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Il disegno della civiltà La razionalità nella fede

Di Saltarelli Cristiano Anthony Abstract: The comparison faith-rationality is represented in terms of comparison between

causal rationality and final rationality. In this comparison it is possible to develop a test for checking the consistency of the existence of a final rationality that guides human history. The base of the test is the description of the state of nature, i.e. the description of a society compatible with the selection law and its subsequent comparison with the society observed. The test was conducted in relation to two aspects of human society, the propensity to violence and to the organization of institutional democratic systems. This last aspect, in particular, has led to the development of interesting interpretations in relation to the collapse of the Roman Empire of the West and the birth of Islam.

1. Caos e ordine....................................................................................................................... 1 2. Filosofia cognitiva ............................................................................................................... 4 3. Il dibattito fede razionalità ................................................................................................... 6 4. Il disegno della civiltà.......................................................................................................... 7

4.1. Lo stato di natura .......................................................................................................... 9 4.2. Primo test: La violenza umana. ................................................................................... 12 4.3. Secondo Test: I sistemi politici democratici moderni .................................................. 14

4.3.1. La crisi dell’Impero Romano d’Occidente............................................................ 16 4.3.2. Le strategie di Costantino..................................................................................... 17 4.3.3. Il patto di Costantino............................................................................................ 19 4.3.4. La nascita dell’Islam ............................................................................................ 20 4.3.5. Analisi di processo ............................................................................................... 21 4.3.6. Qualche ultima parola sui sistemi politici ............................................................. 21

Conclusioni ........................................................................................................................... 22 Bibliografia ................................................................................................................... 22

L’evoluzione moderna del pensiero, dopo il disincanto rispetto a una prospettiva di

costruzione razionale del mondo, sembra aver abbandonato la prospettiva di includere in questa costruzione argomenti esplicativi del fenomeno della fede.

In parte si è imposta una visione che, rappresentata nella “Fides et Ratio”, vede le due strutture della fede e della razionalità camminare affiancate, ma indipendenti, l’una dall’altra.

Recuperare questa prospettiva è l’obiettivo del presente testo, costruire un metodo che consenta di analizzare alcuni aspetti del fenomeno fede.

1. Caos e ordine Il sistema culturale insito nelle prime parole della Genesi: “E Dio creò ….”. Con la

successiva descrizione, giorno per giorno, di quelli che erano i principali ordini nei quali veniva

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organizzato il mondo osservato dagli uomini1, fonda la visione del mondo Giudaico-Cristiano su due concetti:

1) L’esistenza e l’univoca importanza dell’ordine nel mondo; 2) L’associazione univoca tra ordine e divinità che si concretizza nell’azione teologica

come principio ordinatore del mondo. Anche nel pensiero Greco antico, l’origine dei tempi è caratterizzata dal ruolo iniziale del

Chaos, principio primigenio. La dicotomia Caos-ordine ha un ruolo centrale nella storia del pensiero umano, essa

definisce in origine il confine tra il dominio della razionalità e ciò che la razionalità non riesce a controllare. Questo aspetto definisce il relativismo del concetto di ordine, che dipende dalla capacità dell’osservatore di accorgersi delle regolarità presenti nel mondo.

Caos e ordine definiscono una struttura dicotomica chiusa, complementare. Definito cioè un insieme universo, tutti gli elementi sono associabili all’uno o all’altro concetto. Una struttura semplice perché in effetti necessita della definizione delle proprietà di uno solo dei concetti, cioè dell’Ordine, che deve essere descritto nelle sue proprietà interne, mentre il caos non ha bisogno di definizioni.

Questo fa si che il caos, e tutto ciò che ad esso è associato, rimanga al margine dell’attenzione in quanto non intellegibile.

L’associazione ordine-divinità, inoltre, crea quindi i presupposti per una selezione qualitativa dei concetti che possono essere valorizzati o esclusi.

Vi sono due categorie importanti della conoscenza nelle quali questa selezione è stata operata rappresentate in tabella 1.

Tab.: 1 Caos Ordine Dimensione morale Male Bene Dimensione cosmica Natura Spirito

Nella dimensione morale notiamo come il Male, in quanto percepito come realtà caotica,

viene visto come privo di regole, con una difficoltà concettuale ad attribuire ad esso un’identità, un certo tipo di razionalità di azione.

Nella dimensione cosmica vediamo una natura definita come caotica, irrazionale, che si contrappone all’ordine della realtà spirituale. In tale contesto teorico vediamo come il concetto di ordine naturale, cioè un concetto fondante la storia del pensiero, sia in effetti un ossimoro, una struttura internamente contraddittoria.

La dicotomia Caos-Ordine sviluppa altre problematiche formali laddove il primo diventa premessa storica del secondo.

Esistono due grandi categorie di ordine nel mondo da noi conosciuto, l’ordine planetario, cioè le regolarità nell’andamento di stelle e pianeti, e l’ordine naturale, cioè l’ordine che caratterizza tutte le forme di vita. Nella prima categoria, sappiamo che quell’ordine evolve da masse caotiche di materia. Anche nel caso della natura, fatte salve le difficoltà probabilistiche inerenti la determinazione iniziale di forme viventi dalla materia, abbiamo comunque un ordine che si può potenzialmente produrre per evoluzione naturale.

In questi casi notiamo una difficoltà a definire l’ordine come un archetipo. Tale difficoltà è d’altronde presente anche per il caos, essendo quest’ultimo formalmente dipendente, in quanto complementare, dal concetto di ordine.

1 L’antropologia culturale ha evidenziato la relazione tra gli eventi dei giorni della Genesi e una classificazione, quindi un ordinamento, dei fenomeni della realtà di origine assai più antica della presunta elaborazione della Genesi stessa, Krasinski, 1998, pp. 41-44;

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L’evoluzione del pensiero moderno insiste, chiaramente, in una realtà sociale nella quale il pensiero antico, che era fondato sulla struttura dicotomica già descritta, era dominante. Per tale ragione, le nuove categorie concettuali che questo produce si possono ordinare nell’ottica di questa struttura.

La tab. 2 riporta alcune tra queste categorie.

(Caos) (Ordine) Sistema culturale Innovazione Tradizione Sistema della conoscenza Scoperte scientifiche Ordine culturale fondato sul

pensiero teologico Politica Diritti politici Privilegi nobiliari Evoluzione Equilibrio

Queste rappresentano un rapporto tra i concetti dicotomici profondamente modificato.

Questa è la ragione per la quale il concetto di Caos è impropriamente utilizzabile. Per una sintesi teorica generale sarebbe più appropriato l’utilizzo dell’ultima dicotomia:

Evoluzione-equilibrio. Quest’ultima è una dicotomia aperta, che lascia residui caotici fuori dalla formalizzazione, e che offre a priori una pari dignità ai due concetti. In essa, in effetti, al concetto di Ordine che da un’idea di assoluto si sostituisce il concetto di equilibrio che dà un’idea di relatività rispetto al tempo.

Il concetto di evoluzione, inoltre, definisce una complessità teorica ancora maggiore di quella contenuta nel concetto di equilibrio. Il grafico può rappresentare intuitivamente questa complessità.

Vediamo come il concetto di evoluzione implichi la concettualizzazione di due (o più in altri

casi) equilibri. Essa cioè definisce una legge di mutazione dell’equilibrio nel tempo, laddove nel rapporto Caos-ordine avevamo un ordine immutabile nel tempo.

Per colui che ragiona secondo lo schema Caos-ordine, un mutamento evolutivo è necessariamente confuso con un fenomeno caotico, con la difficoltà anche di riconoscere l’eventuale nuovo equilibrio che si dovesse affermare.

Lo schema Caos-ordine porta inoltre implicitamente all’associazione ordine-divinità, mentre nessuna associazione è privilegiata nella dicotomia evoluzione-equilibrio, cioè la divinità si può relazionare a ciascuna delle due categorie.

Per evidenziare questo aspetto vorrei citare un caso significativo: Gesù di Nazareth. Gesù contesta i sacerdoti del tempio, mette in discussione il sabato, il suo agire mette in

discussione molte convenzioni sociali del suo tempo. Non a caso nella stessa catechesi viene a volte definito come un rivoluzionario.

Osservare questo evento, nell’ottica del modello Ordine-caos, porta a delineare una contraddizione perchè l’ordine originato dalla divinità viene messo in discussione dal suo figlio prediletto.

Lo stesso evento, visto nell’ottica del modello Evoluzione-equilibrio, invece, viene interpretato come momento fondamentale di un’evoluzione propria del fenomeno religioso.

Il fenomeno religioso, quindi, non può essere assegnato a priori ad una delle due categorie concettuali, anzi, se noi entriamo in una logica messianica, di realizzazione di un mondo futuro

Equilibrio 1 Equilibrio 2 Evoluzione

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interpretato in senso positivo, vediamo come sia proprio la logica evolutiva quella caratterizzante una eventuale strategia indirizzata alla realizzazione di quest’ultimo.

Che ne è allora della strutturale associazione originaria ordine-divinità? Proviamo ad interpretarla supponendo l’effettiva esistenza di una divinità interagente con

l’essere umano. Su questa premessa, possiamo considerare questa associazione come derivante dalla

tendenza della divinità ad adattarsi all’essere umano e ai suoi limiti. L’essere umano ha difficoltà a comprendere il processo evolutivo, che è complesso, ma ha la capacità di comprendere e concretizzare un equilibrio. La divinità, quindi, si basa su questa sua capacità dandogli un ruolo centrale nella determinazione dell’equilibrio che, limitatamente al tempo in cui si mantiene, può essere interpretato dall’uomo come un ordine assoluto.

Secondo tale logica, è nel momento dell’evoluzione che l’intervento divino si fa più rilevante, per la necessità di compensare la limitatezza umana nel gestirla.

