Lezioni sulla dialettica della coscienza nella "Fenomenologia dello spirito" di Hegel

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La Fenomenologia dello spirito di Hegel:

la coscienza

Filosofia dell’interpretazione Prof. Marcello Mustè

Corso di laurea magistrale in

Filosofie della conoscenza: Scienze, Politica, Comunicazione

Anno Accademico 2009-2010

Primo semestre

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I La Fenomenologia dello spirito occupa un posto del tutto particolare nell’opera di Hegel. Delle altre opere hegeliane, è abbastanza agevole spiegare cosa sono: la Scienza della logica prende il posto della vecchia metafisica; l’Enciclopedia delle scienze filosofiche, nelle diverse edizioni di cui disponiamo, raffigura un sistema ordinato di ogni parte della filosofia: logica, natura, spirito; i corsi di lezioni si occupano di singoli momenti della filosofia (storia della filosofia, estetica, filosofia della storia, filosofia del diritto). Ma non è altrettanto facile dire cosa sia la Fenomenologia dello spirito. A prima vista è un po’ tutte quelle cose insieme: ha una logica che la percorre e la sostiene; vi troviamo sistemato l’intero scibile filosofico; è una filosofia della storia, per un verso, perché vi troviamo figure storiografiche come lo scetticismo o la rivoluzione francese, ma, al tempo stesso, non è una filosofia della storia, perché spezza del tutto i legami con la cronologia e con il tempo. È noto che lo stesso Hegel oscillò vistosamente, e per tutta la vita, sul significato da attribuire alla sua opera. Il problema della fenomenologia lo perseguitò sino alla fine dei suoi giorni. Prima di scrivere la Fenomenologia (o addirittura nello stesso periodo jenese in cui la compose), aveva condotto una polemica con Reinhold, e in generale aveva rifiutato ogni ipotesi di una propedeutica alla filosofia. La filosofia non può cominciare con una teoria del conoscere, cioè con un’analisi dello strumento conoscitivo con cui il sapere si produce. Ma (ecco la novità fenomenologica) la filosofia non può neanche iniziare con il sapere assoluto, cioè con la pura, immediata posizione di sé stessa. Il rifiuto dei preliminari, dei discorsi sul metodo, sullo strumento conoscitivo, rimarrà permanente in lui. Per imparare a nuotare, scriverà in una pagina celebre, non serve aggirarsi intorno alla piscina, ma bisogna gettarsi in acqua. La stessa Introduzione alla Fenomenologia dello spirito è una confutazione ravvicinata di ogni propedeutica alla filosofia intesa così. È chiaro, perciò, che la fenomenologia non può essere un discorso sul metodo o una teoria del conoscere. Eppure ci pone questa difficile domanda: da un lato, la filosofia non può cominciare con una teoria del conoscere; d’altro lato, però, neanche può cominciare dal sapere assoluto, cioè da sé stessa. La fenomenologia, a quanto pare, è il tentativo di risolvere questa apparente contraddizione. La stessa pubblicazione della Fenomenologia dello spirito fu molto tormentata. Hegel ne modificò titoli e sommari ancora in corso di stampa. Chiereghin ha scritto, non senza buone ragioni, che la Fenomenologia dello spirito fu «l’opera meno prevista da Hegel stesso». È un’interpretazione da condividere, ma che merita, tuttavia, molte precisazioni (che lo stesso Chiereghin, per altro, fornisce nei suoi scritti). Per certi versi, quell’affermazione può persino essere rovesciata: si potrebbe dire, con altrettante buone ragioni, che la Fenomenologia dello spirito fu l’opera più prevista e più profondamente sentita da Hegel. È noto che Hegel, nel periodo di Jena (1801-1807), aveva elaborato un proprio progetto di «sistema della scienza». Questo progetto si divideva in due parti: la prima parte, suddivisa in Logica e Metafisica, precedeva la

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trattazione delle «scienze reali», relative alla natura e allo spirito. Tale progetto, che non enuncia l’idea di una fenomenologia, somiglia a quello che Hegel svilupperà dopo il 1807, in particolare nell’Enciclopedia. Ma l’osservazione dello schema sistematico evidentemente non basta. Come si vede, a differenza del “sistema” dell’Enciclopedia, Hegel vi distingueva ancora una Logica e una Metafisica. Questo è il punto essenziale. A differenza della logica successiva alla Fenomenologia dello spirito, la logica jenese aveva il compito di esporre le determinazioni del pensiero finito, di mostrarne il progressivo annientamento, e perciò di condurre alla scienza del sapere assoluto, chiamata appunto Metafisica. Il compito che, a Jena, Hegel attribuiva alla Logica era dunque analogo a quello che confluirà nella Fenomenologia dello spirito: e ciò dimostra che il problema di una fenomenologia era già presente, anzi assolutamente centrale, nel suo pensiero. Se ora consideriamo il periodo successivo alla pubblicazione della Fenomenologia dello spirito, ci troviamo a formulare osservazioni analoghe. Si può dire, con ottime ragioni, che la fenomenologia non trova più un posto “sistematico” coerente nella filosofia di Hegel, che il suo progetto originario appare superato. Ma si può anche dire che non vi è opera di Hegel nella quale il problema fenomenologico non torni a ripresentarsi, e, anzi, a presentarsi come il nodo fondamentale. Quello che è certo è che Hegel non ha mai smesso di considerare questa come una sua opera fondamentale. Non c’è un solo passo della maturità che ci autorizzi a pensare che egli la abbia rinnegata. Però non ha smesso mai di ricollocarla, di considerarla da prospettive sempre diverse. È come se Hegel avesse assegnato alla Fenomenologia dello spirito un significato sempre nuovo. Già nella Propedeutica di Norimberga, del 1811, il piano di una fenomenologia appare stravolto. Tra le materie insegnate al Ginnasio di Norimberga (1808-1816) compare ancora la fenomenologia, ma lo schema del sistema sembra tornare al primo periodo di Jena: logica, filosofia della natura, filosofia dello spirito. Già negli scritti di Norimberga si innesta il processo che porterà all’Enciclopedia: da un lato, i contenuti della Fenomenologia vengono rifusi all’interno della filosofia dello spirito (dove si tratta di coscienza, autocoscienza, ragione), perdendo così la loro natura propedeutica; d’altro lato, il problema fenomenologico, cioè il problema di una «introduzione al sapere» persiste intatto. Scrive per esempio Hegel: «una introduzione alla filosofia deve considerare in particolare le varie proprietà e attività dello spirito mediante le quali esso s’innalza alla scienza. Poiché tali proprietà e attività si presentano in un nesso necessario, anche questa conoscenza di sé costituisce una scienza». I contenuti della Fenomenologia sono traslati nella filosofia dello spirito; ma il problema fenomenologico è riproposto integralmente. La filosofia, per iniziare, ha bisogno di una elevazione della coscienza; e questa elevazione, che è introduzione alla scienza, è tuttavia già scienza per la necessità della forma del processo che ne scandisce il ritmo interno. Più complesso è il discorso sul destino della fenomenologia se guardiamo alla Scienza della logica. Cominciamo da quello che Hegel dice, nelle due prefazioni all’opera. La prefazione alla prima edizione risale al 1812. Il passo relativo alla fenomenologia si compone di due parti. La prima parte chiarisce che tra fenomenologia e logica vi è un rapporto circolare: da un lato la logica presuppone la fenomenologia; ma, d’altro lato, la fenomenologia riposa sulle pure essenzialità logiche. Leggiamo:

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Ora io dico che solo su questa via che costruisce sé stessa può la filosofia essere una scienza oggettiva, dimostrata. – In questa maniera tentai di esporre la coscienza nella Fenomenologia dello spirito. La coscienza è lo spirito come sapere concreto, cioè immerso nell’esteriorità. Ma la progressione di quest’oggetto riposa soltanto, come lo sviluppo di ogni vita naturale e spirituale, sulla natura delle pure essenzialità, che costituiscono il contenuto della logica. La coscienza, in quanto è lo spirito manifestantesi, che la sua propria via si libera dalla sua immediatezza ed esterna concrezione, diventa il puro sapere, che si propone per oggetto quelle pure essenzialità stesse, quali esse sono in sé e per sé. Coteste essenzialità sono i pensieri puri, lo spirito che pensa la sua essenza. Il lor proprio muoversi è la lor vita spirituale, ed è quello per cui la scienza si costituisce, e di cui essa è l’esposizione. (SDL, 7)

La seconda parte contiene un chiarimento sul «sistema della scienza». È un chiarimento imbarazzato. Hegel vi distingue una “linea di principio”, per cui il vecchio progetto sembra conservare tutto il suo valore, e una “linea di fatto”, una circostanza occasionale (parla appunto di «occasione»), che lo ha condotto a pubblicare la logica dell’essere «separatamente»:

Con ciò è assegnata la relazione che ha rispetto alla logica quella scienza che io chiamo Fenomenologia dello spirito. Quanto al rapporto esterno, alla prima parte del Sistema della scienza, che contiene la Fenomenologia, doveva tener dietro una seconda parte, da contener la Logica e le due scienze reali della filosofia, la Filosofia della natura e la Filosofia dello spirito, colla qual parte sarebbe stato terminato il Sistema della scienza. Ma quell’ampiezza, che la Logica dovette necessariamente raggiungere di per se stessa, mi fornì l’occasione di darla in luce separatamente. Secondo un piano più largo, la Logica segna dunque il primo seguito della Fenomenologia dello spirito, cui poi farò tener dietro lo svolgimento delle due accennate scienze reali della filosofia. (SDL, 7-8)

Le cose cambiano se ci volgiamo alla seconda edizione della logica dell’essere, rivista tra il 1830 e il 1831, e pubblicata postuma nel 1832. In mezzo c’è l’Enciclopedia, la cui prima edizione appare nel giugno 1817, e la seconda, fortemente accresciuta, nel 1827 (una terza edizione, vivo Hegel, esce proprio nel 1830). In una nota aggiunta a quanto abbiamo appena letto, Hegel afferma che l’Enciclopedia sostituisce quel progetto sistematico e che, perciò, dal titolo della Fenomenologia dello spirito scomparirà la dicitura di «prima parte» del sistema della scienza. Leggiamo:

Questo titolo [prima parte del sistema della scienza] non sarà più aggiunto alla seconda edizione [della Fenomenologia], che uscirà a Pasqua prossima. – In luogo del disegno, qui dopo accennato, di una seconda parte che avrebbe dovuto contenere l’intera cerchia delle altre scienze filosofiche, ho pubblicato dipoi l’Enciclopedia delle scienze filosofiche, di cui si ebbe l’anno scorso [1830] la terza edizione. (SDL, 7)

Questa precisazione riguarda il rapporto tra Fenomenologia dello spirito ed Enciclopedia, ma non ci dice molto sul rapporto, ben più complesso, tra Fenomenologia dello spirito e logica. Ripensato il sistema nei termini dell’Enciclopedia, possiamo ancora dire che la logica presuppone la fenomenologia, oppure viene meno il carattere propedeutico di quest’ultima? Anche qui, la risposta è in parte affermativa e in parte negativa.

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In senso stretto, nell’Enciclopedia il percorso fenomenologico perde il suo carattere di propedeuticità, e diventa uno svolgimento interno allo spirito soggettivo. Possiamo dire che, in tale senso, la fenomenologia è una tappa del sistema come tutte le altre. Anzi: presuppone la logica. Il suo contenuto perde il carattere introduttivo, di elevazione alla scienza, e diventa un contenuto interno al sistema. Il sistema comincia direttamente dalla logica, dall’essere puro, non chiede introduzioni. Tuttavia, il problema fenomenologico, seppure in forma differente, si ripropone, perché Hegel premette alla logica la considerazione delle tre forme del pensiero rispetto all’oggettività. Questa considerazione è fondamentale per intendere l’idealismo di Hegel, ma ha una forma diversa da quella della Fenomenologia dello spirito. In modo esplicito, è una considerazione introduttiva, storica, ha la forma del chiarimento. Ossia: è bensì un’introduzione alla scienza, ma non è parte della scienza. Non ha la necessità di un discorso scientifico. Qui la scienza comincia direttamente dal sapere assoluto, cioè da sé stessa, e caso mai incontra dentro di sé il percorso fenomenologico. E tuttavia (si noti anche qui il disagio, l’inquietudine, la sottile ambiguità), mentre Hegel rivede il progetto del suo sistema, annuncia anche la seconda edizione della Fenomenologia. Non la abbandona alla critica roditrice dei topi, ma intende ancora riproporla ai suoi lettori.

II Proviamo a dire in poche parole cosa è la Fenomenologia dello spirito. La Fenomenologia dello spirito è, anzi tutto, l’esposizione di un Weg, di un cammino, di un percorso: del cammino che conduce ciò che Hegel chiama coscienza dal suo atteggiamento proprio, diciamo naturale, al sapere assoluto, cioè al principio della filosofia. In questo senso è una propedeutica. Propedeutica significa: una strada che porta al principio, un itinerario che conduce all’inizio (non alla fine ma all’inizio). Alla fine del cammino c’è l’inizio. Si pensi a un romanzo giallo che invece di concludersi con la scoperta dell’assassino, si chiudesse con l’inizio dell’investigazione sul delitto. La fine è solo l’inizio. Ho detto un romanzo, perché in effetti questa opera è stata spesso interpretata come un gigantesco romanzo filosofico. È stata paragonata alla Commedia di Dante (a partire da Rosenkranz). Poi al Bildungsroman di origine settecentesca: l’Emilio di Rousseau, il Wilhelm Meister di Goethe, ecc. Uno di quei romanzi che raccontano il ritmo progressivo, ascendente, della coscienza verso un assoluto, verso una verità. In effetti, la Fenomenologia dello spirito ha certo qualcosa in comune con il Bildungsroman. Ma solo la Fenomenologia? Siamo certi che la filosofia, come tale, non abbia un punto di somiglianza con il romanzo di formazione? Pensate al mito platonico della caverna. Pensate alla definizione aristotelica della metafisica, per la via della confutazione elenchica del principio. Pensate al modo in cui, nelle Meditationes, Cartesio perviene al cogito. Non sono altrettanti Weg? Non si costituisce la filosofia

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come l’esposizione di un cammino, di un passaggio rigoroso dall’universo simbolico della coscienza comune al principio di una filosofia come scienza? Il principio della scienza non è sempre un risultato? Non richiede, cioè, una giustificazione? Questo è il paradosso dentro cui Hegel cerca di guardare a fondo. La fenomenologia è dunque un Weg, un mettersi in cammino verso la filosofia. In questo senso è propedeutica. Diciamolo in modo diverso. Filosofare significa dirigersi alle cose, cercare di cogliere il fondo, l’essenza della realtà. La filosofia non è visione o sogno, ma tentativo di afferrare l’esperienza così come essa è. Per questo la filosofia è scienza, non poesia o letteratura. Ma dirigersi alle cose significa attraversare l’universo simbolico nel quale siamo immersi. Ora, cosa significa attraversare? Significa molte cose, non facili da esprimere. Proviamo a delinearne alcune. In primo luogo, attraversare indica un movimento, un Weg, un percorso attraverso la coscienza ordinaria in direzione di un principio, del principio stesso della filosofia. Se noi non attraversiamo l’universo simbolico della coscienza, non possiamo cominciare a filosofare. In secondo luogo, attraversare significa qui oltrepassare: per via di quell’attraversamento noi ci portiamo in un punto di vista che non è più quello della coscienza, ma è quello della filosofia. In terzo luogo, attraversare, dirigendosi verso l’origine delle cose, non significa progredire determinatamente, ma significa arretrare verso ciò che sta alle spalle della coscienza, che la coscienza ha dietro di sé ma che ha dimenticato, che ha fatto l’oggetto di un oblio. L’attraversamento è dunque un percorso che oltrepassa ciò che attraversa e che arretra di fronte a ciò che oltrepassa. Questo dell’attraversare è il significato di propedeuticità della Fenomenologia dello spirito. Ma la Fenomenologia dello spirito, abbiamo detto, non è soltanto una propedeutica della scienza, ma è anche parte della scienza. Parte della scienza significa, né più né meno: è scienza. Questo è il punto più acuto del paradosso. Come è possibile che ciò che precede la scienza sia, al tempo stesso, la scienza? Enrico De Negri ha osservato che, in Hegel, tutta la scienza è, in fondo, una fenomenologia. Dobbiamo riflettere a fondo su questa notazione. La scienza, superato lo stadio fenomenologico, conserva un legame strutturale (dentro di sé) con il Weg fenomenologico. La differenza della scienza è, ancora, una differenza di origine fenomenologica. La scienza, in questo senso, non è pura, ma è sempre sporcata dalla coscienza che vi portiamo dentro. Cosa significa questo persistere della coscienza nella scienza? La filosofia, abbiamo detto, si dirige alle cose; e, per toccare il fondo delle cose, deve attraversare l’universo simbolico della coscienza. Ma non può davvero lasciare alle spalle ciò che ha attraversato (che ha oltrepassato). La filosofia che tocca il fondo delle cose assume come propria materia l’universo della coscienza, e in certo modo deve convertirsi in quell’universo simbolico che ha oltrepassato. Deve essere espressa. Si badi: non è che prima intuisce il principio e poi lo esprime. Lo esprime (cioè lo determina) nell’atto stesso che lo afferra. Essa, la filosofia, manifesta il principio, mediandosi con la negatività della coscienza. Ecco perché, nella filosofia hegeliana, non funziona il famoso detto di Wittgenstein: raggiunta la vetta, la scala che ci è servita per salire non può essere buttata giù. Tractatus, 6.54: «le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse –

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su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare via la scala dopo che v’è salito)».

III L’oscurità di tutto questo è grande e forse insuperabile. Proprio in quanto è attraversamento dell’universo simbolico (l’esperienza) della coscienza, la Fenomenologia dello spirito può essere considerata come una grande ermeneutica, cioè come una decifrazione di quell’universo simbolico. Ma è arrivato il momento di chiederci qualcosa sul protagonista di questo romanzo, sul la coscienza. La coscienza nel senso hegeliano è una parola molto impegnativa. Essa definisce un intero universo, che è poi – badate – l’universo della nostra vita, del nostro modo di essere, ossia – come si dice – dell’esistenza. Hyppolite chiarisce bene, su questo punto, la differenza tra idealismo hegeliano ed esistenzialismo. Possiamo dire che mentre l’esistenzialismo si presenta come una analitica dell’esistenza, la fenomenologia di Hegel si presenta, anche, come un oltrepassamento della coscienza. Perché si abbia una filosofia, questo universo, definito dalla coscienza, deve essere attraversato, cioè bisogna oltrepassarlo arretrando da esso. Se noi siamo contenti di questa vita ordinaria in cui siamo immersi, la filosofia non nasce. Si comincia a filosofare solo quando si avverte che qualcosa non va. Ma questo universo della coscienza è per ciò vasto. Esso include tutto il nostro esistere. Possiamo dire che è il nostro modo di essere, la nostra comune rappresentazione della realtà, la nostra verità; e ha le sue punte di eccellenza, nella scienza, nella politica, nella religione. Queste sono le grandi tecniche della coscienza, le grandi opere sciamaniche, nelle quali la coscienza riconosce sé stessa nel suo grado più alto. Ma la stessa logica, la stessa verità, informa tutta la nostra vita pratica, il nostro comune esistere. Per questo gli interpreti esistenzialisti (perfino Heidegger) hanno sempre privilegiato la Fenomenologia dello spirito tra le opere di Hegel: essa è una grande analitica, una grande decifrazione, una grande ermeneutica dell’esistenza (anche se poi l’analitica, ripeto, coincide qui con un oltrepassamento). Ma la coscienza, che è un universo simbolico così vasto, è anche retta da un principio semplice. Ciò che deve essere attraversato e oltrepassato, in ultima istanza, è questo principio semplice. Possiamo definirlo come il principio del realismo. In questo senso l’idealismo come filosofia è l’oltrepassamento del principio del realismo. Questo principio, nella sua unità indivisa, si articola in due diverse credenze. Quando si esiste, si ha fede in due dogmi: possiamo definirli il principio di differenza e il principio di verità. Vediamo. Anzi tutto, la coscienza è un principio di differenza. Principio di differenza significa: la coscienza non crede genericamente nella differenza, ma crede che alla differenza di pensiero ed essere tocchi il luogo originario. All’inizio c’è questa differenza. Perciò dimentica che essa, la coscienza, è l’origine della differenza, è il movimento stesso di porre la differenza; che la

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differenza è sempre iscritta nell’identità, e che all’identità del diverso spetta il luogo originario. In altri termini, la coscienza crede (e non può non credere) nella realtà dell’oggetto, come alter ego: la coscienza crede che le cose fuori di lei abbiano un essere, una essenza indipendente, che l’essere sia altro dal pensiero. Vediamo come Hegel descrive questa situazione, dandoci una precisa definizione della coscienza. Hegel spiega con chiarezza, nella Introduzione, quale sia l’essenza della coscienza:

Questa, la coscienza (das Bewuβtsein), distingue qualcosa da sé, con il quale nello stesso tempo si mette in relazione; ossia, come anche si può dire: esso, il qualcosa, è qualcosa per la coscienza; e il lato determinato di questo riferire, di questa relazione, ossia dell’essere di qualcosa per la coscienza, è il sapere. (FDS p. 73)

