Religione e società in Italia durante la Grande Guerra

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Religione e società in Italia

durante la Grande Guerra

Di Renato Montagnolo

Indice

1. I vertici ecclesiastici e la guerra p. 2

2. Esperienza diretta e coinvolgente per l'episcopato p. 7

3. I vescovi durante la guerra: i casi di Firenze e Bologna p. 11

4. Laici in uniforme tricolore p. 16

5. La preghiera durante la guerra p. 17

6. Conclusioni p. 20

7. Bibliografia p. 23

1

La Grande Guerra segnò un momento cruciale e condizionante nel rapporto tra religione e

società in Italia. Il conflitto fu un'esperienza decisiva per molteplici aspetti: innanzitutto è

necessario sottolineare come abbia rappresentato l'incentivo e il motore sia per la sacralizza-

zione della politica, sia, viceversa, per la politicizzazione del culto cattolico e per l'entrata

definitiva dei cattolici nella vita politica d'Italia.

Come vedremo, la guerra farà emergere sostanziali differenze tra le posizioni assunte dai

vertici della Chiesa, dall'episcopato e dai fedeli:

in questo saggio si è cercato di delineare questo scenario evidenziando come l'orientamento

transnazionale e pacifista vaticano non sempre riuscì a imporsi e a non subire

condizionamenti dai diversi contesti politici nazionali.

1. I vertici ecclesiastici e la guerra

Allo scoppio della prima guerra mondiale, il 28 luglio 1914, il tema della pace era molto

diffuso all'interno del mondo cattolico: il magistero pontificio da tempo andava denunciando

i pericoli di una pace armata, la corsa agli armamenti foriera di nuovi conflitti, il rischio di

imminenti guerre in conseguenza di un ordine internazionale imperfetto e ingiusto1.

Già alla vigilia della guerra, attraverso l'allocuzione concistoriale del maggio 1914, Pio X

aveva reso nota la scelta di campo dell'organizzazione romana in merito al precipitare degli

eventi. Questa fu mantenuta durante tutto l'estate del 1914, attraverso un costante impegno

vaticano per scongiurare, attraverso le nunziature, il ricorso alle armi.

Lo scoppio del conflitto e la successiva morte di Pio X, in data 20 agosto 1914, rese partico-

larmente complicata la situazione del Vaticano.

L'iniziale neutralità italiana apparve in questo senso provvidenziale, se non altro perché ga-

rantì il regolare svolgimento del conclave e, quindi, l'elezione del nuovo papa.

In un intervento del 31 agosto, davanti ai cardinali riuniti a Roma per eleggere il pontefice,

Aurelio Galli, segretario delle lettere ai principi, ripropose le posizioni di Pio X. Nella con-

sueta Oratio de eligendo summo pontefice, veniva presentata al futuro pontefice una piatta-

forma della linea da adottarsi davanti al dilagare del conflitto. Nel discorso emergevano tre

elementi centrali della lettura della guerra: interpretazione come punizione per l'apostasia

della società moderna; funzione purificatrice; necessità di riconoscere al pontefice un potere

1 R. Morozzo della Rocca, Benedetto XV e la sacralizzazione della prima guerra mondiale, in M. Franzinelli- R. Bottoni, a cura di, Chiesa e guerra. Dalla “benedizione delle armi” alla “Pacem in terris” , Il Mulino,Bologna 2005, pp. 165-181, ivi. p. 165.

2

supremo di direzione e di arbitrato internazionale2.

La scelta del nuovo papa prese comunque corpo in un clima fortemente condizionato dalla

guerra: i cardinali non italiani (31 su 65) si presentarono a Roma con appelli e dichiarazioni

che giustificavano le decisioni dei propri governi nazionali. I candidati non italiani, quindi,

appartenevano per lo più a uno dei due fronti di guerra. Per questo motivo il conclave decise

di eleggere l'arcivescovo di Bologna Giacomo Della Chiesa. Benché non fosse figura molto

nota e fosse diventato cardinale solo quattro mesi prima, il nuovo pontefice, nominato Bene-

detto XV, poté garantire equidistanza tra i paesi belligeranti3.

Il nuovo papa, nell'assumere posizione rispetto alla guerra, non si distaccò molto dal suo pre-

decessore. Come risulta dal profilo delineato nella sua prima enciclica Ad Beatissimi Aposto-

lorum del 1° novembre 1914, Benedetto XV ripose nel rifiuto della società e delle istituzioni

cristiane la ragione dei disordini e dei mali del mondo contemporaneo:

Vi è un’altra furibonda guerra, che rode le viscere dell’odierna società: guerra che spaventa ogni persona di

buon senso, perché mentre ha accumulato ed accumulerà anche per l’avvenire tante rovine sulle nazioni, deve

anche ritenersi essa medesima la vera origine della presente luttuosissima lotta. Invero, da quando si è lasciato

di osservare nell’ordinamento statale le norme e le pratiche della cristiana saggezza, le quali garantivano esse

sole la stabilità e la quiete delle istituzioni, gli Stati hanno cominciato necessariamente a vacillare nelle loro

basi, e ne è seguito nelle idee e nei costumi tale cambiamento che, se Iddio presto non provvede, sembra già

imminente lo sfacelo dell’umano consorzio. I disordini che scorgiamo sono questi: la mancanza di mutuo amo-

re fra gli uomini, il disprezzo dell’autorità, l’ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali, il bene materiale

fatto unico obiettivo dell’attività dell’uomo, come se non vi fossero altri beni, e molto migliori, da raggiungere.

Sono questi a Nostro parere, i quattro fattori della lotta, che mette così gravemente a soqquadro il mondo. Biso-

gna dunque diligentemente adoperarsi per eliminare tali disordini, richiamando in vigore i princìpi del cristia-

nesimo, se si ha veramente intenzione di sedare ogni conflitto e di mettere in assetto la società.

Tra le cause della guerra furono anche indicate il rifiuto dell'autorità da una parte, la moder-

na indipendenza del potere umano da Dio dall'altra:

causa dello scompiglio sociale consiste in questo, che generalmente non è più rispettata l’autorità di chi co -

manda. Infatti, dal giorno in cui ogni potere umano si volle emancipato da Dio, creatore e padrone dell’univer-

so, e lo si volle originato dalla libera volontà degli uomini, i vincoli intercedenti fra superiori e sudditi si anda-

rono rallentando talmente da sembrare ormai che siano quasi spariti.

Nell'enciclica, inoltre, si faceva riferimento alla perdita di valori morali nella vita dei singoli

e si condannarono l'egoismo nazionalistico, l'odio di razza, la lotta di classe:

2 D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, IlMulino, Bologna 2008, pp. 15-16.

3 C. Stiaccini, La Chiesa, l'Italia e la guerra, in A. Gibelli, a cura di, La prima guerra mondiale, Einaudi,Torino 2007, vol.2, pp. 125-135, ivi, pp. 125-126.

3

La verità però è questa, che mai tanto si disconobbe l’umana fratellanza quanto ai giorni che corrono. Gli

odi di razza sono portati al parossismo; più che da confini, i popoli sono divisi da rancori; in seno ad una stessa

nazione e fra le mura d’una città medesima ardono di mutuo livore le classi dei cittadini, e fra gl’individui tutto

si regola con l’egoismo, fatto legge suprema.

In continuità col predecessore, gli interventi di Benedetto XV recarono costantemente con-

danne e deplorazioni della guerra. Egli propose a più riprese piani di disarmo, di demilitariz-

zazione delle società europee, di abolizione della leva obbligatoria. La condanna della guerra

nel pontefice trovava più motivazioni. Vi era la necessità di salvare l'unità della Chiesa e di

contrastare lo scontro tra cattolici; è individuabile un atteggiamento di universalità e di fra-

ternità umana; emergeva la paura di uno sconvolgimento dell'ordine europeo causato dal

conflitto4.

«Mischiare l'autorità pontificia alle dispute dei belligeranti non sarebbe né conveniente né

utile», avrebbe spiegato il papa nel 1915. Ogni attitudine non perfettamente imparziale

avrebbe «esposto la pace e la concordia interna della Chiesa a grandi perturbazioni». «Se la

guerra continua a lungo avremo una rivoluzione sociale quale il mondo non ne ha ancora mai

visto»5.