2. Filosofia cognitiva Una definizione di Filosofia sulla quale mi troverei d’accordo è quella di Scienza del sapere

propria del positivismo. Una Filosofia di questo tipo può essere delineata, nelle sue componenti essenziali,

analizzando il processo che produce il sapere stesso, cioè il processo cognitivo. Possiamo definire il processo cognitivo come un processo nel quale un osservatore

acquisisce informazioni su un dato ambiente. Gli elementi essenziali di tale processo sono l’osservatore, o gli osservatori, e l’ambiente

osservato. Se noi universalizziamo tali elementi troviamo i concetti di Essere cosciente ed Essere materiale.

E’ intuitiva, la descrizione dell’Essere materiale, esso coincide con tutto ciò che possiamo percepire, continuamente intorno a noi. Definiamo quindi, l’Essere materiale come l’insieme di ciò che è percepibile, in quanto invia, continuamente, nel tempo, messaggi (di tipo visivo, gravitazionale, etc.) indicativi della sua presenza localizzata nello spazio.

L’Essere materiale può essere così formalizzato ={}

:t t: s:t (s) s s,tT 1 t (t)=t

ed indicano, rispettivamente, l’insieme e il singolo stato dell’Essere materiale. Il suffisso indica che detti stati sono definiti a un dato tempo incluso nello spazio globale di tempo T.

La definisce, per ogni stato definito in un dato tempo, una serie unica di stati dell’essere che precedono e seguono lo stato, in tutto lo spazio del tempo.

Se r>s allora t (s) causa t (r). Le leggi descriventi tutte le relazioni di questo tipo sono leggi di razionalità causale.

L’Essere cosciente è definito come l’insieme di entità dotate di coscienza, finalizzate e attive così formalizzabili.

C=(I1,I2…In) 2 Ij(t,{s}) s<t

Le I sono funzioni di identità definite su uno stato t obiettivo dell’entità iesima, e su un insieme di stati {s} definiti in un tempo precedente che si considerano nel suo dominio.

Si definisce scelta di I la definizione della:

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SIj=t (s) {s} Definiamo la t come causa finale della t (s). La causazione finale implica la causazione in

senso inverso. Le leggi che descrivono la causazione finale sono leggi di razionalità finale. La 1 e la 2 definiscono un Paradigma cognitivo, cioè un assetto teorico sulla base del quale è

possibile relazionare gli stati dell’essere sia in termini causali che di causalità finale. Se C= allora definiamo il paradigma come di tipo meccanico, altrimenti il paradigma è

definito di tipo storico. Il paradigma è uno strumento che l’entità cosciente usa per interpretare il mondo, lo stesso

mondo potrebbe essere descritto da paradigmi differenti. Definiamo riduzione di un paradigma storico, quella nella quale una ’ permette di spiegare

causalmente una Ij e quindi di decomporla in termini di qualche . Nella nostra rappresentazione, le entità, hanno la possibilità di compiere una sola scelta, in

relazione alla quale possono essere causalmente determinate. Altre rappresentazioni, più complesse, possono presupporre scelte multiple o di tipo stocastico. In tal caso sarà possibile avere entità causalmente determinate in maniera parziale.

Se supponiamo che tutte le identità, definite nella 2, siano causalmente determinate, allora siamo di fronte ad un Paradigma storico riducibile ad un Paradigma meccanico.

Nel Paradigma meccanico l’evoluzione degli eventi è univoca, determinata, segue sempre le leggi della razionalità causale. Il Paradigma meccanico toglie significato ad interpretazioni morali, che necessitano del confronto tra differenti evoluzioni alternative dello stato dell’Essere materiale.

Una rappresentazione intuitiva, dell’evoluzione nel tempo dell’Essere materiale, osservata con un Paradigma storico, è data da un albero decisionale che viene rappresentato in grafico 1.

Il grafico rappresenta 4 situazioni di scelta A,B,C,D. Rispetto ad una molteplicità di possibili

evoluzioni ( E,F,G.H,I ed L), se ne realizza una sola, cioè la E, che rappresenta il fine di almeno un’ entità cosciente, cioè quella che da B ha portato in E. In tale caso parliamo di finalismo diretto.

La E potrebbe anche essere il fine di quello che ha portato da A in B, supponendo che avesse la capacità di prevedere la successiva scelta, perchè cosciente della funzione obiettivo dell’essere che porta da B in E. In questo caso parliamo di finalismo indiretto.

Esiste poi un terzo tipo di finalismo, il finalismo indotto, che consiste in una scelta di condizionamento della funzione di identità di i, da parte di un altra entità cosciente j, in maniera tale da far fare ad i la scelta che j vuole.

Definiamo come Tesi Meccanicista l’affermazione che il Paradigma meccanico sia in grado di interpretare correttamente il mondo in cui viviamo, e che quindi, qualsiasi Paradigma storico con il quale possiamo osservare la realtà sia riducibile ad un paradigma meccanico.

La Tesi Meccanicista comporta il contrasto tra la coscienza, dell’Essere cosciente, di essere capace di scegliere, e la sua coscienza di appartenere all’essere, cioè a una realtà fatta di leggi

B C D

E F G H I L

A1 Grafico 1

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meccaniche, che non prevedono l’indeterminatezza della scelta. Definiamo tale contrasto come Dilemma della Coscienza.

Il Dilemma della Coscienza a volte si presenta come domanda di “senso” per le scelte fatte, o anche associata a contenuti spirituali. Tali associazioni in realtà non sono necessarie, il Dilemma della Coscienza, infatti. riguarda essenzialmente la sistematizzazione del rapporto tra cognizione meccanica e cognizione storica dell’Essere.

I paradigmi presentati sono modi di vedere la realtà. I due tipi di paradigmi, or ora visti, comportano una profonda differenza nell’interpretare il rapporto con il tempo.

Nel Paradigma storico esiste un passato che ha forte rilievo, che ha definito l’unico itinerario del sentiero della storia tra i tanti possibili, questo itinerario assume un “senso”, definisce l’identità di coloro che hanno partecipato alla sua formazione, definisce tradizioni, abitudini, etc.

Nel Paradigma meccanico, invece, le leggi di razionalità causale sono sempre le stesse in ogni momento del tempo, per cui il passato non può condizionare in maniera determinante le decisioni del presente, esso conta solo in termini di esperienza. L’esperienza ha, comunque, un valore positivo. Vi è un’utilità, nel prendere decisioni di tipo differente dal consueto, per sperimentare nuovi risultati. Vi è una fiducia nel cambiamento e nel futuro.

Analizzando la struttura del linguaggio comune vediamo come questa sia fondata su un paradigma storico. Essa, infatti, esprime sempre concetti centrati su un verbo, e quindi su un’azione, derivata tipicamente da una scelta. Non a caso il linguaggio scientifico e logico, che descrive tipicamente realtà costruite su un paradigma meccanico usa strumenti che non usano la sintassi comune: formule, tabelle.

I Paradigmi hanno un effetto sull’interpretazione stessa. Il predominante Paradigma storico ha condizionato l’interpretazione di molti eventi nel corso della storia.

Un concetto come quello della natura che si “vendica” della pressione dell’uomo su di essa, il concetto di “fato” degli antichi greci, il senso che viene attribuito alla storia, che si fonda implicitamente sull’idea dell’esistenza di un’entità astratta che guida il mondo, sono tutti esempi di condizionamento dal Paradigma storico.

Il più importante di questi condizionamenti è dato dalla definizione del concetto di divinità. La fede può quindi essere in parte spiegata da questa particolarità del sistema cognitivo umano. Si tratta di una spiegazione parziale, perché se il Paradigma storico aiuta a vedere, dietro una serie di eventi, una volontà finalistica, è comunque necessario che tale volontà sia percepibile, coerentemente, in una serie di eventi. In tal caso, l’osservazione degli eventi può permettere la costruzione mentale di un’entità immateriale. Si tratta di un lavoro analogo a quello fatto dalla mente quando una serie di osservazioni empiriche viene sintetizzata in una legge di razionalità causale, anch’essa immateriale.

Il fatto di concepire, un essere cosciente immateriale, determina una differenziazione, del Paradigma storico. Possiamo parlare di un Paradigma storico fisico, nel quale sono definiti, come esseri coscienti, solo quelli identificabili come esseri fisici nello spazio. Possiamo parlare di un Paradigma storico metafisico o cosmico, per il quale ci sono esseri coscienti, non vincolati allo stare dentro un corpo fisico. In quest’ultimo contesto paradigmatico, è possibile analizzare fenomeni spirituali.

C’è una relazione, tra tipologia di Paradigma storico e tesi Meccanicista. L’affermazione della tesi Meccanicista, infatti, confina la spiegazione dell’azione, degli esseri coscienti materiali, alla dimensione fisica. La negazione della tesi Meccanicista, invece, lascia spazio alla possibilità, che una componente, delle scelte degli Esseri coscienti materiali, sia effetto di una volontà immateriale, e che l’effetto dell’azione di questa volontà, determini quei comportamenti, che la razionalità causale non riesce a spiegare, o spiega in maniera errata.

3. Il dibattito fede razionalità

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Il capitolo precedente si è concluso con una rappresentazione del meccanismo tramite il quale il concetto di divinità può essersi affermato nella cultura umana.

Tale rappresentazione è argomento a favore o contro la tesi dell’esistenza di Dio? La risposta dipende dalle potenzialità razionali che assegniamo ai meccanismi istintivi innati

nell’essere umano. Se l’uomo è istintivamente razionale, allora potrebbe aver riconosciuto in tanti segni l’azione di una volontà.

Tale risposta, inoltre, non può e non deve argomentare alcunchè riguardo ad un eventuale mondo aldilà, perché la rappresentazione costruisce il concetto di Dio esclusivamente sulla base di osservazioni fenomenologiche.

