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A mia mamma Rosy A mio fratello Patrick
A Francesca A Maria Rosa
Grazie per il vostro sostegno e il vostro affetto
INDICE
Introduzione pag.01
CAPITOLO I: IL REPORTING DEGLI ATTENTATI
Quel 3 settembre 1982 pag.07
Cronaca di una morte annunciata pag.09
Istantanee sulla morte di Dalla Chiesa pag.10
La strage di Capaci: 23 maggio 1992 pag.12
Istantanee della strage di Capaci pag.18
L’autobomba di via D’Amelio: 19 luglio 1992 pag.19
La televisione sempre più tempestiva pag.24
CAPITOLO II: UN ANNO DOPO
Le commemorazioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa… pag.26
…e le polemiche pag.29
Falcone e Borsellino, ancora insieme pag.31
La televisione pag.35
CAPITOLO III: LA COSTRUZIONE DELLA MEMORIA
Dieci anni nel ricordo di Carlo Alberto Dalla Chiesa pag.40
Il 1986: l’anno del non ricordo e del maxiprocesso pag.42
Proseguono le commemorazioni pag.44
Dalla carta stampata alla televisione pag.45
Giovanni Falcone commemorato da quattordici anni pag.47
Le commemorazioni televisive su Falcone pag.52
La stampa ricorda Paolo Borsellino pag.55
CAPITOLO IV: QUANDO FILM E FICTION PARLANO DI MAFIA
Giuseppe Ferrara, cineasta sensibile alla mafia pag.59
I film pag.60
I fruitori dei film su Dalla Chiesa e Falcone pag.64
Le fiction pag.66
I dati auditel delle due fiction pag.69
Le recensioni pag.69
CAPITOLO V: PAGINE DI MAFIA
In nome del popolo italiano pag.72
Storia di Giovanni Falcone pag.74
Il valore di una vita pag.76
Confronti pag.77
BIOGRAFIE pag.79
ELENCO MATERIALI pag.92
In quest’articolo pubblicato da "L'Unità" il 31 maggio 1992, otto giorni dopo la strage di Capaci, il giudice Giovanni Falcone traccia con chiarezza un quadro dell'evoluzione di Cosa Nostra a partire dal dopoguerra e denuncia la sottovalutazione che, per molto tempo, ha caratterizzato l'approccio delle istituzioni al problema della mafia.
IO, FALCONE, VI SPIEGO COS’È LA MAFIA
Nella relazione finale della Commissione d'inchiesta Franchetti-Sonnino del
lontano 1875/76 si legge che «la mafia non è un'associazione che abbia forme stabili e
organismi speciali... Non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni,
non ha capi riconosciuti, se non i più forti ed i più abili; ma è piuttosto lo sviluppo ed il
perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male». Si legge ancora: «Questa
forma criminosa, non... specialissima della Sicilia», esercita «sopra tutte queste varietà di
reati»...«una grande influenza» imprimendo «a tutti quel carattere speciale che distingue
dalle altre la criminalità siciliana e senza la quale molti reati o non si commetterebbero o
lascerebbero scoprirne gli autori»; si rileva, inoltre, che «i mali sono antichi, ma ebbero ed
hanno periodi di mitigazione e di esacerbazione» e che, già sotto il governo di re
Ferdinando, la mafia si era infiltrata anche nelle altre classi, cosa che da alcune
testimonianze è ritenuta vera anche oggidì». Già nel secolo scorso, quindi, il problema
mafia si manifestava in tutta la gravità; infatti si legge nella richiamata relazione:«Le forze
militari concentrate per questo servizio in Sicilia risultavano 22 battaglioni e mezzo fra
fanteria e bersaglieri, due squadroni di cavalleria e quattro plotoni di bersaglieri montani,
oltre i Carabinieri in numero di 3120». Da allora, bisogna attendere i tempi del prefetto
Mori per registrare un tentativo di seria repressione del fenomeno mafioso, ma i limiti di
quel tentativo sono ben noti a tutti. Nell'immediato dopoguerra e fino ai tragici fatti di
sangue della prima guerra di mafia degli anni 1962/1963 gli organismi responsabili ed i
mezzi di informazione sembrano fare a gara per minimizzare il fenomeno. Al riguardo,
appaiono significativi i discorsi di inaugurazione dell'anno giudiziario pronunciati dai
Procuratori Generali di Palermo. Nel discorso inaugurale del 1954, il primo del
dopoguerra, si insisteva nel concetto che la mafia «più che una associazione tenebrosa
costituisce un diffuso potere occulto», ma non si manca di fare un accenno alla gravissima
vicenda del banditismo ed ai comportamenti non ortodossi di “qualcuno che avrebbe
dovuto e potuto stroncare l'attività criminosa”; il riferimento è chiaro, riguarda il
Procuratore Generale di Palermo, dottor Pili espressamente menzionato nella sentenza
emessa dalla Corte d'Assise di Viterbo il 3/5/1952: «Giuliano ebbe rapporti, oltre che con
funzionari di Pubblica Sicurezza, anche con un magistrato, precisamente con chi era a capo
della Procura Generale presso la Corte d'appello di Palermo: Emanuele Pili». Nella
relazioni inaugurali degli anni successivi gli accenni alla mafia, in piena armonia con un
clima generale di minimizzazione del problema, sono fugaci e del tutto rassicuranti. Così,
nella relazione del 1956 si legge che il fenomeno della delinquenza associata è scomparso
e, in quella del 1957, si accenna appena a delitti di sangue da scrivere, si dice ad «opposti
gruppi di delinquenti». Nella relazione del 1967, si asserisce che il fenomeno della
criminalità mafiosa era entrato in una fase di «lenta ma costante sua eliminazione» e, in
quella del 1968, si raccomanda l'adozione della misura di prevenzione del soggiorno
obbligato, dato che «il mafioso fuori del proprio ambiente diventa pressoché innocuo».
Questi brevissimi richiami storici danno la misura di come il problema mafia sia stato
sistematicamente valutato da parte degli organismi responsabili benché il fenomeno, nel
tempo, lungi dall'esaurirsi, abbia accresciuto la sua pericolosità. E non mi sembra
azzardato affermare che una delle cause dall'attuale virulenza della mafia risieda, proprio,
nella scarsa attenzione complessiva dello Stato nei confronti di questa secolare realtà.
Debbo registrare con soddisfazione, dunque, il discorso pronunciato dal Capo della Polizia,
Vincenzo Parisi, alla Scuola di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza. In tale
intervento, particolarmente significativo per l'autorevolezza della fonte, il Capo della
Polizia, in sostanza, individua nella criminalità organizzata e in quella economica i
proventi della maggior parte delle attività illecite del nostro paese tra le quali spiccano
soprattutto il traffico di stupefacenti e il commercio clandestino di armi. Sottolineando che
la criminalità organizzata - e quella mafiosa in particolare - è, come si sostiene in
quell'intervento, «la più significativa sintesi delinquenziale fra elementi atavici... e
acquisizioni culturali moderne ed interagisce sempre più frequentemente con la criminalità
economica, allo scopo di individuare nuove soluzioni per la ripulitura ed il reimpiego del
denaro sporco». L'argomentazione del prefetto Parisi, ovviamente fondata su dati concreti,
ha riacceso l'attenzione sulla specifica realtà delle organizzazioni criminali e denuncia, con
toni giustamente allarmanti, il pericolo di una saldatura tra criminalità tradizionale e
criminalità degli affari: un pericolo che minaccia la stessa sopravvivenza delle istituzioni
democratiche come ci insegnano le esperienze di alcuni paesi del Terzo mondo, in cui i
trafficanti di droga hanno acquisito una potenza economica tale che si sono perfino offerti -
ovviamente, non senza contropartite - di ripianare il deficit del bilancio statale. Ci si
domanda allora, come sia potuto accadere che una organizzazione criminale come la mafia
anziché avviarsi al tramonto, in correlazione col miglioramento delle condizioni di vita e
del funzionamento complessivo delle istituzioni, abbia, invece, vieppiù accresciuto la sua
virulenza e la sua pericolosità. Un convincimento diffuso è quello - che ha trovato ingresso
perfino in alcune sentenze della Suprema Corte - secondo cui oggi saremmo in presenza di
una nuova mafia, con le connotazioni proprie di un'associazione criminosa, diversa dalla
vecchia mafia, che non sarebbe stata altro che l'espressione, sia pure distorta ed esasperata,
di un “comune sentire” di larghe fasce delle popolazioni meridionali. In altri termini, la
mafia tradizionale non esisterebbe più e dalle sue ceneri sarebbe sorta una nuova mafia,
quella mafia imprenditrice per intenderci, così bene analizzata dal prof. Arlacchi.
Tale opinione è antistorica e fuorviante. Anzitutto, occorre sottolineare con vigore che
Cosa Nostra (perché questo è il vero nome della mafia) non è e non si è mai identificata
con quel potere occulto e diffuso di cui si è favoleggiato fino a tempi recenti, ma è una
organizzazione criminosa - unica ed unitaria - ben individuata ormai nelle sue complesse
articolazioni, che ha sempre mantenuto le sue finalità delittuose. Con ciò, evidentemente,
non si intende negare che negli anni Cosa Nostra abbia subito mutazioni a livello
strutturale e operativo e che altre ne subirà, ma si vuole sottolineare che tutto è avvenuto
nell'avvio di una continuità storica e nel rispetto delle regole tradizionali. E proprio la
particolare capacità della mafia di modellare con prontezza ed elasticità i valori arcaici alle
mutevoli esigenze dei tempi costituisce una della ragioni più profonde della forza di tale
consorteria, che la rende tanto diversa. Se oltre a ciò, si considerano la sua capacità di
mimetizzazione nella società, la tremenda forza di intimidazione derivante dalla
inesorabile ferocia delle “punizioni” inflitte ai trasgressori o a chi si oppone ai suoi disegni
criminosi, l'elevato numero e la statura criminale dei suoi adepti, ci si può rendere però
conto dello straordinario spessore di questa organizzazione sempre nuova e sempre uguale
a sé stessa. Altro punto fermo da tenere ben presente è che, al di sopra dei vertici
organizzativi, non esistono “terzi livelli” di alcun genere, che influenzino e determinino gli
indirizzi di Cosa Nostra. Ovviamente, può accadere ed è accaduto, che, in determinati casi
e a determinate condizioni, l'organizzazione mafiosa abbia stretto alleanze con
organizzazioni similari ed abbia prestato ausilio ad altri per fini svariati e di certo non
disinteressatamente; gli omicidi commessi in Sicilia, specie negli ultimi anni, sono la
dimostrazione più evidente di specifiche convergenze di interessi fra la mafia ed altri centri
di potere. “Cosa Nostra” però, nelle alleanze, non accetta posizioni di subalternità;
pertanto, è da escludere in radice che altri, chiunque esso sia, possa condizionarne o
dirigerne dall'esterno le attività. E, in verità, in tanti anni di indagini specifiche sulle
vicende di mafia, non è emerso nessun elemento che autorizzi nemmeno il sospetto
dell'esistenza di una “direzione strategica” occulta di Cosa Nostra. Gli uomini d'onore che
hanno collaborato con la giustizia, alcuni dei quali figure di primo piano
dell'organizzazione, ne sconoscono l'esistenza. Lo stesso dimostrato coinvolgimento di
personaggi di spicco di Cosa Nostra in vicende torbide ed inquietanti come il golpe
Borghese ed il falso sequestro di Michele Sindona non costituiscono un argomento “a
contrario” perché hanno una propria specificità tutte ed una peculiare giustificazione in
armonia con le finalità dell'organizzazione mafiosa. E se è vero che non pochi uomini
politici siciliani sono stati, a tutti gli effetti, adepti di “Cosa Nostra”, è pur vero che in seno
all'organizzazione mafiosa non hanno goduto di particolare prestigio in dipendenza della
loro estrazione politica. Insomma Cosa Nostra ha tale forza, compattezza ed autonomia che
può dialogare e stringere accordi con chicchessia mai però in posizioni di subalternità.
Queste peculiarità strutturali hanno consentito alla mafia di conquistare un ruolo
egemonico nel traffico, anche internazionale, dell'eroina. Ma, per comprendere meglio le
cause dell'insediamento della mafia nel lucroso giro della droga, occorre prendere le mappe
del contrabbando di tabacchi, una delle più tradizionali attività illecite della mafia. Il
contrabbando è stato a lungo ritenuto una violazione di lieve entità perfino negli ambienti
investigativi e giudiziari ed il contrabbandiere è stato addirittura tratteggiato dalla
letteratura e dalla filmografia come un romantico avventuriero. La realtà era però ben
diversa, essendo il contrabbandiere un personaggio al soldo di Cosa Nostra, se non
addirittura un mafioso egli stesso ed il contrabbando si è rivelato un'attività ben più
pericolosa di quella legata ad una violazione di un interesse finanziario dello Stato, in
quanto ha fruttato ingenti guadagni che hanno consentito l'ingresso nel mercato degli
stupefacenti della mafia ed ha aperto e collaudato quei canali internazionali - sia per il
trasporto della merce sia per il riciclaggio del danaro - poi utilizzati per il traffico di
stupefacenti.
Occorre precisare, a questo proposito, che già nel contrabbando di tabacchi, si realizzano
importanti novità della struttura mafiosa. È ormai di comune conoscenza che Cosa Nostra è
organizzata come una struttura piramidale basata sulla “famiglia” e ogni “uomo d'onore”
voleva intrattenere rapporti di affari prevalentemente con gli altri membri della stessa
“famiglia” e solo sporadicamente con altre famiglie, essendo riservato ai vertici delle varie
“famiglie” il coordinamento in seno agli organismi direttivi provinciali e regionale.
Assunta la gestione del contrabbando di tabacchi - che comporta l'impiego di consistenti
risorse umane in operazioni complesse che non possono essere svolte da una sola famiglia
- sorge la necessità di associarsi con membri di altre famiglie e, perfino, con personaggi
estranei a Cosa Nostra. Per effetto dell'allargamento dei rapporti di affari con altri soggetti
spesso non mafiosi sorge la necessità di creare strutture nuove di coordinamento che, pur
controllate da Cosa Nostra, con la stessa non si identificassero. Si formano, così,
associazioni di contrabbandieri, dirette e coordinate da “uomini d'onore”, che non si
identificavano, però, con Cosa Nostra, associazioni aperte alla partecipazione saltuaria di
altri “uomini d'onore” non coinvolti operativamente nel contrabbando, previo assenso e
nella misura stabilita dal proprio capo famiglia. In pratica, dunque, l'antica, rigida
compartimentazione degli “uomini d'onore” in “famiglie” ha cominciato a cedere il posto a
strutture più allargate e ad una diversa articolazione delle alleanze in seno
all'organizzazione. Cosa Nostra però non si limita ad esercitare il controllo indiretto su
altre organizzazioni criminali similari, specialmente nel Napoletano, per assicurare un
efficace funzionamento delle attività criminose. Il fatto che esiste anche a Napoli una
“famiglia” mafiosa dipendente direttamente dalla “provincia” di Palermo, non deve stupire
perché la presenza di “famiglie” mafiose o di sezioni delle stesse (le cosiddette “decine”),
fuori della Sicilia, ed anche all'estero, è un fenomeno risalente negli anni. La stessa Cosa
Nostra statunitense, in origine, non era altro che un insieme di “famiglie” costituenti diretta
filiazione di Cosa Nostra siciliana. Quando Cosa Nostra interviene sul contrabbando presso
la malavita napoletana, dunque, lo fa allo scopo dichiarato di sanare i contrasti interni ma
più verosimilmente con l'intenzione di fomentare la discordia per assumere la direzione
dell'attività.
Ecco perché, nel corso degli anni, sono stati individuati collegamenti importanti tra
esponenti di spicco della mafia isolana e noti camorristi campani, difficilmente spiegabili
già allora con semplici contatti fra organizzazioni criminali diverse.
Ed ecco, dunque, perché il contrabbando di tabacchi costituì una spinta decisiva al
coordinamento fra organizzazioni criminose, tradizionalmente operanti in territori distinti;
coordinamento la cui pericolosità è intuitiva. Nella seconda metà degli anni '70, pertanto,
Cosa Nostra con le sue strutture organizzative, coi canali operativi e di riciclaggio già
attivati per il contrabbando e con le sue larghe disponibilità finanziarie, aveva tutte le carte
in regola per entrare, non più in modo episodico come nel passato, nel grande traffico degli
stupefacenti.
In più, la presenza negli Usa di un folto gruppo di siciliani collegati con Cosa Nostra
garantiva la distribuzione della droga in quel paese. Non c'è da meravigliarsi, allora, se la
mafia siciliana abbia potuto impadronirsi in breve tempo del traffico dell'eroina verso gli
Stati Uniti d'America. Anche nella gestione di questo lucroso affare l'organizzazione ha
mostrato la sua capacità di adattamento avendo creato, in base all'esperienza del
contrabbando, strutture agili e snelle che, per lungo tempo, hanno reso pressoché
impossibili le indagini. Alcuni gruppi curavano l'approvvigionamento della morfina-base
dal Medio e dall'Estremo Oriente; altri erano addetti esclusivamente ai laboratori per la
trasformazione della morfina-base in eroina; altri, infine, si occupavano dell'esportazione
dell'eroina verso gli Usa. Tutte queste strutture erano controllate e dirette da “uomini
d'onore”. In particolare, il funzionamento dei laboratori clandestini, almeno agli inizi, era
attivato da esperti chimici francesi, reclutati grazie a collegamenti esistenti con il “milieu”
marsigliese fin dai tempi della cosiddetta “French connection”. L'esportazione della droga,
come è stato dimostrato da indagini anche recenti, veniva curata spesso da organizzazioni
parallele, addette al reclutamento dei corrieri e collegate a livello di vertice con “uomini
d'onore” preposti a tale settore del traffico. Si tratta dunque di strutture molto articolate e
solo apparentemente complesse che, per lunghi anni, hanno funzionato egregiamente,
consentendo alla mafia ingentissimi guadagni. Un discorso a sé merita il capitolo del
riciclaggio del danaro. Cosa Nostra ha utilizzato organizzazioni internazionali, operanti in
Italia, di cui si serviva già fin dai tempi del contrabbando di tabacchi, ma è ovvio che i
rapporti sono divenuti assai più stretti e frequenti per effetto degli enormi introiti, derivanti
dal traffico di stupefacenti. Ed è chiaro, altresì, che nel tempo i sistemi di riciclaggio si
sono sempre più affinati in dipendenza sia delle maggiori quantità di danaro disponibili, sia
soprattutto dalla necessità di eludere investigazioni sempre più incisive.
Per un certo periodo il sistema bancario ha costituito il canale privilegiato per il riciclaggio
del danaro. Di recente, è stato addirittura accertato il coinvolgimento di interi paesi nelle
operazioni bancarie di cambio di valuta estera. Senza dire che non poche attività illecite
della mafia, costituenti per sé autonoma fonte di ricchezza (come, ad esempio, le cosiddette
truffe comunitarie), hanno costituito il mezzo per consentire l'afflusso in Sicilia di ingenti
quantitativi di danaro, già ripulito all'estero, quasi per intero proveniente dal traffico degli
stupefacenti.
Quali effetti ha prodotto in seno all'organizzazione di Cosa Nostra la gestione del traffico
di stupefacenti? Contrariamente a quanto ritenevano alcuni mafiosi più tradizionalisti, la
mafia non si è rapidamente dissolta ma ha accentuato le sue caratteristiche criminali.
Le alleanze orizzontali fra uomini d'onore di diverse “famiglie” e di diverse “province”
hanno favorito il processo, già in atto da tempo, di gerarchizzazione di Cosa Nostra ed al
contempo, indebolendo la rigida struttura di base, hanno alimentato mire egemoniche.
Infatti, nei primi anni '70 per assicurare un migliore controllo dell'organizzazione, veniva
costituito un nuovo organismo verticale, la “commissione” regionale, composta dai capi
delle province mafiose siciliane col compito di stabilire regole di condotta e di applicare
sanzioni negli affari concernenti Cosa Nostra nel suo complesso. Ma le fughe in avanti di
taluni non erano state inizialmente controllate. Esplode così nel 1978 una violenta contesa
culminata negli anni 1981-1982. Due opposte fazioni si affrontano in uno scontro di una
ferocia senza precedenti che investiva tutte le strutture di Cosa Nostra, causando centinaia
di morti. I gruppi avversari aggregavano uomini d'onore delle più varie famiglie spinti
dall'interesse personale - a differenza di quanto accadeva nella prima guerra di mafia
caratterizzata dallo scontro tra le famiglie - e ciò a dimostrazione del superamento della
compartimentazione in famiglie. La sanguinaria contesa non ha determinato - come
ingenuamente si prevedeva - un indebolimento complessivo di Cosa Nostra ma, al
contrario, un rafforzamento ed un rinsaldamento delle strutture mafiose, che, depurate
degli elementi più deboli (eliminati nel conflitto), si ricompattavano sotto il dominio di un
gruppo egemone accentuando al massimo la segretezza ed il verticismo. Il nuovo gruppo
dirigente a dimostrazione della sua potenza, a cominciare dall'aprile 1982, ha iniziato ad
eliminare chiunque potesse costituire un ostacolo. Gli omicidi di Pio La Torre, di Carlo
Alberto Dalla Chiesa, di Rocco Chinnici, di Giangiacomo Ciaccio Montalto, di Beppe
Montana, di Ninni Cassarà, al di là delle specifiche ragioni della eliminazione di ciascuno
di essi, testimoniano una drammatica realtà. E tutto ciò mentre il traffico di stupefacenti e
le altre attività illecite andavano a gonfie vele nonostante l'impegno delle forze dell'ordine.
La collaborazione di alcuni elementi di spicco di Cosa Nostra e la conclusione di inchieste
giudiziarie approfondite e ponderose hanno inferto indubbiamente un duro colpo alla
mafia. Ma se la celebrazione tra difficoltà di ogni genere di questi processi ha indotto Cosa
Nostra ad un ripensamento di strategie, non ha determinato l'inizio della fine del fenomeno
mafioso.
Il declino della mafia più volte annunciato non si è verificato, e non è, purtroppo,
prevedibile nemmeno. È vero che non pochi “uomini d'onore”, diversi dei quali di
importanza primaria, sono in atto detenuti; tuttavia i vertici di Cosa Nostra sono latitanti e
non sono sicuramente costretti all'angolo. Le indagini di polizia giudiziaria, ormai da
qualche anno, hanno perso di intensità e di incisività a fronte di una organizzazione
mafiosa sempre più impenetrabile e compatta talché le notizie in nostro possesso sulla
attuale consistenza dei quadri mafiosi e sui nuovi adepti sono veramente scarse.
Né è possibile trarre buoni auspici dalla drastica riduzione dei fatti di sangue peraltro
circoscritta al Palermitano e solo in minima parte ascrivibile all'azione repressiva. La
tregua iniziata è purtroppo frequentemente interrotta da assassinii di mafiosi di rango,
segno che la resa dei conti non è finita e soprattutto da omicidi dimostrativi che hanno
creato notevole allarme sociale; si pensi agli omicidi dell'ex sindaco di Palermo, Giuseppe
Insalaco e dell'agente della PS Natale Mondo, consumati appena qualche mese addietro. Si
ha l'eloquente conferma che gli antichi, ibridi connubi tra criminalità mafiosa e occulti
centri di potere costituiscono tuttora nodi irrisolti con la conseguenza che, fino a quando
non sarà fatta luce su moventi e su mandanti dei nuovi come dei vecchi “omicidi
eccellenti”, non si potranno fare molti passi avanti. Malgrado i processi e le condanne,
risulta da inchieste giudiziarie ancora in corso che la mafia non ha abbandonato il traffico
di eroina e che comincia ad interessarsi sempre più alla cocaina; e si hanno già notizie
precise di scambi tra eroina e cocaina già in America, col pericolo incombente di contatti e
collegamenti - la cui pericolosità è intuitiva - tra mafia siciliana ed altre organizzazioni
criminali italiane e sudamericane. Le indagini per la individuazione dei canali di
riciclaggio del denaro proveniente dal traffico di stupefacenti sono rese molto difficili, sia a
causa di una cooperazione internazionale ancora insoddisfacente, sia per il ricorso, da parte
dei trafficanti, a sistemi di riciclaggio sempre più sofisticati. Per quanto riguarda poi le
attività illecite, va registrato che accanto ai crimini tradizionali come ad esempio le
estorsioni sistematizzate, e le intermediazioni parassitarie, nuove e più insidiose attività
cominciano ad acquisire rilevanza. Mi riferisco ai casi sempre più frequenti di imprenditori
non mafiosi, che subiscono da parte dei mafiosi richieste perentorie di compartecipazione
all'impresa e ciò anche allo scopo di eludere le investigazioni patrimoniali rese obbligatorie
dalla normativa antimafia. Questa, in brevissima sintesi, è la situazione attuale che, a mio
avviso, non legittima alcun trionfalismo. Mi rendo conto che la fisiologica stanchezza
seguente ad una fase di tensione morale eccezionale e protratta nel tempo ha determinato
un generale clima, se non di smobilitazione, certamente di disimpegno e, per quanto mi
riguarda, non ritengo di aver alcun titolo di legittimazione per censurare chicchessia e per
suggerire rimedi. Ma ritengo mio preciso dovere morale sottolineare, anche a costo di
passare per profeta di sventure, che continuando a percorrere questa strada, nel futuro
prossimo, saremo costretti a confrontarci con una realtà sempre più difficile.
1
INTRODUZIONE
Qual è la reale potenza dei mass-media? Possono televisione, giornali, editoria,
cinema osannare o dimenticare dei personaggi che hanno dato un contributo tangibile
all’Italia, o riuscire a commemorarli a dovere?
Sono stati questi i primi quesiti che mi sono posta quando ho deciso di intraprendere
l’argomento della costruzione della memoria collettiva legata alle stragi di mafia quale
tema per la mia dissertazione finale.
Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono accomunati da un
medesimo destino: essere stati assassinati dalla mafia che cercavano di sconfiggere, rei di
aver creduto in ideali che li avevano indotti a pensare di poter raggiungere, prima o poi, il
loro obiettivo.
Ognuno di noi ha cognizione di chi siano queste tre personalità: ne conosce gli estremi
biografici, le cause della morte, le battaglie intraprese. Tuttavia, se periodicamente i mass-
media, tramite diversi espedienti, non avessero continuato a ragionare di loro,
probabilmente molti ricordi a loro legati sarebbero offuscati. Un impegno importante, che
non sempre è stato assolto in maniera puntuale e doverosa, soprattutto per quanto riguarda
la televisione e la carta stampata.
L’obiettivo di questo lavoro è dunque dimostrare come i quotidiani, la televisione,
l’editoria, il cinema e le fiction abbiano commemorato Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino,
e con quale tempistica. Per ottenere un simile risultato, ho preso in considerazione tutti i
diversi medium sopra elencati.
Per quanto attiene la carta stampata, ho esaminato il quotidiano “La Stampa”. Dal 1982 al
2006 ho raccolto tutti gli articoli relativi a queste tre personalità e alle commemorazioni a
loro legate: le stesse peraltro non si svolgevano solo in occasione degli anniversari, ma
anche nel corso dell’anno.
Nell’analizzare gli articoli ho inoltre tenuto conto della loro collocazione all’interno del
quotidiano: quando occupavano la prima pagina, quando vi era su di essa solo un richiamo
alle pagine interne, che tipo di taglio veniva dato, se vi era o meno la presenza di fotografie
all’interno di tali articoli. Ciò che ho potuto notare è che, con il passare degli anni, sempre
più spesso le notizie relative alle commemorazioni di Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino
apparivano solamente nelle pagine interne, spesso sottoforma di un trafiletto a destra della
pagina, che in alcuni casi al primo colpo d’occhio potrebbe persino sfuggire.
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Dalla lettura di tali articoli si evince che la stesura degli stessi è affidata da sempre agli
stessi giornalisti, gli unici che hanno deciso di scrivere di mafia e di fare dei loro scritti un
atto di denuncia sociale. Ritornano quindi le firme di Francesco La Licata, Saverio Lodato,
Attilio Bolzoni, Antonio Ravidà, riscontrabili anche nel campo dell’editoria attinente
all’argomento.
La sezione relativa alla televisione si è concretizzata grazie al supporto dell’Archivio Rai
di Torino. La sede valdostana della tv di Stato non ha infatti prestato attenzione alle mie
richieste, al contrario di quanto avvenuto nel capoluogo piemontese. Mi è stata quindi
offerta la possibilità di visionare tutti i documenti relativi alle morti di Dalla Chiesa,
Falcone e Borsellino, oltre che tutte le trasmissioni confezionate per commemorarli,
soprattutto in occasione dei loro anniversari di morte. Un lavoro che ha fatto emergere le
diversità di realizzazione dei filmati mutate nel corso degli anni: si passa dalla notizia
statica e asciutta della morte del generale Dalla Chiesa data con l’edizione della notte del
telegiornale di Rai Uno alle immagini in diretta delle stragi di Capaci e di via D’Amelio:
un confronto risultato sicuramente interessante dal punto di vista personale.
La carta stampata e la televisione hanno giocato un ruolo primario per la diffusione delle
notizie delle stragi e per la cronaca dei giorni che seguirono tali eccidi; sempre questi due
mass-media sono stati presi come riferimento per quanto attiene le diverse
commemorazioni, in quanto a loro spettava il compito immediato di divulgare le
informazioni relative a cortei e manifestazioni indetti in memoria di Dalla Chiesa, Falcone
e Borsellino.
Il mio lavoro dunque si è basato sull’analisi di questi due medium per quanto riguarda il
“come” sono state diffuse le notizie delle tragiche morti e delle commemorazioni mensili o
annuali, ma non solo. Ho inoltre analizzato le pellicole cinematografiche, le fiction e i libri
legati a tali uomini antimafia, anche se tali prodotti non sono quasi mai stati confezionati in
occasione di commemorazioni legate alle tre date: 3 settembre, 23 maggio e 19 luglio.
Per ciò che concerne i film, ho riscontrato che ne sono stati prodotti solamente due,
dedicati rispettivamente a Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giovanni Falcone, proiettati per la
prima volta rispettivamente nel 1984 e nel 1993. Nel visionarli ho cercato di comprendere
il punto di vista del regista: che cosa ha voluto raccontare, quali aspetti ha posto in rilievo e
quali ha trascurato, che figura è emersa dal racconto del cineasta; nel capitolo dedicato ai
film e alle fiction non vi saranno quindi solamente recensioni degli stessi, ma analisi di tali
lavori.
3
La stessa scelta è stata adoperata per l’esame delle due fiction su Falcone e Borsellino. Non
ho ritenuto opportuno confrontare il film e la fiction su Falcone in quanto ritengo che i due
prodotti siano a priori molto diversi tra loro, per tempi di realizzazione, per costi, ma
soprattutto per fruizione.
I libri, che rappresentano l’ultimo capitolo della mia tesi, sono in realtà il primo medium al
quale mi sono interessata. Quando infatti ho iniziato, diversi anni fa, ad appassionarmi
all’argomento criminalità organizzata e alle figure di uomini antimafia, per prima cosa ho
iniziato a documentarmi leggendo vari libri sull’argomento. Anche in questo caso la lettura
è stata di tipo critico, per capire personalmente in prima istanza e successivamente spiegare
ai fruitori del mio scritto le intenzioni degli autori dei vari libri esaminati.