Durante gli otto mesi iniziali del conflitto, la politica diplomatica della Santa Sede fu agevo-

lata, come detto, dalla neutralità dell'Italia. In questo periodo la Chiesa si adoperò in azioni

diplomatiche mirate a favorire soluzioni pacifiche. Svolse un ruolo di mediazione tra Italia e

Austria-Ungheria per la questione del Trentino, riaprì canali di dialogo chiusi da anni con i

governi italiano, britannico e francese6.

L'atteggiamento di rigorosa imparzialità di fronte ai paesi belligeranti tenuto dal neoeletto

capo della Chiesa, non fu comunque sufficiente a evitargli l'accusa di simpatizzare per gli

Imperi centrali: il sospetto nasceva per un verso dalla frequenza dei contatti con Germania e

Austria-Ungheria, per l'altro dalla tradizionale debolezza dei rapporti con le potenze dell'In-

tesa – Usa e Gran Bretagna avevano ritirato le rappresentanze da Roma a fine Ottocento, la

Francia aveva rotto le relazioni con la Santa Sede nel 19057.

L'entrata in guerra dell'Italia complicò ulteriormente la situazione. Da subito le attività diplo-

matiche vaticane vennero trasferite da Roma alla neutrale Svizzera, che divenne crocevia

delle iniziative per la pace8.

4 R. Morozzo della Rocca, Benedetto XV e la sacralizzazione della prima guerra mondiale, cit., pp. 172-173.5 Cit. in Ivi, p. 173.6 C. Stiaccini, La Chiesa, l'Italia e la guerra, cit., p. 127.7 Ibidem.8 Ibidem.

4

La Prima guerra mondiale si rivelò un conflitto di ampiezza sbalorditiva, una guerra totale,

che mise in grave crisi una Chiesa che aveva fedeli nelle varie nazioni belligeranti.

Come abbiamo precedentemente detto, l'impegno per la pace di Benedetto XV fu l'aspetto

centrale del magistero, motivato in gran parte dall'ambizione di ricostruire una società

cristiana a guida romana. Su questo aspetto battevano anche le riviste cattoliche. Il supremo

potere pontificio veniva presentato come garante della pacifica convivenza, sul modello della

cristianità medievale. È nel quadro complessivo di questo parametro che sembrano trovare

reale spiegazione le articolazioni che l'orientamento pontificio assunse nel corso del

conflitto: dallo sforzo di ottenere una tregua d'armi per il Natale 1914 – come consuetudine

della cristianità medievale – agli interventi diplomatici perché le operazioni di guerra fossero

condotte secondo le leggi internazionali, dalle molteplici forme di intervento presso i governi

belligeranti per iniziative umanitarie ai soccorsi distribuiti a popolazioni particolarmente

colpite dalla guerra. Deplorazione, esortazione, preghiera, azione assistenziale e caritativa: il

dispiegamento di questa attività papale rappresentò quindi una funzione di arbitrato

universale9. Ciò non mette certamente in discussione la neutralità e l'imparzialità della

diplomazia pontificia tra le parti in conflitto: specifica solamente come la restaurazione del

supremo potere arbitrale del pontefice abbia rappresentato uno dei tratti salienti della

mentalità con cui la curia guardò la guerra.

Nell'ottica del ristabilimento della concordia internazionale, Benedetto XV puntò anche sul

fattore religioso. In questa prospettiva è utile sottolineare la particolare intensità con la quale

il papa si dedicò alla promozione del culto del Cuore di Gesù. La preghiera al Sacro Cuore

avrebbe portato alla pace favorendo l'affermazione sulla terra di quell'amore di Cristo, cui

cuore ne era simbolo10.

Mentre nella prospettiva del papa il culto del Sacro Cuore doveva rappresentare un incentivo

alla pace e all'affermazione dei sovrani diritti di Cristo e del suo vicario sul mondo, le diver-

se chiese nazionali ne operarono una politicizzazione in chiave nazionalistica. In Italia, come

vedremo successivamente, padre Gemelli operò attivamente per giungere alla consacrazione

dell'esercito al Sacro Cuore, che avvenne il 5 gennaio 191711.

Tornando ad analizzare la posizione della Santa Sede in merito al conflitto, si deve notare

che, la condanna reiterata e costante della guerra da parte dell'ex arcivescovo di Bologna,

non comportò una ridefinizione della dottrina tradizionale della Chiesa sulla guerra giusta:

9 D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento, cit., pp. 25-26.10 Ivi, pp. 31-32.11 Si veda S. Lesti, Per la vittoria, la pace, la rinascita cristiana. Padre Gemelli e la consacrazione dei soldati

al Sacro Cuore (1916-1917), in «Humanitas», LXIII, 2008, 6, pp. 959-975.

5

nell'allocuzione concistoriale del gennaio 1915 egli rivendicava il diritto del papa a giudica-

re ogni comportamento umano – compresi quelli bellici. Allo stesso tempo rifiutava di for-

mulare tale giudizio in merito alla guerra in corso in quanto padre di fedeli militanti nei due

schieramenti opposti12.

Inoltre il Vaticano mantenne una visione geopolitica degli equilibri europei: questo perché le

fortune dei vari contendenti non risultavano indifferenti alla Santa Sede. Il papa conservò

fino alla fine del conflitto alcuni obiettivi strategici: l'Europa da lui auspicata deprecava la

distruzione dell'Impero asburgico, voleva un ridimensionamento dell'Impero russo, era mo-

deratamente favorevole alla Francia e, in generale, aveva una preferenza verso il conservato-

rismo tollerante degli Stati multinazionali, come appunto l'Impero asburgico, piuttosto che

per il tumultuoso e intransigente principio di nazionalità, rivendicato tra le altre dalla Germa-

nia guglielmina13.

Non per questo però Benedetto XV rinunciò a richiamare la necessità di una moralizzazione

del conflitto, ricordando ai contendenti i criteri con cui dovevano comportarsi.

Sono peraltro ben conosciuti i richiami pontifici nei confronti di quei cattolici che provarono

a giustificare con troppa veemenza e sulla base dell'etica cristiana le varie guerre nazionali.

Degna di nota fu la circolare rivolta a tutti gli ordinari italiani da Gasparri nel maggio del

1915. Con questa circolare fu esteso il divieto ai vescovi di pronunciare discorsi o organizza-

re manifestazioni pubbliche per i soldati e funerali per i caduti, tranne se richiesto e comun-

que solo in caso di vittorie decisive14. In particolare la distanza tra il papa e il cattolicesimo

eccessivamente nazionale si profilò dopo la celebre Nota dell'agosto 1917, che assegnava

alla guerra in corso l'appellativo di «inutile strage». L'analisi complessiva del testo indirizza-

to ai capi delle nazioni belligeranti rivela un'articolazione in tre parti. Nella prima venivano

ricordati i precedenti appelli alla pace del papa. Nella seconda si indicavano sia gli elementi

giudicati imprescindibili dalla Santa Sede per garantire in futuro una pace duratura – disarmo

e arbitrato - sia i punti fondamentali sui quali impostare le trattative di pace. Nella terza veni-

va lanciato un pressante appello ad accogliere l'invito, sottolineato dal richiamo all'«inutile

strage».

Con questa nota la Santa Sede voleva dimostrare ai governi la capacità di orientare i fedeli

ad un allontanamento dalla guerra, anziché all'obbedienza. Rappresentò quindi uno strumen-

to di ingente pressione per affermare un forte ruolo di mediazione sulla scena internazionale

12 Cfr. D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento, cit., pp. 36-37.13 Cfr. R. Morozzo della Rocca, Benedetto XV e la sacralizzazione della prima guerra mondiale, cit., pp. 174-

177.14 M. Caponi, Una diocesi in guerra: Firenze (1914-1918), in «Studi storici», 50, 2009, 1, pp. 231-255, ivi, p.

236.

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e rafforzare così la presenza vaticana sul piano mondiale15.