Conoscere in generale significa perciò: il movimento, la mediazione, del distinguere da sé qualcosa (l’essere, l’oggetto) e di conservare la relazione con tale qualcosa. In un senso più determinato, ciò significa sapere qualcosa. La coscienza si alimenta di questo movimento, coincide con tale atto del conoscere e del sapere. Il conoscere è così per noi: cioè quando è tolto il velo dell’oblio in cui la coscienza è immersa. Ma la coscienza, per sé stessa, è questo oblio. La coscienza ignora che essa stessa è l’atto distinguente, che essa pone il differente, l’essere, con cui si mette in relazione. La coscienza crede che l’essere, che essa distingue da sé e con cui si mette in relazione, sia originariamente un altro da sé. Il Weg della fenomenologia oltrepassa questa credenza, che pure costituisce l’essenza della coscienza. Il velo deve essere tolto, l’oblio deve farsi ricordo di quella operazione, affinché la filosofia possa iniziare. Finché quel velo persiste, la filosofia non è possibile. Dunque, il primo assioma della coscienza è questo: il principio di differenza. Ma a questa mediazione, se ne aggiunge subito un’altra, parimenti essenziale. Al conoscere, infatti, è essenziale l’idea della verità. Ecco il secondo principio della coscienza, il principio di verità. Il sapere si costituisce come un sapero vero:

Da questo essere per un altro, però, noi distinguiamo l’essere-in-sé; il qualcosa che si riferisce al sapere viene anche distinto da lui, dal sapere, e posto come essente anche al di fuori di/oltre questa relazione; il lato di questo in-sé (dieses Ansich) si dice verità. (p. 73)

Riflettiamo su questa situazione. La coscienza è un atto distinguente che dimentica la propria origine. Per noi, all’inizio vi è quell’atto del distinguere, il porre l’altro da parte della coscienza: la coscienza si fa pensiero, soggetto, e allontana da sé l’essere come il diverso da sé. Ma la coscienza dimentica questo suo distinguere, cioè dimentica che, distinguendo l’altro da sé, ha in realtà distinto sé stessa. Cosa accade se restiamo all’interno di questo oblio? Se noi riteniamo che il risultato (la differenza) sia il dato originario, ne segue che due termini originariamente differenti (il pensiero e l’essere, il soggetto e l’oggetto, l’intelletto e la cosa) devono essere messi in relazione. Poiché si comincia con un dualismo, questa relazione può dare due esiti differenti: o la conformità o la difformità. Se il pensiero e l’essere sono conformi, si dirà che la conoscenza è vera; se sono difformi, si dirà, al contrario, che la conoscenza è falsa, non verità ma

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errore. Tuttavia, perché si dia il principio di verità, non basta che i due termini distinti siano conformi: nel sogno, l’essere è conforme al pensiero, ma non per questo si ha verità. Occorre che uno dei due termini venga assunto come fondamento della verità, come pietra di paragone del giudizio. Questo termine, assunto nella sua indipendenza dal pensiero e dalla stessa relazione, è la res, l’essere in quanto diverso dal pensiero. Questo è il movimento dell’oblio che costituisce la coscienza. Come si vede, principio di differenza e principio di verità sono solo due lati di una stessa situazione. La differenza è dimentica della propria origine, e per questo deve cercare la verità nell’idea della conformità, che è l’idea-guida del conoscere. La Fenomenologia dello spirito, perché la filosofia sia possibile, deve rimuovere questo oblio, guadagnare la trasparenza dell’ente. Ma ecco il problema fondamentale: perché la filosofia non può consentire questo movimento della differenza e della verità? Perché bisogna oltrepassarlo? Perché la filosofia non può essere realismo, ma può soltanto essere idealismo? L’obiezione che la filosofia rivolge al realismo della coscienza è, anzi tutto, un’obiezione di coerenza. Prendiamo il principio di differenza: cosa significa che la differenza occupi il luogo originario? Se la differenza è priva di relazione, la conseguenza è distruttiva: il differente dal pensiero – l’essere – non potrà mai essere, o almeno non potrà mai essere per il pensiero. Ogni volta che il pensiero lo ammette come differente, contraddice la propria natura. Se, invece, la differenza è relazione, allora questa, e non la differenza, occupa il luogo originario: la relazione precede e include la differenza, ma la relazione significa identità, non differenza. In nessun caso, dunque, la differenza può, per la filosofia, occupare il luogo originario. Prendiamo ora il principio di verità. La coscienza, nel suo oblio, afferma che la verità consiste nella conformità di sé (del pensiero) all’essere della cosa. Alla domanda cosa è la verità? bisogna dunque rispondere che la verità è il punto, l’attimo, in cui pensiero ed essere sono lo stesso. Perché si dia la verità, è necessario che, in un punto (nel punto della verità) la differenza sia vinta, superata: il pensiero di questo tavolo deve coincidere con l’essere di questo tavolo. Se io dicessi del tavolo qualcosa che non coincide con il suo essere, non sarei nel vero, ma nell’errore. La verità è dunque l’identità di pensiero ed essere. Ma è possibile per la coscienza dire così, o dire solo così? Se la verità fosse questa identità, la verità stessa svanirebbe: questa, e non la differenza, terrebbe il luogo originario. Occorre dunque che pensiero ed essere siano lo stesso, ma senza smarrire la loro differenza. Nel punto della verità, il pensiero è bensì identico all’essere, ma il pensiero deve continuare a presentarsi come differente dall’essere. Il mio pensiero del tavolo è conforme all’essere del tavolo; ma il pensiero del tavolo e l’essere del tavolo sono differenti. Occorre, cioè, che pensiero ed essere siano lo stesso e, nel medesimo tempo, non siano lo stesso. Questa è una contraddizione. La verità è una contraddizione. Come è possibile tutto ciò?

IV

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Abbiamo detto che ciò che la coscienza, che la Fenomenologia dello spirito, deve oltrepassare, rappresenta l’universo simbolico del conoscere. Conoscere è agire, parlare, scienza, religione, politica. Tale è l’estensione di questo universo che la filosofia mette in discussione e vuole oltrepassare, rivolgendo direttamente lo sguardo alle cose. Ma ora dobbiamo porci qualche domanda sul significato di questo oltrepassamento che la filosofia opera, affermando il sapere assoluto, cioè l’ente come tale, la cosa, la determinazione. Noi abbiamo proceduto fin qui ponendo alla coscienza un problema di coerenza. La abbiamo interrogata, da filosofi, ed essa non è stata in grado di rispondere alle nostre domande. Ma la pretesa di Hegel è più radicale. La coscienza, dice Hegel, non si critica riflessivamente, sollevandoci al punto di vista della filosofia; la coscienza non viene oltrepassata dalla filosofia, ma – badate – essa si oltrepassa da sola. La Fenomenologia dello spirito non è il Weg della filosofia che critica la coscienza, ma è il Weg della coscienza stessa che si oltrepassa da sola. Finora abbiamo messo in evidenza, diciamo così, l’aspetto negativo della coscienza. Abbiamo detto perché la coscienza è inadeguata, perché la filosofia non può concederle ciò che essa pretende. Ma la coscienza non è solo questa negatività. La coscienza possiede un altro carattere fondamentale. Essa è, per sua natura, un oltrepassarsi, cioè un trascendersi. Per questo, nella prospettiva di Hegel, la coscienza si distingue dalla natura. È un punto molto delicato. Non solo, dunque, la coscienza vive nella differenza dal proprio oggetto, ma vive nella differenza essenziale da sé stessa: non coincide con l’essere dell’oggetto, ma soprattutto non coincide con sé. È negatività, è un’asimmetria essenziale tra sé e sé. Cerchiamo di capire cosa significa questo. Vediamo come, nell’Introduzione, Hegel rappresenta questa situazione della coscienza:

Ciò che è ristretto a una vita naturale non ha il potere di andare oltre il proprio immediato esserci; ma ne è tratto fuori da un Altro, e questo esserne tratto fuori è la sua morte. Ma la coscienza è per se stessa il suo concetto, ed è quindi, immediatamente, l’atto di sorpassare il limitato, e, poiché questo limitato le appartiene, del sorpassare se stessa. Insieme col singolo, alla coscienza è posto parimente l’al di là, sia pure soltanto come nell’intuizione spaziale, accanto al limitato. La coscienza subisce quindi da lei medesima la violenza del guastarsi ogni appagamento limitato. (Fen., p. 72)

Una descrizione ancora più incisiva di questa situazione della coscienza si trova nella sezione dedicata alla Ragione osservativa. La figura della Art, della specie, costituisce il medio esteriore, ma tuttavia necessario, attraverso cui la vitalità si realizza nelle figure determinate, negli individui. Nella specie, scrive Hegel, il genere, che è «la vita universale come Universale», «sich zerlegt», «si dirompe», nella molteplicità delle specie secondo il numero, cioè secondo le determinazioni sensibili del suo esserci, come il colore o la figura: si determina secondo l’accidentalità degli oggetti che si trovano e si osservano, che sono offerti dalla natura esterna, e non derivano dall’articolazione necessaria di sé in quanto idea universale: in tale particolarizzarsi, aggiunge Hegel con una forte immagine, il genere subisce «Gewalt von der Seite des allgemeinen Individuums, der Erde», «violenza da parte dell’individuo universale, la terra», la quale porge dall’esterno al principio vitale le sue differenze, trattenendo l’opera della vita «soltanto al

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di dentro di quei possenti elementi, e che, interrotta in mille guise dalla loro sfrenata violenza, si fa piena di lacune e di guai» (Fen., 247). Per rendere più chiaro il quadro aporetico che qui si delinea, Hegel ricorre a una importante analogia, ponendo a confronto il processo della natura organica con il Weg fenomenologico della coscienza. Leggiamo:

Similmente la coscienza tra lo spirito universale e la sua singolarità o coscienza sensibile, ha come medio il sistema delle figurazioni della coscienza, come vita dello spirito la quale si ordina fino a divenire l’intiero; – sistema che viene considerao in questo scritto e che ha come storia del mondo la propria esistenza oggettiva. Ma la natura organica non ha storia alcuna essa; dal suo universale, la vita, precipita immediatamente nella singolarità dell’esserci, e i momenti in questa effettualità unificati, – determinatezza semplice e vitalità singola, – producono il divenire soltanto come il movimento accidentale, dove ognuno di questi momenti è attivo nella sua parte e dove è [bensì] mantenuto l’intiero; ma questa mobilità è per se stessa limitata solo al proprio punto, perché in esso non è presente l’intiero, e non vi è presente perché esso qui non è per sé come intiero. (Fen., 247)

Anche la coscienza, scrive, costituisce un medio tra la singolarità della certezza sensibile e lo spirito universale: ma la coscienza è divenire e storia, «ha come storia del mondo la propria esistenza oggettiva», e quindi si articola, secondo necessità, nel percorso che manifesta il divenire dell’intero. Ma, al contrario, «die organische Natur hat keine Geschichte», «la natura organica non ha storia alcuna»; per questo la vita, che è il momento universale di questa natura, non può essere articolata secondo la necessità di un Weg fenomenologico, ma «fällt … herunter», precipita, rovina, in modo immediato, nella singolarità del Dasein, nella determinazione particolare che non ha l’energia per trattenere in sé l’intero («non è per sé come intiero»), e che perciò produce un movimento soltanto accidentale e privo di necessità. Lasciamo stare, per il momento, come in Hegel si costituisca questa differenza tra spirito e natura. È un punto molto problematico della sua filosofia. Ciò che importa è che la coscienza si trascende (cioè ha una storia) perché, a differenza della natura, include l’intero. La coscienza è in sé il sapere assoluto. Proviamo a dirlo in altri termini. La coscienza vive nel principio del realismo, ha fede nella differenza e nella verità. Ha obliato la patria, il luogo d’origine, il proprio atto distinguente. È dimentica di sé. Ma obliare, velare, dimenticare, non significa annullare. Ciò che è obliato, velato, dimenticato, è anche depositato al fondo della coscienza, ne costituisce un lato essenziale, seppure non trasparente. La coscienza è mossa da questa presenza nascosta (come è mossa dall’inconscio). Nella sua consapevolezza limitata, essa è realismo; ma include il principio dell’idealismo, e per questo è inquieta, cioè è portata a superare ogni determinazione finita. Per questo, essa si oltrepassa, è in cammino verso l’infinito. Coscienza (nel punto distintivo dalla natura) significa appunto questo: inclusione dell’intero che è nascosto. La Fenomenologia ha il compito di portarlo alla trasparenza. Perciò, a rigore, la coscienza non è oltrepassata dalla filosofia, ma si oltrepassa nella filosofia. Come dobbiamo intendere, ora, questo oltrepassamento? Cosa significa che la filosofia oltrepassa la coscienza, il conoscere, cioè tutta la nostra vita ordinaria, la scienza, la religione, la politica? La natura di questo oltrepassamento è, evidentemente, il problema fondamentale della filosofia. Proviamo a porci delle domande. Se il

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principio della filosofia oltrepassa il dualismo della religione (che divide l’uomo e Dio), questo vuol dire che esso è la nuova religione? Se il principio della filosofia oltrepassa la scienza (che verifica in laboratorio i propri esperimenti), questo significa che la filosofia è la nuova scienza? Ancora: è la nuova politica? È il nuovo modo di agire? Il nuovo linguaggio? E così via? Ma se la filosofia, oltrepassando il principio del realismo, lo lascia vivere accanto a sé (in modo che la filosofia è trasparenza, ma la scienza è oblio), dichiarandolo al tempo stesso non-oltrepassabile (nella sua sfera), che tipo di oltrepassamento è questo? Questo è il grande problema che Hegel incontrò nella costruzione del suo sistema, l’origine della sua fenomenologia e di ogni sua ambiguità.

V Nella Fenomenologia dello spirito, così come accadrà nella Scienza della logica, Hegel configura l’inizio nella forma dell’immediatezza. Ciò che è immediato, nella sfera fenomenologica, è il conoscere sensibile. Ma questa nozione di immediatezza assume, nella sua filosofia, una complessità peculiare, su cui occorre soffermarsi con qualche cura, sia pure limitatamente al problema che stiamo esaminando. In linea generale, la certezza sensibile indica un’affezione pura, appunto immediata, priva di una vera e propria attività conoscitiva (cioè di una mediazione), ma tuttavia capace di cogliere originalmente il dato elementare, l’essere della cosa: l’apprensione sensibile è insufficiente al pensiero, ma lo precede necessariamente ed è indispensabile affinché esso si manifesti. Secondo l’adagio tomistico, infinite volte ripreso o corretto dalla tradizione filosofica, nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu. La certezza sensibile indica, appunto, questo offrirsi dell’oggetto in sensu, in una forma immediata o intuitiva, sensibile e non ancora intellettuale. Proprio per tale carattere di immediatezza, di corpulento afferramento dell’essere della cosa, quella sensibile si presenta come la figura iniziale del conoscere: anche la «scienza dell’esperienza» deve, dunque, iniziare di qui, da ciò che appare come il più semplice, ossia da ciò che afferma la pretesa dell’immediato. Possiamo dire, anche, che il percorso fenomenologico comincia con la certezza sensibile perché, considerata nella sua disposizione logica, la teoria del conoscere inizia proprio così, presupponendo l’intuizione alla spontaneità dell’intelletto. Ora, a differenza della lunga considerazione che si leggerà nella Scienza della logica, nella Fenomenologia dello spirito il problema dell’inizio è sostanzialmente risolto da Hegel con queste poche battute:

Il sapere, che per primo o immediatamente è nostro oggetto, non può essere niente altro che quel sapere, il quale è esso stesso sapere immediato, sapere dell’immediato o dell’essente. Noi dobbiamo riferirci a esso in modo altrettanto immediato e accogliente (aufnehmend), quindi non dobbiamo alterare niente in lui, nella modalità in cui esso si offre, e dobbiamo allontanare dall’accogliere (von dem Auffassen) il concepire (das Begreifen). (p. 81)

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Il termine unmittelbar, immediato, vi è ripetuto quattro volte, in quattro diverse accezioni. In primo luogo, unmittelbar è sinonimo di zuerst («da prima», «per primo»), e indica il fatto che l’oggetto iniziale della fenomenologia non può che essere la conoscenza sensibile; esso si offre immediatamente, cioè per primo, alla nostra considerazione: Das Wissen, welches zuerst oder unmittelbar unser Gegenstand ist…. In secondo luogo, unmittelbar, immediato, è il sapere sensibile stesso, in quanto si presenta nel segno dell’immediatezza, affida spontaneamente il proprio destino ai destini dell’immediato, del non-mediato: welches selbst unmittelbares Wissen…ist. In terzo luogo, il conoscere sensibile si offre non solo come sapere immediato, ma anche come sapere des Unmittelbaren, dell’immediato. Il suo oggetto, ciò che per esso ha la nota dell’essere (l’essente), è un immediato: esso afferra in modo immediato l’immediato, e perciò si presenta immediatamente a noi come l’oggetto iniziale: Wissen des Unmittelbaren oder Seienden ist… In quarto luogo, aggiunge Hegel, la nostra considerazione dovrà essere anch’essa immediata, perfettamente aderente alla pretesa di quel sapere: Wir haben uns ebenso unmittelbar oder aufnehmend zu verhalten, also nichts an ihm, wie es sich darbietet, zu verändern und dem Auffassen das Begreifen abzuhalten. Dunque: il conoscere sensibile si presenta come conoscere immediato di un oggetto immediato, e perciò si offre immediatamente come oggetto iniziale di una considerazione parimenti immediata. Il brano che abbiamo citato manifesta, però, una seconda tensione interna, che già era stata tematizzata da Hegel nell’Introduzione, ma che ora appare, se così può dirsi, in actu exercito. È la tensione, costitutiva del percorso fenomenologico, tra ciò che è an ihm (in lui, nella cosa come si dà a vedere al conoscere) e ciò che è für uns (per noi, per la considerazione filosofica). Torniamo brevemente sul testo dell’Introduzione dove la questione si pone. Hegel insiste sulla necessità del percorso fenomenologico, e quindi afferma:

Solo questa necessità stessa o il sorgere del nuovo oggetto che, senza che essa sappia come le accade, si offre alla coscienza, è ciò che per noi si muove, per così dire, dietro le spalle di essa. Nel movimento della coscienza si produce quindi un momento dell’esser-in-sé o esser-per-noi; momento che non si presenta per essa, la quale è essa medesima immersa nell’esperienza; ma il contenuto di ciò che a noi vien sorgendo è per la coscienza; e noi di esso comprensiamo soltanto il lato formale o il suo puro sorgere: per quella ciò che è sorto è solo come oggetto; per noi è in pari tempo come movimento e divenire. (Fen., pp. 77-78)

La necessità del percorso fenomenologico consiste in una necessità dialettica, per cui (aveva scritto Hegel poco prima) «il nuovo oggetto si mostra come divenuto mediante un rovesciamento della coscienza stessa» (Fen., p. 77). Ma questo ritmo dialettico, per il quale la coscienza passa per le sue figure, è un processo che accade senza la piena consapevolezza della coscienza stessa. Per la coscienza, ciò che sorge è «nur als Gegenstand», «solo come oggetto». Ossia il movimento stesso del sorgere avviene «hinter seinem Rücken», «dietro le sue spalle»: è coperto per lei. Tuttavia, è la coscienza a porre il proprio Inhalt, il proprio contenuto. Essa nasconde la forma di questo porre. «Das Formelle», «il lato formale», significa qui: il

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movimento dialettico dell’oltrepassamento nel quale quel contenuto è necessariamente incluso. Questo lato formale «non si presenta per essa», per la coscienza; ma (facciamo attenzione al modo in cui Hegel si esprime) «es kommt dadurch in seine Bewegung ein Moment des Ansich- oder Fürunsseins», «attraverso ciò arriva/si produce nel suo movimento un momento dell’essere-in-sé o per-noi». Hegel dice: oder, o, per segnare questo forte corrispondersi tra ciò che nel contenuto della coscienza è in sé e ciò che, di quel contenuto, è per noi. Il lato formale che noi cogliamo nel contenuto della coscienza non è altro che ciò che, in sé, riposa al fondo di quel contenuto e lo spinge nel movimento dialettico. Questo perfetto corrispondersi del per noi e dell’in sé, depositato in quella secca parolina (oder) costituisce il senso di tutta questa complessa argomentazione.

Torniamo ora al testo della certezza sensibile e rileggiamolo in tale prospettiva:

Il sapere, che per primo o immediatamente è nostro oggetto, non può essere niente altro che quel sapere, il quale è esso stesso sapere immediato, sapere dell’immediato o dell’essente. Noi dobbiamo riferirci a esso in modo altrettanto immediato e accogliente (aufnehmend), quindi non dobbiamo alterare niente in lui, nella modalità in cui esso si offre, e dobbiamo allontanare dall’accogliere (von dem Auffassen) il concepire (das Begreifen). (Fen., p. 81)

L’immediatezza del conoscere sensibile (conoscere immediato di un immediato) giustifica il suo immediato imporsi a noi, al nostro sguardo, come oggetto iniziale. Per questa ragione, niente deve essere alterato di questa immediatezza: il nostro comportamento deve essere quello dell’accoglienza (die Aufnahme) e del ricevere, del prendere (auffassen); e il concepire (das Begreifen) deve essere abgehalten, impedito, trattenuto, tenuto fuori e lontano. Hegel insiste sulla trasparenza del noi, sulla necessità di lasciare che il conoscere sensibile si manifesti per quello che è. Ma trasparenza non significa assenza. Il noi che accoglie il conoscere sensibile, e che si limita a trasparire, è poi quello stesso Begreifen che viene abgehalten, trattenuto, tenuto nel silenzio: ma il concepire, il concetto, è qui sinonimo di mediazione, cioè di pensiero. Il fine del conoscere sensibile, dell’immediato, è appunto la mediazione, un primo Begreifen. Ciò che traspare, insomma, è ciò che risulta; è ciò che, latente sullo sfondo (l’in sé della cosa), deve nascere da sé. Questo profilo di trasparenza dell’inizio è essenziale per intendere correttamente il carattere di immediatezza che lo determina. Osservata nel percorso fenomenologico, immediatezza significa trasparenza della mediazione. La mediazione (il noi, il Begreifen) è inclusa nella forma dell’immediato, ma è abgehalten, trattenuta, cioè mantenuta nella forma di un oblio, coperta da un velo che il processo dialettico sarà chiamato a scoprire, fino al compiuto emergere della sua figura, che sarà, al tempo stesso, un oltrepassamento del conoscere intuitivo.