La parte che maggiormente mi ha coinvolta è stata quella relativa all’analisi delle raccolte
de “La Stampa”. Leggere diversi articoli scritti da grandi firme e verificare come tali lavori
siano stati impaginati ha rappresentato per me una lieve crescita dal punto di vista
professionale, considerato il fatto che collaboro da anni per un settimanale locale della
Valle d’Aosta.
Dal punto di vista umano sono stata più colpita dalla visione dei film e delle fiction, dove
spesso ho piacevolmente riscontrato delle analogie con i testi letti a riguardo; si tratta a mio
giudizio di un aspetto rilevante, in quanto sinonimo di fedele trasposizione della realtà.
In questa sede ritengo opportuno anticipare una serie di considerazioni. Posso infatti
affermare che vi sono delle diversità di costruzione della memoria dei tre diversi
personaggi. Semplificando il concetto, dal mio lavoro è emerso che Carlo Alberto Dalla
Chiesa è stato il personaggio meno ricordato e commemorato, mentre Giovanni Falcone
incarna l’uomo anti mafia per eccellenza, l’eroe di un’Italia che lotta contro la mafia.
A supporto di quanto sopra dichiarato, sottolineo che le commemorazioni relative alla
morte del Generale si sono svolte sino al 1991: nel 1992, nonostante ricorresse il suo
decennale, non vi sono né messe né celebrazioni ufficiali, e credo che questo sia da
imputare al fatto che quell’anno sono avvenute le stragi di Capaci e via D’Amelio.
Quest’aspetto tra l’altro è tipico del modo attuale di fare giornalismo: la notizia più recente
fa dimenticare quella passata, anche se di uguale importanza o inerente al medesimo
argomento.
Anche la memoria di Paolo Borsellino non gode della stessa attenzione che i mass-media
rivolgono verso quella del suo amico e collega Giovanni Falcone. A questo punto viene da
chiedersi perché. Perché i mezzi di comunicazione hanno in qualche modo eletto il
magistrato di Palermo simbolo della lotta alla mafia, discriminando altre due personalità
4
che si erano battute per lo stesso obiettivo e che hanno pagato la loro scelta nello stesso
modo di Falcone? Di fatto Giovanni Falcone è l’uomo maggiormente nominato sui
quotidiani, soprattutto a lui vengono dedicati convegni, messe, cerimonie, sia il piccolo che
il grande schermo realizzano dei prodotti sulla sua biografia, e anche l’editoria si occupa
maggiormente della sua figura.
Secondo il mio punto di vista, la strage di Capaci rappresenta una svolta. Una sorta di
spartiacque tra la vecchia e la nuova mafia, quella che prima colpiva a volto scoperto
uccidendo in mezzo a una strada a colpi di fucile (come Dalla Chiesa) e che ora preferisce
nascondersi dietro il tasto di un detonatore. Non più proiettili ma tritolo, non più assassini
che affrontano la loro vittima ma esecutori che spiano da lontano i movimenti del loro
bersaglio e colpiscono a distanza, come per Falcone e per Borsellino.
La strage di Capaci ha anche cambiato il modo di fare notizia, per quanto attiene i delitti
mafiosi. Scompaiono i sotto pancia, le notizie delle edizioni notturne dei telegiornali per
fare spazio alle edizioni in diretta di questi ultimi: ai cittadini vengono spesso fornite
notizie sommarie, appena reperite da agenti di polizia presenti sul posto o dai passanti, ma
esse sono supportate da immagini molto eloquenti destinate a rimanere indelebili nella
memoria e nel tempo.
La televisione e i giornali hanno veicolato una serie di messaggi visivi, in qualche modo
universali. L’autostrada divelta, il rumore delle sirene, polvere e macerie ovunque, ma non
solo. Dei funerali delle tre personalità si ricordano gli applausi della folla rivolti ai feretri,
ma anche i fischi e gli insulti all’indirizzo dei politici presenti alle funzioni religiose. Di
quei momenti, tuttavia, rimane scolpito nella memoria il discorso della vedova di Vito
Schifani, uno degli agenti della scorta di Falcone. Come se quelle parole potessero fare in
qualche modo comprendere ai lettori e ai telespettatori il dolore di quelle famiglie, vittime
a loro volta della mafia; si vuole far intendere di una collusione tra mafia e politica, ed è
emblematica la scena in cui il prete toglie la parola alla vedova che stava pronunciando il
suo discorso dal pulpito: come se stesse dicendo delle verità scomode che non dovevano
essere ascoltate, come se la Chiesa si vergognasse per quelle dichiarazioni, o, peggio,
avesse paura. Il messaggio del rapporto tra mafia e politica e il fatto che questi tre
personaggi siano stati abbandonati al loro destino era già stato fatto passare nel 1982,
quando, durante i funerali del generale Dalla Chiesa, la figlia Rita chiese che venisse tolta
una corona di fiori inviata dal Presidente della Regione Sicilia.
Tuttavia, perché Giovanni Falcone è l’uomo anti mafia per antonomasia? Forse per la sua
aria sorniona, opposta a quella per certi versi austera del generale Dalla Chiesa o a quella
5
riservata del giudice Borsellino, che lo fa sembrare più vicino alla gente comune. O forse
perché ha fondato con il suo collega Rocco Chinnici il pool antimafia, e quindi la
popolazione identifica con questa nascita la sua volontà manifesta di combattere la
criminalità organizzata. O ancora, e qui ritorna il ruolo dei mass-media, perché tutti i mezzi
di comunicazione, quando si parla di debellare la lotta alla mafia, fanno riferimento a
Falcone, e dunque la gente associa questa figura al tema di cui sopra.
Mi sono infine posta un quesito: tutto questo è servito a qualcosa? Hanno avuto un senso le
morti di Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino, oppure tutto è tornato come prima? L’Italia è
stata definitivamente scossa dal suo torpore, è capace di distinguere la mafia in tutte le sue
sfaccettature? Perché essa non si manifesta solamente attraverso gli agguati o le sparatorie,
ma anche attraverso i ricatti, le estorsioni, i sequestri, gli abusi, la lotta al potere.
Sono riusciti, almeno in parte, questi tre personaggi a centrare gli obiettivi che si erano
prefissati di raggiungere? Considerato che ancora oggi di loro se ne parla, anche se
purtroppo non abbastanza spesso, credo che un timido sì lo si possa affermare.
6
CAPITOLO I IL REPORTING DEGLI ATTENTATI
Nel corso degli anni, l’avvicendarsi delle nuove tecnologie ha mutato anche il
modo e i tempi di dare e diffondere le notizie. I giornali hanno da sempre ricoperto un
ruolo preponderante, ma sono stati surclassati dalla televisione che a sua volta risulta
spesso (a meno per quanto riguarda l’immediatezza di diffusione delle notizie) superata dal
web. Nel 1982, nonostante gli italiani avessero appreso della morte del generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa attraverso un sottopancia – ovvero una scritta in sovrimpressione
sullo schermo - trasmesso sulla seconda rete Rai intorno alle 21.30, fu la carta stampata a
seguire da vicino l’avvenimento, non limitandosi al racconto dei fatti, ma divulgando la
biografia del prefetto di Palermo e seguendo la cronaca dei funerali e delle polemiche che
li hanno contraddistinti.
Per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino fu diverso. Vi furono interruzioni di programmi
ed edizioni speciali dei telegiornali (speciali non solamente per l’orario della messa in onda
ma anche per la gravità dell’evento che trattavano), mentre la carta stampata, suo
malgrado, non poteva fare altro che raccontare, il giorno dopo i tragici fatti, quello che gli
italiani già avevano appreso e impresso nella mente attraverso immagini eloquenti e
significative delle stragi. Credo che si tratti di un fenomeno normale, e se tali avvenimenti
fossero successi a distanza di qualche anno, ritengo opportuno affermare che con ogni
probabilità la gente sarebbe venuta a conoscenza delle tragedie dal web, anche se per
maggiori informazioni ed approfondimenti si sarebbe precipitata, se possibile, ad
accendere i televisori alla ricerca di maggiori informazioni.
Entrando nel merito della questione, vediamo come gli italiani hanno saputo della morte di
queste tre personalità.
7
1 QUEL 3 SETTEMBRE 1982
Erano da poco trascorse le 21, quando l’Italia fu scossa da una terribile notizia.
Avevano assassinato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emmanuela Setti
Carraro, mentre il loro autista Domenico Russo era rimasto gravemente ferito (sarebbe
morto in ospedale, dopo dieci giorni di coma).
A dare la notizia una scritta in sovrimpressione trasmessa dalle reti Rai: «Palermo. Questa
sera alle 21.10 il generale Dalla Chiesa è stato ucciso»1.
Poche righe che gettano l’intera penisola nello sconforto, ma soprattutto una regione in
particolare, la Sicilia. Una Sicilia che negli ultimi anni era stata devastata da una serie di
omicidi di matrice mafiosa che avevano avuto come vittime politici, magistrati, giudici,
nonché gli stessi mafiosi ma di bande rivali a quelle dei mandanti.2 In modo particolare,
come è elementare presupporre, la città maggiormente colpita fu il capoluogo regionale,
Palermo.
La notizia viene letta da milioni di italiani, ma in questi numeri sono compresi, purtroppo,
anche i famigliari delle vittime. Nando, figlio del generale, e Gianmaria, fratello della
seconda moglie di Dalla Chiesa, apprendono dalla televisione la tragedia che si è abbattuta
su di loro. Solamente un’ora prima dell’attentato, la famiglia Setti Carraro aveva sentito
telefonicamente Emmanuela, che telefonava ogni sera per augurare la buonanotte ai suoi
cari. Quel 3 settembre 1982 aveva parlato con la madre rassicurandola (anche se non
poteva svelare dove si trovava e gli spostamenti che effettuava con il marito) e affermando
che a quella telefonata fatta dalla Prefettura ne sarebbe seguita un’altra, una volta rientrati
a casa, per la buonanotte. Così non fu.3 Emmanuela Setti Carraro si trovava infatti in
Prefettura, aspettando che il marito terminasse la sua lunga giornata di lavoro. Il generale,
per depistare chi secondo lui lo teneva sotto controllo, aveva prenotato un tavolo per due in
un ristorante a Mondello, anche se in realtà era sua intenzione cenare a casa con la moglie.4
Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie escono da Villa Withaker poco prima delle 21: la
donna sale al posto di guida della sua A112, seguiti dall’agente Domenico Russo a bordo
di un’Alfetta.
1 P.BENEDETTO, La famiglia di Emmanuela apprende dalla tv la notizia del tragico agguato di Palermo, «La Stampa», 5 settembre 1982, pag.1. 2 P.SAPEGNO, M.VENTURA, Generale, Città di Castello, Limina, 1997, pag.165. 3 P.SAPEGNO, M.VENTURA, Generale, Città di Castello, Limina, 1997, pag.4. 4Ibidem.
8
Quando le due automobili imboccano via Isidoro Carini, si scatena l’inferno.
Improvvisamente, dal buio e dai vicoli deserti di Palermo giungono due automobili – una
Bmw e una 131 – e una motocicletta Suzuki di grossa cilindrata, i sicari alla loro guida
cominciano a sparare contro l’automobile dell’agente Russo. In un attimo il prefetto Dalla
Chiesa comprende cosa sta per accadere, ma è troppo tardi. L’auto sbanda nell’intento di
scappare e termina la sua corsa contro il cordolo del marciapiede di via Isidoro Carini. A
causa del violento impatto i fari si frantumano e le gomme scoppiano Il generale tenta di
fare da scudo con il suo corpo alla sua giovane moglie, invano. Le raffiche di mitra e di
Kalashnikov piovono da qualsiasi angolazione, trucidando i due corpi: le due automobili e
la motocicletta avevano accerchiato la piccola utilitaria, impossibile sopravvivere. Uno
degli omicida scende dalla moto imbracciando il mitra con l’intento, riuscito, di sfigurare
con i proiettili il viso del generale. Tutt’intorno, il silenzio. Imposte socchiuse, nessuno
accorso in strada. Solo dopo che il martirio fu finito, la gente cominciò ad affacciarsi, a
lasciare le proprie abitazioni per avvicinarsi a quella A112.5
Le ricetrasmittenti delle forze dell’ordine gracchiavano: «Omicidio in via Carini…nota
personalità…uccisa nota personalità». La stessa notizia giungeva alle redazioni dei giornali
palermitani, come ricorda Saverio Lodato, allora cronista de “L’Unità”.6
5 S.LODATO, Trent’anni di mafia, Bergamo, Bur, 2006, pag.99. 6Ibidem.
9
CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA
4 settembre 1982. Il compito di dare la notizia della strage di via Carini spetta ora
alla carta stampata. Per quanto riguarda “La Stampa”, la prima pagina apre con la notizia
della morte del generale e della moglie, proponendo una fotografia che ritraeva i due
coniugi in un momento di relax7. La spalla – ovvero l’articolo pubblicato nella parte alta
della prima pagina, a destra – di quell’edizione è riservata al commento dell’allora
Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che lo stesso aveva inviato a Giovanni
Spadolini, a quel tempo presidente del Consiglio. Pertini aveva dichiarato:
Con Carlo Alberto Dalla Chiesa scompare un esemplare ed eroico servitore dello Stato, una figura
rappresentativa della volontà del popolo italiano di non arrendersi alla nuova barbarie che ci
minaccia.8
Il richiamo rimanda alla lettura in seconda pagina di altri articoli dedicati alla figura del
generale dei Carabinieri: l’apertura, il centro pagina ed il taglio basso. Diversi articoli
all’interno dei quali viene descritta la figura del generale, il suo impegno profuso nella
lotta al terrorismo prima e alla mafia poi, la sua carriera da carabiniere, e il suo tentativo
riuscito di far parlare, per la prima volta nella storia, un pentito di mafia, Patrizio Peci.9
L’edizione del giorno successivo è ovviamente ancora incentrata sulla morte del generale
Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emmanuela Setti Carraro In questo caso il
giornale pubblica una foto moto eloquente e significativa che ritrae Rita, primogenita del
generale, accanto alla bara del padre, il volto distrutto e trasfigurato dal dolore.10
Domenica 5 settembre 1982. La prima pagina è dedicata alla cronaca dei funerali di Carlo
Alberto Dalla Chiesa, i quali furono celebrati primariamente a Palermo e il giorno dopo a
Parma, poiché il generale era di origini romagnole (anche se era nato a Saluzzo).
Un giorno di collera e di lacrime, titola “La Stampa” in apertura. Una fotografia che ritrae
Rita Dalla Chiesa, figlia del generale, in lacrime davanti al feretro del padre, occupa il
taglio alto della pagina.
Il racconto della celebrazione dei funerali è affidato al giornalista Giovanni Cerruti. Senza
remore è descritto il disprezzo espresso dalla folla di cittadini nei confronti dei politici di
7 Assassinati Dalla Chiesa e la moglie, «La Stampa», 4 settembre 1982, pag.1. 8 Pertini, Una sfida non più tollerabile, «La Stampa», 4 settembre 1982, pag.1. 9 P.P BENEDETTO, Fece parlare Peci, il primo pentito, «La Stampa», 4 settembre 1982, pag.2. 10 Un giorno di collera e di lacrime, «La Stampa», 5 settembre 1982, pag.1.
10
allora presenti alla messa funebre, concretizzatosi con lanci di monetine e bottigliette
d’acqua, insulti all’indirizzo degli uomini dello Stato. La gente urla la sua rabbia, puntando
il dito accusatore al grido: «Voi, li avete assassinati voi». Gli stessi figli del generale non
apprezzano la visita di tutte quelle autorità, ree di aver lasciato il loro padre da solo a
combattere una battaglia troppo importante: significativo a tal proposito il gesto, riportato
dal giornalista Cerruti, della primogenita Rita, che chiese di far portare via una corona
inviata dalla Giunta regionale. È sempre la figlia a deporre il berretto da carabiniere sul
feretro del padre e a non degnare di uno sguardo alcuno dei politici che si trovavano in
prefettura prima e in chiesa poi per dare l’estremo saluto al generale11.
L’omelia del cardinale Pappalardo a Palermo è di quelle che lasciano il segno, destinate a
essere ricordate col passare degli anni.
Mentre a Roma si pensa sul da farsi, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. Sagunto ora è
Palermo, ma Roma è sempre Roma.12
ISTANTANEE SULLA MORTE DI DALLA CHIESA
Saverio Lodato, che peraltro aveva conosciuto il generale Carlo Alberto Dalla
Chiesa e dal quale aveva ottenuto il rilascio di alcune interviste, della sera del 3 settembre
1982 ricorda «un impressionamene dispiegamento di forze, un’autobomba dei pompieri
messa di traverso in Via Carini per impedire l’afflusso di automobilisti curiosi».13
Questa è stata parte della scena che si era presentata agli occhi del giornalista, delle forze
dell’ordine, dei curiosi e degli abitanti del quartiere che in quel momento stavano
affollando la via. Ma c’era un’altra scena, destinata a rimanere indelebile nella memoria
delle persone, tanto dei presenti come delle persone che hanno appreso dell’omicidio dalla
televisione e dai giornali. La A112 bianca di Emmanuela Setti Carraro era schiacciata
contro il cordolo del marciapiede, i fari frantumati e i pneumatici scoppiati a causa del
violento urto con l’asfalto. La portiera dell’utilitaria era spalancata, il braccio della donna
pendeva inerme, la testa era abbandonata sullo schienale; a fianco a lei il marito, Carlo
Alberto Dalla Chiesa, che in un impeto di estremo amore aveva tentato di fare da scudo
con il proprio corpo alla moglie: la parte destra del volto del prefetto era stata sfigurata da
11 P.SAPEGNO, M.VENTURA, Generale, Città del Castello, Limina, 1997, pp.185-186. 12 G.CERRUTI, Interminabile applauso alle due bare ma fischi e monetine contro i politici, «La Stampa», 5 settembre 1982, pag.1. 13 S.LODATO, Trent’anni di mafia, Bergamo, Bur, 2006.
11
una scarica di proiettili, e aveva ancora la borsa appoggiata sulle ginocchia. Qualcuno dei
soccorritori aveva coperto parte della macchina con un lenzuolo bianco, per evitare di
mostrare un simile spettacolo.14
Quella stessa immagine è quella che più facilmente si associa alla morte del generale, e che
viene riproposta ogni qualvolta si tratta l’argomento della strage di via Carini. Ed è sempre
quell’icona ad apparire su “La Stampa”, il giorno dopo dell’omicidio, in seconda pagina.15
Il fatto che a un determinato fatto si associno delle immagini – siano esse fotografie
piuttosto che sequenze cinematografiche – è indubbiamente frutto dell’utilizzo dei mass-
media. In qualche modo loro influenzano la memoria collettiva di specifici eventi, poiché
veicolano alcune informazioni – grafiche e testuali – relative agli stessi avvenimenti. La
scelta di telegiornali e quotidiani di riproporre continuamente quell’immagine – quella
della A112 subito dopo l’agguato – credo sia ponderata e oculata. Si tratta sicuramente di
una fotografia ad alto impatto emotivo e visivo, capace di colpire ma anche di essere
ricordata con facilità.
I mass-media, in questo caso particolare uno nello specifico, la televisione, hanno
provveduto all’immediata diffusione di una tragica notizia che ha scosso l’intero Paese;
parallelamente, le linee telefoniche di questura, comandi di polizia, redazioni
giornalistiche, si infuocavano per annunciare che «hanno ammazzato una nota
personalità»16.
I mezzi d’informazione non hanno solamente raccontato la notizia, la tragica notizia, ma
hanno cercato di trasmettere i sentimenti di quei giorni, sempre attraverso le colonne dei
quotidiani, i servizi dei telegiornali. La figlia Rita che non stacca la mano dalla bara del
padre mentre con l’altra si porta al petto la sciabola dello stesso, la rabbia provata e non
celata nel giorno dei funerali nei confronti dei politici, il calore dimostrato verso i
famigliari – straziati dal dolore - delle vittime dell’agguato famoso, i mazzi di fiori deposti
sul luogo della tragedia, oltre ad un cartello che recitava:
Qui è morta la speranza dei siciliani onesti17.
14 M. SAPEGNO, M. VENTURA, Generale, Città del castello, Limina, 1997. 15 R.S., Nel 1948 in Sicilia, poi al Nord. Catturò Curcio e i capi delle Br, «La Stampa», 4 settembre 1982, pag.2. 16 S.LODATO, Trent’anni di mafia, Bergamo, Bur, 2006, pag.100. 17 Cfr «La Stampa», 4 e 5 settembre 1982, pp.1-5.
12
2 LA STRAGE DI CAPACI: 23 MAGGIO 1992
La notizia della morte del giudice Falcone, ultimo baluardo insieme al collega ed
amico Paolo Borsellino della lotta alla mafia, del bene contro il male, entrò nelle case degli
italiani intorno alle 22 di sera, nuovamente con una striscia in sovrimpressione trasmessa
dalla rete ammiraglia della Rai mentre imperversava Scommettiamo che…? condotta da
Fabrizio Frizzi18.
Le prime immagini di quanto avvenne furono trasmesse con l’edizione ridotta di uno
speciale su Falcone condotto da Bruno Vespa, durante una pausa della trasmissione
goliardica di Rai Uno. Una manciata di minuti per raccontare quanto avvenuto, con le
prime immagini della strage, quelle stesse immagini che diventeranno il simbolo
dell’eccidio di Capaci.
Ulteriori informazioni si appresero con l’edizione della notte del Tg1. In studio Angela
Buttiglione, che ripropose le medesime immagini, le prime sequenze girate dopo lo
scoppio, dopo che la Fiat Croma del giudice Falcone era saltata in aria. La strada era un
cumulo di macerie e detriti, l’auto bianca era divelta, girata su una fiancata; in alto
spiccava l’indicazione verde che avvisava gli automobilisti che a destra ci sarebbe stato lo
svincolo per Capaci. Decine di soccorritori, vigili del fuoco, poliziotti e carabinieri erano
accorsi sul luogo dello scoppio, mentre le sirene continuavano a echeggiare in lontananza:
erano quelle delle volanti ma anche delle autoambulanze che stavano trasportando
Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. I guard-rail erano ridotti in un ammasso informe
di lamiere, ovunque c’era fumo ed un’aria che l’inviato aveva descritto «irrespirabile, non
solo in senso fisico ma anche in senso psicologico». I presenti insomma avevano
l’impressione di essere soffocati da quanto li circondava, incapaci di capire fino in fondo
una simile scena19.
La potenza della televisione in quel caso fu devastante. I telespettatori ebbero quasi
l’impressione di essere lì, in mezzo a quei detriti: si tratta peraltro di sensazioni che con il
passare del tempo si sono acuite in quanto quelle sopra descritte sono le immagini che
vengono riproposte ogni qualvolta si parli del giudice Falcone e della sua tragica morte.
18 M.G. BRIZZONE, Il TG1 attacca lo show di Frizzi, «La Stampa», 25 maggio 1992, pag.5. 19 Tg1 edizione straordinaria, 23 maggio 1992, Archivio Rai Torino, identificazione teca: M92144/007.
13
Le stesse raffigurazioni furono riproposte come fotografie a supporto degli articoli apparsi
sui quotidiani italiani all’indomani dell’agguato. “La Stampa” ne è un esempio. La sua
prima pagina del 24 maggio 1992 titolava: Falcone ammazzato dalla mafia.
L’editoriale di Paolo Mieli, Il simbolo decapitato, offre invece un’immagine inedita di
Falcone: una sorta di magistrato giornalista, che pochi mesi prima aveva deciso di
collaborare con l’importante testata torinese, proprio nello spazio dedicato agli editoriali.
L’allora direttore ricorda il giudice con affetto, non solo sotto il profilo professionale ma
soprattutto dal lato umano.
La terza pagina è interamente dedicata all’avvenimento del giorno prima, con articoli di
Francesco La Licata, Roberto Martinelli e Giovanni Bianconi.
Mi uccideranno a costo di una strage. Il presagio dell’agguato nella sua vita sotto tiro.
Così Francesco La Licata titola il suo articolo di apertura, lui che Falcone lo conosceva
bene; il magistrato e il giornalista avevano instaurato un rapporto di amicizia e di fiducia,
nonostante la diffidenza dimostrata da Falcone verso la categoria. I giornalisti non li
capiva, perché a parer suo svolgevano con leggerezza il proprio lavoro e con gli articoli
costituivano un varco di profitti per la mafia, come ha ricordato l’articolista proprio tra le
righe dello scritto in oggetto. Anche il loro primo incontro non era stato tra i più cordiali,
con il giudice che aveva liquidato il giornalista dopo due minuti senza che avesse rilasciato
alcuna dichiarazione20.
L’articolo del 24 maggio però fa comprendere quanto tra le due persone ci fosse amicizia,
stima e rispetto, e questo si evince già dall’incipit:
Non è possibile. Non può essere vero che Giovanni Falcone sia morto. Cerco di convincermene
contro ogni evidenza, come se il rifiuto potesse davvero servire ad esorcizzare la morte.
Racconta della telefonata ricevuta da parte di un suo collega, che lo informa dell’attentato
e della morte dei tre agenti della scorta; Falcone risultava essere ancora vivo, e La Licata
immagina di incontrarlo in ospedale per rimproverarlo bonariamente: «Possibile che tu ti
cacci sempre dove ci sono i guai?».
Le agenzie battono la notizia della morte del giudice, alle 19.43. La moglie morirà poco
dopo durante l’intervento chirurgico che le avrebbe dovuto salvare la vita.
Francesco La Licata ricorda con affetto la figura del giudice, della sua voglia di lottare
contro la mafia, del suo sdegno nel non essere creduto, specie dopo l’attentato a Mondello. 20 F.LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Milano, Rizzoli, 1993.
14
Era stato accusato di aver inscenato l’attentato: la mafia non sbaglia, specie se il bersaglio
è un uomo come Giovanni Falcone. Il giornalista racconta che il magistrato rimaneva
profondamente amareggiato e ferito da simili affermazioni, e che era consapevole che la
mafia prima o poi l’avrebbe ucciso, pagando un prezzo alto come quello di una strage,
unico modo a suo giudizio, fondato, per eliminarlo. Un articolo dunque di ricordi, capace
di far conoscere il lato non solo professionale ma anche umano di Giovanni Falcone, un
ritratto dipinto da chi l’aveva conosciuto e gli voleva bene.21 Non a caso, il giornalista La
Licata è stato scelto da Anna e Maria Falcone per scrivere la biografia ufficiale del giudice.
I restanti due articoli della pagina raccontano invece della corsa alla Superprocura, piena di
ostacoli e dissapori: Giovanni Falcone avrebbe dovuto essere nominato a capo della stessa
all’incirca dopo due mesi dall’agguato.22
La quinta pagina è dedicata alla figura del magistrato: viene ricordato attraverso i racconti
di Marcello Sorgi, che l’aveva incontrato per l’ultima volta il mercoledì precedente
all’attentato di Capaci23; tramite la recensione del libro Cose di Cosa Nostra che lo stesso
Falcone aveva scritto a quattro mani con Marcello Padovani, e che era stato pubblicato
l’anno prima24; attraverso il ricordo del fallito agguato nella sua villa all’Addaura, nel
luglio del 198925.
25 maggio 1992. La rabbia di Palermo per Falcone. Questo il titolo della prima pagina, il
giorno dei funerali del magistrato, di sua moglie e dei tre agenti della scorta. Un articolo
all’interno del quale non mancano i nomi dei politici, andati a Palermo a rendere omaggio
alle salme ed accolti da fischi, insulti e lanci di monetine, tra i quali spiccano quelli di
Spadolini e Martelli, senza dimenticare Oscar Luigi Scalfaro, allora presidente della
Camera e che dopo pochi giorni sarebbe stato eletto Capo dello Stato, che non presenziò
alla cerimonia funebre ma pronunciò il discorso di commemorazione alla Camera.. Viene
nuovamente ripresa la questione della Superprocura, e l’articolo si conclude riportando i
titoli dell’Observer e dell’agenzia di stampa Nuova Cina di Pechino riguardo al 23 maggio
e al giudice, a dimostrazione di quanto Giovanni Falcone fosse conosciuto ed apprezzato in
tutto il mondo.
21 F.LA LICATA, Mi uccideranno a costo di una strage. Il presagio dell’agguato nella sua vita sotto tiro, «La Stampa», 24 maggio 1992, pag.3. 22 G.BIANCONI, Superprocura, una corsa tra i veleni, «La Stampa», 24 maggio 1992, pag.3. 23 M.SORGI, Svelò il patto mafia-politica e tentarono di emarginarlo, «La Stampa», 24 maggio 1992, pag.5. 24 L.SUGLIANO, Il mio conto con i boss è aperto e lo salderò soltanto con la morte, «La Stampa», 24 maggio 1992, pag.5. 25 Una bomba vicino a casa, «La Stampa», 24 maggio 1992, pag.5.
15
Giuseppe Zaccaria firma l’imponente articolo che occupa oltre la metà della terza pagina,
scritto che racconta i funerali di Stato delle vittime di Capaci. Celebrazioni dal clima
rovente: la gente fischia i politici presenti e quelli che arrivano con le auto di scorta, molte
di più di quelle che erano state date in dotazione al giudice assassinato, applaude i feretri
all’uscita della chiesa di Palermo. In prima fila i parenti delle vittime, i colleghi poliziotti, i
magistrati amici di Falcone, ma anche politici e persone che avevano osteggiato la carriera
del giudice alla guida della Superprocura. Viene ricordato l’attentato, che ha dato luogo ad
una voragine «profonda 3 metri per 13 di diametro» come riporta l’inviato nel suo
articolo.26
Il taglio basso della pagina rivela, attraverso l’articolo di Francesco La Licata, una
sconcertante verità: la leggerezza con cui il Ministero aveva affrontato la problematica
della sicurezza del giudice. Un poliziotto, che aveva fatto parte del corpo della scorta e che
anche quel fatidico 23 maggio avrebbe dovuto prestare servizio a fianco del magistrato,
racconta di come la situazione sia peggiorata dall’istituzione del servizio di scorta.
All’inizio dodici auto oltre a un elicottero che sorvolava l’intero percorso, alla fine tre
agenti e null’altro. Viene reso noto della presenza di un’auto staffetta che avrebbe dovuto
perlustrare il percorso teatro dell’agguato, in quanto ultimamente era molto frequentato dal
giudice e soprattutto era l’unico modo per arrivare a Palermo, mentre le altre mete
potevano essere raggiunte attraverso continui spostamenti di rotta. Un’auto staffetta che
sicuramente quel 23 maggio 1992 non aveva percorso l’autostrada teatro della strage27.
Non è mafia, questo è terrorismo.
A pronunciare tale frase, titolo di apertura della quinta pagina de “La Stampa” del 25
maggio 1992, Oscar Luigi Scalfaro, durante la commemorazione in Parlamento rivolta al
giudice, alla moglie e agli uomini della scorta, che vengono presentati ai lettori attraverso
tre foto tessera, in modo che anche loro abbiano un degno tributo, che siano ricordati dalla
memoria collettiva. L’articolo di Tonio Attino, Martirio di uomini del Sud, è stato
concepito proprio con quest’obiettivo: sono raccontate le tre brevi vite di Montinari,
Schifani e Di Cillo, gli agenti della scorta fedeli al giudice, fino alla morte.28
26 G.ZACCARIA, Basta, tornatevene a Roma, «La Stampa», 25 maggio 1992, pag.3. 27 F.LA LICATA, A terra (troppo caro), l’elicottero di scorta, 25 maggio 1992, pag.3. 28 T.ATTINO, Martirio di uomini del Sud, «La Stampa», 25 maggio 1992, pag.5.