Si tratta, in effetti, dello stesso tipo di approccio che ha il pensiero Teologico quando presenta il dibattito Fede-razionalità sulla base della dicotomia Caos-ordine già discussa nel primo capitolo.

In entrambe i casi, quindi, dobbiamo ridurre la potenzialità della nostra domanda alla seguente: Esiste un disegno finalizzato dietro la realtà del mondo che conosciamo?

Dal capitolo precedente abbiamo due strutture teoriche, cioè la razionalità causale, e la razionalità finale non riducibile, con caratteri propri e non derivate da alcunchè che possono quindi rappresentare i nostri archetipi di riferimento.

Dello studio della razionalità causale si occupa la scienza. Lo studio dei meccanismi di razionalità finale è oggetto di molte dottrine di stampo sociale,

politico ed economico. Naturalmente è da vedere se, e in che misura, questa razionalità finale sia riducibile alla razionalità causale.

Con certezza possiamo affermare che la quasi totalità della razionalità finale analizzata nelle dottrine sociali è razionalità umana, cioè prodotta da individui appartenenti a una specie biologica. A questa si aggiungono alcune tesi sociali organiciste o storiciste che cercano di trovare finalità superiori all’individuo nell’agire umano.

Come tutte le specie biologiche, anche la specie umana è soggetta alla legge di selezione della specie, una legge che determina causalmente il comportamento degli esseri biologici in rapporto alle caratteristiche della totalità dell’ambiente nel quale vivono. Tale legge rappresenta una convergenza probabilistica che si afferma nel tempo, per cui pur essendo possibile trovare caratteri non conformi in singoli individui di una specie, la probabilità che detti caratteri siano diffusi in tutta la popolazione tende a 02.

E’ evidente che, se nella specie umana ci sono comportamenti generali incompatibili con la legge di selezione, questi difficilmente possono essere spiegati con la razionalità causale.

Il fatto poi che tali comportamenti siano generali rende difficile pensare che la loro presenza sia casuale, per cui, sulla base dei ragionamenti del capitolo precedente, possiamo ipotizzare che questi possano essere spiegati con una razionalità finale non riducibile.

Un’ipotesi del genere ha lo stesso valore di un’ipotesi scientifica, in entrambi i casi, infatti abbiamo una legge di razionalità astratta che deve essere empiricamente confermata.

La conferma empirica può essere ottenuta trovando elementi di coerenza, di molteplici comportamenti non spiegati causalmente, con un'unico modello di razionalità finale.

4. Il disegno della civiltà Andiamo ora ad analizzare uno speciale Paradigma storico metafisico, caratterizzato da una

sola entità cosciente immateriale non determinata causalmente. Definiamo questo come Paradigma del Disegno.

2 Con legge di selezione della specie non si vuole intendere una specifica teoria biologica. In biologia è fervente il dibattito sulle dinamiche del processo evolutivo, ma è indiscusso e concorde con la razionalità il fatto che caratteri che indeboliscono la capacità riproduttiva non possano diffondersi;

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Supponendo che l’evoluzione nel tempo, dello stato dell’essere, sia rappresentabile nei termini di una sola variabile, possiamo riportare gli elementi essenziali del Paradigma del Disegno, nel grafico 2.

La N descrive quello che può essere definito come Stato di natura, cioè lo stato dell’essere che si realizzarebbe in caso di assenza dell’azione da parte dell’entità immateriale.

Nel grafico supponiamo che detta entità operi due azioni, rispettivamente, nei tempi t1 e t2, al fine di concretizzare il Disegno di portare la variabile C al livello C*.

I sentieri D1 e D2 definiscono itinerari determinati dalle leggi causali. Notiamo come, al tempo t2, la variabile subisca una flessione nell’immediato, questa però

permette di entrare in un sentiero di maggiore crescita naturale della C. Il particolare serve a evidenziare il fatto che l’azione finalistica è strategica, punta ad un obiettivo finale per il quale è anche ammessa una temporanea regressione.

Supponiamo, ora, di cercare di verificare la congruità del Paradigma del disegno con l’osservazione del mondo in cui viviamo, messa in contrapposizione con la congruità del Paradigma meccanicistico.

. Tale verifica può essere operata su tre livelli : 1) Un livello cumulato che si concretizza analizzando la differenza tra lo stato di

natura proiettato all’oggi e lo stato dell’essere attuale, rappresentata nel nostro caso, dalla differenza tra C* e N(t*);

2) Un livello differenziale, che si concretizza analizzando i momenti della storia nei quali lo stato dell’Essere devia rispetto alle spiegazioni causali, nel nostro caso i tempi t1 e t2. Un indizio interessante per tale analisi è dato dall’affermazione fatta da protagonisti di questi momenti storici di essere stati spinti a dati comportamenti da condizionamenti spirituali di qualsiasi genere;

3) Un livello di processo, che si concretizza analizzando l’evoluzione dei sentieri deviati, nel nostro caso D1 e D2, nella particolarità del loro evolversi a confronto con altre situazioni della storia nelle quali non hanno agito gli eventi realizzatisi in t1 e t2.

La verifica in questione valorizza le dinamiche sociali e le considera come espressione ed

indizio dell’esistenza di una volontà superiore. Questo ci riporta al ragionamento del Capitolo 1 che

N

D1

D2

t1 t2

Grafico 2 C*

t

C

t*

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ridiscute l’idea di vedere l’azione divina dietro gli equilibri per sostituirla con l’idea di vedere tale azione nel mutamento degli equilibri stessi.

Abbiamo supposto un’analisi con una sola variabile, in realtà la società è complessa, e si muove sull’onda delle tante variabili che si condizionano tra loro. Dobbiamo però considerare che noi useremo la legge di selezione della specie come strumento di sintesi dei meccanismi causali. Quest’ultima è una selezione statistica delle soluzioni più probabili. Per tale ragione a maggior ragione più caratteri antiselettivi hanno una irrilevante possibilità di concretizzarsi anche nel caso in cui insieme, e solo insieme, siano selettivamente vincenti. Supponiamo ad esempio due caratteri, A e B, con versioni A1 e B1 selettivamente vincenti da sole, ma perdenti rispetto alla coppia (A2,B2). La probabilità che la popolazione converga verso la selezione dei caratteri è Np(A1) per A1, Np(B1) per B1 e Np(A2)p(B2) per (A2,B2) dove N il numero di individui della specie in tutto l’arco di tempo considerato e p(A1), p(A2), p(B1) e p(B2) sono le probabilità che il rispettivo carattere si presenti nel singolo individuo, di molto inferiori ad 1, per cui la probabilità che si affermino i caratteri (A2,B2) è normalmente molto inferiore a quella dell’affermazione dei caratteri A1 e B1.

Questo ci permette di affermare che un’analisi evoluzionistica dei caratteri comportamentali può essere congruamente effettuata in maniera separata.

4.1. Lo stato di natura Il concetto di stato di natura ha avuto un forte ruolo nell’evoluzione del pensiero sociale,

spesso in esso sono state proiettate visioni ideali. La rappresentazione di tale concetto è stata costruita sull’idea di una contrapposizione natura-società, per la quale la società moderna spiegherebbe i cambiamenti rispetto allo stato naturale. Si tratta di una visione impropria dal punto di vista di questa analisi. La società, come assetto di valori, significati e credenze più o meno comunemente accettate dalle comunità umane è un prodotto dei meccanismi di comunicazione umani, che sono meccanismi selettivamente determinati.

Nel nostro caso il concetto di stato di natura deve rispondere alla domanda: Come sarebbe l’uomo e la società umana se fosse stato determinato esclusivamente dalle leggi causali che sono presenti nel mondo in cui viviamo?

Tali leggi, come già argomentato, possono trovare una sintesi nella legge di selezione ambientale. Tale legge, va utilizzata nell’ottica dell’elemento fondamentale della natura umana, cioè il suo vivere in comunità organizzate. Bisogna poi considerare l’inerzia che caratterizza i caratteri, i quali tendono a persistere anche quando il loro vantaggio evoluzionistico si riduce.

Per tale ragione possiamo affermare che caratteri comportamentali umani possono essere considerati selettivamente spiegati se:

1) essi comportano, o hanno comportato in passato, un vantaggio riproduttivo individuale; 2) pur se comportanti uno svantaggio riproduttivo individuale, essi comportano, o hanno

comportato, in passato, un vantaggio riproduttivo per la comunità. In tale caso, è comunque necessario dimostrare l’esistenza di condizioni di equilibrio interne. E’ necessario dimostrare, cioè, che quella caratteristica, pur essendo individualmente svantaggiosa, tende a mantenersi in proporzione costante nella comunità.

Il primo carattere essenziale è dato dal modello decisionale che definiamo Empatico-

affettivo e che rappresentiamo come determinato dalla massimizzazione di una funzione di felicità individuale così determinata:

Fi [t] =Fi(Ii , Ai , F^j,ji ) [t] 3

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Per cui la felicità dell’essere umano i è data dalla soddisfazione dei suoi bisogni istintivi, I, dalla realizzazione delle sue affettività, A, e dalla felicità, F^, che gli altri esseri umani esprimono. Dei meccanismi istintivi portano tutti gli individui a sfogare il proprio stato emozionale verso l’esterno con tratti del volto, movimenti involontari, che determinano la F^. Tutte le componenti della felicità hanno come argomento lo stato dell’essere t .

L’uso di una funzione obiettivo per determinare il comportamento è diffuso nelle scienze sociali, in sé la funzione obiettivo non determina il carattere comportamentale ma trasferisce questa determinazione ai suoi argomenti esplicativi. Tra questi la I, cioè il bisogno istintivo, è trivialmente un argomento selettivamente spiegabile, le F^, che sintetizzano i meccanismi empatici che caratterizzano la specie umana, determinano una spinta individuale ad agire a favore della sopravvivenza della comunità per cui sono selettivamente spiegabili tramite il punto 23.

