Il rapporto tra barbarie ed eresia nella riflessione politica di Ambrogio

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IL RAPPORTO TRA “BARBARIE” ED “ERESIA”NELLA RIFLESSIONE POLITICA DI AMBROGIO

di Mattia Pietro Balbo

1. Per comprendere l’approccio degli autori cristiani in lingua latina nei confronti dell’enorme corpus teorico elaborato nei secoli dalla cultura greco-romana al ! ne di delineare la categoria di barbaro – e soprattutto per comprendere se vi sia un apporto più propriamente cristiano nella riformu-lazione di questo insieme di concetti – occorre fare riferimento al contesto storico che fa da sfondo alla ri" essione teorico-politica delle fonti cristiane della ! ne del IV secolo. Dopo la caduta di Valente nel 378 e la prudente ritirata di Graziano, assistiamo a una forte reazione ideologica per quanto concerne l’atteggiamento delle fonti verso la “minaccia gotica” e nei con-fronti della politica di accomodamento del nuovo augusto, Teodosio.

Indubbiamente, l’élite romana, stando almeno al quadro che emerge dalle fonti che ne sono l’espressione, è profondamente colpita da questo problema. La catastrofe della scon! tta in" itta dai Goti all’esercito im-periale appare ingigantita se letta attraverso l’impatto emotivo che ha suscitato. Alla battaglia di Adrianopoli, infatti, si è solitamente attribuito un grande signi! cato, in parte dovuto a ciò che le fonti riferiscono, in parte prodotto dalla chiave interpretativa utilizzata dagli storici moderni: questi ultimi, partendo da una visione del processo storico per così dire “compiuta”, hanno identi! cato nel 378 un punto di non ritorno per Roma, una vera e propria anticipazione del Medioevo.1

1 Celebre è la de! nizione di Adrianopoli come «le commencement de la ! n» formulata da Stein 1959, p. 190. Ma si vedano soprattutto i giudizi in chiave quasi teleologica contenuti

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Un’interpretazione più recente, invece, invita a studiare l’episodio senza pensare né alla ! ne della storia romana né alla lettura data dalle fonti di tardo V secolo, vale a dire quando il fenomeno dell’ascesa di gruppi cosiddetti barbarici nella parte occidentale è al culmine.2 Si tratta, insomma, di contestualizzare un accadimento per quello che ha vera-mente signi! cato presso i contemporanei.

Nella varietà di reazioni che caratterizza la speculazione immediata-mente successiva alla battaglia, si può indubbiamente parlare di un vero e proprio shock,3 ma non di una sensazione di inizio della ! ne. Anzi, se estendiamo l’analisi oltre il singolo fatto della disfatta di Valente, inclu-dendo la ride! nizione dei rapporti tra impero e Goti, di cui Adrianopoli è all’origine, notiamo che sovente permane un generale senso di ottimismo. Ciò avviene soprattutto in quelle fonti, sia greche sia latine, che espri-mono l’ideologia del nuovo imperatore e intendono giusti! care la sua politica di integrazione dei barbari (ad esempio il retore Temistio e il panegirista Pacato).4

D’altro canto, non si fanno attendere atteggiamenti di condanna che ricadono vuoi sull’impreparazione dell’esercito e dei suoi uf! ciali,5 vuoi sull’imperatore defunto. Valente, infatti, viene attaccato da più punti di vista: si denuncia la sua incapacità tattica, l’aver sottovalutato i rischi e il non aver atteso i rinforzi di Graziano.6 Tuttavia, ben presto si passa a coinvolgere la sfera religioso-sacrale del problema, innanzitutto ac-

in Bang 1924, p. 217: «L’impero vacillò ! no alle sue fondamenta [...] il suo potere e la sua gloria sembravano calpestati nella polvere dalle orde barbare [...] La battaglia di Adriano-poli introduce l’ultimo atto della grande messa in scena, quello più denso di conseguenze che la storia mondiale abbia mai visto». Lenski 1997, specialmente le pp. 129-130 e nota 1; Lenski 2002. Un certo atteggiamento antibarbarico ritorna anche in Heather 2005 (2006); per una recente drammatizzazione della battaglia di Adrianopoli: Barbero 2005. Le traduzioni dei passi latini, se non diversamente speci! cato, sono di chi scrive.

2 È la posizione di Wolfram 1979 (1985), pp. 128-130.

3 Ammianus, Historiae, 31; Dauge 1981, pp. 330-352; Chauvot 2004.

4 Temistius, Orationes, 14, 181a-c; Panegyrici Latini, 12 (2); Ausonius, Gratiarum Actio, 2, 7; Giardina-Silvestrini 1989; Lenski 1997, pp. 137-145; Castello 2010.

5 Libanius, Orationes, 24, 3, che si incarica di difendere l’esercito dalle accuse scaturite, a suo dire, da una sensazione generalmente diffusa presso i suoi contemporanei. Ma altrove, anche lui si accoda a questa polemica (Orationes, 2, 37-40; 45).

6 Si vedano, solo per citare alcuni esempi, Ammianus, Historiae, 31, 12, 3-7; Eunapius, Historia, fr. 44, 1 Blockley 1981 (= 46 Müller 1851); Zosimus, Historia nova, 4, 24, 1.

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cennando all’aver trascurato, da parte sua, di puri! care l’assassinio di Giuliano,7 ma ben presto coinvolgendo anche la questione spinosa, e che ci riguarda più da vicino, della sua adesione all’Arianesimo, cui viene imputata la disfatta militare.8

Ovviamente, non viene tralasciato il ruolo dei barbari nella vicenda. Intorno a essi viene costruito un castello retorico, volto a indicare come la loro irruzione entro il limes sia un segnale d’allarme per le sorti della stabilità imperiale. Questo tema funge da pretesto per invocare una ri-sistemazione interna ai meccanismi che regolano il funzionamento del mondo romano.

In de! nitiva, è lecito affermare che a condizionare le fonti latine nel loro atteggiamento verso i barbari è più la “paura del nemico” che una reale minaccia. Il problema delle incursioni e delle scorrerie entro il limes, infatti, nell’ultimo quarto del IV secolo è prevalentemente concentrato nella pars Orientis dell’impero.9 Mentre la corte orientale si trova ad affrontare il problema della ricostruzione dell’esercito e dell’accomoda-mento tramite foedera dei gruppi di Goti in via di formazione, le fonti occidentali, in particolar modo quelle ecclesiastiche, agitano lo spaurac-chio dello “straniero”, al ! ne di esercitare una pressione maggiore nelle dinamiche di interazione con il potere centrale.10

La propaganda teodosiana, quindi, deve giocoforza attenuare, per giu-sti! care l’accomodamento, certi giudizi relativi ai barbari, perlomeno in riferimento a quelli che accettano i patti con l’imperatore (identi! cati grossomodo come dei barbari buoni) e riguardo agli strumenti che por-tano alla stipula di questi patti.11 Gli autori, invece, che hanno come area

7 È appunto quello che intende affermare Libanio nella sua orazione XXIV del 379; si veda anche Temistius, Orationes, 15, 289d.

8 Questo, come vedremo, diviene un tema spesso ricorrente: Ambrosius, De " de, 2, 16, 136-143; Ru! nus, Historia Ecclesiastica, 2, 13; Orosius, Historiae adversus paganos, 7, 33, 17-19; Iordanes, Getica, 26, 138.

9 De rebus bellicis, 6, 1: «In primis sciendum est quod imperium romanum circumlatran-tium ubique nationum perstringat insania et omne latus limitum tecta naturalibus locis appetat dolosa barbaries». Giardina 1996#; Guidetti 2007, pp. 39-40.

10 Sul concetto sociologico di «paura dello straniero»: Roda 2004, pp. 11-24; Todorov 2008.

11 Temistius, Orationes, 16, 211b; Panegyrici Latini, 12 (2), 22; Prinzivalli, 2004, special-mente p. 53. Sulla propaganda teodosiana: Leppin 2010, pp. 187-199.

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di riferimento la corte di Graziano – per il quale la questione barbarica è soprattutto un problema militare, avendo egli intatto l’esercito a dispo-sizione – mostrano una forte recrudescenza della polemica anti-barbara.

2. Un secondo aspetto che riguarda il contesto storico di questi anni che vedono, tra l’altro, l’ascesa di Ambrogio – uno dei massimi esponenti dell’élite senatorio-vescovile vicina al potere imperiale – è la forte rivalità tra gerarchie ecclesiastiche diverse che lottano per assicurarsi il favore della corte. A questo proposito, però, occorre – al ! ne di focalizzare bene il problema – un’ulteriore breve precisazione storiogra! ca, concernente la situazione religioso-politica entro cui queste gerarchie si muovono.

Innanzitutto, vale la pena rilevare come la storiogra! a moderna, a par-tire dalla ! ne degli anni sessanta del secolo appena trascorso, abbia riva-lutato il fenomeno dell’Arianesimo nell’occidente latino rispetto a quella che era la visione tradizionale.12 Un consolidato luogo comune, infatti, consisteva nel minimizzare il fenomeno dell’Arianesimo autoctono, di fronte a un massiccio apporto barbarico di tale credo.

