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In Rivista di Estetica 11 n. 2, 1999, numero speciale sulla Percezione, a cura di Andrea Bianchi, pp. 17-38

Come si connettono parole e cose

Paolo Leonardi

Università di Bologna

All our simple ideas in their first appearance are deriv’d from simple

impressions, which are correspondent to them, and which they exactly represent.

D. Hume A Treatise of Human Nature.

Parole e cose sono connesse per mezzo del pensiero. Nell'opinione prevalente, il pensiero categorizzerebbe le cose, mentre le parole esprimerebbero i concetti che categorizzano le cose, i quali connetterebbero quelle a queste. Ma le parole possono anche essere connesse alle cose semplicemente aggiungendole a queste.

Come tutti sappiamo, le parole sono segni percepibili -- si sentono, si vedono o si toccano. Non si integrano però che in parte con gli altri elementi della scena, restando su un altro piano. In effetti, le parole non sono propriamente elementi della scena, ma piuttosto contrassegnano quegli elementi,1 siano essi oggetti o proprietà o relazioni,2 e questa caratteristica, ancora tutta percettiva, offre loro un ruolo cognitivo diverso da quello di categorizzare o esprimere categorizzazioni.3

Che le parole possano contrassegnare le cose, e così eventualmente identificarle, più che una tesi è un fatto, evidente e banale. Arrivo a un cocktail e mi presento: "Paolo", e gli altri si presentano a me: "Marco", "Anna", ecc. Al molo sono ormeggiate tre barche e quello che distingue quella a sinistra dalle altre due è il nome: a poppa infatti c'è scritto "Cocò". Sono diverso da Marco, intanto perché mi chiamo in modo diverso. Non cercherò quindi di argomentare che le cose stanno così, bensì di analizzare, con qualche esempio, appunto come i segni e le parole svolgano questo ruolo. Limitandomi alla percezione visiva, esporrò innanzitutto alcune cose sulla percezione che tutti sanno. Mi soffermerò poi

1 C'è qualche eccezione, come i testi, a cominciare dalle iscrizioni. Non fanno invece parte della scena

nello stesso senso degli altri elementi né le didascalie né i fumetti. 2 Chiamo "cosa" qualunque elemento di una scena. Sono cose quindi sia gli oggetti che le loro proprietà,

nonché le relazioni fra gli oggetti e gli aspetti di una scena. 3 Fino a circa il 1970 si diceva che le espressioni referenziali, compresi i nomi propri, sono connesse a

ciò cui si riferiscono per mezzo di concetti. Poi, è parso evidente a tutti che nessuno degli argomenti che sostenevano quella concezione regge, specialmente per le critiche mossegli nelle lezioni su Naming and Necessity che Saul Kripke tenne nel 1970. Ma la nuova dottrina, che David Kaplan chiamò del riferimento diretto e che è da allora divenuta lo standard, ha incontrata un'enorme resistenza. A mio avviso, questo è avvenuto perché non ha offerto alcuna spiegazione cognitiva alternativa di come nomi e cose siano connessi.

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sull'effetto che l'aggiunta di parole provoca in una scena percettiva che non ne conteneva. Poiché parlo di percezione visiva, considero quasi esclusivamente l'aggiunta di parole scritte, anche se i suoni e le parole dette sono contrassegni più efficienti sotto diversi seppure sotto non tutti gli aspetti, e come i gesti (o il riconoscimento puramente tattile di segni per Helen Keller) favoriscono un passo cognitivamente molto importante. C'è qualcosa di speciale nel modo in cui le parole cambiano una scena, ma fondamentalmente esse la cambiano in quanto segni: qualunque segno basta per contrassegnare una cosa, perché i segni sono tratti che interrompono la naturale continuità di una scena. I segni sono infatti oggetti davvero particolari, perché non hanno un corpo proprio, e quindi non sono autonomi e per essi una dimensione spaziale, la profondità, è irrilevante, tanto che spesso non ce l'hanno.4 Entrambe queste cose li fanno oggetti solo fino a un certo punto: i segni e le parole sono fin dall'origine oggetti con aspetti astratti e con aspetti concreti. Per concludere, accennerò alla specialità delle parole -- che sono segni che idealmente appaiono immediatamente tali -- e al rapporto che potrebbe esserci fra contrassegnare e categorizzare.

Mi limito alla percezione visiva perché è un caso più semplice, dove quanto sosterrò è più evidente; ma credo che considerazioni analoghe valgano anche per le altre modalità percettive. Certo elaborare considerazioni del genere lavorando, per esempio, solo sulla percezione uditiva, e dunque solo su oggetti ricostruiti uditivamente, è molto arduo.5 Mi limito a casi concreti, in cui cioè gli oggetti contrassegnati così come i segni sono percepibili. Volendo provare che le parole possono essere connesse a cose senza categorizzarle, limitarsi a questo caso è sufficiente. Nei casi astratti, la capacità delle parole di contrassegnare e identificare è, però, ancora più importante.

1. Percezione e oggetti.

Vediamo oggetti: in primo piano, in secondo, terzo piano, ecc., sullo sfondo. Scrive Kanizsa:

… quando apriamo gli occhi ci troviamo di fronte il nostro solito mondo formato di case, alberi, automobili, vediamo cioè oggetti e non rimane traccia di radiazioni, processi retinici, impulsi nervosi, sensazioni elementari…. (1980, p. 38)6

Questo accade tanto quando sappiamo che oggetti vediamo quanto quando non lo sappiamo. Se conosciamo gli oggetti della figura 1, non sapremmo dire invece che oggetti sono quelli nella figura 2, non sapremmo cioè categorizzarli se non genericamente come macchie nere, ritagli neri, ecc.

4 Anche se quando sono intagli la loro aggiunta è propriamente una sottrazione. 5 Ma cfr. Strawson 1959. 6 La tesi che percepiamo oggetti si ritrova anche in alcuni filosofi contemporanei, per esempio in Austin

1962 e in Strawson 1979.

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figura 1

da Kanizsa 1984, p. 20

figura 2

da Kanizsa 1984, p. 21

Kanizsa commenta la figura 2 così:

Il non essere di sicura interpretazione non impedisce a quegli oggetti visivi di essere quello che sono: forme nere su uno sfondo bianco ben delimitate da contorni netti. (1984, pp. 20-1)