16
In alto a destra un articolo rivela che le intere strutture palermitane sciopereranno per
l’intera giornata del 25, in occasione dei funerali di Stato, mentre nel resto d’Italia i
lavoratori hanno incrociato le braccia solo per la durata della funzione, dalle 10 alle 11 del
mattino29. Articoli sociali dunque che si alternano con quelli di politica (sempre
nell’ambito dell’omicidio Falcone, come ricorda la scritta in alto a fianco del numero della
pagina), ma anche giornali che affrontano tematiche televisive. Nella stessa pagina, in
basso a sinistra, infatti, viene affrontata la questione spiacevole che si era venuta a creare la
sera dell’attentato: la tv di Stato non aveva interrotto la programmazione abituale (quella
sera veniva trasmesso Scommettiamo che…?) per dare spazio ad uno speciale inerente a
Falcone condotto da Bruno Vespa. Il TG1 attacca lo show di Frizzi, titola l’articolo. Dalla
sua lettura si evince che la rete ammiraglia della Rai non ha interrotto lo show di prima
serata per dare spazio all’approfondimento del giornalista, che peraltro avrebbe potuto per
primo informare i cittadini di quanto era avvenuto, considerato il fatto che l’edizione del
telegiornale fu trasmessa a mezzanotte. Tutto questo avvenne tra la stizza del conduttore
del programma mancato e l’amarezza di Fabrizio Frizzi, non solo come presentatore ma
anche come cittadino, particolarmente coinvolto a livello personale visto che allora era il
compagno di Rita Dalla Chiesa, figlia del generale30. Persino Adriano Celentano,
nell’articolo La Rai non porta il lutto, pubblicato in prima pagina il 27 maggio 1992, si
chiede se sia questo il modo di portare rispetto verso chi è morto per lo Stato, e se sia
questo il modo di insegnare la cultura alla gente, senza darle nemmeno il tempo di
rifletterle per quanto accaduto, visto che dopo un’edizione ridotta di pochi minuti dello
speciale di Vespa è ripresa la normale programmazione.
«Uomini della mafia, inginocchiatevi». È il grido di Rosalia, vedova di Vito Schifani, che
dal pulpito grida il suo dolore ai presenti, alla folla che si ammassa all’interno e all’esterno
della chiesa. La televisione ha riproposto il discorso della donna con un’immagine
eloquente che è entrata a far parte della memoria collettiva quando il pensiero corre ai
funerali del giudice Falcone: una donna distrutta dal dolore che chiede ai colpevoli di
redimersi, di ricordarsi della loro situazione di cristiani e che come tali devono riconoscere
il proprio peccato. Il prete continua a spostarle il microfono, e la vedova prosegue con il
suo lamento, con le sue lacrime, cercando di farsi forza, di riavvicinarsi al microfono. Gli
applausi sono tutti per lei, per suo marito e per i suoi colleghi, per il giudice e la moglie
che da loro sono stati protetti fino all’ultimo istante; le urla e gli insulti sono invece tutti
29 Oggi l’Italia si ferma, «La Stampa», 25 maggio 1992, pag.5. 30 M.G.BRIZZONE, Il TG1 attacca lo show di Frizzi, «La Stampa», 25 maggio 1992, pag.5.
17
rivolti ai politici, rei di aver abbandonato anche Giovanni Falcone, come fu per Carlo
Alberto Dalla Chiesa e come sarà, neanche due mesi dopo, per Paolo Borsellino. Perché
alla vedova era stato chiesto di leggere parole non sue, di giurare perdono per i mafiosi, e
lei aveva aggiunto che forse ci sarebbe stato se loro si fossero inginocchiati. Non solo31.
L’argomento viene ripreso a pagina 9, dedicata alla cronaca per esteso dei funerali.
Vengono riproposte le parole del cardinale Pappalardo, che si domanda in maniera retorica
quali fossero le persone che affiancavano Falcone ma che contemporaneamente tramavano
alle sue spalle, e sentenzia:
Chi ha ammazzato con tanta ferocia merita di far parte della Sinagoga di Satana.
Le fotografie della pagina mostrano la folla inferocita contro i politici, la vedova di Vito
Schifani durante la lettura del testo incriminato, e i cinque feretri32. Lo scritto viene
pubblicato integralmente all’interno dell’articolo Quelle tredici righe concordate che la
rabbia ha fatto cambiare, spiegando quali fossero le righe originali che la vedova avrebbe
dovuto leggere e che cosa invece la stessa ha modificato, in un momento di estremo dolore.
Sicuramente questa rappresenta l’immagine simbolo dei funerali del giudice Falcone,
trasmessa dalle varie televisioni in numerose occasioni, e ripresa dalla carta stampata
attraverso le immagini della donna al microfono. La televisione trasmise in diretta i
funerali di Stato. Secondo i dati pubblicati a pagina 7 de “La Stampa” del 27 maggio, 5
milioni e mezzo di persone seguirono la funzione funebre trasmessa da Rai Uno, Studio
Aperto e Retequattro. La prima superò i tre milioni e mezzo di telespettatori, mentre i
telegiornali di Italia 1 e Rete4 registrarono rispettivamente poco più di un milione di
spettatori e 784.000 telespettatori.33
Sempre nell’edizione del 27 maggio del ‘92, la prima pagina esalta la figura del presidente
della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, eletto in concomitanza con i giorni di lutto
nazionale e subito recatosi a Palermo per rendere omaggio alle vittime della strage di
Capaci: Antonio Ravidà racconta della sua visita ai luoghi dell’attentato, alle vedove degli
agenti, ovunque accolto da applausi. Un clima opposto rispetto a quello a lui indirizzato nel
1985, quando, ministro degli Interni, si era recato ai funerali di Stato di Ninni Cassarà, vice
questore e membro del pool antimafia voluto da Falcone e Chinnici34.
31 L.TORNABUONI, Quando il dolore si ribella, «La Stampa», 26 maggio 1992, pag.1. 32 Mafiosi, vi perdono, ma inginocchiatevi, «La Stampa», 26 maggio 1992, pag.9. 33 Funerali in TV, «La Stampa», 27 maggio 1992, pag.7. 34 A.RAVIDÀ, Scalfaro prega sulle tombe di Palermo, «La Stampa», 27 maggio 1992, pag.1.
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Giovedì 28 maggio la terza pagina è ancora per Falcone, al quale rende omaggio anche la
regina Elisabetta, che si doveva recare a Malta e che decise di fare tappa a Palermo per
visitare i luoghi della strage; ha anche inviato un messaggio a Scalfaro con il quale
dimostrava tutta la sua vicinanza ai famigliari delle vittime35.
Stessa pagina, ma a destra, Francesco La Licata ricorda che Falcone era condannato a
morte da tre anni (come recita il titolo dell’articolo), da quando cioè scampò all’attentato a
Mondello: da quel momento il giudice era perfettamente consapevole di essere nell’occhio
del mirino della mafia, e che prima o poi sarebbe morto assassinato anche lui. Purtroppo
aveva ragione36.
ISTANTANEE DELLA STRAGE DI CAPACI
Per quattro giorni consecutivi, almeno per quanto riguarda “La Stampa”, l’omicidio
di Giovanni Falcone ha occupato le pagine principali del quotidiano. Solitamente la prima
pagina era una sorta di rimando a quelle interne che trattavano in maniera più approfondita
l’argomento del giorno, cioè la strage di Capaci. Ciò che si può evincere dalla lettura di tali
articoli è che la loro stesura è stata affidata a dei giornalisti che avevano conosciuto bene
Giovanni Falcone, la sua storia e parte della sua vita privata, come nel caso di Francesco
La Licata. Curando quest’aspetto, ritengo che “La Stampa” abbia operato una scelta
oculata: tale linea editoriale ha infatti permesso ai fruitori dell’informazione, i lettori, di
conoscere non solamente quanto avvenuto il 23 maggio 1992, ma anche chi era realmente
il giudice Falcone, accrescendo la memoria collettiva degli italiani.
Tuttavia, l’imponenza della televisione e la sua immediatezza hanno scavalcato il ruolo
della carta stampata. Le notizie fornite dai giornali spesso erano già conosciute dalla
maggior parte dei lettori, e non dimentichiamo che la stessa notizia della strage è stata
appresa attraverso il piccolo schermo nell’immediato e, per ovvi motivi, il giorno
successivo dai giornali.
Anche in questo caso, come avvenne per l’omicidio del generale Dalla Chiesa, vi sono
scene legate alla strage di Capaci che tornano alla mente ogni qualvolta si parli del giudice
Falcone. Come non ricordare il cumulo di macerie dell’autostrada, o la vedova dell’agente
Schifani che pronunciava il suo discorso sul pulpito della chiesa in occasione dei funerali
di Stato, trasmessi in diretta televisiva. Un dettaglio non trascurabile, considerato il fatto
35 A.RAVIDÀ, Elisabetta commossa: che atrocità, «La Stampa», 28 maggio 1992, pag.3. 36 F.LA LICATA, Condannato a morte da tre anni, «La Stampa», 28 maggio 1992, pag.3.
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che il ricordo della donna straziata dal dolore per avere perso il marito in un modo così
atroce è ancora così vivo proprio perché trasmesso e riproposto in diverse occasioni dalla
televisione. Nuovamente dunque i mass-media hanno in qualche modo deciso quali
immagini trasmettere, quali notizie divulgare affinché diventassero parte della memoria
collettiva. Si tratta di immagini forti, che sicuramente scuotono gli animi, ma che
altrettanto sicuramente sono difficili da dimenticare.
3 L’AUTOBOMBA DI VIA D’AMELIO: 19 LUGLIO 1992
In una calda domenica di luglio, i palinsesti televisivi furono stravolti dalle
edizioni straordinarie dei diversi telegiornali. Era il 19 luglio 1992, e ciò avvenne al fine di
informare gli italiani su quanto era accaduto a Palermo: una Fiat 126 imbottita di tritolo era
stata fatta esplodere in Via D’Amelio, uccidendo il giudice Paolo Borsellino e i suoi agenti
della scorta.
Riguardo ai telegiornali, l’edizione più dettagliata fu trasmessa dalla terza rete Rai, con una
diretta che iniziò intorno alle 17.30. La giornalista Mariolina Sattanino ebbe il difficile
compito di dare la notizia dell’agguato di matrice mafiosa, per poi lasciare spazio alle
immagini della strage. A queste si avvicendarono documenti visivi del giudice Borsellino
impegnato al lavoro o nelle commemorazioni del suo amico Giovanni Falcone, e interviste
telefoniche che la giornalista intrattenne con personaggi famosi quali Nando Dalla Chiesa,
politico e docente universitario, ma soprattutto figlio del generale ucciso dalla mafia nel
1982, e Mino Fuccillo, giornalista de “La Repubblica”37.
Il giorno dopo la strage di via D’Amelio, le pagine dei quotidiani furono ovviamente
dedicate alla figura del giudice Borsellino e alla sua morte.
La mafia dichiara guerra allo Stato. Dopo Falcone, uccisi Borsellino e 5 agenti della
scorta. Questo il titolo che compariva sulla prima pagina de “La Stampa”, il 20 luglio
1992. A supporto dell’articolo un’immagine dell’attentato e, sotto, una del giudice intento
ad accendersi una sigaretta, sua inseparabile compagna. L’articolo spiega brevemente la
dinamica dell’attentato, una conferma delle notizie apprese il giorno prima in televisione,
per poi rimandare agli approfondimenti delle pagine successive.
La seconda pagina si apre con un ampio articolo a firma di Francesco La Licata, lo stesso
autore degli articoli sulla morte di Giovanni Falcone. Il giornalista ricorda che Borsellino 37 Tg1 edizione straordinaria, 19 luglio 1992, Archivio Rai Torino, identificazione teca: M92201/012.
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era l’unico capace di raccogliere l’eredità del suo amico Falcone, e che di questo la mafia
ne era consapevole. Focalizza l’attenzione sui destini-gemelli dei due magistrati, e
definisce il procuratore di Marsala «l’ultimo simbolo dell’antimafia», frase che diventa
anche il titolo del suo articolo. Uno scritto che racconta la vita di Paolo Borsellino,
facendolo apprezzare ulteriormente. Per la sua lealtà, per il suo coraggio, per il suo amore
verso i figli e la moglie, che voleva preservare da ogni pericolo ma che per cause di forza
maggiore vivevano sulla propria pelle i rischi del lavoro del magistrato. Il giornalista, a
proposito di questo, ricorda che la più provata dalla situazione era la figlia Lucia, che si
ammalò di anoressia durante il soggiorno sull’Asinara del padre e di Falcone in occasione
della stesura della requisitoria da presentare al maxiprocesso. Ricorda anche che i due
giudici (da qui la definizione di destini-gemelli) avevano trascorso insieme l’infanzia, negli
stessi luoghi palermitani, e frequentato le stesse scuole. La carriera forense non è all’inizio
la medesima, ma entrambi potranno vantare gli stessi maestri, come il presidente del
tribunale di Palermo Angelo Piratino Leto e il consigliere Morvillo, in forze sempre presso
lo stesso foro. Ironia della sorte Agnese, la figlia del primo, divenne la moglie di
Borsellino, mentre la figlia di Morvillo, Francesca, sposò in seconde nozze Falcone. La
Licata prosegue con la biografia di Borsellino, senza mai perdere di vista il fatto che ormai
l’Italia non possiede più uomini capaci di contrastare la mafia. Della strage di Capaci
poche righe iniziali: la mente ritorna al 23 maggio, e, ancora più lontano, al 1983, anno in
cui fu assassinato Rocco Chinnici, padre del pool antimafia. Allora Palermo fu paragonata
a Beirut, e la definizione, dopo quasi un decennio, risulta ancora essere calzante38.
Gli articoli inerenti alla strage e pubblicati in prima pagina si occupano poi della questione
della Superprocura, dato che dopo la morte di Falcone si era pensato di affidarla a
Borsellino. «Noi giudici non siamo al sicuro», dichiarava quest’ultimo, come ricordava il
titolo dell’articolo di Francesco La Licata affrontando il ricordo del pericolo costante al
quale i magistrati che combattevano la mafia erano sottoposti. Le paure del procuratore di
Marsala erano state pubblicate anche in un libro di Luca Rossi, del quale si parla sempre a
pagina 5, dal titolo: I disarmati. Falcone, Cassarà e gli altri, ma si evincevano anche
nell’ultima intervista che il magistrato aveva rilasciato a La Licata e che la testata torinese
ripropone in maniera integrale nel taglio basso della pagina.
Il 21 luglio è il giorno dei funerali di Stato, ma non per Paolo Borsellino. La famiglia
infatti, come informa il sottotitolo dell’articolo di apertura della prima pagina de “La
38 F.LA LICATA, L’ultimo simbolo dell’antimafia, «La Stampa», 20 luglio 1992, p.2.
21
Stampa”, ha detto no ai funerali di Stato; le esequie saranno dunque celebrate in forma
privata, l’unica autorità presente sarà, per volontà della stessa famiglia, il presidente della
Repubblica Scalfaro. I funerali di Stato saranno celebrati alle 15.30 di quella stessa
giornata, per rendere omaggio ai cinque agenti di scorta che hanno perso la vita per
difendere fino all’ultimo, senza mezzi ma con coraggio, spirito di sacrificio e rispetto, il
magistrato39.
Tra le tante notizie drammatiche vi è anche quella relativa al fatto che Fiammetta, la figlia
più giovane del giudice, non era ancora a conoscenza della strage, dato che in quei giorni si
trovava in Indonesia in vacanza. La figlia e i fratelli hanno deciso che i funerali non si
svolgeranno fino a quando la terzogenita del giudice non rientrerà in patria; in tale
occasione la vedova Borsellino si scaglia contro le amministrazioni pubbliche:
Anche da questo si vede l’efficienza dello Stato, non riescono nemmeno a trovare la mia
Fiammetta,
sentenzia di fronte ai tentativi vani di ambasciate e consolati fatti per rintracciare la
ragazza.40
L’articolo Ai funerali non vogliamo lo Stato è anche l’angosciante cronaca dell’andirivieni
di persone nell’abitazione del giudice Borsellino per rendere omaggio alla famiglia
distrutta. Una famiglia che ribadisce la volontà di non celebrare i funerali di Stato ma in
forma privata, nella chiesa di Santa Maria Marillac, lontani da politici e «farisei di Palazzo
di Giustizia», come li ha definiti Antonino Caponnetto, che nel corso degli anni ha visto
morire tutti i suoi più fidati collaboratori e colleghi.
Al numero 21 di via Cilea sono stati deposti numerosi mazzi di fiori, la gente comune
vorrebbe entrare per fare le condoglianze alla vedova del giudice, ma sono veramente tanti.
Arrivano anche la vedova di Vito Schifani, la donna coraggiosa che ai funerali del giudice
Falcone (e quindi di suo marito, agente di scorta), aveva urlato ai mafiosi che si sarebbero
dovuti inginocchiare e chiedere perdono, e la madre di Francesca Morvillo, moglie di
Falcone. Sono momenti di grande commozione, come racconta lo stesso giornalista.
Della figlia Fiammetta ancora non si hanno notizie; Manfredi, laureando in
Giurisprudenza, si era recato poche ore prima sul luogo della strage, come a cercare le
spoglie del padre, mentre Lucia, che aveva da sempre sofferto in maniera pesante ed
39 F. LA LICATA, Ai funerali non vogliamo lo Stato, «La Stampa», 21 luglio 1992, pag.3. 40 C. MARTINELLI, E la figlia del giudice non sa ancora niente, «La Stampa», 21 luglio 1992, pag.7.
22
evidente la situazione di pericolo che circondava il padre, con un atto di coraggio decide di
recarsi nell’ufficio del padre per raccogliere i suoi effetti personali.
La pagina 5 offre una lunga intervista – a firma di Paolo Guzzanti - a Giuseppe Ayala,
anche egli impegnato in prima linea contro la mafia, amico da sempre di Falcone e
Borsellino. Si evince che la paura accompagnava sempre i loro spostamenti, e che i tre
giudici sapevano sempre guardare oltre, leggere oltre le righe, capire che un attentato di
matrice mafiosa come l’omicidio di Salvo Lima per loro costituiva un monito, un
avvertimento a lasciare perdere, perché prima o poi la mafia li avrebbe fermati.41
La carta stampata si occupa della televisione anche durante la strage di via D’Amelio.
Sono infatti resi noti i dati relativi agli ascolti registrati dai sei telegiornali delle reti Rai ed
allora Fininvest: oltre 40 milioni di italiani si sono sintonizzati, in momenti diversi, sulle
reti di Stato e su quelle private, per ottenere continui aggiornamenti su quanto era avvenuto
a Palermo. Un risultato significativo, segno di un’ Italia che vuole essere informata ma che
soprattutto non rimane indifferente di fronte a simili eccidi. E per dimostrare il proprio
sdegno, le diverse emittenti televisive hanno sospeso le loro programmazioni, dalle 11 alle
11.10 di lunedì 20 luglio.42
I funerali di Stato dei cinque agenti della scorta diventano nuovamente teatro di rabbia e
sdegno. I portavoce questa volta però sono le forze dell’ordine, che si proclamano «carne
da macello» e che denunciano la grave situazione lavorativa che stanno vivendo. Le
esequie dei cinque poliziotti si consumano così, tra urla rivolte ai politici e applausi al
passaggio dei feretri. 43
Nel frattempo si consuma anche il dramma della famiglia Borsellino, chiamata a ricevere
le condoglianze a Palazzo di Giustizia, dove è stata allestita la camera ardente come fu per
Giovanni Falcone. Migliaia di persone rendono omaggio alla salma del magistrato, alla
presenza dei famigliari e degli amici più cari di Borsellino come Ayala e Caponnetto.
Intanto, prosegue una protesta spontanea nata nella serata di domenica e che ha come
fulcro via Notarbartolo, e più precisamente l’albero di magnolia che campeggia sotto
l’abitazione che era dei coniugi Falcone.44
La cronaca dei funerali di Stato è affidata, per quanto attiene il quotidiano piemontese, a
Paolo Guzzanti, che racconta, attonito e frastornato, di non aver mai assistito in trenta anni
di carriera giornalistica a una simile rabbia cittadina, che si traduce a pugni e calci alle 41 P. GUZZANTI, Paolo, quel cadavere eri tu, «La Stampa», 21 luglio 1992, pag. 5. 42 Tv oscurate per dieci minuti, «La Stampa», 21 luglio 1992, pag. 5. 43 P. SAPEGNO, La rabbia delle scorte travolge Parisi, «La Stampa», 21 luglio 1992, pag. 7. 44 A.R.,Mille braccia sorreggono Agnese, «La Stampa», 21 luglio 1992, pag. 7.
23
maggiori autorità politiche, compreso il presidente della Repubblica. Ma il giornalista non
vuole certamente condannare chi ha dato vita alla sommossa, anzi trova nella chiusura dei
portoni di accesso alla chiesa il motivo scatenante dei tafferugli.45
L’articolo in basso a destra ricorda invece che l’intera Italia si è fermata in concomitanza
con l’inizio dei funerali di Stato: da Milano a Palermo, una manifestazione che ha
coinvolto televisioni di Stato e private, scuole ed uffici, traffico cittadino, forze dell’ordine,
persino Piazza Affari.46
Nuovamente a Francesco La Licata sono invece affidati i pensieri rivolti agli ultimi giorni
di vita di Paolo Borsellino, che era consapevole di avere le ore contate e che a Palermo era
arrivato un carico di esplosivo proprio per lui, come aveva confessato al prete il giorno
prima della sua morte.
Una partita a scacchi. E la vita come posta in palio. Quanto devono essere stati penosi per lui, i suoi
figli, la sua povera moglie, i suoi amici, gli ultimi giorni di vita di Paolo Borsellino.
Questo il cappello dell’articolo, che si conclude con i ricordi della vedova, che definisce
«irrequieto ed assente» il marito i pochi giorni prima della strage, e del suo amico
Giuseppe Tricoli, uno degli ultimi personaggi a vedere Paolo Borsellino in vita.47
La parte bassa della pagina è invece dedicata ad altre notizie afferenti la strage: in primo
luogo il fatto che si è riusciti a raggiungere la figlia del giudice, Fiammetta, e che quindi è
stata fissata la data dei funerali del padre; il fatto che gli inquilini di via D’Amelio non
avranno risarcimenti per i danni subiti in seguito allo scoppio dell’autobomba che ha
divelto decine di automobili e di palazzi.
Il 23 luglio, Paolo Guzzanti dedica idealmente una lettera a Manfredi Borsellino,
primogenito del giudice, nella prima pagina (con prosecuzione nella successiva). Il tutto
scaturisce dall’affermazione della vedova che lo esorta a osservare il ragazzo per rendersi
conto di quanto assomigli al padre, fisicamente, mentalmente. E il giornalista raccoglie
l’invito, e si rivolge, tra le righe dell’articolo, al giovane che improvvisamente si ritrova
uomo, a dover affrontare un lutto grave per la sua età (diciannove anni) e a dover prendere
in mano le redini dell’intera famiglia Borsellino. E su tutti veglia ancora Caponnetto,
“padre” di Chinnici, Cassarà, Montana, ed ovviamente di Falcone e dello stesso Borsellino.
45 P. GUZZANTI, A Palermo la Norimberga dello Stato, «La Stampa», 22 luglio 1992, pag. 3. 46 L.SUGLIANO, Ore 11, l’Italia si ferma, «La Stampa», 22 luglio 1992, pag.3. 47 F. LA LICATA, Adesso il tritolo è pronto per me, «La Stampa», 22 luglio 1992, pag. 5.
24
Il tutto supportato da una fotografia del giudice a fianco della figlia Fiammetta, durante i
funerali di Falcone.48
I funerali si svolgono dunque il 23 luglio, in forma privata. I famigliari non vogliono che si
speculi su questa tragedia, ma non chiudono la porta a chi decide di andare a rendere
l’estremo saluto al loro caro. Guzzanti racconta della cerimonia funebre, della presenza
imponente di personaggi del calibro di Ayala e Caponnetto che sono sempre più acclamati
e benvenuti, e conclude il suo articolo con un invito che è anche una promessa.
Insieme non li faremo mai dimenticare
riferendosi ovviamente alle vittime del 19 luglio e rivolgendosi a chi vorrà continuare, con
sincerità e senza ipocrisia, a tenere vivo il ricordo di Paolo Emanuele Borsellino.49
4 LA TELEVISIONE SEMPRE PIÙ TEMPESTIVA
Rispetto alla notizia dell’omicidio di Giovanni Falcone, l’annuncio della strage di
via D’Amelio è giunta nelle case degli italiani in maniera ancora più puntuale. Questa volta
non sono comparsi sottopancia né la notizia è stata data durante le edizioni notturne dei
diversi telegiornali, ma è stato deciso di improntare dei servizi giornalistici che andassero
in onda poco meno di un’ora dopo l’attentato, avvenuto alle 17 del pomeriggio. Le
immagini proposte in quel frangente sono eloquenti: una strada divelta, vigili del fuoco
intenti a placare gli incendi, sirene di ambulanza e forze dell’ordine in sottofondo. Anche
per quanto riguarda la morte di Borsellino, sono questi i ricordi che meccanicamente
riaffiorano alla mente quando si pensa alla figura del magistrato. I quotidiani i giorni
seguenti hanno invece pubblicato diverse fotografie che ritraevano il procuratore di
Marsala in compagnia del giudice Falcone; e in più di un articolo la figura di Borsellino è
stata accostata a quella dell’amico e collega morto il 23 maggio 1992. Questo ha
sicuramente contribuito in maniera significativa a sviluppare nella collettività una sorta di
duplice memoria: quando si commemora Falcone, infatti, la maggior parte delle volte si
ricorda anche Borsellino. Ciò accade sia nelle manifestazioni pubbliche sia in trasmissioni
48 P.GUZZANTI, Con i Borsellino nella casa del dolore, «La Stampa», 23 luglio 1992, pag.1. 49 P.GUZZANTI, Fiammetta, una chiave per andare da papà, «La Stampa», 24 luglio 1992, pag. 3.
25
televisive, conferenze e dibattiti, e tutto quanto possa essere afferente al mondo della
comunicazione.
Analizzando il “come è stata data la notizia” delle tre diverse morti, si evince che
l’evolversi dei mass-media ha permesso, anche per quanto attiene quest’argomento, una
diffusione più puntuale delle notizie: si è infatti passati dal sottopancia trasmesso il 3
settembre 1982 (omicidio Dalla Chiesa) all’interruzione immediata dei telegiornali per
dare la notizia della strage di via D’Amelio del 19 luglio di dieci anni dopo.
26
CAPITOLO II
UN ANNO DOPO
In diverse occasioni i mass-media sono stati tacciati di superficialità. Nello
specifico, mi riferisco a quando i critici del genere accusano il mondo dell’informazione di
seguire con accanimento un avvenimento per poi farlo cadere nell’oblio, non menzionarlo
più.
Nel caso delle stragi di mafia, per quanto riguarda i primi dodici mesi successivi alle morti
di Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i mass-media hanno
ricordato in maniera puntuale quanto accaduto, riportando le notizie di commemorazioni e
cerimonie pubbliche volte alla memoria di questi tre personaggi. Ovviamente l’intento non
era solo quello di informare ma anche e soprattutto quello di tenere viva la loro memoria.
1
LE COMMEMORAZIONI DI CARLO ALBERTO DALLA CHIESA…
La prima manifestazione dopo l’assassinio del generale dei carabinieri avviene a
distanza di un mese e mezzo dal tragico 3 settembre: il 16 ottobre 1982, presso il Teatro
Politeama, settantamila persone prendono parte alla conferenza presieduta da Rita Dalla
Chiesa e da Giovanni Spadolini, a conclusione del Consiglio generale delle confederazioni
sindacali, svoltosi nell’arco di due giornate. L’appuntamento viene vissuto dalla figlia del
prefetto come un momento di ringraziamento, di riconoscimento verso quanti, anche in
quel giorno, abbiano dimostrato affetto nei confronti di suo padre. «Grazie a tutti voi, a
nome della mia famiglia, a nome di mio padre», afferma. E nonostante le parole di
Spadolini siano tanto realistiche quanto poco confortanti - «non batteremo la criminalità
organizzata in pochi giorni», Rita Dalla Chiesa precisa: «Facciamo in modo che quanto
accaduto a mio padre, a Emmanuela, all’agente Russo non sia stato inutile».
27
Il quotidiano piemontese “La Stampa” dedica all’argomento la prima pagina con una foto
del tavolo dei partecipanti alla conferenza, e un ampio articolo di Giuseppe Zaccaria in
seconda pagina.1
Una fotonotizia, il giorno dell’Immacolata dello stesso anno, rende nota la consegna della
medaglia d’oro alla memoria del generale Dalla Chiesa ritirata da Nando e Romolo,
rispettivamente figlio e fratello dello scomparso.2
Per avere una strada capitolina intestata al prefetto bisogna attendere la primavera del
1983: “La Stampa” ne dà notizia il 26 aprile di quell’anno, pubblicando la fotografia che
ritrae l’anziana madre del commemorato sorretta dal sindaco di allora Vetere e dalla nipote
Rita; alle loro spalle figurano il fratello del generale e il ministro degli Interni Rognoni.3
Dopo pochi giorni, la primogenita Rita partecipa al corteo promosso in ricordo del
segretario generale del partito comunista Pio La Torre e del suo autista Rosario Di Salvo,
ucciso il 30 aprile 1982. La manifestazione, alla quale partecipano soprattutto migliaia di
giovani, si snoda lungo le vie principali del capoluogo siciliano per giungere in via Turba,
ove si consumò l’omicidio. In quella zona Enrico Berlinguer ricorda l’impegno di La Torre
contro la mafia, e rammenta alla folla l’incrocio dei destini dell’esponente del partito
comunista e del generale dei carabinieri.4
Quest’ultimo fu nuovamente ed ufficialmente commemorato nel corso della Festa della
Polizia, celebrata a livello nazionale. In prima pagina, il 12 luglio 1983, “La Stampa”
pubblica la foto del Presidente della Repubblica Sandro Pertini in procinto di consegnare a
Rita Dalla Chiesa la medaglia d’oro alla memoria del padre. Gli approfondimenti
all’interno raccontano delle celebrazioni dedicate al corpo della Polizia, oltre a un
avvenimento di cronaca giudiziaria: il giudice Giovanni Falcone ha firmato 14 mandati di
cattura proprio per l’omicidio del generale dei carabinieri.5
Il passato si fonde dunque appieno con il presente, si ha quasi la sensazione che qualcosa si
stia muovendo, e che quanto svolto dal generale non sia stato vano. Viene raccolta
un’ideale ma soprattutto morale eredità del prefetto di Palermo, da un personaggio che avrà
un destino analogo.
1 G.ZACCARIA, «Grazie a tutti, anche a nome di mio padre» Poi un applauso sommerge Rita Dalla Chiesa, «La Stampa», 17 ottobre 1982, p.2. 2 Medaglia d’oro a Dalla Chiesa, «La Stampa», 8 dicembre 1982, p.7. 3 Una via intitolata a Dalla Chiesa, «La Stampa», 26 aprile 1983, p.7. 4 Palermo ricorda le vittime della mafia, «La Stampa», 1 maggio 1983, p.7. 5 A.RAVIDA’, Palermo, 14 nuovi mandate di cattura per l’omicidio del gen.Dalla Chiesa, «La Stampa», 12 luglio 1983, p.7.
