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ECONOMIA E FELICITÀ. LA TEORIA AUSTRIACA DEI BENI RELAZIONALI DA MENGER A ROBBINS
Antonio Magliulo
1. Introduzione
“Al cuore della nostra vita – ha scritto Richard Layard (2005: 13) – c’è un paradosso. La
maggior parte delle persone vuole guadagnare di più e si batte per raggiungere questo scopo.
Tuttavia, mentre la ricchezza delle società occidentali ha continuato a crescere, i loro abitanti non
sono affatto diventati più felici”.
I soldi non comprano la felicità, lo sappiamo da tanto tempo. Che talvolta possano anche
distruggerla è una piccola verità custodita nel grande tempio della sapienza popolare. Ma che la
felicità sia del tutto insensibile alla ricchezza è un fatto nuovo che suscita stupore e perplessità.
Il “paradosso della felicità” ha conquistato contemporaneamente le prime pagine di
autorevoli riviste scientifiche e le covers di influenti magazines. Ha incuriosito insieme
economisti di professione e opinione pubblica. Nel 2004 Kahneman riceve il Nobel in economia
per contributi scientifici riconducibili al tema della felicità. L’influente settimanale inglese – The
Economist – dedica la copertina dell’ultimo numero del 2006 a “Happiness (and how to measure
it)”; il leading article inizia con queste parole: “Capitalism can make a society rich and keep it
free. Don’t ask it to make you happy as well” (The Economist 2006).
La prima questione che divide gli economisti è: l’economia politica può (o deve) occuparsi
di felicità? I “beni” che riteniamo possano concorrere a migliorare il ben-essere o la felicità degli
individui appartengono all’economia politica? Ricadono nella sua sfera d’indagine?
Un numero crescente di studiosi risponde in modo affermativo. Alcuni sostengono anzi che
l’economia nasce, nel Settecento, come scienza della felicità pubblica, che indaga direttamente la
relazione tra benessere materiale e benessere “spirituale”. Poi diventa la scienza della ricchezza,
nel presupposto che il benessere materiale contribuisca, indirettamente, ad accrescere la felicità
pubblica. Infine si trasforma nella scienza della scelta razionale che indaga la condotta degli
uomini quando, nel perseguire fini alternativi, dispongono di mezzi scarsi. Il marginalismo,
secondo questa lettura, spezza il tenue legame tra economia e felicità. Le relazioni umane sono
infatti considerate soltanto una modalità per procurarsi beni che appagano bisogni. La relazione
umana è puramente strumentale. Il bene è l’oggetto della relazione. Mai la relazione stessa.
Secondo questi studiosi, la felicità dipende largamente proprio dalle relazioni umane non
strumentali o pure o genuine, che essi definiscono“beni di relazione o relazionali”. Il bene è cioè
la relazione stessa: per esempio la relazione tra genitori e figli, tra amici, tra membri di
un’associazione o di una società. Il marginalismo, disconoscendo la natura economica delle
relazioni non strumentali, avrebbe impedito all’economia politica di indagare il tema della felicità
e di spiegare i suoi paradossi.
Questa ricerca nasce da una piccola scoperta, come spesso accade un po’ casuale. La
scoperta è che, nel tempo del marginalismo, ad opera proprio di quegli economisti austriaci che
porteranno Robbins a scrivere lo statuto epistemologico della moderna economia, si compie il più
importante tentativo di stabilire se e in che senso i “beni di relazione” sono beni economici.
Il lavoro è così strutturato. Nel paragrafo 2 ricordo brevemente il significato del paradosso
della felicità e le principali spiegazioni che sono state fino ad oggi avanzate. I paragrafi
successivi, seguendo l’ordine naturale scandito dal tempo, ricostruiscono la storia della teoria
austriaca dei beni relazionali. Austriaca in un’accezione ampia perché, accanto agli austriaci di
nascita e di fede scientifica – Menger e Böhm-Bawerk – figurano anche gli anglo-austriaci
Wicksteed e Robbins. Nel paragrafo 3 presento la teoria di Menger del 1871. Nel paragrafo 4
quella di Böhm-Bawerk del 1881. Nel paragrafo 5 espongo gli sviluppi della teoria austriaca pura,
dalla critica dell’“ortodosso” Dietzel del 1882 alla versione postuma di Menger del 1923. Nel
paragrafo 6 presento la teoria di Wicksteed e Robbins. Qui il lettore avvertirà un piccolo salto nel
tempo e nello spazio. Wicksteed mostra una sorprendente affinità con le idee degli economisti
austriaci e influisce sulla metodologia di Robbins, che diventa mainstream. Nel paragrafo 7
spiego qual è, a mio avviso, il significato storiografico della teoria austriaca dei beni relazionali e
cioè come essa si colloca nella storia dei rapporti tra economia e felicità; una storia che
conosciamo soprattutto grazie ai contributi di Bruni e Zamagni. Seguono brevi conclusioni1.
2. Il paradosso della felicità e le principali spiegazioni degli economisti contemporanei
Nel 1974 l’economista e demografo americano Richard Easterlin scopre e descrive il
paradosso della felicità. Da quel momento si è sviluppata ed accumulata un’enorme massa di dati
empirici. Recentemente Olivier Blanchard (2006: 214-215) li ha raccolti e spiegati, a mio giudizio,
nel modo più sintetico ed efficace possibile.
Il paradosso consiste in questo. Per bassi livelli di reddito si manifesta una correlazione
positiva tra reddito e felicità: maggiore il reddito, maggiore la felicità. Per alti livelli di reddito la
correlazione scompare: maggiore il reddito, sostanzialmente invariata la felicità. Il risultato emerge
sia confrontando nello spazio paesi diversi sia comparando nel tempo uno stesso paese. 1 Sull’economia della felicità si è ormai accumulata un’abbondante letteratura. Mi limito ad indicare alcune opere di riferimento: Layard (2005), Frey e Stutzer (2006), Bruni e Porta eds. (2004, 2006, 2007), Pugno (2007).
2
I dati sono stati così raccolti. Ad un campione di persone appartenenti a 81 paesi diversi
sono state poste due domande. La prima: “Taking all things together, would you say you are very
happy, quite happy, not very happy, not at all happy?”. La seconda: “All things considered, how
satisfied are you with your life as a whole these days?”. Alla seconda domanda gli individui
potevano rispondere attribuendo un voto compreso tra 1 (dissatisfied) e 10 (satisfied).
Sono state contate le risposte positive, che esprimevano uno stato di benessere, e cioè “very
happy” ed “happy” alla prima domanda e un punteggio da 6 a 10 alla seconda domanda. A questo
punto è stato costruito un diagramma a dispersione ponendo sull’asse verticale la percentuale di
coloro che avevano risposto “felicemente” alla duplice domanda e sull’asse orizzontale il reddito
procapite espresso in dollari PPP1999. Il grafico mostra tre evidenze. Alla fine degli anni novanta, i
paesi dell’Est europeo risultano poco felici, i paesi ricchi sono più felici dei paesi poveri, ma i paesi
ricchi, sia che dispongano di un reddito procapite di 20.000 dollari sia che dispongano di un reddito
procapite di 35.000 dollari sono, sostanzialmente, felici allo stesso livello. Il reddito conta cioè
soltanto fino ad un certo limite.
Le comparazioni tra paesi potrebbero essere falsate da un diverso modo di intendere e
percepire la felicità. Sono state svolte indagini anche all’interno di uno stesso paese. Per esempio,
ad un campione rappresentativo di cittadini americani, a partire dal 1975, è stata posta la seguente
domanda: “Taken all together, how would you say things are these days – would you say you are
very happy, pretty happy, or not too happy?”. Ecco le risposte del 1975: “very happy” (32%),
“pretty happy” (55%), “not too happy” (13%). Ed ecco le risposte del 1996: “very happy” (31%),
“pretty happy” (58%), “not too happy” (11%). Le dichiarazioni di felicità, come si vede, restano
sostanzialmente immutate. Ma, dal 1975 al 1996, il reddito procapite degli americani aumenta di
oltre il 60%. Di nuovo, oltre un certo livello, il reddito lascia indifferente la felicità.
Infine sono stati messi a confronto gli americani più ricchi con quelli più poveri (“the people
in the top quarter and in the bottom quarter of the income distribution”). Ecco i dati riferiti al 1998.
I ricchi: 37% “very happy”, 57% “pretty happy” e 6% “not too happy”. I poveri: 16% “very happy”,
53% “pretty happy” e 31% “not too happy”. I dati si prestano a diverse letture. Quello che a me più
sorprende è che tra i ricchi la percentuale maggiore non è “very happy” e tra i poveri non è “not too
happy”. In entrambi domina la stessa dichiarazione di “pretty happy” (oltre il 50%). Come a
ribadire che il reddito conta solo in parte.
Complessivamente i dati confermano l’esistenza del paradosso. Scrive Blanchard (2006:
215): “What conclusions can we draw from all this evidence? At low levels of output per capita, say
3
up to $15,000 or about half of the current U.S. level, increases in output per capita lead to increases
in happiness. At higher levels, however, the relation appears much weaker”2.
I dati vanno innanzitutto valutati in rapporto alla metodologia utilizzata. La felicità di cui si
parla è quella percepita e dichiarata dagli intervistati. È una felicità puramente soggettiva. Layard
l’ha definita illuministica. Scrive: “quando parlo di felicità mi riferisco al sentirsi bene cioè essere
contenti della propria vita e volere che questa sensazione perduri; «infelice», al contrario, è chi sta
male e vorrebbe che le cose andassero diversamente” (Layard 2005: 25).
Questa concezione di felicità, occorre ricordarlo, non è univocamente condivisa né dagli
economisti né dai filosofi. Nella tradizione aristotelica, per esempio, lo stato di benessere,
l’eudaimonia, scaturisce dalla vita buona o virtuosa ed è qualcosa di sostanzialmente diverso da uno
stato d’animo. In modo analogo, autorevoli economisti hanno posto il problema di una misura
oggettiva della felicità che riduca le incertezze di una metodologia centrata esclusivamente
sull’autovalutazione degli intervistati. Per Kahneman, l’oggettività consiste nell’eliminare gli errori
cognitivi. Gli individui facilmente si ingannano. La stecca di un corista può cancellare il ricordo di
un concerto fino a quel punto perfetto. La separazione di due coniugi può alterare la memoria di
anni di piacevole convivenza. E così via. Kahneman ha ideato un approccio che permette di
registrare la experienced utility evitando gli errori di percezione3. Sen guarda invece alle
capacitazioni e cioè alle libertà effettive di fare ed essere. I poveri, spesso, hanno pochi e semplici
desideri. L’appagamento di quei desideri non è sufficiente. La felicità consiste nel garantire loro
almeno le capacitazioni di base e cioè: “la libertà di essere nutrito, ben protetto e in buona salute, la
capacità di evitare epidemie e mortalità prematura, la capacità di muoversi liberamente, la
possibilità di partecipare alla vita della comunità ecc.” (Sen 2006: 54).