Non vediamo solo oggetti. Per esempio, vediamo anche ombre e coni di luce, e vediamo sfondi aperti, cioè senza contorni dotati di forma, senza una vera dimensione e senza proprietà dinamiche percepibili, come il cielo. Ma vediamo sempre oggetti -- che sono, inoltre, l'unica cosa che tocchiamo. Perché gli oggetti sono rendimenti, ovvero risultati percettivi, e cosa sono gli oggetti?7 Il rendimento percettivo è il risultato di un flusso di radiazioni che attivano sempre nuovi processi retinici, producendo nuovi impulsi nervosi e nuove sensazioni elementari, ed è un risultato costruito su aspetti relazionali e differenziali, in cui il movimento ha un'importanza centrale. Vediamo perché i nostri occhi si muovono, perché ci muoviamo e perché le cose si muovono. Nel movimento non solo possiamo mettere in relazione più cose, ma ci sono cose, complessi di proprietà, che si muovono solidalmente nel campo percettivo -- gli oggetti. Un oggetto ha speciali proprietà dinamiche, perché si muove solidalmente, alterando più o meno tutte le sue relazioni con le altre cose, sia con quelle che al pari di esso costituiscono dei complessi di proprietà sia con quelle che non lo fanno. Un oggetto ha un contorno, che è un luogo ad alta differenzialità, con proprietà appunto più solidali da un lato del contorno -- per esempio, in una sequenza di movimento tutte le proprietà da un lato del contorno restano insieme, in particolare ciò che è da quel lato non viene separato o coperto, o viene successivamente coperto tutto (magari per ricomparire al di là dell'ostacolo) a meno di un'interruzione del movimento stesso. Un oggetto ha costanza -- di

7 Se gli oggetti sono rendimenti percettivi, oggetto non è una categoria percettiva, perché non è che

guardiamo e giudichiamo se qualcosa è o no un oggetto, ma vediamo se vediamo oggetti.

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dimensioni, di forma, di colore e illuminazione. Questa è un risultato relazionale e differenziale. La costanza di dimensioni è da un lato frutto di alcuni indici strutturali di distanza, perché il campo percettivo ha una tessitura più fitta verso l'orizzonte, quindi ciò che è là dove la tessitura è più fitta è più lontano e va assieme; d'altro lato quando vediamo oggetti a una certa distanza ne valutiamo la grandezza relativamente a oggetti di dimensioni note ad essi abbastanza vicini, ovvero attraverso le dimensioni di oggetti vicini dello stesso genere di qualcuno di quelli lontani, oltre al fatto che ci sono oggetti che avviciniamo e allontaniamo in continuazione, come le nostre mani, che ci offrono naturalmente un'unità di misura di grandezza in relazione al variare dell'angolo visivo. La caratterizzazione degli oggetti come distinti dall'avere un contorno dotato di forma, costanza e specifiche proprietà dinamiche è di Koffka 1935.8 Gli oggetti insomma raggruppano elementi diversi per prossimità, similarità, orientamento, o per proprietà dinamiche, ecc.

Se ci fosse un'equa distribuzione di proprietà, per esempio se tutto fosse giallo, o se tutto non si muovesse, o se tutto si muovesse uniformemente, ecc., non percepiremmo niente.9 Ma anche percepire un'iniqua e casuale distribuzione di proprietà sarebbe un problema. In effetti, percepire oggetti è molto di più che percepire un'iniqua distribuzione di proprietà. La tensione fra la strutturazione relazionale della percezione e quella differenziale sembra proprio andare insieme alla percezione di oggetti, cioè di cose che strutturano (mettono localmente insieme e in relazione) diverse proprietà, e i cui contorni costituiscono naturali luoghi di discontinuità fra strutturazioni diverse. Gli oggetti sono luoghi di accumulo di somiglianze e i loro contorni luoghi di accumulo di differenze, innanzitutto dinamiche, come abbiamo appena visto. La strutturazione relazionale e quella differenziale ben si accordano con l'importanza del movimento, che aumenta la possibilità di mettere in relazione, o di scartare relazioni, così come di cogliere differenze.

Discernere oggetti dunque dà origine alla percezione --10 si parla spesso di organizzazione percettiva, di strutture percettive, ecc.: l'oggetto è ciò che dà un corpo a questa organizzazione e a questa struttura. Del flusso percettivo peraltro non siamo consapevoli anche se ad alcuni elementi di esso riusciamo a fare attenzione quando ci sono problemi, ovvero quando non riusciamo a organizzare

8 Capitolo VI. Sulla nozione di costanza di colore cfr. Koffka 1935: 240 e sgg. Sulla nozione di tessitura e

sul gradiente che la misura, cfr. Gibson 1979: 161 e sgg. 9 Cfr. l'esperimento del Ganzfeld di Metzger, in cui il sistema visivo viene stimolato da un campo totale

omogeneamente illuminato in cui tutto l'orizzonte è occupato da un materiale traslucido. In queste condizioni si ha una forma di cecità (si vede solo una nebbia con una certa profondità) e non si è in grado di giudicare neppure l'intensità luminosa effettiva.

L'esperimento di Metzger mostra che non si percepisce un campo che sia caratterizzato dall'equa distribuzione di una proprietà (l'illuminazione). Non ha ovviamente senso l'idea che le proprietà possano essere tutte equamente distribuite in ogni porzione dello spazio e del tempo. Un controesempio immediato sono la proprietà di riflettere una certa onda luminosa e quella di riflettere un'altra onda luminosa, cioè la possibilità che una stessa porzione di spazio ci si presenti con un colore e con un altro colore a un tempo.

10 Seppure siano un risultato percettivo, gli oggetti sono ciò che innanzitutto percepiamo.

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quello che vediamo, e anche se ad altri elementi riusciamo a fare attenzione dopo un addestramento specifico. Ci sono oggetti che cogliamo, per quanto da una certa prospettiva, quasi in un colpo d'occhio, e ci sono oggetti, come i manufatti architettonici, i palazzi per esempio, che ricostruiamo come oggetti organizzando non gli elementi di un'esperienza ma una serie di esperienze (come avviene anche nel riconoscimento tattile di un oggetto).11

Volendo definire che cos'è un oggetto, si potrebbe allora dire che esso è un'organizzazione particolare di proprietà.

Non farò gli esempi che servirebbero per mostrare passo passo l'organizzazione del flusso percettivo, che si trovano presentati molto bene in alcuni libri di psicologia della percezione come Grammatica del vedere di Kanizsa o gli altri, di Gibson, Kanizsa e Massironi, che cito in bibliografia. Mi accontenterò di qualche breve commento su alcune figure.12

Prendiamo una figura molto complessa, che essendo un'immagine realistica, anche se artefatta, ci presenta alcuni problemi percettivi standard. Nella figura 3, vediamo un tavolo coperto da una tovaglia, anche se non ne vediamo che due parti, per di più separate fra loro, perché persone e altri oggetti lo nascondono largamente alla vista. Nella scena il tavolo non è l'unico oggetto, anzi oltre a luce e ombra ci sono solo oggetti, perché siamo in un interno e anche lo sfondo, la stanza, è un oggetto -- un manufatto architettonico.13

figura 3

11 Devo questa osservazione a Marcello Frixione, che così mi ha fatto prendere un po’ le distanze dai

percettologi italiani, come Kanizsa, per considerare posizioni come quella di Gibson. I percettologi italiani si sono concentrati soprattutto su figure piane che a differenza degli oggetti normali non hanno, rispetto a quello che si vede, né lati né un retro congruenti. Come dice Kevin Mulligan, i percettologi italiani non si sono mai davvero interessati alla percezione in situazioni reali.

12 Una figura è semioticamente un segno, ma qui me ne servirò sempre vicariamente per gli oggetti che ritrae come se fosse questi oggetti stessi.