La I e la F^ sono fonti primarie di soddisfazione, mentre la A è una fonte derivata perché dipende dalla soddisfazione derivata nel passato da specifici stati dell’essere che sono associati allo stato presente. Un modo di rappresentare la 3, esplicitando la funzione di affettività, è quindi il seguente:

tFi [t] = tfi [t] + Ai ((s=0…,t-1)fi [s] )[t] 3.a sfi[s]=f (sIi , sF^j,ji ) [s]

La felicità dell’individuo è definita quindi come somma di una felicità immediata, fi, e di

una felicità affettiva, Ai. La felicità affettiva dipende dallo stato dell’essere presente, che però viene valutato in relazione alla felicità che stati dell’essere associati hanno prodotto nel passato.

L’affettività rappresenta una sorta di esperienza cumulata, che ripropone forme analitiche utilizzate per costruire processi di apprendimento nei sistemi di intelligenza artificiale. Nei modelli di reti neurali, i parametri associati alle variabili vengono corretti a ogni stadio dell’iterazione tramite un prodotto tra valore della variabile e risultato ottenuto nello stadio stesso. E’ interessante notare come tale semplice meccanismo produca risultati di notevole efficienza statistica. La combinazione di semplicità ed efficienza mi porta a pensare che la selezione biologica tenda a produrre strutture molto simili all’intelligenza artificiale e che queste siano alla base del formarsi dei meccanismi di relazione affettiva.

Se consideriamo che l’individuo, nel tempo, sceglie gli stati dell’essere che gli danno maggiore felicità, per cui l’effetto sui parametri della A è spesso additivo, vediamo come, con il passare del tempo, le scelte dell’individuo sono sempre più determinate dall’affettività stessa, e meno dalla felicità immediata. Questo è coerente con l’osservazione che gli individui, nel tempo, maturano, cioè presentano scelte più stabili, dando minori segnali di dinamica emotiva.

L’affettività agisce inoltre come un moltiplicatore di esperienze, permette all’individuo di fare scelte condizionate dalle preferenze di chi è assente, o addirittura è morto.

L’affettività spiega sia l’evolversi di relazioni stabili di amicizia o affettive, sia lo svilupparsi di legami affettivi nei confronti di cose o luoghi, che l’individuo associa a momenti di felicità passata. Spiega anche l’asocialità di quegli esseri umani che hanno vissuto esperienze di sofferenza, in relazione al rapporto con altri esseri umani, più in generale spiega il rifiuto di stati, luoghi e situazioni associati a momenti di sofferenza.

La 3, definendo preferenze collettive, spinge gli esseri umani ad agire per la realizzazione di obiettivi comuni, essere cooperanti, anche quando tale azione è dannosa per il singolo individuo. La funzione di preferenza collettiva, però, non è di tipo egualitario.

L’affettività, infatti, produce un processo selettivo, gli individui tendono a cercare il contatto con individui, cose o luoghi, che hanno dato loro maggiore felicità. La capacità di questi, di dare

3 Nella molteplice letteratura sui meccanismi empatici posso citare il classico di Olson, 1965, nonché il testo di Frank, 1988. Budiansky aiuta a capire quanto il meccanismo empatico abbia una storia biologica in comune con molte specie viventi;

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felicità, per questa ragione, continua ad accrescersi in rapporto a quella prodotta dalle altre esperienze.

Vi sono individui, perciò, che in base alle loro caratteristiche, assumono un peso maggiore, le loro preferenze sono più importanti nelle funzioni di preferenza collettiva, che ciascun individuo della comunità si forma. Si tratta di un aspetto, questo, che è stato notato fin dall’origine nelle ricerche sull’empatia, e che è alla base del fenomeno della Leadership4.

L’abbinamento tra la definizione di preferenze collettive e i meccanismi dell’affettività produce un indirizzamento da parte di tutta la comunità verso oggetti, luoghi e comportamenti comuni che generano tradizioni e cultura. Queste, essendo il cumulo dell’esperienza multigenerazionale di molti individui, tendono ad essere molto stabili.

Sulla premessa di questa stabilità si fonda una dottrina come l’Antropologia culturale che usa la memoria culturale umana per investigare civiltà esistite in tempi lontani.

La comunità composta di individui cooperanti può, grazie a questo, garantire condizioni di vita medie migliori e maggiore capacità riproduttiva, rispetto a una comunità composta di individui egoistici, cioè non cooperanti. I comportamenti di tipo cooperativo, quindi, sono selettivamente spiegabili.

Se però, nella comunità di cooperanti, è presente una piccola percentuale di individui egoistici, questi si trovano ad avere una capacità riproduttiva maggiore di quella degli individui cooperanti. Nel tempo, quindi, gli individui egoistici diventano maggioritari, facendo perdere alla comunità il vantaggio riproduttivo. In termini più tecnici diciamo che una comunità di individui cooperanti non è in equilibrio evoluzionistico5.

La soluzione possibile per questo problema è quella della definizione di preferenze morali. Nelle preferenze morali l’individuo cooperativo coopera al bene collettivo e punisce coloro che non sono cooperativi. Tale comportamento riduce la capacità riproduttiva degli individui egoistici e mantiene stabile la quota dei cooperanti, determinando un equilibrio evoluzionistico. I meccanismi di sanzione dei non cooperativi sono quindi evoluzionisticamente spiegabili, potremmo dire anzi che sono evoluzionisticamente necessari laddove abbiamo comportamenti di tipo cooperativo.

I meccanismi di preferenza morale, aiutano la comunità a risolvere alcuni dei problemi di cooperazione in quelle situazioni che siano risolvibili definendo regole comportamentali di tipo generale.

Vi sono situazioni, però, nelle quali è necessario operare delle scelte contingenti, è quindi necessario che ci sia qualcuno che prenda decisioni e che questo qualcuno sia seguito compattamente da tutti gli altri.

Abbiamo già visto come il modello empatico-affettivo comporti una naturale concentrazione dell’affettività verso alcuni individui, che definiamo Leader naturali. Questa concentrazione si affina con meccanismi comportamentali che sono selettivamente spiegabili proprio perché, rafforzando la formazione della leadership, rendono più forte la comunità. Tali meccanismi sono: competizione, gregarietà e agonismo.

Come competizione intendiamo la tendenza istintiva a confrontarsi con l’altro per vedere chi è il migliore, un’azione, quindi, indirizzata a capire chi merita di essere Leader.

Come gregarietà intendiamo la tendenza a seguire il Leader. Come agonismo intendiamo l’avversione nei confronti di chi fosse avverso al Leader.

Si tratta di caratteristiche comportamentali che sono tipiche dei maschi della specie umana, evidenziando come la risoluzione del problema della Leadership sia stata assegnata dalla natura a questo sesso.

Il fatto, poi, che tali caratteri siano affiancati ad una maggiore aggressività del sesso maschile, ci aiutano a comprendere il principale utilizzo che ha il meccanismo della Leadership, fare la guerra, cioè, competere con le altre comunità umane. 4 Già nel XVIII secolo, Adamo Smith nota la grande capacità degli individui di simpatizzare con i grandi ed i ricchi, mostrando la fondamentale asimmetria del meccanismo empatico, TSM pp. 65; 5 Un testo intuitivo per questi concetti è Frank, 1988 in particolare l’appendice, più tecnico, invece, è il Weibull, 1995;

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4.2. Primo test: La violenza umana. La violenza è una delle caratteristiche del comportamento umano, la tendenza cioè a far

soffrire, ferire o uccidere altri esseri viventi. Le ricerche antropologiche hanno evidenziato come la propensione alla violenza sia stata

significativa in tutta la storia dell’uomo. Gran parte dei resti di ominidi ritrovati portano segni di ferite prodotte da altri ominidi.

Questo non desta sorprese sul piano della selezione, nella rappresentazione dello stato di natura vediamo come la violenza sia essenziale sia nella punizione di coloro che non sono cooperativi, sia nella competizione con le altre comunità che si concretizza nella guerra.

Se poi consideriamo che, nel corso della storia umana, l’evoluzione tecnologica ha prodotto strumenti sempre più efficienti per mettere in atto la violenza, possiamo definire uno stato di natura nel quale la violenza umana è elevata e crescente. Una critica a tale definizione può essere data dall’osservazione che alcune comunità umane non civilizzate sono state osservate come di indole pacifica. In realtà tale indole è stata osservata tipicamente in comunità isolate, quindi in condizioni di assenza di condizioni di competizione. Il nostro test, invece, riguarda le società evolute, caratterizzate da elevato livello di popolazione e densità, quindi da alto livello di competizione.

In contrapposizione a questo aspetto dello stato di natura, nel corso della storia umana notiamo una progressiva riduzione della propensione umana ad usare la violenza.

Possiamo quindi considerare, la nostra analisi cumulata, come congruente con la tesi del Paradigma del disegno nel caso della violenza umana.

Per effettuare l’analisi differenziale e di processo abbiamo bisogno dell’aiuto dell’Antropologia culturale.

Gli studiosi di questa dottrina hanno osservato la presenza di numerosi elementi comuni in gran parte delle religioni umane. Essi danno quasi per certa la comune origine dei riti sviluppatisi nel continente Eurasiatico. Essa sarebbe attribuibile a popoli stanziati nell’Asia centrale che, in tempi antichissimi, sarebbero migrati verso la zona dell’Iran, e poi nel bacino dell’Indo, dando origine alle tradizioni religiose Indiane e Mesopotamiche. E’ da queste ultime che poi, si sarebbe sviluppata la religione Ebraica. Migrazioni più recenti, avrebbero poi colonizzato l’area del mar Egeo, dando origine alla religione e cultura Greca6. Altri ceppi rimasti nell’Asia Centrale, sarebbero all’origine dello sciamanesimo tipico dei popoli nordici Eurasiatici. Tipologie rituali analoghe a queste ultime sono state trovate anche nei popoli indigeni dell’America Settentrionale7.