Molti economisti, magari non condividendo l’impianto soggettivista e illuminista
dell’indagine statistica, hanno cercato di risolvere il paradosso della felicità. Le principali
spiegazioni possono essere distinte in due gruppi: basate sui beni di consumo e basate sulle
relazioni sociali e personali4.
Perché insieme al reddito non cresce la felicità? Gli autori del primo gruppo rispondono:
perché insieme al reddito e al consumo effettivo cresce il consumo atteso o desiderato. La felicità
aumenterebbe se gli individui potessero, istante dopo istante, appagare i consumi desiderati. Il
paradosso si manifesta a causa di un gap tra consumo effettivo e consumo atteso. Sulle ragioni del
2 La sintesi di Blanchard si basa su tre lectures di Layard (2003). 3 Si vedano Kahneman (2004) e Kahneman e Riis (2006). 4 Ho ripreso questa distinzione da Pugno (2007) ma poi, sulla base delle mie ricerche, mi sono concentrato soltanto su alcune spiegazioni. Pugno include nel primo gruppo le teorie basate sull’adattamento e sui tratti personali, sull’utilità marginale decrescente del reddito, sulle aspirazioni relative al consumo futuro e sul reddito relativo, e nel secondo gruppo le teorie basate sulle esternalità negative sul capitale sociale, sull’insufficiente investimento in capitale sociale e sull’incapacità soggettiva di migliorare le relazioni personali.
4
gap, gli autori avanzano spiegazioni diverse. Easterlin immagina individui che si procurano e
utilizzano un reddito monetario per soddisfare i bisogni avvertiti. Col reddito, crescono però i
desideri. Un’auto nuova appaga solo per un po’. Poi rispunta il desiderio di possederne una più
bella. La corsa è con se stessi. Contano il reddito e il consumo assoluti. La metafora rivelatrice è
quella del tappeto rullante (treadmill): l’individuo corre ma resta fermo. Il reddito (le gambe) si
muovono insieme al tappeto (i consumi desiderati) e la persona (la felicità) non si sposta. Frank dà
una risposta diversa. Gli individui corrono con o contro altri. Un detto americano recita: “Stare al
passo con i Jones” e cioè con i vicini di casa. L’aumento del reddito e del consumo assoluti non
sono sufficienti. Non basta avere un’auto nuova se i Jones ne possiedono una più bella. Contano il
reddito e il consumo relativo: la felicità aumenta insieme al reddito solo se, mediamente, si
riducono le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza.
Alla stessa domanda – perché insieme al reddito non cresce la felicità? – gli autori del
secondo gruppo rispondono: perché la felicità dipende, oltre che dai beni di consumo, dalla qualità
delle relazioni umane genuine o non strumentali. Fino ad un certo punto, gli aumenti di reddito e di
consumo accrescono la qualità delle relazioni umane. Raggiunta una soglia critica, ulteriori
incrementi di reddito e consumo deteriorano la qualità delle relazioni umane annullando il
benessere generato dal consumo aggiuntivo.
Layard (2005: 84) enumera Sette Grandi Fattori che influiscono sulla felicità o infelicità: “le
nostre relazioni familiari, la nostra situazione economica, il nostro lavoro, la comunità in cui
viviamo e i nostri amici, la nostra salute, la nostra libertà personale e i nostri valori personali”. E
aggiunge: “Fatta eccezione per la salute e il reddito, tutti gli altri hanno a che fare con la qualità
delle nostre relazioni” (Ibidem).
Bruni e Zamagni sono tra gli studiosi che hanno cercato di definire esattamente la natura e le
caratteristiche dei beni relazionali. Mi soffermerò ad esaminare il loro contributo perché più
direttamente si collega al tentativo compiuto dagli economisti austriaci.
Bruni (2006a: 163) spiega il paradosso della felicità con il grafico di una parabola. Sull’asse
verticale pone un indice di felicità, su quello orizzontale il reddito (e il relativo consumo). Nel tratto
ascendente della curva si manifesta la correlazione positiva tra reddito e felicità: maggiore il
reddito, maggiore la felicità. Ovvero: un maggior benessere materiale favorisce il miglioramento
delle relazioni interpersonali. Genitori meno impegnati nella lotta per la sopravvivenza possono
dedicare più tempo all’educazione dei figli. Il punto di massimo è un punto critico superato il quale
la curva assume una pendenza negativa: maggiore il reddito, minore la felicità. Genitori protesi alla
ricerca di crescenti standard di consumo finiscono per trascurare il rapporto con i figli. Le persone
5
si ritrovano con più beni di consumo e meno beni di relazione. Nel bilancio della felicità, il saldo
può diventare negativo.
Ma cosa sono esattamente i beni relazionali? Sono beni in senso economico?
Bruni e Zamagni riprendono e sviluppano una teoria esposta nel 1986 dalla filosofa
americana Martha Nussbaum. I “beni relazionali” sono relazioni non strumentali che soddisfano
bisogni di interazione sociale. Scrivono: “La differenza tra i beni relazionali e i beni nei quali la
qualità della relazione che si instaura tra i contraenti è una caratteristica importante, come in un
servizio alla persona, risiede nel fatto che nei beni relazionali è la relazione in sé a costituire il bene
economico: sono «beni di relazione» (come si esprime Martha Nussbaum, introducendo nel 1986
l’espressione)” (Bruni e Zamagni 2004: 271-72, corsivi originali)5.
Insomma, le relazioni umane non servono soltanto a procurarsi, attraverso atti di scambio,
beni e servizi. Sono esse stesse un bene.
Secondo Bruni (2006a: 158), i beni relazionali formano un terzo genus rispetto alla classica
ripartizione dei beni economici in “privati” e “pubblici”. La ripartizione, come è noto, avviene sulla
base di un duplice connotato: la rivalità nel e la escludibilità dal consumo. I beni privati sono rivali
ed escludibili. Il gelato che stai mangiando non può essere gustato da altri: sorge una rivalità nel
consumo. Se non paghi il prezzo, non puoi avere il gelato: è facile e possibile escludere qualcuno
dalla fruizione del bene. I beni pubblici sono invece non rivali e non escludibili. La sicurezza è un
bene pubblico. Tutti coloro che vivono in Italia sono protetti da polizia e carabinieri: non c’è rivalità
nel consumo. Non è possibile escludere qualcuno dalla fruizione di quel servizio: per il solo fatto di
vivere in Italia, si è protetti da polizia e carabinieri.
Ora, secondo Bruni, da un certo punto di vista, sia i beni privati che quelli pubblici
appartengono ad una stessa classe di beni: quella che considera le relazioni umane puramente
strumentali. Da questo punto di vista, non sono diversi: si va dal gelataio per acquistare il gelato, ci
si rivolge alla polizia per tutelare un interesse legittimo. La relazione è puramente strumentale: il
bene è il gelato o la sicurezza. Non la relazione interpersonale. Ciò che distingue i beni privati da
quelli pubblici è l’assenza o presenza di interferenze nel consumo o esternalità positive e negative.
Il terzo genus – ma forse sarebbe più corretto dire la seconda classe – comprende invece i
beni relazionali, quei beni cioè che consistono di relazioni umane genuine, in cui la relazione non è
un mezzo per procurarsi altri beni ma è il bene stesso: le relazioni familiari, amicali, affettive,
sociali.
5 I due autori riprendono anche una teoria economica originariamente elaborata da Gui (1987, 2002). Si veda inoltre Zamagni (2006) e Sacco e Zamagni (2006).
6
Le principali caratteristiche dei beni relazionali sono la reciprocità e la gratuità. La
relazione è reciproca se è co-prodotta e co-consumata dai soggetti coinvolti ed è gratuita se
scaturisce da motivazioni intrinseche6.
Gli autori hanno illustrato l’idea con una serie di esempi. Si va dal barbiere per tagliarsi i
capelli. La relazione, in sé, è strumentale: serve a procurarsi un servizio. È uno scambio di
equivalenti: si paga il barbiere per il servizio che si riceve. Ma dal barbiere può nascere un “clima
relazionale” ovvero una relazione amichevole che ha un valore in sé distinto dal servizio che il
barbiere offre. La relazione non strumentale, per essere tale, deve essere reciproca, biunivoca,
altrimenti saremmo in presenza semplicemente di un prodotto differenziato che il consumatore è
disposto a pagare di più. Lo stesso accade nelle relazioni familiari, amicali, affettive, civili, come la
partecipazione alla vita della polis attraverso organismi associativi. Anche in questi casi è possibile
separare la relazione strumentale, che risponde al principio dello scambio di equivalenti, da
relazioni non strumentali che si uniformano al principio di reciprocità.
La teoria neoclassica considera addizionabili le motivazioni intrinseche ed estrinseche degli
agenti economici. Una persona dona il sangue per un sentimento di solidarietà umana (motivazione
intrinseca). Un incentivo economico (motivazione estrinseca) dovrebbe rafforzare quella decisione.
Un ragazzo accompagna il nonno a passeggiare per affetto. Un compenso monetario dovrebbe
rafforzare quel sentimento. I genitori arrivano puntuali alla chiusura dell’asilo per rispetto verso le
maestre. Una multa dovrebbe disincentivare i ritardi. Questi, ed altri esempi, sono stati utilizzati per
mostrare che, contrariamente a quanto sostiene la teoria neoclassica, le motivazioni estrinseche
spiazzano le motivazioni intrinseche: un incentivo economico riduce le donazioni di sangue, un
compenso monetario disincentiva le azioni solidali, le multe negli asili incentivano i ritardi.
Imputare un prezzo ad una relazione non strumentale, che per il soggetto aveva implicitamente un
valore indefinito e tendenzialmente infinito, significa attribuirle uno specifico e spesso ridotto
valore monetario. Significa trattarla come relazione strumentale e cioè distruggerla come relazione
non strumentale, come bene relazionale. Significa applicare il principio dello scambio di equivalenti
laddove vige un principio di reciprocità. Le relazioni non strumentali sono gratuite.
Cosa vuol dire gratuite? Forse che non sono beni economici? Per Bruni significa che non
possono avere un prezzo di mercato. Per Antoci, Sacco e Vanin (2002) che, pur non avendo un
prezzo, possono richiedere un costo opportunità. Oggi sviluppare o mantenere relazioni familiari,
amicali, sociali richiede tempo. Sono attività time intensive che implicano la rinuncia a beni e
6 Le altre caratteristiche-base sono: Identità (delle singole persone coinvolte), Simultaneità (il bene è co-prodotto e co-consumato nello stesso momento dai soggetti coinvolti), Motivazioni (intrinseche), Fatto emergente (il bene emerge all’interno di una relazione), Bene (ha un valore ma non un prezzo di mercato). Il bene relazionale, così definito, sfugge alla tradizionale ripartizione tra beni privati e beni pubblici, e semmai può essere definito, usando un’espressione che Bruni mutua da Luca Zarri, anti-rivale, cfr. Bruni (2006a: 158-161).
