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Ripley’s oltre i limiti dell’immaginazione Luoghi di retail & entertainment (90 location di vario genere negli Usa e all’estero) che si rivolgono soprattutto a un pubblico giovane, puntando sull’eccentrica e ossessiva cultura dell’inusuale, dell’insensato, dell’orrido OSSERVATORIO POPAI di Daniele Tirelli* gennaio 2014 70 Pm

Ripley's: oltre i limiti dell'immaginazione

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Ripley’s oltre i limitidell’immaginazione

Luoghi di retail & entertainment (90 location di vario genere negli Usa e all’estero) che si rivolgono soprattutto a un pubblico giovane, puntando sull’eccentrica e ossessiva cultura dell’inusuale, dell’insensato, dell’orrido

OSSERVATORIO POPAI di Daniele Tirelli*

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Credeteci o no, tutto nac-que dall’idea visionaria di un personaggio eclet-tico: Robert LeRoy Ripley,

cartoonista e sagace imprendito-re, con un duplice interesse per lo sport e l’antropologia. Vissuto a cavallo fra due secoli di grandi mutamenti, la sua peculiarità fu quella di stupire, stupire e ancora stupire, preferibilmente mediante l’esposizione dei più bizzarri fe-nomeni umani e naturali. E la sua figura fantasmatica non smette di

sorprenderci ancora oggi quando, per esempio, si materializza im-provvisamente come ologramma in uno dei suoi “odditorium” sparsi per il mondo. Per questo, il marke-ting concept dell’omonima catena commerciale non può essere ridot-to a un semplice brand, ma espri-me uno stile di consumo dai tratti assai precipui: Ripley’s Believe It or Not! volge sempre e comunque all’eccesso, allo stravagante, allo straordinariamente incredibile. Ma procediamo con ordine.

L’avventura di Ripley risale al 1918, quando da giovane vignettista ini-ziò a pubblicare strip ricavate da temi stravaganti, aneddoti assurdi, curiosità, storie di personaggi al li-mite dell’inverosimile. Assetato di stranezze, Bob le scovava in ogni angolo del mondo, con la tenacia di un cacciatore di taglie. Le sce-ne erano raffigurate fedelmente, con cura meticolosa e indiscuti-bile talento, qualità che gli permi-se in breve tempo di sorprendere e fidelizzare un pubblico sempre

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più ampio. Oggi la società Ripley Entertainment è parte della con-glomerata The Jim Pattison Group, con sede a Vancouver, terza fra le più grandi aziende private canade-si. Il gruppo, un gigante finanzia-rio da quasi 8 miliardi di dollari, spazia dal settore automobilistico ai media, al packaging, alla distri-buzione alimentare ed editoriale, alla finanza e naturalmente all’in-trattenimento, dando lavoro a oltre 33.000 dipendenti.Ma facciamo un altro passo indie-tro per tornare alla storia di questo strano retail & entertainment busi-ness. Negli anni ‘20 Ripley amplia-va progressivamente la sfera delle tematiche trattate e, di pari passo, la sua popolarità, ma il vero punto di svolta nella sua carriera giunse allo scadere del decennio. Infatti, grazie alle sue doti artistiche, l’ec-centrico vignettista di Santa Rosa riuscì ad attrarre l’attenzione del moloch editoriale dell’epoca, Wil-liam Randolph Hearst, padrone del colosso King Features Syndicate. Il 1929 fu così l’anno dell’esordio edi-toriale di Believe It or Not! su 17

testate distribuite a livello interna-zionale. Capitalizzato il successo della sua serie fumettistica, Ripley poté pertanto compiere lo step suc-cessivo: la prima pubblicazione, sotto forma di libro/volume illu-strato, della sua stravagante colle-zione di newspaper panel series. In seguito, dopo essersi anche fatto promotore della ratificazione, nel 1931, del celebre “The Star-Span-gled Banner” quale inno ufficiale degli Usa, Ripley s’inserì abilmen-te nel booming degli show radiofo-nici con una serie di sensazionali dirette dai posti più astrusi che potesse escogitare di volta in volta (cave, paesi esotici, tane di serpen-ti, in volo o sott’acqua). Il gruppo Hearst, intravisto il potenziale dell’uomo, finanziò i suoi viaggi in oltre 200 paesi e finalmente, dopo la realizzazione di svariate produ-zioni teatrali e cortometraggi dedi-cati ai temi di Believe It or Not!, nel 1932 Ripley pose la pietra miliare del suo business: l’apertura del primo Odditorium a Chicago. Lo visitarono oltre 2 milioni di perso-ne. L’eco fu enorme, grazie anche