28
Come si è potuto desumere da quanto scritto, le commemorazioni rivolte alla memoria del
carabiniere «dalla punta dei piedi alla cima dei capelli»6 si sono avvicendate nel tempo,
partendo dal primo mese dall’omicidio di via Isidoro Carini. Tuttavia, com’era d’altronde
presumibile, la maggior parte delle cerimonie si sono svolte a ridosso del 3 settembre, a
distanza di un anno dalla morte del generale e della moglie.
Bettino Craxi ha presieduto alla prima, il 2 settembre ‘83, rendendo omaggio alla tomba
della famiglia Dalla Chiesa, dove ovviamente è sepolto anche il generale, a Parma. Il
politico ha dichiarato:
È con grande commozione che io ricordo un amico che avevo imparato a conoscere nei primi anni
delle mie responsabilità politiche e negli anni difficili del fanatismo e terrorismo dilaganti e della
cui amicizia conservo e conserverò sempre cara memoria.7
Le celebrazioni in ricordo dell’agguato di via Carini, a un anno preciso di distanza, quindi
il 3 settembre 1983, si susseguono. Nel corso della giornata sono tre le commemorazioni
ufficiali. La prima, indetta dalla Prefettura palermitana, si svolge di mattina, e le fa seguito
un coro di polemiche. I figli del generale sono infatti indignati in quanto non sono stati
invitati alle commemorazioni ufficiali del loro padre, e di conseguenza, come atto di
denuncia, disertano le stesse. Alla messa di cui sopra partecipa solamente il figlio Nando,
che tuttavia preferisce occupare un posto a sedere tra le vedove delle vittime di mafia
piuttosto che vicino ai politici.
In tarda mattinata, il sindaco si reca in via Carini, sede dell’attentato nel quale persero la
vita il generale, la moglie e l’agente di scorta, per scoprire una lapide dedicata ai martiri di
mafia. La gente presente è poca, poco prima della celebrazione ufficiale sopraggiunge Rita
Dalla Chiesa, che si limita a deporre sull’asfalto tre rose, per poi andarsene subito dopo.
Infine, la terza delle celebrazioni ufficiali avviene presso il Municipio, nel pomeriggio:
anche in questo caso, non sono presenti i famigliari delle vittime della strage del 3
settembre.8
Un’ultima messa viene infine celebrata a Roma, presso la cappella della scuola allievi
Carabinieri della capitale, il 5 settembre 1983.9
6 P.SAPEGNO e M.VENTURA, Generale, Città di Castello, Limina, 1997, p.13. 7 Parma, Craxi rende omaggio alla tomba di Dalla Chiesa, «La Stampa», 2 settembre 1983, p.1. 8 G.RAMPOLDI, Solo Nando Dalla Chiesa alla messa ma seduto tra le vedove della mafia, «La Stampa», 4 settembre 1983, p.2. 9 G.RAMPOLDI, Una messa a Roma per Dalla Chiesa, «La Stampa», 6 settembre 1983, p.6.
29
I figli Nando, Rita e Simona Dalla Chiesa sono invece in testa al corteo che parte da Villa
Whitaker, per raggiungere via Isidoro Carini, luogo dell’omicidio. La gente comune ha
indetto un corteo che percorre a ritroso il percorso che avrebbero dovuto compiere il
generale e la moglie anche quel venerdì di settembre: una fiaccolata per non dimenticare,
in mezzo alle persone che hanno apprezzato l’operato del generale Dalla Chiesa. E molto
probabilmente tra quello stuolo di cittadini, quella sera, c’era anche chi, all’indomani della
strage, scrisse: «Qui e’ morta la speranza dei siciliani onesti».
…E LE POLEMICHE
I mesi intercorsi tra la strage di via Carini e il primo anniversario della stessa, e
quindi della morte di Dalla Chiesa, sono stati caratterizzati tanto dalle commemorazioni
quanto dai veleni. Le pagine dei giornali hanno evidenziato come i figli del generale
provassero ostilità nei confronti dei politici e delle autorità che esaltavano la volontà di
ricordare il sacrificio del prefetto di Palermo ma che quando era in vita avevano lasciato da
solo. Partecipano quindi ai cortei ma spesso disertano le celebrazioni ufficiali, e questo si
deduce proprio dalla lettura dei giornali. Per quanto attiene la divulgazione delle notizie di
tali commemorazioni, si nota che la maggior parte delle manifestazioni sono state trattate
in prima pagina, ma sottoforma di fotonotizia. In altre parole, una fotografia e una breve
didascalia esplicavano quanto avvenuto il giorno prima in ricordo di Dalla Chiesa: la
consegna della medaglia al valore civile ai figli piuttosto che la visita di un noto
personaggio alla loro tomba di famiglia. I lettori, leggendo la prima pagina, probabilmente
credevano di trovare all’interno del quotidiano degli approfondimenti o degli altri articoli
inerenti all’argomento, ma nella maggior parte dei casi ciò non è avvenuto. Solo in
occasione del primo anniversario, quindi il 3 settembre del 1983, la testata piemontese
dedica maggiore spazio a quanto accaduto a Palermo l’anno prima: vi sono fotografie in
prima pagina ma anche notizie all’interno, che spesso riportavano il programma delle
diverse manifestazioni e l’elenco delle autorità che vi avevano partecipato. Per un servizio
più completo al lettore ritengo che “La Stampa” avrebbe potuto pubblicare tali dati il
giorno precedente alla commemorazione stessa, per dare l’opportunità agli interessati di
prendervi parte.
Si può inoltre notare che nell’arco di dodici mesi la figura del generale è stata la maggior
parte delle volte ricordata attraverso quelle del figlio Nando e della figlia Rita, mentre non
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compaiono, sicuramente per richiesta della diretta interessata, foto della terzogenita
Simona. Sono i primi due figli a partecipare nel numero maggiore di volte alle cerimonie
pubbliche e ai cortei, ma a seconda del figlio del generale di cui si parla i toni cambiano.
Quando infatti si analizza un appuntamento legato alla commemorazione di Carlo Alberto
Dalla Chiesa, e si interpella il figlio Nando, puntualmente “La Stampa” cade
nell’argomento politico, dando notizia di polemiche verificatesi tra il sociologo e altri
esponenti politici. Nel momento in cui, invece, si informano i lettori che il generale Dalla
Chiesa è stato ricordato nel corso di una conferenza piuttosto che di una fiaccolata, ecco
comparire il nome, spesso corredato dalla pubblicazione di una fotografia, della figlia Rita.
In qualche modo, almeno secondo la mia personale chiave interpretativa, è come se il
giornale analizzato volesse trasmettere il messaggio secondo il quale il figlio Nando non si
limita a ricordare ma continua, certamente non in maniera velata, a puntare il dito contro
quelle persone ree di aver abbandonato suo padre durante i cento giorni di permanenza a
Palermo in veste di prefetto. Come se le commemorazioni, per il figlio, fossero sempre
degli atti d’accusa e di denuncia.
Rita Dalla Chiesa, da quanto emerge dalle letture degli articoli di quel periodo (settembre
1982-settembre 1983), cerca invece di esporsi meno, e apprezza maggiormente le
manifestazioni della gente comune: “La Stampa” ha pubblicato alcune fotonotizie che la
ritraevano in testa a cortei per le vie di Palermo, vicina ai semplici cittadini.
Il giornale dunque ha dato notizia puntuale degli avvenimenti intercorsi in questo lasso di
tempo, ma la maggior parte delle volte si è limitato a un breve annuncio, come se non
valesse la pena dedicare ulteriore spazio, nel corso del primo anno successivo alla strage
del 3 settembre 1982, alle manifestazioni atte a non dimenticare quanto accaduto in questa
data. Bisogna tuttavia dare atto a “La Stampa” che le notizie relative all’argomento sono
sempre state pubblicate in prima pagina, quindi sicuramente ben visibili anche dai lettori
distratti.
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2
FALCONE E BORSELLINO, ANCORA INSIEME
La prima commemorazione del magistrato ucciso il 23 maggio 1992 avviene proprio
per bocca del suo amico Paolo Borsellino, che presenzia alla fiaccolata indetta dai
palermitani la sera del 23 giugno dello stesso anno. Vale la pena riportare il discorso di
Borsellino.
Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un
giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe
condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che
sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone
l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici
sono state stroncate sullo stesso percorso che egli imponeva. Perché non è fuggito, perché ha
accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a
rispondere a chiunque della speranza che era in lui?
Per amore!
La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato, che
tanto non gli piaceva. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro
che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente ha
avuto ed ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare dalle
nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la Patria cui essa
appartiene […].
La lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un
movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire
la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della
indifferenza, della contiguità, e, quindi, della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in
un breve periodo di entusiasmo conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di
Buscetta, egli mi disse: «La gente fa il tifo per noi». E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al
conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto
che il nostro lavoro, il suo lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di
accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza di essa […].
Occorre dare un senso alla morte di Giovanni, della dolcissima Francesca, dei valorosi uomini della
sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e
dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera. Facendo il nostro dovere; rispettando le
leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i
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benefici che possiamo trarne; collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo,
in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia. Troncando immediatamente ogni legame
di interesse, anche quelli ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi,
grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito; dimostrando a
noi stessi e al mondo che Falcone è VIVO.
Una vera e propria premonizione quella del magistrato, conscio di essere, dopo la morte
dell’amico Falcone, ulteriormente esposto, maggiormente un bersaglio della mafia.
Come sopra riportato, tale discorso era stato pronunciato la sera del 23 maggio 1992, a
conclusione di una serie di commemorazioni del primo mese della strage di Capaci.
La giornata del 23 maggio era infatti iniziata con una messa celebrata nella chiesa del
quartiere di nascita di Giovanni Falcone, una celebrazione alla quale avevano preso parte
sia i parenti del giudice che quelli della moglie Francesca Morvillo
Il culmine dell’anniversario si è avuto nel pomeriggio, quando ha preso il via una
manifestazione cittadina: un serpentone umano lungo tre chilometri che dal Palazzo di
Giustizia ha raggiunto via Notarbartolo, domicilio dei giudici Falcone, ove campeggia una
magnolia ribattezzata “l’albero Falcone” (e poi rinominata aggiungendo anche il nome di
Borsellino). Alle 17.58, ora in cui un anno prima fu fatta saltare in aria il raccordo
autostradale percorso in quel momento dalla Fiat Croma di Giovanni Falcone, la folla si è
stretta in un minuto di silenzio e di raccoglimento, seguito da un avvicendarsi di slogan
contro la mafia e pro Falcone.
Il Comune di Palermo ha invece affisso dei manifesti per le vie del capoluogo, ricordando
che:
Il 23 maggio e’ una data che purtroppo rimarrà scolpita nella memoria dei palermitani onesti che
gridano giustizia e invocano quel riscatto che, per questa martoriata città, da troppi anni chiedono
allo Stato insieme al loro amato pastore cardinale Pappalardo.
Dall’articolo, tuttavia, si evince che proprio il cardinale si è inspiegabilmente rifiutato,
poco prima delle 18, di suonare le campane a morto.10
Anche le organizzazioni sindacali hanno organizzato una manifestazione per non
dimenticare quanto avvenuto il 23 maggio. Centocinquantamila persone hanno preso parte
a un corteo che si è snodato lungo le vie palermitane, e che ha raggiunto l’apice con la 10 A.RAVIDA’, Palermo grida per Falcone: “Boss Mafiosi, in ginocchio”, «La Stampa», 24 giugno 1992, p.12.
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dichiarazione di Rosalia Schifani. La vedova di Vito, uno degli agenti di scorta di Falcone,
non ha abbandonato il suo cipiglio e la sua grinta che l’avevano contraddistinta già in
occasione dei funerali celebrati il 25 maggio, e lancia un monito: «Io voglio giustizia. La
pretendo». A curare il reportage Francesco La Licata: quasi un’intera pagina, la numero 7
dell’edizione del quotidiano torinese del 28 giugno, con a corredo delle immagini della
folla che ha dato vita alla manifestazione.11
I giornali non si occupano più della mafia e dell’omicidio Falcone fino al 19 luglio 1992,
giorno della strage di via D’Amelio. Dal punto di vista delle commemorazioni, a partire da
quella data sempre più spesso Falcone, la moglie e gli agenti della scorta saranno ricordati
insieme a Paolo Borsellino e ai suoi poliziotti. .
Il primo esempio è fornito dalla decisione dell’amministrazione comunale di intitolare due
vie rispettivamente a Falcone e Borsellino. La prima strada che porterà il nome del
magistrato ucciso il 23 maggio 1992 sarà quella in cui sorgeva la sua abitazione, via
Notarbartolo, partendo dall’ingresso della palazzina stessa. La via in cui abitava Borsellino
con la famiglia porterà invece il suo nome.
Tutto questo è stato tra l’altro reso possibile grazie alla deroga di una legge relativa alla
toponomastica che stabiliva che vie e piazze non possono essere intitolate a personaggi
famosi fino a quando non siano trascorsi dieci anni dalla loro morte.12
Nel maggio del 1993 Papa Paolo Giovanni Paolo II intraprende un viaggio in alcune
province siciliane. Tocca Caltanissetta, Trapani e Agrigento, e proprio in questa città grida
il suo sfogo nei confronti di quanto accaduto l’anno prima. Chiede ai mafiosi di convertirsi
e dichiara martiri della fede i giudici siciliani uccisi dai boss.13
Contestualmente, ad Amelia, in provincia di Terni, presso la sede della comunità incontro
vengono inaugurate cinque campane recanti i nomi delle altrettanti vittime della strage di
Capaci. Ognuna di loro riporta uno dei nomi dei periti, con la dicitura:
Che il suono di queste campane porti la voce del vostro sacrificio agli uomini che facilmente
dimenticano.
11 F.LA LICATA, La riscossa antimafia ha 150 mila voci, «La Stampa», 28 giugno 1992, p.7. 12 A.RAVIDA’, Blitz a Palermo, a vuoto. Vie dedicate a Falcone e Borsellino, «La Stampa», 8 agosto 1992, p.9. 13 M.TOSATTI, Il Papa grida: “Mafiosi, convertitevi”, «La Stampa», 10 maggio 1993, p.5.
34
La cerimonia si à svolta alla presenza del vicepresidente del Consiglio Superiore della
Magistratura Giovanni Galloni e di Maria Falcone, sorella del defunto Giovanni.14
Sulle pagine de “La Stampa” spetta in prima persona ad Antonino Caponnetto il compito di
ricordare l’amico e collega Giovanni Falcone: è a sua firma una sorta di editoriale in prima
pagina, pubblicato proprio il 23 maggio 1993, a un anno esatto dalla scomparsa del giudice
palermitano15.
Il giudice Caponnetto viene nuovamente chiamato a scrivere sulle pagine de “La Stampa”
in occasione dell’anniversario della strage di via D’Amelio. Il magistrato si trova
sull’aereo che lo condurrà a Palermo proprio per partecipare alle commemorazioni ufficiali
dedicate a Borsellino e ai suoi uomini della scorta. Sulla scia dei ricordi, rievoca il primo
incontro avuto con il procuratore di Marsala, «la reciproca stima, l’amicizia affettuosa, la
collaborazione entusiasta» che si erano instaurate tra lui e il suo collega. Rammenta
dell’ultima volta che ha visto vivo Borsellino, all’aeroporto di Palermo quando egli l’aveva
accompagnato dopo che avevano partecipato ai funerali di Falcone. Caponnetto gli aveva
promesso che si sarebbero rivisti presto, e Borsellino profeticamente aveva risposto che
non era così sicuro che ciò sarebbe avvenuto. Purtroppo aveva ragione.16
Anche in occasione del primo anniversario della strage di via D’Amelio, si sono
annoverate diverse manifestazioni. Oltre al discordo del giudice Antonino Caponnetto,
intervenuto presso la biblioteca comunale palermitana, vanno menzionati il corteo partito
dal luogo della strage e giunto a piazza Magione, inglobata nel quartiere nativo del
magistrato, la lapide eretta a Palazzo d’Orléans e la posa di un ulivo in via D’Amelio,
simbolo della vita e della voglia di rinascere. Nel corso della serata del 18 luglio del 1993,
la vedova ed i figli di Borsellino avevano presenziato a una veglia celebrata nella chiesa di
Santa Maria di Marillac; contestualmente, il cantautore Sting, in concerto nello stadio
comunale di Marsala (cittadina in cui Borsellino aveva professato il ruolo di procuratore),
ha dedicato alle vittime di mafia la canzone Fragile.17
14 Strage di Capaci. Per i martiri 5 campane. «La Stampa», 10 maggio 1993 p.5. 15 A.CAPONNETTO, Un anno senza Falcone, «La Stampa», 23 maggio 1993, pp.1-2. 16 A.CAPONNETTO, Borsellino, il ricordo di Caponnetto, 19 luglio 1993, pp.1-2. 17 A.RAVIDA’, La Sicilia scende in piazza a un anno da via D’Amelio, 19 luglio 1993, p.5.
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3
LA TELEVISIONE
Come avvenne per la notizia relativa alle morti di Dalla Chiesa, Falcone e
Borsellino, anche per quanto riguarda le commemorazioni non sono stati solo i giornali a
giocare un ruolo preponderante nella divulgazione dei fatti. Anzi, potremmo affermare che,
con il passare del tempo, è evidente che l’impronta più significativa è stata impressa dalla
televisione. Tutto questo emerge non tanto per quanto attiene l’omicidio del generale Dalla
Chiesa, ma soprattutto per le stragi del 1992. Se è vero che i giornali hanno curato il primo
anniversario dei singoli assassini in maniera puntuale, è altrettanto vero che, nel caso di
Falcone e Borsellino, sono arrivati in ritardo, se mi è concesso il termine.
Le celebrazioni relative al primo anniversario della morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa
non sono state seguite dalla televisione, ma la stessa tesi non può essere applicata alle
commemorazioni in ricordo dei due giudici siciliani. A loro sono infatti stati dedicati ampi
servizi ai telegiornali, trasmissioni televisive in prima e seconda serata, speciali su
entrambe le reti. Quello che gli italiani apprendevano dalle pagine dei quotidiani certe
volte era già conosciuto; d’altronde, i giornali erano fruibili il giorno dopo degli
anniversari, mentre la televisione raccontava quello stesso giorno quanto avvenuto l’anno
precedente, magari alla stessa ora in cui si erano consumate le stragi.
Un esempio di quanto appena affermato è dato dalla lettera scritta da Agnese Borsellino:
pubblicata da “La Stampa” del 19 luglio 1993, era stata letta integralmente dalla stessa
vedova nel corso di uno speciale del Tg1 andato in onda la sera precedente. Nessuna
persona più di questa donna poteva commemorare nel modo migliore Paolo Borsellino,
rendendo partecipe l’Italia intera del loro dolore. Ecco il testo:
Anche per noi è giunto così il momento di ricordare che è trascorso un anno, da quando nostro
marito e padre è stato crudelmente sottratto a questa vita, solo per essere stato un uomo onesto e
leale anche con coloro che egli sapeva non avessero fatto la sua stessa scelta.
Ma lui è ancora così vicino alle persone che ama che per noi un anno sembra solo un lungo giorno
che non giunge mai al tramonto. È triste pensare che per coloro che gli hanno voluto e che
continueranno a volergli male, questo sia invece un lungo anno di una “non vita” fatta di paure,
rimorsi e tentativi di nascondersi; pertanto non vivremo questo 19 luglio come un giorno di morte
ma come un giorno in cui riflettere sul vero significato della vita.
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Se una sola persona fra tante accoglierà questo messaggio, allora ciò basterà perché nostro padre
continui a vivere non da eroe ma da uomo normale, padre, marito, amico, magistrato. Non ci
consola sentire nostro padre chiamato eroe, perché è un modo per continuare ad attribuire ad un
uomo solo le responsabilità che dovrebbero essere di migliaia di uomini. È triste pensare che il
fuoco di quel 19 luglio non abbia distrutto con sé il male dell’animo umano. Esso tuttavia ha
alimentato la bontà e l’amore di tanti uomini, che hanno il merito di avere reso il nostro dolore
sopportabile, condividendolo e riempiendoci d’affetto.
Grazie a questi “nuovi amici”, a cui spesso non abbiamo potuto dire quanto eravamo loro grati e
quanto una loro parola, una lettera, un gesto, ci abbiano fatte recuperare anni di vita che in un
attimo credevamo di avere perso. Grazie a tutti coloro che con il loro vivere semplice ed onesto
portano alto il nome di Paolo, incarnandone l’essenza. Grazie a tutti coloro che veramente ci
vogliono bene e che desiderano tendere la loro mano alla nostra, non lasciandoci soli, in questo
lungo cammino verso la “vera” luce, verso la “vera” vita.18
La prima trasmissione televisiva che ha commemorato Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino è stata Telefono Giallo attraverso la puntata trasmessa il 24 novembre del 1992
sulle reti Rai. Il conduttore Corrado Augias aveva ospitato in studio Antonino Caponnetto,
allora capo della Procura di Palermo, Giuseppe Ayala, deputato del Partito Repubblicano
Italiano, oltre a Claudio Martelli, che all’epoca era a capo del dicastero della Giustizia, e al
giornalista Francesco La Licata. Gli ospiti erano stati chiamati a disquisire sullo
svolgimento delle indagini, sull’iter processuale per i delitti di mafia, sui motivi degli
omicidi e sull’operato del pool antimafia. A corredo degli interventi in studio furono
trasmesse delle fotografie che ritraevano Borsellino e Falcone e dei filmati riguardanti le
stragi e le ricostruzioni dei preparativi degli attentati.19
A distanza di quasi una settimana dal primo anniversario della strage di Capaci, Maurizio
Costanzo ricorda le vittime del 23 maggio 1992 attraverso una puntata speciale del suo
show condotto in sinergia con Michele Santoro. Di fatto si era trattato di una trasmissione
staffetta tra il Maurizio Costanzo Show e Samarcanda. La puntata era stata presentata
anche dai maggiori quotidiani italiani che avevano posto l’accento sul fatto che,
all’indomani dell’attentato al Parioli, il giornalista aveva trovato la forza di tornare in video
per trattare nuovamente l’argomento scottante della mafia.20
18 La vedova: “Lo sentiamo ancora vicino”, «La Stampa», 19 luglio 1993, p.5. 19 Le stragi di Palermo, Telefono Giallo, trasmissione del 24 novembre 1992, Archivio Rai Torino, identificazione teca: G70258. 20 Costanzo ricorda Falcone, «La Stampa», 17 maggio 1993, p.2.
37
Giovanni Falcone era stato successivamente commemorato dalle reti Rai per mezzo della
trasmissione Mixer condotta da Giovanni Minoli. In quell’occasione il giornalista aveva
analizzato il tema della criminalità organizzata, e più specificatamente l’attentato nel quale
avrebbero dovuto perire Costanzo e la moglie Maria De Filippi, e la strage di Capaci.21
Tutte le edizioni principali dei telegiornali hanno ovviamente rammentato le tre diverse
ricorrenze, riproponendo, nella maggior parte dei casi, filmati di repertorio inerenti al
momento delle rispettive stragi. Anche in quest’occasione la televisione si dimostra più
puntuale rispetto alla carta stampata per ovvi vantaggi logistici, e permette agli italiani un
costante aggiornamento relativo alle manifestazioni di commemorazione; i giornali invece
possono solo presentare quanto avverrà nel corso della giornata per poi raccontarlo il
giorno successivo, anche se spesso celebrano l’anniversario avvalendosi del ricordo di chi
ha conosciuto bene le persone suffragate, come nel caso delle lettere scritte da Antonino
Caponnetto.
Ritengo inoltre che la televisione, attraverso le immagini, abbia il potere di imprimere nella
memoria dei suoi fruitori i fatti raccontati: spesso tendiamo a dimenticare quanto appena
letto sulle pagine dei giornali, ma è molto più semplice ricordare determinati fotogrammi
che ritornano alla mente non appena si parla di quel determinato argomento.
Carta stampata o televisione, l’importante è che eccidi di simili natura non siano
dimenticati ma costantemente raccontati e ricordati alla popolazione, per evitare che simili
sacrifici non risultino vani. Ricostruzioni puntuali, fotografie toccanti, interviste e
inchieste. Tutto ricopre un ruolo importante se l’obiettivo primario è quello della memoria
collettiva e del non oblio.
Tuttavia, bisogna sottolineare che ai tre diversi anniversari sono stati riservati trattamenti
diversi. Per quanto attiene Carlo Alberto Dalla Chiesa, la maggior parte delle
commemorazioni è avvenuta nel corso dei primi dodici mesi che intercorrevano tra la sua
morte e il primo suffragio della stessa. Falcone e Borsellino sono invece stati ricordati
soprattutto allo scadere del primo anniversario, con ampi servizi giornalistici e
approfondimenti, al contrario di quanto avveniva per il generale dei carabinieri, troppo
spesso commemorato solo attraverso delle fotonotizie. Inoltre, la televisione non ha
celebrato la strage di via Carini, al contrario di quanto avvenuto per le stragi di Capaci e di
via D’Amelio, nella maggior parte dei casi ricordate all’unisono. Si può quindi dedurre che
la televisione e la carta stampata non sempre operano nello stesso modo anche quando si
21 Realtà inchieste, Mixer, trasmissione del 24 maggio 1993, Archivio Rai Torino, identificazione teca: F148471.
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tratta del medesimo argomento (la mafia) e delle stesse finalità, cioè ricordare chi ha perso
la vita per combattere la criminalità organizzata.
39
CAPITOLO III
LA COSTRUZIONE DELLA MEMORIA
Dopo aver ricostruito la rappresentazione delle commemorazioni riguardo alle
morti del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dei giudici Paolo Borsellino e Giovanni
Falcone nel corso dei primi mesi della loro scomparsa, fino a giungere alle date dei primi
anniversari, rispettivamente 3 settembre, 19 luglio e 23 maggio, proviamo a scendere più
nel dettaglio..
Dall’analisi dei diversi documenti raccolti, si evince una diversità di agire nei confronti dei
singoli personaggi. Le notizie relative alle cerimonie svolte per onorare la memoria del
prefetto di Palermo, di sua moglie e del loro agente sono state pubblicate sino al 1991, a
eccezione del 1986 e del 1989; a partire dall’anno successivo, ovvero dal 1992, i quotidiani
non hanno più diramato notizie attinenti a tali ricorrenze. Si presume che comunque siano
state celebrate per esempio messe di suffragio di carattere privato, ma i mass-media non ne
hanno dato notizia.
Si tratta di una particolarità a mio giudizio molto importante, in quanto il 1992 è l’anno
delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, avvenute, dal punto di vista temporale, prima del
3 settembre. Si ha dunque l’impressione che tali drammatici eventi abbiano oscurato
quanto avvenuto dieci anni prima; è come se da quel momento fosse più corretto e attuale
ricordare Falcone e Borsellino tralasciando Dalla Chiesa, come se la memoria collettiva
legata alle vittime di mafia fosse da ricondurre solo ai due magistrati palermitani e agli
avvenimenti più contemporanei. Da sottolineare inoltre il fatto che questa circostanza si è
verificata l’anno in cui cadeva il decennale della morte del generale dei carabinieri,
ricorrenza che tuttavia non è stata trattata.
Un altro aspetto emerso dall’analisi del materiale messo insieme, è che la figura che
maggiormente viene menzionata e ricordata è quella del giudice Giovanni Falcone. Ogni
anno – escluso il 2003 - si sono susseguite diverse manifestazioni e cerimonie pubbliche
per onorare il sacrificio suo, della moglie e dei cinque agenti della scorta. Al contrario, la
memoria collettiva rivolta al suo amico e collega Paolo Borsellino non si può definire
altrettanto puntuale: nel 1995, nel 2000 e nel 2003 “La Stampa” non menziona
l’anniversario e di conseguenza non ricorda alla popolazione quanto avvenne
40
rispettivamente tre, otto e undici anni prima. Inoltre, bisogna sottolineare il fatto che spesso
le commemorazioni rivolte a uno dei due personaggi inglobano anche il nome dell’altro: in
diverse occasioni risulta facile notare come le manifestazioni siano contro una mafia che
ha ucciso non solo Falcone ma anche Borsellino, indipendentemente dal fatto che le stesse
si celebrino il 23 maggio o il 19 luglio. Gli striscioni in diversi momenti riportano il nome
di entrambi, ed è sicuramente parte della memoria collettiva la foto che ritrae Falcone e
Borsellino seduti fianco a fianco, intenti a parlottare fra di loro in maniera confidenziale.
Questo è legato anche al fatto che le vite dei due giudici si sono spesso intersecate tra loro,
fin dai tempi dell’infanzia, e quindi risulta meccanico ricordarli insieme; difficile cercare
invece un parallelismo con la biografia di Carlo Alberto Dalla Chiesa, in quanto le tre
personalità, pur avendo lo stesso obiettivo, cercavano di raggiungerlo con mezzi diversi,
attaccando su fronti distinti.
1
DIECI ANNI NEL RICORDO DI CARLO ALBERTO DALLA CHIESA
Il 3 settembre 1984, a due anni esatti dall’eccidio, si svolsero diverse celebrazioni
per ricordare quanto accaduto nel 1982.
La cattedrale palermitana ospitò infatti la messa di suffragio, officiata alla presenza dei
figli e del fratello del generale, della madre di Emmanuela Setti Carraro, e della vedova
dell’autista Russo. Il ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro, seduto accanto a loro,
improvvisamente si alzò e raggiunse l’altare, per dichiarare:
Il pericolo più grande è che il tempo lasci chi soffre immerso nella solitudine. Per noi, il miglior
modo di ricordare le vittime deve essere quello di compiere ogni giorno il nostro dovere ad ogni
livello, senza incertezze1.
Una frase che, a mio giudizio, può essere applicata a qualsiasi personaggio caduto vittima
della mafia o di altri attentati, oppure mentre svolgeva le proprie funzioni lavorative.
1 G.ZACCARIA, Palermo ricorda Dalla Chiesa. Tante autorità ma poca gente, «La Stampa», 4 settembre 1984, p.7.
41
Leggendo una simile affermazione infatti, il pensiero può correre anche a persone come
Falcone e Borsellino, senza dimenticare i loro agenti della scorta.
Alla fine della messa, i presenti raggiunsero via Carini, luogo dell’attentato: le autorità
deposero corone e mazzi di fiori ma i figli del generale, quasi per protesta di fronte a tanta
ipocrisia da parte di chi aveva abbandonato il loro padre e poi lo ricorda nel corso delle
commemorazioni ufficiali, giunsero a cerimonia terminata.
La manifestazione conclusiva della giornata fu promossa dal coordinamento antimafia, che
diede vita a un corteo composto da migliaia di giovani2.
Molto più raccolto invece l’omaggio che il presidente della Repubblica aveva voluto fare
sulla tomba di famiglia dei Dalla Chiesa, a Parma. In visita nella città, il capo dello Stato si
era recato presso la cappella, aveva deposto un mazzo di rose rosse, che con cura aveva
sistemato lui personalmente, per «i miei amici». All’avvenimento erano presenti sia i figli
del generale sia la madre della signora Dalla Chiesa3.