7
attività alternative. I beni relazionali sono comunque beni che ricadono nella sfera d’indagine
dell’economia politica.
In breve, di fronte al paradosso della felicità, e cioè al fatto che, raggiunta una soglia critica,
agli incrementi di reddito non corrispondono più incrementi di felicità, gli economisti hanno
proposto una duplice spiegazione: secondo alcuni ciò accade perché si crea un gap tra consumo
effettivo e consumo desiderato, secondo altri perché sorge un trade-off tra beni di consumo e beni
relazionali. Alcuni autori hanno elaborato una teoria dei beni relazionali, muovendo da quello che
essi considerano il primo contributo scientifico al tema: la teoria esposta nel 1986 dalla filosofa
Nussbaum. Ma, oltre cento anni prima, nella Germania divisa dalla disputa sul metodo, lo stesso
tema era stato affrontato dai grandi economisti austriaci.
3. La teoria dei beni relazionali di Carl Menger del 1871
Nel 1871 Carl Menger pubblica i Principî fondamentali di economia, una pietra miliare del
marginalismo7. Nel primo capitolo, dedicato alla “Teoria generale dei beni”, affronta esplicitamente
la questione se i “rapporti personali” sono beni economici. Scrive: “Di particolare interesse
scientifico sono anche quei beni che vengono definiti da alcuni studiosi della nostra scienza
rapporti personali, e ritenuti una particolare categoria di beni. Rientrano fra questi le ditte, le
clientele, i monopoli, i diritti editoriali, le patenti, le concessioni governative, i diritti d’autore, e per
alcuni scrittori anche i rapporti di famiglia, l’amicizia, l’amore, le comunità religiose e scientifiche,
e via di seguito” (Menger 1871 [2001]: 52). Sono inclusi, come si vede, i beni di relazione
(famiglia, amicizia, amore) e i diritti di proprietà intellettuale (diritti editoriali e d’autore). Gli
studiosi a cui si riferisce sono Hermann, Roscher e Schäffle e cioè autorevoli esponenti della Scuola
Storica tedesca alla ricerca di una dimensione etica dell’economia. In particolare, scrive Menger,
nel 1832 Hermann “riassume nel concetto di beni esterni un gran numero di rapporti personali
(sociali, affettivi, familiari, lavorativi, ecc.), e li contrappone ai beni materiali e alle prestazioni
personali quale particolare categoria di beni”; nel 1856 Roscher “aggiunge anche lo stato ai
‘rapporti personali’”, e nel 1867 Schäffle suddivide i beni in “cose, prestazioni personali e diritti”
(Ibidem: nota 5, 310 ) 8.
Hermann sarebbe dunque il primo ad aver introdotto, accanto agli oggetti materiali ed ai
servizi immateriali, una terza classe di beni costituita di rapporti personali. Tuttavia, osserva
Menger, se anche Schäffle, che è il teorico migliore, si stupisce che questi beni possano considerati
7 Anche sui fondatori della Scuola Austriaca esiste un’enorme letteratura. Su Menger mi limito a segnalare Caldwell B.J. (1990) (ed.). 8 Menger (Ibidem) cita le seguenti opere: Schäffle, Teorie der ausschliessenden Verhältnisse, 1867, Hermann, Staatswirthschaftliche Untersuchungen, 1832 e Roscher, System, I, § 3. Nella edizione italiana dei Principî sono indicati i riferimenti esatti dei volumi di Hermann (1832), Roscher (1856) e Schäffle (1867a).
8
economici, ciò deriva da una mentalità pervasiva che induce a considerare come beni soltanto le
cose materiali e le prestazioni lavorative. Scrive: “Se tuttavia il teorico che si è occupato nella
maniera più approfondita di quest’oggetto ammette che l’esistenza di tali rapporti in quanto beni ha
qualcosa di stupefacente, e che all’occhio imparziale essi appaiono come un’anomalia, ciò dipende
in realtà, credo, da qualcosa di più profondo del carattere realistico della nostra epoca, anche qui
inconsapevolmente all’opera, che riconosce come cose, e quindi anche come beni, soltanto materie
e forze (ossia beni materiali e prestazioni lavorative)” (Ibidem: 52).
Per stabilire se e in che senso i rapporti personali sono beni economici occorre disporre di
una teoria generale dei beni. Ed è proprio alla luce di una nuova teoria generale dei beni che
Menger valuta la natura dei rapporti personali.
Affinché una cosa diventi un bene, e cioè sia utile a soddisfare un bisogno, è necessaria la
contemporanea presenza di quattro presupposti. Deve esistere un bisogno che la cosa soddisfa (per
esempio il bisogno di guarire dalla malaria). La cosa deve essere idonea a soddisfare il bisogno (il
chinino guarisce dalla malaria). Gli uomini devono riconoscere l’idoneità della cosa a soddisfare il
bisogno (la corteccia di china, prima che se ne scoprissero le virtù terapeutiche, non era un bene).
La cosa deve essere disponibile (il chinino non è un bene per un paese che non può procurarselo). Il
bene torna ad essere una cosa se viene meno uno dei quattro presupposti. Per esempio, il chinino
retrocede a cosa se la malaria viene debellata. Infine, in bene diventa economico quando è scarso
rispetto ai bisogni che soddisfa. L’acqua diventa un bene economico quando è insufficiente a
soddisfare molteplici e alternativi bisogni: dissetare, irrigare, lavare, ecc. Allora si pone un
problema di scelta razionale nella destinazione di una risorsa scarsa. L’economia si occupa solo dei
beni economici e cioè utili e scarsi. Ma la scarsità è un concetto relativo. Deriva da una
comparazione tra beni e bisogni soggettivi. Un bene diventa economico quando è scarso e torna ad
essere un semplice bene quando la scarsità scompare.
Menger osserva che la classica distinzione tra oggetti materiali e prestazioni lavorative (o
servizi immateriali) è restrittiva. Vi sono “azioni” ed anche “omissioni” che, pur non essendo
prestazioni lavorative, sono utili e talvolta acquistano un valore economico. Un cliente che
abitualmente si rivolge ad un negozio compie un’azione utile per il negoziante che non richiede
alcuna prestazione lavorativa. La “clientela” diventa per il negoziante un bene immateriale che egli
può vendere insieme ai beni materiali che compongono il negozio. La “clientela” è cioè un bene
economico distinto dai beni materiali, che appartiene alla classe delle “azioni umane utili”. Un
medico di provincia che, ritirandosi, lascia l’altro medico in una posizione di monopolio compie
un’azione utile per il collega, che non implica alcuna prestazione lavorativa:
9
Che qualcuno compri da me le proprie merci, o richieda i miei servigi di avvocato, non richiede certamente alcuna prestazione lavorativa da parte sua, ma è per me un’azione utile. Il fatto che un medico benestante, che vive in una piccola cittadina di provincia, dove esiste solo un altro medico oltre lui, smetta di esercitare è ancor meno da ritenersi una prestazione lavorativa da parte sua, ma in ogni caso è un’omissione molto utile per il secondo medico, che diviene perciò monopolista. Il fatto che un piccolo o grande numero di persone (per esempio di clienti) compia regolarmente azioni utili per un’altra persona (per esempio un negoziante), non modifica la natura di quest’ultima, così come il fatto che alcuni o tutti gli abitanti di un luogo, o di uno stato, compiano volontariamente o per costrizione giuridica certe omissioni utili per una persona (monopoli naturali o legali, diritti editoriali, brevetti, ecc.) non muta assolutamente la natura di tali omissioni utili. Di conseguenza, ciò che si definisce clientela, pubblico, monopolio, ecc., sono soltanto dal punto di vista economico azioni od omissioni utili per altre persone, oppure come accade solitamente per esempio per le ditte, complessi di beni materiali, prestazioni lavorative e di altre azioni od omissioni utili (Ibidem: 53, corsivi originali).
La stessa cosa vale nelle relazioni amicali e affettive. Sono azioni ed omissioni utili per
qualcuno. Se disponibili, sono beni in senso economico:
Persino i rapporti d’amicizia e d’amore, le comunità religiose e così via, consistono palesemente in tali azioni od omissioni di altre persone utili per noi. Se ora queste azioni od omissioni utili sono tali da poterne disporre, come di fatto accade nel caso della clientela, delle ditte, dei diritti di monopolio, ecc. non si capisce perché dovremmo negar loro il carattere di beni, senza dover ricorrere all’oscuro concetto di “rapporti personali”, e senza dover contrapporre questi ultimi ai restanti beni come una particolare categoria (Ibidem). . Si noti l’espressione “utili per noi”. Menger riconosce ai “rapporti personali” la natura di
beni nel senso dell’economia. Ma sembra considerarli come azioni ed omissioni unidirezionali: il
cliente che sceglie l’avvocato, il medico che, ritirandosi, favorisce il collega … Non fa esempi
sull’amore e l’amicizia. Ma da ciò che scrive non è difficile dedurli. La madre che abbraccia il
figlio compie un’azione utile per lui, non una prestazione lavorativa. Un ragazzo che va a trovare un
amico compie un’azione utile per lui, non una prestazione lavorativa. Menger guarda solo ad una
dimensione dell’azione: l’abbraccio delle madre rende “felice” il figlio, la visita dell’amico rende
“felice” un ragazzo. Non considera l’altra dimensione: nell’abbraccio emerge e si rafforza un amore
reciproco, nell’incontro un’amicizia reciproca. Considera l’abbraccio della madre un’azione umana
utile, un bene nel senso dell’economia, che accresce il benessere, l’utilità, del figlio; la visita
dell’amico, un’azione umana utile che accresce l’utilità dell’altro. Sembra applicare la propria
“teoria generale dei beni”. L’abbraccio della madre è un bene, per il figlio, perché soddisfa il
bisogno d’affetto, è idoneo a soddisfarlo, è riconosciuto come tale ed è disponibile. Un bene
gratuito finché non è scarso. In teoria niente impedisce di considerare la stessa azione, l’abbraccio,
10
utile anche per la madre. Ma Menger non descrive alcuna simultaneità o reciprocità. Le azioni di un
soggetto sono utili per altri. L’avvocato svolge un servizio, una prestazione lavorativa, utile per il
cliente. La madre un’azione, non una prestazione lavorativa, utile per il figlio.
Menger distingue i beni in due grandi classi: i “prodotti materiali” e le “azioni (ed
omissioni) umane utili”. Nella seconda classe include, accanto alle prestazioni lavorative, tutti i
rapporti personali: “Io credo piuttosto che i beni si possono ordinare nelle due categorie dei beni
materiali (comprese tutte le forze naturali, posto che siano beni) e delle azioni umane utili (od
omissioni), fra le quali le più importanti sono le prestazioni lavorative” (Ibidem: 53-54, corsivi
originali).
Dunque, i rapporti personali, per Menger, sono beni in senso economico.