Come sottolinea L. Ceci, Benedetto XV considerava la Prima guerra mondiale un castigo

presentato da Dio agli Stati allontanatisi dalla religione che rifiutavano di osservare, nelle

leggi, nelle idee e nei costumi, le norme della cristiana saggezza. Ne conseguiva che le na-

zioni avrebbero riconquistato la pace solo a patto di ritornare alla dottrina del Vangelo e della

Chiesa16.

Va ricordato, comunque, che questa presa di distanza dalla guerra non comportò l'autorizza-

zione a forme di disobbedienza nei confronti di autorità di governo e militari, secondo i pre-

cetti tradizionali vaticani.

Per concludere dobbiamo sottolineare che l'azione della Santa Sede si articolò su due piani

distinti: oltre a quello, già visto, del ripudio e della condanna incondizionata del conflitto,

che non produsse, almeno a livello diplomatico, nessun risultato utile, vi fu l'impegno nel-

l'assistenza morale ai fedeli impegnati nei diversi opposti eserciti, che riscosse maggior for-

tuna ma finì per esporre la Chiesa ad attacchi e sospetti17.

2. Esperienza diretta e coinvolgente per l'episcopato

Gli sforzi di Pio X e di Benedetto XV in favore della pace non sempre trovarono riscontro

nelle posizioni degli episcopati nazionali. Anche perché i due pontefici presero apertamente

le distanze dagli scopi della guerra, ma non misero mai in discussione le legittime autorità,

né, come abbiamo appena visto, autorizzarono forme di disobbedienza18. La linea di rigorosa

neutralità e imparzialità della Santa Sede, da una parte consentì la deplorazione, il rimprove-

ro e la possibilità di offrire aiuti concreti alle popolazioni colpite, dall'altra non diede la pos-

sibilità di intervenire in modo efficace per porre fine alla guerra. Tale impotenza nasceva

proprio dal fatto che gli episcopati nazionali strumentalizzarono l'interpretazione provviden-

zialistica del conflitto, in modo da giustificare i motivi dell'adesione alla guerra dei rispettivi

governi. Nell'esaltazione patriottica del cattolicesimo durante il conflitto giocarono molti

aspetti. Meritevoli di una citazione particolare sono certamente l'utilizzo strumentale del cul-

to del Sacro Cuore e del concetto di sacrificio, di cui tratteremo in seguito, l'interpretazione a

proprio vantaggio della teologia della “guerra giusta”, l'accusa ai nemici di essere la causa

15 D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento, cit., p. 44.16 L. Ceci, L'interesse superiore. Il Vaticano e l'Italia di Mussolini, Laterza, Bari 2013, p. 39.17 C. Stiaccini, La Chiesa, l'Italia e la guerra, cit., p. 128.18 Ivi, p. 128.

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della diffusione dell'apostasia moderna19.

In questo contesto, i vescovi italiani non espressero un atteggiamento univoco nei con-

fronti della Grande Guerra, pur cercando di mediare tra le posizioni distaccate e intransigenti

del pontefice e le richieste di collaborazione del governo italiano. Alcuni assunsero, anche

solo in privato, posizioni critiche sulla volontà italiana di partecipare al conflitto, così come

sull'atteggiamento ufficiale tenuto dai cattolici. I pochi che manifestarono apertamente il pro-

prio appoggio alla guerra - fra questi merita citazione il cardinale Maffi20 - divennero icone

del patriottismo religioso e figure di riferimento del connubio Fede-Patria. Altri, non dimo-

strando lo stesso slancio nazionalistico dell'arcivescovo di Pisa, contribuirono ad alimentare

le ragioni di chi considerava la Chiesa un pericoloso nemico interno21.

Nonostante ciò per il clero si trattò di un'esperienza diretta e molto coinvolgente se non altro

in termini quantitativi. Secondo una stima ufficiale della Santa Sede, 24.446 ecclesiastici, di

19 M. Malpensa, Il riavvicinamento dei cattolici allo Stato italiano tra la guerra di Libia e la Grande Guerra ,in M. Paiano, a cura di, I cattolici e l'unità d'Italia. Tappe, esperienze, problemi di un discusso percorso ,Cittadella Editrice, Assisi 2012, pp. 281-312, ivi, pp. 302-303.

20 Pietro Maffi (Corteolona, 12 ottobre 1858 – Pisa, 17 marzo 1931) è stato un cardinale italiano. Compiuti glistudi ginnasiali nelle scuole pubbliche, nel 1873, entrò nel seminario di Pavia, dove, dall'ottobre 1876 algiugno 1880, frequentò i corsi di teologia. Il vescovo A. Riboldi attribuì al M., non ancora sacerdote,l'insegnamento di fisica e storia naturale nello stesso seminario, incarico che il M. tenne ininterrottamentesino alla primavera del 1901. Nel frattempo, il 17 aprile 1881, fu consacrato sacerdote a Pavia. Durante ilventennio d'insegnamento, il M. si consacrò quasi completamente agli studi scientifici. L'attività scientificadel M. fu vastissima, dall'astronomia alla meteorologia, dalla sismologia alla scienze naturali. I risultaticonseguiti valsero al M. importanti segni di stima da gran parte delle società scientifiche. Il 15 apr. 1901mons. Riboldi fu nominato arcivescovo di Ravenna. Non volendo privarsi della collaborazione del M., loscelse quale proprio vicario generale il successivo 6 ottobre. Il 25 aprile 1902, il nuovo arcivescovo morì.Cinque giorni più tardi, un decreto della congregazione del Concilio nominò il M. amministratoreapostolico dell'arcidiocesi ravennate. L'11 giugno, Leone XIII lo consacrò vescovo titolare di Cesarea diMauritania e lo elesse ausiliare di Ravenna. Poco più di un anno dopo, durante il concistoro del 25 giugno1903, il M. fu designato arcivescovo di Pisa. Il primo decennio del M. a Pisa si svolse in stretto rapportocon le imponenti trasformazioni che allora stavano investendo il movimento cattolico nella fase finaledell'Opera dei Congressi, sciolta definitivamente nel 1904. Rispondendo a quella ricerca di forme nuovedella presenza cattolica nella società, manifestate dal nuovo pontefice, Pio X, il M. si mantenne semprefedele all'idea di un cattolicesimo tanto più impegnato politicamente e socialmente rispetto ai trent'anniprecedenti quanto costantemente regolato dal magistero dei vescovi e del papa. Nel corso del suoepiscopato, compì quattro visite pastorali, si impegnò per la nascita di casse rurali, casse operaie,associazioni di mutuo soccorso, fondò un'opera per gli asili infantili che furono incoraggiati in tutte leparrocchie. Testimonianza dei suoi orientamenti fu la settimana sociale di Pistoia (23-28 sett. 1907) in cui sidiscusse sulla cooperazione, sulle associazioni femminili, sull'educazione della classe operaia, sulla scuola,sulla questione dell'emigrazione. Tanta operosità fu riconosciuta da Pio X che lo nominò cardinale durante ilconcistoro del 15 aprile 1907. La designazione avrebbe comportato il trasferimento del M. a Roma, ma unacommissione, formatasi spontaneamente tra alcuni cattolici pisani e presieduta da Toniolo, convinse il papa,nel corso di un'udienza, a lasciare che il nuovo cardinale rimanesse a Pisa mantenendo l'ufficioarcivescovile. Durante la guerra di Libia, il M. si allineò pubblicamente a posizioni filonazionalistiche.Anche durante la prima guerra mondiale, alla luce dell'avvicinamento compiuto tra il movimentonazionalista e una parte dello schieramento cattolico al congresso di Milano del maggio 1914, il M. lasciòintendere chiaramente la propria posizione. Celebre fu, a tal proposito, il discorso Per il trionfo delle nostrearmi (11 luglio 1915) che, sin dal titolo, non lascia adito a dubbi sulle caratteristiche del nazionalismo delMaffi. Fonte: Dizionario biografico degli italiani

21 C. Stiaccini, La Chiesa, l'Italia e la guerra, cit., p. 129.

8

cui circa 15.000 sacerdoti, furono richiamati alla difesa della patria22. Altro aspetto da sottoli-

neare riguarda il corpo dei cappellani militari. Nonostante fosse stato riammesso nell'esercito

italiano solo alla vigilia della guerra, questi risultò tra i più organizzati ed efficienti di tutti i

paesi belligeranti. Ciò fu dovuto anche alla collaborazione della Santa Sede, che mobilitò i

suoi maggiori esponenti per far sì che l'ordinariato militare potesse inscriversi all'interno di

un rapporto di più stretta collaborazione tra gerarchie ecclesiastiche e autorità di governo. Le

stesse autorità di governo, tra cui il primo ministro Salandra, il generale cattolico Cadorna e

diversi esponenti della classe politica laica e moderata, si affidarono alla legge sulla regola-

mentazione della mobilitazione – legge che reintrodusse l'assistenza religiosa ai soldati –

come fattore di coesione morale per il mantenimento della disciplina tra le truppe e come

collante ideale per la costruzione di un'identità nazionale23.

