e una fede di rubini!” Ci passava le scatole con i preziosi; il rosso delle catene rivelava la loro caratura; i bracciali semirigidi erano di fattura più moderna e poi gli anelli. Ecco che avevo di fronte il famoso zaffiro che il barone Francesco non aveva fatto in tempo a vedere sulla mano della morosa; e la fedina di rubini dell’”avvocato” morto combattendo con i franchisti. Di fronte a quei gioielli tacevamo affascinate un

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po’ per via della gazza che ogni donna ha in sé, in parte per l’alone magico che circonda un oggetto prezioso che attraversa il tempo. Io avevo più ragioni delle altre per tacere: ero intenzionata a non provocare più zia Estrella. Forse le parole di prete Pantaleo avevano ancora un effetto lenitivo. Forse ero troppo turbata nel vedere e toccare gli anelli di fidanzamento di zia Naida; anelli che per me facevano parte di una leggenda sontuosa a cui inaspettatamente, nella notte di veglia funebre, ero stata messa a parte. Quanto più Estrella aveva sorvolato sulla loro provenienza, tanto più dovevo dare credito al racconto della padrona del citrato che pure avevo sospettato di esagerazione. Zia Renata, intanto, giocherellava con il suo, un brillante, dono del cugino Alfonso, ed io pensai che anche quello avrebbe dovuto essere di zia Naida. Quasi che mi avesse letto nella mente, zia Renata disse: “Cara Cosetta, non te ne avrai a male se il mio brillante lo donerò a Miranda quando compirà diciotto anni: sono la sua madrina!” “Purché non ci dorma la sorte!” Mi sfuggì involontariamente come suggeritomi da qualcuno, ma subito mi corressi: “Certo, zia Renata! E’ giusto così perché Miranda è la tua figlioccia. Non preoccuparti per me.”

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Estrella non me la fece passare liscia: “Ma come parli? Che sciocchezza hai detto sulla sorte che dorme? Si sente che hai bazzicato per troppo tempo la bottega di donna Rirì: sono frasi da vecchia ignorante e superstiziosa. E sì che frequentando il liceo dovresti esserti liberata dalle sue scempiaggini così come hai fatto con Porfirio!” Mi tenni quella stoccata: capii che Prisca aveva raccontato alle zie la vera storia della fine di Porfirio. Le buon intenzioni iniziali erano svanite e anche i postumi della controra pacificatrice. Ora le zie erano sulle spine per via della mia uscita infelice che aveva smosso ricordi e dispetti. “Dunque.” Ricominciò Estrella. “Facciamo questa spartizione e non se ne parli più.” Mia mamma: “Tocca a Cosetta scegliere perché è la maggiore.” Estrella e Renata si scambiarono uno sguardo come se tra loro ci fosse un’intesa. I modi naturali di Prisca, invece, mi davano la certezza che lei era all’oscuro di gran parte del romanzo delle zie o, per lo meno, ignorasse come il terzo pretendente fosse stato sottratto a Naida per le macchinazioni di Estrella. “E sia!” concesse Estrella mentre teneva sott’occhio lo zaffiro dei baroni.

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“Se volete il mio consiglio di esperta di eleganza non ci vuole molto a capire che il rosso dona alle more; l’azzurro sta alle bionde. Io la vedo così: i rubini che sembrano chicchi di melagrana per grossezza e lucentezza,- guardate che intensità- staranno a pennello sulla carnagione ambrata di Cosetta! Non puoi negare, Prisca, che Cosetta ha i tuoi colori! E Miranda con la pelle chiara e gli occhi verdi di Palmiro si “accontenterà” dello zaffiro. Io la penso così. Però fate voi!” Zia Renata faceva di sì con la testa come un’alunna diligente. Prisca cominciava a capire che c’era sotto una qualche manovra per assegnare a Miranda l’anello con lo zaffiro e si rivolse a noi: “Voi cosa ne pensate, ragazze? Intanto ringraziate la generosità delle zie e dite una preghiera per l’anima di zia Naida.” “Non lo so.” Disse Miranda che per via dell’età era poco interessata. “Non lo so.” Dissi io che volevo lo zaffiro. Estrella si inalberò: “Allora via tutto! Rimettiamo tutto nei cassetti e ne riparleremo quando capirete il valore di questi gioielli che vi avevamo offerto. Tanto per i diciotto anni di Cosetta ci vogliono ancora mesi!” Così tumultuosamente si concluse quel pomeriggio di lasciti.

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Naturalmente fu una faccenda tra noi donne di cui tu non sapesti niente. O mi sbagliavo? Forse Prisca a letto ti avrebbe raccontato tutto, forse ti avrebbe confidato certi sospetti. Oppure eravate oramai troppo estraniati? Quando eri a casa raccontavi le notizie che raccattavi dalla provincia e che riguardavano la viabilità in enorme sviluppo in quegli anni; parlavi di strade regionali, di superstrade, di ponti, di sottopassi, del progetto di doppio binario tra Bari e Lecce. Parlavi anche dell'orario ferroviario: grazie alla tua versatilità matematica avevi elaborato un tuo piano che avrebbe permesso di migliorare il servizio della sud-est. Aspettavi l'occasione per farlo avere al dirigente. I tuoi discorsi suscitavano un tale interesse che zia Renata sospirava annoiata, alzando gli occhi al cielo, mentre zia Estrella faceva osservazioni a mezza voce con sarcasmo, senza mai guardarti apertamente e intramezzandole con altre sul cattivo funzionamento dello sciacquone del bagno o sulla serranda del salotto che si era bloccata, quasi a sminuirti ulteriormente. "Sì?" Davvero! Figuriamoci se il dirigente leggerà quelle scartoffie o le prenderà in considerazione. Ci vogliono fior di ingegneri per cose così."

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Quindi tu tacevi mortificato e non ti rimaneva che ingolfarti nel mangiare: visto che, almeno formalmente, ti trattavano da capofamiglia e ti servivano per primo i bocconi migliori, ti toglievano i piatti rapidamente da sotto il naso e mamma ti sbucciava la frutta. Tu, alla fine di quei rari pasti in famiglia, baciavi Miranda e ti rivolgevi a me dicendo in modo complice: "Mi raccomando, eh!" Salutavi le sorelle, compresa Prisca, che oramai era sorella più che moglie e scappavi a lavoro o a rinchiuderti nel tuo sgabuzzino. Quello era il tuo regno: mettevi fuori i quaderni e le schedine e ti immergevi nel sistema. Le domeniche libere le trascorrevi ad ascoltare la radiocronaca delle partite dalla nostra vecchia radio il cui occhio giallo mi ricordava le serate dell'infanzia e la scacchiera... Che fine aveva fatto? E subito mi ricordai anche della tovaglia a punto rinascimento tanto curata da mamma. L’aveva poi terminata e conservata? E se fosse accaduto come per il corredo di zia Naida? Ah ma quelle erano stupidaggini di una notte di veglia funebre. Forse Prisca l’aveva venduta a qualche cliente che era venuto chiedere i ricami di zia Naida.

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