4. La teoria dei beni relazionali di Eugen von Böhm-Bawerk del 1881
Nel 1881 Böhm-Bawerk, allievo di Menger, pubblica una lunga monografia intitolata Diritti
e rapporti dal punto di vista della teoria economica dei beni. Uno “studio critico”, come recita il
sottotitolo, volto a stabilire se “diritti e rapporti” sono beni distinti che si aggiungono ai prodotti
materiali e alle prestazioni personali9.
Böhm-Bawerk affronta lo stesso problema di Menger e si confronta con gli stessi autori:
Hermann, Roscher, Schäffle10. Distingue tra “diritti” e “rapporti” ciò che Menger univa sotto
l’espressione “rapporti personali”.
La tesi di Böhm è che “diritti e rapporti” sono beni nel senso dell’economia e dunque
ricadono nella sua sfera di indagine, ma non sono beni distinti o aggiuntivi perché consistono di
prodotti materiali e di prestazioni utili personali e materiali.
Nel 1871 Menger temeva un restringimento dell’analisi economica. Dieci anni dopo, Böhm-
Bawerk (1881 [2002]: 173-174, corsivo originale) esprime l’opposto timore di un’eccessiva
estensione. Il rischio è di includere troppi beni e di contarli due volte:
9 Su Böhm-Bawerk, cfr. l’introduzione di Grillo (2002) alla monografia del 1881 e ad un altro scritto giovanile del 1876. 10 Böhm cita due opere di Schäffle. Riporta un brano di Teorie der ausschliessenden Verhältnisse, che retrodata al 1864: «Molti insegnanti e non pochi studenti di economia politica ascolteranno, come al solito diffidenti e dubbiosi, queste prime enunciazioni della nostra scienza, nelle quali ai beni reali impersonali come prima specie di oggetti di scambio economico, e alle prestazioni personali come loro seconda specie, viene coordinata quella terza categoria di beni economici che Hermann introdusse nell’economia sotto il nome di “rapporti”, e che da allora ha mantenuto la sua posizione» Böhm-Bawerk (1881 [2002]: 177). Rinvia poi ad un secondo lavoro di Schäffle (1867b), § 81, tradotto in italiano nella III serie della Biblioteca dell’Economista, e ad un volume di Roscher (s.d.), § 3. Nella terza serie della Biblioteca dell’Economista, curata da Gerolamo Boccardo, appare anche un’altra opera di Schäffle (1881). Scrive Grillo (2002: 49): Böhm “studia giurisprudenza, insieme a Friedrich von Wieser, all’Università di Vienna: diritto con Rudolf von Jhering e Joseph Unger, scienza delle finanze con Lorenz von Stein, economia politica con Albert E. Fr. Schäffle”.
11
E così può capitare di veder riconosciuti come beni immateriali, in maniera più o meno generale, i servizi personali (services), l’amore, l’amicizia, lo Stato, la Chiesa, la virtù, il carattere, l’onore, i brevetti, l’Illiade, la garanzia giuridica, il monopolio, il piacere di distruggere, le consulenze, la salute, il vigore, la destrezza, la ragionevolezza, le competenze, il gusto, la socievolezza, la libertà, la proprietà, la moralità, i rapporti tra ufficiali e soldati, il credito, le obbligazioni, le «utilizzazioni di un bene», e in generale i rapporti di ogni tipo e altre cose analoghe. È sufficiente dare appena un’occhiata a questa lunga lista per rendersi conto che non tutte le cose elencate meritano il nome di beni nel senso in cui li intende l’economia politica. Una cernita si impone comunque. Ma sulla base di quale criterio?
In quegli anni Böhm è impegnato a scrivere il suo opus magnum: una storia e critica delle
teorie dell’interesse del capitale. Considera la monografia sui “diritti e rapporti” propedeutica
all’opera maggiore: una chiarificazione della natura dei beni necessaria e preliminare per un
riesame del bene più controverso: il capitale e la sua remunerazione. Böhm teme in particolare il
diffondersi della teoria di Mac Leod che considera i diritti di credito un bene distinto dai beni su cui
si esercita. Il credito come un’attività che crea, e non solo trasferisce, beni reali. Teme il ripetersi
degli errori di John Law.
Dieci anni dopo Menger, il pericolo è la duplicazione dei beni sotto l’influente invadenza
della teoria dei beni immateriali di Say e della dottrina giuridica delle res corporales e res
incorporales. I diritti di credito o obbligazionari si vendono sul mercato, hanno un prezzo,
assumono le sembianze di reali beni economici. Scrive Böhm:
Il massimo diritto ad essere considerati beni accanto ai beni reali e alle prestazioni personali sembrano averlo invece i diritti e i rapporti, dei quali si percepisce tutto il ruolo autonomo che essi svolgono molto spesso tanto nella realtà dello scambio economico quanto nella vita giuridica. Le obbligazioni vengono cedute, i diritti di locazione vengono acquistati pagando un prezzo, ossia il fitto; i rapporti di clientela, che si accompagnano o a semplici circostanze di fatto, come la buona reputazione di una ditta, o a diritti esplicitamente motivati, come i brevetti, i privilegi o i diritti di monopolio, ottengono molto spesso un controvalore estremamente reale consistente in somme di denaro (Ibidem: 176).
Böhm, per districare la matassa, applica la “teoria generale dei beni” di Menger. Aggiunge
anzi un quinto requisito: la capacità di usare la cosa. Un individuo avverte il bisogno di cultura, il
libro lo soddisfa, l’individuo lo riconosce e ne dispone. Ma se non sa leggere, il libro non è per lui
un bene. Menger, come abbiamo visto, aveva classificato i beni in “prodotti materiali” e “azioni (ed
omissioni) umane utili”. Böhm corregge il maestro: mantiene i prodotti materiali, elimina le
“omissioni utili” e sostituisce le azioni con le prestazioni utili. In economia – dice – contano solo le
prestazioni utili, anche perché sarebbe impossibile tener conto di tutte le potenziali omissioni utili.
12
Il medico di Menger, per diventare monopolista, dovrebbe beneficiare non soltanto del ritiro del
vecchio rivale ma anche della rinuncia di tutti coloro che, potenzialmente, potrebbero esercitare
un’attività medica in quel circondario. La nuova classificazione comprende i “prodotti materiali” e
le “prestazioni utili personali e materiali”.
Nella teoria mengeriana i beni sono cose utili a soddisfare bisogni, mezzi idonei a
conseguire fini. Böhm distingue i “nuovi beni” in due grandi gruppi. Il primo comprende beni che
non sono mezzi per conseguire un fine ma sono essi stessi un fine. Rientrano in questo gruppo i
beni morali e religiosi e la felicità. Scrive: “Fanno parte di tale gruppo principalmente i beni morali,
religiosi, e molti altri beni di ordine spirituale come la virtù, la felicità, la soddisfazione, la pace
dell’animo ecc.” (Ibidem: 168).
Il secondo gruppo comprende beni, che sono idonei a conseguire un fine, ma che non
costituiscono una terza classe di beni autonomi e distinti dai prodotti materiali e dalle prestazioni
utili. In questo gruppo rientrano i “diritti e rapporti”.
Böhm esamina prima i diritti e poi i rapporti
I giuristi tradizionalmente distinguono i diritti patrimoniali in reali (e cioè sulla cosa, dal
latino res) e obbligazionari o di credito. Böhm utilizza un’altra distinzione, più conforme alla teoria
economica dei beni11.
I beni sono innanzitutto distinti in non durevoli (o “consumabili”) e durevoli (“non
consumabili”). I primi esauriscono la loro utilità in una singola prestazione (un bicchiere di vino).
Gli altri consistono e sono scomponibili in una serie di prestazioni utili. Un terreno, per esempio, è
un bene durevole che offre un insieme di prestazioni utili: può essere coltivato, lasciato incolto,
edificato, adibito a pascolo o transito. In modo analogo, un lavoratore, un avvocato, offre un
insieme di prestazioni (consulenze) personali utili. I beni non durevoli offrono una prestazione
unica, i beni durevoli prestazioni multiple.
I beni vengono poi distinti in presenti (un terreno, una casa) e futuri (il raccolto della
prossima estate, le entrate del prossimo esercizio).
Infine, in conformità alla teoria economica dei beni, distingue i diritti patrimoniali in:
“diritto di proprietà”, “diritti di utilizzazione parziale” e “diritti all’acquisizione futura di beni”.
A questo punto Böhm è in grado di stabilire se i diritti patrimoniali sono beni economici.
Il diritto, e cioè la facoltà di godere (utilizzare) e disporre (vendere, prestare o donare) di un
bene può esercitarsi sui beni presenti, sui beni futuri e sulle singole prestazioni di cui essi
11 Scrive: “I giuristi mi perdoneranno se con la tripartizione in proprietà, diritti di utilizzazione parziale, e diritti all’acquisto futuro di beni, mi servo di una suddivisione che può apparire magari poco scientifica dal punto di vista strettamente giuridico. Ma spesso un criterio di suddivisione che appare irrilevante dal punto di vista e per gli scopi di una scienza, può essere importante e proficuo dal punto di vista e per gli scopi di una scienza diversa” (Ibidem: 190).
13
consistono. Il proprietario ha diritto alla utilizzazione “totale” del bene. Il proprietario di un terreno,
per esempio, può coltivarlo, lasciarlo incolto, venderlo, donarlo. I titolari dei diritti di utilizzazione
“parziale” possono invece godere soltanto di alcune prestazioni dei beni presenti: l’usufruttuario
può percepire i frutti ma deve rispettare la destinazione economica originaria del bene, il titolare di
un diritto di superficie può costruire un edificio su un fondo altrui e così via. Infine, i titolari dei
diritti di acquisizione “futura” dei beni possono anticipatamente godere di beni futuri: rientrano tra
questi diritti il mutuo, il pegno, l’eredità, i brevetti, i privilegi industriali, le privative e i diritti
d’autore.
I diritti patrimoniali conferiscono agli individui la facoltà di godere e disporre, integralmente
o parzialmente, delle prestazioni personali e materiali di cui i beni presenti e futuri consistono. Ma
non sono beni nuovi, aggiuntivi o distintivi. Sono soltanto la proiezione giuridica dei beni reali.
Scrive Böhm: “Prendendo sul serio – cioè senza la consapevolezza che si trattava di un modo di
dire figurato – i diritti per beni, ci si è fatti per così dire ingannare dalle ombre. I diritti infatti, per
così dire, sono le ombre giuridiche che i beni reali proiettano sulla nostra immagine di patrimonio:
non c’è diritto se non c’è oggetto giuridico reale” (Ibidem: 247-248).
Il capitolo VI della monografia si intitola Analisi dei “beni di relazione”. Cento anni prima
della filosofa Nussbaum, Böhm introduce l’espressione “beni di relazione” (e forse la mutua da
Hermann e Schäffle). Dopo i “diritti”, i “rapporti”.
Böhm prende in esame, nell’ordine, la “clientela”, lo “Stato”, l’“amore e l’amicizia”12.