I cattolici al fronte esercitarono un ruolo di fondamentale importanza: ebbero il compito di

marginalizzare l'esperienza della morte, allontanandola il più possibile dall'orizzonte mentale

di milioni di uomini, senza per questo rinunciare a una funzione consolatoria che risultò fon-

damentale alla tenuta del morale delle truppe24.

In questo ambito ebbe un ruolo rilevante la categoria del sacrificio, già molto diffusa al-

l'interno del cattolicesimo all'inizio del XX secolo. Tale categoria trovava le sue origini in-

dietro nel tempo: J. de Maistre, nelle celebri Soirées de Saint-Pétersbourg, istituì un nesso

logico tra la morte cruenta degli innocenti e il rafforzamento della nazione. De Maistre, se-

condo cui le nazioni venivano punite con la guerra per riparare ai propri peccati, aveva molta

influenza sulla cultura cattolica degli anni precedenti la Prima guerra mondiale, tanto che

condizionò le scelte dell'episcopato25.

Il concetto di sacrificio cominciò ad essere utilizzato dal clero italiano sin dall'agosto 1914.

La morte di Pio X, datata 20 agosto, venne attribuita al dolore causato dallo scontro intraeu-

ropeo che vedeva protagonisti i suoi figli. Alcuni vescovi, tra cui quelli di Pisa, Como, Gub-

bio, non esitarono ad affermare che il pontefice si fosse concesso in olocausto per far cessare

il conflitto26.

L'interpretazione sacrificale della morte di Pio X fu rivista in maniera funzionale anche al-

22 Per quanto riguarda la partecipazione del clero secolare alla guerra, R. Morozzo della Rocca, La fede e laguerra. Cappellani militari e preti-soldati (1915-1919), Studium, Roma 1980; Idem, I cappellani militaricattolici nella prima guerra mondiale, in G. Rochat, a cura di, La spada e la croce. I cappellani italianinelle due guerre mondiali, «Bollettino della Società di Studi Valdesi», 70, 1995, 176, pp. 61-71.

23 C. Stiaccini, La Chiesa, l'Italia e la guerra, cit., p. 131.24 Ivi, p. 134.25 M. Malpensa, Il sacrificio in guerra nelle lettere pastorali dell'episcopato, in D. Menozzi, a cura di, La

chiesa e la guerra. I cattolici italiani nel primo conflitto mondiale , «Humanitas», 63, 2008, 6, pp. 905-924,ivi, p. 908.

26 Ivi, p. 909.

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l'interno dell'evento bellico: i sacrifici divennero necessari per far cessare il conflitto. Nei

mesi precedenti l'entrata in guerra dell'Italia non mancarono i vescovi che, in riferimento al

solito concetto di sacrificio, esortarono i fedeli a dedicarsi a pratiche di espiazione e peniten-

za e a partecipare al sacrificio incruento della Messa27.

Ma questa parte dell'episcopato italiano divenne minoritaria a partire dalla seconda metà del

1915. La categoria del sacrificio servì a rendere legittima e virtuosa la partecipazione italiana

al conflitto. I risvolti tragici dello scontro bellico assumevano quindi un significato espiato-

rio. Le varie pastorali dei vescovi italiani proponevano il concetto sacrificale seguendo alcu-

ni punti chiave: ineluttabile necessità del sacrificio per placare la giustizia divina, maggior

valore salvifico degli innocenti, legame sostanziale tra il sacrificio di Cristo e quelli richiesti

durante la guerra28.

Già tre mesi prima dell'entrata in guerra dell'Italia, mons. G. Delrio, vescovo di Gerace, ri-

volgeva un preciso messaggio ai propri fedeli: dare il sangue o sacrificarsi per la religione

rappresentava la migliore espiazione per l'apostasia delle nazioni da Dio e dalla sua Chiesa29.

Argomentazioni che verranno riprese durante la guerra: molti vescovi, da quello di Milano a

quello di Pontremoli, utilizzarono la categoria del sacrificio nei confronti della patria come

elemento in grado di conferire un significato religiosamente positivo alla morte di migliaia di

giovani. La religione benediva e santificava i sacrifici nei confronti della patria perché ciò

avrebbe portato grandi vantaggi all'intera società, in grado di espiare le proprie colpe e riav-

vicinarsi a Dio30.

Per questi motivi, nonostante fosse possibile registrare un'avversione di fondo dell'episcopa-

to italiano nei confronti della guerra – secondo M. Malpensa si tratta della posizione domi-

nante in termini quantitativi – questa risultò essere fortemente ridimensionata dall'impiego

della categoria del sacrificio31. Anche perché le lettere dei giovani cattolici in partenza per il

fronte attestano come la consapevolezza di compiere un sacrificio valido sia per la nazione

che per la fede religiosa fosse decisiva nell'alimentare la prova bellica32.

Nonostante non sia possibile stabilire fino a che punto l'interpretazione della morte in guerra

come sacrificio salvifico fosse efficace tra le file dell'esercito, l'importanza giocata dalla ca-

tegoria sacrificale è attestata dalla circolare inviata dal ministro di Grazia e Giustizia Sacchi

dell'8 aprile 1918. Egli chiese, e ottenne, un intervento esplicito dei vescovi al fine di far in-

27 Ivi, pp. 910-911.28 Ivi, p. 913.29 Ivi, p. 915.30 Cfr. Ivi, pp. 916-917.31 Ivi, p. 911.32 Cfr. Ivi, pp. 305-306

10

tensificare l'intervento del clero di provincia per «diffondere il convincimento che dall'esito

felice della nostra guerra nazionale dipendono la salvezza e la fortuna della patria»33.

3. I vescovi durante la guerra: i casi di Firenze e Bologna

Per fare un quadro sulla varietà del comportamento tenuto dai vescovi durante gli anni

1914-1918, anche se questo non risulterà generalizzabile a tutto l'episcopato italiano34, vo-

glio prendere in considerazione le diocesi di Firenze e di Bologna.

Allo scoppio del conflitto mondiale, Mistrangelo era vescovo di Firenze da quasi quindici

anni. Durante la precedente guerra, quella di Libia, egli non si pronunciò pubblicamente,

evitò esternazioni nazionalistiche e si astenne dal legittimare formalmente la guerra condotta

dal governo italiano35.

Nell’estate 1914, dinanzi allo scoppio del conflitto Mistrangelo adottò, in linea con le diretti-

ve di Pio X, l’interpretazione intransigente della guerra come castigo divino per l’apostasia

dei popoli e degli Stati dalle norme ecclesiastiche36. Di fronte alla propaganda promossa in

un senso dal socialismo rivoluzionario e nell'altro dagli interventi di Lacerba37, emergeva nel

vescovo la preoccupazione prioritaria di salvaguardare l’ordine gerarchico sociale, nonché

l’obbedienza allo Stato38.

Mentre Firenze diventava teatro di uno scontro ideologico dominato dall'antigiolittismo, dal-

l'avvento nazionalista e dal rafforzamento socialista, la posizione neutralista dell’ordinario

diocesano si concretizzò in una serie di iniziative devozionali, con l'obiettivo di implorare la

pace e preservare l’Italia dalla calamità bellica39.