In altri termini, si pensava che, nella parte occidentale dell’impero, l’e-lemento locale non avesse inciso che per una minima parte sulla nascita di una corrente religiosa ariana: l’emergenza storica di quest’ultima sa-rebbe, dunque, da intendersi come il prodotto delle invasioni barbariche. Tale aspetto è imputabile alla lettura distorta cui la storiogra! a ottocen-tesca sottoponeva le fonti. Partendo, infatti, dall’assunto che l’identità etnica di un popolo fosse un dato di fatto immutabile, e che, in seguito alla traduzione gotica della Bibbia da parte di Ul! la, la maggior parte dei “Germani” che entravano nell’impero dovesse necessariamente scegliere il credo ariano come tratto distintivo, si affermava che i Goti (e i Longo-bardi in un secondo momento) avessero importato in Italia, contestual-mente alla loro migrazione, una sorta di Arianesimo di massa.

In realtà, studi un po’ più recenti hanno messo in evidenza l’esistenza di un Arianesimo latino,13 anzi di un “omeismo” (in quanto la predica-zione di Ario ha ben poco a vedere con questo fenomeno), che viene bol-lato con l’etichetta di Arianesimo dalla parte che risulta vincitrice nello scontro, che porta alla creazione e all’imposizione di un’ortodossia verso

12 Meslin 1967.

13 Duval 1998, che raccoglie una serie di articoli dedicati alla diffusione di un omeismo latino nell’Italia del IV secolo.

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la ! ne del IV secolo.14 A causare il fraintendimento storiogra! co, quindi, è stata anche la de! nitiva obliterazione di queste correnti non nicene e la loro assimilazione, frutto di una vera e propria reinvenzione della tradi-zione da parte delle fonti cattoliche, con l’elemento barbarico.

3. L’ascesa di Ambrogio alla cattedra vescovile (374), pertanto, si colloca in un periodo molto delicato per quanto riguarda i rapporti tra episcopato e impero. Le gerarchie episcopali omeiste, soprattutto radicate nell’Illirico, avevano goduto di molta fortuna sotto il regno del ! lo-ariano Costanzo II. Successivamente all’esaurimento della dinastia costantiniana, però, si trovarono di fronte al rischio di perdere il sostegno imperiale e di venire sostituiti da vescovi aderenti al credo niceno. Ecco, quindi, il de" agrare di una violentissima competizione che ha per obiettivo lo stabilimento di un rapporto privilegiato con il sovrano. Lo stesso Ambrogio viene eletto – stando almeno a quel che riferisce la sua leggenda biogra! ca15 – pro-prio per paci! care i contrasti tra le opposte fazioni milanesi, grossomodo identi! cabili come “! lo-nicena” e “! lo-ariana”, in lotta per la successione all’ariano Aussenzio.

La scelta, infatti, ricade su di lui perché, fedele alla neutralità imposta da Valentiniano I, sembra, in un primo momento, il candidato più idoneo, in quanto non compromesso con nessuna delle due parti. Tuttavia, con il regno di Graziano e Teodosio, le cose cambiano rapidamente e Ambrogio diventa il più fervente sostenitore dell’ortodossia, plausibilmente con lo scopo di impedire che l’ago della bilancia torni a pendere in favore degli ariani.

Di fronte a una politica marcatamente ! lo-nicena come quella del secondo,16 infatti, continuare a mantenere una sorta di equilibrio tra le parti può con! gurarsi come un avanzamento degli ariani. Questi ultimi, tra l’altro, trovano nella permanenza della corte a Sirmio – e nel favore

14 È molto discussa la questione se de! nire tout court “ariana” ogni corrente religiosa che nega la consustanzialità tra Padre e Figlio, in considerazione della dif! coltà di acco-munare sotto un’unica etichetta una varietà di fenomeni storici che spesso hanno ben poco in comune. Si veda, ad esempio, Hanson 1988, dove si ri! uta espressamente la dici-tura di «controversia ariana» per indicare una molteplicità di elaborazioni teologico-dot-trinarie diversissime tra loro. Contra Prinzivalli 2004, p. 41, dove la si accetta in quanto Ario costituisce il casus belli e, da quel momento in poi, le fonti si servono sempre di tale termine di paragone.

15 Paulinus Mediolanensis, Vita Ambrosii, 6-9 (PL, 14, 28c-30b).

16 Klein 1994; Ernesti 1998.

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goduto presso Giustina, madre di Valentiniano II – un’ottima occasione per continuare a esercitare la propria in" uenza nelle dinamiche politiche dell’impero. Inoltre, vale la pena ricordarlo, potersi presentare come l’in-terlocutore privilegiato dell’imperatore era molto utile ai ! ni dell’acquisi-zione di consenso per la propria parte.

Tale strumento, infatti, comincia, proprio in questo periodo, a dimo-strare la propria ef! cacia nel contesto del confronto-scontro tra pagane-simo e cristianesimo sul terreno della mediazione tra centro e periferia.17

È logico ritenere, quindi, che questo valga anche all’interno del cristia-nesimo stesso: poter vantare una sorta di in" uenza nelle decisioni dell’im-peratore serve, oltre che a ottenere effettive concessioni di privilegi, ca-riche ed esenzioni ! scali, a trovare l’appoggio delle aristocrazie cittadine e provinciali, con tutto quello che vi è correlato in materia di carriere, donazioni e pratiche di governo locale.

4. Coerentemente con questo clima, troviamo nella speculazione di Am-brogio una serie di spunti signi! cativi circa l’articolazione dei giudizi sulla barbarie.18 Nelle sue opere, infatti, compare tutta una serie di elementi che ri" ettono un’elaborazione indubbiamente contemporanea a quella dei suoi “colleghi” di lingua greca, ma che, in questi ultimi, raggiunge un grado di compiutezza solo agli inizi del secolo successivo. Proprio Am-brogio, per l’appunto, sembra costituire quasi un unicum nel panorama culturale occidentale a lui contemporaneo, per quanto concerne il modo di affrontare la questione dei barbari.

Egli, in effetti, piuttosto precocemente elabora una sorta di categoriz-zazione religiosa della barbarie, la quale – coerentemente con gli esiti più maturi della politica religiosa teodosiana e post-teodosiana – identi! ca nell’adesione a un particolare credo eterodosso, quello ariano, un tratto identitario della “non-romanità”, o meglio dell’“anti-romanità”. Per il vescovo di Milano, infatti, l’Arianesimo si quali! ca, senza mezzi termini, come un’«empietà gotica»,19 la quale è all’origine dei mali dell’impero. A

17 Brown 1992 (1995).

18 Su questo tema, oltre alla trattazione in Paschoud 1967, pp. 203-206, che però si inserisce nel tema più ampio della “teologia politica” del vescovo milanese, sono com-parsi, anni fa, alcuni studi speci! ci, tra cui Corbellini 1977; Pavan 1978, pp. 167-187; Chauvot 1998, pp. 435-440. Per una più recente messa a punto delle tematiche ambro-siane: Nauroy 2007.

19 Ambrosius, Epistulae, 10 Maur. (= 4 extra coll. CSEL), 9.

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sua volta la scelta del credo niceno risulta l’ultimo baluardo della tenuta della Romanitas, di modo che le sorti dell’impero sono invariabilmente vincolate a quelle della Chiesa ortodossa:

Mi chiedi un opuscolo sulla fede, o sacro imperatore, mentre ti accin-gi a partire in guerra. Sai bene, infatti, che normalmente si ottiene la vittoria più con la fede del comandante che con il valore dei soldati.20

Con queste parole Ambrogio introduce, nell’incipit del suo De " de, dedicato a Graziano impegnato contro i Goti, un tema che ricorre molto spesso quando si tratta di de! nire i rapporti tra l’aristocrazia vescovile e il potere imperiale: quello del do ut des. Nell’ottica di un bellum iustum la ricompensa per la fede dell’imperatore risulta una netta vittoria sul campo. Questo vale soprattutto quando il nemico è rappresentato retori-camente come estraneo all’orbis Romanus, vale a dire a quell’insieme di caratteri, simboli, usi e costumi – cui va ad aggiungersi anche l’elemento religioso – che concorrevano a creare l’ideologia della romanità.

Ecco, quindi, che Ambrogio, servendosi di una propria esegesi biblica, identi! ca nei Goti (i «barbari del nord») l’incarnazione della profezia di Eze-chiele circa il nemico di Israele, Gog. A sua volta il verus Israel non può che essere l’impero romano e la nuova alleanza la de! nitiva scelta ortodossa:

Difatti, già Ezechiele, a suo tempo, profetizzò sia la devastazione delle nostre terre sia le guerre contro i Goti; sicché è scritto: «Perciò, o ! glio dell’uomo, profetizza e di’: O Gog, così parlò il Signore: Nel giorno in cui tu verrai a sapere che il mio popolo di Israele dimora al sicuro, tu ti leverai e verrai dal tuo paese, dall’estremo nord» Questo Gog, appun-to, è il Goto, che già abbiamo visto partirsene, sul quale ci è promessa la vittoria futura. [...] E non c’è dubbio, o sacro imperatore, che noi, che sosteniamo una guerra contro il per! do straniero, stiamo per ave-re in te l’aiuto della robusta fede cattolica. Infatti, è evidente la causa della precedente indignazione divina: la ! ducia nell’impero romano si infrangeva per la prima volta là, dove si era infranta la fede in Dio.21

20 Ambrosius, De " de, Prologus, 3: «Petis a me ! dei libellum, sancte imperator, profec-turus ad praelium; nosti enim ! de magis imperatoris quam virtute militum quaeri solere victoriam».