VI

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Prima di considerare, in modo più ravvicinato, la figura della certezza sensibile, è utile riflettere sulla forma che assumerà, alcuni anni dopo, nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche. Come abbiamo visto in precedenza, in questa opera più tarda si modifica sostanzialmente il senso del percorso fenomenologico: esso perde il significato propedeutico che gli era stato assegnato nell’opera del 1807, e viene ricollocato da Hegel nella sezione relativa allo «spirito soggettivo», cioè dopo lo svolgimento della logica e della filosofia della natura. Più precisamente, la fenomenologia occupa la seconda parte dello «spirito soggettivo» e presuppone l’intera trattazione dell’antropologia, cioè dell’anima, della sensazione, del sentimento di sé. Questa nuova collocazione della coscienza ha una particolare importanza per sondare il significato dell’immediatezza che, anche qui, Hegel attribuisce alla certezza sensibile, sia pure sottolineandone il carattere di forma immediata della particolare figura della coscienza. La coscienza – scrive nel § 418 – è dapprima

la coscienza immediata e la sua relazione con l’oggetto è perciò la semplice ed immediata certezza di esso: l’oggetto stesso è, per conseguenza, determinato altresì come immediato, come tale che è ed è in sé riflesso; inoltre, come immediatamente singolo. Questa è la coscienza sensibile.

Come conseguenza della diversa situazione sistematica (cioè del fatto che la fenomenologia non ha più un compito propedeutico), questa immediatezza è ormai, di fatto, l’immediatezza di una mediazione già posta. Se l’anima rappresenta lo spirito soggettivo «in sé o immediatamente», la coscienza lo espone «mediatamente», cioè «nella sua relazione» (§ 387). La coscienza, dunque, non indica l’immediatezza dello spirito soggettivo, ma, nel suo momento sensibile, l’immediatezza di una differenza posta, di quella differenza costituita da un oggetto esterno e indipendente che rappresenta, come sappiamo, il fondamento dell’idea del conoscere. Scrive ancora Hegel nel § 413:

questo oggetto, come a lui [all’io] esterno, è ciò di cui l’io è primamente consapevole; – e così è coscienza. L’io, come siffatta negatività assoluta, è in sé, è l’identità nell’essere altro; l’io è esso stesso, e include l’oggetto come qualcosa di superato in sé; è un lato della relazione ed è l’intera relazione: – è la luce, che manifesta sé stessa, ed anche altro.

Rispetto alla considerazione dell’anima, la coscienza indica, perciò, una differenza, e quindi una mediazione. Se l’antropologia considera la condizione di indistinzione tra anima e mondo, e il sorgervi della differenza, la coscienza trova già posta la distinzione tra un soggetto e «un mondo che gli è esterno» (§ 412). Per tale verso, la coscienza è differenza posta, mediazione, non più semplice immediatezza. È opportuno tenere presenti queste pagine dell’Enciclopedia quando si avvicina la natura dell’inizio fenomenologico. Certo, come abbiamo sottolineato, la situazione sistematica è mutata, perché la fenomenologia ha perduto il suo compito propedeutico, e, coerentemente, non si concluderà nel sapere assoluto ma nella ragione, consentendo uno sviluppo nella psicologia. Tuttavia, non bisogna credere che la struttura del conoscere sensibile sia mutata radicalmente. Anche nella Fenomenologia dello spirito, la certezza sensibile è bensì immediatezza (e perciò inizio), ma (come avremo presto occasione di verificare) è immediatezza che include una mediazione, una differenza, anzi la differenza su cui si fonda l’intera sfera

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del conoscere, quella tra un soggetto conoscente e un oggetto esterno. Ciò che importa, e che costituisce il centro della difficoltà, è la modalità di tale inclusione: cioè il fatto che, non diversamente dal § 418 dell’Enciclopedia, la mediazione deve nascondersi nella completa trasparenza, e offrirsi allo sguardo nella forma dominante dell’immediatezza.

VII La certezza sensibile si offre con due caratteri fondamentali. In primo luogo, essa si presenta come una conoscenza dotata di una ricchezza illimitata. Illimitato significa: senza fine, senza termine, e dunque anche (come vedremo) senza determinazione. Non ha un limite esterno, spiega Hegel, poiché si diffonde nel proprio elemento spaziale e temporale; né un limite interno, perché il suo intuire si può parcellizzare fino alle più infime particelle del microscopio:

Il contenuto concreto lascia apparire [läßt sie … erscheinen] immediatamente la certezza sensibile come la conoscenza più ricca, ossia come una conoscenza di ricchezza infinita, per la quale non è dato trovare alcun limite [keine Grenze zu finden ist], sia quando noi usciamo fuori [hinaus- … gehen] nello spazio e nel tempo, dove tale contenuto [er] si diffonde [sich ausbreitet], sia quando noi prendiamo un pezzo di tale abbondanza ed entriamo dentro [hineingehen], nello stesso pezzo, attraverso una partizione [durch Teilung in dasselbe]. (FDS, p. 81)

In secondo luogo, la certezza sensibile si presenta come una conoscenza immediatamente vera. Verità significa qui: il conoscere adegua originariamente, cioè immediatamente, il proprio oggetto. In modo analogo, il nous aristotelico (Enc., § 389) è talmente vero da escludere la possibilità dell’errore:

in tale determinazione ancora astratta, l’anima è soltanto il sonno dello spirito, – il nous passivo di Aristotele, che, sotto l’aspetto della possibilità, è tutto.

L’intuizione originaria della cosa è infallibile, è la verità stessa nella sua accezione più elementare.

Essa, questa conoscenza, appare inoltre come la più vera; poiché dell’oggetto essa niente ha ancora omesso [weglassen], bensì lo ha davanti a sé nella sua intera completezza [in seiner ganzen Vollständigkeit]. (FDS, p. 81)

Bisogna insistere su questo carattere di verità della certezza sensibile. La certezza sensibile si muove nell’orizzonte del conoscere, che è orizzonte di differenza, e perciò assume l’idea di verità come conformità dei diversi. Ben presto, nelle righe appena successive, questa differenza presupposta riemergerà in primo piano. Ma qui, nell’apparire immediato del conoscere, noi ci troviamo in una situazione paradossale. La coscienza continua a intendere la verità come conformità, ma, per la sua immediatezza, restringe,

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fino a occultare, lo spazio del negativo. Per un verso, ha l’oggetto vor sich, di fronte a sé: e dunque se lo pone innanzi come un altro, come un differente dalla coscienza. Ma, per altro verso, lo possiede compiutamente, in modo immediato, senza tralasciare nulla del suo essere. In questo senso la coscienza è nella verità, perché ha consumato la differenza dell’oggetto nell’atto stesso di presupporla, e vi coincide perfettamente. La coscienza ha vor sich l’oggetto, ma, al tempo stesso, è risolta nel suo essere. Questo è il paradosso (e la contraddizione) in cui si pone. Per l’immediatezza di questa relazione (che, per non weglassen, per non tralasciare nulla dell’oggetto, in realtà tralascia, mette in oblio, la stessa differenza dell’oggetto), il conoscere è die wahrhafteste, il più vero, il verissimo: cioè un conoscere talmente vero che, emancipato dal negativo, non può trovare difformità, errore. Esso afferra immediatamente l’oggetto nel suo essere.

Ma Hegel aggiunge subito che, non per noi ma per la coscienza stessa, questa ricchezza e verità si risolve in una povera cosa. Cerchiamo di capire perché questa conoscenza è die abstrakteste und ärmste Wahrheit, la più astratta e la più povera. Dell’oggetto, infatti, la coscienza può afferrare soltanto l’essere:

Questa certezza però si dà nel fatto a vedere [gibt … aus] come la verità più astratta e più povera. Essa dichiara di ciò che sa soltanto questo: è; e la sua verità contiene soltanto l’essere della cosa. (FDS, p. 81)

Il conoscere è il più vero e, al tempo stesso, il più povero. È il più vero perché non tralascia nulla dell’oggetto, e coincide perfettamente con l’essere della cosa. Per tale conformità, non può errare, è saldamente insediato nella verità. Ma è il più povero perché, non tralasciando nulla dell’oggetto, esso si costringe a cogliere il solo essere, das Sein der Sache. Se quel conoscere deve essere immediato, la cosa non può presentare in esso qualità, che implicherebbero una differenza e, dunque, una mediazione. Fermandosi all’essere, il conoscere non può determinare il proprio oggetto. Ogni oggetto è lo stesso, astratto e indeterminato, essere. La coscienza stessa (l’altro capo della differenza che abbiamo presupposta) può manifestarsi solo als reines Ich, come un puro Io. Cioè: non può avere facoltà che interferiscano con l’atto di apprensione immediata. L’Io non può intervenire con rappresentazioni, immaginazioni o pensieri. Le due espressioni che ora Hegel introduce – il questo e das Einzelne, il singolo – sottolineano appunto la situazione di assoluta semplicità dei termini della relazione (l’Io e la cosa), e dunque la purezza assoluta del rapporto, della relazione che costituisce la certezza che la coscienza ha del suo oggetto.

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Data la differenza di pensiero ed essere (perché questa è la posizione della coscienza e del conoscere in generale), la certezza sensibile si manifesta come intuizione del puro essere della cosa, e soltanto di esso. Ogni altra mediazione le è preclusa. La questità, la singolarità, tanto dell’oggetto quanto dell’io che lo apprende, accade nel segno dell’indistinguibile. L’oggetto non si distingue né in sé né da altri oggetti; l’io è un puro io, incapace di distinguersi da altro. Eppure, continuiamo a parlare di un io e di un oggetto, a presupporre una distinzione tra termini che, considerati nella fisionomia speculativa, non tollerano alcuna differenza. Bisogna insistere ancora sulle due tensioni che attraversano questa pagina iniziale di Hegel.

In primo luogo, la certezza si manifesta bensì nel segno dell’immediatezza, dell’assoluta semplicità del conoscere, ma pur sempre come un conoscere: per questo, il discorso che la concerne deve, per così dire, frammentare l’immediatezza nella differenza dei termini che la costituiscono. È un’immediatezza che già presuppone una differenza e la necessità di una relazione. Semplice è l’oggetto della coscienza, semplice è l’io che rappresenta la coscienza stessa, semplice è la relazione che li unisce: tuttavia, la semplicità di questi termini deve distinguersi, perché la coscienza, per la sua essenza, ha presupposto la realtà della distinzione tra sé e il suo oggetto. Dunque, l’immediatezza si innesta sulla fede nella differenza. E dà luogo al paradosso di un’immediatezza che si presenta come immediatezza di termini differenti.

In secondo luogo, Hegel sottolinea (accompagnando la coscienza nel suo viaggio) la questità e la singolarità dell’oggetto della certezza. Ma tali termini acquistano subito un significato anch’esso (volutamente) paradossale. Il singolo còlto dalla coscienza è infatti, nel contempo, il puro essere della cosa, la semplice affermazione che la cosa è. La coscienza che afferra la semplicità della cosa non è ancora intelletto, non è pensiero, e dunque non può generalizzare e determinare le qualità del suo oggetto. L’oggetto della certezza sensibile non è fatto così e così, ma semplicemente

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è. Ciò significa che la questità e la singolarità della cosa corrispondono alla massima e più indeterminata generalità, cioè al puro essere dell’oggetto, di cui è impossibile stabilire i caratteri propri e distintivi. Dunque la singolarità è, in realtà, un’assenza di singolarità, se con questo termine si intende il rilievo determinato che l’oggetto può assumere nell’orizzonte del mondo.

VIII Nel passo succesivo, Hegel comincia (è il caso di dirlo) a giocare con le parole, e aggiunge due notazioni di rilievo. Se a prima vista la certezza sensibile si risolve nel puro essere, a ben vedere vi è in gioco (beiherspielen) noch vieles andere, ancora molto di più:

Cosa altro è in gioco? Considerata nella sua realtà (wirkliche), infatti, la certezza sensibile non è solo puro essere, non si ferma all’indeterminato, ma è anche ein Beispiel, un esempio, di quel puro essere. Bisogna soffermarsi su questa espressione che, improvvisamente, Hegel usa qui: das Beispiel, l’esempio. In senso etimologico: Spiel, gioco, bei, presso, in prossimità. Cosa accade realmente, quale Spiel, quale gioco, si svolge bei, in prossimità di questo atto immediato della certezza? La coscienza non pone soltanto il puro essere, ma, accanto a esso, anche il suo esempio. Non si limita a dire: intuisco l’essere; ma aggiunge: intuisco l’oggetto che è, esempio della mia pura intuizione dell’essere della cosa.

Con l’inserzione del Beispiel, incluso nella wirkliche sinnliche Gewißheit, nella reale certezza sensibile, abbiamo come il sovrapporsi di due immagini del conoscere sensibile, l’una iscritta nell’altra. La prima immagine è quella dell’immediatezza, che fin qui Hegel ha messo in evidenza: la coscienza si risolve nell’essere della cosa, e perciò nasconde le differenze che la costituiscono come figura del conoscere. La seconda immagine, invece, recupera quelle differenze come un mero fatto, come un accadere nella reale certezza, senza giustificazione: la coscienza sensibile è quel conoscere che coglie bensì l’essere della cosa, ma che altresì pone, accanto a esso, la determinazione dell’oggetto nella forma di un Beispiel, di un esempio, del suo proprio atto conoscitivo.

A prima vista sembra che Hegel lasci cadere subito questa complicazione del Beispiel. Sembra dire: a voler guardare a fondo vengono fuori tante differenze che, nell’immediato, non ci dovrebbero stare. Ma poi, passando oltre la questione del Beispiel, va subito diritto alla Hauptverschiedenheit,

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alla differenza principale; che cioè la coscienza presuppone la differenza tra sé e l’oggetto, quantunque siano due immediati, cioè a rigore indistinguibili:

Che la coscienza presupponga la differenza, e non sia disposta a rinunziarvi, non lo diciamo noi, ma lei stessa, perché questo è il presupposto generale dell’idea del conoscere e della sua idea di verità. Ma noi possiamo riflettere su questa situazione, e svelare ciò che alla coscienza è ancora nascosto. Lo sveliamo, come ora si vedrà, ma lo mettiamo subito in parentesi, perché a questo medesimo esito dovrà arrivare la coscienza stessa, per il suo interno movimento fenomenologico. Ciò che noi vediamo è che i termini immediati, per via di quella presupposizione, sono in realtà mediati l’uno attraverso l’altro. Dove c’è differenza, come si sa, c’è sempre mediazione:

Bisogna ammettere che l’argomentazione di Hegel è un po’ contorta. Vi si intrecciano due linee. Da un lato, Hegel mostra la natura solo apparente di questa pura immediatezza. Se noi osserviamo questa semplicità, afferma, vediamo che essa si fonda su differenze, cioè nasconde una serie di mediazioni: la coscienza come io si distingue dall’oggetto di cui ha certezza; e quindi, ciascun termine sussiste attraverso l’altro, nella mediazione reciproca. L’immediatezza rivela così un fondamento di mediazione, anche se la certezza sensibile è ancora il luogo di quel nascondimento, non intende la propria essenziale mediazione. D’altro lato, però, a questo argomento Hegel ne sovrappone un altro, quello che fa leva sul Beispiel, sull’esempio. A rigore, la certezza sensibile coglie soltanto l’essere della cosa, cioè l’oggetto nella sua indeterminatezza. Tuttavia, essa aggira la povertà del proprio sapere presentando il determinato come esempio dell’indeterminato. Nella certezza sensibile, la determinazione rientra in gioco, ma senza alcuna giustificazione. La determinazione, che è mediazione, si affaccia perciò, se quella certezza deve essere un conoscere, allo stesso modo della differenza tra l’io e l’oggetto.

IX Il noi si è inserito nella considerazione fenomenologica, indicando la mediazione nascosta e occultata nel dominio immediato del conoscere

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sensibile. Ma l’inserzione del noi deve essere ora ripresa nel ritmo della cosa, perché – spiega Hegel – nella coscienza stessa si trova quella differenza:

Il conoscere sensibile è immediato, ma è pur sempre un conoscere. Conoscere, come sappiamo, significa presupporre la differenza, cioè avere fede nella differenza di pensiero ed essere, e riporre l’idea di verità nella corrispondenza di questi due diversi (assumendo però l’essere come criterio fondamentale del pensiero e della relazione stessa). L’immediatezza del conoscere sensibile non può superare questo limite della differenza presupposta. E perciò la coscienza è costretta a riporre la sfera della determinazione nella figura dell’esempio, del Beispiel, come ciò che sta accanto al semplice essere dell’ente intuito. L’intuizione sensibile dell’oggetto è un atto di adeguazione assoluta, ma è pur sempre un atto di adeguazione, in cui pensiero ed essere si unificano immediatamente nella loro differenza.

Così, dapprima (vedremo fra breve come questa situazione sia destinata a evolversi), l’intuizione afferra l’essere dell’oggetto come un indipendente, come l’essenza e la verità. Nell’essere dell’oggetto l’io si smarrisce e si annulla, come l’inessenziale e l’indifferente rispetto alla verità della cosa:

Questo improvviso naufragio della coscienza di fronte al suo oggetto segna un passaggio forte nell’argomentazione hegeliana, che merita di essere sottolineato. Nella forma immediata della certezza sensibile, la differenza tra coscienza e oggetto sembrava, in effetti, nascosta dall’atto di assoluta adeguazione che la caratterizzava. Ma l’adeguazione era stata tuttavia presentata da Hegel come un possesso integrale dell’oggetto, o meglio come un coglimento immediato del semplice essere della cosa. La verità della coscienza si raccoglieva, fin dall’inizio, nell’enunciato relativo all’oggetto: esso è; esso è. Non solo dunque l’essere – il puro, indeterminato essere – ma (in una sorta di riemergere della differenza) l’essere di ciò che si poneva dinanzi alla coscienza. La verità della coscienza, raccolta in quell’enunciato, era dunque, fin dal suo primo apparire, una specie di naufragio della coscienza stessa nell’essere di un oggetto presupposto come altro da sé. E ora Hegel si accinge ad approfondire l’esame di questa situazione.

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Se dunque rappresentiamo la relazione immediata della coscienza e del suo oggetto (cioè la certezza sensibile nel suo primo apparire), ciò che emerge è l’essere della cosa, nella sua pretesa singolarità. Per la coscienza (e mettendo ora tra parentesi le osservazioni che il noi ha poc’anzi svolto), solo questa singolarità è presente. E tuttavia ora cominciamo a interrogare la conoscenza sensibile, a porle delle domande. Le chiediamo qualcosa. Chi domanda? Come domanda? Intorno a cosa domanda? Si tratta, dice Hegel, di considerare (betrachten) quell’essere, quell’oggetto, che la coscienza pone come l’essenziale e come la verità. Di considerarlo, per vedere se il Begriff, il concetto dell’essere, come la coscienza lo pone, entspricht, corrisponde, wie er in ihr vorhanden ist, a come l’oggetto è presente in lei. Chi interroga? Il noi. Intorno a cosa? Intorno all’essere dell’oggetto, cioè intorno alla verità. Come interroga? Questo è il punto più delicato. Il noi vuole verificare se il concetto dell’oggetto (la verità e l’essenziale) corrisponde alla presenza, in der Tat, nel fatto, di questa situazione. La coscienza dice che l’oggetto è l’essenziale, il vero; ma le cose stanno come dice la coscienza? La coscienza coglie la propria situazione per come è, oppure si inganna intorno a essa?

La natura di questo interrogare (Hegel scrive betrachten, considerare, ma tra dopo dirà fragen, domandare) ci pone di fronte a un passaggio cruciale dell’intera Fenomenologia. Possiamo osservare qui l’intera questione del für uns, del per noi, nell’atto di venire esercitata e di condizionare la struttura fondamentale dell’opera. Riassumiamo brevemente. In primo luogo, Hegel ha mostrato come stanno le cose per la coscienza: essa ritiene di afferrare l’essere della cosa, ossia la verità, con un atto di adeguazione assoluta, con rigorosa immediatezza. La coscienza stessa, in quanto io, è volentieri naufragata nell’emergere della luce dell’essere, del volto autentico dell’oggetto. In secondo luogo, Hegel ci ha detto come stanno le cose per il noi: la coscienza si illude intorno all’immediatezza di questo suo atto, perché questa immediatezza occulta una differenza, ossia una mediazione, più originaria, e dunque si vede costretta a rappresentare la stessa determinazione dell’oggetto come un esempio del suo puro intuire. Questa duplice considerazione – dal punto di vista della coscienza e dal punto di vista del noi – sembrerebbe esaurire la questione. Ma se fosse così, se la questione fosse davvero esaurita, un discorso fenomenologico non si potrebbe avviare. Da un lato, infatti, la coscienza resterebbe ferma nella sua persuasione; d’altro lato, la filosofia la avrebbe bensì confutata, ma in una forma riflessiva, lasciandola inalterata, senza riuscire a trascinarla nel ritmo dialettico del proprio oltrepassamento. Occorre, dunque, che la coscienza si metta in movimento, si disponga a oltrepassarsi, ma che lo faccia non in virtù di una critica che la filosofia le

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rivolga, ma in virtù di sé stessa. Il noi deve ripiegare nella perfetta trasparenza della propria immagine. Eppure, come si è visto, può farlo fino a un certo punto. In qualche modo, il noi deve anche intervenire nella situazione della coscienza, ossia deve interrogarla a proposito della sua intrinseca coerenza. Se la domanda non accadesse, se la filosofia non si rivolgesse alla coscienza con il suo pressante appello, questa, la coscienza, resterebbe immobile nel proprio atto contraddittorio, continuerebbe a nascondere il fondamento del suo stesso discorso. La differenza, come si vede, rischia di apparire sottile. E su questa sottigliezza si gioca il destino del Weg fenomenologico. Il noi non opera la critica esterna della coscienza, ma betrachtet, considera la sua situazione, la interroga, e lascia accadere la domanda che ne segna il destino di oltrepassamento. È come se la certezza sensibile mostrasse qui un duplice livello di realtà. Da un lato, la coscienza è la presenza, come è nel fatto, ossia la situazione fenomenologica che essa stessa genera. D’altro lato, però, la coscienza è anche ciò che dichiara di essere, la sua presunzione di essere qualcosa che, nel fatto, essa non è. Il Betrachten, il Fragen, operato dal noi, riconduce la coscienza dall’illusione alla realtà. In questo senso, l’analisi fenomenologica si pone un compito veritativo: cerca l’autentica conformità alla cosa stessa, e la dichiara per quello che è. L’analisi fenomenologica è, con ciò, una confutazione; ma una confutazione che distingue tra riflessione esterna e considerazione/interrogazione della cosa. Ciò che differenzia questi due metodi (come vedremo meglio fra breve) è che, mentre la riflessione toglie l’oggetto, la considerazione/riflessione lo lascia essere, seguendone il movimento oltrepassante, e dunque includendolo nella verità concreta della scienza.