33 Ivi, p. 92134 Per un quadro generale si rimanda a L’episcopato italiano e la guerra. Pubblicazione fatta a cura di un

Comitato di cittadini padovani, Padova, Tip. Seminario, 1915.35 Cfr. M. Caponi, Una diocesi in guerra: Firenze (1914-1918), cit., pp. 232-233.36 Ibidem.37 Rivista di letteratura, arte e politica, che G. Papini e A. Soffici fondarono aFirenze nel 1913, dopo essersi

staccati da La Voce; uscì fino all’entrata in guerra dell’Italia (1915). Ebbe carattere di violenta polemicacontro l’arte e il costume borghesi, contro il conformismo e quietismo così degli individui come dei popoli,auspicando la guerra e la rivoluzione; ma fu polemica non tanto di idee (che erano in fondo quelle di unestremo antitradizionalismo da un lato e di un acceso nazionalismo e interventismo dall’altro), quanto diparole, che si spinsero alle maggiori libertà e bizzarrie (come dice già il titolo, modellato su quellodell’Acerba diCecco d’Ascoli), con modi decisamente futuristi. Segna infatti il momento futurista, e in certosenso surrealista del vocianesimo, accogliendo fra i suoi collaboratori, accanto a quelli più ‘di punta’ de LaVoce (D. Campana, A. Palazzeschi, C. Govoni, P. Jahier, G. Ungaretti ecc.), lo stesso F.T. Marinetti (almenoin un primo tempo), U. Boccioni, C. Carrà, L. Russolo e, fra gli stranieri, G. Apollinaire. Fonte:Enciclopedia Treccani

38 M. Caponi, Una diocesi in guerra: Firenze (1914-1918), cit., p. 234.39 Ibidem.

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Lo schema interpretativo assunto da Mistrangelo trovò una traduzione liturgica nel libretto

del domenicano Lodovico Ferretti, Le preghiere della Chiesa per la pace.

Successivamente all'intervento italiano l'opuscolo fu sottoposto ad alcune modifiche. Tali

modifiche palesano la parabola di Mistrangelo, che, come gran parte dell’episcopato nazio-

nale, passò da caldeggiare la neutralità a legittimare la partecipazione al conflitto. In una

chiave di lettura patriottica, il conseguimento della pace veniva subordinato all’assistenza di-

vina sull’esercito italiano40.

Nonostante fosse intenzionato a tenere un atteggiamento il più moderato possibile nei con-

fronti della guerra – a conferma di ciò lo scambio epistolare con il cardinal Gasparri, nel

quale l’arcivescovo dimostra la preoccupazione di voler sia restare in sintonia col magistero

pontificio sia conservare il consenso popolare, in primo luogo del laicato cattolico - il 27

maggio 1915, Mistrangelo si rivolse al clero e al popolo diocesano, richiamando il dovere di

servire la patria fino al sacrificio della vita. Il suo appello si mantenne comunque più misura-

to rispetto a quello di altri ordinari italiani.

Nonostante la pubblicistica fiorentina riconducibile alla Curia partecipasse a una formazione

discorsiva tesa a rivestire di sacralità la nazione italiana41, in Mistrangelo permaneva il pro-

posito arcivescovile di evitare, perlomeno sul piano ufficiale, la giustificazione religiosa del-

la guerra42.

In uniformità con la volontà della Santa Sede, il vescovo di Firenze mobilitò il clero e il lai-

cato sul terreno assistenziale: servizio negli ospedali; concessione degli edifici ecclesiastici

per la cura dei soldati feriti e per l’accoglienza dei figli dei richiamati e degli orfani di guer-

ra; promozione di segretariati a supporto delle famiglie dei combattenti. Mistrangelo stesso

fece parte della commissione «per l’assistenza e la previdenza sanitaria» del Comitato fio-

rentino di preparazione e di assistenza civile43.

Eletto cardinale nel dicembre 1915, col passare dei mesi, il magistero del vescovo tornò ad

insistere più marcatamente sul nesso tra pace e ripristino del potere universale della Chiesa

sul consorzio civile. Secondo M. Caponi, il vescovo voleva in questo modo depotenziare la

politicizzazione del religioso in chiave nazionalistica sviluppatasi nel clero e nel laicato44.

In una lettera del marzo 1916, Mistrangelo tornò a prescrivere mortificazione e preghiera per

la cessazione del conflitto. Richiamando i cattolici a un’istanza di equilibrio, il vescovo volle

condannare l’atteggiamento fanatico da crociata. Lo spostamento di linea non sfuggì alla

40 Cfr. ivi, p. 235.41 Cfr. ivi, p. 240-242.42 Ivi, p. 242.43 Ivi, p. 237.44 Ivi, p. 243.

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stampa anticlericale, che ne fece una formidabile arma polemica, mentre fu recepito solo

parzialmente dal clero, all'interno del quale erano ben visibili molte oscillazioni. Anche per-

ché la stessa stampa cattolica continuava ad alimentare la propaganda nazionalistica45.

Nel 1917 gli interventi di Mistrangelo approfondirono il tema della pacificazione in termini

sempre più universalistici: in sintonia con Benedetto XV, il vescovo di Firenze legava l’av-

vento della pace non al successo militare dell’Intesa, ma al riconoscimento generalizzato dei

diritti di Cristo e del suo vicario da parte di entrambi gli schieramenti46.

Un ulteriore mutamento di registro si verificò dopo la disfatta di Caporetto. In un momento

drammatico per le sorti del conflitto e preoccupante per il futuro, a causa dello spauracchio

del socialismo, Mistrangelo operò una sacralizzazione della guerra, fornendo una diretta le-

gittimazione su base nazionale. L’arcivescovo, in ossequio alla circolare inviata dal ministro

Sacchi, presentava come importante dovere sacerdotale il cooperare al bene comune: in pra-

tica si chiedeva di legittimare, con argomenti della fede cattolica, i sacrifici necessari «per la

salvezza e la fortuna della patria cui è indissolubilmente legato il benessere morale dei singo-

li cittadini»47.

Il riaffiorare dello schema teologico, che legava la pace al recupero della direzione ecclesia-

stica sulle nazioni, e le molteplici iniziative caritatevoli non esclusero, insomma, un rinnova-

to appoggio alla causa italiana. Anzi, proprio nell’ultimo anno di guerra, l’arcivescovo sem-

brò abbracciare un’ottica per cui la vittoria dell’Italia si legava al ripristino mondiale della

cristianità48.

A guerra conclusa, la diocesi fiorentina celebrò la vittoria italiana. Mistrangelo, sottolinean-

do il carattere quasi soprannaturale del successo conseguito e ricordando l’intervento divino

a favore dell’Italia, auspicò, in virtù degli insegnamenti della guerra, un avvenire per la pa-

tria «veramente religioso e morale»49.

Rispetto a quella di Firenze, la seconda diocesi della quale voglio parlare, mi riferisco a

quella di Bologna, presenta una peculiarità molto rilevante: si tratta della diocesi dalla quale,

dopo sette anni d'intensa guida pastorale, provenne Benedetto XV. Giacomo Della Chiesa, di

fatti, al momento dello scoppio del conflitto mondiale era ancora il primate della città emilia-

na, con la quale manterrà stretti rapporti anche dopo la nomina a pontefice50.

45 Ivi, p. 246.46 Cfr. Ivi, pp. 247-248.47 Cit. in Ivi, p. 25048 Cfr. Ivi, pp. 249-251.49 Cfr. Ivi, pp. 251-252.50 M. Malpensa, Religione, nazione e guerra nella diocesi di Bologna (1914-1918). Arcivescovo, laicato,

sacerdoti e chierici, in D. Menozzi, a cura di, Religione, nazione e guerra nel primo conflitto mondiale,«Rivista di storia del cristianesimo», 3, 2006, 2, pp. 383-408, ivi, p. 384.

