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La maternità ambivalente
Elena Rosci
Probabilmente il titolo della mia relazione ha fatto emergere in voi un’aspettativa che non sarà soddisfatta.
Quando si parla di ambivalenza materna infatti vengono alla mente le complesse vicissitudini affettive che
caratterizzano la relazione fra madre e figlio e la sua lunga storia.
Oggi, INVECE, vi presenterò il tema da un altro punto di vista che riassume il significato e i risultati della
ricerca clinica che ho sviluppato negli ultimi anni. Vi parlerò dell’ambivalenza della donna di fronte al
progetto, ALLA SOLA IDEA, di diventare madre.
La mia pratica clinica si è imperniata sull’ascolto di donne di tutte le età. Nell’ultimo decennio mi è risultato
sempre più evidente ciò che avevo intuito confusamente già molti anni fa.
E’ stato ampiamente descritto come la madre percepisca in modo nuovo se stessa e il figlio, in quanto oggi
gli elementi narcisistici investono profondamente la relazione educativa arrivando a porre in secondo piano
la dimensione della regola e della colpa.
Fedele alla tradizione psicoanalitica mi sono mossa da qui non per andare avanti ma per percorrere un
cammino a ritroso e ho posto la mia attenzione sullo stato mentale della donna PRIMA, quando è alle prese
non con il figlio ma con la decisione stessa di diventare madre.
Già Freud all’inizio del secolo scorso aveva acutamente rilevato che l’assenza del ciclo mestruale, quale
segno di una gravidanza in corso, poteva esse colto non solo con giubilo ma anche con sgomento e ansietà e
quindi in modo ambivalente.
Fino agli Settanta del secolo scorso, in assenza di contraccettivi sicuri e in presenza di una forte sudditanza
sociale delle donne, la maternità era da considerarsi un destino e non una scelta.
Poche donne infatti si sottraevano al destino materno. Quelle che dicevano no appartenevano a due categorie:
le sterili e le donne che non si sposavano. Fra queste emergono le religiose, le zitelle che vivono in famiglia
e le intellettuali che, come Rita Levi Montalcini o Simone de Beauvoir, volevano sperimentare l’eccellenza e
la solitudine dei numeri primi rimanendo senza figli per creare in altri ambiti. In queste biografie femminili
d’eccellenza è evidente che, se il matrimonio senza figli non è pensabile, chi vuole essere e fare altro decide
di rinunciare al matrimonio stesso.
Negli ultimi trent’anni, è cambiato tutto.
La maternità non è più un destino, non è più l’effetto secondario e scontato del matrimonio ma diviene
piuttosto oggetto di una scelta personale e di coppia nella quale ogni donna si interroga sul giusto e
sull’ingiusto, sull’opportuno e sull’inopportuno in modo personale cercando un punto di equilibrio instabile
fra codice femminile e codice materno.
Un equilibrio tutt’altro che prevedibile e quindi l’effetto della riflessione diviene aleatorio. E’così che alla
chiamata materna non tutte rispondono con un si, A VOLTE compare il No deciso ma più spesso il FORSE,
e SOPRATTUTTO IL DOPO.
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Nella cultura tradizionale, quella della maternità come destino, la donna aveva una presenza sociale debole e
secondaria, non aveva autonomia economica e il suo codice femminile seduttivo era saggiamente rivolto ad
assicurarsi il migliore dei partner possibili, un buon partito, capace proteggere lei stessa e il figlio dai rigori
di un mondo esterno vissuto come estraneo e pericoloso. Il marito doveva muoversi nel mondo per procurarsi
un reddito, la moglie all’interno della casa proteggeva il nido, lo faceva bello, portava il decoro, la modestia,
il buon senso oltre alla propensione inesausta di ripianare i conflitti all’interno della famiglia. Presto, dopo il
matrimonio la donna aveva un bambino e lo porgeva al marito come un dono. Era la sua realizzazione
compiuta di donna adulta, ciò in cui doveva brillare, il suo orgoglio e la sua felicità.