L’origine comune delle grandi religioni pone una riflessione. Se questa è vera, infatti, vuol dire che l’ideazione (Ideazione si intende costruzione a nuovo, non è compresa la modificazione, evoluzione di religioni) di sistemi religiosi potrebbe essersi realizzata, nel corso della storia umana, una sola o pochissime volte. Questo è, a mio parere, incompatibile con l’idea di un’evoluzione del pensiero religioso per logica evoluzionistica, che avrebbe lasciato nella storia molte più tracce di sistemi religiosi differenti, nati e poi sopraffatti da altri perché poco efficienti.

Entrando nel merito degli elementi comuni, notiamo la presenza di una visione cosmica del mondo (Cosmo=Essere materiale+Essere spirituale) e la centralità del rito sacrificale, cioè dell’uccisione di un essere vivente che viene offerto alla o alle divinità che sono definite nell’Essere spirituale.

Il rito sacrificale consiste nell’uccisione, di un essere umano o di un animale, eseguita su un piano sopraelevato definito altare. Molteplici indizi ci dicono che il processo storico genera un passaggio dall’uso di esseri umani a quello degli animali. Questo passaggio è rappresentato anche

6 Krasinski, pp. 75-76; 7 Ibidem, pp. 187 e seg;

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nella Bibbia con l’esperienza di Abramo. Il passaggio è oltretutto coerente con la riduzione della spinta alla violenza che rende sempre più inaccettabile usare l’essere umano per il sacrificio.

Possiamo quindi affermare che, nel suo momento iniziale, il rito sacrificale utilizza esseri umani.

Proviamo a considerare la comunità umana nella quale il rito sacrificale ha il suo inizio. Possiamo supporre che, in tale comunità, l’uso della violenza sia conforme allo stato di natura, gli individui nei cui confronti il valore affettivo, definito dalla 3, diventa negativo, vengono eliminati perché percepiti come disutili.

L’introduzione del rito sacrificale spinge la comunità a usare questi individui per l’offerta alla divinità. Per questa ragione, la vita di questi individui assume valore affettivo positivo, perché essi possono essere offerti alla divinità. Con lo svilupparsi della ritualità sacrificale, il valore affettivo continua ad incrementare riducendo sempre più la propensione ad uccidere esseri umani.

Guardiamo ora alla prossenica del rito, dove il sacrificato assume posizione centrale e sopraelevata, cioè la stessa posizione del leader naturale quando si confronta con la sua comunità. Questa associazione determina il trasferimento di una parte dell’affettività che il leader naturale riceve verso il sacrificato.

Il rito sacrificale inoltre, con la sua forza emozionale, produce nella comunità una soddisfazione e una riduzione progressiva del desiderio di violenza8.

Infine dobbiamo considerare il ruolo del sacerdote, colui che concretizza il sacrificio. Ancora più del sacrificato questi assume la posizione e il ruolo del leader naturale. L’esclusività del suo ruolo spinge a far percepire l’atto violento, in quanto simile al rito sacrificale, una profanazione del rito stesso, inducendo un’ulteriore riduzione della spinta all’atto violento.

Tutti questi meccanismi, spiegano l’evoluzione del rito sacrificale in forme sempre meno violente.

Il senso della ritualizzazione è, quindi, quello di catturare la profonda spinta emozionale che caratterizza il compimento di atti violenti per canalizzarla verso l’atto e i simboli cultuali. In altre parole l’adepto (colui che segue il rito) sarebbe catturato originariamente dal piacere prodotto dagli atti, per poi vederli relegati e sempre più ristretti in un sistema simbolico, che lo spinge ad una progessiva riduzione degli atti dello stesso genere nella propria vita.

Vediamo quindi che il rito sacrificale permette di spiegare la progressiva riduzione della spinta alla violenza nella specie umana. Esso però ha caratteristiche tali da non poter essere ideato da un essere umano determinato dallo stato di natura. Supponiamo, infatti, che un essere umano avesse compreso la profonda nocività dei comportamenti violenti, la sua tendenza istintiva sarebbe stata, coerentemente con i meccanismi affettivi, quella di rifiutare ogni contatto con la violenza stessa, per cui mai avrebbe potuto pensare di utilizzare la violenza stessa in un rito per la comunità.

Passiamo ora ad analizzare tempi più recenti, intorno all’anno 30 d.C, Gesù di Nazareth esprime un concetto fondamentale: “Porgi l’altra guancia”. Con questo concetto, Gesù crea i presupposti per l’eliminazione del meccanismo moltiplicativo che, dalla violenza, produce altra violenza. Questo concetto, però, contrasta con i meccanismi sanzionatori. Ritengo sia difficile pensare che un concetto del genere possa essere prodotto da un essere umano evoluzionisticamente determinato. Ritengo sia ancora più difficile pensare che lo stesso concetto possa essere accettato da altri esseri umani evoluzionisticamente determinati. Supponendo che il concetto riesca comunque ad entrare nel sistema culturale di una comunità, questo altererebbe i meccanismi di controllo rendendo instabile il sistema culturale stesso.

Quest’ultimo punto è interessante, le variazioni introdotte sullo stato di natura possono essere dinamicamente stabili, come quelle espresse nel grafico 2, in quanto tendono naturalmente a non convergere allo stato di natura, o dinamicamente instabili, perché tendono a convergere verso lo stato di natura. In questo secondo caso gli interventi operati dall’entità cosciente sono necessariamente molteplici, oppure devono essere indirizzati a costruire architetture complesse che

8 Fromm, pp. 25-26;

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tengano conto di questa spinta al ritorno allo stato di natura. Per tale ragione, la persistenza, nei sistemi culturali, di messaggi come quello di Gesù, è prova ancora più forte della tesi di una congruenza del Paradigma del disegno.

4.3. Secondo Test: I sistemi politici democratici moderni Uno degli aspetti più importanti e caratterizzanti della società umana moderna è

l’evoluzione dei sistemi politici democratici e della loro capacità di gestire le istituzioni statuali. La teoria politica ha grosse difficoltà nello spiegare i processi che caratterizzano questi. La

difficoltà è sostanzialmente quella di capire come in un mondo fatto di individui si concretizzino scelte collettive. La fonte di questi problemi è, in realtà, originata dalla prevalente concezione individualista che si ha dell’Essere umano.

Nella descrizione dello stato di natura abbiamo visto come questo produca una naturale risoluzione del problema dell’azione collettiva, con le preferenze morali e con la definizione di un meccanismo di competizione che produce un leader naturale nei confronti del quale gli individui della comunità sviluppano una forte affettività e senso di gregarietà.

La presenza del leader naturale, comporta una avocazione delle questioni di stampo politico a quest’ultimo. La politica, cioè, non appare nel linguaggio comune. Questo anche perché la comunicazione è condizionata dalla figura del Leader, il quale ha interesse a far si che la comunicazione stessa sia funzionale alla stabilità del suo potere. La stabilità del potere del leader è selettivamente forte perché rende forte la sua comunità.

Abbiamo visto come il modello empatico-affettivo produca una percezione diseguale degli individui, tale percezione diventa funzionale ad una organizzazione interna dello stato naturale nel quale gli individui ricevono potere in funzione del loro peso nell’affettività della comunità, e tale peso sostiene il loro potere.

Guardiamo ora ai sistemi politici democratici moderni, provando a sintetizzarne le componenti strutturali:

1) Uguaglianza di principio di tutti gli individui; 2) Attribuizione del potere sulla base di una scelta politica razionale con pari opportunità da

parte di tutti gli individui; Per analizzare la concretizzazione storica del principio di uguaglianza possiamo muoverci in

maniera parallela all’analisi fatta sulla violenza. Il rito sacrificale, infatti, nel suo incrementare l’affettività direzionata ai soggetti che sono al margine della comunità, produce una riduzione della distanza relativa nella percezione degli individui della comunità.

Venendo poi a tempi più recenti, ritroviamo Gesù di Nazareth il quale, sul monte delle beatitudini, delinea una serie di principi gran parte dei quali possono essere sintetizzati dal concetto di dignità compensativa, cioè prendere le posizioni sociali più fragili e marginali ed associare ad esse il massimo di significati positivi. Nel tempo, la diffusione di questo concetto, produce un livellamento del valore affettivo degli individui, e quindi avvicina all’eguaglianza.

Veniamo ora al punto 2, esso necessita di una adeguata comprensione del meccanismo democratico in tutta la comunità tale meccanismo, cioè, deve essere parte della sua cultura.

Partiamo dalla premessa che il sistema democratico sia “migliore”, cioè che venga scelto dagli individui quando entra come opzione possibile nel sistema culturale.

E’, quindi, fondamentale analizzare l’evoluzione di una cultura politica e democratica. L’acquisizione di cultura è fatta di due componenti, l’esperienza e la valorizzazione affettiva

della stessa. Queste due componenti sono state derivate dal modello empatico-affettivo, che è un meccanismo di apprendimento, e quindi, necessita di informazioni. Tali informazioni vengono elaborate dal meccanismo affettivo per cui sono acquisite in funzione dell’affettività ad esse associate.

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La valorizzazione affettiva, nel caso della politica, risulta ridotta in maniera significativa in caso di presenza di un leader naturale forte e questo per due ragioni:

a) Il disincentivo che il leader opera nei confronti di ogni ragionamento attinente le questioni politiche;

b) La percezione, da parte della comunità, che il problema politico sia risolto dalla presenza del leader.

Il punto b può essere reinterpretato nei termini del concetto che la comunità sente il bisogno di un leader che gli dia sicurezza. Questo bisogno è il pilastro fondamentale della forza del leader.