Applica la stessa teoria e perviene alla medesima conclusione raggiunta nell’esame dei “diritti”: i
beni relazionali consistono di prodotti materiali e prestazioni utili personali e materiali. Sono beni,
nel senso economico, ma non sono beni autonomi, distinti o aggiuntivi rispetto a quelli originari.
La clientela è l’anticipazione di un utile futuro. Il negoziante, quando vende la “clientela”,
vende in realtà i beni futuri che quell’azienda produrrà ovvero calcola il valore attuale di un
rendimento futuro. Böhm, a differenza di Menger, non considera la clientela un bene distinto dai
beni materiali presenti e futuri: “Quando il titolare dell’azienda vende la sua “clientela” o la sua
12 I riferimenti in nota sono a Schäffle (clientele), Roscher (Stato) e Hermann (amicizia e amore). Nell’introduzione ai due saggi giovanili del 1876 e del 1881, Grillo (2002: 25) scriveva: “A questi due saggi di Böhm-Bawerk abbiamo affiancato una raccolta di testi di altre figure centrali del pensiero economico dell’Ottocento e del primo Novecento che furono testimoni partecipi e/o protagonisti determinanti della sua vicenda teorica. Alcuni di essi – come quelli di Hermann, Knies, Schäffle che appariranno nella II Parte di questa raccolta –, pur essendo scomparsi da molto tempo dall’orizzonte scientifico e persino dalla memoria storica degli economisti contemporanei, si ripropongono tuttavia, a partire dalle ricerche di Hennings, Tomo e Yagi, come fonti documentali storico-teoriche che è materialmente impossibile ignorare o eludere se si vogliono comprendere il retroterra teorico effettivo e i fondamenti genetici sia delle categorie concettuali con le quali Böhm-Bawerk costruì la sua teoria dell’interesse, sia della sua critica della teoria marxiana del valore e del plusvalore che ne costituiva uno dei capisaldi”. È un vero peccato, commesso contro la conoscenza storica, che per ragioni indipendenti dalla propria volontà e legate alla scarsa sensibilità pubblica verso le opere dei classici, Grillo non abbia potuto pubblicare la II Parte della raccolta. L’auspicio sincero è che sia oggi possibile, grazie anche al rinnovato interesse per il tema della felicità in economia, completare il progetto editoriale che Grillo aveva ideato.
14
“firma” al suo successore, è evidente che entrambi i contraenti sono consapevoli, rispettivamente, di
cedere e di acquistare quei guadagni sulle transazioni future o quei sovrapprezzi che essi sperano di
realizzare sulla base del rapporto con la clientela” (Ibidem: 254).
Lo Stato equivale al complesso di prestazioni utili personali (di giudici, insegnanti, militari
…) e materiali (strade, ponti, scuole …) che esso offre alla collettività: “È difficile immaginare un
utile di matrice “statale” che non possa essere ricondotto all’una o all’altra di queste due fonti o alla
cooperazione di entrambe” (Ibidem: 266).
Infine i beni relazionali. Scrive Böhm:
Lo stesso vale per i rapporti d’amore, di amicizia, di famiglia, per altri “beni di relazione” affini. Anche qui, basta un po’ d’attenzione per convincersi agevolmente che ogni utile che noi riceviamo da queste fonti in termini di benessere, consiste in realtà di prestazioni utili benefiche date e ricevute (prevalentemente di tipo personale ma anche materiale), e che pur essendo di natura squisitamente spirituale ed estremamente delicata, sono tuttavia delle vere e proprie prestazioni utili in senso economico. Inutile dire che avvertiamo una certa riluttanza, tutt’altro che ingiustificata, a configurare le influenze di quegli atti così delicati come atti economici. E tuttavia, se sottoponiamo ad analisi teorica le fonti del nostro benessere, non possiamo evitare di riconoscere che l’elemento utile, anche qui, consiste in prestazioni utili personali e materiali, e che quindi dal punto di vista economico i “beni” famiglia, chiesa, amore ecc. non sono altro che travestimenti linguistici di un insieme di prestazioni reali (Ibidem: 267-268).
I beni relazionali consistono, sono fatti, di “prestazioni utili personali e materiali”. Sono beni
nel senso dell’economia perché soddisfano uno specifico bisogno “relazionale”. Ma non sono beni
autonomi rispetto a quelli originari. Il bisogno di amicizia o di amore si soddisfa con prestazioni
personali e materiali. Si noti quel riferimento alle prestazioni “di natura squisitamente spirituale”,
che pure sono considerate “utili in senso economico”. Si noti anche quel “date e ricevute” che
sembra alludere alla reciprocità ma che, ritengo, fosse inteso come prestazioni separatamente date e
ricevute da un soggetto. In sostanza, scrive Böhm: “abbiamo purificato il concetto economico di
bene da una categoria di pseudoproblemi. È stato ed è un errore considerare i diritti e i rapporti
come beni sui generis accanto ai beni materiali e alle prestazioni” (Ibidem: 268).
Sia Menger che Böhm considerano i “rapporti personali”, nel senso di Menger, e cioè
inclusivi dei beni relazionali, come beni dal punto di vista economico. Beni che soddisfano un
bisogno umano. Per Menger sono beni distinti che entrano, accanto ai “prodotti materiali”, nella
classe delle “azioni (ed omissioni) umane utili”. In quella classe si possono vedere, accanto alle
prestazioni lavorative, le azioni e le omissioni utili di clienti, amici, amanti. Per Böhm, invece, non
sono beni autonomi, originari, ma consistono di “prestazioni utili personali e materiali”. Dentro
quella classe non sono visibili beni denominati clientela, Stato, amore e amicizia. Sono un puro
15
nome – li chiama travestimenti linguistici: sono un insieme di prestazioni utili. Si può estrarre una
serie di prestazioni utili materiali (il valore attuale di beni futuri) e denominarla “clientela”. Si può
estrarre una serie di prestazioni utili personali (un incontro …) e materiali (un regalo …) e
denominarla “amicizia”. O una serie di prestazioni utili personali (insegnanti …) e materiali (edifici
scolastici …) e denominarla “Stato”. Ma non si possono aggiungere, alle prestazioni, nuovi beni
chiamati clientela, amicizia e Stato: significherebbe commettere l’errore di un doppio computo. I
beni originari, per Böhm, sono soltanto i “prodotti materiali” e le “prestazioni utili personali e
materiali”.
5. Gli sviluppi della teoria austriaca pura: dalla critica di Dietzel del 1882 alla versione postuma di Menger del 1923
Henrich Dietzel (1857-1935) è uno dei protagonisti della controversia metodologica
dell’ultimo ventennio dell’Ottocento. Dietzel si assume un compito: ammodernare e difendere
l’economia politica classica dal duplice tentativo, proveniente dalle opposte sponde della Scuola
Storica e della Scuola Austriaca, di includere nell’analisi economica beni fino ad allora esclusi e
considerati oggetti d’indagine di altre discipline. Nel 1882 pubblica una recensione alla monografia
di Böhm e nel 1883 un lungo saggio intitolato “Il punto di partenza della teoria dell’economia
sociale e il suo concetto fondamentale” (Der Ausgangspunkt der Socialwirtschaftslehre und ihr
Grunbegriff)13.
Secondo Dietzel, l’economia è la scienza che studia le azioni umane volte ad assoggettare la
materia al dominio dell’uomo e cioè a renderla idonea a soddisfare i suoi bisogni. Tutto è
riconducibile alla materia. Il valore di una palazzina, per esempio, include il valore dei prodotti
materiali e dei servizi immateriali impiegati nella sua costruzione. Le azioni economiche, scrive,
sono “quelle che perseguono e sono idonee a raggiungere lo scopo di assoggettare una parte limitata
della materia al dominio della volontà di una persona” (Dietzel 1883).
Menger e Böhm, nel definire la natura della scienza economica, avrebbero commesso
l’errore di guardare ai beni anziché alle azioni.
Menger considera economici quei beni la cui quantità disponibile è inferiore al fabbisogno
degli individui e pone sullo stesso piano i beni materiali e le azioni utili. In questo modo, secondo
Dietzel, finisce, paradossalmente, per escludere e per includere troppi beni ovvero getta l’economia
in una condizione di indeterminatezza. Infatti, da un lato, il mercato tende continuamente ad
equiparare disponibilità e fabbisogno e cioè a distruggere beni economici e, dall’altro,
13 Sulla vita e le opere di Dietzel, cfr. Grillo (2008). Sono grato a Enzo Grillo per aver messo a mia disposizione la traduzione, da lui curata e di prossima pubblicazione, della recensione del 1882 e del saggio del 1883 di Dietzel.
16
l’equiparazione dei beni materiali alle azioni immateriali tende ad includere tutto ciò che gli
individui scelgono per soddisfare i loro bisogni: “noi conosciamo dappertutto la tendenza del
mercato ad equilibrare fabbisogno e quantità disponibile, il che vuol dire che in questo caso
normale noi dovremmo escludere una quantità di importantissimi «oggetti dell’economia», per
usare l’espressione con cui Menger stesso circoscrive i «beni economici». Inoltre però, sulla base
della definizione di Menger la sfera dei beni economici – visto che non si fa alcuna differenza tra
beni materiali e azioni umane utili – sarebbe a sua volta così indeterminata da autorizzare a
considerare sotto la sigla di bene economico tutto ciò verso cui si indirizza la volontà degli
individui” (Ibidem).
Böhm, come abbiamo visto, distingue i beni in due gruppi: beni che non sono mezzi per un
scopo ma sono essi stessi uno scopo (virtù, felicità …) e beni che, pur essendo mezzi per uno scopo,
non sono mezzi originari (diritti e rapporti). Entrambi non possono essere considerati beni originari
utili per uno scopo.
Dietzel condivide il tentativo di Böhm di restringere nuovamente il campo dell’analisi
economica ma non la teoria mengeriana dei beni di cui egli si serve. Böhm sostiene che virtù e
felicità non sono beni economici perché non sono mezzi utili per uno scopo ma sono essi stessi uno
scopo. Ma allora, domanda Dietzel, la virtù di una figlia che la madre utilizza per procurarle un
buon matrimonio diventa un bene economico: “Ma allora vorremmo domandare: è un bene in senso
economico-sociale la virtù della figlia che la madre difende non come scopo a se stesso ma come
mezzo in vista di un ricco matrimonio? Böhm-Bawerk parla di economia, di scopi economici ecc.,
senza vedere che la sua definizione può essere data soltanto quando la teoria dei beni abbia ricevuto
una base più sicura. La vera causa della controversia sta in un punto ancor più profondo di quello in
cui Böhm-Bawerk la cerca” (Dietzel 1882). Il punto più profondo è ovviamente la teoria di Dietzel.