X Riassumiamo brevemente le nostre ultime considerazioni. La coscienza, nel suo significato elementare, ha la pretesa di cogliere l’oggetto nella forma immediata. A ragione di tale immediatezza, per cui, a rigore, nessuna mediazione dovrebbe introdursi nell’atto conoscitivo, la coscienza può afferrare solo l’essere della cosa. Come tale, l’essere è l’indeterminato, il venire meno di ogni determinazione e, quindi, di ogni mediazione. Ma siccome la coscienza ha la struttura di un conoscere (di un Io che conosce un oggetto), questo essere non può presentarsi nella sua purezza (come accadrà nella Scienza della logica), ma entra in un gioco, nel quale deve mantenere accanto a sé la mediazione, la determinazione, nella forma di un semplice accadere, di un esempio (Bei-Spiel, bei-her-spielen) del suo puro intuire. A questo punto, nelle ultime righe di p. 82, Hegel ha introdotto una considerazione, sottolineando il wir, il noi. In tale situazione, noi possiamo osservare qualcosa. Possiamo osservare che l’immediatezza del conoscere sensibile non è affatto un’immediatezza: perché è un’immediatezza che presuppone la differenza dei termini, e che si iscrive in essa. La coscienza è

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certezza, cioè essere-certa di qualcosa, soltanto mediante altro: se non si mediasse con altro, essa non sarebbe certezza, ma pura coscienza. D’altra parte, l’oggetto è quello che è (l’essenza, la verità) solo perché la coscienza ne è certa: ossia è attraverso la coscienza che lo apprende. Questa considerazione del noi può apparire risolutiva. La situazione della coscienza smentisce la pretesa di un sapere immediato (sapere e immediatezza non stanno insieme). Ma ha un vizio di forma. Siamo noi che rivolgiamo questa critica, in forma riflessiva, ma non è ancora la coscienza che, da sola, si oltrepassa. La fenomenologia non ha la forma riflessiva, ma quella dialettica, per cui la coscienza stessa è chiamata a superare il proprio limite.

La considerazione riflessiva del noi deve perciò essere messa in parentesi (p. 83, all’inizio). Dobbiamo ricominciare daccapo, facendo vedere che la coscienza è inclusa nel movimento che la supera. Ma come si fa? Se abbandoniamo del tutto la coscienza alla propria illusione, la situazione sembra bloccata. La coscienza continuerà a credere che il proprio sapere è verace, che il suo apprendere sensibile è immediato.

Per questo, abbiamo osservato che nel testo si delineano due tensioni. In primo luogo: non possiamo né criticare la coscienza nella forma riflessiva, né abbandonare la coscienza alla propria illusione. Ma possiamo interrogarla: chiederle conto delle sue parole, fare emergere in lei, con la nostra domanda, l’antitesi tra ciò che dichiara di essere e ciò che è nel fatto. L’oggetto della domanda è la Entsprechung, la corrispondenza tra il concetto dell’oggetto e la sua realtà.

In secondo luogo, da questa forma dell’interrogare deriva che la coscienza si presenta, nell’analisi fenomenologica, con una duplice fisionomia. È questa l’asimmetria dentro cui si inserisce il Weg fenomenologico. Da un lato la coscienza è la situazione di fatto che essa ha generato, quella situazione che manifesta la mediazione. D’altro lato, però, la coscienza è persuasione, opinione, cioè l’occultamento di quella mediazione nella pretesa che, qui, la mediazione non ci sia, e che il conoscere accada nel segno della pura immediatezza. Questa asimmetria tra l’opinione e la realtà costituisce propriamente l’illusione della coscienza. È una mancata Entsprechung, una non-corrispondenza tra parola e realtà, cioè un errore. Questo errore, però, non va criticato riflessivamente, ma lasciato emergere: l’errore che emerge, che toglie il velo dalla realtà, è infatti ciò che chiamiamo Aufhebung, superamento, passaggio alla percezione come figura ulteriore e più ricca.

Il passo celebre che segue va dunque inserito in questa difficile situazione, esemplare dell’intero profilo del percorso fenomenologico. Also, quindi, Sie selbst, a lei stessa, alla coscienza, ist, è, si deve, zu fragen, chiedere: Was ist, cosa è, cosa è nel fatto, cosa è nella presenza, das Diese, il questo, cioè l’essere dell’oggetto, che si è posto come il puro questo?

Tale oggetto sensibile – il questo – ha una doppia forma. Quando io afferro intuitivamente l’oggetto, non intendo afferrare la nozione o l’idea dell’oggetto in generale (il tavolo), ma questo oggetto (questo tavolo), che è ora e qui. Ecco la gedoppelte Gestalt seines Seins, la forma raddoppiata del suo essere: il questo è nell’ora ed è nel qui. Das Jetzt e das Hier, l’ora e il

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qui, indicano la semplice presenza in cui il questo si manifesta e si offre allo sguardo della coscienza. Esso, l’oggetto sensibile, si presenta. Se l’oggetto della certezza sensibile non fosse qui-ora, esso non sarebbe semplicemente presente, cioè non sarebbe l’oggetto di un’apprensione immediata. Se non fosse qui-ora, occorrerebbe ammettere una distanza, ossia una mediazione. Infatti, se non fosse nell’ora, sarebbe passato o futuro, prima o dopo rispetto all’ora, quindi non sarebbe: la negazione, il non, inserirebbe la differenza e la mediazione, smentendo la premessa. In modo analogo, se non fosse qui, l’oggetto sarebbe là, a una distanza dalla coscienza. Ma passato, futuro, lontananza, non possono essere ammessi nell’immediatezza della certezza sensibile.

Tuttavia (ecco un aspetto essenziale per intendere il testo di Hegel), l’ora non va inteso come un istante nella serie del tempo, né il qui come un punto discreto nell’estensione dello spazio. Tempo e spazio non trovano ancora un posto appropriato in tale situazione logica. Il questo è la semplice indicazione di una presenza assoluta dell’essere della cosa, che non ha nulla prima o dopo, né altri oggetti di qua e di là. Il questo, l’oggetto della certezza sensibile, è solo un’assoluta (semplice, pura) presenza:

La domanda Was ist das Diese? deve dunque tradursi in due distinte domande: Was ist das Jetzt?; Was ist das Hier?. Cominciamo dalla prima, e chiediamo alla coscienza cosa sia l’ora, l’orizzonte nel quale l’oggetto è afferrato e posto come fondamento della verità. Nella pagina che segue, Hegel inizia con un esempio, e via via lo raffina in una considerazione più generale. L’esempio dice: das Jetzt ist die Nacht, l’ora è la notte. Io afferro la notte, la presenza di questa notte. È notte (questa notte è) solo perché la colgo nell’ora, nell’adesso.

In tale situazione compaiono due elementi: das Jetzt e die Nacht, l’ora e la notte. La notte è questa notte solo perché coincide con l’ora. Il suo questo è legato a tale coincidere. Se la notte non fosse nell’adesso, essa non sarebbe questa notte. Ma così, la questità della notte è legata al destino di un elemento – l’adesso – che non è una questità, ma che invece permane nel mutare di ogni questità. L’ora è tanto il giorno quanto la notte, tanto il tavolo quanto la finestra. L’ora permane nella sua essenza, ed è indifferente al questo dell’oggetto. Se l’ora è il fondamento dell’intuizione sensibile, la verità non è questo oggetto, ma un astratto, un universale, e dunque una negatività. Il questo, che dovrebbe rappresentare la verità della coscienza, si scinde dunque nei due elementi che lo costituiscono, e che mostrano un diverso destino. Da un lato, infatti, das Jetzt, l’ora, è (come vedremo fra breve) una nozione indeterminata, generale e negativa, che non è in grado di restituire la questità del questo. D’altro lato, die Nacht, la notte, indica bensì la determinazione dell’oggetto, ma come un mero accadere, del tutto

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indifferente a quella situazione di presenza che, attraverso l’ora, dovrebbe caratterizzarlo. Il questo si divide, perciò, e si frantuma, nella diversa prospettiva di una generalità indeterminata e di un singolare accadere privo di ragione. Torniamo ora sul testo di Hegel:

Hegel ricorre a un semplice Versuch, esperimento. Propone di aufschreiben, di scrivere, annotare, la verità della coscienza. Questo riferimento alla scrittura anticipa quello che vedremo fra breve a proposito del linguaggio.

Si faccia attenzione alla struttura dell’esperimento mentale proposto da Hegel. Non vuole dire che al primo ora è seguito un ora ulteriore, secondo una successione nella linea temporale, ma che l’ora si mantiene, permane sempre eguale a sé stesso. A questo permanere fa riscontro un diverso accadere dell’oggetto, che da notte si è fatto giorno. Infatti aggiunge:

La notte è tramontata nell’accadere del giorno, ma l’ora wird aufbewahrt, si è conservata eguale a sé. Considerata in sé stessa, dunque, l’ora è un essere identico a sé e indifferente ad altro. Ma considerata nella situazione della coscienza, l’ora – aggiunge Hegel – è piuttosto ein Nichtseiendes, un non-essente, ein Negatives überhaupt, un negativo in generale: è sempre eguale a sé, ma sempre in relazione a ciò che essa non è, al giorno e alla notte. Nella prospettiva della certezza sensibile, l’ora è determinata da qualcosa (l’accadere dell’oggetto) che è sempre diverso da ciò che essa è. Si torna con ciò al Beispiel, all’esempio, al giocare accanto della determinazione rispetto all’essere della cosa. Qui, è ormai l’accadere dell’oggetto (il giorno e la notte) che gioca accanto al puro, indeterminato essere dell’ora.

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Das Jetzt, l’ora, si conserva indifferente gegen das, was noch bei ihm herspielt; verso ciò, che ancora gioca presso di lui. Rimane indifferente verso l’accadere dell’oggetto, del giorno e della notte; e, conservandosi, non si determina nella cosa. Così, a fondamento della questità dell’oggetto vi è, in realtà, un Nichtdieses, un non-questo, la negazione del questo. Ciò che possiamo definire ein Allgemeines, un universale, nel senso di una generalità vuota di contenuto e incapace di accoglierlo. Il risultato dell’analisi a cui Hegel ha sottoposto la certezza sensibile giunge quindi a spezzare l’unità del questo, della verità della coscienza. Il questo si spezza nell’impossibile convivenza degli elementi che lo costituiscono. Da un lato, esso è fondato su ein Nichtdieses, sul non-questo, cioè su un universale privo di determinazione. D’altro lato, incontra la questità solo nel vario e ingiustificato accadere dell’oggetto, che gioca accanto all’ora, come un diverso e un negativo.

Anche la natura del linguaggio smentisce la coscienza, o meglio la sua Meinung, l’opinione secondo cui l’oggetto è il vero. La verità è enunciata (gesprochen) come il questo, l’universale questo; ma il questo, enunciato nel linguaggio, non è questo, ma ogni questo: una nozione generale e astratta che non può mai cogliere la singolarità. Questa inserzione del linguaggio era stata anticipata dall’esperimento mentale che Hegel aveva proposto, cioè dalla scrittura della verità della coscienza. Ora viene resa più esplicita. Bisogna fare attenzione al vocabolario che qui viene messo in campo. Aussprechen, sagen: enunciare, dire, dichiarare, mettere nella forma del linguaggio. Meinen, Meinung: opinare, opinione, mettersi dal punto di vista della coscienza, della sua persuasione obliante. Vorstellen, Vorstellung: rappresentare, rappresentazione, ciò che rappresentiamo attraverso il dire del linguaggio. Leggiamo:

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Auch, anche, inoltre, wir sprechen … aus, noi esprimiamo, il sensibile come ein Allgemeines, come un universale. Nell’enunciare la verità della coscienza, infatti, ricorriamo al questo, che significa ogni questo, l’essere di qualcosa in generale. È vero, aggiunge Hegel, che, quando parliamo così, evocando un questo universale e indeterminato, wir stellen … vor, noi rap-presentiamo, poniamo avanti a noi, qualcosa di diverso, cioè un questo individuato, determinato. Questa è la Meinung, l’opinione, della coscienza, che ritiene di porre un oggetto determinato enunciando, al contrario, una generalità. Ma qui, tra ciò che l’opinione si rappresenta e ciò che il linguaggio dichiara, die Sprache aber ist, wie wir sehen, das Wahrhaftere; il linguaggio è però, come vediamo, il più vero. Il linguaggio rivela quello che la certezza sensibile occulta, confuta la sua pretesa, e si pone immediatamente in contraddizione con la Meinung della coscienza. Tra il questo dichiarato dal linguaggio e la sua pretesa di questità si apre dunque la stessa contraddizione che, poco fa, abbiamo osservato tra l’ora e l’accadere dell’oggetto.

XI

La seconda forma dell’oggetto è il qui, das Hier. Ma anche il qui non è questo qui, ma un qui generale, che si conserva nel mutare degli oggetti spaziali:

Anche per tale verso, dunque, la verità della coscienza è solo Meinung, opinione, la persuasione del determinato a cui, nella cosa, corrisponde il contrario, cioè l’astrazione, che è mediazione e negazione:

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Ciò che la situazione erweist, mostra, è dunque che la verità della certezza sensibile è das rein Allgemeine, il puro generale, universale: l’ora e il qui. Per un verso, possiamo ripetere che l’essenza della certezza sensibile è il semplice, puro essere della cosa. Ma, per altro verso, la questione non si risolve così. All’essere della cosa è parimenti essenziale la determinazione e la mediazione. La coscienza non si limita a porre il qui e l’ora; accanto all’universale, vuole cogliere il giorno e la notte, l’albero e la casa. Ma tale mediazione non ha alcuna necessità, è soltanto opinione, Meinung, persuasione senza verità. La situazione, dice Hegel, hat sich umgekehrt, si è rovesciata: la coscienza aveva indicato l’oggetto individuale come la verità; ma l’oggetto si è manifestato come un universale, come l’indeterminato, come l’inessenziale. Ciò che rimane è il sapere l’oggetto, cioè la forma che all’oggetto offre l’Io. Ora l’essenziale non è l’oggetto, ma il soggetto:

XII La prima forma della conoscenza sensibile è naufragata. La coscienza, nel suo intuire immediato, aveva posto la verità nell’essere dell’oggetto, rendendo inessenziale e trasparente sé stessa. Riteneva di afferrare il singolo ente (il giorno, la notte, la casa, l’albero) nella sua pura immediatezza. Ma quando alla coscienza abbiamo chiesto ragione del suo conoscere, quando l’abbiamo interrogata, affinché esprimesse con il linguaggio, cioè determinatamente, l’oggetto del proprio conoscere, il suo sapere si è invertito: l’oggetto si è dissolto come individuo determinato e si è trasformato in un vuoto universale. Per questo, la coscienza ha tolto la verità dall’oggetto, e la ha posta nella propria immediatezza, nel sé come Io. Ma cosa è l’Io, che ora si presenta come fondamento della verità? Per la prima volta, la conoscenza sensibile fa appello ai sensi: alla vista, all’udito, al gusto. L’Io vede il tavolo, sente questi rumori, assapora questa bevanda. Il dileguare del qui e dell’ora wird dadurch abgehalten, dass Ich sie

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festhalte, viene con ciò evitato, perché Io lo trattengo; l’oggetto esiste perché Io lo apprendo con i sensi, lo tengo fermo in me, lo accolgo:

Questa è, dunque, la situazione che abbiamo di fronte. Nel suo primo apparire, la certezza sensibile manifestava un Verschwinden, un dileguare, della determinazione, dell’oggetto, nel mantenersi della generalità del qui e dell’ora. L’oggetto non riusciva a conservarsi nella presenza, se non come semplice “essere della cosa”. Ciò che doveva essere conosciuto, saputo, tenuto fermo (il giorno, la notte, la casa, l’albero), dileguava nel permanere di un puro essere. Ora, dice Hegel, questo dileguare wird abgehalten, viene evitato, perché Io fermo, trattengo, l’oggetto dileguante nella mia presenza che permane. Il giorno può farsi notte, ma esso è il giorno, perché Io lo ospito nel mio mantenermi e lo vedo, lo ascolto, ecc. Eppure qui accade qualcosa di simile a ciò che accadeva nella situazione precedente. Prima, l’ora e il qui persistevano nel mutare dell’oggetto. Adesso, l’Io persiste nel mutarsi dell’apprensione sensibile. Io vedo l’albero; Io vedo la casa. L’Io permane indifferente al mutarsi dell’oggetto. Rivela con ciò di non essere il fondamento della singolarità, della determinazione della cosa:

Hegel scrive: ein anderer Ich, un altro Io. Espressione che non va intesa, però, come se avessimo di fronte una molteplicità di Io (di individui) senzienti, ciascuno dei quali vede una cosa diversa dall’altro. Ich, Io, è ein anderer Ich, un altro Io, solo perché può indifferentemente riempirsi di ogni diverso contenuto, dell’albero come della casa. Ich è ein anderer Ich a ragione della sua generalità. La determinazione dell’oggetto accade bensì nel suo sentire (di nuovo, gli gioca accanto, come un esempio del suo sentire), ma dilegua incessantemente di fronte al suo astratto permanere. Ciò che noi, in realtà, troviamo, non è il sapere dell’oggetto, ma il semplice permanere dell’Io nel dileguare di ogni determinazione. Perciò ora Hegel scrive, sciogliendo l’equivoco che quel ein anderer Ich poteva generare:

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L’inversione che la coscienza ha compiuto, situando non più nella cosa ma in sé l’essenza della verità, non ha dunque modificato sostanzialmente la situazione. Proprio come accadeva nell’ora, nel qui, nel questo, vi è un Allgemeines, un universale, semplice e indifferente, gegen das, was noch beiherspielt; verso ciò, che gli gioca accanto. L’essenza della verità è un universale astratto, privo di determinazione, accanto al quale accade l’oggetto, senza che, tra la verità e la determinazione, si stabilisca un’autentica relazione. È ovvio, spiega Hegel, che la coscienza vuole dire l’Io singolo, questo Io che non è quello, ecc. Ma questo singolo Io è ogni singolo Io, è l’Io in generale, è solo un universale indifferente alla singolarità:

Ich meine, io opino, einen einzelne Ich, un Io singolo, ma in realtà non posso sagen, non posso dire, ciò che è soltanto nella mia opinione. La situazione non corrisponde affatto a ciò che la Meinung del conoscere sensibile afferma. Di nuovo, se noi fragen, se noi interroghiamo, la Meinung, l’opinione, del sapere sensibile, vediamo che essa non è adeguata a quello che si presenta. Il sapere sensibile opina che l’Io è un Io singolo, cioè determinato, aderente al suo oggetto; ma in realtà, l’Io è astratta generalità, è soltanto Io in generale, alla cui costituzione d’essere è perfettamente indifferente l’accadere dell’oggetto determinato. La verità è altro dalla determinazione, sia quando viene indicata nell’essere della cosa sia quando la si collochi nella coscienza come Io. Di qui, la conclusione generale, che ora Hegel trae dal suo discorso. Alla scienza si chiede di giustificare questa cosa o questo uomo. Ma, nell’ambito del conoscere, la scienza non può giustificare l’individualità determinata: il conoscere non rende ragione della determinazione. Alla scienza viene posta la domanda, die Forderung, di trovare dieses Ding, questa cosa, questo oggetto. Ma la Forderung, la domanda del conoscere, dovrebbe intanto dire (sagen) cosa intende (sie meine) con tale espressione. In certo modo, richiamandosi di nuovo al linguaggio, qui Hegel ricorre alla movenza aristotelica, allo elenchos (vedremo fra poco come Hegel riprenda la questione del sagen, del dire). Se la coscienza parla si riduce al silenzio, si fa tronco, in quanto le sue parole dissolvono immediatamente il contenuto singolare della propria opinione. Infatti, è unmöglich, impossibile, esprimere quella individualità immediata:

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XIII Nell’analisi della certezza sensibile condotta fin qui, abbiamo seguito un duplice movimento. La coscienza ha posto la sua essenza, la verità, dapprima nell’oggetto poi in sé stessa come Io. In entrambi i casi la sua pretesa è naufragata. Questo movimento duplice e oscillante è quanto mai caratteristico del metodo fenomenologico, e lo ritroveremo, fra breve, nell’esame della percezione. Poiché la coscienza presuppone la differenza reale di un oggetto, un essere distinto dal pensiero, non può fare altro che porre la verità nell’uno o nell’altro termine che la costituiscono.