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Della Chiesa si trovò quindi a confrontarsi, da arcivescovo di Bologna, sia con la guerra di

Libia sia con lo scoppio della Grande Guerra. Per quanto riguarda il primo conflitto, Bene-

detto XV fornì un moderato sostegno alla guerra coloniale italiana. La sua posizione, tutta-

via, risulta distante dalle manifestazioni nazionalcattoliche entusiastiche di importanti voci

del cattolicesimo italiano51. Due anni e mezzo dopo, il 4 agosto 1914, in un clima europeo

molto differente, il Della Chiesa, aderendo all'appello lanciato da Pio X, chiese ad ogni par-

rocchia di esporre il SS. Sacramento e di recitare la colletta pro pace. Per dare concreta at-

tuazione alla volontà dell'arcivescovo, cinque giorni dopo, la cattedrale di S. Pietro si riempì

di fedeli accorsi a celebrare un'ora di solenne adorazione del SS. Sacramento e ad implorare

il dono della pace52.

L'entrata in diocesi del nuovo arcivescovo mons. G. Gusmini, avvenuta il 20 dicembre 1914,

non fu contraddistinta inizialmente da accenni alla guerra europea. Dopo alcuni appelli alla

pace in linea con le direttive del pontefice, il 25 maggio Gusmini invitò l'intera diocesi a me-

ditare su una lettera inviata da Benedetto XV al card. Vannutelli, nella quale si esortava i cat-

tolici a tre giorni di digiuno al fine di far cessare il flagello della guerra, ormai estesosi anche

all'Italia. Gusmini, pur recependo gli orientamenti papali e le espressioni forti sulla guerra,

preferì orientare l'attenzione della sua diocesi su altri due punti: l'esortazione a far coincidere

uno dei tre giorni di digiuno con la festa del S. Cuore e l'invito ai sacerdoti in armi a non far

mancare ai soldati i conforti dell'assistenza religiosa53. Questa interpretazione personale, col-

legata alla circolare del giorno prima - originariamente diretta ai parroci, ma poi pubblicata

su «L'Avvenire d'Italia»- nella quale l'arcivescovo si abbandonava a espressione di entusia-

smo per la guerra italiana, fa trasparire un contegno accentuatamente patriottico da parte di

Gusmini. Questo orientamento venne giustificato, su richiamo papale, dalla volontà di

«cavare un po' di bene dal male» di una guerra ormai scoppiata54.

Il vescovo di Bologna, facente parte degli arcivescovi ringraziati da Salandra per il contegno

mantenuto nei confronti della guerra, ribadì la sua linea nel lungo discorso di ringraziamento

al rientro dal concistoro in cui aveva ricevuto la berretta cardinalizia. Pur riportando l'appello

a pregare per la pace udito pochi giorni prima di persona da Benedetto XV, non mancò di in-

vocare la vittoria dell'esercito italiano55.

Tuttavia, col trascorrere dei mesi e con il radicalizzarsi del conflitto, il sostegno alla guerra

italiana di Gusmini si attenuò. Nel suo sacerdozio si affermò lo schema teologico sull'inter-

51 Cfr. Ivi, pp. 385-387.52 Ivi, p. 387.53 Ivi, p. 388.54 Ivi, p. 389.55 Ivi, p. 390.

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pretazione del conflitto già fatto proprio dal magistero papale: il nesso tra guerra e apostasia

della società da Dio divenne predominante anche nelle pastorali della diocesi di Bologna56.

Passati i primi mesi di guerra, quindi, l'atteggiamento di Gusmini divenne più riflessivo e ri-

servato. Esempio lampante sono i tre interventi del dopo Caporetto: in essi, se si eccettua

l'accenni al castigo di Dio e il ritorno dello schema teologico fondamentale assunto dalla

Santa Sede nei confronti della guerra, prevale la dimensione pastorale di Gusmini, manife-

statasi negli appelli alla carità concreta e all'intensificazione delle preghiere57.

Questo atteggiamento sarà confermato all'indomani della fine del conflitto, quando l'evidente

soddisfazione per la grandiosa vittoria italiana verrà smorzato dal pensiero degli immensi di-

sastri e delle centinaia di vittime pagate come prezzo per la vittoria e la pace58.

Come già detto all'inizio del paragrafo, se l'intento non era quello di fornire un quadro ge-

nerale, l'analisi dell'operato dei due vescovi mette bene in risalto come le posizioni all'inter-

no delle diocesi italiane non furono univoche. Al di sotto dell'adesione, formalmente unani-

me, alla linea definita dal papa, si sono potuti intravedere itinerari non privi di tortuosità e

contraddizioni e in stretta connessione con il susseguirsi degli eventi.

Nonostante ciò, come affermato da D. Menozzi, in questi itinerari si può scorgere una di-

mensione cronologica, pur considerando che questa non può avere l'ambizione di definire

una periodizzazione precisa. Si può schematicamente dire, quindi, che alla prudenza del pe-

riodo della neutralità, si sostituisce un iniziale entusiasmo bellico, che si tramuta ben presto

in seria preoccupazione per il prolungarsi di un conflitto senza apparente via d'uscita, per poi

rinnovarsi, in alcuni casi, in un rafforzamento del messaggio nazionalistico successivo a Ca-

poretto e nella successiva moderazione pastorale in prossimità della vittoria59.

4. Laici in uniforme tricolore

Se, come abbiamo visto, i vescovi mantennero prudenza magisteriale e un atteggiamento

variegato, il mondo cattolico scoprì tra il 1914 e il 1915 un inatteso fervore patriottico.

R. Morrozzo della Rocca ne individua le motivazioni nella volontà da parte dei cattolici di ri-

montare la condizione di cittadini di seconda classe. In effetti, i maggiori Stati nazionali,

dopo la Rivoluzione francese, non erano stati benevoli nei confronti del cattolicesimo e dei

suoi fedeli. I cattolici sostennero, quindi, l'intervento delle rispettive patrie per dare dimo-

56 Cfr. Ivi, 390-392.57 Ivi, p. 392.58 Ibidem.59 D. Menozzi, I cattolici italiani nel primo conflitto mondiale, in D. Menozzi, a cura di, La chiesa e la

guerra, cit., pp. 900-904, ivi, p. 904.

15

strazione di fedeltà alla nazione. Per lo stesso motivo veniva indicato come il più autentico

amor di patria quello fondato su motivazioni religiose60.

I cattolici di tutti i paesi in guerra chiesero al papa la benedizione di eserciti e bandiere na-

zionali: preti, pastori, intellettuali cristiani imploravano l'aiuto divino per la vittoria dei patri

eserciti. La partecipazione cattolica trovò incentivo nella convinzione di una funzione della

guerra come rigeneratrice della religiosità. La stampa cattolica, inoltre, vide nella guerra una

purificazione del clima malsano contemporaneo61.

Nonostante la presenza della sede pontificia, i cattolici italiani tennero comportamenti si-

mili a quelli tenuti negli altri paesi in guerra.

L'inizio della Grande guerra e la scelta del governo Salandra di non entrare nel conflitto fu

inizialmente sposata in pieno dal mondo cattolico italiano. Questa però non fu, come afferma

M. Malpensa, una scelta pacifista. L'opposizione cattolica alla guerra era un'opposizione al

profilarsi di una guerra al fianco di nazioni scristianizzate o pretestanti (Francia e Inghilterra)

e contro la cattolica Austria - prospettiva facilmente intravedibile dietro la scelta governativa

della neutralità62. La debole formula iniziale della “neutralità condizionata”, con la quale i

cattolici si opposero inizialmente all'ingresso dell'Italia nel conflitto, aveva in sé il germe

della rapida adesione alle ragioni della guerra63. La pace era auspicabile, ma la neutralità non

poteva essere assoluta, condizionata come era, secondo la dottrina tradizionale della Chiesa,

alle decisioni del governo, solo legittimo detentore del potere. Rispetto ad esso i cattolici

avrebbero saputo dimostrare di essere ubbidienti cittadini, veri italiani.