13 La luce e l'ombra indicano uno spazio che non è pieno o meglio che è riempito da un mezzo trasparente.

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J. Vermeer: Ragazza interrotta durante la musica

L'orientamento dello spigolo frontale del tavolo, che è enfatizzato dalla luce che cade su di esso, la copertura con una stessa tovaglia, ovvero la similarità della copertura, l'altro spigolo che vediamo, quello laterale destro, ecc., sono ciò che contribuisce a costruire la "scena con tavolo", che sistema

figura 4

Il triangolo di Kanizsa

da Kanizsa 1980, p. 274

sul tavolo alcuni oggetti -- il bicchiere, la bottiglia, il quaderno di musica, lo strumento a corde -- e davanti e dietro al tavolo altri oggetti -- sedie, cuscino, la donna, l'uomo. Tutto questo avviene naturalmente, anche se non essendo affatto ingenui, categorizziamo il tavolo come tavolo, il quaderno di musica come quaderno di musica, ecc. Se provassimo a pensare alle due parti di tavolo che vediamo come a due oggetti distinti o a parti di oggetti distinti, non riusciremmo non solo a capire di che oggetti si tratta (questo non sarebbe un grosso problema considerato quanto s'è detto della figura 2) ma soprattutto negheremmo i dati percettivi dell'identità di orientamento dello spigolo frontale, della coerenza dei due spigoli e dell'identità di copertura. Sarebbe come provare a vedere un viso come due mezzi visi accostati, cosa che non è possibile neppure quando le due parti di un viso, quella destra e quella sinistra, sono separate perché qualche ostacolo si frappone fra noi e il viso e copre una parte di questo.

Quando si dice che vediamo oggetti, non si intende suggerire che vediamo oggetti che ci sono realmente, ma che organizziamo la nostra percezione come percezione di oggetti. In effetti, vediamo anche oggetti che non ci sono, come il famoso triangolo di Kanizsa, figura 4, che ci appare come un triangolo che si sovrappone in parte a tre dischi neri identici e a un triangolo bianco con contorno nero. Il triangolo di Kanizsa ci sembra addirittura più luminoso, più bianco, di

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quello che ci sembra essere uno sfondo bianco intorno ad esso (nonché del bianco del triangolo con contorno nero cui esso sembra sovrapporsi).14

Così come possiamo vedere oggetti che non ci sono, l'organizzazione in oggetti della percezione può celarci oggetti che ci sono. Nella figura 5a vediamo un cerchio con tante corde orizzontali parallele l'una all'altra a eguale distanza fra loro, e inoltre due corde oblique, uguali, che si dipartono in direzione opposta dal punto più alto del cerchio. La base del triangolo, che pure c'è (è una delle tante corde orizzontali), sparisce perché l'organizzazione a cerchio riempito da corde orizzontali a eguale distanza l'una dall'altra risulta migliore. La similarità delle corde e il loro "ritmo" -- il loro numero, e l'uguale distanza fra esse -- prevalgono sulla differenza, almeno di orientamento, fra i lati del triangolo, per cui la base risulta assimilata e coinvolta nel ritmo delle corde. Se si riduce il numero delle corde, aumentando di conseguenza la distanza fra esse, a un certo punto il triangolo appare, come si può vedere nella figura 5b.

Dire che un oggetto c'è o meno non è una questione percettiva, ma un giudizio. Sottolineare che la percezione ci mostra oggetti senza decidere della loro esistenza è importante per la mia tesi che lega la funzione cognitiva di alcune parole, i nomi, a ciò che percepiamo piuttosto che ai giudizi. Quando dico che un oggetto c'è o non c'è intendo dire che l'oggetto che vediamo manca, o potrebbe mancare, di alcune caratteristiche proprie degli oggetti percettivi -- non ha contorni, non ha certe proprietà dinamiche, ecc. -- o viceversa le ha, anche se a prima vista ci sembra il contrario. Completiamo amodalmente, «cioè senza gli attributi cromatici della modalità visiva», il contorno del triangolo di Kanizsa e non cogliamo tutto il contorno del triangolo di Galli e Zama.

Comunque, test percettivi possono discriminare fra oggetti che ci sono e oggetti che non ci sono. Per esempio, costruiamo il triangolo di Kanizsa servendoci delle sei parti nere (tre cerchi incompleti e tre angoli) e collocando queste ultime opportunamente su uno sfondo bianco. Possiamo allora smontare la figura muovendo le parti nere senza muovere e senza che resti alcun triangolo bianco. Oppure, se costruiamo il triangolo della figura 5a come una figura sovrapponibile al cerchio con le corde parallele, e giriamo il triangolo, lo vediamo senza

14 Nel triangolo di Kanizsa non è così importante il fatto che sia disegnato su un foglio bianco. Se

disegniamo la figura su un disegno o una fotografia, il triangolo diventa trasparente ma il suo effetto si nota perché sembra un mirino che inquadra qualcosa nella figura sottostante cosa che viene marcata appunto dall'effetto triangolo di Kanizsa; cfr. la figura 4n.

figura 4n

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esitazione, come un secondo oggetto trasparente sovrapposto al cerchio con le corde.

figura 5

triangoli di Galli e Zama da Kanizsa 1984, p. 164

figura 6

Quando dico che vediamo oggetti indipendentemente dal saperli categorizzare, non voglio suggerire che quando li sappiamo categorizzare li vediamo innocentemente e interpretiamo ciò che vediamo innocentemente. Chi non conosce l'alfabeto latino vede, nella figura 6, un semicerchio e un angolo con un punto in comune (anche quando non conosca la geometria). Ma chi conosce l'alfabeto latino vede una R, e solo riflettendoci su vede il semicerchio e l’angolo con un punto in comune.

Così come naturalmente vediamo nella figura 7a un gruppo di barrette e nella figura 7b ne vediamo due, nella figura 8a vediamo una catena di segni, e nella figura 8b ne vediamo due. Ma se conosciamo l'italiano e sappiamo leggere nella figura 8a vediamo (leggiamo) una parola e nella figura 8b ne vediamo (leggiamo) due.

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⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐ figura 7a

⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐ ⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐⏐ figura 7b

velocemente v e l o c e m e n t e

v e l o c e m e n t e figura 8a

v e l o c e m e n t e v e l o c e m e n t e

figura 8b

Come mostrano le figure 6 e 8, le lettere e le parole scritte sono oggetti percepibili che funzionano come tutti gli altri, anche se, com'è il caso con la R, l'introduzione dell'alfabeto può rendere una buona forma qualcosa che non era tale prima di quell'introduzione.

2. Percepire oggetti e percepire segni.

Veniamo adesso a come l'introduzione di segni, e di parole, modifica una scena. Nella figura 9a vediamo una foto di tre signori nell'area d'angolo antistante una villa, che si distinguono perché uno di essi, quello che fuma la pipa, è un po’ discosto dagli altri due e non sembra coinvolto nel loro discorso, anzi pare guardare verso chi prende la foto e dunque rendersi conto di essere fotografato, mentre gli altri due sono intenti a parlare tra loro -- quello che guarda in basso ascolta e quello di

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figure 9a,b, c e d

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schiena parla, come si può arguire dal fatto che chi parla gesticola, e si può immaginare che il discorso sia difficile perché chi ascolta anziché guardare chi parla è assorto e guarda in basso.