21 Ambrosius, De " de, 2, 16, 137-139: «Namque et futuram nostri depopulationem, et bella Gothorum Ezechiel illo iam tempore prophetavit; sic enim habes: Propterea prophe-

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Da queste parole si comprende che lo scopo recondito dell’opera di Ambrogio non è tanto il fornire materiale alla propaganda imperiale, quanto convincere l’imperatore a optare per il credo niceno, o meglio a prestare ascolto al clero, da lui rappresentato, che in questo credo si iden-ti! ca. Difatti solo la fede cattolica può fornire – tramite i suoi ministri, verso i quali deve convergere l’attenzione del sovrano – un ef! cace scudo all’iniziativa imperiale,22 laddove l’Arianesimo non solo aveva fallito (a questo serve l’exemplum di Valente) ma addirittura aveva causato danni inimmaginabili alla tenuta dello stato romano:

Non mi piace ricordare l’uccisione dei confessori, i tormenti, gli esili, le cariche sacerdotali di uomini pii consegnate in premio a traditori. Non abbiamo forse sentito che dalle parti della Tracia, attraverso la Dacia Ripense e la Misia, e in tutta la Valeria di Pannonia, lungo tutto quel con! ne si agitavano le voci dei sacrileghi e l’attività dei barbari? Che vantaggio poteva mai recarci la vicinanza di gente così feroce? Ovvero, come avrebbe mai potuto essere sicuro lo stato romano con una difesa del genere?23

tiza, ! li hominis, et dic: O Gog, haec dicit Dominus: Nonne in die illa cum constituetur ha-bitare populus meus Israel in pace, surges et venies de loco tuo, ab estremo Aquilone [...] Gog iste Gothus est, quem iam videmus exisse, de quo promittitur nobis futura victoria. [...] Nec ambiguum, sancte Imperator, quod qui per! diae alienae pugnam excepimus, ! dei catholicae in te vigentis habituri simus auxilium. Evidens enim antehac divinae indigna-tionis causa praecessit; ut ibi primum ! des Romano imperio frangeretur, ubi fracta est Deo»; Ez 38, 14-15 e 39, 10-11. Tale identi! cazione, benché abbia una discreta fortuna in altri contesti ( Socrates Scholasticus, Historia Ecclesiastica, 7, 43), sembra essere una creazione di Ambrogio, che contribuisce a isolarlo dal panorama culturale latino a lui contemporaneo (si veda il tono poco convinto di Girolamo: Hieronymus, Quaestiones Hebraicae, 18-22; In Ezechielem, 11, Praefatio); Paschoud 1967, p. 201 e nota 69.

22 Ivi, 136: «Neque vero te, Imperator, pluribus tenere debeo bello intentum, et victricia de barbaris trophaea meditantem. Progredere plane scuto ! dei septus, et gladium spiritus habens: progredere ad victoriam superioribus promissam temporibus, et divinis oraculis prophetatam».

23 Ivi, 140: «Non libet confessorum neces, tormenta, exsilia recordari, piorum sacer-dotia proditorum munera. Nonne de Thraciae partibus per Ripensem Daciam et Mysiam, omnemque Valeriam Pannoniorum, totum illum limitem sacrilegis pariter vocibus et Barbaricis motibus audivimus inhorrentem? Quid poterat nobis vicinia tam feralis in-vehere? aut quemadmodum res Romana tali tuta poterat esse custodia?». Si noti come a ! anco dell’elemento ideale compaia sempre un elemento reale (concernente le prerogative dell’episcopato), indissolubilmente legato a questo: nella mentalità antica la scelta di una corrente dottrinaria ha sempre un ri" esso oggettivo nella creazione di un clero ad essa

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5. Da questo passo emerge chiaramente il nesso causale tra Arianesimo e sfaldamento dell’impero: provocatoriamente l’autore attua un collega-mento tra la predicazione del clero ariano e l’irruzione dei Goti entro il limes («lungo tutto quel con! ne si agitavano le voci dei sacrileghi e l’attività dei barbari»). Non ci troviamo ancora di fronte a una piena e totale identi! cazione dell’Arianesimo come religione speci! ca dei bar-bari, ma notiamo che la base per un’evoluzione futura in tal senso è già stata posta.

Ambrogio, infatti, addossa all’eterodossia ariana la colpa del fallimento dell’integrazione dei barbari entro i con! ni del mondo romano. Per lui, infatti, l’evangelizzazione svolge un ruolo fondamentale nell’ottica dell’in-tegrazione: la conversione al cristianesimo va di pari passo con l’accetta-zione della pax Romana, senza che sia possibile concepire la scelta di farsi cristiano disgiunta dall’accettazione degli usi e costumi romani.

Un episodio narrato nella biogra! a del vescovo scritta da Paolino di Milano (Vita Ambrosii, 36) esempli! ca chiaramente questa concezione. Si narra, infatti, che la regina dei Marcomanni Fritigil abbia scritto ad Ambrogio per avere delucidazioni circa la nuova religione. La sua ri-sposta si con! gura come una vera e propria lezione di catechismo, cui si accompagna una forte raccomandazione a spingere il marito ad accettare un foedus che lo vincoli all’impero.24

Al di là della veridicità o meno di questo aneddoto, sono molto si-gni! cative le modalità con cui, nell’elaborazione ambrosiana, è teoriz-zato il ruolo di un vescovo cristiano: questi deve fornire all’impero gli strumenti atti a inglobare culturalmente e politicamente le popolazioni con cui entra in contatto, di modo da continuare a esercitare la propria egemonia. Il vescovo (nella particolare accezione di vescovo ortodosso, è sottinteso) risulta essere un perfetto ingranaggio del meccanismo impe-riale, un membro dell’élite senatoria pienamente inserito nella gestione della cosa pubblica e nelle dinamiche di interazione tra centro e periferia.

fedele. Nello speci! co la diffusione di una Chiesa eterodossa, per Ambrogio, è un vulnus insanabile, poiché cancella quanto fatto dall’episcopato niceno in materia di proselitismo e conversione: ecco il motivo per cui egli utilizza sempre il concetto di tradimento dello stato in riferimento a questo fenomeno.

24 Paulinus Mediolanensis, Vita Ambrosii, 36 (PL, 14, 39d): «Ad quam ille epistolam fecit praeclaram in modum catechismi, in qua etiam admonuit ut suaderet viro Romanis pacem servare: qua accepta epistola, mulier suasit viro, ut cum populo suo se Romanis traderet«.

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Tale aspetto, va da sé, appare maggiormente esplicitato in personalità che effettivamente esercitano, o comunque ambiscono concretamente a eserci-tare, un potere del genere: la carriera personale di Ambrogio, come è noto a tutti, si inserisce in tutto e per tutto nell’ambito di quella degli alti funzionari civili, essendo ! glio di un prefetto al pretorio per Gallias25 e avendo conse-guito la carica di governatore della Liguria e dell’Emilia prima,26 la cattedra vescovile di una città sede imperiale poi. Nessuno più di lui può concepire il ruolo del vescovo come un punto di collegamento tra l’aristocrazia romana e la corte regnante, ragion per cui alla sfera più propriamente religiosa del suo operato è sempre sottesa un’implicazione politico-istituzionale.

6. Non stupisce, quindi, che l’evangelizzazione dei barbari diventi, nella sua speculazione, un perfetto strumento di integrazione – dove per inte-grazione si intende accettazione di venire inglobati in un impero che, se-condo una prospettiva universalistica, costituisce il ri" esso terrestre della gerarchia celeste e aderire all’idea di civis Romanus che ha come tratto distintivo l’essere cristiano (e cattolico).

Da questo punto di vista, la scelta di un credo che – coerentemente con la politica di imposizione dell’ortodossia avviata da Teodosio e au-spicata da quella parte del clero niceno a cui Ambrogio dà voce – viene identi! cato come eterodosso ! nisce per costituire un vulnus alla stabilità imperiale, un caso d’integrazione fallita che produce un potere non fe-dele a quella che dovrebbe essere la nuova ! gura di sovrano. Ambrogio, già portato a considerare i barbari «il nemico per eccellenza»,27 dopo il disastro di Adrianopoli inasprisce il suo giudizio: egli aggiunge a una feroce retorica anti-barbara, che ha alle spalle una consolidata tradizione nell’alveo della cultura greco-romana classica, l’identi! cazione più o meno esplicita tra barbarie ed eresia.28 Per lui, i barbari sono coloro che portano all’interno dell’impero l’Arianesimo, vale a dire una degenera-zione religiosa che ne mina le fondamenta.

Nella polemica anti-ariana, infatti, di cui Ambrogio è un forte pro-pugnatore, si comincia a utilizzare una sorta di slogan che identi! ca l’e-

25 Paulinus Mediolanensis, Vita Ambrosii, 3 (PL, 14, 28a); PLRE, 1, Ambrosius 1, p. 51.

26 Paulinus Mediolanensis, Vita Ambrosii, 5 (PL, 14, 28c); PLRE, 1, Ambrosius 3, p. 52; Dassmann 2004.

27 Ambrosius, In psalmum CXVIII, sermo 20, 24.

28 Paschoud 1967, p. 203.

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terodossia con la barbarie e, nello speci! co, l’Arianesimo come eresia precipua di quei barbari, i Goti, che assumono nell’immaginario collet-tivo post-Adrianopoli una connotazione fortemente negativa. Ciò è senza dubbio funzionale a gettare discredito sugli avversari, in quanto l’accusa di “! lobarbarismo” rientra in un’ottica ormai consolidata nel lessico della lotta politica; tuttavia c’è forse dell’altro. Assistiamo, s’è detto, per quanto concerne la ! gura e l’attività di Ambrogio, a una forte compe-tizione tra gruppi di pressione facenti capo a esponenti di aristocrazie vescovili concorrenti: l’obiettivo di queste sarebbe l’ottenimento di un posto privilegiato nell’interazione con il potere imperiale.