Il dibattito sulla neutralità dei cattolici e sull'eventuale appoggio da dare alla guerra italiana

fu ampio e durò parecchi mesi. Per frenare ogni tipo di eccessi, la Società della Gioventù

Cattolica Italiana intervenne già dal settembre 1914 fissando alcuni limiti: attraverso un ordi-

ne del giorno, veniva reso noto l'auspicio dei cattolici italiani ad un mantenimento della pace

per non dover prendere parte alla guerra, ma allo stesso tempo veniva ribadita la

consapevolezza che, allorquando la patria l'avesse richiesto, sarebbero stati pronti ad

adempiere generosamente ai propri doveri civili64. Così come effettivamente fecero.

In questo, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, furono favoriti da orientamenti ve-

scovili che non sempre furono allineati con la posizione di Benedetto XV, dalla quale si di-

stanziavano per ragioni di opportunità, ricerca di un generale consenso tra clero e laicato, o

per convinzioni personali. Di fatti il discorso ecclesiastico sulla guerra articolò concetti su-

60 R. Morozzo della Rocca, Benedetto XV e la sacralizzazione della prima guerra mondiale, cit., pp. 166-167.61 Ivi., pp. 168-169.62 M. Malpensa, Il riavvicinamento dei cattolici allo Stato italiano, cit., p. 310.63 R. Morozzo della Rocca, Benedetto XV e la sacralizzazione della prima guerra mondiale, cit., pp. 169-170.64 M. Malpensa, Religione, nazione e guerra nella diocesi di Bologna, cit., p. 397

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scettibili di interpretazioni contrapposte, inseriti però quasi sempre in una cornice unitaria: la

legittimazione del conflitto all’interno degli schemi intransigenti.

Sia tra il clero che tra i laici si delinearono due orientamenti di fondo nei confronti del con-

flitto. Da una parte si sosteneva lo sforzo bellico nel nome di un nazionalismo che, pur ricon-

dotto al cristianesimo, tendeva a slittare verso una sacralizzazione autonoma della nazione.

Dall'altra l'adesione al conflitto rifletteva un atteggiamento di lealtà verso l'autorità politica

di più antica tradizione cristiana, collegato a un patriottismo cattolico che aspirava a vedersi

riconosciuto dallo Stato non solo attraverso la messa al bando di atteggiamenti anticlericali

ma anche attraverso la sua confessionalizzazione65.

Durante gli anni della guerra la religione fu fondamentale, come abbiamo visto nel secon-

do paragrafo, nel giustificare e dare motivazioni allo scontro militare, che assumeva sempre

più i caratteri di uno sterminio. Sul fronte furono i cappellani militari a indirizzare il diffuso

bisogno di aiuto e di protezione dei soldati verso forme di religiosità popolate di santi, ma-

donne, sacri cuori, medagliette, acque benedette, e allo stesso tempo a cercare di attenuarne

gli aspetti più superstiziosi66.

Come sostenuto da Traniello, la guerra favorì una saldatura tra sentire religioso e sentimento

patriottico, mediante la predicazione massiccia di una “fede italiana”, cattolica e nazionale,

fondamento e garanzia di un modello di civiltà che andava difeso anche con le armi67.

L'appoggio cattolico alla guerra non fu comunque una tappa di avvicinamento allo Stato ita-

liano liberale. Mentre quest'ultimo continuava a essere visto in maniera critica, i cattolici ita-

liani videro nel conflitto un'opportunità per rilanciare in modo definitivo il concetto che, es-

sendo l'Italia una nazione cattolica, l'unico modo per promuovere i valori nazionali fosse

quello di affidarne la tutela ai cattolici68.

5. La preghiera durante la guerra

Come abbiamo visto, la Grande Guerra vide una presenza importante della dimensione re-

ligiosa. Il nesso tra religione e guerra trovò un terreno fertile anche nella preghiera.

Sin dai primi interventi del suo pontificato Benedetto XV, coerentemente all'interpretazione

65 G. Battelli, Cattolici. Chiesa, laicato e società in Italia (1796-1996), Società Editrice Internazionale, Torino1997, p. 91.

66 L. Ceci, L'interesse superiore, cit., pp. 40-41.67 F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal risorgimento al secondo dopoguerra, Mulino,

Bologna 2007, p. 223.68 M. Malpensa, Il riavvicinamento dei cattolici allo Stato italiano, cit., p. 302.

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della guerra come flagello divino dovuto all'allontanamento della società moderna da Dio,

propose la preghiera quale strumento ideale per ripristinare le condizioni che avrebbero reso

possibile un ritorno alla pace. Il pontefice non si limitò ad esortazioni generiche, ma diede

precise indicazioni sulle preghiere e sulle pratiche che i fedeli dovevano assolvere69. La pre-

ghiera, proposta da Benedetto XV e articolata in una pluralità di formule e devozioni, era fi-

nalizzata al conseguimento di alcuni obiettivi: espiare i peccati individuali e collettivi, che

costituivano la ragione ultima dell'esplosione del conflitto; muovere Dio a misericordia; ri-

stabilire il riconoscimento del pontefice come autorità suprema e disporre gli animi ad acco-

glierne gli appelli alla pace; ottenere un'inversione di tendenza negli orientamenti culturali

degli uomini in direzione del riconoscimento della verità e della giustizia; emendare il com-

portamento degli stessi fedeli in direzione di una maggiore adesione all'amore cristiano e al

dovere di obbedienza al pontefice70.

Alla preghiera, che come abbiamo appena visto richiamava i cattolici ad un maggior radica-

mento nella fede e all'obbedienza al papa, sarebbe stato necessario ricorrere al fine di far ces-

sare il conflitto.

Accanto agli interventi papali, disposizioni della Curia romana regolavano le modalità dello

svolgimento delle funzioni religiose e dell'amministrazione dei sacramenti tra i soldati al

fronte71.

Tra le devozioni tradizionali, fortemente radicate nelle popolazioni, la Santa Sede valorizzò

particolarmente la devozione al Sacro Cuore e quella mariana.

Per quanto riguarda la prima, già con l'allocuzione al collegio cardinalizio del dicembre 1914

Benedetto XV indicò nell'intensificazione delle preghiere al Sacro Cuore una via per ottenere

la cessazione del conflitto. Come si è detto sommariamente già nel primo paragrafo, nell'otti-

ca del pontefice tale devozione avrebbe dovuto portare alla creazione di due condizioni

necessarie per lo stabilimento di una pace duratura: ripristino di un modello ierocratico di

società e adesione dei fedeli all'amore di cui il Sacro Cuore era simbolo72.

La devozione mariana, spesso sollecitata insieme a quella al Sacro Cuore, aveva obiettivi

diversi ma complementari. L'invocazione a Maria doveva muovere Dio a misericordia,

determinandone un intervento che ponesse fine al conflitto anche attraverso una tra-

69 M. Paiano, La preghiera e la guerra in Italia durante il primo conflitto mondiale, in D. Menozzi, a cura di,La chiesa e la guerra, pp. 925-942, ivi, p. 927.

70 Ivi, p. 931.71 Ibidem.72 Ivi, pp. 927-928. Per una trattazione più ampia sulle devozioni al Sacro Cuore si rimanda a D. Menozzi,

Sacro Cuore. Un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Viella, Roma 2001,pp. 241-281.

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sformazione intellettuale e morale degli uomini73.

Accanto alle devozioni a Maria e al Sacro Cuore, Benedetto XV sollecitò sia pratiche espia-

tore attinte dalla devozione eucaristica, sia la ripresa di formule liturgiche per il tempo di

guerra presenti nei libri liturgici post-tridentini, sia preghiere di nuova composizione, come

quella a S. Pietro apostolo74.

Quello proposto dalla Santa Sede non rappresentò comunque l'unico modello di preghiera.

Partendo dalla lettura della guerra come castigo divino, si svilupparono preghiere anche in

ambienti che individuavano un forte nesso tra religione e amor di patria, sfociato in più occa-

sioni nella sacralizzazione della nazione. Le preghiere di questi ambienti individuavano

come unica soluzione possibile la vittoria della propria parte, risultato che avrebbe favorito,

secondo la loro ottica, l'affermazione del cristianesimo75.