In questo brano, occorre ancora sottolineare il vocabolario che Hegel adopera. In primo luogo, il termine immediatezza significa qui verità, come essa appare nell’opinione della coscienza: la certezza sensibile, infatti, vuole afferrare l’oggetto con un atto immediato, riconoscendo la verità solo in tale immediatezza. In secondo luogo, il termine universale significa il mantenersi, il conservarsi, dell’ora, del qui, dell’Io, di fronte all’accadere della determinatezza (il giorno, la notte, l’albero, la casa) che gli gioca attorno: si tratta dunque di una vuota universalità, incapace di mediarsi con la realtà determinata. In terzo luogo, la non-sussistenza e il non-essere indicano appunto questa mancanza di esistenza: ciò che è opinato dalla coscienza non è, non sussiste, si presenta soltanto nel segno del non-essere.

Perciò, la coscienza è ora costretta a regredire, a retrocedere, a tornare indietro, a porre la sua essenza non più nei momenti che la costituiscono, ma nell’immediatezza dell’intero. Die ganze sinnliche Gewißheit selbst, la stessa intera certezza sensibile – scrive Hegel –, alle Entgegensetzung, die im vorherigen stattfand, aus sich ausschließt, esclude da sé ogni opposizione che aveva luogo precedentemente. Immediatezza dell’intero significa appunto questo: il venire meno delle contrapposizioni che, finora,

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hanno caratterizzato la coscienza. In modo particolare, ora la coscienza trascura, rimuove, elimina, l’opposizione che, in ciascuno dei momenti che abbiamo esaminato, tornava a dividere la vuota universalità dell’essenza (l’ora, il qui, l’Io) dall’accadere della determinazione. Questa opposizione, generata dal nostro interrogare, cade qui: non vi è più un giocare bei, accanto, della determinazione, né un Beispiel, un esempio, del puro intuire, ma l’oggetto sensibile deve essere afferrato per sé stesso, nell’intero della relazione.

La certezza sensibile ora trascura la differenza, rimane ferma al suo puro intuire. Non è più interessata al farsi giorno della notte, non accetta più il nostro esperimento, non prende nota del diverso accadere delle cose. Persiste nella sua semplice intuizione: Das Jetzt ist Tag, l’ora è giorno. E niente più. L’intero del conoscere sensibile non pone più la verità in uno dei momenti che costituiscono la relazione: pone la verità nella relazione stessa, come indifferenziata (e s’intende che, se la relazione è indifferenziata, essa non è, a rigore, una relazione). La coscienza – scrive Hegel – è un puro intuire. Conosce immediatamente questo, il tavolo o l’albero, il giorno o la notte, e rimane ferma a tale questo. Se io pongo la verità nell’oggetto, devo fare l’esperienza del suo mutare; se pongo la verità nell’Io, devo fare l’esperienza dell’alterazione del suo punto di vista. Ma se pongo la verità nel puro intuire, rimango fermo al questo, nulla si altera:

Cerchiamo di mettere in evidenza il punto fondamentale di questa nuova situazione. La coscienza non risponde più alle nostre domande. Nei passaggi

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precedenti, la abbiamo affrontata con il nostro betrachten, con il nostro fragen: la abbiamo interrogata fin quando il suo oggetto si è mostrato, nel fatto, difforme dall’opinione che essa ne aveva. Ora non possiamo più interrogarla, perché si è rifugiata nell’intero, non è più disposta a rispondere alle nostre domande. La coscienza, scrive Hegel, nicht mehr herzutreten will, non vuole più venire fuori. Perciò, aggiunge, non possiamo interrogarla, ma dobbiamo hinzutreten, farle visita: so treten wir zur ihr hinzu, così ci rechiamo noi da lei. Come vedremo in seguito, la coscienza non dialoga: rifiuta la parola, e si affida al gesto. Non accetta la confutazione condotta per l’equivocità del linguaggio, e vuole ricondursi alla cosa, limitandosi a farla vedere, a mostrarla. Il contrasto fra herzutreten e hinzutreten, venire fuori e recarsi (la coscienza che non viene fuori e il noi che si reca da lei) esprime la diversa situazione in cui ora ci troviamo e, dunque, il diverso andamento che il percorso fenomenologico deve qui assumere.

Ma cosa significa hinzutreten? Recarci da lei, dalla coscienza, significa lasciare che essa indichi il suo oggetto. Non possiamo più interrogare la coscienza, ma bisogna che lei si lasci zeigen, indicare, mostrare. L’espressione zeigen, che ora domina l’analisi fenomenologica, significa, in primo luogo, appunto questo: il noi non può interrogare la coscienza, ma deve immedesimarsi con essa, «penetrare nel medesimo punto del tempo e dello spazio», perché ogni distanza (il «dopo» e il «lontano»), introducendo una mediazione, violerebbe la sua pretessa di pura immediatezza. «Lasciarci immedesimare» traduce qui: wir müssen … uns zu demselben diesen Ich … machen lassen; che significa, letteralmente, qualcosa come: noi dobbiamo lasciarci fare, lasciarci condurre fino a …

Cosa accade quando la coscienza indica il suo puro intuire? Hegel descrive con precisione, nel passo che segue, la peculiare dialettica dell’indicare:

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Siamo penetrati (ci siamo immedesimati, dice non a torto la traduzione di De Negri) nell’indicare della coscienza. Ciò che la coscienza indica è das Jetzt, l’ora, dieses Jetzt, questo ora. Nell’atto stesso in cui viene indicato, es hat schon aufgehört zu sein, ha già cessato di essere. Das Jetzt, das ist, l’ora, che è, ist ein anderes als das gezeigte, è un altro rispetto a quello indicato. L’ora che la coscienza indica è ein gewesenes, un già-stato, un passato dell’essere: non è ciò che è, ma ciò che non è più. La coscienza opina di indicare l’essere, ma in verità indica un non-essere, un già-stato, ein gewesenes. Dobbiamo cercare di cogliere qui l’unico atto dello zeigen, dell’indicare. Ancora una volta, non abbiamo una successione lineare di istanti, ma un solo, immediato gesto. La coscienza indica l’essere, e, con ciò, sta indicando un non-essere-più. Seine Wahrheit, la sua verità, dice Hegel, è proprio in questo essere-stato e non-essere-più. Il questo ora indicato è un non-essere. L’essere della cosa sensibile non si lascia indicare, non ha la fermezza dell’essere, ma dilegua nell’atto stesso del suo porsi. Quando cerchi di afferrarlo, è già dileguato. L’essenza della cosa sensibile è la sua finitezza, la sua negatività. Ma questo, per la coscienza, è propriamente uno scandalo, una posizione che entra in urto con la sua Meinung, con la sua opinione.

XIV A questo punto, Hegel ci offre, per così dire, l’analisi dello zeigen, dell’indicare. Lo suddivide nei passaggi che lo costituiscono, lo decostruisce, lo scompone. Anzi tutto ci avverte che l’indicare non è una semplice immediatezza, ma eine Bewegung, un movimento, ossia una complessa mediazione:

Il movimento dell’indicare si articola in tre passaggi. Vediamo:

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In primo luogo, Ich zeige das Jetzt auf, Io indico l’ora, lo indico come la verità. Ma ciò che indico è als Gewesenes, come già-stato, oder als ein Aufgehobenes, o come un tolto-superato. Se l’ora è un tolto-superato, anche la verità (la prima verità) è, con ciò, tolta-superata. In secondo luogo, io pongo una zweite Wahrheit, una seconda verità. La seconda verità dice l’ora non è, che è un tolto-superato. In terzo luogo, nego quel negativo che costituiva la seconda verità, e torno ad affermare la verità (mediata) dell’ora. In altri termini, la coscienza crede bensì di afferrare la cosa con immediatezza, ma in realtà compie una intera Bewegung, un movimento, una mediazione, per la quale pone la sua verità negandone il dileguare. Per tenere fermo l’essere della cosa, la coscienza deve lasciar dileguare (terzo momento) quel dileguare dell’ora (secondo momento). Hegel ripete la stessa analisi, sottolineando che das Jetzt, l’ora, non è un semplice immediato, ma una mediazione che accoglie in sé la differenza. L’ora non è immediato, ma è ein Jetzt, welches absolut viele Jetzt ist, un ora che è assolutamente molti ora; und dies ist das wahrhafte Jetzt, das Jetzt als einfacher Tag, das viele Jetzt in sich hat, Stunden, e questo è il vero ora, l’ora come semplice giorno, che ha dentro di sé molti ora, cioè ore [Stunden].

Nelle ultime pagine sulla certezza sensibile, Hegel cerca di tirare le somme della difficile analisi compiuta. Possiamo riassumere questa conclusione in tre passaggi. La prima osservazione è che il finito è ideale, che gli oggetti

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sensibili non hanno alcuna realtà, non meritano tenerezza, come bene si apprende nei misteri eleusini e nella stessa vita animale:

In secondo luogo, l’oggetto sensibile, opinato come «verità e certezza assoluta», è in verità l’ineffabile, l’inesprimibile, non perché possieda una verità superiore alle cose espresse, ma perché non ha alcuna verità. La certezza sensibile non può determinare, individuare il suo oggetto:

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In terzo luogo, se il linguaggio ha la capacità di smentire l’opinione della coscienza, «di farla divenire altro e di impedirle così di pronunciar parola», ancora più evidente è la crisi della certezza sensibile quando essa rinuncia a parlare, e si affida al semplice indicare. Proprio attraverso il movimento dell’indicare emerge che l’oggetto non è semplice, immediato, ma un universale, «un insieme semplice di molti qui»:

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XIV Come accadeva nella certezza sensibile, anche la percezione inizia il proprio movimento ponendo l’essenziale nell’oggetto, e riducendo sé stessa, in quanto coscienza, all’inessenziale:

Ma l’oggetto della percezione si distingue da quello della certezza sensibile perché il suo orizzonte non è più l’immediatezza ma la mediazione: esso è ein vermitteltes, un mediato, e perciò si presenta subito come das Ding von vielen Eigenschaften, la cosa dalle molte proprietà. Per questo Hegel aggiunge che der Reichtum des sinnlichen Wissens, la ricchezza del sapere sensibile, non appartiene alla certezza, nella quale era soltanto das Beiherspielende, ciò che giocava accanto alla verità, ma appartiene propriamente alla percezione, che finalmente accoglie, nella sua verità, la negazione, ossia la differenza e il molteplice, nella figura delle «molte proprietà» che costituiscono l’oggetto. Scrive infatti:

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Fin qui, dunque, Hegel ha sottolineato in modo nitido la differenza tra l’oggetto della certezza sensibile e quello della percezione: l’uno immediato, e perciò incapace di accogliere la negazione (la quale, infatti, gli gioca accanto), l’altro finalmente mediato, e che quindi si configura nel segno della differenza, di una molteplicità di proprietà che lo costituiscono. Si tratta ora di vedere come, nell’unità dell’oggetto, possa per la coscienza introdursi quella ricchezza di proprietà che non accade (gioca) più bei, presso l’essenzialità dell’oggetto, ma dentro di lui, al punto di costituirne la natura propria. Dobbiamo anzi tutto esaminare questo oggetto mediato della percezione. Esso si presenta come un oggetto, un essere che è ein Allgemeines, un universale, perché, a differenza della certezza, ha an ihm, in lui (non bei, accanto) la mediazione e il negativo L’esempio che tra poco Hegel ci proporrà è quello del sale, che è bene tenere presente fin da ora:

Dunque:

L’essere ausdrückt, esprime, in modo immediato questo universale mediato, cioè come qualcosa di distinto e di determinato. Il «mentre» traduce un indem, in quanto. Per quanto il sale si presenti con molte proprietà (bianco, sapido, cubico, pesante), esso è immediatamente ciò che è, ossia sale:

Ma in tale espressione immediata dell’essere, sono poste zugleich, nello stesso tempo, molte proprietà (bianco, sapido, cubico, pesante), ciascuna delle quali non è l’altra. Nell’unità immediata dell’essere (il sale) c’è, perciò, un molteplice di diverse determinazioni, di differenti proprietà realmente distinte.

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Le molte proprietà della cosa sono distinte, altrimenti non renderebbero conto della mediazione costitutiva dell’oggetto. Ciascuna deve mantenersi indifferente verso le altre, libera dalle altre. Ma anche l’essere (il sale) deve distinguersi dalle sue proprietà, ed essere soltanto das Medium, il mezzo, dove le proprietà stanno, compenetrandosi, ma senza confondersi l’una con l’altra, cioè mantenendosi nella loro distinzione. Se venisse meno la differenza tra le diverse proprietà, e la differenza tra l’essere e le sue molte proprietà, l’oggetto non sarebbe più ciò che è. Se il bianco e il sapido non si conservassero distinti, l’oggetto non potrebbe essere bianco e sapido; se il sale e la bianchezza non si distinguessero, l’oggetto non potrebbe essere anche sapido.

Il Medium, il mezzo (il sale), è dunque il qui semplice (immediato), dove le diverse proprietà stanno: e vi stanno in modo che l’una è nel medesimo qui dove è l’altra, e tuttavia nessuna di esse entra di per sé in relazione con le altre, alterandone il profilo. Die Dingheit, la cosalità, consiste appunto in questo esteriore convivere dei differenti nello stesso luogo, nello stesso qui. Il sale è bianco ma è anche sapido, e così via. Ciò che davvero costituisce la Dingheit, la cosalità, è questo Auch, questo anche, che rappresenta das Medium, il mezzo, dove quelle proprietà convivono. Il sale è il sale, ma in quanto è bianco e anche sapido, ecc. Più precisamente, esso è das Auch, il semplice anche che tiene insieme quelle molteplici proprietà che lo costituiscono.

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Tuttavia, aggiunge Hegel, questa esposizione dell’oggetto della percezione non è completa. Si deve considerare noch eine Seite, ancora un lato, della questione. In effetti, noi abbiamo detto che le molte proprietà della cosa devono mantenersi reciprocamente indifferenti e tali da riferirsi solo a sé stesse. Ma ciò che si riferisce solo a sé, che è pura indifferenza, è anche indeterminato. Se il bianco del sale non si distinguesse dal nero o dal verde, il sale non sarebbe ciò che è.

Ma questo non essere altro da sé delle proprietà introduce un problema ulteriore. L’opposizione per cui la proprietà è determinata (e genera così la stessa determinazione dell’oggetto, del Medium) è un’opposizione che riferisce a ciò che, in generale, la cosa non è: ossia fällt außer diesem einfachen Medium, cade oltre questo Mezzo semplice. Per determinarsi attraverso le sue proprietà, il Medium deve guardare oltre sé, presentarsi come Uno, come ausschließende Einheit, come unità escludente. Non è solo un rapportarsi a sé stesso, ma un rapportarsi ad altro per escluderlo da sé. Questa non è più la Dingheit, la cosalità, ma propriamente das Ding, la cosa.

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xv Nel movimento precedente, come abbiamo visto, si è compiuta la cosa, das Ding, come la verità della percezione. Siamo tornati, seppure a un diverso livello, al primo momento della certezza sensibile: quel momento per cui la verità è posta nell’essere dell’oggetto, che sta di fronte alla coscienza come indipendente. Certo, l’oggetto ora è mediato in sé, ma esso cosituisce pur sempre la verità. La percezione è vera solo se è adeguata al suo oggetto. Se la percezione è inadeguata all’oggetto, essa dà luogo alla Täuschung, all’illusione. La percezione inadeguata è come il sogno della metafisica. L’illusione è qui il modo peculiare in cui si presenta l’errore, il negativo. Possiamo dunque dire che l’illusione è la forma peculiare che l’errore come non-conformità all’oggetto assume nel conoscere percettivo. Come sappiamo, nell’orizzonte della coscienza la verità non può che prendere questa configurazione: poiché la coscienza presuppone un oggetto che le è estraneo (essa è questa presupposizione), la verità deve necessariamente apparire come relazione di adeguatezza tra i termini posti come differenti, secondo un movimento oscillatorio che indica il fondamento della verità ora nell’essere della cosa e ora nella coscienza stessa. Ma nella conoscenza percettiva questa relazione di adeguatezza presenta il volto di un paradosso. Se l’oggetto mediato è il fondamento della verità, allora la coscienza percipiente non può che configurarsi come alterazione, ossia come origine dell’errore e della non-conformità. L’oggetto percepito, in sé stesso, è il vero; dunque, qualsiasi attività che la coscienza percipiente vi aggiunga rappresenta un’alterazione della verità, cioè la radice di un’illusione. Il paradosso consiste nel fatto che la relazione, che costituisce la verità, deve ridursi a una non-relazione, ossia a una relazione nella quale un termine (la coscienza) deve presentarsi come nullità. Ma una relazione dove un termine scompare fino a configurarsi come un puro assumere l’oggetto è, appunto, una non-relazione. In altri termini, la relazione di adeguatezza deve esservi,

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poiché altrimenti la verità non si offrirebbe alla coscienza; ma, nello stesso tempo, quella relazione deve manifestarsi nella forma di una non-relazione, cioè tale che uno dei termini (la coscienza) sia ridotto alla trasparenza del puro assumere l’altro. Scrive dunque Hegel:

Il termine-chiave di questo brano è quel das Bewußtsein che quasi cade dalla penna di Hegel: l’attività percettiva ha la consapevolezza [la coscienza] della possibilità dell’illusione. In realtà, nel suo presentarsi als reines Auffassen, come puro assumere, la coscienza si è già duplicata. Da un lato, essa è il Percipiente, ossia ciò che, nella relazione di adeguatezza, deve mantenersi come il nullo, come il semplice e trasparente assumere la verità dell’oggetto. D’altro lato, però, la stessa coscienza è anche “consapevolezza della possibilità dell’illusione”. Cioè: essa non è soltanto il Percipiente che si annulla nella relazione, ma anche il terzo che osserva l’intero, lo domina, e dunque confronta, verifica e rimuove l’ineguaglianza, operando la sottrazione della propria attività percettiva dal risultato della relazione conoscitiva.

La situazione, dicevamo, è analoga a quella che la certezza sensibile aveva incontrata all’inizio del proprio cammino. E analoga è altresì l’inversione a cui essa deve disporsi. Anche qui, infatti, la coscienza in sich zurückgedrängt wird, viene risospinta in sé stessa. È un passaggio, questo che va esaminato con molta cura. In primo luogo, Hegel sottolinea l’analogia con l’inversione operata dalla certezza sensibile: anche la percezione in sich zurückgedrängt wird, viene risospinta in sé stessa. Però, l’analogia genera una specie di inversione nell’inversione: la percezione è bensì risospinta in sé stessa, ma non nel senso di porre nella coscienza percipiente la verità, bensì, proprio al contrario, nel senso di far cadere in lei stessa la non-verità:

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Nel momento in cui si riflette in sé come la non-verità, la coscienza è però anche capace di superare, di togliere, questa non-verità, cioè di sottrarsi alla percezione. Sapersi come la non-verità, significa superare, sottrarre, questa non-verità, nel tentativo di restaurare la verità oggettiva. La coscienza unterscheidet, distingue, korrigiert, corregge, cioè si pone come il non-vero e si sottrae al vero. Questa è la sua operazione caratteristica in quanto percezione. Ma attenzione a ciò che subito Hegel aggiunge: insofern es diese Berichtigung selbst vornimmt; in quanto essa stessa, la coscienza, intraprende, si mette a fare, questa rettifica, questa correzione, questa sottrazione; in quanto essa è l’artefice di tutto il movimento, della posizione e della sottrazione; fällt allerdings die Wahrheit, als Wahrheit des Wahrnehmens, in dasselbe; se le cose stanno così, allora la verità, in quanto verità del percepire, non cade più nell’oggetto, ma cade nella coscienza stessa, perché solo la verità può porre il non-vero, l’errore. La situazione, dunque, si è capovolta: non l’oggetto, ma la coscienza si manifesta qui come il principio della verità. Perciò, conclude Hegel, la coscienza non si limita a percepire l’oggetto; ma percepisce anzi tutto sé stessa, si riflette in sé, e abtrennt, separa, stacca, scuce, sottrae, sé stessa dalla Auffassung, dalla semplice assunzione dell’oggetto.