Se però introduciamo un segno, per esempio il segno P, e lo posizioniamo su uno dei tre signori, non modifichiamo percettivamente il signore che contrassegniamo in questo modo. Vediamo il segno proprio per quello che è: qualcosa di apposto sul signore più a destra. Se invece di limitarci a un segno del genere scriviamo un nome, "Bruno de Finetti", otteniamo lo stesso effetto.15

Possiamo apporre un segno o una parola su qualunque oggetto, naturalmente, e non su un solo oggetto, ma anche su tutti gli oggetti di un certo tipo presenti sulla scena. Possiamo tracciare un segno, questa volta P, o scrivere "finestra dipinta", sulla ultima finestra dipinta a destra nella foto, ma possiamo anche porre quello stesso segno su ciascuna delle finestre, come nella figura 9d. E

figura 10

figura 11

possiamo apporre lo stesso segno su oggetti diversi e segni diversi su oggetti diversi o meno.

Una caratteristica dei segni, cui accennavo in apertura, è che essi non si integrano nella scena: non contribuiscono a costituire un oggetto che prima non c'era, né sono propriamente un oggetto in più sulla scena -- nella figura 9b il segno P non è un oggetto in più davanti alla villa, e non lo sarebbe neppure se fosse stato dipinto proprio sulla giacca di de Finetti; esso resta un segno apposto sulla fotografia e avrebbe potuto essere un segno apposto sulla giacca di de Finetti (come per altro accade nella figura 13, più avanti). Un segno può aggiungersi e contribuire a costruire un oggetto, mutando per esempio un oggetto in un altro, solo in pochi casi. Può farlo, per esempio, in un disegno a tratto, dove l'aggiunta di qualche tratto può modificare un oggetto in un altro. Così si può modificare un

15 Assumendo alcune convenzioni grafiche, l'effetto può essere raggiunto anche posizionando il segno o

il nome fuori della fotografia a mo' di didascalia indicale, cioè a mo' di didascalia posizionata in linea con l'individuo nella foto che si vuole contrassegnare.

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bicchiere in una tazza, oppure un cerchio o una palla in un viso, come rispettivamente nella figura 10 e nella figura 11. In questo caso il segno per così dire scompare nella scena, che diventa un'altra

figura 12

scena. Dei tratti possono integrarsi in un dipinto, come avviene nella figura 12 dove sul tavolo della figura 3 è stato aggiunto non un segno P o un segno O, ma un ulteriore bicchiere, dietro quello che c'era già.

Ma questo, come abbiamo visto, non succede quando la figura cui aggiungiamo un tratto non è a sua volta una figura a tratto o un dipinto, e ciò è meno evidente nei miei esempi di quanto non lo sia nei contesti normali perché comunque ho mostrato solo immagini bidimensionali, a tratto, o dipinti o fotografie (e anche queste, come tutti sanno, possono essere truccate). In un contesto normale, diverso da quello della pagina, il tratto ha la peculiarità di essere un oggetto imperfetto, perché non ha un corpo proprio, e dunque non ha proprietà dinamiche proprie, ma solo le proprietà dinamiche dell'oggetto cui è apposto, come mostra la figura 13, dove la piega nella scritta sulla maglia dipende da come questa casca sul torace del giocatore e da come la postura di questi torce la maglia.

L'aver a che fare qui solo con immagini su foglio, e l'aver aggiunto ad esse, tranne che nell'ultima figura, segni o parole a tratto nasconde una cosa importante nel nostro cogliere oggetti in situazioni normali. Ho sempre apposto il tratto sulla pagina e non sull'oggetto rappresentato nella pagina. Questo aiuta a vedere i segni su un altro piano, perché sono in effetti su un altro piano rispetto agli altri oggetti nella scena. Ma la cose invero non cambiano se segni e parole sono apposti direttamente sugli oggetti, per esempio, prima di rappresentarli sulla pagina per mezzo di una riproduzione fotografica. Anche in questo caso il segno

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e la parola non si integrano con l'oggetto cui sono apposti, e anche in questo caso, naturalmente, non hanno un corpo proprio -- le loro pieghe sono le pieghe delle maglie su cui sono apposti o dipendono dalla torsione dei corpi delle persone che indossano quelle maglie, come si vede nella figura 13.

figura 13

dal Guerin Sportivo (1999, 86, n. 16) p. 68

Insomma, la parola o il segno sono artefatti che percepiamo, ma che da un lato non si integrano con la scena percepita, nel senso che non contribuiscono alla costruzione degli oggetti che la costituiscono, e d'altro lato si aggiungono ad essa, perché sono percepibili come gli altri oggetti.

3. Oggetti, proprietà e apposizione di segni o parole.

L'organizzazione percettiva del campo visivo ci presenta oggetti, sfondi, ombre e coni di luce, e dunque vediamo innanzitutto oggetti, sfondi ecc. Ma se percepiamo oggetti è perché percepiamo una non equa distribuzione di proprietà, che cogliamo distinte. Inoltre, non percepiamo evidentemente singoli oggetti ma un oggetto o più oggetti su uno sfondo, e talvolta alcuni oggetti costituiscono dei complessi che vediamo come tali, com'è nel caso con i due gruppi di barrette della figura 7b, o che addirittura costituiscono insieme un unico oggetto, com’è nel caso dei vari elementi della figura 14.

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figura 14

da Kanizsa 1980, p. 109

Spesso cioè percepiamo oggetti perché percepiamo relazioni diverse fra oggetti, le barrette a sinistra e quelle a destra hanno fra loro relazioni diverse da quelle che hanno con le barrette dell'altro gruppo. Ma anche oggetti che non percepiamo come un assemblaggio di oggetti possono trasformarsi percettivamente in pluralità di oggetti, come accadrebbe se allontanassimo fra loro i diversi elementi della figura 14 lungo la direzione della diagonale angolo in basso a sinistra angolo in alto a destra. Così come oggetti in cui non cogliamo parti potrebbero scindersi, per esempio un vaso cade e va in frantumi -- allora vedremmo i pezzi come singole unità, come a loro volta oggetti.

figura 15

per gentile concessione di Paolo Bozzi

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Insomma, il privilegiamento degli oggetti nel rendimento percettivo non comporta nessun disconoscimento della percezione di proprietà e relazioni, anche se per vedere proprietà e relazioni bisogna soffermarsi sul rendimento percettivo, oppure bisogna che il rendimento percettivo sia problematico. Questo privilegiamento non comporta quindi alcun atomismo, neppure percettivo, anche se ci mette davanti delle unità, gli oggetti appunto.