Per la madre identificarsi con gli aspetti dipendenti e deboli del figlio poteva essere relativamente facile,
anche lei infatti era debole e dipendente, almeno da un punto di vista sociale e il marito-padre doveva
supportarla dove era meno competente, aiutando il figlio ad affrontare i cimenti del mondo esterno e
distogliendolo dalla madre con la quale si supponeva esistesse una relazione a forte rischio di simbiosi.
In questo quadro la relazione coniugale non è paritetica ma è complementare, lui e lei si completano, si
muovono su terreni diversi e possono essere grati l’uno all’altra oppure trascorrere una vita infelice
caratterizzata dalla certezza di aver scelto il partner sbagliato. Nessuno infatti pensava che il matrimonio,
nella sua versione ottocentesca e romantica, fosse abitato da contraddizioni e conflitti dirompenti ma si
riteneva piuttosto che l’infelicità fosse da collegarsi prevalentemente con la sfortuna di un amore infelice o
impossibile. A ciò sembravano credere tutti nonostante questa ipotesi fosse contraddetta in modo evidente
dal fatto che il partner giusto non lo trovava quasi nessuno.
Questo quadro fa parte del passato e non del presente e del futuro.
Vi spiego perché.
Già negli anni Settanta nelle famiglie colte le figlie cominciano a essere educate alla luce di valori nuovi,
totalmente divergenti rispetto al destino femminile e materno tradizionale.
La pazienza, la castità, la generosità, l’attesa e la prudenza per non dire della modestia non sono più al centro
dell’educazione femminile anzi sono valori attivamente contrastati. Le giovani donne ora non devono più
trovarsi un buon marito ma anzi hanno l’onere e l’onore di cercare innanzitutto se stesse. Pensare alla propria
carriera professionale e sperimentare una sessualità sempre più libera e disgiunta da vincoli coniugali diventa
un luogo comune dell’educazione femminile tanto che chi educa la figlia ai vecchi valori è considerato un
retrogrado oppure uno che si situa ai limiti del maltrattamento.
La CULTURA DEL NARCISISMO, intesa non come patologia ma come valorizzazione della realizzazione
di sé, ha investito l’educazione maschile e femminile in egual misura e ci ha collocato di fronte alla fine di
un’epoca.
In seguito a ciò il codice femminile si è trasforma differenziandosi in due parti.
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Un livello è quello del successo sociale dove le donne fanno l’esperienza di poter essere ammirate e di
piacere a qualsiasi età grazie alle loro virtù sociali. Se in passato ogni donna perbene poteva piacere a uno
solo, il marito, ora può sperimentare l’inebriante possibilità di piacere a tutti in quanto competente,
intelligente, simpatica e così via.
L’impegno sociale delle donne porta con sé l’acquisizione di due prerogative tradizionalmente paterne:
l’indipendenza economica e la competenza sociale.
Questa nuova collocazione femminile modifica radicalmente il secondo livello, quello seduttivo del codice
femminile, che un tempo era l’unico. La donna non cerca più in un uomo capace di proteggere lei e il futuro
bambino dalle insidie del mondo esterno, cerca invece un partner col quale instaurare una relazione paritetica
che può eventualmente prevedere la protezione, ora condivisa, del piccolo.
Lei la competenza sociale ora ce l’ha di suo e il mondo esterno non la spaventa più come un tempo. La
seduzione ha ora un obiettivo più espressivo, libero in quanto slegato dal bisogno e al tempo stesso
narcisistico. I due devono trovarsi bene, rispecchiarsi e ammirarsi reciprocamente e avere anche un’ottima
intesa sessuale e sentimentale. Se questa intesa decade, infatti, spesso la coppia si separa anche se lui è un
ottimo padre.
Le ragazze di oggi, fin dall’adolescenza, e anche in età adulta, spesso non intravedono nel partner il futuro
padre del loro bambino quanto piuttosto un compagno di vita che sappia rendere l’avventura amorosa
elettrizzante, appagante e niente affatto noiosa e prevedibile.
L’orizzonte che ho delineato spiega la trasformazione radicale del codice femminile negli ultimi trent’anni,
un codice che si divarica profondamente dal codice materno spesso non è più al suo servizio.
MA…alla nostra rappresentazione culturale del codice materno che cosa è successo nel frattempo? La
risposta è semplice: non è successo nulla.