Böhm sostiene che diritti e rapporti sono beni economici derivati, non originari, composti di
prodotti materiali e prestazioni utili personali e materiali. Dietzel contesta il metodo di Böhm. Non
è possibile ridurre lo Stato ad un insieme di prodotti materiali e di prestazioni personali. Non è
possibile perché non si può identificare la volontà di un’istituzione con quella degli individui che vi
appartengono. Sarebbe possibile farlo soltanto con uno Stato socialista che opera come un solo
individuo. Dietzel non fa esempi relativi alle relazioni amicali e affettive. Ma il suo pensiero è
chiaro. Gli storicisti, in nome di un’economia etica, hanno chiesto l’ammissione nel tempio della
scienza economica, accanto ai prodotti materiali e ai servizi immateriali, della terza classe dei beni
relazionali. Menger, in ossequio al professato soggettivismo, ha spalancato le sacre porte del
tempio. Böhm ha cercato di richiederle ma, distratto dal maestro, ha finito per richiuderle male
lasciando aperto uno spiraglio dal quale potrebbero filtrare i velenosi fumi dell’eresia. Le porte del
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tempio vanno richiuse con le nuove chiavi, forgiate da Dietzel, delle azioni economiche volte ad
assoggettare la materia.
Nel 1884 Böhm pubblica la Storia e critica delle teorie dell’interesse del capitale, la prima
parte del suo opus magnum dedicato alla “storica critica” e alla “teoria positiva” dell’interesse del
capitale. Conferma le tesi esposte nella monografia del 1881, e in una nota difende Menger da
Dietzel. La definizione austriaca dei beni economici è corretta sia perché il mercato equipara la
quantità disponibile alla domanda solvibile, e mai al fabbisogno, sia perché il concetto mengeriano
di “bene” seleziona il flusso di “cose” sottoponibili ad indagine economica. Scrive: “Di fatto il
mercato non riesce mai ad equiparare completamente la quantità disponibile di beni economici al
fabbisogno che ne ha; riesce ad equipararla alla domanda solvibile, ma mai al fabbisogno” (Böhm-
Bawerk E. 1884 [1995]: 93). E aggiunge: “Per quanto riguarda poi la seconda obiezione, a me pare
che la definizione mengeriana tracci in maniera sufficientemente precisa i confini della sfera dei
beni economici. Non bisogna dimenticare infatti che una parte dei confini è chiamata a tracciarla già
la definizione concettuale di «bene». Cose come le qualità, le competenze, i diritti, i rapporti, non
possono essere beni economici neanche qualora esistano in quantità insufficiente; e non possono
esserlo per la semplice ragione che non sono veri e propri beni, non sono cioè mezzi atti a
soddisfare realmente i bisogni umani, e possono tutt’al più essere chiamati tali in senso metaforico.
Nella sfera dei beni veri e propri, non c’è dubbio che i beni esistenti in quantità insufficiente sono
simultaneamente beni economici” (Ibidem: 94)14.
Nella seconda edizione della Storia e critica, pubblicata nel 1914, due mesi prima di morire,
scompare la nota a Dietzel ed affiora un senso di delusione e disappunto per la sorte riservata alla
monografia del 1881. Scrive Böhm: “Stranamente quel mio tentativo è rimasto quasi
completamente isolato nella letteratura. Dico «stranamente» a ragion veduta! Non è forse
sbalorditivo infatti che in una scienza che ruota dall’inizio alla fine sul perno della soddisfazione dei
bisogni per mezzo dei beni e della relazione di utilità tra uomo e natura, a nessuno venga in mente
di indagare la struttura tecnica dell’utilità dei beni?” (Ibidem: 48)15.
14 Böhm così prosegue: “Se perciò – come io appunto sostengo anche nei riguardi del bene economico «disponibilità» – MENGER su alcune singole circostanze va contro la verità, ciò non è dovuto ad una sua erronea definizione dei confini precisi della sfera dell’economico, ma semplicemente ad un uso talvolta piuttosto trascurato del concetto di «bene»”. Böhm si riferisce alla teoria dell’interesse di Menger, che critica, basata sul concetto di utilizzazione o disponibilità intesa “come la facoltà di «disporre di quantità di beni economici entro periodi di tempo determinati». Nella misura in cui questa disponibilità rappresenta per i soggetti economici un mezzo per migliorare e completare il soddisfacimento dei loro bisogni, essa acquista, secondo MENGER, il carattere di bene autonomo, che di solito, a causa della sua relativa rarità, sarà al tempo stesso un bene economico. Orbene, a me pare che già l’affermazione che la disponibilità di un bene – vale a dire un rapporto con il bene – è essa stessa un bene, sia intrinsecamente una costruzione abbastanza azzardata” (Ibidem: 93). Per Böhm, come è noto, l’interesse è l’aggio dei beni presenti sui beni futuri. 15 Sarebbe interessante esaminare anche la riflessione degli economisti italiani. Del Vecchio (1908), per esempio, in un saggio che ricostruisce la storia della teoria dei beni materiali e immateriali, affronta la questione dei beni relazionali. Scrive: “Sono esclusi anzitutto quei rapporti così personali da essere inscindibilmente legati alle persone comprese in essi: così la stima di onestà di cui un commerciante gode (credito), si deve considerare una sua qualità, anziché un
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Alla morte di Böhm, il vecchio maestro scrive il suo necrologio. A proposito della
monografia del 1881, osserva: il tentativo di Böhm “ha trovato nella corporazione degli economisti
un consenso non unanime, a causa della evidente artificiosità della costruzione teorica, ma
specialmente a causa della contraddizione in cui la concezione fondamentale di Böhm sta con
l’esperienza”. La prova più evidente – secondo Menger (1915 [2002]: 317) – è “che quando si cede
un marchio, un brevetto, una clientela, il loro prezzo venga calcolato separatamente dal prezzo dei
beni materiali ad essi collegati (terreni, edifici, macchine, beni d’inventario ecc.)”. Ma Menger
sembra riferirsi soltanto ai beni presenti e non a quelli futuri.
Nel 1921 muore anche Menger. Nel 1923 appare la seconda edizione dei Principî
fondamentali, curata dal figlio Karl. Una curatela che ha dato adito a notevoli dubbi e che secondo
molti studiosi è poco attendibile. La questione dei “beni relazionali” viene relegata in una nota.
Menger (1923 [1925]: 16) scrive:
In sostanza, scambiando i punti di vista specificamente etici con gli economici, e specialmente con l’adozione, da parte della nostra scienza, del concetto di bene preso dalle discipline morali (dalla teologia, dalla morale, dalla giurisprudenza, ecc.), alcuni economisti riconoscono come beni, idee e cose, che, dal punto di vista economico, non possono venir denominate così (Dio come «bene supremo», virtù, onore e simili). Così pure, l’amore, l’amicizia, la devozione, ecc., che ci vengono concesse liberamente, non sono mezzi disponibili per la soddisfazione dei bisogni di un soggetto economico, e quindi non sono beni ma libere manifestazioni della personalità.
Menger sembra ora ritenere che le relazioni amicali e affettive non possano essere
considerati beni in senso economico perché non “disponibili”. Viene meno l’ultimo requisito della
sua “teoria generale dei beni”. La frase non è chiara. Una possibile interpretazione è che quei “beni”
non sono disponibili come gli altri. Un individuo non può procurarseli. Può solo riceverli
liberamente. Sono “libere manifestazioni” della personalità di altri.
All’inizio gli anni venti, quasi in sordina, i beni relazionali escono dal tempio della scienza
economica e diventano esclusivo oggetto di indagine di discipline filosofico-morali.
rapporto oggettivo, qualche cosa di intrinseco e non di estrinseco a lui. Soltanto rapporti personali non così intimi, che possano esser trasferiti da persona a persona, assumono carattere economico distinto dalle qualità personali, in ragione appunto del loro modo concreto di essere nell’economia identico a quello delle cose materiali, diverso da quello delle qualità personali”. E in nota aggiunge: “Così si escludono senza ricorrere a distinzioni impossibili fra rapporti di contenuto economico e non economico, quelli estranei di loro natura al calcolo economico, come l’amicizia e simili, i quali tutti sono rapporti essenzialmente personali” (Del Vecchio 1908 [1956]: 270-271).
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6. Gli sviluppi della teoria anglo-austriaca: da Wicksteed a Robbins
Nel 1910 Philip Henry Wicksteed (1844-1927), nato a Leeds nello Yorkshire e pastore della
Unitarian Church, pubblica The Common Sense of Political Economy. Nel capitolo V, intitolato
“Business and economic nexus”, espone una teoria delle relazioni economiche che, di fatto e per
altra via, rispetto a quella seguita da Menger e Böhm-Bawerk, estromette i beni relazionali
dall’analisi economica. Wicksteed, seguendo un percorso proprio, elabora un approccio affine a
quello austriaco: Kirzner (1999) lo chiama “the British Austrian”16.
Secondo Wicksteed, le relazioni economiche sono in sé puramente strumentali e neutrali:
strumentali nel senso che servono ad acquisire, attraverso atti di scambio, beni e servizi; neutrali nel
senso che i beni acquisiti possono essere utilizzati per fini sia egoistici che altruistici. Possono
essere gelosamente accumulati o generosamente donati. Le relazioni non strumentali o pure non
sono economiche17.
Wicksteed ricorre a vari esempi. Una madre acquista le patate al mercato per servirle a
tavola ai figli. La prima relazione è puramente neutrale e strumentale, è cioè economica. La madre è
mossa da un intento altruistico: nutrire i figli. Potrebbe essere mossa anche dal desiderio di
devolvere ai poveri i risparmi accumulati con tante spese oculate. La madre è potenzialmente
altruista con tutti tranne che con il venditore di patate. Con tutti tranne che con lui. Se fosse altruista
anche con il venditore, la relazione non sarebbe più economica.
Altro esempio. San Paolo vendeva tende. Anche in quell’attività era mosso da un intento
altruistico. Desiderava, con i proventi, aiutare gli altri e non accumulare tesori per sé. Era altruista
con tutti tranne che con coloro che acquistavano le tende. Se lo fosse stato anche con loro, la
relazione non sarebbe stata più economica.
Nelle relazioni economiche un soggetto può essere mosso da un fine egoistico o altruistico.
Può essere egoista o altruista con tutti tranne che con colui con cui stabilisce la relazione. Con tutti
tranne che con te che sei la mia controparte. La natura della relazione economica non è definita né
dall’egoismo né dall’altruismo ma da ciò che Wicksteed (1910: 180), ricorrendo ad un neologismo,
chiama “non-tuismo”: “it would be just as true, and just as false, to say that the business motives
ignores egoistica s to say that it ignores altruistic implulses. The specific characteristic of an
economic relation is not its “egoism”, but its “non-tuism””.
Sarebbe assurdo dire che la madre che acquista le patate al minor prezzo è un’egoista. O che
lo sia San Paolo che vende le tende al maggior prezzo. Ciò che definisce le loro azioni è il movente
ultimo (o primo) che le ispira. Ma in questo modo Wicksteed espelle, di fatto, le relazioni non
16 Per un primo inquadramento sulla vita e il pensiero di Wicksteed, oltre al saggio di Kirzner, si veda l’introduzione di Robbins (1933) alla riedizione del Common Sense.. 17 Ho ripreso, condividendola, l’interpretazione di Wicksteed da Bruni (2004: 164-173).