Se ci soffermiamo per un po' o in circostanze meno ovvie, possiamo individuare e contrassegnare anche pluralità, come nella figura 9d, o proprietà, come nella figura 15.16 Per esempio, in quest'ultima figura, ancora una figura da laboratorio, possiamo inconfondibilmente contrassegnare la proprietà rettangolo, o quella grigio apponendo la parola "rettangolo" su quattro dei rettangoli della figura, uno dei quali sia un rettangolo grigio chiaro, e la parola "grigio chiaro" su tre rettangoli grigi, senza che i due gruppi costituiscano percettivamente in nessun senso un individuo, senza cioè in nessun modo contrassegnare un particolare collettivo o un insieme di individui o di oggetti specificato da una proprietà, come potrebbe accadere se ogni membro di un gruppo musicale o sportivo indossasse una maglia con su scritto il nome del complesso o della squadra.17

4. Segni e attenzione.

a. Prender nota.

Ma cosa cambia esattamente in una scena con l'introduzione dei segni? Se i segni e le parole si percepiscono ma non si integrano nella scena percettiva, costituiscono in essa delle discontinuità se non delle rotture -- per così dire, coprono ciò che vediamo. Quest'effetto percettivo ha delle conseguenze su un piano contiguo a quello della percezione, il piano dell'attenzione. Normalmente, attendiamo a quello che è il nostro campo percettivo, un cono di circa 180° con il nostro naso più o meno come centro -- questo genere di attenzione si chiama attenzione spaziale. L'aggiungere un segno o una parola in una scena ha due effetti entrambi percettivi che hanno conseguenze immediate sul piano dell'attenzione: uno, il campo visivo viene ricentrato su ciò su cui il segno o la parola sono stati aggiunti, che giaceranno a questo punto più o meno sulla verticale del cono del campo visivo, che la farà focalizzare sulla parte centrale della retina, che è più discriminativa; due, il segno o la parola ci fanno concentrare lo sguardo su quella parte del campo visivo che costituisce un intorno percettivamente compiuto del luogo in cui si trovano il segno o la parola, selezionando così quella parte fra tutte. Questo concentrare lo sguardo è un compito di attenzione selettiva, una specializzazione dell'attenzione. Per tutto questo, e perché il rendimento percettivo ci presenta oggetti, coni di luce e

16 La figura illustra l'effetto White, cioè l'apparente maggior luminanza di figure che hanno la stessa

luminanza a seconda che esse siano in un contesto più scuro o più chiaro -- la luminanza essendo la quantità di luce emessa o riflessa da una superficie in rapporto all'area luminosa utile.

17 La cosiddetta ambiguità dell'ostensione che Wittgenstein discute nelle prime sezioni delle Ricerche filosofiche scompare quando si rifletta sul fatto che l'organizzazione fondamentale della percezione è per oggetti, e dunque questi sono per default gli oggetti indicati. Ma in contesti particolari, come quello indicato nel testo, o servendosi del nome di proprietà proprietà è possibile indicare inequivocamente una proprietà.

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ombre, e siccome la luce e l'ombra sono fenomeni raramente caratteristici, non mancando in alcuna scena, dirò che l'apporre un segno o una parola in una scena individua ossia contrassegna, per default, l'oggetto che occupa quella parte della scena. Un oggetto è quindi individuato senza che siano individuate con ciò le proprietà e le relazioni che lo distinguono.

Già il movimento con cui apponiamo il segno o la parola attira lo sguardo su quel settore del campo percettivo in cui avviene il movimento -- in effetti, troviamo salienti in una scena le cose che si muovono, perché il movimento è percettivamente fondamentale in quanto impone una ristrutturazione del campo. (Così, troviamo più salienti le cose che ci aspettiamo che si muovano o le cose che dovrebbero muoversi e non lo fanno.) Ma l'apporre un segno o una parola ha un effetto ulteriore sull'attenzione selettiva, che consiste nel fissarla, nell'offrirle un appoggio stabile. La discontinuità del segno in una scena che non ne contenga altri consente di mantenere l'attenzione là dove esso si trova. La sua oggettività lo rende rilevante per noi come per gli altri, e quindi se esso fissa la nostra attenzione, richiama anche quella altrui, come conferma o estensione di un precedente interesse o di una precedente attenzione. Il contrassegno attirerebbe la nostra attenzione come quella altrui anche se fosse stato apposto per caso (cioè, senza che ci si rendesse conto che si apponeva un contrassegno).

Riassumendo, parole e segni manipolano una scena rendendo possibile innanzitutto il governo dell'attenzione, e inoltre permettendo (o meglio, rendendo altamente probabile) di prendere nota delle cose cui sono apposti.

Fin qui ho parlato unicamente di segni visibili e di parole scritte. Quando ci si serve degli uni o delle altre, la memoria del contrassegno è affidata all'inchiostro o al colore, all'incisione o all'intaglio. Ora, un segno verbale, una parola detta, sono attentivamente più efficaci e a un tempo più complessi. È più difficile apporre un suono, e dunque una parola detta -- tranne quando si introduce se stessi (quando mi presento: "Paolo") --, si appone una parola infatti usando una tecnica posturale, pronunciandola mentre si tiene in mano, o si tocca, un oggetto, o facendo un gesto dimostrativo rivolto ad esso stando vicini all'oggetto, anche se presto si impara a indicare da una certa distanza, magari solo con lo sguardo, e a manipolare l'oggetto insomma solo metaforicamente. Inoltre, il suono presto svanisce.18 Ma proprio a questo è connessa una caratteristica cognitiva peculiare delle parole dette: il ricordo del segno detto non è affidato come nel caso di quello scritto all'oggetto contrassegnato, bensì alla memoria di chi ascolta e ha la capacità di riprodurlo. I segni sonori sono dunque cognitivamente subito a disposizione del soggetto per essere riprodotti o ricordati e così rifissare la sua attenzione sull'oggetto in occasioni pubbliche e private o solo nella memoria. Il lungo e precoce addestramento, con cui il bambino impara a capire suoni e a

18 Nominare le cose è una pratica cui siamo introdotti nella prima infanzia dai giochi ostensivi cari ad

Agostino (che riescono grazie alla combinazione fra struttura oggettuale della percezione e meccanismo diell'attenzione selettiva).

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riprodurli -- emette suoni, gli adulti li ripetono, ripete suoni degli adulti, gli adulti li ripetono ancora -- sembra appropriato a questa loro funzione fondamentale.19 20

Questo mi sembra possa essere il ruolo cognitivo dei segni e delle parole: uno strumento percettivo di governo dell'attenzione che essi dirigono su oggetti o più in generale su cose, senza bisogno di categorizzare né gli uni né le altre, perché in origine non descrivono i tratti di oggetti e cose ma ne sono un tratto aggiunto.

b. Tener nota.