E’ rimasto fermo, immutabile, naturalistico, statico, romantico, ottocentesco, oblativo, soccorrevole e
generoso. Nella rappresentazione comune non si è modificato affatto….. tanto che se una donna non si
adegua ad esso è considerata una cattiva madre.
Ciò produce una cronica incertezza della donne di fronte al progetto di avere un figlio che, sempre
rimandata, spesso non realizza.
D’altra parte la politica nei paesi di area mediterranea si muove come se all’interno della famiglia ci fosse
ancora una donna tradizionale alla quale delegare in toto le funzioni di cura. I servizi per l’infanzia sono
pochi e anche quelli destinati agli adolescenti e ai giovani adulti sono pressoché inesistenti in quanto si
suppone che ci sia una madre all’interno della casa che non aspetta altro se non di prendersi cura di tutti i
bisogni degli altri. Irresponsabilmente la nostra politica considera il bambino alla stregua del piccolino della
sua mamma e non come un soggetto con diritti e doveri, che è nell’interesse pubblico investire sulla sua
crescita.
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Paradossalmente tanto più l’educazione delle donne avversa il masochismo femminile tanto più i bisogni del
bambino sono enfatizzati, indagati, amplificati con la lente d’ingrandimento e presentati da discorsi
pseudoscientifici non solo come ineludibili ma anche come ascrivibili a un solo soggetto: la madre.
E’ così che un numero sempre più elevato di donne risponde alla chiamata materna non con il rifiuto ma con
la tendenza a procrastinare sine die un’esperienza che appare irreversibile e monolitica, molto difficile da
integrare con una identità femminile duttile, sociale e costruita all’insegna dell’intermittenza e della
reversibilità sia in ambito sociale sia sentimentale.
Una donna su cinque in Italia non ha figli. Il numero sta crescendo velocemente. In alcune zone del Nord
Italia fra le laureate si arriva una donna su due, il 50%, di donne senza figli.
Siamo di fronte a un cambiamento epocale, a una modificazione antropologica che rischia di proiettarci
nell’orizzonte triste e senza futuro di un paese per vecchi.
Il codice femminile rinnovato e quello materno inteso in modo tradizionale si divaricano e si incontrano con
sempre maggiore difficoltà come mostra il lavoro clinico con le donne alle quali l’idea della maternità
produce uno stato caratteristico di angoscia invece di una trepidante attesa. Anche la clinica della
fecondazione assistita e della depressione post parto evidenzia lo stesso ostacolo insormontabile: femminile e
materno faticano ad integrarsi.
Di fronte a un cambiamento di queste dimensioni la psicoanalisi non deve assumere il ruolo sterile di una
psicologia morale che si sostituisce alla religione per difendere l’etica di un tipo di famiglia ormai al
crepuscolo. Deve invece comprendere il cambiamento in corso nelle sue caratteristiche più fini per
consentire di riorganizzare la speranza su nuove basi etiche e politiche oltre che cliniche.
La mia speranza personale è che si possa realizzare una rivisitazione della figura della madre, e una
risimbolizzazione del suo ruolo. E’ un compito immane ma possiamo realizzarlo.
I paesi del Nord Europa si sono già avviati su questa strada. La funzione materna è suddivisa fra più soggetti
fra i quali spiccano la madre, il padre e lo stato. Gli eccessi narcisistici del bambino idoleggiato non sono
sconfitti ma sono temperati dal valore della solidarietà sociale. I risultati sono parziali ma confortanti, infatti
la bilancia fra nascite e morti è in pareggio. Le società che hanno colto l’enorme dimensione del
cambiamento non stanno invecchiando.
Che dire per concludere? La fine della madre romantica non è la fine del mondo, è solo la fine di un’epoca.
Qualcuno di noi può reagire al tramonto di questo ideale con rimpianto, altri con sollievo.
D’altra parte la psicoanalisi ci insegna che rimuovere la verità o non accettarla produce dolore e sofferenza.
Per guardare al futuro con uno sguardo fiducioso il cambiamento dobbiamo accettarlo e magari cercare di
governarlo come fanno le donne che si rivolgono a noi quando cercano, con angoscia, una risposta
individuale a problemi la cui portata epocale dovrebbe apparire evidente a tutti.