Ora Hegel ricapitola e approfondisce. Nel passaggio che segue, torna in primo piano il consueto movimento oscillatorio della coscienza, ma i termini che costituiscono non sono più semplicemente la coscienza e la cosa, bensì l’uno e il molteplice. Il molteplice si presenta ora come ciò che deve essere sottratto alla verità, perché essa si manifesti nella sua unità autentica. Infatti, perché la cosa sia la verità, essa deve presentarsi als Eines, come una: il tavolo che io percepisco come vero, deve essere un tavolo. Tuttavia, non posso percepire questo tavolo come uno e determinato (e non come nulla) se non riconoscendo in lui molteplici proprietà. Ora, per conservare l’unità dell’oggetto, perché esso non precipiti nella contraddizione, la coscienza sottrae questa molteplicità all’oggetto, e la carica su di sé: per il percipiente, la cosa ha molte proprietà, ciascuna

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diversa dalle altre, ma in sé la cosa è una, non molteplice ma perfettamente identica con sé stessa (l’eguale a sé):

Fin qui, abbiamo sottratto all’oggetto la molteplicità, per garantirne l’unità. Ora, però, il movimento inverso è altrettanto necessario. L’oggetto è uno e la coscienza lo vede molteplice; ma, meglio, l’oggetto è molteplice e la coscienza lo unifica. Per spostarsi dall’una all’altra situazione, Hegel compie un passaggio piuttosto faticoso. La coscienza ha preso i diversi lati su di sé: ma i lati sono anche la determinatezza della cosa; se la cosa è uno, ed è privata di questi lati, essa si contraddice, perché non è più una cosa determinata. Per essere uno, cioè unità escludente, essa deve necessariamente essere determinata. Dunque i lati, in quanto determinatezza, non possono essere solo nella coscienza, devono essere anche nella cosa, cioè nella verità:

Con questo rapido passaggio, dalla cosa come uno siamo tornati alla cosa che ha molte proprietà. Dunque, la cosa è costituita dalle molte proprietà: è determinata. Quell’uno, infatti, non si può concepire escludendone le proprietà:

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Di nuovo, la cosa è l’anche o il mezzo universale nel quale le proprietà molteplici sussistono come reciprocamente indipendenti. Tutto è di nuovo tornato dal lato dell’oggetto:

La cosa, considerata in sé stessa, è ora il molteplice delle proprietà. Ciò che è reale e vero sono le diverse proprietà che costituiscono l’oggetto. Le quali dunque, a rigore, non sono più proprietà della cosa, ma freie Materie, materie libere. Materie libere significa: le molteplici proprietà non hanno in loro stesse il principio dell’unificazione, ma lo chiedono alla capacità sintetica della coscienza percipiente. La coscienza le trova e le unifica, facendo di quel molteplice un oggetto. La realtà offre il bianco, il cubico, il sapido, ecc. Ma la coscienza sintetizza queste materie nel sale, cioè nell’oggetto del conoscere percettivo.

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Ora possiamo sintetizzare il cammino percorso. La coscienza ha assunto alternativamente, abwechslungsweise, in modo scambievole, l’oggetto come l’uno e come il molteplice. È stata sospinta dall’una all’altra di queste situazioni. Ma la conclusione è che l’oggetto è proprio costituito così, che das Ding, sich auf diese gedoppelte Weise zeigt. L’oggetto è una verità opposta, un opporsi: e proprio questa è la sua verità:

Il movimento ondulatorio tra la coscienza e la cosa, tra l’uno e il molteplice, comincia a rivelarsi come il movimento della cosa stessa: si comincia a delineare, così, la fisionomia dell’intelletto.

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XVII La conclusione che abbiamo conseguito è ora riassunta da Hegel in modo nitido: der Gegenstand ist ihm jetzt diese ganze Bewegung, welche vorher an den Gegenstand und das Bewuβtsein verteilt war; l’oggetto è ora a lei / per lei (alla coscienza / per la coscienza) questo intero movimento, che in precedenza era suddiviso nell’oggetto e nella coscienza. Il movimento oscillatorio della coscienza si era infine mostrato, nella conoscenza percettiva, nella dialettica dell’uno e del molteplice; in modo tale che, dapprima, la coscienza assumeva il compito di introdurre la propria molteplicità nell’unità della cosa, e, in seguito, di unificare, grazie alla sua capacità sintetica, il molteplice determinato delle proprietà oggettive. Ma questo movimento si è infine rivelato come il movimento stesso della cosa, del Gegenstand, dell’oggetto. La coscienza e il suo oggetto non possono più spartirsi unità e molteplicità, perché l’oggetto stesso si rivela, in sé, tanto uno quanto molteplice. Ciò che abbiamo ora di fronte, dunque, è l’unico movimento dell’oggetto, non più il rinvio reciproco, e il reciproco sottrarsi dei due termini:

Ma cosa significa che l’oggetto è “questo intero movimento”? La cosa è, sotto il medesimo riguardo, il per sé, l’uno, e il per altro, il molteplice: e in questi momenti è ormai riflessa in sé, cioè mediata. La coscienza non può più sottrarre alla cosa ciò che le appartiene essenzialmente. La situazione si presenta, a prima vista, nel segno di una sottile contraddizione; ma di una contraddizione che, ormai, l’opinione della coscienza non può risolvere più attraverso la Verteilung, la ripartizione, tra sé e l’oggetto, dell’uno e del molteplice. La cosa – scrive Hegel – è, al tempo stesso, uno, per sé, e per un altro. Se noi guardiamo allo auch, all’anche, essa è differenza (tra il per sé e il per altro), e non uno. L’unità della cosa è termine di una differenza. Se l’essenza della cosa è la differenza, essa non è unità. Ma la tentazione della coscienza, di assumere su di sé l’unità del diverso non può essere eseguita, perché la coscienza ne ha già sperimentata l’impossibilità. La cosa è in sé stessa uno. Di nuovo, è per sé e per altro, unità e differenza. Nessuno dei due lati può venire sottratto alla costituzione d’essere dell’oggetto.

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Fin qui abbiamo descritto ciò che è presente, l’unificarsi dei momenti nella struttura dell’oggetto. Ora Hegel afferma che questo unificarsi, riflettersi in sé, dell’oggetto, dà luogo a un duplicarsi dell’oggetto. L’unico oggetto di cui stavamo ragionando diviene qui una dualità di oggetti diversi: abbiamo di fronte due oggetti. Il passaggio è rapido, contratto. L’oggetto è ormai l’unità di sé e dell’alterità, è identità e differenza nello stesso tempo e sotto il medesimo riguardo. È un opporsi: è e non è, è sé e non è sé stesso. Ma questa negatività che è penetrata in lui, questo essere-altro che gli appartiene, è la sua determinazione come differenza-da. L’oggetto è bianco proprio perché non è non-bianco: non è nero, non è rosso, ecc. Attraverso questo momento della negazione di altro, esso ha posto l’altro oggetto da sé diverso: e dunque si è duplicato, è sé stesso nella presupposizione di un altro oggetto. Per questo, la determinazione dell’oggetto “si distribuisce in due oggetti”.

Possiamo anche dire che, a questo livello del discorso, l’oggetto non riesce a sostenere il peso della contraddizione che lo costituisce. Non può più sciogliere questa contraddizione distribuendone i termini tra sé e la coscienza; dunque, ripartisce i termini contraddittori tra una pluralità di oggetti differenti. La differenza tra il per sé e il per altro cade in oggetti diversi:

Con questo passaggio, noi abbiamo di fronte due oggetti. È presente la differenza tra due cose. La pretesa della percezione è che la differenza della cosa dall’altra cosa sia solo esterna, che non tocchi l’essenza dell’oggetto (che la contraddizione, appunto, sia distribuita). Se io dico che questo oggetto è e non è, affermo una contraddizione; ma se io dico (come ora cerca di fare la percezione), che esso ora è e ora non è, che qui è e là non è, io disciolgo la contraddizione, distribuendone i termini lungo il tempo o

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attraverso lo spazio. Ma così non può essere: la cosa deve essere raggiunta dalla differenza nella sua stessa, interna natura determinata:

Ora osserviamo come la percezione cerchi di mettere a posto le cose. Certo (opina la coscienza percettiva), la cosa è diversa da altre cose, ma per sé stessa è solo determinatezza semplice, identità con sé, non è toccata (nella sua essenza) da questo essere-diversa-da, dalla negazione. Come tale, la cosa è solo determinatezza semplice, pura unità con sé; la differenza, la negatività, cade nella relazione esterna, nella relazione di reciprocità. Ancora una volta, identità e differenza sono ripartite, l’una costituendo l’essere dell’oggetto, l’altra rappresentando la relazione esteriore tra gli oggetti:

La coscienza non può conservare a lungo questa ripartizione tra il per sé e il per altro. L’oggetto è, per sé stesso, nella relazione. La relazione non gli è soltanto esteriore, ma ne costituisce l’essenza propria. La cosa è quella che è perché si distingue dalle altre, e dunque si rapporta a esse (il per altro costituisce il suo per sé). Perciò l’opinione, per salvare l’oggetto dalla contraddizione, ricorre a un suo metodo consueto: considera essenziale l’identità della cosa, e dunque inessenziale la sua alterità e relazione ad altro, come se fosse qualcosa che si aggiunge in margine, successivamente; assegna un “valore ineguale” ai due momenti che costituiscono l’oggetto:

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Seguendo la percezione, siamo ripiombati di nuovo nella divisione dell’essenziale e dell’inessenziale. Ma i due momenti si devono unificare, l’alterità deve costituire l’essenza stessa della determinazione. In realtà, spiega ora Hegel, questa apparente duplicità della cosa non è altro che il suo costitutivo contraddirsi. Infatti, è solo attraverso il per sé “essenziale” che la cosa è opposta alle altre cose; e, viceversa, è solo attraverso la relazione ad altro che la cosa è per sé, cioè una. È un unico movimento quello del mantenersi e del distinguersi, dell’essere e del non-essere. Per ciò, la cosa è questo andare a fondo nella contraddizione:

Questo è il carattere proprio del contraddirsi della cosa. La “negazione che si rapporta solo con sé”, alla sua essenza semplice, non è negazione, ma è un togliersi, un andare a fondo, un perdere la propria essenza nell’essenza dell’altro:

Nel tentativo di sfuggire questo esito, l’unità del positivo e del negativo, la percezione si caccia in una serie di aporie. Considera l’alterità, come si è detto, inessenziale, ma al tempo stesso è costretta a dichiararla necessaria, affinché la cosa sia sé stessa. Ma l’inessenziale non può essere necessario:

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Cade così l’ultimo in quanto a cui si era attaccata la percezione. L’oggetto è il contrario di sé stesso: è per sé in quanto è per altro, ecc.

L’oggetto è riunificato. Cioè cade la divisione dell’universale e del particolare. Il risultato è perciò una universalità assoluta e incondizionata: l’intelletto.

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XVIII Abbiamo visto come sorge l’intelletto. L’oggetto della percezione era lacerato dall’impossibilità di tenere insieme l’essere per sé della cosa, la sua unità, e le proprietà accidentali che le appartenevano, il molteplice. L’intelletto non si lascia dominare dall’immediatezza della sensibilità né dalle divisioni della percezione, ma unifica l’oggetto in un oggetto universale: Hegel lo chiama “l’incondizionatamente universale”. Questo è, ora, l’oggetto dell’intelletto. Questa caratterizzazione deve indurci a interrogarci sul significato che questa parola – intelletto – assume nell’opera di Hegel. Della sequenza fenomenologica che stiamo studiando – sensibilità, percezione, intelletto –, solo quest’ultimo entra propriamente nel circolo dialettico. Quando Hegel cerca di schematizzare il ritmo dialettico, lo delinea, appunto, come un passaggio dall’intelletto – che determina e irrigidisce le determinazioni – alla ragione, che ha un suo momento scettico-negativo e un suo momento positivo. Non diversamente da Kant, l’intelletto è chiuso nel rapporto costitutivo con la ragione. Solo che qui la ragione non si limita a porre antinomie, rinviando perciò alla conoscenza intellettiva, ma supera l’intelletto, costituendo un orizzonte positivo della determinazione. In queste pagine della Fenomenologia, l’intelletto è configurato nella sua posizione essenziale. Con l’intelletto, si pone l’universale, anche se ancora concepito nella sua oggettualità, cioè nel segno della scissione fenomenologica. I concetti che esprimono la natura dell’intelletto hanno il carattere di dualità riflessive: l’oggetto dell’intelletto è la forza; poi è la legge. E questo ultimo concetto, quello di legge, è quello che esprime meglio il senso dell’universalità dell’intelletto. Il sistema dell’intelletto è un sistema di leggi, destinato a compiersi nella visione dell’oggetto come infinito. Seguiamo dunque il testo, e vediamo come si presenta qui l’intelletto. Tutte le figure precedenti, spiega Hegel, la sensibilità e la percezione, sono ora raccolte insieme im Unbedigt-Allgemeinen, nell’universale-incondizionato. Universale-incondizionato significa: le differenze che hanno fin qui inquietato la coscienza non sono più differenze reali, ma sono ricomprese nell’unico universale della cosa. L’intelletto ha trovato la forza di ricomporle. Ma, avverte Hegel, bisogna fare attenzione. Il rinvio del per sé e del per altro è certo tornato nel per sé della cosa, ma non più come l’essenza che si rapporta con l’accidentale, con il non-essenziale: ora l’unità è incondizionata, cioè la cosa non è più divisa tra l’essenziale e l’inessenziale, la differenza è tornata in sé; sono momenti dileguati di un’unica sostanza:

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A questo punto, però, appare fondamentale distinguere come la situazione appare alla coscienza e come, invece, appare a noi. La differenza del per noi assume qui la massima estensione. Per la coscienza, l’universale che è risultato, è soltanto la natura dell’oggetto, che essa si limita ad assumere, nella differenza da sé. La coscienza vede l’universale come l’oggetto, e non come il concetto: cioè lo coglie fenomenologicamente, nel segno della differenza di pensiero ed essere. La coscienza è ancora perduta nell’oggetto, e non vede sé nel movimento della cosa. Isoliamo, dunque, i tre passaggi che si riferiscono all’autocomprensione della coscienza. Il primo brano dice:

Il secondo brano dice:

Il terzo brano dice:

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Ma, se la coscienza si interpreta così, è ben diverso il modo in cui noi la afferriamo. Si tratta di un passaggio decisivo. Scrive dunque Hegel:

Per noi questo oggetto, attraverso il movimento della coscienza, è divenuto così, che la coscienza è implicata/intrecciata (verflochten) nel divenire dell’oggetto e la riflessione sui due lati [dell’oggetto] è la stessa ossia è soltanto una riflessione. (p. 109)

Ecco dunque cosa è nascosto alla coscienza e invece svelato a noi. La coscienza non vede ancora la propria implicazione nel movimento dell’oggetto. Non vede, cioè, che qui non sono due movimenti, ma una sola riflessione: la riflessione in sé, che importa l’identità di pensiero ed essere. Ed ecco la conclusione:

Noi abbiamo da/ dobbiamo perciò (hiermit) per prima cosa (noch fürs erste) metterci al suo posto (wir haben an seine Stelle zu treten) e abbiamo da/dobbiamo essere il concetto, il quale forma (ausbildet) ciò che è incluso nel risultato; in questo oggetto formato, il quale si offre alla coscienza come un essente, essa, la coscienza, diventa a sé la coscienza che concepisce (wird es … zum begreifenden Bewuβtsein. (p. 109)

Noi, dunque, abbiamo un dovere: abbiamo il dovere di svelare il concetto dove la coscienza non lo vede; perché il concetto dà la forma adeguata al risultato del movimento percettivo; anche se questo oggetto si offre alla coscienza ancora soltanto come un essente. Questo non significa che noi interveniamo con il concetto dove il concetto non c’è. Qui il concetto c’è, proprio perché c’è la forma dell’universale-incondizionato (questo è il risultato), ma non è visto. L’intelletto è già il concetto, ma senza la consapevolezza di essere tale. In questo senso, la filosofia è levatrice, maieutica, innalza ciò che è presente nella situazione, fa vedere solo ciò che c’è. Dopo questa digressione, il discorso sull’intelletto può riprendere. Il risultato del movimento percettivo era la sua dissoluzione, perché la percezione non riusciva a tenere insieme i lati della cosa. Ma il risultato è anche positivo: perché nella dissoluzione dei due lati, si pone la loro unica essenza, dasselbe Wesen.

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All’inizio, spiega Hegel, la dissoluzione dei lati del per sé e del per altro sembrava riguardare soltanto la forma della considerazione: sembrava una nostra illusione logica. Ma ben presto la coscienza deve accorgersi che quel precipitare della differenza riguarda invece proprio il contenuto, riguarda la cosa stessa:

Tuttavia, poiché siamo nel livello fenomenologico della coscienza, la differenza tra forma e contenuto non può che ripresentarsi, seppure in forma diversa. Però questa differenza non si presenta più come esteriore, ma all’interno dell’unico oggetto conseguito, dell’universalità-incondizionata. I suoi momenti si presentano perciò come dileguanti, come il passare dell’uno nell’altro:

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XIX La forza, die Kraft, è il primo modo, il più elementare, in cui l’intelletto concepisce l’oggetto. Per intenderne il significato, dobbiamo di nuovo riferirci al movimento caratteristico della percezione. Come abbiamo visto, nel tentativo di cogliere il suo oggetto mediato, la coscienza percettiva era naufragata nel compito di concepire la relazione tra l’uno e il molteplice. Dapprima, aveva generato quel movimento oscillatorio per cui assumeva su di sé l’onere dell’unità e quello della molteplicità, assegnando all’oggetto la determinazione opposta. Poi, la medesima oscillazione si era riprodotta nella dialettica del per sé e del per altro, dove la Verteilung, la ripartizione, accadeva nel valore ineguale dei due lati, fino alla duplicazione dell’oggetto in due oggetti. L’intelletto ricompone questa oscillazione in un oggetto non più solo mediato, ma universale: cioè un oggetto nel quale i due lati (l’uno e il molteplice, il per sé e il per altro) non vengono più ripartiti con la coscienza o suddivisi tra più oggetti, ma appartengono essenzialmente alla stessa cosa. Tale unità universale dell’oggetto si manifesta, appunto, nella forza. L’oggetto concepito come forza assorbe in sé il doppio lato della relazione, è, come tale, l’intera relazione. In quanto forza, l’oggetto è tanto capacità di porsi nell’esteriorità, quanto estrinsecazione di sé, ossia attuazione della propria energia interna. Questa è bensì, di nuovo, una duplicazione, ma una duplicazione che non accade tra sostanze diverse, tra A e B: è lo stesso A, lo stesso ente, che è capacità di estrinsecarsi (forza come pura energeia) e attuale estrinsecazione di sé. Così riassume con chiarezza Jean Hyppolite:

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La considerazione di Hegel inizia con un richiamo esplicito alla pagina che concludeva la presentazione generale. Hegel vi prendeva in considerazione il contenuto del conoscere intellettivo, e distingueva in esso due momenti: da un lato l’oggetto si offre come universale medio di materie accidentali, ciascuna delle quali ha una sua sussistenza; per altro verso, però, l’oggetto deve anche presentarsi come tale, come Uno, riflesso in sé. Ma questi due momenti, entrambi necessari perché l’oggetto sia determinato, si escludono reciprocamente, non trovano una vera composizione. Il problema è allora vedere come si pongono nel movimento proprio del conoscere intellettivo:

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Il primo momento, quello per cui l’oggetto è il medio di materie indipendenti, ci mostra la cosa come perfettamente coincidente con la molteplicità delle sue proprietà accidentali. L’indipendenza delle materie, spiega Hegel, non può che coincidere con il medio: è un’indipendenza, per così dire, relativa, che si raccoglie nell’universalità circoscrivente dell’oggetto:

Ma dire così, cioè dire che l’oggetto è la mera accoglienza delle molteplici proprietà accidentali, significa dire che le proprietà sono tutte nell’oggetto, cioè “sono ciascuna dove è l’altra” pur conservando la loro indipendenza. Questa situazione è ciò che Hegel definisce porosità, die reine Porosität, dell’oggetto. Se noi osserviamo questa porosità, vediamo che essa consiste in un porre l’indipendenza delle proprietà e, altrettanto, in un toglierla. È un duplice e convergente movimento, quello per cui l’oggetto, il medio, si dispiega nelle proprietà indipendenti, e si contrae in sé stesso. Entfaltung, dispiegamento, e Reduktion, contrazione, costituiscono necessariamente la struttura dell’oggetto, che ha internato la esteriore differenza percettiva. Scrive Hegel:

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Osserviamo i singoli passaggi del brano che abbiamo appena letto. 1) Abbiamo detto che l’oggetto è costituito da materie molteplici, ma che questa molteplicità definisce l’orizzonte dell’oggetto come semplice medio. 2) Questa indipendenza che definisce l’orizzonte dell’oggetto significa che i termini che costituiscono la molteplicità non possono avere una reciproca distanza: essi sono nello stesso punto (il medio), si penetrano, ma senza alterarsi l’un l’altro. Questa è la loro porosità (il lasciarsi penetrare senza essere toccati dall’altro). 3) Tale lasciarsi penetrare (la porosità) è il loro esser-tolto nell’unità universale del medio, nell’oggetto. 4) Ma, a sua volta, il medio in cui le differenze si tolgono è, di nuovo, il sussistere delle differenze. 5) Dunque, è un solo movimento, quello per cui le differenze sono poste come indipendenti e sono tolte nell’unità del medio: un solo movimento, nel quale le differenze si dispiegano, si estrinsecano, e si contraggono nell’universalità della cosa. Ora, questo movimento di contrazione ed estrinsecazione costituisce ciò che si chiama la forza. La forza è questo movimento (si badi: la forza è un movimento, una mediazione), dell’essere per sé contratta e dell’estrinsecarsi. Se questo movimento non accadesse, se uno dei due momenti mancasse, non si potrebbe parlare dell’oggetto come di una forza:

La forza, dunque, è questo movimento unico e duplice, di mantenersi nella sua capacità (nella sua energia intrinseca) nell’atto stesso di estrinsecarsi in una differenza attuale. Hegel insiste sul fatto che, nella realtà della forza, questi due momenti (la contrazione e l’estrinsecazione) non sono distinti, ma dileguano l’uno nell’altro. La loro differenza è assunta solo dall’intelletto, è una differenza che sta solo im Gedanken, nel pensato, nel pensiero, nell’idea, che l’intelletto trova in sé e con la quale esplica la situazione:

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Quello che abbiamo descritto fin qui, dunque, era il concetto della forza, non ancora la sua realtà. Si osservi ciò che, propriamente, differenzia la realtà dal concetto: nella realtà (che noi otteniamo) i due momenti sono nell’unità immediata; nel concetto (come si presenta all’intelletto) i due momenti vengono distinti “soltanto nel pensiero”. La forza è l’universale, questo la distingue dalla percezione: perciò essa non è solo la distinzione e l’alternarsi di quei due momenti, ma l’intero di questo movimento, in cui quei momenti si presentano come dileguanti, l’uno nell’altro e nell’intero. Il movimento, nella cosa, è il togliersi della posta indipendenza di quei momenti. Questo è il punto, questa è l’essenza di ciò che si chiama forza:

Questo movimento, che è l’oggetto come forza, può essere osservato anche nel percorso fenomenologico. A prima vista siamo tornati ai momenti della percezione. Ma con una differenza sostanziale: ora quei momenti hanno una forma oggettiva, sono in uno, nell’universale dell’intelletto:

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Tralasciamo per adesso il riferimento all’interno, su cui torneremo in seguito. Bisogna invece guardare più a fondo nel movimento della forza, in cui si è risolto l’intelletto. La prima parte di questo discorso tende a scrutare la reale unità dei due momenti che costituiscono la forza, il suo essere uno e la sua estrinsecazione. Nessuno dei due momenti può qui essere soppresso, ma nessuno dei due è concepibile senza l’altro. Dapprima la forza è posta come l’uno, come la sua contrazione: con ciò le materie vi sono escluse, e si presentano come altro dalla forza. Ma essa deve necessariamente estrinsecarsi in quelle materie, perché la forza è quella estrinsecazione. Ciò significa che la forza non è altro dall’estrinsecazione, ma ha in lei quelle materie.