La ferita, mai rimarginata, che si acuisce in occasione degli anniversari si unisce al dolore
per la morte di Ninnì Cassarà, il vicequestore di Palermo assassinato dalla mafia il 6 agosto
1985. Non è trascorso dunque nemmeno un mese dalla sua crudele scomparsa quando
l’Italia, ma in maniera particolare Palermo, vuole ricordare quanto avvenne il 3 settembre
di tre anni prima in via Isidoro Carini. E lo fa unendo il ricordo del generale dei carabinieri
a quello del vicequestore: il corteo infatti, partito dal luogo della strage, per la prima volta
non ha come meta Villa Whitaker, sede della prefettura, ma la questura, per ricordare che
la stessa è stata privata di un uomo valoroso che credeva nel suo dovere e che per questo è
stato punito dalla criminalità organizzata. In prima fila Nando, Rita e Simona Dalla Chiesa,
il fratello del generale, Romolo, la madre e la fidanzata dell’agente di scorta di Cassarà,
anch’egli perito nell’attentato del 6 agosto.
Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, ha tenuto un breve discorso, focalizzando
l’attenzione sull’importanza del ricordo per quanto accaduto
un ricordo che è ferma, continua condanna per la barbarie mafiosa che insanguina la nostra città
[…]. Il 3 settembre, i tanti 3 settembre, sono giorni di sconfitta per lo Stato, per l’intera comunità
nazionale; il generale Dalla Chiesa, le tante vittime della violenza mafiosa sono i caduti di questa
nuova guerra che lo Stato, che è tutti noi, deve vincere4.
2 Ibidem. 3 Pertini a Parma ha reso omaggio ai Dalla Chiesa, «La Stampa», 8 giugno 1984, p.6. 4 A.RAVIDA’, Dalla Chiesa ricordato dagli studenti siciliani, «La Stampa», 4 settembre 1984, p.6.
42
Quel giorno non fu solamente il capoluogo siciliano a rendere omaggio al generale dei
carabinieri. Altre manifestazioni si tennero nel capoluogo lombardo: fu infatti celebrata la
messa a Santa Maria delle Grazie, mentre il corteo formatosi davanti al Comune ha
continuato la sua marcia fino a raggiungere il monumento al Carabiniere di Piazza Diaz,
davanti al quale è stata deposta una corona di fiori sotto lo sguardo del picchetto d’onore,
delle autorità e di Antonia Setti Carraro, suocera del generale5.
Con il volgere al termine del 1985, ci si avvicina in maniera prepotente all’anno del
maxiprocesso, che si svolgerà a partire dal mese di febbraio del 1986 per volontà dei
giudici Falcone e Borsellino. Si tratta del primo processo rivolto alla mafia in quanto
organizzazione di carattere criminale. Ottomila pagine di requisitoria, oltre 500 afferenti
alla figura di Carlo Alberto Dalla Chiesa: si parla delle indagini che stava conducendo ma
anche del suo isolamento e del suo omicidio6. Secondo i magistrati, infatti
Il coraggioso impegno civile del singolo funzionario o uomo politico, unito al disimpegno e al
disinteresse delle istituzioni, costituisce un vero dito puntato sulla sua persona come ostacolo da
eliminare7.
Roberto Martinelli, nel suo articolo prende in esame in modo particolare l’aspetto
dell’isolamento vissuto dal prefetto di Palermo, condizione che l’ha reso obiettivamente
più vulnerabile. Questo è un dato riconosciuto in prima istanza dai figli del generale, e in
seguito da tutte le persone che hanno seguito tale caso con occhio critico.
IL 1986: L’ANNO DEL NON RICORDO E DEL MAXIPROCESSO
Come accennato poco prima, il 1986 è l’anno del maxiprocesso. I mass-media seguono
l’evento da vicino: la carta stampata offre quotidianamente la cronaca di quanto avviene
nell’aula bunker, e la stessa è sotto il controllo delle telecamere, pronte a registrare
immagini che saranno riproposte all’interno dei telegiornali8.
5 Anche Milano ha ricordato il generale, «La Stampa», 4 settembre 1984, p.6. 6 R.MARTINELLI, Il “Grande Fratello” antimafia, «La Stampa», 5 novembre 1985, p.7. 7 R.MARTINELLI, Dalla Chiesa, solo, fu facile bersaglio, «La Stampa», 9 novembre 1985, p.7. 8 Per ulteriori informazioni sul maxiprocesso vedi libro Mafia, l’atto d’accusa dei giudici di Palermo, di C. Stajano, Roma, Editori Riuniti, 1986.
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Paradossalmente, nell’arco di tutto l’anno, ma in maniera particolare nel mese di
settembre, non sono celebrate alcune commemorazioni in ricordo del generale Dalla
Chiesa, della moglie e dell’autista. Certo, il nome del prefetto compare molto spesso sulle
pagine dei giornali, soprattutto considerato l’avvenimento che si sta svolgendo a Palermo,
cioè il maxiprocesso. Ma nessuna menzione legata alla memoria collettiva della strage del
3 settembre. Solamente a ridosso dell’inizio del maxiprocesso, cinquemila studenti
scendono in piazza manifestando il loro sdegno verso la mafia e la loro solidarietà verso i
magistrati e gli inquirenti impegnati in questo lavoro certosino volto a migliorare in
qualche modo la società9.
Si tratta a mio giudizio, se mi è concesso il termine, di una stranezza. Il 1986 è l’anno in
cui si processano i mandanti e gli esecutori degli attentati mafiosi, le braccia e le menti
della criminalità organizzata, e non si pensa a commemorare chi è morto per mano e
volontà loro. Ritengo infatti che mai come in quell’anno i giornali avrebbero potuto e
dovuto trattare la biografia di personaggi quali il generale Dalla Chiesa, per rafforzare il
suo ricordo e per contrapporre, ancora una volta, la sua figura a quella dei boss mafiosi.
Forse la scelta editoriale, almeno per quanto concerne la testata torinese, è stata quella di
concentrarsi solamente sull’attualità tralasciando il passato ed evitando di farlo riaffiorare
con commemorazioni e manifestazioni; eppure lo stesso processo è una celebrazione del
passato, visto che i capi d’accusa riguardano omicidi avvenuti diversi anni prima, uno su
tutti proprio quello del prefetto di Palermo. Oppure, si è deciso di non parlare del quarto
anniversario della strage di via Carini per non fomentare ulteriormente gli animi, già accesi
per l’avvio del processo: Palermo era già scossa e per diversi mesi ha vissuto blindata,
ricordare quanto accaduto il 3 settembre 1982 forse avrebbe aggravato la situazione, o
avrebbe istigato i malavitosi a un nuovo attentato.
Si tratta di mere e personali supposizioni, ma sorgono naturali nel momento in cui si
leggono decine di articoli riguardanti la mafia e il maxiprocesso per poi giungere al 3
settembre e ai giorni successivi scoprendo che non viene fatta alcuna menzione relativa a
tale data.
9 5000 studenti per battere la mafia, «La Stampa», 8 febbraio 1986, p.1.
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PROSEGUONO LE COMMEMORAZIONI
Nel 1987, l’attenzione è ancora giustamente rivolta al maxiprocesso, data
l’importanza e la vastità dell’evento. Ripercussioni legate a tale avvenimento si riscontrano
anche in occasione del quinto anniversario della morte dei coniugi Dalla Chiesa, che
tuttavia, al contrario del 1986, tornano ad essere ricordati. “La Stampa”, per l’occasione,
analizza i “buchi neri” dell’inchiesta sul generale, zone d’ombra che nemmeno i giudici
Falcone e Borsellino sono riusciti a rischiarare. Tuttavia, nello stesso articolo viene data la
notizia che quella sera migliaia di persone si sarebbero unite in corteo per la consueta
fiaccolata che da via Carini termina a Villa Whitaker10.
L’anno successivo, il 1988, vi sono ancora degli strascichi legati al processo del 1986. Le
commemorazioni ufficiali per il generale, infatti, annoverano l’assenza dei principali
giudici antimafia, da Falcone a Borsellino, da Ayala a Caponnetto, consci che non molto è
cambiato da quel 3 settembre di sei anni prima. I magistrati disertano la messa celebrata
alle 9 del mattino presso la chiesa di Santa Maria di Monferrato, mentre nel pomeriggio il
Coordinamento Antimafia ha dato vita al rituale corteo conclusosi questa volta in via
Carini, dove sull’asfalto sono state deposte delle corone di fiori11. Significativo il
messaggio riportato su un volantino affisso dagli operai dei cantieri navali, scritto che
recita:
Caro generale, il 3 settembre politici onesti e presunti sfileranno davanti alla tua lapide e per le vie
del centro […]. Ma sono pochi i palermitani che oggi lottano onestamente a rischio della propria
vita come il sindaco Orlando, Falcone, Borsellino e altri.
Una dichiarazione dura, che aiuta a comprendere il clima siciliano di quegli anni: la
popolazione è disincantata, non crede nella politica ma in un manipolo di uomini che a
volto scoperto e senza mezzi tenta di combattere una piaga sociale che devasta l’isola da
ormai troppo tempo, a costo di perdere la vita.
Come nel 1986, anche nel 1989 non si verificano commemorazioni ufficiali rivolte al
generale dei carabinieri. E l’anno dopo, il 1990, settembre si apre all’insegna dei veleni. A
scendere in campo i tre figli del prefetto, stanchi di cerimonie ipocrite nel corso delle quali
10 G.ZACCARIA, I “buchi neri” dell’inchiesta sull’uccisione di Dalla Chiesa, «La Stampa», 3 settembre 1987, p.7. 11 F.N., Palermo divisa in piazza ha ricordato Dalla Chiesa, «La Stampa», 4 settembre 1988, p.7.
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loro in qualche modo si sentono costretti a mettere in vetrina il proprio dolore e i propri
sentimenti, davanti magari a persone che durante i cento giorni di mandato del loro padre
avevano persino tentato di osteggiarlo. Le cerimonie si svolgeranno comunque, dalla
messa alla fiaccolata, ma senza i Dalla Chiesa. Tutto ciò si evince dalla lettura dell’articolo
La famiglia Dalla Chiesa non va a Palermo, pubblicato il primo settembre da “La Stampa”
all’interno del quale vengono anche spiegate le motivazioni di tale gesto, e la volontà dei
figli di ricordare i propri cari in forma privata, a Parma. Un chiarimento della situazione lo
si ottiene attraverso un’intervista rilasciata da Rita Dalla Chiesa, che si domanda in
maniera retorica se la morte del padre non sia in realtà una morte inutile, che in qualche
modo va a rafforzare una situazione che lui stesso aveva tentato di sbloccare12.
Il 1991, almeno per quanto riguarda “La Stampa”, è l’ultimo anno in cui il generale viene
commemorato sulle pagine della carta stampata. Il 3 settembre di quell’anno si svolsero tre
manifestazioni, in luoghi diversi. La prima ebbe luogo partendo da via Isidoro Carini: un
corteo che raggiunse la fabbrica Sigma, di proprietà dell’imprenditore Libero Grassi,
ucciso una settimana prima (il 29 agosto) poiché si era ribellato al cappio del pizzo e aveva
manifestato in pubblico la sua scelta di non pagare13. Un atto di solidarietà nei confronti di
un’altra persona che aveva osteggiato in maniera manifesta la malavita. In testa al corteo
sfilavano, oltre alla vedova Grassi, Nando Dalla Chiesa, figlio del prefetto, accompagnato
dalla moglie e dal figlio tredicenne. Nel pomeriggio il giardino di Villa Whitaker era stato
teatro della celebrazione di una messa, mentre alle ore 21 ci fu la rituale fiaccolata, indetta
questa volta non dal coordinamento antimafia ma dalle organizzazioni sindacali della Cgil,
Cisl e Uil14.
DALLA CARTA STAMPATA ALLA TELEVISIONE
Per quanto attiene le commemorazioni televisive legate alla figura del generale
Carlo Alberto Dalla Chiesa, bisogna ravvisare una puntata di Emozioni tv, una trasmissione
delle reti Rai, in cui, alla presenza di Rita Dalla Chiesa, si è ricordata la figura del generale.
Era il 14 giugno 1995, la trasmissione era condotta da Arrigo Levi e da Alba Parietti. In
studio, la primogenita del prefetto viene esortata a raccontare i ricordi familiari che la
legano al padre, ma anche le affermazioni dello stesso riguardo all’ambiente ostile che
12 ST.P., Una morte inutile?, «La Stampa», 3 settembre 1988, p.6. 13 S.LODATO, Trent’anni di mafia, Bergamo, Bur, 2006, p.283. 14 A.RAVIDA’, Divisi in nome di Dalla Chiesa, «La Stampa», 4 settembre 1991, p.11.
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l’aveva accolto a Palermo, una situazione che l’avrebbe portato all’isolamento e alla
conseguente morte. L’intervista è seguita da immagini di repertorio riguardanti cerimonie
pubbliche alle quali Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva preso parte, come per esempio la
festa dell’Arma dei Carabinieri. Si tratta di immagini inedite, come ammette la stessa
figlia, visibilmente commossa dalla visione, avvenuta per la prima volta, di simili scene.
Nel corso della trasmissione sono inoltre riproposte le immagini della strage e il servizio
trasmesso per la prima volta dal telegiornale di Rai Uno nell’edizione notturna15.
La trasmissione ha trattato l’argomento in maniera seria e approfondita, facendo emergere
non solo la figura professionale del generale Dalla Chiesa, ma anche quella personale. Il
pubblico e il privato, come era ammirato e temuto nella sfera pubblica e come era
conosciuto e amato dai suoi famigliari e amici. Questo risultato è stato ottenuto sia
attraverso l’intervista avuta con Rita Dalla Chiesa sia visionando i filmati proposti
all’interno della trasmissione.
Termina in questo modo l’excursus storico relativo alle commemorazioni legate al
generale Dalla Chiesa, alla moglie Setti Carraro e all’autista Russo. Ricorrenze che a
partire dal 1992 saranno in qualche modo sostituite con quelle dedicate ai giudici Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino.
15 Emozioni Tv, 14 giugno 1995, Archivio Rai Torino, identificazione teca: F193817.
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2
GIOVANNI FALCONE COMMEMORATO DA QUATTORDICI ANNI
Passato il momento iniziale fatti e persone si dimenticano, restano solo le parole per quello che
valgono16.
Ad affermare ciò è Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, e dunque cognato di
Giovanni Falcone, in occasione della messa celebrata per il secondo anniversario della
strage di Capaci. Ma è realmente così? A mio giudizio la risposta, almeno per quanto
riguarda il caso specifico del magistrato, è no. Una simile frase la si potrebbe applicare al
caso Dalla Chiesa, considerato il fatto che non tutti gli anni la sua morte è stata
commemorata, ma per Falcone il discorso è diverso. Sono trascorsi quasi tre lustri da
quando è stato ucciso, eppure, fortunatamente, la gente e i mass-media continuano a
ricordarlo: attraverso cortei e manifestazioni, articoli e trasmissioni televisive.
Per qualche strana alchimia, Giovanni Falcone incarna l’uomo anti-mafia per eccellenza,
più di quanto non lo facciano Dalla Chiesa e persino Borsellino, che per un paio di anni
non viene ricordato, a differenza del suo amico e collega. Solamente un anno, il 2003,
trascorre senza che venga ricordato nello specifico Giovanni Falcone, ma la stessa sorte
tocca a Borsellino.
A eccezione di questa brevissima parentesi negativa, come accennato poc’anzi tutti gli altri
anni, a partire dal 1994 (data di partenza dell’analisi svolta in questo capitolo) sono
all’insegna dei ricordi legati al magistrato palermitano.
Il primo è affidato, attraverso “La Stampa”, a Giancarlo Caselli, procuratore capo di
Palermo, che firma l’editoriale (con seguito nella seconda pagina) del 23 maggio 1994. Nel
suo intervento si legge:
ricordarsi di questi morti soltanto in occasioni di ricorrenze e cerimonie pubbliche può persino
divenire un inganno, uno scherno dietro il quale nascondere le nostre passate responsabilità17.
Si tratta dunque di un monito rivolto alla popolazione, un invito a non dimenticare persone
come Falcone, e a ricordarle non solamente il giorno dell’anniversario della sua morte.
16 A.MORVILLO, Quanti vuoti nei banchi delle autorità, «La Stampa», 24 maggio 1994, pag.7. 17 G.CASELLI, Falcone 2 anni dopo, «La Stampa», 23 maggio 1994, pp.1-2.
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Il giorno preciso della seconda ricorrenza della strage di Capaci, dal punto di vista della
carta stampata, viene celebrato solo attraverso questo scritto di Caselli. Diversa invece la
situazione del giorno dopo, 24 maggio: anche in questo caso, come è accaduto per Dalla
Chiesa, il giornale ha preferito non anticipare le notizie riguardanti le diverse
commemorazioni che si sarebbero tenute nel corso del 23 maggio, raccontandone la
cronaca il giorno successivo.
Catene umane, momenti di raccoglimento, fiaccolate: soprattutto in questo modo la gente
comune ha voluto ricordare l’eccidio di Capaci, fin dalla mattinata del 23 maggio 1994. I
cittadini hanno manifestato il loro sdegno verso la mafia raccogliendosi davanti alla
magnolia piantata in via Notarbartolo (dove abitavano il giudice e la moglie), e formando
una catena umana lunga tre chilometri; alle finestre sono state appese delle lenzuola
bianche per esprimere la purezza di Palermo, città intaccata da troppi anni dalla mafia. Le
commemorazioni legate alla presenza di autorità si possono ricondurre alla messa celebrata
nella mattina presso la basilica di san Francesco d’Assisi, alla quale hanno partecipato
anche i famigliari delle vittime18.
Nel 1995 l’anniversario della morte di Falcone torna a occupare la prima pagina
dell’edizione del 23 maggio. Il magistrato Alessandro Galante Garrone esorta i lettori a
rispondere al proprio
obbligo morale di non dimenticare le atrocità gravissime di quel delitto, si tratta di un impegno
inesorabile contro il male19.
Credo che si tratti di una frase significativa che può essere applicata non solamente alla
strage di Capaci, ma anche alle occasioni durante le quali sono ricordati altri personaggi
caduti per mano della mafia come Falcone; ovviamente il pensiero non può non correre a
Borsellino e a Dalla Chiesa.
L’anno successivo, il 1996, il boss mafioso Giovanni Brusca viene arrestato. Era il 22
maggio, il giorno prima del quarto anniversario della strage di Capaci. Il latitante è reo di
aver materialmente provocato la morte del giudice Falcone, della moglie e degli agenti
della scorta, in quanto è stato lui, alle 17.58, a premere il bottone del detonatore che ha
fatto deflagrare il tratto di autostrada Palermo-Capaci che le vittime stavano percorrendo.
Logico dunque che il giorno successivo all’arresto, il 23 maggio, i quotidiani si siano
18 A.RAVIDA’, Questa terra si è svegliata, «La Stampa», 24 maggio 1994, pag.7. 19 A.GALANTE GARRONE, Mafia, nessuna distrazione, «La Stampa», 23 maggio 1995, pag.1.
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occupati principalmente di tale evento e non delle commemorazioni legate alla figura del
giudice palermitano. Le notizie dell’arresto e di quanto accaduto dopo campeggiano in
prima pagina, per quanto riguarda “La Stampa”, e poi nell’intera pagina 14, con la cronaca
e le riflessioni dell’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano20.
Per leggere le notizie relative alle celebrazioni per il quarto anniversario della strage,
bisognerà arrivare a pagina 15: il giornalista Francesco La Licata annuncia che in quella
giornata (23 maggio) si svolgeranno 5 cortei organizzati dal comitato delle lenzuola. La
criminalità organizzata, orfana di uno dei suoi uomini più importanti, non attende a
manifestare il proprio sdegno per l’arresto di Brusca, e proprio il 23 maggio, a San
Giuseppe Jato, cittadina limitrofa a Palermo, dove l’attentatore è nato e cresciuto, brucia
delle lenzuola sulle quali erano state stampate le immagini di Falcone e Borsellino21.
La soddisfazione frutto del colpo inferto alla mafia con l’arresto di Brusca è quindi
offuscata dalla sensazione tangibile che purtroppo le cose sono migliorate ma non cambiate
del tutto, e che la piaga della mafia sicuramente continua a minare e insidiare in modo
particolare Palermo.
La cronaca di eventi di carattere mafioso affianca il ricordo della strage di Capaci anche
nel 1997. Proprio il 23 maggio di quell’anno, infatti, è data notizia che sono stati inflitti gli
ergastoli ai mandanti e agli esecutori materiali dell’eccidio di cinque anni prima22.
Il ricordo vero e proprio dell’evento luttuoso è affidato al giornalista Francesco La Licata,
che nel suo articolo smette i panni dell’inviato per ricordare Falcone da amico. E lo fa non
solamente evocando la figura del magistrato, ma ammonendo i cittadini e le autorità del
fatto che il passato ricompare nel presente solo in occasione del 23 maggio: durante il resto
dell’anno Falcone (ma lo stesso si potrebbe affermare per Borsellino e Dalla Chiesa) sono
solamente dei nomi legati alla lotta alla mafia, ma le loro personalità non sono
commemorate all’infuori della data precisa degli attentati23.
In verità, quanto affermato da La Licata trova riscontro nella mia indagine. Fatta eccezione
per il primo anno trascorso dalle stragi, gli anni successivi i tre personaggi sono ricordati
solamente con celebrazioni e cerimonie ufficiali nel giorno preciso in cui sono morti, e
nemmeno a scadenza regolare, come si è notato analizzando le commemorazioni in onore
di Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie. Ovvio, non sarebbe possibile organizzare
quotidianamente degli appuntamenti a ricordo di queste persone, ma sicuramente non 20 Napolitano: la mafia non è ancora sconfitta, «La Stampa», 23 maggio 1996, pag.14. 21 F.LA LICATA Palermo, una gioia a metà, «La Stampa», 23 maggio 1996, pag.15. 22 G.BIANCONI, Ergastolo per gli assassini di Falcone, «La Stampa», 23 maggio 1997, pag.16. 23 F.LA LICATA, Un Paese malato di amnesie, «La Stampa», 23 maggio 1997, pag.16.
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bisognerebbe aspettare quella data precisa, e soprattutto bisognerebbe evitare che
trascorressero dodici mesi tra una celebrazione e l’altra dedicate entrambe allo stesso
personaggio.
Qualcosa cambia nel 1998. Per la prima volta, la strage di Capaci è commemorata non
solamente a Palermo. Nello specifico, è Venezia il teatro di alcune manifestazioni legate
all’evento: alle 17.58 del 23 maggio si accende la prima fiaccola per dare il via a un corteo
che toccherà buona parte della zona lagunare24.
Nel 1999 “La Stampa” commemora Giovanni Falcone pubblicando un articolo che proprio
il magistrato aveva redatto pochi mesi prima della sua morte, e che fu pubblicato come
editoriale25. Ma non solo. Al giornalista Antonio Ravidà è affidata la cronaca delle
manifestazioni programmate per rendere omaggio al magistrato e a chi con lui ha perso la
vita sei anni prima. Si parla di cortei, di una gara ciclistica non competitiva, di una partita
di calcio disputata allo stadio Favorita tra la Nazionale magistrati e la Dinamo Rock
composta da cantanti italiani tra i quali Jovanotti e Ligabue; inoltre, si dà notizia che il
convitto nazionale di Palermo viene intitolata proprio in questa data a Giovanni Falcone.
Le manifestazioni del 2000 ricalcano quelle dell’anno precedente. E’ tuttavia degno di nota
il messaggio del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi:
Il ricordo di Giovanni e Francesca Falcone e delle vittime della scorta è sempre vivo nella
coscienza dei cittadini onesti e coraggiosi26.
Nel 2001 il magistrato viene ricordato in maniera indiretta. Sulle pagine de “La Stampa”
non sono menzionate commemorazioni e celebrazioni svoltesi nella giornata del 23
maggio, però viene pubblicata un’intervista che il procuratore Piero Grasso, addentro alla
piaga della mafia, rilascia a Francesco La Licata. Due personaggi che dunque conoscono il
problema della criminalità organizzata ma che soprattutto hanno conosciuto e apprezzato
Falcone non solo come professionista ma anche e soprattutto come persona27.
24 A.RAVIDA’, Falcone e Caselli uniti dall’antimafia, «La Stampa», 23 maggio 1998, pag.13. 25 G.FALCONE, Lo Stato non vince solo con la forza, «La Stampa», 23 maggio 1999, pag.11. 26 A.RAVIDA’, Debole impegno antimafia, «La Stampa», 23 maggio 2000, pag.12. 27 F.LA LICATA, Troppi i predatori su Falcone, «La Stampa», 23 maggio 2001, pag.13.
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La medesima linea editoriale viene seguita da “La Stampa” tre anni dopo. Siamo nel 2004
e il quotidiano propone un’intervista al procuratore Grasso, rilasciata, come allora, al
giornalista La Licata28.
L’anno prima, il 2003, non compaiono notizie legate alle commemorazioni per il giudice
Falcone, mentre in occasione del suo decimo anniversario, celebrato nel 2002, il ricordo
del magistrato è affidato al colonnello Pellegrini che aveva lavorato per anni al suo
fianco29.
Al giornalista La Licata spetta il compito, ingrato e difficile, l’anno successivo, cioè il
2005, di tracciare un bilancio della situazione mafia a Palermo. Considerati la sua
esperienza nel trattare tali argomenti e il suo rapporto di amicizia con Falcone, “La
Stampa” ha ritenuto opportuno affidare al giornalista palermitano il compito di scrivere un
articolo sulla criminalità organizzata, su quello che è stato fatto per contrastarla e su quanto
ancora bisogna fare.
La Licata si chiede se
Basta la memoria di un uomo giusto per far passare in secondo piano il solito copione di ostilità
sotterranea consolidata palermitana?
Ovviamente il riferimento è palesemente rivolto a Falcone30.
Siamo così giunti al 2006. In questo caso si può azzardare un parallelismo con il 1996: in
quell’anno la commemorazione di Falcone era passata in secondo piano poiché il giorno
prima era stato arrestato il boss Giovanni Brusca. A distanza di un decennio l’episodio si
ripete, ma questa volta si tratta del latitante Bernardo Provenzano, arrestato proprio a
ridosso del quattordicesimo anniversario della morte di Falcone. Oggi come allora, dunque,
i ricordi della strage di Capaci sono offuscati dalla notizia più attuale dell’arresto di un
potente mafioso che aveva fatto perdere le tracce di sé da un trentennio. L’intera pagina 11
dell’edizione del 23 maggio 2006 de “La Stampa” è dedicata alla figura di Provenzano,
dalla sua infanzia alla sua latitanza, alla cronaca del suo arresto e al ritrovamento dei
famosi “pizzini”.
28 F.LA LICATA, Grasso: è cambiata la strategia ma la mafia non è meno forte, «La Stampa», 23 maggio 2004, pag.10. 29 F.LA LICATA, Falcone: “Giovanni, Don Masino e l’avvocato Marx”, «La Stampa», 24 maggio 2002, pag.9. 30 F. LA LICATA, “La lotta alla mafia? Con le nuove norme è tutto più difficile, «La Stampa», 23 maggio 2005, pag.13.
52
Per quanto attiene le commemorazioni ufficiali, si dà notizia solo di una manifestazione
organizzata dalla fondazione “Falcone Morvillo”, dal titolo “Giovanni Falcone, il suo
lavoro, il nostro presente, i suoi sogni, il nostro futuro”.
Analizzando questi ultimi due casi, ritengo tuttavia che gli stessi siano comunque un modo
efficace per commemorare le vittime di mafia. Gli arresti di personaggi come Provenzano e
Brusca sono il minimo epilogo della lotta alla mafia intrapresa da Falcone, Borsellino e
Dalla Chiesa e da tante altre persone. Annunciare l’arresto di tali boss a ridosso delle
commemorazioni legate alle vittime della mafia significa in qualche modo dare un ulteriore
senso al loro sacrificio.
LE COMMEMORAZIONI TELEVISIVE SU FALCONE
Nell’arco di tredici anni – dal 1993 al 2006 – sono state diverse le trasmissioni
televisive trasmesse dalle reti Rai atte a ricordare la strage di Capaci. Non si tratta di
approfondimenti con cadenza annuale, ma sicuramente se ne annoverano parecchi.
Il primo fu mandato in onda a un anno esatto dalla morte di Falcone, della moglie e degli
agenti della scorta. All’interno della trasmissione Mixer, condotta da Giovanni Minoli,
furono trasmessi immagini della strage di Capaci e quelle collegate alle prime
commemorazioni ufficiali, il tutto messo in relazione con l’attentato dinamitardo al
quartiere Parioli nel quale il giornalista Maurizio Costanzo avrebbe dovuto trovare la
morte31.
Due anni più tardi, nel 1995, è la trasmissione di Rai Uno Quel Giorno, condotta da
Michele Cucuzza, a celebrare il terzo anniversario della strage di Capaci. L’argomento
viene introdotto attraverso un collegamento in diretta da Palermo, dove l’inviata Rita
Mattei racconta e dimostra con il supporto delle immagini quanta gente stia affollando la
via per commemorare Falcone. Subito dopo un servizio ricorda quanto avvenuto il 23
maggio 1993, le inchieste sulla mafia condotte dal giudice palermitano e gli evidenti
motivi per cui la criminalità organizzata ha voluto eliminarlo: questi ultimi sono delucidati
in due interviste fatte a Giovanni Tinebra, procuratore della Repubblica a Caltanissetta e a
Roberto Scarpinato, magistrato a Palermo32.
31 Mixer, il piacere di saperne di più, 23 maggio 1993, Archivio Rai Torino, Identificazione teca: F148471. 32 Quel giorno, 23 maggio 1995, Archivio Rai Torino, Identificazione teca: M95143/001.
53
Una scaletta simile viene applicata alla trasmissione Cronaca in diretta del 1997. L’inviato
Guido Torlai da Palermo parla delle commemorazioni per il 23 maggio; in studio David
Sassoli lancia un servizio per raccontare quanto accaduto in quella data; in seguito il
giornalista inviato in Sicilia intervista sull’argomento Pierluigi Vigna, procuratore
nazionale Antimafia, e la cantautrice Carmen Consoli33. In entrambi i prodotti televisivi,
quindi, si è deciso di raccontare del presente ricordando il passato, attraverso testimonianze
e filmati: ai telespettatori era data la possibilità di sapere quanto stava accadendo a Palermo
e in che modo il capoluogo siciliano ricordava Falcone, e come egli stesso fosse morto
alcuni anni prima.
Nel 2002 è nuovamente la trasmissione di Giovanni Minoli, Mixer, a occuparsi della figura
del magistrato ucciso dalla mafia, ma questa volta lo fa in maniera diversa. La puntata
monografica infatti ripercorre l’intera vita di Giovanni Falcone, dando molta importanza
alla sua figura professionale, ai suoi rapporti con la magistratura e con i giornalisti, mentre
l’attentato vero e proprio è posto in secondo piano, ma non viene trattato in maniera ampia.
Diverso invece il discorso relativo ai funerali: sono riproposti spezzoni degli stessi, con
particolare attenzione al discorso della vedova dell’agente Schifani. Ospiti di Minoli sono
soprattutto giornalisti: Felice Cavallaro, giornalista de “Il Corriere della Sera”, Attilio
Bolzoni de “La Repubblica” ma soprattutto Francesco La Licata, autore della biografia di
Giovanni Falcone nonché suo amico; a questi si affiancano Maria Falcone, sorella del
giudice e Liliana Ferraro, membro del ministero di Grazia e Giustizia34.