In effetti, sembra che le due corti imperiali, di Graziano e Teodosio, costituiscano due fonti alternative di patronato per le élites ecclesiastiche (senza che siano precisati particolari con! ni politici).29 Risulta, infatti, ampiamente superata l’interpretazione che vedeva nei due Augusti degli alleati teologici che agiscono all’unisono, secondo un coerente piano di ortodossizzazione dell’impero.

Si veri! ca, insomma, la permanenza (almeno ! no al 380) di una vera e propria situazione aperta, nella quale troviamo la concorrenza sì tra diversi orientamenti vescovili per in" uenzare la politica imperiale, ma anche – non bisogna dimenticarlo – tra le due corti per assicurarsi un clero fedele. Al-meno, questo può essere l’intento sotteso al pesante intervento di Teodosio in politica religiosa con l’editto di Tessalonica. Dal canto suo, la situazione in Occidente rimane, in un primo momento, più " uida.

In effetti, la corte imperiale fa da sponda politica a svariati gruppi di potere, il cui indirizzo teologico-culturale è quantomai eterogeneo: Gra-ziano non disdegna di prestare ascolto a personalità la cui adesione al credo niceno non è affatto convinta. Queste ultime vengono etichettate a posteriori come ariane o ! loariane dalle fonti avverse. È il caso del ve-scovo Palladio di Ratiaria, gran nemico di Ambrogio durante il Concilio di Aquileia, ad esempio.

7. Proprio il De " de è il primo trattato in cui il vescovo milanese sviluppa questo tema. Evidentemente deve rispondere alle accuse rivoltegli dal clero dell’Illirico, il quale tenta di estrometterlo dall’ambito dei rapporti con l’imperatore. Ciò spiega la veemenza dell’autore nell’affermare che

29 McLynn 1994, p. 111. Per un’ef! cace analisi dei rapporti tra le due corti imperiali negli anni 378-380 si rimanda a Castello 2010.

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l’Arianesimo è la causa della disfatta romana e dell’ingresso dei barbari.30 Purtroppo abbiamo a disposizione pochi indizi sulle modalità con cui si con! gura la replica di Palladio, contro cui l’opera è rivolta.31 Sembra che anch’egli abbia composto un libello tramite il quale replicare alle accuse addossategli (in particolar modo quella di eunomianismo): di tale pamphlet sopravvive solo una sintesi successiva, a cura dell’autore stesso, con" uita nella sua Apologia.32

Inoltre, il testo dell’Epistula Gratiani – missiva scritta dall’imperatore (che si trovava ancora in Illirico) ad Ambrogio e da questi trionfalmente inserita nella prefazione del De spiritu sancto con l’intento di dimostrare l’esistenza di un suo legame con la corte – lascerebbe intendere, stando a un’interpretazione più recente, che il sovrano risentisse ancora dell’in-" uenza dell’entourage di Palladio.33

Da qui l’invito al vescovo di Milano ad ampliare il contenuto del De " de e a perfezionare la sua elaborazione teologica su determinati argomenti già contenuti in quell’opera.34 In! ne, occorre ricordare l’esistenza di alcuni

30 Lheureux- Godbille 2003, p. 487.

31 Ambrosius, De " de, 1, 45.

32 McLynn 1994, p. 114.

33 PL, 16, 875b-876b, inserita da Ambrogio come prefazione al De spiritu sanctu, così è edita da Otto Faller in CSEL, 79, 1964, pp. 3-4. McLynn 1994, pp. 115-116 argomenta che la concezione teologica che emerge dalla lettera non è affatto estranea a quella di Pal-ladio. Così sono da intendersi i riferimenti al concetto di Cristo dominus et deus noster, menzionato nell’Epistula Gratiani, 2: «Docebit enim me ille, quem non nego, quem fateor Deum ac Dominum esse meum» (lo si confronti con la lunga dissertazione di Palladius Ra-tiarensis, Apologia, 107, pp. 291-293, ma anche con quello che afferma Secondiano, l’altro scomunicato ad Aquileia, nei Gesta Concilii Aquileiensis, 65, PL, 16, 936b: «Secundianus dixit: “Qui negat Deum verum esse Patrem Domini et Dei nostri Iesu Christi, non est chri-stianus: nec qui negat Dominum Filium Dei verum”»). Allo stesso modo è interpretabile la critica del termine creatura in riferimento al Figlio (Epistula Gratiani, 2: «non ei obiiciens, quam in me video, creaturam, qui Christo nihil me addere posse con! teo»; si veda Palladius Ratiarensis, Apologia, 94, in Gryson 1980, p. 280: «scriptura divina, cuius etiam apices litterarii et ipse syllabae sunt spirituali cautela servande, usquam Filium D(e)i tam abrutte creaturam dixisse inveniatur, sed econtra Apostolus <creato> rem mundi eum rettulerit)». Si tratterebbe, quindi, di una conferma che con l’Epistula Graziano non intende affatto sottomettersi ad Ambrogio e che il clero su cui si appoggia durante la permanenza a Sirmio non è poi così manifestamente ariano come la tradizione posteriore vuole lasciar intendere.

34 Epistula Gratiani, 3 (PL, 16, 876b): «Rogo te ut mihi des ipsum tractatum, quem de-deras, augendo illic de Spiritu sancto ! delem disputationem: Scripturis atque argumentis Deum esse convincas»; Ambrosius, De " de, 1, 8-11.

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commenti, attribuiti (almeno in parte) a Palladio ma estremamente fram-mentari, degli atti del concilio di Aquileia, commenti che sono pervenuti a margine di un codice di V secolo.35 Tali documenti, tuttavia, oltre che di dif! cile lettura, testimoniano la fase ! nale del rapporto tra queste due per-sonalità, quando cioè il dibattito si è ormai risolto a favore di Ambrogio.

A questo proposito, infatti, si è ormai dato per assodato che il più alto grado di con" ittualità per assicurarsi il ruolo di interlocutore privilegiato di Graziano, nel biennio compreso tra la pubblicazione del De " de (379) e il concilio di Aquileia (381), riguardi proprio Ambrogio e Palladio. È stato anche giustamente rilevato36 che in un primo momento sembra che il ve-scovo di Ratiaria sia più avvantaggiato rispetto al suo avversario, complice anche la vicinanza materiale con la corte. Non bisogna tralasciare il fatto che all’interno del sistema che regola le relazioni interpersonali nel mondo antico e tardoantico, la distanza costituisce un fattore notevole. Nel con-testo, poi, dei rapporti tra governo imperiale e aristocrazie, la prossimità alla sede in cui il sovrano si trova a soggiornare garantisce – grazie alle reti di relazione che legano i membri dell’élite – il mantenimento di canali stabili, atti a garantire a un gruppo di individui l’esercizio della propria in" uenza: ciò a scapito di chi era costretto a muoversi da lontano.

Ecco quindi che l’indirizzo della prassi di governo imperiale può mutare notevolmente da una fase all’altra, anche a seconda del posto in cui viene presa una determinata decisione e degli orientamenti dei notabili in questa implicati.37 Ciò, ovviamente, vale soprattutto per i funzionari e i governa-tori di provincia, decisamente più suscettibili alle in" uenze poste dall’ele-mento locale, ma coinvolge, seppur in misura minore, anche la corte stessa.

Nel nostro caso speci! co, infatti, notiamo che la situazione iniziale, più favorevole a Palladio, evolve rapidamente in concomitanza con lo spostamento della presenza imperiale dall’Illirico al nord d’Italia. In altri termini, quando Graziano – spinto anche dalla decisione unilaterale di Teodosio di indire un proprio concilio a Costantinopoli (che infatti pre-cederà di alcuni mesi quello di Aquileia) – si risolve a potenziare l’asse Milano-Aquileia a ! anco di quello Treviri-Sirmio, si va verso un rovescia-mento dei rapporti di forza. Tale scelta è forse dovuta sia alla persistenza della minaccia barbarica sul fronte danubiano, mentre quello renano è al

35 Gryson 1980; Duval 1981, poi riedito in Id. 1998.

36 McLynn 1994, p. 113.

37 Brown 1992 (1995), pp. 20-22.

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momento tranquillo, sia alla volontà di costituire una maggiore cerniera tra Ovest ed Est e mettere così un tampone all’iniziativa di Teodosio: tutto ciò avviene scegliendo Aquileia come sede del futuro concilio (con-vocato da Sirmio nell’estate del 380) e predisponendo il ritorno di parte della corte a Milano, dove Graziano giunge nel marzo 381.38

8. È facile immaginare come tutto ciò si risolva a favore di Ambrogio. Questi, da un lato vede la promulgazione di una legislazione anti-ereticale anche da parte di Graziano,39 dall’altro riesce a egemonizzare l’assemblea riunitasi ad Aquileia – complice anche l’assenza dei vescovi orientali (la-mentata, appunto, da Palladio)40 e l’insediamento di un concilio in for-mato decisamente minore rispetto ai propositi iniziali – composta in mas-sima parte da membri del clero nord-italico a lui fedeli. Palladio, messo in minoranza, è scomunicato insieme al vescovo Secondiano di Singidunum e al presbitero Attalo di Petovio.