20
strumentali dal dominio dell’economia politica. Scrive Bruni: “La buona intenzione di liberare la
scienza economica dall’egoismo lo portò ad espellere la relazione non strumentale dal dominio
dell’economia: la sfera economica diventa quella caratterizzata dai rapporti puramente anonimi,
spersonalizzati e quindi strumentali” (Bruni 2004: 170).
Nel 1932 Robbins cura la riedizione del Common Sense e di altri selected papers di
Wicksteed. Lo stesso anno pubblica il famoso Essay on the Nature and Significance of Economic
Science in cui codifica la metodologia economica che gli economisti ancora oggi utilizzano18.
L’economia è la scienza che studia le scelte degli uomini quando si trovano in una
condizione di scarsità, quando cioè, nel perseguire fini di diversa importanza, dispongono di mezzi
scarsi e destinabili ad impieghi alternativi. In prima approssimazione, i beni relazionali (anche se
Robbins non usa questa espressione) non sono beni economici. In seconda approssimazione,
possono diventarlo.
Robbins definisce in modo rigoroso le quattro condizioni della scarsità. Due riguardano i
fini e due i mezzi: i fini devono essere molteplici e ordinabili per importanza, i mezzi (e il tempo)
scarsi e utilizzabili in impieghi alternativi. Se manca anche una sola delle quattro condizioni non c’è
scarsità e non si pone il problema economico di dover scegliere alcuni fini sacrificandone altri. Ma,
se si verificano contemporaneamente le quattro condizioni, allora, con i mezzi esistenti, non è
possibile conseguire tutti i fini desiderati e sorge il problema, economico e non tecnico, di dover
scegliere come impiegare i mezzi in modo che sia rispettata la gerarchia dei fini, in modo che siano
raggiunti i fini più desiderati.
I fini possono essere vili o nobili, materiali o immateriali, egoistici o altruistici. Non
esistono – dice Robbins – fini economici ma solo modi economici o non-economici di conseguire
fini desiderati: “Per quanto ci riguarda, i nostri soggetti economici possono essere puri egoisti, puri
altruisti, puri asceti, puri sensualisti o – com’è molto più probabile – fasci misti di tutti
quest’impulsi” (Robbins (1932 [1947]: 114).
L’economista assume i fini come dati. Robbins fa l’esempio di una comunità di sibariti poi
convertita da un Savonarola. All’inizio i sibariti desiderano appagare i “piaceri dei sensi”: le scarse
risorse esistenti sono destinate principalmente a produrre cibo e vino. Dopo la conversione cambia
la gerarchia dei fini: i sibariti diventano asceti e desiderano appagare i piaceri dell’anima. L’analisi
economica non cambia. L’economista osserva che è cambiata soltanto la scarsità relativa dei beni.
Nel tempo della conversione, si produce meno vino e più pietre per edifici ecclesiastici: si riduce la
rendita dei vigneti e aumenta quella delle cave di pietra.
18 Sulla ricezione dell’Essay di Robbins, cfr. Backhouse e Medema (2007).
21
In prima approssimazione, sostiene Robbins, conviene separare nettamente mezzi e fini. Il
lavoro è un mezzo che serve a procurarsi le risorse finanziarie necessarie per conseguire i fini
desiderati. I fini possono essere diversi: materiali o spirituali, egoistici o altruistici: mantenere la
famiglia o vivere nella dissolutezza. Ma la relazione col datore di lavoro è puramente strumentale:
serve soltanto a procurarsi i mezzi idonei a conseguire i fini. L’operaio sceglie il datore di lavoro
che offre il salario maggiore. Poi deciderà se mantenere la famiglia o vivere nella dissolutezza. Solo
allora si capirà se è egoista o altruista. La relazione economica tra operaio e datore di lavoro non è
un bene in sé. Robbins non cita Wicksteed ma è chiaro che sta applicando il suo non-tuismo. Scrive:
Tutto quello, dunque, che si cela sotto l’homo oeconomicus non è altro che l’assunto occasionale che in certi rapporti di scambio tutt’i mezzi, per così dire, stanno da una parte e tutti gli scopi dall’altra. Se, ad esempio, per mostrare le condizioni in cui un singolo prezzo si determina in un mercato limitato, si assume che nelle mie operazioni su quel mercato io comperi sempre dal venditore che fa il prezzo più basso, ciò non implica punto che io sia necessariamente sospinto da motivi egoistici. Al contrario, è ben noto che quel rapporto impersonale assunto in ipotesi lo si può vedere nella sua forma più pura nel caso di amministratori fiduciari che, non potendo concedersi il lusso di più complicate relazioni, cercano di ottenere le migliori condizioni possibili per i fondi ch’essi amministrano: il vostro uomo d’affari è un individuo assai più complicato. Tutto quello che ciò significa è che la mia relazione con coloro coi quali tratto non entra nella gerarchia dei miei scopi. Io (che posso agire per me stesso o per i miei amici o per qualche ente pubblico o di beneficenza) li considero semplicemente come altrettanti mezzi. O ancora, se si suppone che io venda il mio lavoro sempre sul mercato a prezzo più alto …ciò non implica che il danaro e l’interesse personale siano i miei scopi ultimi: può darsi che io lavori unicamente per sostenere qualche istituzione filantropica. Si postula semplicemente che, in quella determinata operazione, il mio lavoro è soltanto un mezzo per uno scopo, e non dev’essere considerato come un fine in se stesso (Ibidem: 116-117).
Ma si tratta soltanto di una prima approssimazione che, una volta svolta, può essere
abbandonata. In seconda approssimazione, si può ipotizzare che l’operaio scelga di lavorare, anche
ad un salario inferiore, in un’impresa che considera migliore. Cade la rigida separazione tra mezzi e
fini. Il lavoro diventa anche un fine. Più esattamente, nella relazione economica, emerge un duplice
fine e un duplice mezzo. I due fini sono: mantenere la famiglia e lavorare “felicemente”. I due
mezzi: il lavoro come strumento per procurarsi i mezzi finanziari necessari a mantenere la famiglia
e le relazioni umane all’interno dell’impresa per lavorare “felicemente”. La relazione umana
diventa un bene che soddisfa il distinto bisogno di ben-essere nel lavoro e che implica la parziale
rinuncia ad altri fini (che potevano essere raggiunti con un salario maggiore). I beni relazionali,
anche se Robbins non usa questa espressione, diventano beni economici. Scrive: “Se ciò fosse
generalmente noto, se s’intendesse che l’homo oeconomicus non è che un espediente espositivo –
22
una prima approssimazione molto cautamente usata ad un certo punto dello sviluppo di argomenti
che, quando siano completamente svolti, non impiegano quell’assunto né lo richiedono in nessun
modo come giustificazione del loro procedimento – è improbabile che l’homo oeconomicus sarebbe
un tale universale spauracchio” (Ibidem: 117). E ancora: “Ora, le valutazioni che determinano le
singole operazioni possono avere gradi di complessità diversi. Quand’io compero pane, può darsi
che quel che m’interessa sia soltanto il confronto tra il pane e gli altri beni, nello scambio dei quali
avrei potuto spendere il mio danaro. Ma può interessarmi anche la felicità del mio fornaio. Possono
esservi fra noi certi legami che mi facciano preferire comprare il pane da lui piuttosto che dal suo
concorrente che me lo venderebbe a minor prezzo. In maniera esattamente uguale, quando cedo il
mio lavoro o do in affitto un mio stabile, può darsi che m’interessino soltanto le cose che ricevo
come risultato dell’operazione; ma può anche interessarmi il lavorare in un modo piuttosto che in
un altro, oppure il prestigio o il discredito, il senso di probità o di vergogna, che proverei
nell’affittare quella mia proprietà in una maniera o in un’altra” (Ibidem: 114-115).
Robbins riapre le porte del tempio della scienza economica ai beni relazionali.
7. La teoria austriaca dei beni relazionali nella storia dell’economia della felicità
È ormai tempo di proporre una risposta all’interrogativo che ha mosso questa ricerca e cioè
quale posto occupa la teoria austriaca dei beni relazionali nella storia dell’economia della felicità.
Mi pare di poter dire, innanzitutto, che occupa un posto di prima fila. Gli austriaci raccolgono la
sfida degli storicisti tedeschi e cercano di stabilire, utilizzando una teoria generale dei beni
economici, se e in che senso la terza classe dei beni relazionali possa essere ammessa nel dominio
della scienza economica. La risposta non è univoca. Ma la risposta dominante, mi pare, sia
affermativa: i beni relazionali ricadono o possono entrare nel dominio della scienza economica: dal
si di Menger al si di Robbins, seguendo un lungo e talvolta solitario percorso.
Ho distinto gli austriaci puri dagli anglo-austriaci.
Nei Principî del 1871 Menger risponde in modo affermativo: le relazioni amicali, affettive e
sociali – i beni relazionali – appartengono alla classe delle “azioni (ed omissioni) umane utili” che
si affianca a quella dei prodotti materiali. Nella monografia del 1881 Böhm-Bawerk sostiene invece
che sono beni ma non originari o autonomi. Sono piuttosto beni derivati, composti di “prodotti
materiali” e “prestazioni utili materiali e personali”, che costituiscono le due sole classi di beni di
cui l’economia politica si occupa. Negli anni successivi, Böhm dialoga con Dietzel e indirettamente
con Menger. Nella seconda edizione della Storia e critica, apparsa nel 1914, poco prima di morire,
sconsolatamente ammette che il proprio tentativo non ha avuto successo. Nel 1923, post mortem,
Menger, in una nota della seconda edizione dei Principî, scrive che i beni relazionali non sono beni
23
perché non sono “disponibili”. La teoria austriaca pura non si sviluppa: dal si del primo Menger al
no dell’ultimo Menger.
La linea anglo-austriaca segue un percorso inverso. Non affronta esplicitamente il problema
della terza classe dei beni relazionali. Ma implicitamente prospetta una soluzione positiva. Nel 1910
Wicksteed sostiene che l’economia si occupa soltanto delle relazioni neutrali e strumentali. La
relazione umana, in sé, non è un bene per l’economia. Nel 1932 Robbins considera il non-tuismo di
Wicksteed soltanto una prima approssimazione che, una volta svolta, può essere abbandonata. Nella
seconda approssimazione, le relazioni umane possono essere concepite come beni che soddisfano
un bisogno di ben-essere o felicità. Dal no di Wicksteed al si di Robbins.
Dunque, nel tempo della rivoluzione marginalista, gli economisti austriaci elaborano una
teoria dei beni relazionali fondata su una più generale teoria dei beni economici recepita poi dal
mainstream.