Questa volta non si è dunque commemorato il giudice attraverso le solite immagini di
repertorio inerenti al tratto autostradale Palermo-Capaci ridotto in macerie, ma avvalendosi
delle testimonianze di chi lo ha conosciuto bene, facendo emergere il suo lato meno noto.
Tale linea viene condotta anche l’anno successivo, nell’ambito della trasmissione
Unomattina. In occasione dell’undicesimo anniversario della strage del 23 maggio – siamo
nel 2003 – Luca Giurato e Roberta Capua ospitano in studio Maria Falcone e Rosaria
Schifani, sorelle rispettivamente del giudice e del suo agente di scorta: ancora una volta
sono i ricordi personali di chi ha conosciuto bene le vittime in oggetto a commemorare le
stesse nel modo più consono. In quell’occasione è solamente il giornalista de “Il giornale
di Sicilia” Umberto Lucentini (che poi curerà la biografia di Paolo Borsellino) a ricordare
33 Cronaca in diretta, 23 maggio 1997, Archivio Rai Torino, Identificazione teca: F212453. 34 Mixer, 23 maggio 2002, Archivio Rai Torino, Identificazione teca: F353593.
54
la cronaca della strage del 23 maggio: il viaggio dall’aeroporto a Palermo, il tratto
autostradale fatto esplodere, il tentativo estremo di salvare i coniugi Falcone35.
Il 23 maggio 2006 è la trasmissione Ballarò a occuparsi della commemorazione del
magistrato ucciso dalla mafia quattordici anni prima, e lo fa attraverso filmati di repertorio
che lo ritraggono insieme a Borsellino, oltre a un servizio in cui è lo stesso procuratore di
Marsala a ricordare la figura del suo amico e collega morto per mano della criminalità
organizzata. La trasmissione in oggetto propone anche delle interviste fatte agli studenti di
una scuola palermitana intitolata proprio a Falcone e Borsellino, ma sicuramente la parte
più toccante della puntata è quella relativa al discorso pronunciato da Borsellino36.
Come avvenuto per la carta stampata, anche la televisione, in diverse occasioni, ha ritenuto
maggiormente opportuno ricordare Giovanni Falcone non attraverso la cronaca di messe e
manifestazioni a lui dedicate ma con testimonianze di parenti, amici e colleghi. Un modo
sicuramente meno asettico e più umano, oltre che più comunicativo, per far comprendere ai
fruitori di tali servizi chi era veramente Falcone e perché è ancora giusto e doveroso
continuare a commemorarlo.
35 Unomattina, 23 maggio 2003, Archivio Rai Torino, Identificazione teca: T03143/121. 36 Ballarò, 23 maggio 2006, Archivio Rai Torino, Identificazione teca: F494119.
55
3
LA STAMPA RICORDA PAOLO BORSELLINO
La cronaca delle celebrazioni di suffragio in ricordo di Paolo Borsellino e dei suoi
cinque uomini della scorta è, almeno per quanto attiene le pagine de “La Stampa”, meno
puntuale e dettagliata rispetto a quella in memoria di Giovanni Falcone. Il procuratore di
Marsala non viene ricordato tutti gli anni, e spesso gli articoli dedicati alla strage di via
D’Amelio sono meri racconti delle cerimonie ufficiali che si sono svolte a Palermo: un
elenco di date, ore e luoghi dove si sono celebrate, affiancato da una lista di personalità che
vi hanno partecipato.
Il parallelismo tra le commemorazioni del 23 maggio e quelle del 19 luglio è naturale:
Borsellino passa in secondo piano rispetto a Falcone. Si ripete in qualche modo il
fenomeno verificatosi con Dalla Chiesa e le stragi del 1992: dopo che le stesse avvennero,
sui giornali nazionali cessarono di comparire notizie relative a messe e celebrazioni in sua
memoria; anche in questo caso un evento in qualche misura offusca l’altro, ma, al contrario
di quanto avvenne per il generale e i due magistrati, in questo caso non è l’evento più
recente dal punto di vista cronologico che ha maggior risalto, bensì il contrario.
Il primo anniversario è accompagnato da una serie di polemiche. Agnese, vedova del
giudice Borsellino, diserta qualsiasi cerimonia pubblica poiché presenti note personalità
politiche: una dura presa di posizione nei confronti di chi ella reputa reo di aver
abbandonato il marito al suo destino, di averlo lasciato solo a combattere una battaglia ad
armi impari37.
Se ben si ricorda, la stessa rimostranza era stata fatta dai figli del generale Dalla Chiesa,
che in diverse occasioni avevano evitato di apparire alle cerimonie pubbliche che
pullulavano di persone note e potenti che però a loro tempo ben poco avevano fatto per
aiutare il prefetto di Palermo a raggiungere il suo obiettivo.
Nel 1995 “La Stampa” non fornisce alcuna notizia circa eventuali celebrazioni pubbliche
in ricordo della strage di via d’Amelio, mentre l’anno dopo a pagina 13 compare una
piccola notizia con la quale si annuncia che alle commemorazioni si attendono esponenti
della politica quali il presidente del Senato Nicola Mancino e il ministro Giorgio
Napolitano38.
37 Paolo, un uomo scomodo, «La Stampa», 20 luglio 1994, pag.5. 38 A.RAVIDA’, Ecco l’uomo dei boss che spiò Falcone, 19 luglio 1996, pag.13.
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Spetta a Luciano Violante, nel 1997 presidente della Camera, ricordare quell’anno
l’eccidio del 19 luglio, e lo fa inviando un messaggio a Rita e Agnese Borsellino,
rispettivamente sorella e vedova del magistrato.
Nel testo si legge:
l’impegno rigoroso e preziosissimo che egli ha saputo offrire, al prezzo della sua vita, alla sua terra
e al suo Paese, ci ha accompagnato in questi anni e ha permesso di raggiungere risultati tanto
importanti quanto inimmaginabili nella lotta alla mafia. Proseguire con forza lungo questa strada è
il modo migliore per rendergli giustizia39.
Al procuratore Giancarlo Caselli è invece affidato il ricordo del giudice nel giorno del suo
sesto anniversario di morte. Nel suo articolo, riportato in prima pagina, Caselli rammenta il
lavoro del pool antimafia e le ostilità alle quali andavano incontro quotidianamente i
membri che vi appartenevano, primi tra tutti ovviamente Falcone e Borsellino.
Retoricamente, il procuratore si rammenta se il loro sacrificio sia stato vano o se sia servito
a qualcosa, anche perché a suo giudizio «non resteranno i Falcone e i Borsellino ma la
mafia resterà»40.
Il 1999 è un anno anomalo. Per volontà della vedova di Paolo Borsellino, sono sospese
tutte le manifestazioni e le celebrazioni ufficiali in ricordo di suo marito. A rigor di logica i
mass-media, per rispettare la volontà della vedova che vorrebbe far calare il silenzio su un
giorno così triste e doloroso per lei e la sua famiglia, avrebbero dovuto soprassedere ed
evitare di affrontare l’argomento. Non sarebbe stata la prima volta, come è stato dimostrato
in precedenza. Invece, “La Stampa” dà ampio risalto alla decisione resa nota dalla vedova,
e comunica tutte le cerimonie che sono state annullate41.
Per altri due anni Paolo Borsellino non viene commemorato pubblicamente né i quotidiani
ricordano ai propri lettori quanto accaduto il 19 luglio di alcuni anni prima a Palermo,
intorno alle 17 in via D’Amelio.
Arriviamo in questo modo al 2001, ma le cose non cambiano. Tant’è vero che esattamente
in quell’anno il giornalista Francesco La Licata rende pubblico il suo sdegno perché non si
39 Borsellino, un messaggio di Violante «La Stampa», 20 luglio 1997, pag.14. 40 G.CASELLI, Sei anni come un secolo, «La Stampa», 19 luglio 1998, pagg.1-2. 41 A.RAVIDA’, Palermo sceglie il raccoglimento per volontà della vedova, «La Stampa», 19 luglio 1999, pag.11.
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stanno più svolgendo manifestazioni in ricordo di Borsellino, e, episodio ancor più grave,
alcuna testata dà rilievo al fatto che il magistrato non viene più commemorato42.
Nel 2002 il ricordo dell’autobomba riaffiora più vivo che mai grazie all’intervento dello
scrittore Michele Perriera, che si trovava nella sua casa, in via D’Amelio, quando fecero
scoppiare l’autobomba per uccidere il giudice Borsellino. Il racconto di quella tragedia
vissuta in prima persona l’artista ha deciso di pubblicarlo su “La Stampa”, in occasione del
decimo anniversario della strage43.
Nel 2003, come accadde per Giovanni Falcone, non vi sono celebrazioni in onore di
Borsellino. Destino comune quindi anche dopo la morte, anche se per il primo si è trattato
di un unico caso, mentre per quanto attiene il procuratore di Marsala non si tratta del primo
e unico anno in cui non viene data notizia e non si celebrano manifestazioni per onorare la
sua memoria.
Quando si ritorna a parlare di Borsellino, nel 2004, non lo si fa in maniera efficace,
attraverso cioè le testimonianze di chi gli ha vissuto accanto, ma in maniera neutra,
raccontando le manifestazioni organizzate per il 19 luglio. A fianco dei classici cortei,
troviamo un’iniziativa dell’Unione Cronisti e dell’Associazione Magistrati, che in sinergia
hanno deciso di piantare un albero sulla piazza XIII vittime44.
Nel 2005 il ricordo di Borsellino si fonde con quello di Falcone. In occasione del
tredicesimo anniversario della morte del procuratore, “La Stampa” ripropone il discorso
recitato in occasione del trigesimo di Giovanni Falcone proprio dal suo amico Borsellino45.
In ultima analisi, il 2006. In quest’occasione è il neo presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano a ricordare il sacrificio di Paolo Borsellino e della sua scorta, attraverso queste
parole:
Il sacrificio di Paolo Borsellino resta di monito a non abbassare mai la guardia nella lotta per
debellare le insidie, ovunque si annidino, di questo gravissimo fenomeno criminoso. Il 19 luglio
1992 l’arroganza spietata della criminalità mafiosa stroncava la vita di Paolo Borsellino e degli
agenti della scorta […]. Resta indelebile nella memoria l’angoscia e il dolore dei giorni in cui il
delirio di onnipotenza della cupola mafiosa, già abbattutosi contro Giovanni Falcone, sua moglie e
altri coscienziosi agenti di polizia, culminò nel tentativo di scardinare, colpendo le sue più ferme e
intransigenti espressioni, l’ordinamento dello Stato e delle sue istituzioni […].
42 F.LA LICATA, All’amico Paolo, «La Stampa», 20 luglio 2001, pag.15. 43 M-PERRIERA, La maledizione di Palermo, «La Stampa», 20 luglio 2002, pag.12. 44 L.SIRIGNANO, Borsellino, memoria e polemiche, «La Stampa», 20 luglio 2004, pag.14. 45 L’ipocrisia che uccide, «La Stampa», 19 luglio 2005, pag.1.
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CAPITOLO IV
QUANDO FILM E FICTION TRATTANO DI MAFIA
L’argomento vasto che può in qualche modo essere incluso nell’insieme “mafia”
non è stato trattato solamente dalla carta stampata e dalla televisione, come è stato
analizzato fino a questo momento. Certo, i due media in oggetto sono i più puntuali e
precisi, e per ovvi motivi logistici hanno il potere di raccontare praticamente in tempo reale
(soprattutto per quanto attiene il tubo catodico) quanto avvenuto in un preciso momento
della giornata. Così è accaduto per le stragi in cui hanno perso la vita Carlo Alberto Dalla
Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con consorti (a eccezione del terzo) e scorte
al seguito: la televisione e i giornali hanno non solo comunicato la notizia degli attentati,
ma seguito la vicenda passo passo, fornendo ai fruitori del servizio il numero maggiore di
informazioni relative a tali eventi. Gli stessi media hanno giocato un ruolo primario per
quanto attiene le commemorazioni delle morti di questi tre personaggi: non si sono infatti
limitati a diffondere le notizie delle celebrazioni in loro memoria, ma hanno contribuito
loro stessi a ricordarli, attraverso articoli e lettere oltre che tramite interviste a persone che
li avevano conosciuti bene.
Tuttavia, anche la produzione italiana di film e fiction ha dato il suo contributo nel tenere
vivo il ricordo di queste tre personalità. Si tratta esclusivamente di produzioni biografiche:
ogni pellicola infatti racconta la vita privata e professionale del protagonista del film, dal
culmine delle rispettive carriere fino a giungere al giorno delle loro morti.
La filmografia italiana, in merito all’argomento, annovera due film e altrettante fiction. Il
primo, Cento giorni a Palermo, uscì nelle sale a distanza di quasi due anni dalla morte del
prefetto Dalla Chiesa, girato dal regista Giuseppe Ferrara. Fu lui stesso che, quasi un
decennio dopo, per l’esattezza nel 1993, si mise nuovamente dietro la macchina da presa
per dirigere un secondo film biografico di mafia, questa volta sulla vita di Giovanni
Falcone. Da qui l’omonimo titolo della pellicola. Per quanto attiene invece le fiction
trasmesse dalla televisione, bisognerà aspettare il 2004, quando la Taodue Film trasmetterà
la fiction Paolo Borsellino. Nel 2006, infine, la Rai ha mandato in onda un prodotto
analogo basato nuovamente sulla vita di Giovanni Falcone.
Anche per quanto riguarda il piccolo e il grande schermo, dunque, il magistrato
palermitano risulta essere quello più ricordato e sul quale si è lavorato più a lungo, senza
59
dimenticare tuttavia che nelle creazioni cinematografiche a egli legate si ricorda in
automatico anche la figura di Borsellino (e viceversa), essendo i due uomini colleghi e
amici.
A Giovanni Falcone sono quindi stati dedicati sia un film che una fiction, mentre per
quanto riguarda il procuratore di Marsala si annovera un’unica fiction a distanza di quasi
un decennio dalla sua morte. Per quanto riguarda invece Dalla Chiesa, conosciamo
un’unica pellicola, anche se dovrebbe essere in lavorazione una fiction a lui dedicata che
dovrebbe essere trasmessa dalle reti Mediaset nell’autunno del 2007. In questo caso
tuttavia il condizionale è d’obbligo.
Compare quindi nuovamente il fenomeno che si era verificato per la carta stampata e la
televisione in occasione delle diverse commemorazioni: Giovanni Falcone è il personaggio
più ricordato, maggiormente menzionato, quello che più di ogni altro sembra incarnare la
lotta alla mafia, l’uomo anti mafia per eccellenza
1 GIUSEPPE FERRARA, CINEASTA SENSIBILE ALLA MAFIA Entrambe le pellicole che hanno analizzato le vite rispettivamente di Carlo Alberto
Dalla Chiesa e Giovanni Falcone sono frutto del lavoro di Giuseppe Ferrara. Ritengo
questo un aspetto molto importante, in quanto significa che lo stesso cineasta si è
dimostrato in diverse occasioni sensibile al problema della mafia e tenace nel voler
ricordare chi ha trovato la morte per volontà della stessa. Inoltre, credo che sia possibile
azzardare un parallelismo tra le due produzioni, analizzando se e come il modo di lavorare
del regista sia cambiato, se è mutato il suo approccio nei confronti dell’argomento mafia,
quali aspetti delle due diverse persone – Dalla Chiesa e Falcone – ha voluto far conoscere
ed emergere attraverso i propri lavori1.
1 Per informazioni biografiche cfr pag 89.
60
2 I FILM
Visionando la pellicola Cento giorni a Palermo si ha l’impressione che il regista
Ferrara non abbia voluto raccontare solamente gli ultimi mesi di vita del generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa vissuti nel capoluogo siciliano, ma abbia voluto lanciare un vero e
proprio atto d’accusa. Senza alcuna remora, infatti, il cineasta dimostra le ostilità
fronteggiate dal prefetto dal giorno del suo insediamento fino al tragico 3 settembre 1982,
il clima di terrore che ha trovato al suo arrivo, i complotti alle sue spalle anche da persone
che erano ritenute insospettabili. Il lungometraggio dunque offre uno spaccato della Sicilia
anni ’80, tanto crudo quanto realistico.
I primi minuti dell’opera cinematografica sono rappresentati da scene relative a quattro
omicidi eccellenti intercorsi tra il 1979 e il 1980: Boris Giuliano, capo della squadra
mobile; Cesare Terranova, giudice; Piersanti Mattarella, presidente della Regione; Gaetano
Costa, giudice. Tutte persone che avevano apertamente espresso la propria volontà di
contrastare la mafia, e che da essa sono stati uccisi.
Alla lista si aggiunge Pio La Torre, democristiano ucciso il 30 aprile 1982, il giorno prima
dell’insediamento del generale in qualità di prefetto.
Ferrara risalta quindi il clima ostile che il carabiniere ha dovuto fronteggiare al suo arrivo,
clima in netto contrasto con il calore dimostrato dalla gente. Carlo Alberto Dalla Chiesa è
acclamato per strada, partecipa alle manifestazioni pubbliche quasi a voler rassicurare i
cittadini, e presenzia numerosi incontri sociali: con i genitori di ragazzi tossicodipendenti,
nei licei, presso i cantieri navali. Tutti episodi riproposti nel film e realmente accaduti,
sottolineati per far comprendere quanto il generale combattesse sul campo e non seduto
dietro a una scrivania.
Il regista ha inoltre posto l’accento sulla vita privata del generale e della sua giovane
moglie, Emmanuela Setti Carraro: la decisione di accettare la nomina a prefetto li avrebbe
allontanati, e quindi la crocerossina decide di seguire a Palermo colui che di lì a breve
sarebbe diventato suo marito. L’aspetto maggiormente importante tuttavia è legato alla
paura provata dalla giovane moglie, che teme per l’incolumità sua e del marito.
Emmanuela Setti Carraro è ossessionata, legge i giornali con avidità e timore al tempo
stesso, quando esce di casa si sente osservata e sembra che qualsiasi cosa evochi sangue e
morte. Queste particolarità sono ben delineate all’interno della pellicola, e a mio giudizio il
regista è stato abile nel trasmettere tale messaggio senza scadere nel melodrammatico: i
61
fruitori comprendono l’angoscia provata dai protagonisti del film, e si capacitano che si
tratta di timori motivati che purtroppo troveranno ben presto un riscontro.
Giuseppe Ferrara evidenzia inoltre il modo di lavorare del generale Dalla Chiesa, ormai
prefetto. La sua paura di essere sotto osservazione lo conduce a cambiare la disposizione
della mobilia del suo ufficio, a mettere sotto controllo i telefoni, a chiedere i curricula dei
suoi collaboratori e dei rispettivi famigliari oltre che di tutti i dipendenti della Prefettura.
Una mossa che lo condurrà alla scoperta di intrighi tra esponenti di Villa Whitaker e la
mafia: per esempio scopre che il banchiere Michele Sindona, per rimanere a Palermo a
operare in tutta tranquillità evitando la reclusione, si è fatto sparare al ginocchio da un suo
complice, fratello di un impiegato della prefettura. Dalla Chiesa chiede che vengano
monitorati tutti i movimenti bancari delle più importanti personalità palermitane, oltre alle
principali gare d’appalto. Tutti episodi realmente accaduti che trovano fedele riscontro
all’interno della pellicola, e che il regista ha messo in luce in modo che si evincesse la
metodologia di lavoro del generale.
Le scene finali del film sono incentrate sull’agguato di via Isidoro Carini, ma non solo. Il
cineasta sottolinea senza reticenze l’omertà che in quell’occasione si era venuta a creare: le
finestre spalancate per il caldo che improvvisamente si chiudono, una donna che scende in
strada ma che viene trascinata via dal marito, e tutt’intorno il silenzio e la strada deserta.
Nessuno ha sentito o visto qualcosa. Eppure la stessa via, poco dopo, pullulerà di forze
dell’ordine ma soprattutto di giornalisti, pronti a immortalare la A112 ferma davanti al
marciapiede, con i corpi straziati del prefetto e della moglie al suo interno. In maniera
cruda si manifesta come i due cadaveri siano stati ritrovati, e anche in questo caso si tratta
di una fedele trasposizione della realtà.
Diversa invece la scelta stilistica adoperata per realizzare il film Giovanni Falcone del
1993.
In questo caso Giuseppe Ferrara ha incentrato quasi tutta la pellicola sull’aspetto
professionale del magistrato di Palermo, con un occhio di riguardo sul tema del pentitismo;
Falcone infatti diede molta importanza alle dichiarazioni dei pentiti di mafia, che secondo
lui costituivano un valido tramite tra la giustizia e la criminalità organizzata, e tutto questo
emerge dalla visione del film. Il regista ha inoltre evidenziato il rapporto tra Falcone e gli
altri membri del pool, in special modo Paolo Borsellino e Rocco Chinnici, sottolineando il
rapporto di amicizia che si era venuto a instaurare tra i vari colleghi.
A supporto del racconto di svariati avvenimenti raccontati all’interno del film, Giuseppe
Ferrara si è avvalso di scene di repertorio o sequenze di altri sui film. E’ il caso
62
dell’attentato del 3 settembre 1982: la morte del generale Dalla Chiesa e della consorte
viene raccontata all’interno del film su Giovanni Falcone riproponendo le stesse scene che
concludevano Cento giorni a Palermo.
Per quanto invece riguarda le scene di repertorio, un esempio è dato dal maxiprocesso: le
riprese all’interno dell’aula bunker e la notizia degli ergastoli inflitti ai boss e ai diversi
collaboratori sono reali immagini trasmesse dai telegiornali. Le stesse scene dei funerali
del magistrato, della moglie e degli agenti della scorta sono quelle che furono trasmesse in
diretta televisiva dalla prima rete di Stato: il regista inserisce non solamente le riprese dei
feretri, ma anche il discorso della vedova Schifani (uno degli agenti), la folla che si accalca
all’esterno della chiesa e che grida il suo disprezzo verso i politici che tentano di farsi largo
per entrare all’interno della cattedrale.
Paradossalmente, non vengono utilizzate scene di repertorio per raccontare la strage di
Capaci, al contrario di quanto accaduto per quella di via D’Amelio, che costituisce la
sequenza finale del film Giovanni Falcone.
Rispetto alla pellicola dedicata al generale Dalla Chiesa, con la quale si metteva in risalto
anche l’aspetto privato della vita del prefetto, quella relativa al magistrato palermitano dà
poco spazio alla sua sfera intima. Ovviamente la figura della moglie è presente, ma in
maniera meno preponderante, e anche le paure che può umanamente provare sono in
qualche modo meno accentuate se paragonate a quelle espresse da Giuliana De Sio nel
ruolo di Emmanuela Setti Carraro. Non bisogna tuttavia dimenticare che i periodi delle due
biografie sono sicuramente diversi: poco più di cento giorni nel primo caso, oltre un
decennio nel secondo. E’ chiaro che nella prima opera si è reso necessario condensare tutti
gli aspetti salienti della vita del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, mentre per quanto
attiene la biografia cinematografica di Falcone i tempi sono notevolmente dilatati, e quindi
si è dato maggior risalto all’aspetto professionale, anche per far comprendere ai fruitori chi
era il magistrato di Palermo e perché è stato ucciso dalla mafia.
Anche nella pellicola del 1993 ritorna comunque il tema dell’omertà: un esempio è fornito
dalla scena dell’omicidio di Ninnì Cassarà, membro del pool antimafia che viene ucciso
sotto casa, davanti agli occhi della moglie affacciata al balcone che correndo giù per le
scale comincia a bussare alle porte dei vicini invocando il loro aiuto, ma invano. Riaffiora
inoltre, anche in questo caso senza veli, l’accusa di complicità tra Palazzo di Giustizia e la
mafia: nella pellicola inerente a Falcone l’ultima scena dimostra un uomo, che in diverse
occasioni era apparso al magistrato, sempre in silenzio e in abito scuro, presente in via
63
D’Amelio, che chiede a un poliziotto di cancellare il suo nome dalla relazione di servizio
che stava redigendo.
Diverso infine il ruolo dei giornalisti all’interno delle due vicende. In Cento giorni a
Palermo i cronisti assediano di continuo il generale Dalla Chiesa, tempestandolo di
domande che lui puntualmente nicchia; tuttavia, più di una scena è girata all’interno di una
redazione giornalistica, dove un cronista riceve telefonate anonime che lo informano prima
del fatto che Dalla Chiesa sia un personaggio scomodo, e successivamente che
l’operazione a lui dedicata è praticamente conclusa. Non solo. Nel film del 1984 vengono
riproposti degli stralci dell’intervista che Giorgio Bocca fece al generale Dalla Chiesa
nell’agosto del 1982. Nello specifico, il giornalista, che conobbe il generale nel 19672, gli
chiese se si sentisse maggiormente un proconsole o un prefetto nei guai. Dalla Chiesa
rispose:
Sono venuto qui per dirigere la lotta alla mafia, non per discutere di competenze e di precedenze
[…]. Non chiedo leggi speciali, chiedo chiarezza […]. Chiunque pensasse di combattere la mafia
nel “pascolo” palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo3.
E successivamente il generale rilascia una dichiarazione che costituisce una sorta di
presagio, detta con cognizione di causa:
Credo aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa
combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma si può ucciderlo perché isolato4.
Non sono fatti nomi specifici, ma confrontando quanto sopra con lo scritto Trent’anni di
mafia di Saverio Lodato, si potrebbe azzardare la dichiarazione che il giornalista in
questione potrebbe essere lui ai tempi della sua collaborazione con “L’Unità”.
Niente assedi giornalistici invece in Giovanni Falcone; tuttavia, viene riproposta l’edizione
ufficiale de “L’Ora”, quando Falcone, in auto, legge il giornale per sincerarsi della
situazione venutasi a creare a Palermo dopo l’arrivo del generale Dalla Chiesa.
Temi che ritornano dunque, ma anche argomenti trattati in maniera differente, anche se il
coraggio e la voglia di denuncia sociale del regista sono immutati.
2 P.SAPEGNO, M.VENTURA, Generale, Città del Castello, Lumina, p.28. 3 N.DALLA CHIESA, In nome del popolo italiano, pp.358-361. 4 Ibidem.
64
Diverso invece il taglio biografico approntato ai due lungometraggi, e diversa anche la
fruizione e la divulgazione degli stessi.
3 I FRUITORI DEI FILM SU DALLA CHIESA E FALCONE L’anteprima della pellicola Cento giorni a Palermo avvenne nel marzo del 1984, presso la
facoltà di Ingegneria dell’ateneo palermitano, alla presenza delle più alte cariche comunali
e regionali, oltre che dei maggiori esponenti del mondo del giornalismo e della
magistratura. Mancavano invece sicuramente le persone maggiormente coinvolte nella
vicenda, ovvero i famigliari delle vittime: le poltrone assegnate ai figli del generale e alla
madre di sua moglie sono rimaste vuote. Un assenza giustificata per mezzo di un
telegramma, come dichiara lo stesso regista alla fine della proiezione: «Hanno preferito
restare lontani per “evidenti motivi psicologici”. Li capisco, la ferita è troppo recente»5.
Presente alla prima anche la vedova Giuliano, il cui marito fu assassinato dalla mafia alla
fine degli anni Settanta, e il giudice Falcone, che commenta: «Una ricostruzione fedele, un
grosso sforzo». Dello stesso parere anche Emanuele De Francesco, nominato Prefetto di
Palermo dopo l’assassinio di Dalla Chiesa6.
Dopo l’anteprima proiettata a Palermo, il regista Giuseppe Ferrara decide di far conoscere
la propria opera in giro per l’Italia. A Roma, per esempio, dove la sua pellicola viene
trasmessa a conclusione di una manifestazione promossa da quindicimila giovani
provenienti soprattutto dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia per protestare contro
la mafia, la camorra e la droga. Una delegazione di studenti fu persino ricevuta dall’allora
presidente della Repubblica Sandro Pertini: tutti uniti per dimostrare che l’Italia non è
solamente malavita, e che regioni come la Sicilia non possono essere identificate in toto
con il termine mafia7.
L’appuntamento si rinnova, ma questa volta ad Asti, per un convegno-dibattito sulla
criminalità organizzata, al quale prendono parte, oltre al regista Ferrara, il figlio del
prefetto in qualità di sociologo e il giudice Caselli. E mentre Nando Dalla Chiesa
ammonisce che «chi difende le istituzioni subisce attacchi brutali».
5 F.SANTINI, Palermo, le poltrone vuote al film su Dalla Chiesa, «La Stampa», 22 marzo 1984, p.1. 6 Ibidem. 7 G.ZACCARIA, Roma, 15 mila giovani in corteo contro mafia, camorra e droga, «La Stampa», 6 maggio 1984, p.6.
65
Il cineasta racconta i tentativi adottati per far naufragare il suo lavoro biografico sul
generale Dalla Chiesa, come quando l’Alitalia diffidò la troupe a riprendere la scena in cui
l’attore che interpretava il prefetto scendeva da uno dei suoi aerei, mentre fu abolita la
scena relativa all’incontro tra il prefetto e gli operai dei cantieri navali, in quanto la
direzione temeva di offrire un’immagine mafiosa della loro azienda8.
Il film su Giovanni Falcone non fu pubblicizzato con la stessa foga. In una nota che
accompagna la scheda del film a supporto della visione, tuttavia, Giuseppe Ferrara dichiara
che
Se poeti, cantanti, scrittori dedicano le loro opere alla strage di Capaci, nessuno batte
ciglio. Così mandare in onda ore e ore di filmati televisivi sulle stragi siciliane va
benissimo. Invece fare un film, anzi esprimere l’intenzione di fare un film su falcone
suscita indignazione”E’ troppo presto, è sciacallaggio”[…]. Mai come oggi sento che
portando a conoscenza i meccanismi di una criminalità occulta attraverso la ricostruzione
dell’opera giudiziaria svolta da Falcone sia possibile fare una spinta allo smascheramento
di questo contropotere chiamato mafia e insieme un contributo alla difesa e al
rafforzamento dei valori democratici9.
Attraverso questa affermazione, almeno secondo la mia chiave di lettura, è stato spiegato il
motivo per il quale il film, a suo tempo, non è stato adeguatamente recensito e
pubblicizzato.
8 V.TESSANDORI, “La mafia si può sconfiggere non dimentichiamo che esiste”, «La Stampa», 3 giugno 1984, p.7. 9 http://giuseppe-ferrara.aitek.org/falcone.htm.
66
4 LE FICTION Dal 1982 al 2006, sono state prodotte solamente due film per il piccolo schermo relativi
alle biografie di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, mentre non si annoverano
produzioni di tale genere inerenti alla vita di Carlo Alberto Dalla Chiesa. I lavori in oggetto
sono peraltro molto recenti: la fiction Paolo Borsellino fu trasmessa da Canale 5 nel
novembre del 2004, mentre è datata ottobre 2006 la fiction di Rai Uno Giovanni Falcone.
La prima è figlia della casa di produzione “Taodue Film” fondata nel 1991 da Pietro
Valsecchi. A lui si devono miniserie quali Uno bianca, Ultimo e Distretto di Polizia10, tutte
trasmesse dalla rete ammiraglia della Mediaset.