Per questa ragione, la presenza di una figura leader aggiuntiva indebolisce la forza del leader, questo anche quando questa figura è immateriale come una divinità. La divinità è tanto più capace di sostituire il leader naturale, quanto più la sua natura viene percepita come umana.

Se proviamo ad andare ad indagare i due contesti storici nei quali la cultura politica democratica si è sviluppata troviamo l’antica Grecia, caratterizzata da divinità molto umane, sia in termini di immagine, che in termini di comportamento, e la civiltà Occidentale, che si sviluppa sotto il segno di Gesù Cristo, cioè il Dio fatto uomo.

Completiamo il discorso notando che l’esistenza di divinità in un sistema culturale è selettivamente inspiegabile perché comporta una inutile astrazione, e quindi un costo in termini psicologici, verso un Essere spirituale. L’astrazione è inutile perché tutti i vantaggi evoluzionistici che la comunità ottiene dal fatto di avere un Leader Divino sono ottenibili con un Leader più materiale: Un leader naturale, una città, un’idea di Nazione9.

Con la presenza della divinità il leader naturale diventa leader secolare, cioè caratterizzato particolarmente nel suo ruolo di gestione della forza e indebolito nel suo ruolo di catalizzatore dell’affettività della comunità che è direzionata in parte verso la divinità.

E’ importante l’equilibrio che si crea tra leader secolare e divinità. Al riguardo possiamo guardare alcuni esempi storici. Si va dall’unzione operata nel mondo Giudaico sul Re da parte del profeta, abbiamo poi, nel mondo romano, i riti di devozione che il vincitore in battaglia doveva offrire al tempio di Giove Capitolino. Infine, nel medioevo, il concetto di incoronazione e di unzione del Re da parte del leader religioso, cioè colui che fa le veci della divinità. In tutti questi casi il leader secolare è in condizione di subalternità rispetto alla divinità Tale subalternità è selettivamente inspiegabile, tenuto conto che il potere reale è nelle mani del leader secolare, e che questi è caratterizzato dalla spinta istintiva a diventare un leader naturale, cioè assoluto.

Riguardo all’esperienza umana, nell’ambito della politica, torniamo di nuovo ad analizzare i due contesti storici nei quali il pensiero politico si sviluppa, cioè quello Greco antico, e quello della civiltà Occidentale.

In entrambe i casi noi troviamo una realtà culturale omogenea, cioè caratterizzata da omogeneità di lingua, credenze e ritualità, ma frazionata in differenti sistemi politici. Questo comporta una cumulazione di esperienza, perché gli individui possono, all’interno della stessa realtà culturale, osservare differenti sistemi politici. Risulta inoltre essere rafforzato il potenziale critico nei confronti di ciascun sistema politico, perché vi è presenza di individui che osservano questi sistemi senza esserne sudditi.

9 . Il meccanismo di definizione del leader nasce dal modello Empatico-affettivo, in generale esso può avere per oggetto qualsiasi concetto o elemento materiale. Nella serie sono stati riportati casi che sono dotati di livelli di astrazione crescenti. La predisposizione originaria a sviluppare affettività verso un essere umano, però, rende la soluzione del leader naturale selettivamente più forte. Il concetto di leader divino sarebbe all’ultimo posto di questa serie, esso è infatti più astratto del concetto di nazione perché quest’ultima ha dei referenti indiretti di natura fisica (un territorio, un popolo, una lingua). Sottolineiamo che, mentre l’incremento del livello di astrazione è poco spiegabile in senso evoluzionistico, la sua riduzione è, invece, perfettamente spiegabile. Questo potrebbe permettere di spiegare l’evoluzione degli assetti assetti istituzionali di potere, fondati su un’idea di nazione, su un’idea di stato organizzato secondo un determinato sistema ideologico, come riduzione dell’astrazione rispetto all’esistenza di un leader divino;

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Anche qui troviamo la difficoltà, in una logica selettiva, del formarsi di una situazione del genere, perché la spinta competitiva della leadership naturale tende a produrre un unico leader per una realtà culturale omogenea.

Potremmo dire, quindi, che le componenti essenziali dello sviluppo di una cultura democratica sono, quindi, nella debolezza e frammentazione del potere.

La nostra analisi differenziale, quindi, si concretizza in eventi che hanno favorito questa debolezza e questa frammentazione.

Credo che sia facile essere d’accordo sul fatto che la fase iniziale dello sviluppo della civiltà Occidentale, cioè il periodo seguente il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, abbia queste proprietà.

A queste si aggiunge un ulteriore elemento. La civiltà sopravvissuta al crollo di detto impero si è trovata in condizioni di subalternità politica rispetto ai popoli barbari che la dominavano. La netta superiorità della cultura latina ha fatto si che detti popoli fossero perdenti dal punto di vista culturale pur essendo dominanti sul piano militare. Si è creata quindi l’opportunità dello sviluppo di una cultura slegata dalle esigenze immediate del potere. Anche in questo caso, si tratta di una situazione selettivamente inspiegabile: la cultura, infatti, comporta maggiore unità10 e tecnologia, quindi forza militare; Chi detiene la cultura diventa politicamente dominante, nella sua dominanza tende a minimizzare o annullare il ruolo delle culture di chi è politicamente dominato, per cui la dominanza culturale coincide con quella militare.

Possiamo dire, quindi, che un’entità interessata allo sviluppo di una cultura democratica avesse interesse a favorire il crollo dell’Impero Romano d’Occidente. Tale evento rimane anomalo, il dibattito storiologico ha avuto difficoltà a spiegare una così repentina caduta della forza bellica dell’Impero. Il prossimo paragrafo presenta una spiegazione dell’evoluzione di tale crollo congruente con la tesi del Paradigma del Disegno.

4.3.1. La crisi dell’Impero Romano d’Occidente

Cosa produce la crisi dell’Impero Romano d’Occidente? Per rappresentarlo mettiamo a confronto due momenti della storia di quel periodo.

Il primo momento è l’inaugurazione dell’Arco di Costantino nella città eterna, donato a Roma, nel 315 d.C., da un senato romano, in gran parte pagano, all’Imperatore che ha Istituzionalizzato la cristianità11. Si tratta probabilmente di un atto che, più che alla gratitudine, è dovuto a una logica di affermazione di un ruolo per il senato e per la città eterna, nelle funzioni dell’Impero.

Il secondo momento è dato dal sacco di Roma, operato dai Visigoti, nel 410 d.C.. Il mondo è cambiato, in meno di un secolo, in quello stesso impero che aveva creato, la città

eterna viene abbandonata a se stessa. In questo periodo si consuma la crisi del mito più importante di tutta la storia antica,

talmente importante da aver fondato e retto un assetto istituzionale durato circa 1000 anni12. Cosa è cambiato in questi 100 anni? Un competitore, Costantinopoli, svolge il ruolo di

simbolo del potere meglio di Roma.

10 La cultura nasce come concentrazione di affettività, da parte della comunità, nei confronti di luoghi, oggetti, persone ed eventi, che definisce un’identità comune. Maggiore la cultura, maggiore il senso di identità, maggiore l’unità; 11 Arco di Costantino; 12 Come argomentato nel capitolo precedente, un’organizzazione statuale necessita di un sistema simbolico che accentri l’affettività dei cittadini e li faccia sentire assogettati allo stesso. Nella storia umana abbiamo avuto differenti forme di sistemi simbolici: Leader carismatici, sistemi religiosi, dinastie, sistemi culturali (cultura democratica, cultura patriottica e nazionalista, cultura socialista). Nel caso della storia di Roma è proprio la città che assume il ruolo simbolico di centro di affettività dello stato e con essa il mito della sua storia passata;

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Con sette colli, divisa in 14 regiones, con una Curia che non conta niente ma che è lì per ragioni simboliche13, con la pietra miliare, forse con il Palladio, insomma con tutti gli attributi simbolici di Roma, la città che Costantino voleva chiamare Nuova Roma, dicendo implicitamente che Roma era ormai vecchia, basta a garantire quell’autorevolezza della quale l’Impero ha bisogno, almeno nella sua parte Orientale14.

Quella Occidentale, invece, è stata lasciata dal grande Imperatore con tanti problemi. Alla sua morte, le due prefetture di Treviri e Milano mantengono notevoli poteri decentrando quel potere che, invece, ad Oriente viene accentrato verso Costantinopoli.

Costantino, in contraddizione con il principio da lui professato -Un solo Dio, un solo imperatore, un solo impero- non nomina un erede. Prevedibile la spartizione del potere tra gli eredi naturali, nella quale l’Oriente va a Costanzo II mentre gli altri si spartiscono la parte Occidentale. La continuità del potere di Costanzo II rafforza la centralità di Costantinopoli a dispetto del primato di Roma15.

Infine è proprio la città di Roma la fonte di una perenne conflittualità da parte dei nostalgici degli Dei pagani, che contestano la presenza e il potere assunto dalla Cristianità, da Costantino in poi.

Sono tutti questi eventi che producono la caduta del mito, la caduta dell’immagine di superiorità che Roma aveva sempre mantenuto. Questa immagine era, allo stesso tempo, fonte di timori reverenziali per i potenziali nemici, e fonte di unità per tutti coloro che erano romani, era la chiave di volta sulla quale si reggeva l’equilibrio istituzionale di Roma.

Gli storici hanno evidenziato, nella crisi dell’Impero Romano d’Occidente, il progressivo indebolimento delle istituzioni centrali insieme con l’imporsi di interessi individuali e localmente definiti 16. Questi fatti sono causa della parte finale della crisi, ed effetto della crisi di quel sistema simbolico che si reggeva sul mito e sull’immagine di Roma.

A tutto questo si aggiungano le critiche operate da Gibbon nei confronti dell’Imperatore, in particolare per aver iniziato quell’indebolimento delle milizie di confine che avrebbe favorito le invasioni barbariche 17.