Governando l'attenzione con l'introduzione, magari fortuita, di un elemento artificiale nella situazione, diventano possibili cose che prima non lo erano. Una volta presa nota di un oggetto, si può tenerne nota. I segni e le parole, come ho appena detto, sono un mezzo non solo per fissare l'attenzione su un oggetto, ma anche per rifissarvela, come un tratto artificiale di esso che possiamo produrre e riprodurre liberamente, senza per altro impegnare in questo tutta la nostra attenzione. Evidentemente, percepiamo e abbiamo in memoria molte più informazioni di quante ne riusciamo a controllare consapevolmente. Riconosciamo senza esitazione voci e volti, e ci aspettiamo che vada così, quando per esempio ci aspettiamo di essere riconosciuti al telefono solo grazie alla nostra voce (dicendo "Sono io"), o che qualcuno ci saluti solo perché ci vede, pur senza essere in grado di dire com'è fatta la voce che riconosce, senza essere in grado di imitarla, senza essere capace di dire di che sfumatura di colore sono gli occhi o com'è l'attaccatura dei capelli, o come sono fatte le orecchie, come corruga la fronte, ecc. Se dico "Cerco Anna", riesco ad attivare per me e per gli altri tutte quelle informazioni inaccessibili alla coscienza che normalmente ci portano a ritrovarla anche in mezzo alla folla. Come ho cercato di mostrare, nel fissare l'attenzione i segni riescono perché creano una rottura minima nella situazione in cui vengono introdotti, e successivamente funzionano, perché richiamano l'attenzione sfruttando una strutturazione naturale dell'informazione. Essi riescono inoltre a rifissare l'attenzione perché ne occupano per se stessi una parte minima, permettendoci di dedicare il resto dell'attenzione a ciò cui ci rimandano e ad altro ancora.

I segni e le parole sono insomma un mezzo semplicissimo per richiamare l'attenzione sull'oggetto di cui si è presa nota, anche quando questo non è disponibile (non è a mano, non c'è più, ecc.), oltre che un mezzo semplicissimo da riprodurre perché artificiale da sempre, e, se pure con molte precisazioni, praticamente disponibile ovunque in quantità illimitate (naturalmente tenendo conto che ciascuno di noi passa attraverso un addestramento specifico perché ciò sia possibile, come ho appena accennato a proposito della nostra capacità di

19 L'effetto dei contrassegni sulla memoria lo si può apprezzare osservando quanto è più facile ricordare

particolari di una cosa di cui si conosce il nome, che di una di cui non lo si sa. 20 Non mi pare ci siano elementi di principio per immaginare che, il parlare sia un modo di

contrassegnare che preceda il segno scritto. Ma la differenza cognitiva fra i due sistemi mi sembra chiara. Uno porta distanza, l'altro garantisce memoria collettiva e in questo modo e in un altro senso dunque distanza. In sé, in ogni modo, si tratta di due procedure alternative e indipendenti, che soltanto la nostra abitudine alla scrittura alfabetica ci induce a pensare in stretta corrispondenza. Vedi Barthes 1994.

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emettere parole e riconoscerle). Altri sistemi artificiali sono evidentemente meno efficienti e hanno costi maggiori. Come suggerisce ironicamente Swift, si potrebbero usare gli oggetti stessi invece delle parole, ma evidentemente questo renderebbe impossibile rivolgere l'attenzione a ciò che non è disponibile, e ciascuno di noi potrebbe attendere solo alle proprie collezioni di oggetti. Oppure si potrebbe avere una collezione di riproduzioni, modellini, statuine, disegni, fotografie ecc. Ovviamente, anche in questo caso non si potrebbe prestare attenzione a ciò di cui non si avesse una riproduzione. Comunque, per organizzare l'una come l'altra collezione sarebbe utile (o indispensabile) a un certo punto fare un catalogo, che però non potrebbe certo essere fatto né con gli oggetti stessi, né con riproduzioni più piccole, modellini, disegni, fotografie, ecc. Sarebbe infatti molto arduo o addirittura impossibile mostrare, per esempio, con modellini, disegni e foto dove si trovano un modellino, un disegno, una foto e ciò che essi ritraggono.

Se il segno o la parola sono tratti artificiali dell'oggetto che contraddistinguono, una loro copia è una traccia artificiale dell'oggetto, e dunque qualcosa che richiama l'oggetto stesso.21

c. L'intenzionalità.

Questo abbozzo suggerisce una ricostruzione non standard dell'intenzionalità. Intesa come l'essere diretto a qualcosa, l'intenzionalità era considerata da Brentano la capacità distintiva della mente, che sarebbe sempre diretta a un oggetto, che siccome talvolta non esiste sarebbe un oggetto interno, una rappresentazione mentale.22 Oggi, la questione dell'intenzionalità viene formulata evitando ogni dualismo così: come una parte del mondo fisico può significare un'altra parte di esso, come cioè può la prima essere intorno, vertere, sulla seconda?

Qui ho presentato la percezione come una capacità cognitiva indipendente dal pensiero, il cui risultato fondamentale è la presentazione di oggetti. Ho poi descritto un nostro intervento su ciò che percepiamo, l'apporre segni alle cose, e che effetto ha questo intervento, specificatamente nella strutturazione e fissazione dell'attenzione, e quindi nella sua rifissazione. Un segno, o un segno speciale come una parola, viene così a significare una cosa, a vertere su di essa. Non credo che ci sia intenzionalità fino a che non c'è rifissazione, e credo che questo quadro illustri molto sommariamente i passaggi, tra natura e caso, che ci possono portare a intenzionare una cosa, cioè a fissare volutamente la nostra attenzione su qualcosa prossima a noi o a rifissarla sempre volutamente su qualcosa che ricordiamo. In tutto questo l'intenzionalità non è mai assunta come primitiva ma è un'abilità che emerge da altre, la percezione e l'attenzione.

21 Donnellan parla di richiamare l'attenzione su un oggetto, Jacobson 1979 parla del significato di

un'espressione come rinvio all'oggetto. Combinando le due cose, come forse sono combinate in Donnellan 1966 e 1968, abbiamo sia il prender che il tener nota di un oggetto.

22 Cfr., per esempio, Husserl 1900, I, 13, che distingue, seppure con prudenza, fra il significato di un'espressione e il suo rivolgersi a un'«oggettualità determinata», precisando però che l'«essenza dell'espressione risiede piuttosto esclusivamente nel significato».

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Normalmente, l'intenzionalità delle espressioni linguistiche e del comportamento è considerata derivata dall'intenzionalità degli stati mentali. Nel quadro che ho presentato invece l'intenzionalità, almeno quella dei segni e delle espressioni linguistiche, non ha origine da una rappresentazione mentale, ma emerge da una manipolazione nelle cose, dal segnarle, che ci porta a percepirle diversamente, facendoci fissare l'attenzione su alcune di esse, e a selezionare alcuni tratti per tenerne nota. I segni apposti alle cose giocano insomma un ruolo costitutivo nell'alterare la situazione percettiva e sviluppare intenzionalità, nonché le stesse rappresentazioni mentali (che sono ciò per cui mezzo rifissiamo l'attenzione), ricentrando l'attenzione spaziale, producendo attenzione selettiva e consentendo di rifissare l'attenzione.

In questa prospettiva, contrariamente a quanto solitamente si assume parlando di intenzionalità, la percezione non risulta intenzionale. Essa ci presenta oggetti ma non li significa, non verte su di essi; e non ci sono segni cogliendo i quali, grazie a una specie di semantica, percepiamo ciò che percepiamo -- e che spesso viene chiamato in modo fuorviante "contenuto percettivo". Piuttosto che un fenomeno intenzionale, la percezione è ciò a partire da cui intenzioniamo cose.