Vita privata e rapporti interpersonali: sono questi i due aspetti sui quali la fiction dedicata
al procuratore di Marsala è stata maggiormente improntata. Paolo Borsellino è stato dipinto
come un marito e un padre esemplare da chi lo conosceva bene, e regista e produttore
hanno deciso di far emergere tali peculiarità. In Paolo Borsellino sono quindi diverse le
scene che ritraggono il magistrato in teneri atteggiamenti con la moglie, o intento ad
aiutare i figli con i loro studi universitari; qualsiasi scelta lavorativa che potesse avere delle
ripercussioni sulla famiglia veniva intrapresa di comune accordo tra Borsellino e i suoi
cari, e anche quest’aspetto è messo in evidenza all’interno della pellicola.
Per quanto attiene ai rapporti interpersonali, è posta in risalto l’amicizia tra Paolo
Borsellino e Giovanni Falcone, ma anche del magistrato e gli altri membri del pool;
amicizie, come nel caso dei due giudici palermitani, nate già ai tempi delle rispettive
infanzie, e maturate nel corso degli anni, complice anche i medesimi luoghi di lavoro.
Anche quando si racconta del loro modo di lavorare, il regista ha sempre cercato di far
trapelare il rapporto di amicizia intercorso tra i due magistrati: erano colleghi, ma
soprattutto amici.
Ovviamente la fiction trasmessa da Canale 5 ha dato risalto anche alla vita lavorativa del
giudice, partendo dal 1980, anno dell’omicidio di Emanuele Basile, capitano dei
carabinieri che sarà barbaramente ucciso dalla mafia e che aveva reso Borsellino partecipe
di quanto aveva scoperto a seguito delle indagini condotte. Il dovere morale e professionale
del giudice lo induce quindi a continuare la pista battuta dal carabiniere; gli viene
assegnata la scorta, e subito dopo entra a far parte del pool antimafia voluto da Rocco
Chinnici. Ogni scena legata al racconto del lavoro del giudice è correlata a scene di vita 10 www.taoduefilm.it
67
famigliare del giudice, o a momenti di relax in compagnia dei colleghi-amici. Anche
quando viene raccontato il trasferimento di Borsellino e Falcone all’Asinara per permettere
la stesura della requisitoria ai fini del maxiprocesso, si parla anche della malattia della
figlia del primo, affetta da anoressia legata proprio alle preoccupazioni relative alla
situazione lavorativa del padre. La strage di Capaci, per esempio, viene raccontata
attraverso gli occhi di Borsellino, vicino tra l’altro all’amico Falcone quando egli esala
l’ultimo respiro; viene dato quindi poco spazio alle scene tradizionali legate all’eccidio del
23 maggio ad appannaggio del racconto di come il procuratore ha vissuto la notizia: la
corsa disperata all’ospedale, le ultime parole rivolte all’amico, l’abbraccio con la figlia che
lo aveva raggiunto presso il nosocomio.
Per raccontare invece della strage di via D’Amelio, che costituisce il tema delle scene
finali della miniserie, sono utilizzate sequenze tratte dai telegiornali dell’epoca; lo stesso
procedimento viene effettuato per raccontare dei funerali di Borsellino, processo già
applicato anche quando si parla delle esequie di Falcone.
Il lavoro della Taodue è stato dunque incentrato molto sui sentimenti e sui valori, non solo
sulla vita lavorativa di Paolo Borsellino. Probabilmente tale scelta stilistica è stata decisa
per andare incontro ai desideri dei fruitori della fiction, che sicuramente hanno apprezzato
una produzione non asettica e non meramente legata al lavoro legislativo del giudice e alla
sua lotta contro la mafia.
Lo stesso filone è stato seguito anche dai produttori della fiction su Giovanni Falcone.
L’omonima fiction, prodotta da Carlo Degli Esposti – realizzatore, in ultimo, della
miniserie Perlasca – è stata molto incentrata sul rapporto tra il giudice e la sua seconda
moglie, Francesca Morvillo, che perirà con lui nella strage del 23 maggio. Si parte dal loro
incontro per arrivare alle nozze, il tutto a corredo della descrizione della vita lavorativa di
Giovanni Falcone. Ampio risalto è inoltre dato alle amicizie con Rocco Chinnici, Paolo
Borsellino e Claudio Martelli. Proprio quest’ultimo, che all’epoca dei fatti era ministro di
Grazia e Giustizia ma soprattutto era per l’appunto amico del giudice siciliano, ha espresso
un giudizio poco favorevole nei confronti della fiction. Egli infatti ha affermato che la
realizzazione manca di alcuni passi importanti della vita di Falcone, come la rottura con la
sinistra politica che bocciò la sua candidatura al Consiglio Superiore della Magistratura,
l’istituzione della Super Procura Antimafia e la possibilità che Falcone ne divenisse il
capo11.
11 C.MARTELLI, A Falcone, eroe scomodo, la tv non fa giustizia, «Oggi», 16 ottobre 2006, pag.25.
68
Effettivamente, bisogna prendere atto che quanto sopra espresso dal politico corrisponde al
vero; la fiction non tratta tali argomenti, nonostante siano rilevanti per la biografia di
Giovanni Falcone. Credo che la motivazione di tacciare tali episodi sia legata alla volontà
di rendere più “umana” e meno asettica la fiction: secondo il mio parere, infatti, anche in
questo caso il regista e il produttore del lavoro hanno tenuto conto dei destinatari del loro
prodotto, e hanno preferito rendere più sentimentale e meno fredda il racconto della vita
del giudice, omettendo fatti importanti ma legati solo alla sua vita professionale. Si è
preferito quindi risaltare la figura del marito premuroso, dell’uomo innamorato, dell’uomo
anche fragile consapevole dei rischi che correva .
Un’altra chiave di lettura potrebbe invece essere questa: si è evitato il discorso politico per
evitare ulteriori polemiche, già scaturite prima della messa in onda dello stesso film.
La pellicola infatti sarebbe dovuta essere trasmessa in occasione del quattordicesimo
anniversario della morte di Falcone, quindi il 23 maggio 2006. Tuttavia, si trattava di
periodo elettorale, e Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso dalla mafia che
ovviamente compare nella fiction di Rai Uno, era candidata alla presidenza della Regione
Sicilia. Per par condicio fu quindi bloccata la messa in onda della fiction, che avrebbe
potuto in qualche modo, tramite messaggi subliminali, indurre la popolazione a votare per
la sorella del magistrato12.
La messa in onda della fiction su Falcone fu accompagnata inoltre da un’ulteriore
polemica, sollevata dal magistrato Vincenzo Geraci, che a suo giudizio si rispecchiava nel
giudice colluso con la mafia Rosario Lo Monaco, tra l’altro personaggio inventato dalla
produzione con il solo intento di personificare tutti gli antagonisti di Giovanni Falcone.
Geraci chiese la sospensione della trasmissione e fece ricorso, ma non vi furono gli estremi
per procedere in quanto il fatto non sussisteva13.
12 F.BATTISTINI, La Rai ferma il film su Falcone: «Par condicio»,« Corriere della Sera», 12 maggio 2006, pag.23. 13 E.COSTANTINI, Bloccate la fiction sul giudice Falcone, «Corriere della Sera», 25 maggio 2006, pag.35.
69
5 I DATI AUDITEL DELLE DUE FICTION
Sia Paolo Borsellino che Giovanni Falcone sono state riconosciute opere di
impegno civile, ed entrambe hanno registrato ascolti record.
Secondo i dati Auditel, la fiction sul giudice siciliano ucciso il 19 luglio 1992 in via
D’Amelio registrò uno share pari al 42% relativo alla prima puntata, trasmessa il 12
novembre 2004, con una media superiore ai dieci milioni di telespettatori; la seconda
puntata, mandata in onda da Canale 5 il giorno successivo, il 13 novembre, registrò uno
share del 55%, con picchi d’ascolto di tredici milioni di telespettatori sintonizzatisi sul
canale nelle scene conclusive della fiction.
Meno alti, ma altrettanto ragguardevoli, gli ascolti della fiction Giovanni Falcone,
trasmessa il 1 e 2 ottobre 2006. La prima puntata ha registrato 7 milioni e 195 mila
spettatori, saliti a 8 milioni per la seconda puntata; la percentuale di share è pari a 27,60
per la prima puntata, e 27,01 per la seconda e conclusiva puntata14.
6 LE RECENSIONI Abbiamo analizzato nelle pagine precedenti il punto di vista dei diversi cineasti
realizzatori dei film e delle fiction, e il successo di pubblico che le stesse hanno ottenuto.
Ma qual è il commento della critica? Questi prodotti del piccolo e del grande schermo sono
stati apprezzati anche da chi ha visionato le pellicole in maniera analitica oppure sono stati
riscontrati dei difetti nella ricostruzione dei fatti che hanno raccontato?
Per rispondere a tali domande ritengo opportuno dare spazio a due recensioni relative
rispettivamente al film di Giuseppe Ferrara sulla vita di Giovanni Falcone e alla fiction su
Paolo Borsellino.
Di seguito riporto la recensione che Lietta Tornabuoni, giornalista de “La Stampa”, scrisse
a proposito del film di cui sopra
Un sufficiente compito di scuola, questo di Ferrara. Una sorta di documento di ciò che è accaduto al giudice Falcone, alla moglie e agli uomini che dovevano proteggerlo. Una strage architettata con
14 www.siaenews.it.
70
diabolica precisione dalla mafia. Dal punto di vista storico possiamo trovare delle motivazioni alla realizzazione del film, ma i risultati cinematografici sono insignificanti. L'invecchiamento è precoce per questi istant-movies, tesi a raccontare il presente per approfittare del momentaneo interesse della gente. La televisione sa far di meglio. Le musiche sono di Pino Donaggio. Successo di pubblico.
Claudio Martelli non ha i boccoli neri ma capelli grigi, non ha la faccia da cherubino gualcito ma energici lineamenti squadrati; e di lui, allora ministro di Grazia e Giustizia, rimproverando l’amico Falcone per aver accettato l’incarico offertogli a Roma, il giudice Borsellino dice: “Ti sei dimenticato che nell’87 Martelli è stato eletto coi voti della mafia?“. Andreotti si vede soltanto di spalle. Lima e Ciancimino sono quasi dei sosia, perché il regista Ferrara ricerca le somiglianze fisiche: “Come Chaplin, che quando fa Hitler lo fa somigliante a Hitler, quando fa Mussolini lo fa somigliante a Mussolini”. Michele Placido però non somiglia a Giovanni Falcone, non ne ha la consapevole calma intelligente e per di più recita davvero male, mentre Giancarlo Giannini è bravo nella parte di Paolo Borsellino. Si vedono nel film Chinnici, Geraci, Cassarà e i Salvo, si citano i Bontade, gli Inzirillo e Totuccio Contorno, Buscetta ha il molle viso ambiguo di Gianni Musy, Anna Bonaiuto interpreta bene Francesca Morvillo, la moglie di Falcone che venne uccisa con lui e con gli uomini della scorta: alternando conversazioni o conciliaboli e ammazzamenti crudeli, il film ricostruisce parte della vita e la morte del giudice Falcone e oltre dieci anni terribili a Palermo, proprio nel momento in cui la magistratura siciliana è più discussa. I misteri d’Italia senza vero mistero hanno anche questo di particolare: durano da tanto tempo e per tanto tempo, vengono periodicamente e strumentalmente resuscitati da rivelazioni talmente contraddittorie, sono nutriti da notizie melodrammatiche così incerte e confuse, che nella memoria dei cittadini restano come un guazzabuglio faticoso e scoraggiante, inestricabile al punto da indurre a rinunciare a capire. Alcuni registi (Giuseppe Ferrara, Pasquale Squitieri, Marco Risi) hanno tentato con i loro film (Cento giorni a Palermo e Il caso Moro, Il pentito, Il muro di gomma) di riassumere e chiarire, sintetizzare e far capire, condensare all’essenziale alcuni eventi o momenti cruciali del Grand Guignol italiano. Lo hanno fatto, naturalmente, dal proprio punto di vista: suscitando sempre reazioni violente, polemiche, proteste e azioni giudiziarie dei protagonisti o coprotagonisti di quegli episodi, dei parenti o degli amici gelosi della memoria di quei personaggi così vicini nel tempo, dei politici, giornalisti o specialisti più esperti sul tema pronti a condannare inesattezze magari inessenziali. Lo hanno fatto, naturalmente, nel proprio stile, che non è precisamente quello del docudrama all’americana, piuttosto quello della narrazione popolare: suscitando sempre la deplorazione o anche l’orrore della critica cinematografica ma anche successi di pubblico, se sono esatte le cifre fornite dal regista Ferrara secondo il quale Cento giorni a Palermo (sull’assassinio del generale Dalla Chiesa e di sua moglie) e Il caso Moro (sul rapimento e l’uccisione del presidente democristiano da parte delle Brigate Rosse) hanno raccolto circa un milione di spettatori e circa 10 milioni di telespettatori al primo passaggio televisivo seguito poi da diverse repliche tv. Magari bruttissimi, Giovanni Falcone e i suoi simili sono insomma film anomali. Appartengono a quel genere più contemporaneo di film politico che, partendo da un preciso punto di vista, tenta abbastanza disperatamente di mettere ordine e fare chiarezza nella sanguinosa cronaca italiana recente: sarà anche per questo che dispiacciono a tanti e si attirano tanti guai15. Come si evince dalla lettura di quest’articolo, il film di Ferrara sembra non aver registrato i consensi della critica: si parla di una buono ricostruzione storica, ma per il resto sembra che la pellicola sia insignificante e destinata a non essere ricordata nel tempo. Decisamente diversa invece la recensione sulla fiction trasmessa da Canale 5 nel 2004. Si tratta del primo prodotto televisivo realizzato su un personaggio anti mafia: prima di allora
15 L.TORNABUONI, Il film sulla vita di Falcone «La Stampa», 29 ottobre 1993.
71
il piccolo schermo aveva solamente trasmesso documentari, immagini di repertorio e i film proiettati tempo prima al cinema. Il commento questa volta è decisamente più benevolo. Liberamente ispirato alla vita del giudice Paolo Borsellino, il film, narra gli avvenimenti che portarono alla sua uccisione in un attentato nel luglio del 1992. L'epilogo del film è già noto e la narrazione segue uno schema pressappoco lineare, ma il regista riesce comunque a creare suspense e interesse nello spettatore. Il film è ben diretto, come del resto molti film italiani su argomenti simili (Uno bianca, Il sequestro Soffiantini). Le vicende narrate, e il messaggio a esse collegato, troveranno in alcuni spettatori terreno fertile, mentre lasceranno indifferenti molti altri anche a causa della notorietà degli avvenimenti a cui esso fa riferimento. Gli attori recitano bene, anche se a volte faticano nelle scene più impegnative. Le musiche sono all'altezza del resto della pellicola. Insomma, un film ben costruito, ma basato su un argomento molto inflazionato. Incapace quindi di dare reali motivazioni alla sua visione, a meno che, ovviamente, non si sia appassionati di questo genere. In definitiva, un film interessante da vedere quando lo trasmettono in televisione16. Purtroppo non sono invece presenti recensioni su Cento giorni a Palermo e a proposito della fiction trasmessa da Rai Uno sul magistrato Falcone. Tuttavia, da entrambi i commenti di cui sopra credo si possa desumere che questi prodotti sono apprezzati soprattutto dagli “addetti ai lavori” e dagli estimatori del genere. Ottengono ottimo riscontro di pubblico ma non sempre la critica è favorevole. Il fatto che in ventiquattro anni siano stati prodotti solamente due film e altrettante fiction sulla vita di questi tre personaggi credo sia significativo: sicuramente si tratta di un impegno lavorativo e civile non indifferente, ma soprattutto nuove produzioni in qualche modo rischierebbero di inflazionare quelle già esistenti. Il fatto che il pubblico continua tuttavia a vedere queste pellicole e ad apprezzarle è un dato sicuramente positivo, sintomo della sensibilità della popolazione verso tali argomenti.
16 www.spaziofilm.it.
72
CAPITOLO V PAGINE DI MAFIA
L’editoria si è occupata di mafia in diversi modi e analizzandone diversi aspetti . Vi
sono state pubblicazioni monografiche, oppure biografie scritte da giornalisti o da
famigliari delle vittime. L’obiettivo è sicuramente quello di non dimenticare quanto
accaduto, ma anche di aiutare a riflettere: le immagini di un film sono di forte impatto ma
vengono subito accantonate per lasciare spazio ad altre sequenze; la lettura, come è ovvio,
si presta a maggiori riflessioni.
La bibliografia sulla mafia è sicuramente vasta, ma lo stesso non si può affermare per
quanto riguarda le biografie: sono riconosciute come ufficiali solamente una biografia per
il generale Dalla Chiesa e altrettante, una ciascuna, per i giudici Falcone e Borsellino. Nel
primo caso è stata realizzata dal figlio Nando, mentre negli altri due casi è stata affidata a
due giornalisti che conoscevano bene chi avrebbero dovuto descrivere: Francesco La
Licata ha dunque redatto la biografia su Falcone, e Umberto Lucentini quella su
Borsellino; entrambi tuttavia si sono avvalsi della collaborazione della famiglia delle
vittime.
1
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Nando Dalla Chiesa, figlio del generale, ha scritto molti libri inerenti all’argomento
mafia, ma riguardo alla figura del padre se ne annoverano solamente due.
La vera e propria biografia si intitola In nome del popolo italiano e fu pubblicata nel 1997.
Attraverso la sua lettura, si ha come l’impressione di conoscere meglio la figura del
prefetto, che in quelle pagine viene proposta meno austera e più umana e affettuosa; ampio
spazio viene infatti dedicato alla vita privata del generale: a come ha conosciuto la prima
moglie, Dora, al suo rapporto con i tre figli (Nando, Rita e Simona), e a come cercava di
essere vicino al proprio nucleo famigliare nonostante il lavoro lo portasse a cambiare
spesso città senza dargli la possibilità, in molte occasioni, di essere seguito da consorte e
prole.
Nando Dalla Chiesa ripercorre le tappe della carriera militare del padre, già figlio di
carabinieri. Racconta dell’educazione rigida che era stata imposta a Carlo Alberto Dalla
73
Chiesa e che lui, una volta divenuto padre, ha trasmesso ai figli. Ampio spazio è dato al
rapporto tra il generale e la moglie: viene presentato un uomo profondamente innamorato
della propria donna, consapevole che a causa del suo lavoro lei era costantemente sotto
pressione, vittima di ansie e con il peso di crescere da sola tre figli.
Un intero capitolo viene dedicato al rapporto epistolare intercorso tra i coniugi Dalla
Chiesa: credo che si tratti di una scelta stilistica dell’autore atta a far meglio conoscere il
lato umano legato alla vita privata e affettiva del generale. Ritengo infatti che la biografia
di un personaggio così importante non potesse essere limitata alla sua vita professionale;
inoltre, l’aspetto della vita privata, proprio perché trattato dal figlio, è proposto in maniera
molto delicata, quasi in punta di piedi per non ledere l’intimità di una persona che non c’è
più. Credo infine molto utile la scelta di raccontare alcuni passaggi della vita del generale
tramite lettere di diario personale che egli aveva redatto nel corso degli anni; scritture
intime e sentite che meglio di qualsiasi altro racconto potrebbero descrivere la reale figura
del prefetto di Palermo.
Il libro è corredato da una serie di fotografie accompagnate dalle relative didascalie; tali
istantanee sono suddivise in due gruppi: quelle legate alla sfera privata, e quelle relative
all’ambiente pubblico e professionale; un’ulteriore scelta idonea atta a coinvolgere
ulteriormente il lettore.
In nome del popolo italiano risulta essere la biografia ufficiale del generale Carlo Alberto
Dalla Chiesa. Tuttavia, vi è un altro libro, sempre scritto dal figlio, che si pone l’obiettivo
di raccontare quantomeno gli ultimi mesi di vita dell’uomo, quelli che l’hanno visto
prefetto a Palermo. Delitto imperfetto, questo il titolo, fu pubblicato nel 1985, quindi
dodici anni prima della biografia e a distanza di due anni dall’assassinio del generale,
avvenuto il 3 settembre 1982.
Il taglio adottato per quest’opera letteraria è decisamente diverso: Nando Dalla Chiesa
parla in prima persona, e leggendolo si ha l’impressione che egli abbia cercato uno sfogo
attraverso la scrittura di tale libro. Sono raccontati gli ultimi mesi di vita del prefetto, ma
sempre visti attraverso gli occhi del figlio: che cosa stava facendo in quel periodo mentre il
padre era impegnato a Palermo, i pensieri che aveva quando leggeva le prime pagine dei
quotidiani o quando accendeva il televisore, il suo ultimo ricordo del padre. Insomma,
tramite la lettura di tale pubblicazione si viene più che altro a conoscenza dei sentimenti
del figlio del generale, e non si conosce la sua figura, il suo modo di lottare contro la mafia
e il suo lavoro svolto per raggiungere tale obiettivo. E’ vero che la biografia ufficiale è il
libro edito nel 1997 e non quello del 1985, ma è altrettanto vero che, approcciandosi alla
74
lettura del secondo, si presuppone di poter conoscere qualche ulteriore aspetto del prefetto
di Palermo fino a quel momento sconosciuto o perlomeno poco noto. Tuttavia, sono
toccanti le pagine in cui Nando Dalla Chiesa racconta del dolore personale per la perdita
del genitore, di come ha appreso la notizia, delle reazioni e di come abbia vissuto quei
giorni; ai figli, concetto che sarà ribadito più e più volte, è stata negata la possibilità di
piangere liberamente e di sfogare la loro rabbia, in quanto erano sotto i riflettori e gli
obiettivi delle macchine fotografiche.
Una curiosità. I giornali, quando avevano annunciato la morte di Carlo Alberto Dalla
Chiesa, avevano diramato la notizia secondo la quale anche il figlio del generale aveva
appreso della strage di via Carini attraverso la televisione. In realtà, è stato un cugino dello
stesso a informarlo dell’accaduto, e solo in un secondo momento Nando Dalla Chiesa,
come lui stesso racconta nel libro, ha acceso il televisore e ha letto la scritta che era
trasmessa in sovrimpressione1. Difficile entrare nel merito della questione per comprendere
se allora i quotidiani diedero tale notizia per far passare un messaggio di importanza dei
mass-media o se semplicemente vi fu un errore di trasmissione di tale notizia. Rimane
tuttavia evidente una discrepanza tra la verità e quanto affermato dai giornali…
2
STORIA DI GIOVANNI FALCONE
L’unica biografia autorizzata dalla famiglia d’origine del giudice Giovanni Falcone,
costituita dalle sue due sorelle Anna e Maria, è stata redatta da un giornalista, ma
soprattutto da un amico del magistrato. Si tratta di Francesco La Licata, che da sempre ha
scritto di mafia e che con Falcone aveva instaurato un vero e proprio rapporto di amicizia;
è per volontà delle sorelle che il giornalista ha potuto prendere in mano carta e penna e
scrivere della vita privata e pubblica del giudice ucciso il 23 maggio 1992, avvalendosi
proprio della loro testimonianza. Il libro fu edito nel maggio 1993, in occasione del primo
anniversario della strage di Capaci, e fu recensito sulle pagine dei maggiori quotidiani,
compreso “La Stampa”. La testata piemontese, nella sezione “Società&Cultura”, dedicò al
libro, in uscita il giorno successivo, un’intera pagina a firma di Francesco La Licata,
all’interno della quale venivano riproposti i passi più importanti del libro, divisi in quattro
1 N.DALLA CHIESA, Delitto imperfetto, Cles, Mondadori, 1985, pag.122.
75
macro settori: il rapporto con il padre, la vita blindata, l’isolamento a Palermo, la notizia
dell’attentato appresa dalle sorelle2.
In effetti si può sintetizzare secondo gli argomenti sopraccitati la biografia sul giudice
palermitano. Una cronaca avvincente che miscela magistralmente aspetti della vita privata
con lati della vita pubblica, la personalità carismatica e forte del personaggio del foro con
quella fragile dell’uomo innamorato che cercava di non coinvolgere la moglie nelle sue
vicende lavorative e nei rischi ad esse correlate. Tutti gli episodi della sua vita che sono
stati narrati sulle pagine del libro in oggetto sono raccontate in modo più asettico (come se
fosse un articolo di cronaca) dal giornalista, e in maniera più soggettiva dalle due sorelle di
Falcone, che parlano in prima persona. Il risultato è un lavoro coinvolgente che permette di
apprezzare ulteriormente la figura del giudice antimafia: gli aspetti famigliari sono trattati
dalle sorelle, i rapporti interpersonali raccontati da chi, come La Licata, l’ha conosciuto in
maniera profonda, il tutto però senza tralasciare l’aspetto professionale della vita del
magistrato, anzi.
Il senso del libro è riassunto in queste parole della sorella Maria: «Credo sia giusto far
sapere come si sono svolti certi fatti. La gente è abituata all’idea del supergiudice,
onnipotente, forse un po’ arrogante. Che ne sa, la gente, delle piccole frustrazioni
quotidiane, delle delusioni, degli smarrimenti di un uomo che inspiegabilmente è stato
osteggiato proprio da chi avrebbe dovuto amarlo di più. Che ne sa, la gente, della vita triste
di Giovanni Falcone?»3.
I lettori, al termine della lettura, avranno l’impressione di aver saputo qualcosa in più sulla
vita di Falcone, non solo privata, ma anche professionale, e per questo lo apprezzeranno
ulteriormente. Ritengo infine che affidare la stesura del libro a Francesco La Licata sia
stata una scelta strategica volta a far raccontare la figura di Falcone da chi lo aveva
conosciuto bene e poteva attingere dai propri ricordi personali ai fini delle descrizioni. Il
modo migliore per commemorare le persone che non ci sono più è infatti quello di affidarsi
al ricordo, quando e se possibile, di chi le ha conosciute e amate in vita; in questo modo si
otterrà una descrizione puntuale, sentita e veritiera di quel personaggio.
2 F.LA LICATA, Falcone, appuntamento con la Piovra, «La Stampa», 18 maggio 1993, pag.15. 3 F.LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Bergamo, Mondadori, 1993, pag.1.
76
3
IL VALORE DI UNA VITA
Il meccanismo adottato per la realizzazione del libro sulla vita di Giovanni Falcone
fu ripreso anche per la stesura della biografia di Paolo Emanuele Borsellino. Il libro Paolo
Borsellino, il valore di una vita, fu nelle librerie alla fine del 1993, ad un anno e qualche
mese di distanza dal primo anniversario della strage di via D’Amelio. A scrivere tale
biografia il giornalista Umberto Lucentini, amico del procuratore di Marsala, insieme alla
vedova Borsellino e ai suoi tre figli Lucia, Manfredi e Fiammetta.
Le tappe toccate nel libro sono simili a quelle delle biografia su Giovanni Falcone:
l’infanzia, il rapporto con i genitori; gli studi universitari;i primi lavori presso il tribunale
per poi approdare alle prime, importanti inchieste; il suo amore verso la moglie e i figli; il
suo rapporto di amicizia con Giovanni Falcone e la consapevolezza di essere rimasto da
solo a combattere la mafia dopo la morte di quest’ultimo. L’obiettivo del libro non è
solamente raccontare Paolo Borsellino, ma cercare Paolo Borsellino, come spiega lo stesso
autore dello scritto: cercare di comprendere l’uomo che realmente era, così attaccato al
lavoro e ai suoi affetti, così scrupoloso e meticoloso. L’unico modo per far emergere tali e
altre caratteristiche è quello di provare a ricordarlo attraverso le pagine di questo libro, con
le testimonianze di chi lo ha amato più di tutti: la moglie e i figli.
L’intento riesce perfettamente. Alla fine del libro non solo si pensa di conoscere qualcosa
in più di Paolo Borsellino, ma è come se si fosse riusciti a entrare in punta di piedi
nell’ambito della sua sfera famigliare, grazie ai racconti dei suoi cari, che lo ritraggono
come marito e padre esemplare.
Il tutto in maniera dignitosa, senza cadere nel vittimismo o nel pietismo, e questo rende il
libro ancora più apprezzabile. Dalle prime pagine si evince inoltre che in qualche modo la
stesura del libro è stata terapeutica per la vedova e i figli, che ricostruendo la vita del loro
caro sono riusciti a far trasparire «una piccola goccia di quel mare di rabbia e di sconforto
da cui eravamo inondati nell’immediatezza del tuo distacco»4, rivolgendosi ipoteticamente
proprio a Paolo Borsellino.
4 Ibidem.
77
4
CONFRONTI
Le tre diverse biografie riportano delle differenze ma al tempo stesso delle analogie
tra di loro. Tutti i libri analizzati sono stati scritti dai famigliari delle vittime, ma in due
casi su tre la stesura vera e propria è stata affidata a giornalisti, per raccontare anche in
maniera oggettiva gli aspetti della vita di questi personaggi.
Le biografie di Falcone e Borsellino sono uscite a un anno dalle loro morti: un ulteriore
modo per commemorarli, con testimonianze e ricordi di chi li ha conosciuti e amati;
diversa invece la questione attinente a Dalla Chiesa, considerato il fatto che In nome del
popolo italiano fu pubblicato a distanza di quindici anni dalla morte del generale; certo,
solo tre anni dopo la sua morte apparve il primo libro, ma come accennato in precedenza,
Delitto imperfetto ha più il sapore di uno sfogo figliale.
La veridicità degli scritti non è solamente data dalle fonti dei racconti, ma anche dagli atti
pubblici che sono stati pubblicati al loro interno: discorsi ufficiali pronunciati in diverse
occasioni, che trovano riscontro anche all’interno delle pellicole, come i discordi di Carlo
Alberto Dalla Chiesa ai genitori dei tossicodipendenti o agli operai dei cantieri navali,
oppure le conferenze presiedute da Giovanni Falcone presso i licei, o ancora il discorso di
commemorazione proprio in memoria di Falcone pronunciato da Paolo Borsellino
(riportato sia sulle pagine del libro che nella fiction omonima).
Simile invece l’indice dei tre libri: si parte dall’infanzia dei personaggi per giungere alla
loro maturità professionale, culminata a Palazzo di Giustizia per quanto attiene i due
giudici, presso le caserme dell’intera Italia per quanto riguarda il generale, che rimarrà tale
fino alla sua nomina da Prefetto, quattro mesi prima di morire.
Le testimonianze dei famigliari sono invece proposte in maniera diversa: nelle biografie
dei due magistrati si alternano con il racconto dei giornalisti autori dei libri, mentre in
quella del generale emerge in contemporanea con la descrizione della vita stessa del
prefetto: l’autore ricorda la vita del prefetto, ma essendone il figlio si lascia trasportare dai
ricordi personali.
Il supporto fornito dai giornalisti è stato molto importante, in quanto ha permesso una
scrematura dei ricordi che dovevano rimanere personali ad appannaggio di quelli che
potevano divenire di dominio pubblico, una selezione che non è stata effettuata nell’ambito
della biografia sul generale Dalla Chiesa, mettendo in qualche modo il lettore in condizioni
di disagio, come se si sentisse reo di ledere l’intimità di una persona che non c’è più; un
78
sentimento che personalmente ho provato durante la visione delle lettere che il generale
inviava alla moglie, dense di amore ma ininfluenti ai fini della biografia.
Credo inoltre sia significativo il fatto che in tutti questi anni siano state scritte solo tre
biografie su questi personaggi: un lavoro certosino e impegnativo, ma soprattutto sinonimo
di sofferenza se svolto da chi era vicino a queste personalità. Infine, ritengo che scrivere
ulteriori libri sulla loro vita significherebbe in qualche modo screditare quelli già esistenti,
che invece sono prodotti editoriali ben confezionati e destinati, come si è visto, a durare nel
tempo.