a una cassa di risonanza a base di leggende metropolitane, trucchi e trovate promozionali di ogni tipo: letti e brandine furono per esem-pio predisposti per visitatori (in re-altà attori complici) che svenivano dinanzi alle mostruosità esposte.La popolarità di Ripley fu amplifi-cata ulteriormente dai trailer show in giro per gli Usa e le discussio-ni attorno al suo nome crebbero al punto da indurre il “New York Ti-mes” a celebrarlo come “the most popular man in America”.Oggi Ripley Entertainment con-ta su un flusso annuo di oltre 12 milioni di visitatori, in 90 location di vario genere negli States e all’e-stero, che comprendono: Ripley’s Believe It or Not! Odditoriums, Ri-pley’s Aquariums, Louis Tussaud’s Waxworks, Guinness World Re-cords Museums, Ripley’s Moving Theaters, Ripley’s Haunted Adven-tures, Ripley’s Mirror Mazes, Ri-pley’s Laser Races, Ripley’s Cargo Hold Gift Shops, Ripley’s Minia-ture Golf Courses, Ripley’s Super Fun Zones.Ovviamente questa teoria di luo-ghi d’intrattenimento per tutti i gusti costituisce l’asse portante della source of business azienda-le, ma non bisogna tralasciare la correlata produzione editoriale e cinematografica, nonché l’enorme merchandising tematizzato. Il filo conduttore è che Ripley’s è lo spa-zio immaginifico in cui i limiti si sgretolano e vengono meno. La fan-tasia subentra e si scatena. Il bene si contrappone al male, il brutto al bello, il burlesco al volgare. Noto-riamente, la società moderna (im)pone mete irraggiungibili come la perfezione estetica e gli elitari, so-lipsistici e psicotici ideali di bel-lezza incessantemente predicati dallo star system. La massa ster-minata di individui-consumatori che annaspa per inseguire tali chimere manifesta allora un certo

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gradimento per le stravaganze di un mondo dove, al contrario, tutto è rifiuto delle regole, stravolgimen-to, dubbio e trasgressione. Queste connotazioni di degenerazione, di estraniamento, di momentanea evasione fine a se stessa, contribu-iscono quindi a rendere più bello, normale e accettabile ciò che poi si ritroverà (non senza un sospiro di sollievo) all’uscita dell’Oddito-rium.Non è un caso quindi che l’altra caratteristica distintiva di questi luoghi sia un’estetica volutamente surreale, stravolta, ironicamente drammatica, sempre in bilico tra caricatura fumettistica e iperre-alismo. Si tratta di un’esplicita evoluzione della programmatic o novelty o mimic architecture, nata in California e in Florida dove produsse coffee house a forma di caffettiere giganti, colossali donut, chioschi a forma di hot-dog ecc. usati come esche per il cliente in transito sulla sua auto. Anche Be-lieve It Or Not! si serve di edifici e strutture dalle forme a dir poco in-solite per attrarre il proprio pubbli-co di curiosi. L’espediente estetico si traduce così in un ruggente King Kong in cima a un Empire State Building crollato; in una casa sgre-tolata o completamente capovolta; in un’inquietante villa affondata nell’asfalto; in un Titanic arenato nel centro cittadino; in un gigan-tesco squalo dalle fauci spalancate per accogliere i visitatori al suo in-terno o ancora in un edificio set-tecentesco dalle pareti divelte, pe-rennemente sul punto di crollare.Analizzando la domanda, si è detto che essa risponde in estrema sinte-si a un particolare bisogno psicolo-gico: la curiosità quasi morbosa dei suoi fan nei confronti dell’inusua-le. Inconsapevoli della sofferenza implicita nell’abnormità delle de-vianze poste in mostra, essi sono attratti dai simboli esasperati del

cattivo gusto, dell’orrido e della volgarità. Sociologi e antropologi parlano di una probabile funzio-ne catartica di questo piacere con-templativo. Forse è la parte istin-tuale della personalità umana, con il suo corollario di emozioni visce-rali, a trovare, in questo modo, una risposta al senso di malessere esi-stenziale che da tempo sembra toc-care buona parte delle classi me-

die americane (e non solo). Da qui il gusto per le proiezioni oniriche materializzate nelle sembianze de-formi di mostri e incubi ancestrali sempre in bilico fra un malleabile senso del grottesco e una malcela-ta ironia. Da qui la ricerca di un momentaneo indugio nei meandri di un immaginario distorto, di uno stato psicologico teso alla stu-pefazione, se non alla trasgressio-

Believe It Or Not! si serve di edi�ci e strutture dalle forme a dir poco insolite per attrarre il proprio pubblico di curiosi. L’espediente estetico si traduce per esempio in un gigantesco squalo dalle fauci spalancate per accogliere i visitatori al suo interno o in un Titanic arenato nel centro cittadino.