Per quanto ho accennato su come si rifissa l'attenzione, questa congettura fornisce una spiegazione abbastanza naturale di una dimensione normativa come esito intenzionale. Nel rifissare l'attenzione su un oggetto si produce una copia del contrassegno che vi era stato apposto.

In ogni modo, una congettura del genere dovrebbe chiarire meglio come si può essere diretti su un oggetto concreto quando esso non è percepito (anche se ho parlato della rifissazione dell'attenzione nella memoria), e dovrebbe spiegare come si può essere diretti su un oggetto che non esiste (anche se, come abbiamo visto col triangolo di Kanizsa, percepiamo pure oggetti che non esistono) o verso un oggetto astratto, e quindi non percepibile.

5. La specialità delle parole.

Le parole sono segni che sono evidentemente artefatti. Questa è la loro peculiarità percettiva.

Naturalmente, bisogna sviluppare molte cose perché queste tracce funzionino opportunamente. Per esempio, c'è necessità che si accresca il repertorio perché esse siano a loro volta distinte e riconducano ragionevolmente ciascuna a un oggetto diverso. Come con tutte le tracce, è certo ammissibile che ci sia un problema circa ciò che indicano (è ammissibile cioè che sia un elemento congetturale cos'è ciò di cui sono tracce, perché più cose possono lasciare una traccia simile, e perché la traccia può essere in sé parzialmente confusa). Comunque, la variabilità delle forme specifiche delle tracce può essere limitata, essendo esse artificiali, tanto che arriviamo arbitrariamente a considerare identiche tracce segni e parole che sono fisicamente diversi (diciamo che una parola è la stessa se è scritta in Arial, "tavolo", o se è scritta in Lucida Calligraphy, "tavolo"; trattiamo il sintagma fourth floor come lo stesso, sia come pronunciato a New York, che come pronunciato a Londra o a Edimburgo) o diverse tracce

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identiche usate in contesti diversi (consideriamo diverso il nome "Ludwig" quando parliamo di Beethoven rispetto a quando parliamo di Wittgenstein).23

Perciò non vanno bene in generale un segno P o un segno O. Andrebbero perfettamente se la loro funzione fosse solo quella di contrassegnare in un'occasione un oggetto, e in un'altra un altro oggetto, ma non per tenere nota delle cose da un'occasione all'altra. Per questo servono sistemi sofisticati di segni, come sono appunto le parole.24

La norma che così si introduce ha due ragioni diverse, entrambe naturali: la traccia artificiale è una copia, e nell'essere una copia è implicita una norma, perché la copia deve avvicinarsi il più possibile all'originale. Però, siccome una copia identica è impossibile, viene introdotta una norma per cui un intorno di varianti viene considerato un insieme di copie identiche, anche se questa elasticità a ben guardare c'era in natura fin dall'inizio: percepiamo oggetti come aventi costanza di dimensioni, di forma, di colore e illuminazione, anche quando in realtà le immagini che ne abbiamo variano grandemente lungo queste dimensioni. Così di fronte a una (p) non ci disturbano pronunce diverse, che consideriamo elementi irrilevanti, o solo secondariamente rilevanti, al pari delle differenze che ci sono fra un alfabeto latino reso in corsivo, in dritto romano o in caratteri gotici, -- sono differenze che ci possono dire se chi parla ha qualche problema nel sistema fonatorio, se è emotivamente turbato, da dove viene, ecc., dove è stato a scuola, se scrive più a mano che al computer o a macchina, ecc., così come l'angolo del muro in ombra non lo consideriamo più scuro, ma appunto in ombra. (Abbiamo evidentemente una notevole capacità di manipolare e trasformare immagini, per cui riusciamo forse a riconoscere una persona da angoli dai quali non l'avevamo mai vista, così come un gatto o un cane, che non avevamo mai visto, anche se i gatti sono tutti un po' diversi fra loro e i cani lo sono anche molto, e anche se l'uno o l'altro occupano una parte marginale del nostro campo percettivo per un tempo assai limitato.) Se tutto ciò vale per le lettere, vale ancor più per le parole e per i testi. Essendo tutti oggetti percepiti, cosa esattamente viene detto viene compreso più relativamente a cos'altro viene detto che grazie a una valutazione assoluta dei suoni emessi o dei grafemi scritti.

In ogni modo, se tutto va bene, mentre la traccia riconduce a ciò di cui è traccia naturale, quella artificiale perché è aggiunta non dà, a differenza della prima, alcuna informazione su ciò di cui è traccia: per saperlo bisogna aver memoria di cos'è che contrassegna. Se si vuole, l'informazione è storica -- cosa che va presa con molta prudenza, perché non si richiede memoria del momento in cui la traccia è stata aggiunta, anche se una disputa su cosa indichi deve risalire in qualche modo a quel momento.

23 Cfr. Labov 1972. 24 Le parole costituiscono un sistema di segni, o forse due se consideriamo da un lato un sistema di parole

dette, e la loro fonetica, e dall'altro il sistema delle parole scritte, che solo nella scrittura alfabetica, e in questa solo a un certo grado, presenta una corrispondenza parti minime/parti minime con i corrispondenti segni orali. Nella scrittura geroglifica, in quella cuneiforme, in quella ideografica, ecc., questa corrispondenza non c'è.

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6. Contrassegnare e categorizzare.

Come ricordavo in apertura, l'opinione prevalente è che il pensiero connetta parole e cose perché categorizza queste e perché quelle esprimono le categorie del pensiero. Ho cercato di mostrare qui che parole e cose possono essere connesse diversamente. Ma cosa sostiene esattamente l'opinione prevalente e cosa è categorizzare cose? Tralascio del tutto la prima questione, e faccio qualche accenno sulla seconda, che è davvero ardua. Ci sono almeno due aspetti da distinguere circa il categorizzare, e cioè come il pensiero categorizza e in cosa consista categorizzare. Il pensiero considera cose anche quando queste non sono presenti, oltre che quando non esistono più e quando non sono mai esistite.25 Per far ciò si rappresenta le cose, e lo fa, si presume, servendosi di parole o di immagini o di tutte e due.26 È implicito in tutto il discorso fatto fin qua che non c'è sostanziale differenza fra parole e immagini, se non che le prime costituiscono un sistema sofisticato di un sottoinsieme delle seconde, ad alcune delle cui caratteristiche ho già accennato. Una peculiarità dei nomi, che sono le parole usate per contraddistinguere, una peculiarità su cui ho insistito molto, è che rappresentano cose senza fornire alcuna informazione su di esse. Se i nomi contraddistinguono e non descrivono, la loro struttura non è rilevante perché corrisponde a una struttura delle cose, ma lo è perché li distingue da altri nomi, perché contribuisce a costituire un sistema di contrassegni efficace, o perché ha un valore grammaticale, perché è rilevante per la grammatica della lingua, cioè per la connessione di contrassegni fra loro -- cosa che ci interessa perché connettiamo le cose che contrassegniamo connettendo i loro contrassegni (e per riuscirci ci serve molto di più che un insieme di parole: ci serve appunto una grammatica). L'atomismo delle parole consiste dunque nella possibilità che esse ci offrono di considerare le cose una alla volta, e di connetterle una ad una esplicitamente, e non è un atomismo metafisico.