79
BIOGRAFIE
CARLO ALBERTO DALLA CHIESA
Il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa nasce a Saluzzo, in provincia
di Cuneo, nel 1922, da padre parmigiano e madre piacentina. Intraprende la carriera
militare a partire dal 1941 quale allievo ufficiale volontario, per poi entrare ufficialmente
nel corpo l’anno successivo in seguito al superamento del concorso. I suoi primi successi
personali sono legati alla sua reggenza come comandante a San Benedetto del Tronto, per
poi passare alla guida di bande partigiane all’indomani della sigla dell’armistizio.
L’incarico gli vale la cittadinanza onoraria a San Benedetto ma soprattutto la promozione a
ufficiale di complemento, oltre alla medaglia per meriti di guerra. Contemporaneamente, si
laurea in Giurisprudenza presso l’università di Bari con la votazione di 110 e lode, la stessa
che ottenne pochi anni più tardi con la seconda laurea, questa volta in scienze politiche.
Con la liberazione di Roma viene destinato al comando della tenenza di Parioli che resse
fino al 12 aprile 1945, quando viene inviato al seguito della Quinta armata americana al
fine di organizzare il gruppo carabinieri di Parma; l’anno dopo il trasferimento a Casoria,
in provincia di Napoli, con il compito di dirigere il settore antibrigataggio. Erano gli anni
della banda Giuliano, e per Carlo Alberto Dalla Chiesa si trattò di una sorta di “battesimo”
alla lotta contro la criminalità organizzata1.
La prima vera e propria sfida contro la stessa il Generale però l’ha avuta in seguito
all’omicidio di un giovane sindacalista, Placido Rizzotto, assassinato per conto di Luciano
1 R.S., Le battaglie di Dalla Chiesa contro il terrorismo, «La Stampa», 4 settembre 1982, pag.5.
80
Liggio, astro nascente della criminalità organizzata. Era il 1948, e l’allora capitano Dalla
Chiesa pose per la prima volta piede sulla terra di cui si innamorò profondamente, tanto
che spesse volte ripeteva di essere afflitto dal “mal di Sicilia”. Le indagini minuziose del
militare conducono ai nomi dei mandanti dell’assassinio, ma il processo si conclude con
una totale assoluzione2.
Nel 1964, cinque mesi dopo il suo arrivo nella Capitale, Carlo Alberto Dalla Chiesa viene
trasferito all’ufficio addestramento della Legione allievi carabinieri di leva di Torino. Nel
luglio del 1966, in attesa della promozione a colonnello, deve scegliere se porsi al
comando della Legione di Palermo o Trento: Dalla Chiesa sceglie il capoluogo siciliano,
catapultandosi suo malgrado per la prima volta verso la notorietà nazionale ma soprattutto
rispondendo al suo amore verso l’isola3.
Siamo nel 1974, e in qualità di generale di brigata il carabiniere viene trasferito a Torino,
dove diventa il nemico per antonomasia delle Brigate Rosse, impiegandosi in prima
persona per debellare il terrorismo e per arrestare Renato Curcio; un incarico sicuramente
non facile nel clima di terrore di quegli anni, culminati con il sequestro e la morte di Aldo
Moro nel 19784.
Proprio quest’ultimo fu, dal punto di vista personale, un anno devastante per Dalla Chiesa.
Il 19 febbraio muore d’infarto sua moglie Dora: un’unione matrimoniale felice iniziata il
19 luglio 1946 e dalla quale erano nati Rita, nota giornalista e conduttrice televisiva;
Nando, esponente politico e docente presso l’università Bocconi di Milano, e Simona. Un
lutto che lo costringerà mai quanto prima a riflettere su quanto il suo lavoro abbia fatto
«soffrire in silenzio i miei cari» come lui stesso dichiarò nell’intervista rilasciata a Giorgio
Bocca venti giorni prima – era il 10 agosto - dell’attentato. Uno sconforto e uno stato
d’animo che si riescono ad evincere anche attraverso le lettere inviate alla moglie durante i
lunghi periodi di lontananza e le pagine di diari personali tenuti dallo stesso Dalla Chiesa,
documenti resi pubblici dal figlio nel volume biografico In nome del popolo italiano5.
Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta la Sicilia è funestata da una serie
di omicidi di matrice mafiosa: il 21 luglio 1979 fu ucciso Boris Giuliano, il 25 settembre
2 N.DALLA CHIESA, In nome del popolo italiano, Bergamo, Nuovo Istituto Italiano di Arti Grafiche, pag.60. 3 N.DALLA CHIESA, In nome del popolo italiano, Bergamo, Nuovo Istituto Italiano di Arti Grafiche, pag.104. 4 Cfr. nota n.1 pag 79. 5 N.DALLA CHIESA, In nome del popolo italiano, Bergamo, Nuovo Istituto Italiano di Arti Grafiche, pagg.358-363.
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dello stesso anno Cesare Terranova, mentre il 6 gennaio ed il 6 agosto del 1980 trovarono
la morte rispettivamente Piersanti Mattarella e Gaetano Costa.
Alla fine dell’aprile del 1982, Carlo Alberto Dalla Chiesa fu nominato prefetto di Palermo.
Il suo insediamento avvenne il 2 maggio, lo stesso giorno dei funerali di Pio La Torre,
parlamentare comunista assassinato il 30 aprile. A posteriori l’impressione comune è che il
generale sia stato mandato lì per essere allontanato, in quanto personaggio scomodo non
solamente alla mafia ma anche alla politica e all’imprenditoria italiana; un modo elegante
per isolarlo, per impedirgli di svolgere al meglio il proprio lavoro. Il Prefetto sapeva di
combattere da solo una battaglia difficile, e continuava a ripetere che «muore solo chi
viene lasciato solo». Una sorta di premonizione.
Nel corso del suo mandato, Carlo Alberto Dalla Chiesa dovette scontrarsi con
l’ostruzionismo di molte personalità, reticenti di fronte alle sue richieste di accesso a
determinate tipologie di documenti a scopo investigativo. In cento giorni il militare riuscì a
conquistare la fiducia dei siciliani e dei palermitani in modo particolare, e stava ponendo le
basi per lavorare al meglio anche a Palermo.
Numerosi gli interventi in veste di oratore del generale Dalla Chiesa: oltre che quelli
avvenuti nell’ambito delle cerimonie ufficiali in occasione dei diversi anniversari per la
fondazione dell’Arma, vanno menzionati anche quelli avvenuti all’interno delle scuole e
delle comunità di recupero per tossicodipendenti.
Il 10 luglio del 1982 sposò in seconde nozze Emanuela Setti Carraro, una trentaduenne
crocerossina che con lui trovò la morte la sera del 3 settembre 1982. I due coniugi erano
seguiti dall’auto di scorta guidata dall’agente Domenico Russo, il quale, trasportato
all’ospedale, spirò dopo pochi giorni.
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GIOVANNI FALCONE
Giovanni Falcone nasce a Palermo, al primo piano di un palazzo antico di via
Castrofilippo, il 18 maggio 1939, terzogenito preceduto da due sorelle, Anna e Maria. La
sua era una famiglia appartenente al ceto medio alto, che tuttavia visse tempi duri
uniformemente agli altri con lo scoppio della seconda guerra mondiale ed il correlato
pericolo di bombardamenti, che costrinse la famiglia Falcone a trasferirsi a Corleone6.
Il futuro giudice del pool antimafia si diplomò al liceo classico con il massimo dei voti, e
scelse come prosecuzione agli studi l’Accademia Navale, che offriva una duplice
possibilità di sbocco: la laurea in ingegneria o la carriera militare. La sua propensione era
maggiormente legata alla prima eventualità, ma il giovane Falcone, che dimostrava di
avere attitudine al comando, fu inviato allo Stato maggiore. Ne conseguì il suo immediato
allontanamento per sua sponte dall’Accademia livornese, il suo ritorno a Palermo e
l’iscrizione alla facoltà di legge. Nel 1961 conseguì la laurea con lode esponendo una tesi
dal titolo Istruzione probatoria in diritto amministrativo7.
L’anno dopo, dopo aver vinto il concorso in magistratura, ottenne il suo primo incarico
come pretore a Lentini. Contestualmente, conobbe ad una festa Rita Bonnici, che sarebbe 6 F.LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Milano, Rizzoli, 1993, pag.23. 7 F.LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Milano, Rizzoli, 1993, pagg.33-42.
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diventata sua moglie. Quattordici anni di matrimonio senza figli, sfociati in una
separazione che il giudice visse con dolore anche a causa del clima di maldicenze dei
salotti trapanesi, colmi di chiacchiere dopo la notizia che l’addio definitivo della moglie
era legato alla sua scelta per un altro magistrato che era stato il capo dello stesso Falcone.
Già, salotti trapanesi, perché nel frattempo il pretore era stato trasferito a Trapani, con
soddisfazione da parte del diretto interessato che non ricordò mai con piacere il periodo
trascorso a Lentini8.
Il vero impatto con Cosa Nostra Giovanni Falcone l’ebbe quando si confrontò contro le
cosche del Trapanese, in modo particolare con il boss Mariano Licari; tuttavia il processo
contro i mafiosi non ebbe l’esito sperato dai legali dell’accusa, e questo fu vissuto da
Falcone come un’importante sconfitta non solo personale ma dell’intera giustizia9.
Nel 1978, Rocco Chinnici, consigliere istruttore palermitano, contatta Giovanni Falcone
per domandargli di trasferirsi all’ufficio istruzione di Palermo. Si stavano ponendo le basi
per il pool antimafia del quale sarebbero entrati a far parte anche Paolo Borsellino, Ninni
Cassarà e Beppe Montana, ma di questo i diretti interessati ne erano per il momento del
tutto ignari. Falcone accettò l’incarico ed approdò al palazzo di giustizia palermitano e alla
magistratura penale.
La prima inchiesta verteva sui traffici illeciti, quelli che costituiscono la nuova mafia,
l’altra faccia della medaglia della criminalità organizzata: droga, armi, contrabbando,
banconote contraffatte. Giovanni Falcone si imbatté nel clan di Sindona: per sua mano
avevano già trovato la morte il vicequestore Boris Giuliano e il capitano dei carabinieri
Emanuele Basile, oltre al procuratore Gaetano Costa. Si era intuito che si trattava di
un’inchiesta scottante che andava a minare l’incolumità dello stesso Falcone, al quale
proprio in quell’occasione fu assegnata la scorta. Era il 1980. Da allora per lui nulla fu più
come prima. Il magistrato si muoveva con quattro auto al seguito, con le sirene e i
lampeggianti azionati, e un nugolo di poliziotti armati di mitragliette e con indosso i
giubbotti antiproiettili: una situazione che non passava sicuramente inosservata nella realtà
palermitana che viveva attonita un simile evento. In tali circostante, con una vita blindata e
un nuovo incarico presso il Palazzo del capoluogo piemontese, Giovanni Falcone conosce
Francesca Morvillo, anche lei separata, magistrato in forze alla Procura dei minorenni,
figlia e sorella d’arte: diventerà la sua seconda moglie nel 1986, che lo affiancherà fino al
tragico 23 maggio 1992, trovando anche lei la morte nella strage di Capaci.
8 F.LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Milano, Rizzoli, pag.43. 9 F.LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Milano, Rizzoli, 1993, pag.51.
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Il 29 luglio 1983 un’autobomba uccise Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Un
monito per far comprendere che gli uomini che lottavano contro la mafia non erano
intoccabili anche se erano seguiti da degli angeli custodi, e che soprattutto i magistrati
avevano toccato aspetti importanti e scottanti legati alla criminalità organizzata di Palermo.
I “superuomini” come sono stati apostrofati da molti continuano il loro lavoro, e pongono
le basi per il maxiprocesso dell’8 novembre 1985. A Ninni Cassarà, poliziotto, non è data
la possibilità di vederlo concretizzato nell’aula bunker: il 6 agosto 1985 un attentato lo
uccide. Rimangono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, poiché il 28 luglio dello stesso
anno era stato massacrato anche Beppe Montana, collega di Cassarà.
Da quel momento fino al 16 dicembre del 1987, data in cui fu letta la sentenza del
maxiprocesso, i due superstiti si buttarono a capofitto nella requisitoria dello stesso:
l’ordinanza prevedeva il rinvio a giudizio per 475 imputati; fu il più imponente processo
alla mafia che si fosse mai sviluppato. Falcone e Borsellino furono invitati a proseguire il
loro lavoro in vista dell’evento all’Asinara, lontani da tutti, attorniati solo dalle loro
rispettive famiglie e scorte. Paradossalmente, a sentenza avvenuta, i due magistrati si
videro recapitare il conto dallo Stato per aver usufruito di bevande extra durante la loro
permanenza sull’isola10.
La ghettizzazione vera e propria di Giovanni Falcone avvenne però nel 1988, all’indomani
delle dimissioni di Antonino Caponnetto, consigliere istruttore subentrato a Chinnici. Molti
davano il magistrato come naturale successore del consigliere, ma non fu così. La nomina
fu per Antonino Meli.
Nell’estate del 1989, alla villa dell’Adduara, esplose una bomba con il chiaro intento di
uccidere Giovanni Falcone e sua moglie. In quell’occasione l’uomo fu pienamente
consapevole che la sua vita e quella di chi gli stava accanto erano in serio pericolo. Alla
famiglia e agli amici intimi ripeteva che forse una separazione sarebbe stata la cosa
migliore per preservare l’incolumità della sua signora, e riflettendo sul fatto di non essere
diventato padre sentenziava «Non voglio mettere al mondo degli orfani».
Poi il trasferimento da Palermo a Roma. Il 13 marzo 1991 Giovanni Falcone iniziò a
lavorare al ministero di Grazia e Giustizia, alla direzione dell’ufficio Affari Penali su
richiesta dello stesso ministro Claudio Martelli. Si tratta di un periodo sereno per il
magistrato, lontano da Palermo e sempre più vicino al posto tanto ambito da capo della
Superprocura11.
10 S.LUPO, Storia della mafia, Roma, Donzelli, 1994. 11 F. LA LICATA, Storia di Giovanni Falcone, Rizzoli, 1993, pag.173.
85
Il 30 gennaio dell’anno dopo la Cassazione conferma la sentenza del maxiprocesso e gli
ergastoli inflitti agli imputati. Per Falcone si tratta di una vera e propria vittoria, ma per
Cosa Nostra è una sconfitta troppo bruciante per non vendicarla…E si consumò il 23
maggio 1992.
Giunto a Palermo da Roma a Punta Raisi intorno alle 17, Giovanni Falcone sale alla guida
della Fiat Croma bianca con a fianco la moglie Francesca Morvillo e seguito dagli uomini
della scorta. Sull’autostrada all’altezza dello svincolo per Capaci, un’autobomba fa saltare
in aria l’auto del magistrato e quelle della sua scorta. Giovanni Falcone e la moglie
vengono trasportati d’urgenza all’ospedale di Palermo, dove periranno nel corso della
serata.
86
PAOLO EMANUELE BORSELLINO
«Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla, perché il vero amore
consiste nell’amare ciò che non piace per poterlo cambiare». Ha lavorato una vita Paolo
Borsellino per portare a termine il suo obiettivo di cambiare ciò che non gli piaceva,
ovvero il lato criminale, omertoso del capoluogo siciliano. Rischiando in prima persona.
Fino alla morte12.
Figlio di farmacisti, il magistrato siciliano nacque il 19 gennaio 1940 nel quartiere
“Magione” di Palermo. La sua carriera scolastica lo condusse a conseguire la maturità
classica prima e la laurea in giurisprudenza poi: Il fine dell’azione delittuosa il titolo della
12 U.LUCENTINI, Paolo Borsellino, il valore di una vita, Cles, Mondadori, 1993, pag.3.
87
tesi, 110 e lode la votazione finale. L’anno successivo, il 1963, superò il concorso per
entrare in magistratura e dopo pochi anni fu destinato alla Pretura di Mazara del Vallo.
Il 14 settembre 1965 Paolo Borsellino inizia la sua vera vita da magistrato, presso la
sezione civile del tribunale di Enna: in forze dal lunedì al venerdì, i fine settimana trascorsi
con la famiglia d’origine a Palermo. L’incarico fu effimero, seguito dal trasferimento a
Mazara del Vallo. Nel frattempo, nel dicembre del 1968 si sposa con Agnese Piratino,
dalla cui unione nasceranno, nell’ordine, Lucia, Manfredi e Fiammetta. Nel 1969, in
contemporanea con la strage di Piazza Fontana a Milano, a Borsellino è affidato l’incarico
presso la pretura di Monreale.
Il primo vero approccio con la mafia lo ebbe a fianco del capitano dei carabinieri
Emanuele Basile, agli inizi degli anni Ottanta. Un rapporto di rispetto, stima e fiducia: il
militare stava indagando sulla morte di Boris Giuliano, capo della squadra mobile di
Palermo, e si confrontava sempre con il magistrato. Basile viene ucciso il 4 maggio del
1980 durante una festa di paese. Da quel momento la vita di Paolo Borsellino e della sua
famiglia cambia: all’uomo e ai suoi cari viene assegnata una scorta. Una situazione che il
magistrato vive in maniera angosciata, si sente privo di compiere qualsiasi gesto normale,
di passare delle ore serene con i suoi figli e sua moglie, senza dimenticare che Paolo
Borsellino, come Giovanni Falcone e Carlo Alberto Dalla Chiesa, ritenevano inutile la
scorta, solamente un modo per far morire un numero maggiore di persone.
Fu in quel periodo che le vite dei due magistrati che morirono nel 1992 si intrecciarono in
maniera inossidabile. Fu fondato il Pool antimafia, ma i suoi componenti furono uccisi uno
ad uno. L’intera famiglia Borsellino ricorda con maggior dispiacere e affetto la figura di
Rocco Chinnici, il consigliere istruttore membro fondatore del pool che per primo trovò la
morte per mano di Cosa Nostra, in quanto a lui legata da un profondo affetto di amicizia.
In questo clima di solitudine e paura si arriva all’estate del 1985, quando Falcone e
Borsellino vengono mandati sull’Asinara per lavorare in sicurezza al maxiprocesso, dopo
aver assistito inermi agli omicidi di Cassarà e Montana. Un periodo non facile per
Borsellino, che oltre agli oneri lavorativi deve combattere con le preoccupazioni famigliari,
legate in special modo alla salute cagionevole della figlia Lucia, che risente maggiormente
del clima pesante nel quale è costretta a vivere.
Nel novembre 1985 un’istruttoria da 8.632 pagine, corredata da 610 mila documenti
concretizza il maxiprocesso a Palermo, per il quale fu allestita un’apposita aula bunker.
Il 4 agosto 1986 Paolo Borsellino si insedia come procuratore a Marsala. Con questo
incarico il magistrato indaga su un omicidio di mafia che lo sconvolge: il 21 settembre il
88
giudice ragazzino, come sarà da tutti ricordato a causa della sua giovane età (38 anni),
Rosario Livatino, viene trucidato nelle campagne dell’agrigentino mentre si reca a lavoro.
Per qualche anno le vite professionali del procuratore di Marsala e di Giovanni Falcone
diventano parallele, fino a quando, nel 1991, il primo viene dichiarato procuratore aggiunto
di Palermo, mentre il secondo attende con impazienza la nomina che lo porterebbe a capo
della Superprocura13.
All’epoca apparve evidente che nella lotta alla mafia erano Paolo Borsellino e Giovanni
Falcone i magistrati esposti in prima linea. Borsellino non risparmiava i discorsi pubblici,
soprattutto all’interno delle scuole e delle università, convinto che «verso la mafia i
giovani, siciliani e non, hanno oggi un’attenzione ben diversa da quella colpevole
indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni, quando questi giovani saranno adulti
avranno più forza di reagire di quanta io e la mia generazione ne abbiamo avuta»14.
Il 23 maggio 1992 un attentato fermò definitivamente il magistrato Falcone. Da allora
Borsellino visse con la consapevolezza che presto sarebbe toccato a lui, e sempre più
spesso ripeteva una frase che gli disse il suo amico Ninnì Cassarà quando si recarono sul
luogo del delitto dell’altro loro collega Beppe Montana, «Dobbiamo ormai convincerci che
siamo morti che camminano».
Domenica 19 luglio 1992. Dopo una mattina trascorsa a scrivere una lettera indirizzata a
una scuola di Padova che l’aveva invitato per un dibattito al quale lui non aveva
presenziato non certo per mancanza di volontà ma in quanto l’invito per posta non era mai
arrivato, Borsellino decide di trascorrere la giornata a Villagrazia, sua residenza vicino al
mare, in compagnia della famiglia. All’appello manca solo la figlia maggiore Fiammetta,
partita per l’Indonesia pochi giorni prima. Nel pomeriggio il giudice lascia l’abitazione per
passare a prendere la madre che si sarebbe dovuta sottoporre ad una visita medica. Ore 17,
via d’Amelio: una 126 carica di tritolo viene fatta esplodere. Muoiono Paolo Emanuele
Borsellino insieme ai 5 agenti della scorta Emanuel ClaudioClaudio Traina, Agostino
Catalano (capo scorta), Walter Cosina e Vicenzo Li Muli.
13 U.LUCENTINI, Paolo Borsellino, il valore di una vita, Cles, Mondadori, 1993, pag.215. 14 L.ZINGALES, Paolo Borsellino, una vita contro la mafia, Città di Castello, Limina, 2005.
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ROBERTO MARTINELLI
Il giornalista, firma nota dei maggiori quotidiani italiani, ha seguito l’intero
svolgersi del maxiprocesso di mafia del 1986. All’epoca dei fatti era inviato speciale del
quotidiano piemontese, dopo un’esperienza ventennale (dal 1964 al 1985) presso il
“Corriere della Sera” in qualità di redattore, capo redattore della redazione romana e infine
vice direttore. Tali mansioni facevano seguito a quella di redattore de “Il Giorno”,
quotidiano per il quale Roberto Martinelli scrisse fin dalla sua fondazione, avvenuta nel
1956. Dopo aver lavorato per “La Stampa”, il giornalista approda a “L’Espresso”, mentre
dal 1996 è editorialista per il quotidiano romano “Il Messaggero”15.
GIUSEPPE FERRARA
Nato nel 1932 e diplomatosi nel 1959 in regia al Centro Sperimentale di
Cinematografia di Roma, Ferrara esordì dirigendo uno degli episodi in I misteri di Roma
del 1963, ma il pubblico iniziò a conoscerlo e apprezzarlo dopo la visione de Il sasso in
bocca del 1970, all’interno del quale sviluppa il tema della mafia siciliana collusa con la
realtà statunitense. Sue anche le recenti pellicole Donne di mafia (2005) e Il caso Moro del
2006. Attualmente è docente di regia e presidente della Nuova Cooperativa di doppiaggio16.
15 www.agendadelgiornalista.it. 16 www.larepubblica.it/trovacinema.
90
SAVERIO LODATO
Il giornalista nasce nel 1951 a Palermo e in quella città cresce e comincia a
muovere i primi passi all’interno delle testate siciliane. Divenuto giornalista professionista
nel 1982, diviene responsabile della redazione siciliana del quotidiano “L’Unità”. Proprio a
causa della sua caparbietà e del suo coraggio dimostrati nel trattare simili argomenti
all’interno dei suoi articoli e delle sue inchieste giornalistiche, nel 1988 Saverio Lodato fu
accusato di peculato, accusa dalla quale fu definitivamente prosciolto nel 1990. In realtà il
giornalista non si era appropriato indebitamente di un bene mobile appartenente alla
pubblica amministrazione, ma aveva pubblicato dei documenti giudiziari coperti da segreto
istruttorio17.
Suoi i libri considerati la “bibbia” sulla mafia: Dieci anni di mafia e Venti anni di mafia,
che nel 2006 sono stati inglobati nel libro Trent’anni di mafia aggiornato sino all’arresto
del boss Bernardo Provenzano.
17 www.agendadelgiornalista.it
91
FRANCESCO LA LICATA
Il giornalista siciliano non solo ha scritto di mafia, ma ha instaurato un ottimo
rapporto di amicizia con Giovanni Falcone. Per lui la mafia non era solo un argomento sul
quale scrivere, ma anche quel qualcosa che gli aveva portato via un carissimo affetto.
Affacciatosi al mondo del giornalismo nel 1970 come collaboratore del quotidiano
siciliano “L’Ora”, diretto allora da Vittorio Nisticò, approda nel 1976 al “Giornale di
Sicilia” di Fausto De Luca; successivamente iniziano anche le collaborazioni con i
settimanali “L’Espresso” ed “Epoca”. Nell’arco di tutta la sua carriera, Francesco La
Licata vive da vicino e in modo coinvolgente le strage di Capaci e di via D’Amelio, gli
arresti dei boss Totò Riina e Nitti Santapaola, e ne racconta le cronache sulle pagine de “La
Stampa”, quotidiano con il quale inizia a collaborare nel 1986. Contestualmente, Francesco
La Licata approda al mondo della televisione attraverso delle inchieste curate per la
trasmissione Mixer, oltre a quello dell’editoria. Fra i titoli più famosi dei suoi libri, oltre
alla biografia di Giovanni Falcone, Rapporto sulla mafia degli anni Ottanta e Falcone
vive18.
18 Ibidem.
92
ELENCO MATERIALI «LA STAMPA», 1982-2006, articoli citati
P.BENEDETTO, La famiglia di Emmanuela apprende dalla tv la notizia del tragico
agguato di Palermo, 5 settembre 1982, pag.1.
Assassinati Dalla Chiesa e la moglie, 4 settembre 1982, pag.1.
Pertini, Una sfida non più tollerabile, 4 settembre 1982, pag.1.
P.BENEDETTO, Fece parlare Peci, il primo pentito, 4 settembre 1982, pag.2.
Un giorno di collera e di lacrime, 5 settembre 1982, pag.1.
G.CERRUTI, Interminabile applauso alle due bare ma fischi e monetine contro i politici, 5
settembre 1982, pag.1.
R.S., Nel 1948 in Sicilia, poi al Nord. Catturò Curcio e i capi delle Br, 4 settembre 1982,
pag.2.
M.G. BRIZZONE, Il TG1 attacca lo show di Frizzi, 25 maggio 1992, pag.5.
F.LA LICATA, Mi uccideranno a costo di una strage. Il presagio dell’agguato nella sua
vita sotto tiro, 24 maggio 1992, pag.3.
G.BIANCONI, Superprocura, una corsa tra i veleni, 24 maggio 1992, pag.3.
M.SORGI, Svelò il patto mafia-politica e tentarono di emarginarlo, 24 maggio 1992,
pag.5.
L.SUGLIANO, Il mio conto con i boss è aperto e lo salderò soltanto con la morte, 24
maggio 1992, pag.5.
Una bomba vicino a casa, 24 maggio 1992, pag.5.
G.ZACCARIA, Basta, tornatevene a Roma, 25 maggio 1992, pag.3.
F.LA LICATA, A terra (troppo caro), l’elicottero di scorta, 25 maggio 1992, pag.3.
T.ATTINO, Martirio di uomini del Sud, 25 maggio 1992, pag.5.
Oggi l’Italia si ferma, 25 maggio 1992, pag.5.
L.TORNABUONI, Quando il dolore si ribella, 26 maggio 1992, pag.1.
Mafiosi, vi perdono, ma inginocchiatevi, 26 maggio 1992, pag.9.
Funerali in TV, 27 maggio 1992, pag.7.
A.RAVIDÀ, Scalfaro prega sulle tombe di Palermo, 27 maggio 1992, pag.1.
A.RAVIDÀ, Elisabetta commossa, che atrocità, 28 maggio 1992, pag.3.
F.LA LICATA, Condannato a morte da tre anni, 28 maggio 1992, pag.3.
93
F.LA LICATA, L’ultimo simbolo dell’antimafia, 20 luglio 1992, p.2.
F. LA LICATA, Ai funerali non vogliamo lo Stato, 21 luglio 1992, pag.3.
C. MARTINELLI, E la figlia del giudice non sa ancora niente, 21 luglio 1992, pag.7.
P. GUZZANTI, Paolo, quel cadavere eri tu, 21 luglio 1992, pag. 5.
Tv oscurate per dieci minuti, 21 luglio 1992, pag. 5.
P. SAPEGNO, La rabbia delle scorte travolge Parisi, 21 luglio 1992, pag. 7.
A.R.,Mille braccia sorreggono Agnese, 21 luglio 1992, pag. 7.
P. GUZZANTI, A Palermo la Norimberga dello Stato, 22 luglio 1992, pag. 3.
L.SUGLIANO, Ore 11, l’Italia si ferma, 22 luglio 1992, pag.3.
F. LA LICATA, Adesso il tritolo è pronto per me, 22 luglio 1992, pag. 5.
P.GUZZANTI, Con I Borsellino nella casa del dolore, 23 luglio 1992, pag.1.
P.GUZZANTI, Fiammetta, una chiave per andare da papà, 24 luglio 1992, pag. 3.
G.ZACCARIA, «Grazie a tutti, anche a nome di mio padre» Poi un applauso sommerge
Rita Dalla Chiesa, 17 ottobre 1982, p.2.
Medaglia d’oro a Dalla Chiesa, 8 dicembre 1982, p.7.
Una via intitolata a Dalla Chiesa, 26 aprile 1983, p.7.
Palermo ricorda le vittime della mafia, 1 maggio 1983, p.7.
A.RAVIDA’, Palermo, 14 nuovi mandate di cattura per l’omicidio del gen. Dalla Chiesa,
12 luglio 1983, p.7.
Parma, Craxi rende omaggio alla tomba di Dalla Chiesa, 2 settembre 1983, p.1.
G.RAMPOLDI, Solo Nando Dalla Chiesa alla messa ma seduto tra le vedove della mafia,
4 settembre 1983, p.2.
G.RAMPOLDI, Una messa a Roma per Dalla Chiesa, 6 settembre 1983, p.6. A.RAVIDA’, Palermo grida per Falcone: “Boss Mafiosi, in ginocchio”, 24 giugno 1992,
p.12.
F.LA LICATA, La riscossa antimafia ha 150 mila voci, 28 giugno 1992, p.7.
A.RAVIDA’, Blitz a Palermo, a vuoto. Vie dedicate a Falcone e Borsellino, 8 agosto
1992, p.9.
M.TOSATTI, Il Papa grida: “Mafiosi, convertitevi”, 10 maggio 1993, p.5.
Strage di Capaci. Per i martiri 5 campane, 10 maggio 1993 p.5.
Costanzo ricorda Falcone, 17 maggio 1993, p.2.
A.CAPONNETTO, Un anno senza Falcone, 23 maggio 1993, pp.1-2.
A.CAPONNETTO, Borsellino, il ricordo di Caponnetto, 19 luglio 1993, pp.1-2.
A.RAVIDA’, La Sicilia scende in piazza a un anno da via D’Amelio, 19 luglio 1993, p.5.
94
G.ZACCARIA, Palermo ricorda Dalla Chiesa. Tante autorità ma poca gente, 4 settembre
1984, p.7.
Pertini a Parma ha reso omaggio ai Dalla Chiesa, 8 giugno 1984, p.6.
A.RAVIDA’, Dalla Chiesa ricordato dagli studenti siciliani, 4 settembre 1984, p.6.
Anche Milano ha ricordato il generale, 4 settembre 1984, p.6.
R.MARTINELLI, Il “Grande Fratello” antimafia, 5 novembre 1985, p.7.
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