Sarebbe tuttavia riduttivo analizzare quest’insieme di avvenimenti esclusivamente nell’ottica di una contrapposizione tra due blocchi com-patti, quello del clero nord-italico, guidato da Ambrogio contro il gruppo di sacerdoti dell’Illirico rappresentati da Palladio. In realtà la situazione che ruota intorno al concilio di Aquileia è molto più " uida e le dinamiche che regolano i rapporti tra i vari protagonisti sono ben più complesse.

Ad esempio, il vescovo milanese appro! tta dell’occasione offerta dalla riunione conciliare anche per ride! nire il proprio ruolo nell’am-bito dell’episcopato del nord d’Italia, assicurandosi un maggior controllo sulla situazione. Vale la pena ricordare che al momento della sua ele-zione, sette anni prima, frutto di un compromesso tra fazioni avverse, egli aveva rinunciato a una sistematica epurazione tra il clero milanese. Solo in un secondo momento, quindi, riesce a creare un entourage a lui fedele,

38 McLynn 1994, pp. 119-121.

39 Codex Theodosianus, 16, 5, 5 (agosto 379): «Denique antiquato rescripto, quod apud Sirmium nuper emersit, ea tantum super catholica observatione permaneant, quae pe-rennis recordationis pater noster et nos ipsi victura in aeternum aeque numerosa iussione mandavimus».

40 Gesta Concilii Aquileiensis, 8 (PL, 16, 918b): «Palladius dixit: “Imperator noster Gratianus iussit Orientales venire: negas tu iussisse eum? Ipse imperator nobis dixit se Orientales iussisse venire”. Ambrosius episcopus dixit: “Utique iussit, qui non prohibuit huc venire”. Palladius dixit: “Sed ne venirent tua petitio fecit: sub specie falsae voluntatis hoc impetrasti, et distulisti concilium”».

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escludendo tutti quegli elementi che provenivano dalla cerchia del suo predecessore Aussenzio.41 È fuor di dubbio che il «processo di Aquileia»42 fornisce al vescovo la forza necessaria per riorganizzare la sua diocesi e contrastare i tentativi dei suoi avversari di costruire un contropotere nella sede milanese.

Quello che riguarda più da vicino lo scopo di quest’elaborato è pro-prio uno degli argomenti utilizzati per effettuare un’operazione del ge-nere, vale a dire la sovrapposizione tra i due temi più salienti nel milieu ecclesiastico che si riunisce ad Aquileia: l’eresia (quella ariana in partico-lare) e la barbarie (nello speci! co quella gotica).

9. Rispetto a due anni prima, cioè al momento della composizione del De " de, l’elaborazione di Ambrogio compie un passo ulteriore. Allora, infatti, il fulcro su cui si basava la sua argomentazione era che la scelta ariana costituisse un tradimento dello stato in quanto ne minava le fonda-menta. In altre parole il ri! uto del credo niceno suscitava l’ira divina («è evidente la causa della precedente indignazione divina»: 2, 16, 139) e, di conseguenza, l’esercito imperiale rimaneva privo dello «scudo della fede» (2, 16, 136) necessario per il conseguimento della vittoria: ciò apriva le porte ai barbari. A sostegno della sua tesi, l’autore si limitava a rilevare la coincidenza tra la predicazione dei prelati eterodossi dalle parti del limes e l’ingresso dei Goti nei territori dell’impero («lungo tutto quel con! ne si agitavano le voci dei sacrileghi e l’attività dei barbari»: 2, 16, 140).

Ora, invece, il vescovo è molto più esplicito: l’Arianesimo si con! gura come la religione dei barbari, o meglio lo strumento con cui i religiosi eretici si assicurano la fedeltà dei gruppi gotici in vista di un complotto mirato all’usurpazione del potere imperiale. Questo è ciò che si evince da una lettera in cui Ambrogio illustra ai tre imperatori (ma è evidentemente rivolta a Graziano) le conclusioni del concilio appena tenutosi:

Una simile sentenza riguardò anche il presbitero Attalo, che confessò la sua connivenza ed era implicato nei sacrilegi di Palladio. Infatti, che dire del suo maestro Giuliano Valente? Costui, pur essendo vicino, si è sottratto al concilio sacerdotale; ciò per non essere costretto a fornire ai sacerdoti spiegazioni per aver sconvolto la patria e tradito i citta-

41 Questa, almeno, è la dinamica che pare emergere dalla lettura di Ambrosius, De of" -ciis, 1, 18, 72: Meslin 1967, p. 45.

42 La de! nizione è in Lheureux-Godbille 2003, p. 488.

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dini. Egli – che è profanato dall’empietà gotica (Gothica impietate) e ha assunto usi e costumi dei barbari (more gentilium) – osò, stando a quanto si afferma, mostrarsi al cospetto dell’esercito romano indos-sando un torques (collare) e un bracciale. Questo indubbiamente è un sacrilegio non solo se lo fa un sacerdote, ma per! no se lo fa qualsiasi cristiano, in quanto si tratta di qualcosa di estraneo al costume roma-no. Sennonché forse i sacerdoti idolatri dei Goti sono soliti presentar-si in questo modo.43

La missiva da cui è estrapolato questo passo accompagnava una lega-zione inviata all’imperatore, al momento impegnato nei Balcani, con il chiaro intento di chiedere il suo sostegno per rendere esecutive le delibere del concilio di Aquileia.

L’autore intende porsi, nell’ottica dei rapporti tra episcopato e governo imperiale, come esegeta unico del sovrano: ciò spiegherebbe la diffusa ar-gomentazione del fatto che i tre prelati condannati alla scomunica siano aderenti all’eresia ariana – segno che probabilmente nella realtà le cose fossero diverse e che l’etichettatura di Palladio come ariano sia il frutto di una costruzione a opera delle fonti avverse, risultate vincitrici nello scontro.44

Nel caso speci! co di Attalo, Ambrogio ne appro! tta per scagliarsi contro il vescovo Giuliano Valente, che si era ben guardato dal presen-tarsi di fronte ai suoi avversari riuniti ad Aquileia. Si noti il nesso teorico elaborato in riferimento a costui: egli, seguace dell’Arianesimo, espres-samente bollato con la de! nizione di «empietà gotica», diverrebbe un traditore dell’impero perché accetterebbe di assumere usi e costumi dei suoi nemici naturali, in altri termini di barbarizzarsi.

43 Ambrosius, Epistulae, 10 Maur. (= 4 extra coll. CSEL), 9: «Attalum quoque pre-sbyterum de praevaricatione confessum, et Palladii sacrilegiis inhaerentem, parilis sen-tentia comprehendit. Nam quid de magistro eius Iuliano Valente dicamus? qui cum esset proximus, declinavit sacerdotale concilium; ne eversae patriae, proditorumque civium praestare causas sacerdotibus cogeretur. Qui etiam torquem, ut asseritur, et brachiale, Gothica profanatus impietate, more indutus gentilium, ausus sit in conspectu exercitus prodire Romani: quod sine dubio non solum in sacerdote sacrilegium, sed etiam in quo-cumque christiano est; etenim abhorret a more Romano. Nisi forte sic solent idololatrae sacerdotes prodire Gothorum».

44 Ivi, 4-6; McLynn 1994, p. 137, dove si accenna alla possibile sorpresa da parte di Graziano nello scoprire che i suoi precedenti collaboratori fossero ariani, ragion per cui Ambrogio deve dilungarsi molto nella spiegazione di questo concetto.

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In questo contesto vengono rispolverati alcuni topoi tipici della costru-zione retorica classica relativa alla barbarie: l’utilizzo di alcuni oggetti che si con! gurano come segni distintivi del modo di vestire dei barbari, in opposizione alla toga del civis Romanus. Sia il torques sia il brachiale erano nella cultura latina due emblemi militari, entrambi utilizzati nell’ico-nogra! a tipica del barbaro. Il primo è di antica tradizione: questo tipo di collare veniva già utilizzato per indicare l’abbigliamento del guerriero gal-lico – il quale, nella categorizzazione della barbarie elaborata dalla cultura greco-romana aveva occupato, ! no ai tempi di Cesare, il posto d’onore – e costituiva perciò un simbolo molto radicato nell’immaginario retorico classico.45 Il secondo invece serviva a identi! care una tipologia di soldato goto al servizio dell’esercito romano, la cui af! dabilità era, a detta delle fonti, tutt’altro che provata.46 Quello che mi preme sottolineare in questa sede è come l’utilizzo di certi indicatori sia il frutto di una costruzione iden-titaria esterna, attuata dalle fonti latine e, in questo preciso caso, avverse.

10. È peraltro ben possibile che a un certo punto si veri! chi quella sorta di ribaltamento dell’etichettatura che porta alla rivendicazione dei mede-simi segni come tratti distintivi di un’etnogenesi endogena o autoricono-sciuta, ma la prudenza è sempre d’obbligo quando ci troviamo di fronte a un dato proveniente da una fonte particolarmente ostile come questa.