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ne scandalosa dei convenzionali canoni della normalità e del buon gusto. Da qui il rovesciamento, per certi versi angosciante, dell’illu-sione estetica fine a se stessa, del bon ton e dell’eleganza che intrido-no obbligatoriamente il costume e i vari aspetti della vita quotidiana. La proposta d’intrattenimento di Ripley’s si riconduce insomma all’eccentrica, dispersiva, ossessi-va cultura dell’inusuale, dell’in-sensato, dell’orrido. Lo spettacolo di un’umanità stravolta è d’altron-de una consuetudine destinata a riprodursi nei secoli. Popolare già nel Medioevo, conobbe poi uno dei suoi migliori interpreti in Hie-ronymus Bosch. Similmente, le in-quietanti sculture che popolano i surreali anfratti dei musei Ripley’s evocano leggende e suggestioni re-mote. Dall’epoca delle settecente-sche scoperte della Medicina e del-la Scienza sino alla Belle Époque, con la sua cornice di esposizioni universali, si è celebrato lo stra-ordinario, il record, la singolarità ineguagliabile. In questo senso Ri-pley’s soddisfa la vorace curiosità per i circus freak così popolari ai tempi del Barnum & Bailey Cir-cus: l’uomo elefante, gufo, lupo, la donna barbuta e quella con quattro gambe e via elencando gli scherzi crudeli di una genetica ancora ine-splorata. Nel caso specifico di Ripley’s, il core target è costituito soprattutto da un pubblico giovane, amante del brivido ma dimentico dell’u-mana compassione verso l’anor-male. Chiare sono le connessioni estetiche e psicologiche con i ben noti stilemi dei film horror, della musica metal o grunge e dei fu-metti pulp. Molto meno evidente è però il nesso con il divertimento familiare e infantile. Eppure, sva-riate attrazioni (e i relativi prodotti editoriali) sono espressamente de-dicate ai bambini. Il che può far-

ci sembrare il tutto relativamente lontano dal gusto italiano.Si apre allora la questione dell’in-tellettualizzazione del piacere estetico. Chi sancisce il sentimen-to del bello identificandolo con il buon gusto? La capacità di trarre un piacere quasi sensuale da un’opera d’arte sarebbe frutto di una cultu-ra superiore, in grado di coglierne il valore estetico e simbolico in via quasi esclusiva. Per tale ragio-ne, gli intellettuali d’élite temono che il godimento estetico popolare sia affidato ai persuasori occulti e subordinato a fini commerciali, votato alla semplificazione-mas-sificazione dei gusti piuttosto che ai loro dettami e insegnamenti. Da qui il disprezzo ostentato per real-tà nazional-popolari come Believe It or Not! aventi fini di profitto e di sfruttamento commerciale. Tuttavia, perché mai un piacere egualmente intenso non potrebbe esprimersi anche nella semplice cultura popolare? Il gusto di un’e-poca storica e di una nazione è il risultato di tendenze spontanee spesso irrituali. Già nel ‘500 Gio-van Battista Marino sosteneva che “la vera regola è saper rompere le

regole a tempo e luogo, accomodan-dosi al costume corrente e al gusto del secolo”. Troppo semplice allora sentenziare che queste espressioni dell’industria dell’intrattenimento sposano semplicemente il kitsch, recando offesa al gusto raffinato delle persone educate al bello e (soprattutto) all’intelligente. Negli Usa la barriera di sacralità a difesa delle proprie opere, così importan-te per i produttori di cultura alta europei, è stata da tempo azzerata dalla creatività culturalmente po-vera (ma di grande impatto emoti-vo) del variegato mondo pubblici-tario e commerciale. Il tanto citato clima postmoderno ha demolito la distinzione tra generi cultura-li colti e popolari, mescendone le connotazioni distintive e i tratti caratteristici con un atteggiamento consapevolmente antiauratico. Ed è questa la ragione per cui Believe It or Not!, in fondo, ci sembra qual-cosa di più del semplice baraccone da circo, che peraltro non si vergo-gnerebbe nemmeno di essere.* Presidente di Popai Italy

Alla concezione e alle ricerche

necessarie per l’articolo

ha contribuito Marco Tirelli

Le inquietanti sculture che popolano i surreali anfratti dei musei Ripley’s evocano leggende e suggestioni remote.

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