La storia dell’economia della felicità è stata scritta soprattutto da Bruni e Zamagni. La
storia, a loro giudizio, è scandita da tre fasi. La prima è quella in cui il sole della felicità – per usare
un’immagine a loro cara – splende nel cielo dell’economia. L’economia nasce nel Settecento,
soprattutto nell’Italia di Genovesi, come la scienza della pubblica felicità, che indaga direttamente il
problema della trasformazione della ricchezza in felicità. Si sviluppa poi in Inghilterra, da Smith a
Marshall, come la scienza della ricchezza, nel presupposto implicito che la ricchezza favorisca la
felicità. La seconda è la fase dell’eclissi durante la quale la felicità scompare dall’orizzonte
dell’economia. L’eclissi si compie in tre successivi momenti. Bentham identifica la felicità con
l’utilità. L’economia diventa il calcolo dei piaceri e delle pene. Il fine della massima felicità per il
maggior numero di individui coincide con la massima utilità. Pareto sostiene che non è necessario
ricorrere a concetti psicologici. L’economia studia le azioni logiche e cioè i comportamenti
razionali di soggetti che usano mezzi scarsi per conseguire fini diversi. L’economista rileva le
preferenze individuali ex-post senza attribuire agli agenti un fine preordinato: è utile ciò che
l’individuo sceglie e non viceversa. Wicksteed infine restringe il campo di indagine dell’economia
al mercato, in cui si stabiliscono soltanto relazioni strumentali e neutrali. La terza e ultima fase,
nella quale ci troviamo, comincia nel 1974 con la scoperta, ad opera di Easterlin, del paradosso
della felicità: perché la ricchezza non rende più felici? Gli stessi autori rispondono: perché gli
individui, per procurarsi la ricchezza necessaria ad acquistare i beni di consumo, finiscono per
distruggere quei beni relazionali da cui la felicità largamente dipende19.
Bruni e Zamagni hanno il merito di aver posto in una prospettiva storica il grande tema della
felicità in economia. Una storia viva, appassionata e appassionante, che ci fa riscoprire autori di cui 19 Si vedano, in particolare, Bruni e Zamagni (2004) e Bruni (2004, 2006b). Altri contributi storici sono quelli di Vivenza (2004) e Porta (2006).
24
pensavamo di conoscere ormai tutto. Hanno anche il merito di aver colto nel non-tuismo un’idea
che ha ampiamente oscurato il tema della felicità in economia, da Wicksteed in poi. Ma l’eclissi non
è totale. Proprio nel tempo del marginalismo, come abbiamo visto, gli economisti austriaci
elaborano una teoria dei beni relazionali che, per sua natura, si collega al tema della felicità20.
La teoria austriaca è diversa da quella moderna. Manca la reciprocità simultanea. Nella
teoria moderna il bene relazionale è co-prodotto e co-consumato dai soggetti coinvolti. In una cena
tra amici, insieme al pasto, è co-prodotto e co-consumato un bene distinto che possiamo chiamare
relazione amicale. Nella teoria austriaca, soprattutto nella versione di Menger e Böhm-Bawerk, il
bene relazionale è invece concepito come un’azione o prestazione utile unilaterale, che un soggetto
compie per sé o per altri. Preferisco lavorare con te, anche ad un salario inferiore, per la mia felicità.
Preferisco acquistare il pane da quel fornaio, anche ad un prezzo maggiore, per la sua felicità.
L’azione che compio ha come fine la mia o l’altrui felicità. Siamo fuori dal territorio del non-tuismo
ma non ancora nel regno della reciprocità simultanea. L’ipotesi del non-tuismo prevede infatti che
si possa essere altruisti con tutti tranne che con colui con cui si tratta, con tutti tranne che con te. La
seconda approssimazione di Robbins reintroduce il tu nell’economia al posto del non-tuismo: posso
comprare il pane da quel fornaio per la sua felicità.
Forse è possibile collegare la teoria moderna alla teoria austriaca sviluppando la seconda
approssimazione di Robbins e cioè lasciando cadere la rigida contrapposizione tra mezzi e fini e
introducendo la logica del duplice mezzo e del duplice fine. Alcuni amici decidono di costituire
insieme un’impresa cooperativa, anche a costo di guadagnare meno. Il duplice fine è: mantenere le
rispettive famiglie e vivere un rapporto amichevole nel lavoro. Il duplice mezzo è: la prestazione
lavorativa e la relazione amichevole. La relazione amichevole è un bene co-prodotto e co-
consumato, distinto dal lavoro, che appaga il bisogno di amicizia.
I beni relazionali, a mio giudizio, sono economici solo se soddisfano i requisiti dello schema
mezzi/fini di Robbins: allora hanno un costo opportunità che induce gli individui a compiere scelte
razionali e cioè a preferire alcuni fini sacrificandone altri.
Faccio due esempi. Il primo è quello, tradizionale, già accennato e utilizzato da molti teorici
dei beni relazionali. Torniamo dal barbiere. Il bene relazionale – è stato detto – è un bene in sé, è
una relazione non strumentale, non finalizzata all’acquisizione di un altro bene o servizio. Un
cliente è disposto a pagare di più un barbiere perché lo considera simpatico. Non è un bene
relazionale: manca la reciprocità. Si tratta semmai di un prodotto differenziato: il cliente è disposto
a pagare di più lo stesso servizio – il taglio dei capelli – perché lo percepisce come diverso e
migliore. Il barbiere è cortese e simpatico perché lo considera un aspetto della sua professionalità. È
20 Bruni (2006b, nota 161) cita soltanto la seconda edizione dei Principî di Menger.
25
uno scambio di equivalenti: il taglio dei capelli e la cordialità in cambio di un compenso monetario.
Dopo un po’, il barbiere diventa un vero amico e propone al cliente uno sconto. Il cliente rifiuta.
Teme che possano sorgere equivoci. Il barbiere potrebbe sentirsi obbligato a rifiutare un cliente
normale per fare posto a lui. Un conto è il servizio professionale, un altro la conversazione
amichevole. L’introduzione di una motivazione estrinseca (il denaro) può distruggere la
motivazione intrinseca (l’amicizia). Il prezzo non cambia, il servizio nemmeno ma adesso,
simultaneamente alla prestazione professionale, viene co-prodotto e co-consumato un altro bene
chiamato relazionale. Un bene gratuito che si aggiunge a quello di mercato. Un bene non
economico se non implica un costo opportunità.
Un altro esempio, forse più significativo. Un padre trascorre il sabato pomeriggio con il
figlio. È un bene relazionale. Dopo un po’ il figlio si rifiuta. Ha cose più piacevoli da fare. Il bene
non è più “disponibile”. Il padre offre al figlio un incentivo di dieci euro. Non è più un bene
relazionale. Diventa un bene di mercato: la motivazione estrinseca distrugge la motivazione
intrinseca. Altro caso: è il padre, e non il figlio, che non è più disponibile il sabato pomeriggio a
causa dei troppi impegni. Ma un sabato capisce che il rapporto con il figlio è troppo importante ed è
disposto a rinunciare ad una ricca consulenza per stare con lui. Il bene relazionale può avere un
costo opportunità che impone di scegliere alcuni fini sacrificandone altri.
Il costo opportunità, come è noto, può comprendere un costo esplicito (esborso o prezzo
monetario) e/o un costo implicito. I beni relazionali puri possono avere solo un costo implicito. La
riscossione di un prezzo distrugge il bene relazionale. Il pagamento di un “prezzo” (inteso come
costo implicito e non come esborso monetario) diventa invece inevitabile quando il bene è scarso.
Si pagano i beni relazionali puri sostenendo un costo implicito (il padre che rinuncia alla
consulenza). Si pagano gli pseudobeni relazionali (chat lines, agenzie di incontro, ecc.) con esborsi
monetari. Paga chi domanda il bene. Il costo implicito rafforza la gratuità dei beni relazionali: per
averli si è disposti non solo a non ricevere nulla ma anche a rinunciare a qualcosa.
Infine, rispetto alla tradizionale distinzione tra beni privati e beni pubblici, il bene
relazionale si può configurare come un “bene misto” che presenta i caratteri della anti-rivalità e
della escludibilità dal consumo. Il ben-essere della persona aumenta quanto più si allargano e si
approfondiscono le relazioni familiari, amicali e civili mentre è sempre possibile escludere
qualcuno da quelle relazioni.
26
8. Conclusioni
Ricordo le tre parti in cui si articola questo scritto.
Ho inizialmente riassunto il significato del paradosso della felicità in economia e le
principali spiegazioni proposte dagli economisti contemporanei (par. 2). Il paradosso consiste nel
fatto che, superata una soglia critica, la felicità percepita dagli individui diventa insensibile agli
incrementi di reddito. Gli economisti hanno avanzato due principali spiegazioni: basate sui beni di
consumo e connesse alle relazioni interpersonali.
Ho poi ricostruito la storia della teoria austriaca dei beni relazionali (parr. 3-6) da Menger
(1871) a Robbins (1932). La storia di un duplice tentativo: quello austriaco puro e quello anglo-
austriaco. Nella Germania di metà Ottocento, impegnata nella disputa sul metodo, gli storicisti
propongono l’ammissione nella scienza economica di una terza classe di beni, accanto ai prodotti
materiali e ai servizi immateriali, comprensiva di relazioni familiari, amicali, affettive, sociali. La
proposta rientra in un più ampio programma di ricerca volto a ristabilire un legame tra economia
ed etica. Nel 1871 Menger, che teme un restringimento dell’analisi economica, riconosce i nuovi
beni come distinti dai prodotti materiali e dalle prestazioni lavorative e li include nella classe delle
“azioni ed omissioni umane utili”. Dieci anni dopo, nel 1881, Böhm-Bawerk, che avverte
l’opposto pericolo di un eccessivo allargamento, li riconosce solo come beni derivati, composti di
“prodotti materiali” e “prestazioni utili materiali e personali”. Il tentativo degli austriaci puri si
interrompe: Böhm-Bawerk ammette l’insuccesso della propria teoria e Menger, nell’edizione
postuma dei Principî, afferma che i beni relazionali non sono beni in senso economico perché non
sono disponibili. Una sorte diversa incontra il tentativo anglo-austriaco, che segue una inversa
traiettoria: muovendo dal non-tuismo di Wicksteed, che esclude di fatto i beni relazionali,
perviene all’ipotesi di seconda approssimazione di Robbins che potenzialmente reintroduce i beni
relazionali nella sfera dell’economia politica.
Ho infine provato a collocare la teoria austriaca dei beni relazionali nella storia
dell’economia della felicità (par. 7). Gli economisti austriaci occupano un posto di rilievo. La loro
teoria dei beni relazionali – diversa da quella moderna ma comunque collegata al tema della
felicità – si fonda su una più generale teoria dei beni costitutiva della moderna scienza
economica. Nel tempo del marginalismo, l’eclissi della felicità in economia non è completa.
Certo, da Menger e Robbins, sono passati decenni in cui l’economia politica ha compiuto
enormi progressi, anche sul versante dell’economia della felicità. Forse può essere utile però
tornare a riflettere su quelle prime considerazioni svolte in tema di beni relazionali da studiosi che
restano giganti nella storia del pensiero economico.
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