Bisogna allora correggere quel presupposto, che la forza è uno. La forza, in realtà, è l’estrinsecato, l’alienato, il medio del sussistere delle molte materie. Ma anche in questa determinazione il movimento non si ferma, la forza torna, pendolarmente, al proprio per sé.

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In tutto il testo precedente, nel cv. 48, si sarà notato come Hegel abbia lasciato intervenire la nozione dell’Altro, che sopravviene, sollecita, come un esterno. E si è visto come questo Altro della forza nasceva dal suo seno, come il termine escluso della propria struttura, alienatosi nel movimento, ma nondimeno necessario al proprio costituirsi. Noi assistiamo ora alla duplicazione della forza. Ma questa duplicazione non è altro che il porsi di questo Altro all’interno del movimento pendolare della forza, la quale pone sé unilateralmente e con ciò esclude da sé la propria essenza. Si tratta, dunque, di una duplicazione non reale ma apparente, che fin dall’inizio, per noi, si svolge all’interno dell’unità essenziale del movimento della forza.

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Entrambi, il sollecitante e il sollecitato, sono dunque la stessa unità della forza, che conserva in sé i due momenti, e non si dirompe in essi:

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Possiamo dire che il circolo si è chiuso e ha trovato un suo risultato. Il gioco delle forze è tornato nell’unità della forza, ma ne ha anche consumato la differenza interna (quella differenza che era soltanto un pensato assunto dall’intelletto). “La realizzazione della forza è … Verlust der Realität, perdita della realtà”. Il risultato è l’unità indistinta in cui crollano tutte le differenze interne che sostenevano il movimento.

XX

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La dialettica della forza, costituita dal gioco della forza in sé compressa e della sua estrinsecazione, si è in certo modo dissolta. Come abbiamo visto, siamo tornati a quell’universale che caratterizza la posizione dell’intelletto in generale. Ma questo universale, a cui ora si è tornati, ha caratteristiche diverse da quello da cui si era partiti. Per questo Hegel parla di un primo e di un secondo universale. Nel primo universale, la forza si presentava solo come concetto, come Begriff, cioè solo in sé e distinta dal suo per sé: infatti teneva fuori di sé la sua estrinsecazione, il suo per altro. La “forza propriamente detta” – aveva scritto Hegel (p. 111) – è la forza “ricompressa in sé”, che deve estrinsecarsi. Ma ora l’universale dell’intelletto non è più solo concetto, non è più un in sé che deve estrinsecarsi, ma è anche essenza della cosa, è anche per sé, non solo in sé. La forza ha superato la differenza dalla sua estrinsecazione, e in questa semplicità indistinta è incluso il compimento dell’estrinsecazione che, in precedenza, l’aveva messa in scacco:

Dunque: il primo universale è un in sé (la “forza propriamente detta”) che deve estrinsecarsi, farsi per sé; ma il secondo universale, quello che ora abbiamo di fronte, non è solo in sé, ma è in sé e per sé: è il concetto dell’intelletto con la sua estrinsecazione. Il primo universale oscillava tra in sé e per sé, il secondo universale ha riunificato i due sensi della forza. Ancora, Hegel insiste sulla differenza tra le due situazioni, e ne trae il concetto dell’interno delle cose. Il primo universale è l’immediato, ossia l’oggetto come essere semplicemente presente, oltre il quale si differenzia un’alterità, come estrinsecazione della forza. Per la coscienza, questa immediatezza è la realtà dell’oggetto. Si noti come la forza (il primo universale) è ormai caratterizzata dalla sua presenza sensibile, fenomenica: il primo universale è immediato, effettuale, oggettivo, sensibile, cioè appartiene a quell’universo fenomenico di cui il secondo universale (l’interno delle cose) segnerà la negazione.

Ma il secondo universale si presenta, invece, come il negativo di questa presenza oggettiva. Negativo significa qui: non più immediato, ma mediato dall’intero movimento della forza, risolutivo delle sue differenze, e perciò negante la presenza immediata dell’oggetto sensibile. Questa parola – negativo – ha qui un significato complesso: l’universale è negativo della presenza perché, in quanto mediato, si va a porre al di là dell’oggetto sensibile, del fenomeno, come sua essenza (non più solo concetto, ma essenza):

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Ecco perché il primo universale è definito come la sostanza (presenza immediata dell’oggetto sensibile), mentre il secondo universale è oltre la sostanza, è l’interno. Il concetto, ma ormai solo in quanto concetto, si risolve in questa rappresentazione dell’interno dell’oggetto:

Ora si intende il significato logico di questo passaggio: abbiamo di fronte non più l’essere delle cose, ma l’essenza: quell’essenza in cui si articolerà la logica oggettiva. Il prototipo di questa essenza è la cosa-in-sé, nell’accezione kantiana del termine. Nelle righe che seguono, Hegel ne dipana compiutamente il movimento. Abbiamo di fronte l’interno dell’oggetto, cioè la sua vera essenza. Ma questa essenza non si offre immediatamente alla coscienza, ma soltanto attraverso la mediazione del vario e molteplice oggetto sensibile. La coscienza vede il gioco delle forze (i fenomeni), ma attraversa questo spettacolo e spinge l’occhio fin dentro la sua essenza, il suo interno, la sua verità:

La mediazione ha la forma di un sillogismo: ci sono due termini estremi – l’intelletto e l’essenza – e un termine medio che consente di passare dall’uno all’altro: i fenomeni. Come vedremo, la coscienza non vede l’intero di questo sillogismo, copre sé stessa, e concepisce soltanto il passaggio dal fenomeno all’essenza. Ma cosa è questo medio per l’intelletto? Questo medio è ciò che non ha verità, che non ha valore, è l’esterno delle cose: è un dileguare (il divenire, il nascere e morire delle cose), e si chiama Erscheinung, apparenza. Non è solo Schein, immediato apparire, ma è Erscheinung, apparenza, visione, fenomeno, negatività.

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Con queste poche righe, dunque, il sillogismo dell’intelletto è compiutamente posto: lo “sviluppato essere della forza” è soltanto fenomeno, un dileguare e un non-essere, oltre il quale si delinea il vero essere dell’oggetto, come suo interno. Occorre fare attenzione al passaggio che segue. Il mondo fenomenico è ein Ganzes des Scheins, è un intero, è la totalità del mondo sensibile, un universale. Non è questo o quello, ma include tutto, ogni cosa. E questo intero (parvente, negativo, fenomenico) costituisce l’essenza. Su questo ausmachen, costituire, bisogna soffermarsi con cura: l’essenza si rivela come la riflessione in sé del mondo fenomenico, come la sua essenzializzazione e manifestazione vera:

Abbiamo detto che l’essenza è una riflessione in sé dell’intero fenomenico. Per un momento abbiamo dimenticato, messo da parte un estremo del sillogismo: la coscienza, l’intelletto. Ma, in realtà, è la coscienza che si riflette in sé nel fenomeno come nel vero. Il movimento che abbiamo descritto è, in realtà, un movimento della coscienza. È essa, la coscienza, che opera la mediazione:

Quella espressione – “la coscienza si riflette in sé come nel vero” – ha in certo modo capovolto la considerazione. La coscienza prende questo interno come un’essenza oggettiva, come l’interno dell’oggetto. Crede di potersene stare in disparte mentre opera questo movimento. In realtà, per noi, quell’interno è l’interno della coscienza, non dell’oggetto immediato. È nella sua identità con l’oggetto che essa trova l’essenza. Essa ha trovato il suo interno ma crede di avere trovato l’interno dell’oggetto a lei estraneo: “dieses Grundes ist es sich noch nicht bewuβt”, di questo fondamento essa, la coscienza, non è ancora consapevole:

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Ecco la conclusione a cui Hegel giunge, distinguendo, di nuovo, il per noi dal per lei: la coscienza non conosce ancora la natura del concetto, ossia non conosce la verità dell’oggetto come la propria riflessione in sé. Per la coscienza, la mediazione è una mediazione oggettiva, che la esclude, e che ha come termini il mondo fenomenico e la sua essenza interna. Dopo questa corposa inserzione, riprendiamo il cammino fenomenologico. Invertiamo l’ordine dei paragrafi per maggiore chiarezza. Il nostro oggetto, ciò che qui è per noi, non è dunque l’in sé e il fenomeno, ma l’intero movimento della coscienza, cioè il sillogismo, nel quale l’intelletto non è solo spettatore di oggetti estranei, ma vi è incluso. Tuttavia dobbiamo seguire l’itinerario oggettivo dell’intelletto, perché nell’essenza l’intelletto non fa solo l’esperienza di un puro interno, ma addirittura vi scorge una Welt, un intero mondo: il mondo ultrasensibile, la übersinnliche Welt:

Dopo questa distinzione tra il sillogismo per noi e la Erfahrung dell’intelletto, torniamo al capoverso precedente, dove l’estensione dell’interno nel mondo ultrasensibile è dichiarata:

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L’interno dell’oggetto non è soltanto un in sé indeterminato, ma è la duplicazione essenziale del mondo fenomenico. Perciò è una Welt, un mondo, che rispecchia, nel segno della permanenza e della verità, l’altra Welt fenomenica, che invece si offre allo sguardo nel segno del divenire e del dileguare, del nascere e del morire. Tuttavia, il passaggio dall’essenza semplice a un’intera Welt ultrasensibile è apparso troppo rapido, quasi solo enunciativo. Ora Hegel ci torna sopra in modo più disteso, in due densi capoversi. Il primo capoverso, in effetti, ci dà la versione rigorosa dell’in sé, che è vuoto e semplice, e perciò inconoscibile in modo determinato. Torniamo all’idea dell’interno come l’indeterminato e l’inconoscibile, come il vacuo e vuoto vero posto di fronte alla varietà dileguante del mondo fenomenico:

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Dall’uno all’altro di questi momenti, dalla pura essenza inconoscibile alla Welt ultrasensibile, sembra non potersi dare un vero e proprio passaggio, se non nell’illusione della coscienza (con le conseguenze distruttive che ne verrebbero per la rappresentazione generale dell’intelletto, e per il suo passaggio alle leggi). Questo è il problema del capoverso successivo. Hegel sembra constatare un dato di fatto: dice che, aber, però, nonostante quello che si è detto, l’essenza ist entstanden, è uscita fuori (herkommen) dall’apparenza. Essa c’è, per la coscienza:

L’apparenza è la mediazione dell’essenza, perché questa proviene da quella, ne è la riflessione in sé. Ma ora Hegel aggiunge qualcosa di più. Proprio perché proviene dall’apparenza, questa, l’apparenza, è l’essenza dell’essenza, è la sua ragione e costituzione d’essere. In altri termini, l’essenza non è un immediato, ma un oggetto mediato, determinato dalla sua mediazione. Perciò l’apparenza è, in der Tat, nel fatto, la Erfüllung, il riempimento, l’adempimento, la determinazione, dell’essenza. Cioè, l’essenza non può restare vuota e semplice, immediata, ma deve riempirsi della sua essenza, della sua determinazione, delle determinazioni dell’apparenza:

La conseguenza è allora che l’essenza non è l’altro dell’apparenza, ma è lo stesso mondo fenomenico posto come verità. Ciò che sensibilità e percezione sono in verità è l’apparenza, cioè negatività. Perciò, l’essenza è la posizione dell’apparenza come apparenza. L’ultrasensibile consiste nel porre il sensibile come l’apparente, cioè come il negativo:

XXI 1. Fin dall’inizio di questa parte della Fenomenologia abbiamo segnalato la difficoltà del passaggio dall’essenza semplice alla Welt, al mondo soprasensibile propriamente detto. La difficoltà riguarda, naturalmente, la

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coscienza, ma non può che riflettersi nell’andamento scientifico del suo percorso fenomenologico. Ora questa Welt, che è la Erfüllung, il riempimento dell’essenza semplice, si manifesta in due figure caratteristiche, quella della legge e quella del mondo invertito. È per questa via che si perverrà all’infinito, e dunque all’autocoscienza. Perciò, Hegel riprende ora la considerazione dall’interno puro, semplice, non ancora riempito, e ne annuncia di nuovo il destino di riempimento:

Si osservi il testo appena letto con attenzione. Unser Gegenstand, il nostro oggetto, è l’intelletto; e l’intelletto si trova ora in una particolare Stelle, posizione. Per lui è sorto l’interno delle cose, ma soltanto come “lo in-sé universale, non ancora riempito”, come un vuoto, indeterminato interno del mondo fenomenico. Ma (ecco il passaggio fondamentale) l’intelletto trova l’interno solo attraverso la mediazione del fenomeno, e questa mediazione segna il destino di riempimento. Ciò che abbiamo di fronte è, in realtà, il sillogismo. Das Vermittelnde, il mediante, ciò che media, “l’atto del mediare” (cioè il fenomeno come das Spiel der Kräfte, il gioco delle forze), si presenta da un lato come negatività, di fronte alla pura positività dell’interno; ma, d’altro lato, conserva una positive Bedeutung, un significato positivo, una necessità e una consistenza, perché solo per il suo tramite l’intelletto può porre l’interno. In primo luogo, dunque, Hegel chiarisce la Stelle, la posizione in cui si trova l’intelletto. A partire dalla forza, l’interno, l’essenza, si è posta come un in-sé vuoto, semplice, privo di contenuto e di differenza. Il gioco delle forze significava appunto questo: un termine medio tra l’essenza semplice e l’intelletto: ma un termine oggettivo, cioè esterno all’intelletto stesso. L’intelletto osserva il molteplice e vario gioco delle forze, e, attraverso questo spettacolo, postula l’in-sé assoluto delle cose. Ma, il movimento dell’intelletto è questo intero, di cui esso non è spettatore ma partecipe: esso si riferisce all’interno attraverso la mediazione del visibile gioco delle forze. Questo intero che accade in lui, annuncia già il destino di riempimento, per cui l’essenza non resterà semplice, ma si riempirà di quella mediazione che qui è manifestata dal gioco delle forze. 2. Ora Hegel torna su questo movimento (l’intero del movimento) che trovava nel gioco delle forze il suo termine medio. Il paradosso di questo Spiel è che esso dilegua nell’atto stesso in cui sorge. Perché dilegua? Dilegua perché i termini che ne costituiscono la differenza non si conservano come differenti: ciascuno è ciò che è l’altro, una sola determinatezza, una sola differenza pura senza i termini differenti. Il gioco

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delle forze non è tale, ma è un puro giocare, in cui le forze svaniscono nel loro porsi:

Bisogna fare la massima attenzione alla conclusione del cv. 59. Il gioco delle forze si riduce alla semplice differenza, a qualcosa di univoco, senza termini. Questa semplicità (la regola dell’apparenza) è ciò che rimane come la vera immagine del gioco: e questa è la legge, che si presenta come l’essenza, come il residuo, del gioco delle forze.

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3. Con ciò, abbiamo trovato una prima Erfüllung dell’essenza. Ora l’essenza non è più una vuota essenza, ma è una legge, cioè il semplice concetto della relazione che governava il gioco delle forze. Questa nuova situazione dell’intelletto è sintetizzata qui da Hegel:

Ed ecco, finalmente, il significato della legge. Leggiamo con attenzione questo passaggio:

Dunque, la legge è riempita del mondo della percezione, ma mentre questo è un mondo segnato dal divenire incessante, dove ogni cosa è differente dall’altra, il regno delle leggi è quieto, costante, si mantiene attraverso il divenire. Tuttavia, chiarisce anche Hegel, questa copia del mondo percepito ha anche una relazione essenziale con l’originale, perché l’intelletto pretende che sia presente nella realtà percettiva, costituendo l’essenza stabile del suo divenire. Questa è la situazione che ora bisogna osservare da vicino. 4. Il riempimento che la legge opera dell’apparenza è però solo parziale. Si faccia attenzione: fin qui avevamo ragionato della Erfüllung, del riempimento, della legge da parte dell’apparenza fenomenica; ora, al contrario, è in gioco la Erfüllung, il riempimento, dell’apparenza fenomenica da parte della legge. Infatti, la legge non è l’apparenza: questa conserva una concretezza, una individualità, che in parte rispetta la regola della legge, in parte no, mantenendo una propria indipendenza:

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Questo è il difetto, la mancanza della legge. Riempie l’essenza, ma non toglie/supera l’apparenza, non la pareggia. La riempie solo in parte. Ma questo Mangel, questo difetto, deve ritrovarsi anche nella costituzione propria della legge: non solo nel rapporto con ciò di cui è legge, con l’apparenza, ma anche in lei stessa. Abbiamo un Mangel, un difetto: ma cosa mangelt, qual è l’oggetto di questo mangeln, di questo difettare? La legge non ha la differenza determinata, è solo la differenza semplice. Ma, al tempo stesso, si presenta come una legge, come una legge in una molteplicità di leggi. Ma, appunto, questa molteplicità contraddice il principio dell’intelletto, che vorrebbe cogliere l’essenza ultima, pura, della realtà. Ecco dunque lo sforzo dell’intelletto: quello di unificare questa molteplicità in una legge generale del reale, nella legge delle leggi. Ma più si unificano le leggi nella legge, più questa perde di determinatezza, si allontana dalla presa sulla realtà:

Proviamo a schematizzare il denso brano che abbiamo letto. 1) La determinatezza della legge, che è come dire la sua espressività determinata rispetto alla realtà dei fenomeni, deriva proprio dalla differenza che essa

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conserva con la realtà fenomenica. In quanto la legge rappresenta una parte della Welt fenomenica, e non la totalità dell’ente, riesce a conservare in sé stessa una natura determinata. 2) Ma questa parzialità della legge significa che le leggi devono essere molteplici, e ciascuna relativa a una diversa regione degli enti. 3) Tale molteplicità delle leggi ha però un contraccolpo sulla struttura fondamentale dell’intelletto, che è orientato a rappresentare la realtà in forma universale. 4) Perciò l’intelletto non accetta fino in fondo quella molteplicità, ma vuole unificare le leggi in una legge generale, capace di rappresentare l’intero, la natura di ogni ente dell’universo. 5) a questa unica legge perde la determinatezza: possiamo dire che duplica il fenomeno (secondo la natura generale della legge), ma ormai in una forma indeterminata, che manifesta soltanto la forma della legge in generale. Esempio di questa unificazione è la legge dell’attrazione universale (il riferimento è a Newton). Questa legge, infatti, vuole esprimere una regola che ogni ente rispetti. Ogni ente, appunto: cioè non esprime altro che la forma della legge in generale. Non questa o quella legge, ma la legge generale. Tuttavia, ribadisce Hegel, questa figura dell’intelletto ha una grande importanza, perché consegue compiutamente l’astrazione, e svaluta il conoscere sensibile come tale:

5. Nei tre capoversi che seguono, Hegel insiste su questa doppia faccia della legge: da un lato, la legge riproduce l’interno come unità semplice (questo è il senso della legge universale a cui tende l’intelletto); per altro verso, la legge manifesta la relazione di differenze determinate, si compone di termini e di parti, ma senza riuscire a gustificarli: positivo e negativo, spazio e tempo. Da un lato, la legge esprime la forza in generale (l’attrazione, l’elettricità, ecc.), d’altro lato esprime quella forza come una relazione molteplice (elettricità positiva e negativa, ecc.). Il moto e la gravità sono essenze semplici, unità originarie, ma l’intelletto le rappresenta come composizione di termini che a rigore sono estranei a quella forza, come spazio e tempo, ecc. Ma così, da un lato la legge rappresenta la forza come tale, e d’altro la relazione di tempo e spazio, che ne è soltanto l’articolazione esteriore:

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6. Arriviamo così al concetto dello Erklären, dello spiegare: un passaggio la cui difficoltà è stata segnalata anche da Hyppolite (v. pp. 159-168). È un passaggio anche storicamente complesso, perché chiama in causa almeno due questioni di particolare difficoltà: da un lato la critica di Hume alla necessità della relazione, la risposta di Kant e quindi le considerazioni che si leggono nella logica di Jena; d’altro lato, più radicalmente, il nodo kantiano della relazione tra sensibilità e intelletto. Scrive Hegel:

Questa è la situazione che abbiamo di fronte. La parola che domina è indifferenza, die Gleichgültigkeit. La legge ha mostrato due facce, ma ciascuna è segnata dall’indifferenza. Da un lato la forza (la gravità, il moto, l’attrazione, ecc.) è indifferente verso le partizioni della legge (positivo, negativo, spazio, tempo). D’altro lato, nella legge determinata, una, le parti sono indifferenti l’una all’altra: il tempo non mostra una relazione intrinseca con lo spazio, ecc.