Dietro tutte le concause evidenziate, con l’unica eccezione dell’esistenza della religione Cristiana, c’è un solo nome: Costantino il Grande.

4.3.2. Le strategie di Costantino

Abbiamo spiegato perché Costantino causa il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ora la domanda è perché l’ha fatto?

Proviamo ad analizzare la strategia della sua azione politica che può essere sintetizzata in cinque componenti:

1) Ripristino dell’unità dell’Impero sotto la sua guida e contemporanea eliminazione dei potenziali competitori;

2) Istituzionalizzazione della religione Cristiana; 3) Fondazione di Costantinopoli; 4) Accentramento del potere istituzionale nella parte orientale dell’Impero; 5) Mantenimento di un potere distribuito nella parte occidentale dell’Impero18.

13 Direi che questo caratterizza la ratio della fondazione Costantiniana, a Costantino interessa la Curia come simbolo di potere, ma non come istituzione, è li per essere vista, non per essere usata; 14 Costantinopoli; 15 Costanzo II; 16 Brancati 1980, 69; 17 Costantino I; 18 Pur non avendo agito attivamente nel decentramento del potere, Costantino accetta passivamente un’evoluzione nella quale le capitali Tetrarchiche Orientali perdono ruolo a vantaggio di Costantinopoli, mentre quelle Occidentali, più lontane dalla nuova Roma, mantengono necessariamente un ruolo;

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Di queste, la seconda, la terza e la quinta sintetizzano le cause che hanno prodotto

l’instabilità dell’Impero Romano d’Occidente. La prima e la quarta sono coerenti con una logica di acquisizione e stabilizzazione del

potere, è da notare però che Costantino non persegue un accentramento del potere nella realtà Occidentale e questo è incoerente con tale logica. La stessa fondazione di Costantinopoli lascia pensare all’obiettivo di costruire un Impero Orientale indipendente dalla parte occidentale, della quale lui sembra disinteressarsi pur essendo lui stato, originariamente, il signore delle Gallie.

Veniamo ora alla fondazione di Costantinopoli che si realizza dopo che Costantino ha dato la dignità di capitale religiosa Cristiana alla città di Roma promuovendo la costruzione di alcune delle grandi basiliche della cristianità. Questo aspetto è in contraddizione con la tesi per la quale la principale ragione per cui Costantino decide di fondare Costantinopoli è il bisogno di una capitale cristiana laddove Roma era troppo pagana. Quest’ultima tesi è anche in contraddizione con la scelta di costruire anche templi pagani nella sua Nuova Roma19.

La tesi sulla paganità di Roma è incoerente anche con l’affermazione che Costantino ha sostenuto il Cristianesimo per strategia politica: Che senso ha affermare che Costantino appoggia il Cristianesimo per ottenere l’appoggio dei Cristiani se poi è costretto a trasferire la capitale? La critica può essere rafforzata dalla valutazione dei problemi logistici che hanno caratterizzato la costruzione della nuova capitale, una capitale che sarà completata solo dopo la morte del suo fondatore, in particolare a causa della difficoltà di reperire l’acqua20.

Il rapporto di Costantino con la religiosità è, d’altronde, molto elastico: pur agendo a favore della Cristianità, lui dichiara di venerare il Dio Sole, cioè il dio più venerato dall’esercito romano, perché allora pensare che lui percepisse una così forte difficoltà dal fatto che l’Impero fosse gestito in una Roma pagana.

Sulla localizzazione della nuova capitale, poi, vi sono poi alcune osservazioni strategiche da fare. Costantino era stato signore a Treviri, capitale della parte più occidentale dell’impero, situata nella Gallia settentrionale vicino a quel confine, segnato dal fiume Reno, oltre il quale si materializzava il principale pericolo per l’impero, i popoli barbari. La scelta di una capitale così strategicamente posta era appunto indirizzata a rafforzare militarmente quel confine per ovviare a questo pericolo vitale. Costantino era, quindi, necessariamente cosciente di questo aspetto strategico, mentre invece non vi era alcuna ragione strategica per posizionare una città con ruolo di capitale sul Bosforo.

Volendo poi posizionare la capitale in maniera baricentrica rispetto all’impero, sarebbe stato razionale per lui posizionarla in quell’Illiria dove Diocleziano si era ritirato, dove lui aveva vissuto per anni alla sua corte, sicuramente più centrata sull’impero, posizionata nel territorio che produceva i soldati migliori e in posizione di controllo rispetto all’accesso più agevole alla penisola italica.

Anche sull’istituzionalizzazione della religione cristiana è possibile osservare il notevole impegno di Costantino a favore della stessa, una strategia certamente rischiosa per il peso che la cultura pagana aveva in quella realtà. Un abile stratega come Costantino, se fosse realmente stato interessato al Cristianesimo solo per ragioni strategiche, per quale ragione avrebbe dovuto preoccuparsi dell’ordine interno della Chiesa Cristiana convocando il concilio di Nicea oppure promuovere la costruzione delle grandi cattedrali in quella Roma che lui voleva abbandonare?

L’interesse di Costantino per un ordinamento interno della Chiesa certamente favorisce una stabilità nei confronti del conflitto con la teologia Ariana, ma, aumentando il potere della Chiesa Cristiana, aumenta il conflitto con la tradizione pagana. Ancora una volta ritorniamo a una situazione nella quale Costantino preferisce l’ordine e la stabilità in oriente a danno della stabilità dell’occidente.

19 Costantinopoli; 20 Costantino Imperatore …;

19

In sintesi vediamo, che i comportamenti di cui ai punti 2, 3 e 5, cioè proprio quelli sospettati di aver causato la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, sono quelli meno spiegabili in una logica strategica di potere.

4.3.3. Il patto di Costantino La più celebrata vittoria di Costantino è quella contro Massenzio. Tutti conoscono la storia

dell’”In hoc signo vinces”, leggenda molto pubblicizzata dalla Chiesa Cattolica. Solo gli appassionati di storia, invece, sanno che Costantino racconta di aver deciso di scendere in guerra contro Massenzio dopo aver avuto la visione del Dio Apollo nel suo tempio. Per lui era una scelta difficile, perché sapeva di essere in inferiorità rispetto a Massenzio per cui andare ad attaccarlo in casa sua era un forte rischio, eppure va e vince21.

Intorno al 315 d.C. il Senato romano dedica a Costantino un Arco di Trionfo. L’azione di Costantino veniva definita come realizzata “su ispirazione divina”, cioè sottolineando il suo contatto particolare con la divinità, senza specificarne la numerosità. Si tratta di un’affermazione fatta da un Senato Romano in maggioranza pagano, un’affermazione forte e convinta tenuto conto della problematicità che doveva avere, in quel tempo di conflitti religiosi, un’affermazione su queste tematiche, che afferma, in maniera pubblica, il rapporto diretto dell’Imperatore con la divinità.

Probabilmente è anche per questa convinzione che venne accettato il cambiamento che l’istituzionalizzazione della Chiesa Cristiana stava portando.

Un altro cambiamento rivoluzionario che Costantino prepara è la fondazione di una nuova capitale, che lui voleva chiamare Nuova Roma, e anche questo cambiamento viene accettato nella vecchia capitale senza alcuna reazione.

La convinzione che la città fondata dall’imperatore divinamente ispirato, sia essa stessa volontà divina è probabilmente rafforzata dalla scelta dello stesso di tracciare il solco della stessa con la lancia, ripetendo l’antico rito etrusco per il quale è la divinità stessa a guidare l’azione di colui che traccia il solco 22.

L’idea che la nascità di Costantinopoli fosse espressione della volontà Divina può spiegare l’ accettazione del profondo mutamento operato nell’Impero più dell’autorità stessa dell’Imperatore. La sua Nuova Roma, infatti, viene completata pacificamente dopo la sua morte, ed il suo ruolo di capitale si afferma progressivamente nel tempo. In effetti, una ragione con la quale si può spiegare la coerenza dei tanti che hanno coagito in questa affermazione è il fatto che pensassero che questa era la volontà divina.

Nessuno potrà mai produrre la prova che Costantino è stato realmente testimone di esperienze soprannaturali, resta comunque il fatto, che i comportamenti dell’Imperatore meno spiegati, da una logica strategica di potere, sono quelli che egli dichiara di associare a una guida soprannaturale, la cui esistenza è accettata a quel tempo quasi fosse un fatto oggettivo.

Quegli stessi comportamenti sono inoltre internamente coerenti, nel senso che direzionano coerentemente verso un obiettivo, la crisi della parte Occidentale dell’Impero Romano, essi sono quindi congruenti con il Paradigma del disegno nell’obiettivo della realizzazione di una cultura democratica nell’Europa Occidentale.

Il fatto che poi, lo stesso imperatore, sia stato sia il fondatore istituzionale della Chiesa Cristiana, sia il fondatore di Costantinopoli, offre spunto per ulteriori riflessioni.

Sia la Chiesa Cristiana, sia la fondazione di Costantinopoli possono essere visti come prodotti dallo stesso Disegno. E’ come se la volontà che è dietro questo Disegno avesse

21 La Storia, 132-146; 22 Costantino Imperatore …;

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approfittato dell’opportunità data dalla permeabilità23 dell’Imperatore ai suoi messaggi per mettere a segno due risultati. Un’altra ipotesi è quella che i due eventi siano contingenti. La forza dell’Impero Romano serviva a favorire l’espansione della Cristianità in una condizione di pace. Una volta, però, che tale espansione fosse arrivata ai vertici dell’Impero, invece, l’impero diventava un limite e quindi doveva essere indebolito.

4.3.4. La nascita dell’Islam Abbiamo visto come la concretizzazione del Disegno necessiti di un’azione di

indebolimento di quelli che sono gli elementi di accentramento del potere politico. In relazione a questo, la stessa religione Cristiana può rappresentare un problema. L’altissimo livello di tensione affettiva direzionato su di essa, nella storia della civiltà Occidentale, sarebbe potuto diventare elemento di accentramento del potere.