In altri termini, al di là di quello che è veramente successo, notiamo che Ambrogio sta volutamente presentando il suo avversario come un tradi-tore della Romanitas: per ottenere ciò af! anca a un simbologia ormai del tutto consolidata – e perciò pienamente comprensibile dai destinatari del messaggio – nella de! nizione della barbarie anche una terza categoria, ovvero quella religiosa. Egli ha tutto l’interesse a presentare l’Arianesimo come tratto identitario dei barbari e per ottenere ciò stabilisce un colle-gamento con gli elementi canonici elaborati dalla de! nizione classica del typos del barbaro, talmente canonici dall’essere entrati nell’uso comune e nella terminologia militare romana.

45 Solo per fare alcuni esempi: Strabo, Geographica, 4, 4, 5; Cicero, De of" ciis, 3, 31; Plinius Maior, Naturalis Historia, 33, 2; Cassius Dio, Historia Romana, 62, 2, 1-4.

46 Si chiamavano Bracchiati – dall’uso del bracciale o delle bracae (altro indicatore di barbarie: Codex Theodosianus, 14, 10, 2-4), l’etimologia è discussa – i componenti di due reparti (seniores e iuniores), si veda Notitia Dignitatum in partibus Occidentis, 5, che secondo Ammiano (Historiae, 15, 5, 30; 16, 12, 43) si segnalano per il loro essere barbari e per questo mutevoli e pronti al tradimento.

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In questo senso, l’adesione all’eresia si con! gura come un tradimento della patria poiché prelude non solo a uno snaturamento dei costumi, ma anche a una vera e propria “barbarizzazione”, vale a dire alla rinuncia allo status di cittadino romano. L’espressione, in riferimento all’adesione agli usi e costumi barbarici, «è un sacrilegio non solo se lo fa un sacerdote, ma per! no se lo fa qualsiasi cristiano, in quanto si tratta di qualcosa di estraneo al costume romano» non potrebbe essere più eloquente. Quello che conta, però, è che nella concettualizzazione di mos barbaricus sia compresa anche una scelta religiosa. Secondo Ambrogio, come s’è visto, la cristianizzazione diventa un preludio necessario ai ! ni di una completa integrazione, ma deve essere una cristianizzazione ortodossa. Per questa ragione l’eresia si delinea come il procedimento inverso. È questo un si-gni! cativo cambiamento di mentalità in relazione alla nozione stessa di romano. Nell’ottica politeista classica, infatti, la religione non sembra costituisse un tratto identitario così stringente come in questo contesto. Inoltre, da questo punto di vista, si poteva essere “diversamente romani”, ovvero si andava verso una sempre maggiore integrazione religiosa man mano che l’impero si espandeva, integrazione che si esplicava con l’ac-quisizione nel pantheon latino di divinità nuove e la loro identi! cazione con altre più propriamente romane (l’interpretatio Romana di tacitiana memoria).47 Ora avviene l’esatto contrario: nella speculazione ambro-siana circa i rapporti tra religione e sistema imperiale – speculazione che vuole essere vicina alla propaganda uf! ciale – l’essere romano non può che identi! carsi con l’essere cristiano ortodosso; non aderire a questo modello – essere cioè pagano o eretico – comporta l’immediata esclusione dalla sfera della Romanitas.

Il meccanismo di identi! cazione tra religione e barbarie elaborato in questo contesto si rivela funzionale allo scopo che l’autore si pre! gge, scopo che consiste nel volersi presentare come interlocutore unico della corte imperiale. Ecco il motivo per cui, per conseguire un obiettivo del genere, Ambrogio deve trovare un argomento retorico con cui escludere dalla dinamica dei rapporti tra governo e aristocrazia tutte le altre forme di interazione: questo argomento retorico è costituito, unitamente a una propaganda ! nalizzata alla dimostrazione dell’ef! cacia del messaggio

47 Tacitus, Germania, 43, 4: «Apud Nahanarvalos antiquae religionis lucus ostenditur. Praesidet sacerdos muliebri ornatu, sed deos interpretatione Romana Castorem Pollu-cemque memorant».

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Il rapporto tra “barbarie” ed “eresia” nella ri! essione politica di Ambrogio

ortodosso (è l’intento sotteso al De " de), dall’accusa di barbarismo che coinvolge i messaggi concorrenti con il suo.

Difatti, ritroviamo l’impiego del medesimo strumento anche nel con-testo della lotta che coinvolge quella parte dell’élite senatoria che si iden-ti! cava nel paganesimo e l’episcopato cristiano, lotta che viene simboleg-giata dalla celebre querelle per l’altare della Vittoria.48 In un passo della sua ennesima replica a Simmaco, Ambrogio accenna velocemente al fatto che la Roma pagana (fatta parlare in prima persona) avesse in comune con i barbari l’ignoranza del vero Dio.49 Anche in questo caso il ritorno al paganesimo si con! gurerebbe come una degenerazione consapevole verso la barbarie, così come lo è la scelta dell’eresia ariana. La cristianiz-zazione, infatti, ha signi! cato per l’impero un netto miglioramento («non v’è alcuna vergogna nel passare al meglio», sono le parole di Ambrogio) dal momento che ha visto la realizzazione di quel disegno provvidenzia-listico che, secondo la visione elaborata da Eusebio di Cesarea, porta alla correlazione tra ordine celeste e gerarchia terrestre.

La nascita di Cristo, infatti, si colloca sotto il principato di Augusto, quando cioè viene inaugurato l’impero, ragion per cui la scelta di Co-stantino chiude il cerchio, facendo dell’impero romano il corrispettivo terreno del Regno dei cieli. Di conseguenza, il ritorno al paganesimo, o peggio l’abbandono del simbolo niceno, signi! cherebbero la rottura di questa alleanza e comporterebbero la cessazione dell’esistenza per «il migliore dei mondi possibili».

11. Dalla missiva, sopra citata, inviata a Graziano per illustrare le con-clusioni raggiunte ad Aquileia, emerge chiaramente quale sia la pre-occupazione di Ambrogio e quali aspettative egli abbia nei confronti dell’imperatore:

Che il nome di sacerdote smuova la vostra pietà! Nome che questo sacrilegio scredita. Egli è accusato di un crimine scellerato anche dalle parole dei suoi, sempre che gliene resti qualcuno. Certamente deve

48 Evenepoel 1998-1999.

49 Ambrosius, Epistulae, 18, 7 (scritta nel 384, dopo aver letto la Relatio tertia di Sim-maco): «Nullus pudor est ad meliora transire. Hoc solum habebam commune cum bar-baris, quia Deum antea nesciebam». Sulla querelle per l’altare della vittoria: Lassandro 2007. Per un’analisi complessiva dei provvedimenti antipagani di Graziano si rimanda a Lizzi-Testa 2007, pp. 251-262.

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tornare a casa sua e smettere di contaminare le città della splendida Italia, lui che ora associa a se stesso, con ordinazioni illecite, gente come lui e che cerca di spargere semi della sua per! da empietà col lasciarsi dietro una scia di perduti; lui che non ha nemmeno iniziato a fare il vescovo. Infatti, dapprima era stato preferito, a Petovio, al sant’uomo Marco, sacerdote il cui ricordo è ammirevole; ma, dopo essere stato cacciato malamente dalla plebe, costui, che non poté re-stare a Petovio, ora cavalcò in Milano, dopo aver sconvolto – diciamo pure tradito – la patria.50

Il vescovo di Milano sta invocando l’intervento del sovrano per cor-roborare e rendere esecutive le delibere emanate in sede conciliare. Nello speci! co si chiede la rimozione dei vescovi scomunicati e la loro sostitu-zione con altrettanti lealisti. Ma c’è dell’altro: stando a quello che emerge in riferimento all’operato di Giuliano Valente, sembra che egli fosse al centro di un tentativo di organizzare un gruppo clericale indipendente da Ambrogio e in concorrenza a quello legato a lui. È per bloccare questo tipo di manovre che Ambrogio richiede l’appoggio di Graziano e, forte della posizione favorevole ottenuta ad Aquileia, si serve degli strumenti retorici che abbiamo ! n qui analizzato. L’omeista Giuliano Valente – perché costui, a differenza di Palladio o di altri nemici di Ambrogio, tutti invariabilmente bollati come eretici, sembra più identi! cabile con posi-zioni ! loariane51 – è presentato semplicemente come un traditore che, mediante la diffusione dell’Arianesimo in Italia, intende aprire la strada ai barbari.

L’ordinazione di sacerdoti eterodossi servirebbe quindi a costituire una testa di ponte in territorio romano per far cadere de! nitivamente l’Italia in mano nemica, Italia che nella concezione ambrosiana è ! no a questo momento rimasta intatta grazie all’esistenza di un episcopato ortodosso:

50 Ambrosius, Epistulae, 10 Maur. (= 4 extra coll. CSEL), 10: «Moveat pietatem vestram sacerdotale nomen, quod ille sacrilegus infamat; qui etiam suorum vocibus, si qui tamen superesse possunt, nefandi sceleris arguitur. Certe domum repetat suam, non contaminet " orentissimae Italiae civitates, qui nunc illicitis ordinationibus consimiles sui sociat sibi, et seminarium quaerit suae impietatis atque per! diae per quosque perditos derelinquere; qui episcopus esse nec coepit. Nam primo Patavione superpositus fuerat sancto viro Marco, admirabilis memoriae sacerdoti; sed posteaquam deformiter deiectus a plebe est, qui Pa-tavione esse non potuit, is nunc Mediolani post eversionem patriae, dicamus proditionem, inequitavit».