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Le due facce della legge si presentano, presa ciascuna per sé, come segnate dall’indifferenza. Ma l’intelletto, che è l’intero di questa situazione, possiede la differenza, e precisamente possiede la differenza come concetto. Il termine Begriff è la chiave di questo passaggio. Perché possiede la differenza come concetto? Hegel lo dice due volte. In primo luogo perché, prese insieme le due facce, la legge è l’essente-in-sé, il semplice, ma anche il differenziato, è la differenza di questi due momenti. In secondo luogo perché questa differenza dell’identico e del diverso è quella differenza su cui (come si ricorderà) era sorta la legge, e che la distingueva dalla pura essenza. La differenza, perciò (questo è il punto), è differenza del concetto, cioè differenza che riposa nell’intelletto. Che la differenza sia solo nel concetto, significa che l’intelletto non arriva ancora a porla nella cosa. Nel concetto significa qui: nella soggettività dell’intelletto, ancora distinta da quella dell’essere, della Sache, della cosa. La differenza è differenza del concetto, non ancora della cosa stessa. È perciò un che di soggettivo, depositato im Worte, nella parola, non nel fatto; è qualcosa che l’intelletto si limita a Hererzählen, è una Hererzählung (parola tedesca rara, che si ritrova solo in Goethe, che io sappia), un racconto. La cosa è indifferente: la differenza rimane il contenuto di una parola che vi si aggiunge, di un racconto dell’intelletto. Questo significa erklären, spiegare: osservo la cosa, che è come è, nella sua semplicità indifferenziata, e la esplico secondo il criterio delle mie differenze:

Lo Erklären compie il circolo della legge, perché ora l’intelletto si manifesta, nella sua interezza, come un movimento dell’identico e del differente. Bisogna leggere con cura questa battuta finale sullo erklären:

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Il movimento esplicativo dell’intelletto va preso sul serio. È vero, l’intelletto ritiene che nella cosa non ci sia la differenza. Ma la differenza sorge, si pone, nell’intero del movimento: l’intelletto la pone e, al tempo stesso, la toglie (cioè la toglie dalla cosa). La differenza, il divenire, che prima segnavano l’apparenza, sono ora trasferiti nel lato dell’intelletto. È l’intelletto, ormai, che opera quel movimento che prima caratterizzava la realtà fugace dell’apparenza.

XXII La dialettica interna dello Erklären ha rivelato uno scambio tra l’unicità della forza e la differenza di cui l’intelletto si fa carico per spiegare la forza stessa. Ma nello Erklären questo scambio è ancora segnato dal fatto che, mentre l’unità della forza cade nella cosa, il racconto di essa (la differenza) è assunto dall’intelletto nel proprio orizzonte soggettivo. Quando questo scambio diventa il movimento interno della cosa, assistiamo al curioso fenomeno della verkehrte Welt, del mondo invertito. Questo mondo si dice invertito perché l’in-sé, l’ultrasensibile, l’al di là del fenomeno, ha ormai lo stesso contenuto del fenomeno, ma la sua forma è inversa, cioè ha la forma dell’opposizione. Ma un medesimo contenuto, una stessa cosa, che ha la forma dell’opposizione, è in verità una cosa che si contraddice, che è e non è al tempo medesimo. La cosa che si contraddice ha ormai superato la differenza tra sensibile e ultrasensibile: cioè ha superato la figura della coscienza, e, attraverso l’infinità che la esprime, introduce nella situazione dell’autocoscienza. In primo luogo, però, il mondo invertito si presenta ancora come il mondo ultrasensibile. Scrive Hegel:

Questa espressione – verkehrte, invertito – assume qui un duplice senso. Da un lato (ed è il modo più semplice, ma anche – come vedremo – il più equivoco, di intenderlo), questo mondo è invertito perché inverte l’apparenza sensibile del fenomeno: ciò che, nell’apparenza fenomenica, mi sembra nero, è in verità bianco. Ma il discorso di Hegel è più complesso.

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L’inversione, infatti, non accade tra la legge e il fenomeno, ma accade nella legge. È la prima accezione della legge – quella che si presenta come calma copia del fenomeno, come l’essenza quieta del suo divenire – che qui mostra l’opposizione. È la legge per cui la cosa è nera che rinvia alla seconda legge per cui la cosa è bianca. L’inversione, ormai, accade nel dominio della legge, non più soltanto tra legge e fenomeno. Per questo Hegel scrive:

“Un lato”, cioè un lato dell’opposizione (il nero), già costituisce la legge: dunque l’inversione è già inversione della legge, non del solo sensibile ma dell’ultrasensibile. Ecco perché l’interno ist damit als Erscheinung vollendet, è con ciò compiuto come apparenza. È solo nell’inversione, nell’accoglimento in sé dell’opposizione, che l’ultrasensibile supera la differenza dal sensibile, e realizza la Erfüllung, il riempimento, l’adeguazione e il pareggiamento tra fenomeno e interno, tra fenomeno e legge.

Ecco dunque la differenza tra primo e secondo mondo ultrasensibile, tra il quieto mondo di leggi e il mondo invertito. Il primo mondo ultrasensibile era il Gegenbild, la controcopia, del mondo fenomenico. Ne era das Bild, l’immagine, il ritratto, la figura; ma lo teneva gegen, contro di sé, perché il mondo della percezione conservava per sé, in modo indipendente, “il principio dello scambio e del mutamento”, cioè la sussistenza del divenire. Il primo mondo ultrasensibile era soltanto la calma copia del mondo sensibile. Ma il secondo mondo ultrasensibile, cioè il mondo invertito, adempie questa mancanza, consegue quel principio, e trova in sé quel divenire che, in precedenza, apparteneva soltanto al fenomeno.

Possiamo ora osservare gli esempi che Hegel offre di questo mondo invertito. Il dolce è in-sé aspro, il nero è in-sé bianco, e così via. Cioè la stessa cosa, il medesimo, obbedisce a due leggi inverse, di cui si dice che l’una è l’in-sé, l’altra è il per-altro. Si dice ancora, cioè, che l’una è una legge esteriore, l’altra una legge interiore.

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In modo più intrinseco interviene ora quell’esempio “spirituale” che (come abbiamo visto leggendo Hyppolite) meglio rappresenta la situazione dell’inversione. La pena inflitta al colpevole è vendetta in un primo senso, ma espiazione, e dunque restaurazione dell’universo giuridico leso dal delitto, in un secondo senso. In questo secondo significato, la pena non punisce, non vendica l’offesa, ma restituisce l’innocenza al colpevole nell’atto stesso in cui reintegra il vulnus inferto al diritto.

A questo punto, Hegel ci mette sull’avviso di un possibile equivoco. In effetti, spiega, considerando oberflächlich, superficialmente, la situazione, potremmo pensare di essere tornati al punto di partenza. Cioè che la differenza tra il primo e il secondo mondo ultrasensibile non delinei un’opposizione della cosa stessa (e quindi il passaggio all’infinità), ma, di nuovo, una differenza tra l’esterno e l’interno, tra apparenza fenomenica ed essenza. Così, se la cosa, nell’apparenza, ha un sapore dolce, nell’interno o nella verità essa è aspra:

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Ma la situazione non può essere concepita così, perché qui non abbiamo più due sostanze indipendenti, due realtà separate, ma l’unica sostanza che si manifesta, in sé stessa, con determinazioni opposte:

Si faccia attenzione allo svolgimento che ora Hegel propone di questa lettura superficiale, equivoca. Se le cose stessero così, se i due lati della situazione costituissero ancora l’uno il mondo sensibile della percezione e l’altro un mondo interno essenziale, la conseguenza sarebbe che il mondo invertito si risolverebbe in una Vorstellung, in una rappresentazione, in qualcosa di soltanto immaginato. Tuttavia, come una rappresentazione immaginata con i caratteri sensibili (la visione del nero, il gusto dell’aspro, ecc.):

Ma ciò che è rappresentato sensibilmente, cioè la rappresentazione di una reale percezione (vedere il nero, gustare l’aspro) è in verità indistinguibile

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dalla percezione stessa. Entrambe sono rappresentazioni, ed entrambe hanno il carattere della realtà sensibile:

Questo medesimo ragionamento si fa più complesso quando si sposta sul piano degli esempi “spirituali”: il reato, la pena, l’intenzione. Anche qui, l’inversione della legge non è qualcosa di solo rappresentato, ma ha altrettanta realtà quanto il suo opposto. Così, nel rapporto tra l’azione come reato e l’intenzione. L’intenzione, vuole dire Hegel, non è qualcosa di solo immaginato, ma ha la sua verità nel fatto. Non vi è la realtà del reato a cui si accompagni la semplice rappresentazione di un’intenzione (per es. una buona intenzione che si traduca in una cattiva azione). L’intenzione è un fatto, al pari del reato che ne inverte il senso:

Ancora, il rapporto tra reato e pena è un rapporto dialettico, e non può essere inteso come rapporto tra fatto e rappresentazione.

Infine, la pena stessa è una reale inversione. Perché essa è punizione e restaurazione del diritto, attività punitiva e quiete derivante dall’estinzione del delitto:

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XXIII

Attraverso l’esperienza della Verkehrung, dell’inversione, abbiamo visto compiersi il destino di Erfüllung, di riempimento, del mondo sovrasensibile. Se osserviamo l’intero movimento di questa Verkehrung, ciò che abbiamo di fronte non sono più due mondi, ma la stessa determinazione come opposta, cioè la contraddizione. Nel linguaggio di Hegel, quando la determinazione si offre come un contraddirsi, abbiamo in realtà conseguito l’infinito. Sul piano logico, dunque, la contraddizione è la nota caratteristica del concetto di infinito. Ma così è superato il limite della coscienza, il suo dualismo conoscitivo è ormai riunificato nel movimento della cosa stessa. Oltre la coscienza, si delinea l’orizzonte dell’autocoscienza.

Hegel ci avverte subito che questo dualismo, che è il dualismo costitutivo della coscienza, sta ormai alle nostre spalle:

Aus der Vorstellung der Verkehrung, dalla rappresentazione dell’inversione, dunque, ist … zu entfernen, è da allontanare, da tenere lontana, la rappresentazione sensibile della Befestigung, del consolidamento, delle differenze in un diverso elemento del sussistere. La rappresentazione sensibile cerca appunto la differenza nella diversità di sostanze, in un diverso consistere. Ma questa rappresentazione ist … zu entfernen, è da tenere lontana, dalla rappresentazione dell’inversione. Infatti, questo concetto assoluto (puro, non sostanziale) della differenza è darzustellen, da presentare, e aufzufassen, da accogliere, nella forma speculativa di una differenza interna, non in quella sensibile di una differenza esterna. E Hegel ci spiega cosa significhi qui interna: il Gleichnamigen, l’omonimo, è Abstoßen, un respingersi da sé stesso; mentre lo Ungleichen, l’ineguale, è un essere eguale. Come l’identico è un differenziarsi in sé, la differenza è un identificarsi. La differenza non è più sensibile, esterna, ma interna: è un’opposizione, o meglio un contraddirsi della medesima determinazione: uno stesso, unico movimento, del differenziarsi e dell’unificarsi. Nel passaggio successivo, Hegel chiarisce questa situazione in termini logici:

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Quello che è da pensare qui, scrive Hegel, è lo scambio puro (il divenire della determinazione come tale), ossia la sua opposizione, o meglio la contraddizione. Ma in tale opposizione, l’opposto non può essere concepito come Eines von Zweien, come uno dei due; il termine opposto, appunto, non è un Seiendes, un essente, un termine indipendente dotato di una propria costituzione d’essere (che poi entrerebbe nella relazione oppositiva): esso è un opposto, cioè la sua costituzione non presuppone la dualità, la differenza, ma in essa soltanto si costituisce. La relazione è interna, non esterna, all’opposto: esso è soltanto l’opposto di un opposto, nel senso che l’Altro (l’altro termine opposto) non è oltre di lui, ma unmittelbar … vorhanden, immediatamente presente in lui. Posso, conclude Hegel, astrattamente dividere i due contrari, pensare che l’uno sia dove non è l’altro: ma questo contrario, isolato e tenuto fermo, mostrerà subito, internamente, la sua natura dialettica, si mostrerà come tale che ha in sé stesso, nella propria costituzione d’essere, l’altro contrario. L’unità dell’opposizione precede e include la distinzione dei termini che la costituiscono. È in tale unità, e non fuori di essa, che la distinzione si pone. Ma questo passaggio, di cui ora Hegel ha anticipato il senso logico (secondo una linea che sarà ripresa e svolta nella logica dell’essenza), deve essere osservato nella situazione specifica dell’inversione. Solo così possiamo coglierlo nella coscienza, come atto del suo stesso superamento. Il mondo ultrasensibile, spiega Hegel, ha ormai übergegriffen (tradotto qui con oltrepassato), ha usurpato, si è esteso a, ha soverchiato, ha compiuto un abuso verso, l’intero mondo fenomenico che aveva di fronte a sé: infatti lo ha tolto, lo ha superato e incluso in sé stesso. In questo senso, esso è die verkehrte ihrer selbst, l’invertito di lui stesso; non di un altro, ma di sé stesso, di ciò che include nella propria natura. Così la differenza non è più una differenza esterna, relativa a un mondo che è oltre l’essenza (oltre l’ultrasensibile, oltre la legge), ma è una differenza interna. Il mondo ultrasensibile, l’essenza, non è più un mondo finito (cioè un termine di una dualità), ma si pone ora als Unendlichkeit, come infinità. Scrive Hegel:

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L’infinito, aggiunge Hegel, è il vero superamento della mancanza, del difetto, che si era manifesta nella forma della legge:

Nei tre punti che seguono, Hegel spiega perché l’infinito non è una dissoluzione della legge, ma il suo unico possibile compimento:

Il primo aspetto è dunque questo: la legge si era presentata, nell’intelletto, come una forma eguale a sé, capace di manifestare la regola costante, sempre identica, di una differenza e di un divenire che le accadeva oltre, nel mondo fenomenico. Ma in realtà, la legge non ha di fronte a sé il fenomeno, come una diversa sostanza, ma è essa che genera il mondo fenomenico, differenziandosi e duplicandosi. Solo così, per via della sua conseguita infinità, essa è davvero legge. Se questo è vero, però, il problema della legge è quello di pensare questa unità tra sé e la propria differenza, questo suo interno duplicarsi:

Se noi non consideriamo la differenza come una differenza interna, cioè nella forma dell’infinità e dell’opposizione, la conseguenza, spiega Hegel, è distruttiva. Gli elementi della differenza (spazio, tempo, ecc.) resteranno indifferenti sia tra loro sia rispetto alla semplice unità della forza manifestata dalla legge. In altri termini, la legge non sarebbe una legge, non sarebbe affatto regola del fenomeno, ma soltanto di sé stessa. Quindi:

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Nella concezione della legge come infinito, le differenze si intrinsecano nella natura della forza, divengono le sue differenze, le articolazioni del proprio concreto divenire. Ecco perché solo nel concetto di infinità la legge trova il proprio compimento. Ma ora Hegel torna sul livello propriamente logico della questione, cominciando a introdurre un concetto proprio dell’autocoscienza, quello della vita. L’infinito, la contraddizione, delineano la vita della determinazione, cioè il suo divenire (è un concetto, questo, che tornerà con molto vigore nelle pagine della logica dell’essenza dedicate alla contraddizione, in particolare nella nota terza):

Questa semplice infinità è allgegenwärtig, onnipresente, ubiqua: cioè costituisce la realtà della determinazione come tale. Nulla sfugge a questa regola della realtà:

Ma ora il discorso si fa più difficile, riguarda la natura della differenza nell’infinità. L’infinito, proprio perché tale, non è unterbrochen, cioè interrotto/sospeso da alcuna differenza esterna, che esso abbia verso altro. In questo senso, è assoluto. Esso include la differenza, ma la include in quanto superata, cioè risolta nella sua vitale unità. È la ferma inquietudine dell’atto del porsi come tolte delle differenze:

L’infinito è semplicità, eguaglianza con sé. Scrive ora Hegel: die Unterschiede sind tautologisch; le differenze sono tautologiche. Tautologisch significa: la differenza non è una differenza reale, una differenza di sostanze, di A e B, ma la differenza interna di uno stesso. È relazione a sé, riflessione, e perciò differenza.

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Si presti attenzione al movimento logico rappresentato da Hegel nel passaggio appena letto. Ripercorriamolo in modo più analitico. La semplice infinità, scrive Hegel, è sichselbstgleich, eguale-a-sé-stessa, nel senso che non ha qualcosa fuori di sé che la condizioni: per questa natura di totalità, di perfetta inclusione, essa non è il finito, ma l’infinito, o (come aveva scritto poco prima) der absolute Begriff, il concetto assoluto. Il motivo per cui è sichselbstgleich consiste in ciò, che le differenze sind Unterschiede, die keine sind: sono differenze, che non sono differenze. Le differenze sind, sono, non vi è qui una completa assenza di negatività; ma sono proprio in quanto non sono differenze dall’infinito. Le include nella propria assolutezza, le tiene in sé. Questo significa che le differenze sono tautologisch, tautologiche. Tautologìa è un logos, un discorso, relativo a tautòs, lo stesso: to autò. Tautologia non indica qui un’ovvietà, come nel senso logico; indica un discorso che è relativo a to auto, allo stesso. Le differenze sono tautologiche perché non indicano una diversità di sostanze, ma to auto, lo stesso. Perciò l’infinito non si riferisce ad altro, ma nur auf sich selbst, solo a sé stesso. Ma Hegel sottolinea subito questa espressione, per indicarne il vero significato: auf sich selbst. Auf sich selbst significa: è ein Anderes, un altro, un differente, worauf die Beziehung geht, ciò verso cui va la relazione. L’infinito non trova ein Anderes contro di sé, ma geht, va, verso altro. Si riferisce solo a sé, e, in questo riferirsi a sé, è das Entzweien, il disunire, il rompere, lo scindere, il duplicare. Cioè, la Sichselbstgleichheit è, al tempo stesso, Unterschied, differenza, ma solo come innerer Unterschied, interna differenza. È proprio questo Entzweien – questo disunire che è il movimento proprio dell’infinito, e questi Entzweiten, questi lati scissi, i disuniti, che ne derivano – che deve qui essere approfondito. Scrive ancora Hegel:

Ciascuno di questi disuniti, di questi lati scissi, è dunque un Gegenteil, una parte-verso, un contrario, un opposto. Una parte-verso eines Anderen, di un altro, dell’altro contrario. Ma con ciò, zugleich, al tempo stesso, è già ausgesprochen, dichiarato, espresso, l’altro contrario. Quando provo a dichiarare il singolo contrario, in realtà ho già dichiarato l’altro, perché esso lo trattiene nella propria costituzione d’essere. Per questo Hegel afferma che il singolo contrario è das reine Gegenteil, il puro contrario, ossia ciascuno è

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l’intera contrarietà, è in sé stesso il contrario di sé stesso. Ciascun termine è già il contrariarsi, il contraddirsi. Ma vediamo come il discorso di Hegel presenti ulteriori complicazioni. Poco dopo, scrive infatti:

Torniamo con ciò allo Entzweien, al disunirsi, come movimento proprio del Sichselbstgleiche, dell’infinito come eguale-a-sé-stesso. Ma questo disunirsi significa ebensosehr, altrettanto: esso, l’infinito, hebt sich … auf, supera sé stesso, als schon Entzweites, come qualcosa di già disunito, di già differenziato; hebt sich … auf als Anderssein, supera sé stesso come alterità, come essere-altro. La scissione dell’infinito non genera dunque la differenza reale dei termini scissi (contrari), ma genera, immediatamente, il superamento della scissione. La differenza non si offre mai come differenza sostanziale, ma soltanto come atto del superamento della differenza nell’infinità, come una negatività già inclusa nell’eguale-a-sé-stesso. Come si vede, questo è il passaggio fondamentale del ragionamento di Hegel, e ci presenta, in poche righe, l’essenza (e il mistero) della dialettica. La distinzione non può che presentarsi come una distinzione già tolta nell’unità positiva del concetto assoluto. Scrive ancora Hegel:

Il movimento dell’infinito viene ora osservato in tutta la sua estensione, cominciando, per così dire, dal centro del problema. Come si vede, Hegel introduce qui, per illustrare la propria posizione, il difficile concetto dell’astrazione. Si dice (l’intelletto, che non coglie la natura dell’infinito, dice, sagt) che l’unità non è uno Entzweien, un disunirsi, un generare, in sé, la differenza, un contraddirsi. Si dice, con ciò, che l’unità è un lato di una scissione: che l’unità non è la differenza, e che, viceversa, la differenza non è l’unità. Identità e differenza costituiscono così, per l’intelletto, due termini contrari, nel senso dell’esteriorità. Ma questa unità, aggiunge subito Hegel,

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ist die Abstraktion der Einfachheit, è l’astrazione, della semplicità, è solo l’astrazione dell’unità dell’infinito: l’infinito vi è astratto, cioè separato, dal momento della differenza che, in realtà, lo costituisce. Ma qui è da ripetere il medesimo argomento che poco fa era stato adoperato per mostrare che il contrario è, in verità, il contrario puro, il contrario di sé. Perché, se l’unità è il contrario della differenza, la conseguenza è che essa tiene in sé la differenza, che questa costituisce quella, e che dunque è non solo sé stessa ma anche il suo opposto. Perciò, l’unità non può essere astratta dalla differenza, ma occorre la visione concreta della loro unità, dell’unità dell’unità e del disunito. Ma questa unità è un movimento, un divenire: è il divenire dell’infinito, cioè il suo disunirsi nella differenza, ma in modo tale che la differenza è solo una differenza superata, trattenuta nell’identità che la costituisce.

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