La distribuzione di queste preghiere avveniva per lo più attraverso opuscoli e santini diretti

alle popolazioni civili e ai soldati. Alcuni dei loro temi - intreccio tra religione cattolica e

amor di patria, sovrapposizione tra combattimento reale e combattimento spirituale, indica-

zione nel buon cristiano del miglior soldato - erano già presenti nei manuali religiosi per il

soldato presenti a cavallo tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. La novità stava

nella consequenzialità che la riaffermazione del cristianesimo aveva rispetto alla vittoria del-

la madrepatria. Per questo motivo queste preghiere non si limitavano a chiedere a Dio la pro-

tezione dei soldati: veniva di fatti richiesto di rendere efficiente e di preservarne la fede e i

retti costumi di chi andava a combattere76.

Ai soldati impegnati in guerra, per di più, venivano proposte preghiere che invocavano l'aiu-

to di santi, in particolare di quei martiri soldati dei primi secoli, nei quali si indicava un mo-

dello da imitare: ulteriore aspetto di una massiccia sacralizzazione della patria.

Come rileva M. Paiano, inoltre, successivamente all'entrata in guerra, in Italia iniziarono a

circolare santini che veicolavano precise motivazioni della stessa e che suggerivano gli atteg-

giamenti da tenere rispetto ad essa. Anche queste immagini, spesso diffuse anche col consen-

so vescovile, individuavano come valore religioso l'assunzione dell'amor di Patria, in alcuni

casi sovrapposto o fatto coincidere con l'amore per Dio77. Questi santini associarono spesso

la causa del soldato italiano a quella del cristiano, identificando la vittoria della patria con

quella della religione: la vittoria italiana avrebbe portato ad una rinascita cristiana mediante

73 M. Paiano, La preghiera e la guerra in Italia, cit., p. 928.74 Cfr. Ivi, pp. 929-931.75 Ivi, p. 942.76 Ivi, p. 938.77 Idem, La preghiera nella patria in guerra. Le immagini di devozione, in D. Menozzi, a cura di, Religione,

nazione e guerra, cit., pp. 409-422, ivi, p. 416.

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il riconoscimento sociale della regalità di Cristo e, per lo stesso motivo, avrebbe garantito

una pace duratura. Questo in virtù sia della rivendicazione di una tradizione nazionale di cui

il cattolicesimo rappresentava parte integrante, sia dell'identificazione dell'Italia quale nazio-

ne prediletta da Dio perché sede del pontefice e dunque centro della fede, della civiltà e del

cristianesimo78.

6. Conclusioni

Per concludere è utile evidenziare che, nonostante tutto, la Grande Guerra sembrò favori-

re aspetti contraddittori del rapporto tra cattolicesimo e società in Italia. Da una parte poten-

ziava e diffondeva valori e modelli di comportamento cari al cattolicesimo del tempo - prin-

cipio gerarchico, etica dell'obbedienza e del sacrificio, comunità di trincea come comunità

elementare di destino, esercito come struttura globale e totalizzante - facendo sia crescere il

ruolo della religione come risorsa cui fare appello nei momenti di difficoltà, sia la collabora-

zione tra clero e autorità militari e civili. Dall'altra, la guerra fece emergere un'Italia cattolica

molto meno compatta e vitale dell'immagine più consueta che ne aveva la Chiesa romana:

soprattutto tra i soldati affiorò una religiosità distante dall'ortodossia e molto legata a

credenze superstiziose. Con la chiamata in guerra, inoltre, gran parte della popolazione ma-

schile venne sradicata dagli ambienti contadini e familiari: al ritorno in patria questa divenne

maggiormente soggetta a un'emancipazione borghese, operaia e cittadina. Per alcuni aspetti,

evidentemente, la guerra aveva mostrato un volto diverso, un incentivo alla secolarizzazione.

Le opinioni di parte dell'episcopato, a fine conflitto, furono allarmanti: la constatazione di un

decadimento morale e dell'irrompere di nuovi costumi “scandalosi” fu accompagnata dalla

denuncia dell'accresciuta minaccia del socialismo e del bolscevismo79.

Con la guerra, emersero importanti novità all'interno del mondo cattolico. Tali novità investi-

rono molti aspetti: avvicinamento delle masse cattoliche alla causa nazionale, entrata nel go-

verno dello Stato nazionale da parte di personale politico cattolico, sviluppo di liturgie di

guerra, cambiamento delle prospettive sul piano istituzionale.

Fattore di maggior rilievo delineatosi durante la Grande Guerra fu, probabilmente, il nuovo

profilo dei rapporti tra Stato e nazione: si ebbe l'integrazione dei cattolici nello Stato nazio-

nale a un livello assai più profondo di quanto potesse immaginare la componente

78 Cfr. Ivi, pp. 418-421.79 F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, cit., pp. 222-225.

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anticlericale della classe politica, si indebolì l'immagine di una storia nazionale in radicale

conflitto con quella del cattolicesimo italiano, si accelerò la nazionalizzazione delle masse e

la ridefinizione dei valori e dell'ethos nazionale80.

Rilevante fu anche il cambiamento sul piano istituzionale. Il conflitto manifestò in modo

chiarissimo alla Santa Sede l'insostenibilità della Questione romana per tutti i limiti che po-

neva alla politica internazionale del papato: i vertici vaticani preferirono concentrarsi sull'a-

spetto della sovranità, accantonando il problema della dimensione territoriale. La sovranità

territoriale, e non l'ampiezza dello Stato, risultava necessaria per partecipare alle conferenze

e alle grandi assise, che coinvolgevano solo Stati sovrani, e quindi per svolgere un'azione in-

ternazionale efficace81.

Sul piano liturgico, suscitò molte reazioni la già ricordata consacrazione dell'esercito italia-

no, immagine della nazione in guerra, al Sacro Cuore di Gesù. Nell'ottica di padre Gemelli la

consacrazione avrebbe dovuto rappresentare la nuova crociata per il trionfo della patria in

armi e per il riconoscimento collettivo della supremazia spirituale del cattolicesimo sulla so-

cietà italiana. Stando alle notizie del comitato organizzatore, il 5 gennaio, due milioni di ani-

me, dal fango delle trincee alle parrocchie, recitarono l'atto solenne di consacrazione, rice-

vendo nel corso della funzione una bandierina tricolore con al centro l'immagine del Cuore

di Gesù: la fusione tra simboli patriottici e religiosi sembrava compiuta. Da parte cattolica

l'attivismo gemelliano fu soggetto alle critiche sia di un semplice prete come don Primo

Mazzolari, sia delle gerarchie vaticane. Le autorità militari del Regno vietarono l'ostentazio-

ne delle bandiere italiane col Sacro Cuore, ritenendo inaccettabile l'estromissione dello stem-

ma sabaudo.

Queste vicende fecero comunque emergere un dato di fatto: il laicismo liberale perdeva una

delle sue armi storicamente più efficaci, la possibilità di denunciare il cattolicesimo come

forza estranea o in radicale conflitto con la nazione82. Questo perché, come abbiamo visto, la

condanna del mito nazionale partorito dalla Rivoluzione francese fu accantonata, e consi-

stenti gruppi di cattolici passarono a ergersi difensori di un'idea di nazione di cui comincia-

vano a divenire parte integrante. La disponibilità dei cattolici a sostenere la nazione in occa-

sione della Grande Guerra, così come era stato per la guerra di Libia, non rappresentò co-

munque un ripiegamento nei confronti dello Stato liberale o della loro subalternità al discor-

so nazionalista, quanto piuttosto la sempre più forte rivendicazione di un nazionalismo catto-

80 Ivi, p. 231.81 L. Ceci, L'interesse superiore, cit., pp. 38-39. Un analisi più precisa sulla svolta della Chiesa sulla questione

sovranità-dimensione territoriale in R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande Guerra al nuovoConcordato 1914-1984, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 41-52

82 Ivi, p. 41

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lico. Usando le parole di M. Malpensa, più che di un avvicinamento dei cattolici allo Stato li-

berale, dovremmo parlare di un emergere sempre più evidente della loro pretesa di essere i

“rappresentanti della vera nazione italiana”83.

83 M. Malpensa, Il riavvicinamento dei cattolici allo Stato italiano, cit., pp. 310-311

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