51 McLynn 1994, pp. 58-60.

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Qui non ci troviamo in una qualche regione miscredente, ma in quell’Italia che è solita inviare confessori; Italia talvolta tentata, ma mai mutata, che poco fa tu [sc. Cristo] hai a lungo difeso dal nemico barbaro e ora hai nuovamente salvato.52

Il problema della persistenza nella diocesi milanese di un gruppo di prelati di orientamento diverso da quello di Ambrogio – e il tentativo da parte loro di concorrere con il vescovo sul terreno diretto dei rapporti con la corte – si ripropone pochi anni dopo questi avvenimenti.

12. Con il de! nitivo insediamento a Milano di Valentiniano II e Giustina e con l’uscita di scena di Graziano in seguito all’usurpazione di Massimo (383), si riaprono i giochi, dal momento che presso l’Augusta avevano trovato sponda molti elementi non propriamente cattolici del clero sia italico sia proveniente dall’Illirico, coordinati questa volta da Aussenzio di Durostorum.53 Si comprende, quindi, il motivo per cui Ambrogio di-venta un fervente sostenitore della politica di Teodosio, per il quale l’ade-sione al simbolo niceno non sembra più in discussione.

La situazione degenera nel biennio 385-386, quando scoppia quella che è comunemente denominata “crisi delle basiliche”. A onor del vero, l’episodio che fa da pretesto scatenante al con" itto rimane piuttosto oscuro. Gli omeisti, infatti, molto probabilmente avevano subito la con-! sca di una basilica durante gli ultimi anni del regno di Graziano, forse in seguito alla revoca dell’editto di tolleranza; tuttavia, gli sporadici cenni contenuti nel De spiritu sanctu – che costituisce la fonte primaria circa questo speci! co fatto – sono alquanto oscuri e non permettono di com-prendere cosa sia accaduto in realtà.54 Fatto sta che, nel 385, Ambrogio viene convocato a palazzo e caldamente invitato a cedere la basilica extra

52 Ambrosius, De " de, 2, 16, 142: «Non hic in! delis aliqua regio, sed ea quae confessores mittere solet Italia; Italia aliquando tentata, mutata numquam: quam dudum ab hoste barbaro defendisti, nunc etiam vindicasti».

53 Sull’Arianesimo di Giustina: Ru! nus, Historia Ecclesiastica, 2, 15. Per quanto ri-guarda l’arrivo in Italia di gente dall’Illirico e la loro «contaminazione» con l’Arianesimo: Ambrosius, Epistulae, 2, 28; Lheureux-Godbille 2003, p. 489. In riferimento al tentativo da parte di Aussenzio di egemonizzare queste istanze: Ambrosius, Contra Auxentium, 22; Meslin 1967, pp. 47-48.

54 Ambrosius, De spiritu sanctu, I, 19-22, allude a questa misteriosa sequestratio, senza scendere nei dettagli: McLynn 1994, pp. 120-123.

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muros detta Portiana (in quanto lo spazio interno della città sarebbe, per legge, riservato al culto ortodosso).

Tuttavia, in quest’occasione, Ambrogio riesce a organizzare con il suo clero un fronte compatto che gli permette di respingere la richiesta, fa-cendo valere la legislazione anti-eretica di Graziano:55 il gruppo di pres-sione avversario è costretto, quindi, a reculer pour mieux sauter. Difatti, nel gennaio successivo viene promulgata una legge ad hoc: essa stabilisce la libertà di culto e prevede la pena di morte per chiunque ne ostacoli l’e-spressione.56 A questo punto, anche gli omeisti possono valersi dello stru-mento legislativo nella lotta contro gli ambrosiani. In un primo momento ci si limita a esercitare una pressione politica per costringere il vescovo a fare un passo indietro e a lasciare la Portiana.

Tuttavia, in seguito, alla resistenza di Ambrogio e all’occupazione della medesima da parte dei suoi fedeli, il livello dello scontro si alza notevol-mente e vede durante la settimana di Pasqua la sua fase più acuta.57 La mossa degli omeisti consiste nell’aprire un altro fronte, chiedendo la con-segna della basilica Nova, interna alla cinta muraria, e scatenando così l’ira di Ambrogio.58 Segue l’intervento diretto del Palazzo che tenta di spezzare le reti di relazioni di Ambrogio, comminando una pesante am-menda ai mercanti suoi sostenitori, nella speranza che cambino parte;59 in! ne, la basilica Portiana, vero obiettivo degli omeisti, viene circondata dai soldati.60 Alla ! ne, però, la posizione del vescovo risulta ormai troppo salda: non siamo più agli inizi della sua carriera, quando cioè doveva barcamenarsi tra un clero per nulla compatto. Il lungo lavorio compiuto negli ultimi anni del regno di Graziano, ! nalizzato a costruire intorno alla propria cattedra uno zoccolo duro di sostenitori, ha sortito i suoi ef-fetti. Da parte sua, il gruppo omeista di Giustina non riscuote altrettanti consensi in seno all’aristocrazia milanese, ragion per cui la corte deve fare marcia indietro, al ! ne di evitare l’esplosione delle tensioni in un con" itto armato per le strade della città: lo stesso contingente inviato a con! scare

55 Ambrosius, Contra Auxentium, 29-30; si veda supra e Codex Theodosianus, 16, 5, 5.

56 Codex Theodosianus, 16, 1, 4 (23 gennaio 386).

57 La fonte primaria su questi fatti è costituita da una lunga lettera, del 386, di Ambrogio a sua sorella Marcellina: Ambrosius, Epistulae, 20 Maur. (= 76 CSEL).

58 Ambrosius, Epistulae, 20 Maur. (= 76 CSEL), 1-2.

59 Ivi, 6-7.

60 Ivi, 9-10.

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Il rapporto tra “barbarie” ed “eresia” nella ri! essione politica di Ambrogio

la basilica Portiana era poco propenso, dice Ambrogio, a procedere in tal senso, essendo composto in maggior parte da cattolici.61

13. Questo è, ovviamente, il quadro che il vescovo vuole offrirci: è dif! -cile stabilire come si regolino i rapporti tra le varie personalità in" uenti che hanno un ruolo in questo preciso contesto, se si possa veramente par-lare di due fronti compatti e in reciproca opposizione – quello ariano e quello ortodosso, come lasciano intendere le fonti, estremamente parziali, a nostra disposizione – oppure ci troviamo al cospetto di una dinamica più " uida, non inquadrabile nel classico modello a due. Una considera-zione, comunque, si può trarre dai dati a nostra disposizione: sembra che sia nell’insieme dei rapporti tra aristocrazia e corte sia in seno al conci-storo di Valentiniano II ci siano delle spaccature tali da non permettere al gruppo dirigente ! lo-omeista di andare oltre alla legislazione del gennaio 386, imponendone cioè l’applicazione con la forza.

A riguardarci più da vicino, naturalmente, sono le modalità con cui Am-brogio presenta queste spaccature: egli, nel riferire l’operato dei soldati inviati a presidiare la basilica, delinea una situazione che vede la divisione tra una parte maggioritaria di romani, vale a dire soldati fedeli all’impero ortodosso, e una piccola minoranza di Goti, ovviamente ariani:

Sono inorridito quando ho appreso che degli uomini in armi erano stati mandati ad occupare la basilica: temevo che, mentre prendevano possesso della basilica, si potesse veri! care una qualche strage, che avrebbe causato la rovina dell’intera città. Pregavo di non sopravvi-vere alla distruzione di una così grande città, ovvero dell’Italia intera. Maledicevo l’odio che porta allo spargimento di sangue; offrivo la mia gola. Erano presenti degli uf! ciali goti: li ho affrontati dicendo «L’impero romano vi ha accolti per questo, perché vi offriate come promotori dello sconvolgimento dell’ordine pubblico? Dove andrete se tutto questo sarà annientato?62

61 Ivi, 13.

62 Ambrosius, Epistulae, 20 Maur. (= 76 CSEL), 9: «Horrebam quippe animo, cum armatos ad basilicam ecclesiae occupandam missos cognoscerem: ne, dum basilicam vindicant, aliqua strages ! eret, quae. in perniciem totius vergeret civitatis. orabam, ne tantae urbis vel totius Italiae busto superviverem; detestabar invidiam fundendi cruoris; offerebam iugulum meum. aderant Gothi tribuni; adoriebar eos dicens: “propterea vos possessio Romana suscepit, ut perturbationis publicae vos praebeatis ministros? quo tran-sibitis, si haec deleta fuerint?».

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Mattia Pietro Balbo

Ancora una volta riecheggia in queste parole il signi! cato che per Ambrogio assume l’integrazione: l’inquadramento dei barbari nel si-stema imperiale è indissolubilmente legato alla loro evangelizzazione, senza la quale ogni prospettiva di integrazione appare del tutto im-pensabile. Sembra proprio di cogliere delle suggestioni provenienti dalla politica teodosiana, la quale coniuga un necessario accomoda-mento de facto della situazione emersa dopo Adrianopoli, che vede la formazione in territorio romano di gruppi tribali coagulati intorno a leadership militari, con una sistemazione religiosa interna allo stato. Pertanto, la scelta di un credo diverso da quello del sovrano appare inevitabilmente come un tradimento del foedus stipulato con lo stesso. E ancora:

Nessuno degli ariani osava procedere, dal momento che [tra loro] non c’era alcun cittadino, pochi erano quelli della famiglia reale, e qualcuno dei Goti. Questi ultimi, come un tempo usavano per abita-zione i carri, così ora volevano fare della chiesa un carro. Ovunque questa donna vada, si porta dietro tutto il suo seguito.63

Questo passo ri" ette una propaganda ormai ben collaudata dai tempi del concilio di Aquileia e, al contempo, mostra un paradigma del ragio-namento a essa sotteso. Si nota, infatti, l’esistenza di varie tipologie di aderenti al credo ariano, i quali provengono da ambiti diversi.