Questa possibilità sarebbe aumentata in funzione dell’esistenza di un referente oggettivo, fisico, che avesse simboleggiato la cristianità stessa. Il candidato ideale per tale ruolo avrebbe potuto essere la città di Gerusalemme, il luogo delle origini della religione Cristiana.

Sulla base di questa premessa andiamo ad analizzare gli eventi che hanno caratterizzato la storia di questa città dalla fondazione del Cristianesimo in poi.

“Verranno giorni in cui tutto quello che ammirate sarà distrutto e non rimarrà pietra su pietra”24. Con queste parole Gesù profetizza le distruzioni di Gerusalemme che sarebbero state realizzate nel 70 e nel 135 d.C..

Il fatto di essere profetizzate e di essere un fatto non consueto nelle strategie dei Romani suggerisce l’idea che questi eventi possano essere stati favoriti dal Disegno.

Come già premesso Gerusalemme, come potenziale di accentramento della affettività, poteva rappresentare un problema. Tale potenziale era tanto più alto quanto più la città era maestosa, capace di sollecitare carica emozionale, per cui la distruzione ha favorito la realizzazione del Disegno.

Nonostante tale distruzione, la spinta dei Cristiani verso Gerusalemme è stata tale da spingerli alle crociate, con le quali la cristianità cercava di portare nel suo dominio il suo luogo delle origini.

Tale conquista è stata impedita da un evento preciso. Nel VII secolo Maometto da luogo a una nuova religione, la religione musulmana. Nell’arco di circa 40 anni si forma un impero sotto il segno di questa religione che domina gran parte del Mediterraneo. Da notare che i quattro Califfi che hanno guidato il popolo Arabo in questa progressione sono stati definiti ispirati, nel senso di ispirati da Dio, proprio lo stesso concetto usato dal senato romano per l’Imperatore Costantino.

Maometto afferma di essere stato indirizzato alla sua missione di fede dalle apparizioni dell’Arcangelo Gabriele. Certo è che la forza emozionale che egli imprime alla fede propagata, è tale da trasformare un popolo disunito in una forza compatta di guerrieri che, oltretutto, producono una civiltà di alto livello, per quei tempi.

Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad eventi selettivamente poco spiegabili, ma che hanno una spiegazione finalistica posta in premessa.

23 La storia umana è caratterizzata, in tutte le epoche, dalla presenza di individui che affermano di ricevere messaggi soprannaturali. Profeti, veggenti, santi, sono tutte figure che nella storia hanno espresso in varie forme questa caratteristica che, supponendo che tali affermazioni siano veritiere, non è diffusa in tutti gli uomini; 24 Luca 21,6;

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4.3.5. Analisi di processo La distanza di più di 1000 anni, tra gli eventi descritti e l’evoluzione del pensiero politico e

democratico moderno, e della sua istituzionalizzazione, possono dar sostegno alla tesi che i due eventi siano poco collegati.

Tutto questo periodo è caratterizzato da una molteplicità di tesi politiche che producono un continuo dibattito, molto sottoposto al vaglio del pensiero religioso. Si tratta di una situazione differente da quella che caratterizza altre dottrine sociali o il pensiero scientifico che avranno una loro evoluzione solo nelle epoche più moderne. Si tratta anche di una situazione differente da quella insistente in altre realtà istituzionali contemporanee alla civiltà medioevale occidentale, tutte caratterizzate da forme di potere accentrato, e in alcuni casi da livelli culturali che, nel complesso, possono essere considerati anche superiori a quelli della civiltà medioevale occidentale ma che, comunque, non approfondiscono le tematiche politiche.

La causa della particolarità della civiltà medioevale occidentale è nel profondo senso di incertezza che caratterizza il suo assetto istituzionale, per la crisi dello stesso nella fase iniziale, e per la sua frammentazione successiva nei conflitti tra impero e papato, tra imperatori, re, feudatari e comuni.

Notiamo come l’itinerario descritto possa essere rappresentato dal sentiero D2 nel grafico 2, dove una sostanziale situazione di crisi seguente al crollo dell’Impero Romano d’Occidente, pone il territorio su un sentiero particolare di crescita e costruzione culturale i cui risultati si sarebbero visti solo in tempi lontani.

4.3.6. Qualche ultima parola sui sistemi politici L’analisi dell’evoluzione della storia, nell’ottica della tesi del Disegno, e in funzione

all’evoluzione dei sistemi politici, ha offerto ipotesi articolate. Quella che certamente il lettore sarà portato a considerare più bizzarra è quella sulla nascita dell’Islam.

D’altronde il pensiero comune tende ad interpretare le religioni in funzione di una finalità spirituale. Se ci riflettiamo vediamo però che la stessa chiave di ragionamento è stata posta in essere in relazione alla religione Cristiana che è una componente certamente essenziale ma non totalitaria, del Disegno della Civiltà.

Le due funzioni, quella spirituale e quella storico-sociale, non sono in contrasto. Una volta che venisse accettata la funzione storico-sociale, si può discutere sulla funzionalità di quest’ultima alla funzione spirituale.

L’importanza dei sistemi politici, nella società umana, è comunque tale da rendere interessante il discorso sulla funzione della religione, nella costruzione delle realtà politiche moderne. Un approccio critico alla tesi esposta, può essere fondato sulla considerazione che in molte fasi di cambiamento della storia Occidentale, nell’evoluzione dei moderni assetti democratici, gli esponenti delle istituzioni religiose sono stati in posizioni reazionarie.

La risposta migliore a tale critica è data dal rimandare al capitolo 1 del presente testo. La critica in questione evoca una insanabile contraddizione interna: I concetti religiosi

contengono il germe di nuovi assetti istituzionali e sociali, ma sono propagandati da Chiese che sono parte dei vecchi sistemi istituzionali e sociali.

In tutte le situazioni di questo genere, siamo in presenza di comportamenti selettivamente inspiegabili, da parte degli appartenenti alle istituzioni religiose, perché direzionati a diffondere concetti che mettono in discussione il potere delle istituzioni stesse.

Consideriamo, ad esempio, il peso che ha avuto, nella cultura Occidentale, il contrasto tra Gesù e i leader religiosi del suo tempo. Al riguardo posso portare la mia esperienza psicologica, avendo sempre sentito questi eventi come fonte di una forte spinta motivazionale alla contestazione delle gerarchie religiose. In un mondo nel quale la gestione del potere fosse stato il principale

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obiettivo di dette gerarchie, queste parti della tradizione evangelica avrebbero dovuto essere eliminate, ed invece non lo sono state mai.

Il contrasto tra nuovi e vecchi assetti istituzionali assume una rappresentazione moderna nel rapporto tra le due più generali strutture teoriche della politica, la destra e la sinistra.

E’ significativo come l’insieme di argomentazioni della destra, il riferimento ai poteri predefiniti, alle tradizioni, la ricerca di leader forti, siano tutte fondate su argomenti selettivamente spiegabili.

Di contrasto, la sinistra, appare fondata su premesse teoriche di uguaglianza di tutti gli individui che, come abbiamo visto, sono selettivamente inspiegabili e appaiono essere una derivazione del fenomeno religioso.

Conclusioni Obiettivo principale del presente testo è soprattutto quello di delineare un metodo per

confrontarsi con il problema del confronto tra fede e razionalità. Il problema viene affrontato con un approccio che può essere tranquillamente definito come materialistico, nel senso che il Disegno si pone come un progetto di civiltà terrena, progetto che potrebbe essere tranquillamente accettato senza introdurre necessariamente ipotesi di soprannaturalità nella natura umana. E’ evidente, però, che l’affermazione della tesi del Disegno sollecita la domanda del chi e perché muove la storia umana.

Il metodo, poi, offre nuove opportunità di analisi della realtà sociale. In generale, quando si cerca di spiegare gli aspetti della realtà sociale, si usa partire dal primo essere umano che, con il suo pensiero espresso, lo ha favorito o descritto. In un altro metodo si parte dall’analisi etimologica dei concetti che descrivono questo aspetto. Così per la democrazia si parla dei filosofi Greci, dei filosofi moderni che l’hanno teorizzata, della radice Greca del concetto stesso.

In tutti questi casi, si fa riferimento a un qualcosa, cioè il pensiero di un individuo o il linguaggio di una civiltà antica, che non è un principio originario, non è un archetipo.

Il metodo presentato offre due ordini di archetipi, la razionalità causale, indipendentemente da tutte le proprietà particolari che la caratterizzano e che devono essere investigate dalla scienza, e la razionalità finale non riducibile, le cui proprietà particolari possono essere investigate dalla Teologia o da qualche altra dottrina fondata su approcci più pragmatici della quale il metodo sviluppato potrebbe tranquillamente essere parte.

L’analisi ha preso in considerazione solo alcuni importanti aspetti della realtà sociale. Naturalmente non sono i soli analizzabili, d’altronde l’ambito di analisi è quanto di più ampio possiamo concepire nel mondo della conoscenza, il dibattito fede-razionalità non conosce barriere epistemologiche.

La numerosità degli aspetti analizzati può giocare a favore della tesi del Disegno, una volta che venga evidenziata la coerenza delle situazioni osservate, il loro essere legate alla stessa razionalità finalistica. E’ l’osservazione di tale legame che ha suggerito il sottotitolo, “La razionalità nella fede”, che vuole alludere alla razionalità della volontà che questa fede ha costruito, e che tramite questa razionalità può essere riconosciuta.

Bibliografia

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Costantino I su Wikipedia. Costantino Imperatore d'Oriente e d'Occidente – Documentario trasmesso su Raiuno il 17/08/2013. Costantinopoli su Wikipedia. Costanzo II su Wikipedia.

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