Nulla però esclude che per pensare usiamo immagini che non sono parole, anche se le immagini cui abbiamo accesso cosciente sono, come le parole, immagini semplificate rispetto a ciò che vediamo (o sentiamo) nel momento della percezione, o a ciò che ricordiamo ma che non riusciamo a ispezionare, come la maggior parte dei particolari delle voci o dei volti.27 Servendoci di immagini possiamo in un colpo solo considerare alcune proprietà strutturali delle cose, ma non è detto che ci riesca di farlo esplicitamente, cioè che nel servirci di immagini siamo consapevoli di tutta l'informazione che esse ci offrono. Solo se un'immagine contiene simboli, come un diagramma o una carta geografica, essa esplicita informazione.

25 L'unico accenno a inesistenti nel testo è la presentazione di percezione di oggetti come il triangolo di

Kanizsa. Un caso cioè in cui crediamo di individuare una cosa che si rivela non esserci. La psicologia della percezione ci spiega come ciò accada, e l'illusione ottica è da considerarsi un'indicazione non dell'inaffidabilità del senso della vista, ma del suo buon funzionamento.

26 Non sappiamo cosa corrisponda nel cervello a una parola o a un'immagine, ma assumiamo che il pensiero si serva di rappresentazioni di questi generi, e siccome una rappresentazione vale l'altra, che si avvalga quando può delle stesse rappresentazioni anziché di rappresentazioni diverse.

27 Cfr. Massironi 1995.

22

L'avere una grammatica, così come l'offrire la possibilità di accesso cosciente sono, dopo e insieme alla loro capacità di contraddistinguere, le peculiarità più importanti delle parole.

La prima questione -- come il pensiero categorizzi -- non è slegata dalla seconda -- cosa sia categorizzare. Se congetturiamo che categorizzare sia applicare dei concetti innati alle cose di cui facciamo esperienza, c'è sempre da domandarsi come intratteniamo questi concetti innati, se per mezzo di una lingua del pensiero o per immagini, quindi se tenendo conto o meno delle proprietà strutturali delle cose, o per mezzo di un meccanismo analogo a quello che governa la percezione, per cui processiamo naturalmente certi complessi di input classificandoli in output come cose di una certa categoria -- e si potrebbe allora discutere quanto pensare sia un processo volontario, perché anche se possiamo volontariamente dirigere lo sguardo da un lato, ciò che vediamo da quel lato non è il risultato di un processo volontario e ci si potrebbe chiedere allora come facciamo a considerare situazioni in assenza di input, come compiamo errori di giudizio e come li correggiamo, ecc. In ogni modo, l'abbozzo qui presentato suggerisce una concezione tutta diversa delle categorie, ecioè che esse siano sviluppate a partire dai contrassegni, nel modo seguente. Contrassegniamo le cose che individuiamo a un livello cognitivo preconcettuale. I contrassegni non contengono informazione ma rinviano alle cose; ci permettono però di riconsiderarle rifissando la nostra attenzione su di esse senza per altro impegnare tutte le nostre capacità attentive in questo lavoro di rifissazione, e per questa stessa caratteristica, una volta che i contrassegni siano integrati in una lingua dotata di grammatica, ci permettono di considerare connessioni fra le cose sia che queste si diano effettivamente sia che non si diano, e senza tener conto di alcun dettaglio tranne appunto la connessione fra le cose che abbozziamo attraverso la connessione dei loro contrassegni. I segni diventano insomma strumenti per indagare la natura delle cose e per tener nota di ciò che consideriamo vero di esse. Possiamo allora chiamare concetti i contrassegni di proprietà e relazioni, cioè quei contrassegni che non riguardano immediatamente singoli oggetti, che non saranno però strumenti di categorizzazione, e considerare lo spazio concettuale e dunque la categorizzazione una costruzione, precisamente l'insieme di connessioni che nel complesso delle nostre rappresentazioni istituiamo fra i contrassegni di proprietà e relazioni. In un quadro del genere, i contrassegni permettono una manipolazione libera delle cose, perché indipendente da esse e condotta vicariamente sui loro contrassegni, e i concetti che pure non hanno alcun contenuto aggiungono qualcosa a ciò che c'è, attraverso il sistema di connessioni che costruiamo per mezzo loro, sia che queste connessioni corrispondano a connessioni strutturali nelle cose, sia che non vi corrispondano, attraverso cioè il complesso di esplorazioni, congetture e altro che facciamo sulle cose.28 Questa manipolazione libera può condurci ad azioni che ci mostrano non solo che la nostra rappresentazione della struttura delle cose non è qua e là corretta, ma anche che ci siamo sbagliati nell'individuare qualche oggetto, come il triangolo di Kanizsa. In questo quadro quindi i concetti sono un

28 "Contenuto" è in effetti una parola impropria a questo punto, se si intende che un concetto esprima un

contenuto. I contenuti sono le cose, e nella testa abbiamo tracce, naturali e artificiali, di esse.

23

a priori empirico, privo di contenuto, e la categorizzazione è derivata dalla costruzione a posteriori che facciamo collegando fra loro concetti, per descrivere stati di cose o fare congetture su di essi.

Se questo quadro è plausibile, se cioè le parole sono contrassegni delle cose che hanno una natura e spesso un sostrato percettivo -- sia le parole che parlano di ciò che ha origine dall'esperienza sia quelle che parlano di ciò che la mente crea liberamente, sia i nomi propri che i nomi comuni -- aveva dopotutto forse ragione Hume dicendo che tutto ha origine dalle impressioni sensibili. Solo che Hume non aveva un'idea corretta su che genere di impressioni sensibili fossero i segni o più precisamente le parole.29

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29 Questa ricerca è stata resa possibile dal finanziamento congiunto del Ministero dell'Università e della

Ricerca Scientifica Tecnologica (MURST) e dell'Università di Bologna. Il progetto nazionale ha come titolo “Filosofia analitica: storia, tendenze, problemi attuali” ed è coordinato da Diego Marconi, dell' Università del Piemonte orientale, il progetto locale ha come titolo “Linguaggio e percezione” ed è coordinato da me. Ho presentato alcune versioni di questo lavoro alle università di Genova, Palermo e Padova, a Parigi al Secondo colloquio franco-italiano di filosofia analitica, in un seminario nella mia università, oltre che, naturalmente, a Venezia al convegno su “Percezione e conoscenza”. Ringrazio per le loro osservazioni e i loro suggerimenti Sergio Bernini, Paolo Casalegno, Marcello Frixione, Franco Lo Piparo, Ernesto Napoli, Gloria Origgi, Carlo Penco, Claudine Tiercelin e Patrizia Violi. Senza la pazienza e l'acribia di Andrea Bianchi, questo testo non sarebbe mai stato pubblicato. Cosicché ne è un po' responsabile anche lui.

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