Tra questi, però, spicca l’elemento gotico, che qui Ambrogio evoca con un richiamo retorico alla tipologia classica di barbaro nomade che vive sui carri: si tratta di un topos di antica tradizione, risalente alla trattatistica geo-etnogra! ca antica. Tale modulo aveva trovato la sua massima espressione proprio in riferimento alla trattazione sugli Sciti,64 che nel paradigma culturale greco-romano sono identi! cati come gli an-tenati dei Goti. Il riferimento è troppo palese per non essere compreso da esponenti del milieu aristocratico da cui il vescovo proviene.

63 Ambrosius, Epistulae, 20 Maur. (= 76 CSEL), 12: «Prodire de Arianis nullus audebat, quia nec quisquam de civibus erat, pauci de familia regia, nonnulli etiam Gothi. quibus ut olim plaustra sedes erat, ita nunc plaustrum ecclesia est. quocumque femina ista proces-serit, secum suos omnes coetus vehit».

64 Strabo, Geographica, 7, 1, 3, oppure l’excursus sugli Sciti contenuto nel quarto libro delle Storie di Erodoto.

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Il rapporto tra “barbarie” ed “eresia” nella ri! essione politica di Ambrogio

Una volta identi! cati i barbari, con questo tipo di connotazione, l’au-tore lascia intendere l’assimilazione da parte di questi dell’intero movi-mento ariano, secondo lo stesso procedimento di barbarizzazione che abbiamo visto teorizzato nell’attacco contro Giuliano Valente nel 381. È questo il tipo di accusa che ricade su Aussenzio e, in forma più velata su Giustina («ovunque questa donna vada si porta dietro tutto il suo seguito»).65

14. In conclusione, mi pare lecito affermare che la speculazione ambro-siana intorno all’esistenza di una forma di “barbarie religiosa” – indi-scutibilmente identi! cata nell’Arianesimo – giunga a piena maturazione nella prima metà degli anni ottanta del IV secolo, quando cioè l’autore tenta di imporsi – e in! ne vi riesce, con Graziano prima, ma soprattutto con Teodosio poi – come esegeta della ! gura imperiale. Tale speculazione, come si è visto, è principalmente rivolta all’interno del mondo romano, in quanto è funzionale a contrastare gli esponenti di quell’omeismo la-tino che avevano avuto molta fortuna nella seconda metà del secolo, in seguito al concilio di Rimini e all’appoggio di Costanzo II.

Per ottenere la loro estirpazione dall’ambito dell’episcopato italico, egli si serve di due apparati retorici, opportunamente coniugati tra loro. Innanzitutto, si avvale delle suggestioni scaturite dalla coeva elaborazione teologica nicena (di ambito sia greco sia latino), di cui egli stesso è un espo-nente nient’affatto marginale. Proprio con l’ascesa di Teodosio, gli espo-nenti del clero che si riconoscono nel credo elaborato a Nicea diventano gli interlocutori privilegiati del sovrano: la costruzione e l’imposizione di un’ortodossia imperiale con il concilio di Costantinopoli (ma anche, per l’ambito prevalentemente nord-italico, con quello di Aquileia) segna proprio il realizzarsi di questo obiettivo. Ambrogio indubbiamente è or-todosso e, in quanto tale, vuole svolgere la stessa funzione che Eusebio di Cesarea ha svolto per Costantino o Gregorio di Nazianzo sta espletando per Teodosio: quella di fornire al potere imperiale gli strumenti teorico-culturali per rappresentare se stesso. La seconda suggestione sfruttata dal vescovo di Milano è quella derivante dallo shock post-Adrianopoli: ecco, quindi, che il tema della minaccia dei barbari si inserisce a pieno titolo nella polemica religiosa, producendo quell’identi! cazione tra eresia

65 Contro Aussenzio, senza mai chiamarlo per nome, Ambrogio si scaglia nei paragra! 14-19 della medesima lettera, in cui il vescovo milanese paragona se stesso a Giobbe e i suoi avversari ai nemici della Chiesa; Lheureux-Godbille 2003, p. 490.

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e barbarie che ad Ambrogio è molto utile per contrastare gli avversari del “suo” concilio del 381.

Esaurita la sua funzione, vale a dire di screditare coloro che si vedono cucita addosso l’immagine di eretico, questa elaborazione cessa di es-sere utilizzata, o meglio perde la sua salienza – almeno per quanto con-cerne la pars Occidentis dell’impero. Un’analoga elaborazione orientale – anch’essa impiegata contro gli ariani greci – subisce una signi! cativa evoluzione nell’età di Arcadio. Essa diventa, infatti, un ottimo mezzo per espellere dalle dinamiche politiche di corte ogni forma di leadership che esprime un potere diverso da quello costituito per mezzo delle car-riere civili, le quali aderiscono in pieno all’ideologia teodosiana:66 il goto Gainas, esponente di un’élite militare pienamente romanizzata, diviene, nel contesto di una vera e propria reinvenzione della tradizione, l’esempio di barbaro-eretico per eccellenza. Le fonti ecclesiastiche che riportano i fatti relativi al colpo di mano tentato e fallito da quest’ultimo nell’anno 400 – un episodio rimasto ad ora parzialmente oscuro – ne stravolgono completamente il senso, rendendolo un perfetto exemplum di «empietà gotica».

Questo fenomeno di categorizzazione religiosa della barbarie nella pars Orientis è dovuto a un vero e proprio processo di demilitarizzazione del potere. Tale processo prende avvio nell’età di Arcadio e comporta l’i-nizio di una più marcata separazione tra le due corti, occidentale e orien-tale, in quanto dai vertici di quest’ultima viene man mano escluso ogni elemento non civile. Dal concistoro di Costantinopoli, infatti, si cerca di espellere i componenti militari, vale a dire coloro che non rivestono fun-zioni civili e non hanno intrapreso una carriera rispondente al modello precostituito della paideia greco-romana. Costoro, quindi, vengono iden-ti! cati come estranei, non propriamente romani e, quel che conta, nella categorizzazione di questo tipo di barbarie assume un ruolo signi! cativo anche l’elemento religioso.

Ecco perché è dalla pars Orientis – il cui tasso di cristianizzazione è maggiore e più precoce, e dove si svolge pressoché tutta l’elaborazione teologico-dottrinaria del IV secolo – che questo fenomeno prende avvio

66 Si tratta di quel processo che va sotto il nome di «cristianizzazione» e «demilitariz-zazione», così come è stato de! nito in Liebeschütz 1990, che contiene un’ottima analisi delle vicende interne alla corte orientale nell’età di Arcadio e soprattutto delle fonti che le tramandano.

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ed è a Costantinopoli che si realizza la formulazione di un modello iden-titario su basi religiose, proprio in seguito all’imposizione dell’ortodossia nella capitale e al suo concepimento come modello di espressione del linguaggio del potere.

15. Tutto ciò in Occidente non avviene: da questo punto di vista il con-! ne tra cosa è romano e cosa è barbaro in seno al concistoro rimane più labile, o meglio l’elemento militare, che a Costantinopoli assume questa particolare connotazione, continua ad avere un peso preponderante nella gestione del potere, senza che ci sia una signi! cativa teorizzazione in tal senso (si pensi al ruolo di Stilicone, ad esempio).

Da questo punto di vista, non è affatto erroneo de! nire Ambrogio un unicum nel panorama della trattazione latina tardo-antica della barba-rie.67 Egli, infatti, è l’unica fonte a noi pervenuta che si trova a esprimere l’ideologia imperiale in una particolare fase storica che vede sia l’ortodos-sizzazione dello stato sia l’agitarsi di una paura collettiva per il nemico barbaro. Venendo, però, a mancare la seconda fase dell’elaborazione, quella rivolta contro l’elemento militare presente ai vertici dell’impero, che invece si veri! ca in Oriente, si comprende anche come il problema dell’esistenza di una “barbarie religiosa” – cioè di una identi! cazione tra un tipo di barbarie “gotica” e il movimento eterodosso “ariano” – perda tutta la sua salienza. Ciò nonostante, questo modello conserva comunque una particolare forza di inerzia (anche e soprattutto grazie alla specula-zione greca intorno alla questione, speculazione che non si arresta affatto per tutto il V secolo), tale da produrre un risultato inaspettato: quello di far realmente divenire l’Arianesimo un segno identitario dei gruppi di Goti che man mano si costituiscono nei territori imperiali. Di conse-guenza, si comprende come tale fenomeno, unitamente all’obliterazione dell’omeismo latino, abbia prodotto l’equivoco storiogra! co che portava a sottovalutare ogni insorgenza autoctona del fenomeno, tutto a van-taggio di un’importazione in Italia di questo tipo di credo da parte dei barbari nel V secolo.68

67 Paschoud 1967.

68 Duval 1998; Prinzivalli 2004, p. 55.

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