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- 1 - Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
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Approfondimenti | kit didattico “Dall’esperienza di guerra al suo racconto” Materiale: Scheda PDF
Remarque, “Denunciare l’assurdità della guerra”
“…Al piano inferiore sono i feriti al ventre, alla spina dorsale, alla testa, e gli amputati delle due
gambe. Nell’ala destra i feriti alle mascelle, gli avvelenati dai gas, i colpiti al naso, alle orecchie, al
collo. Nell’ala sinistra i ciechi, i feriti ai polmoni, al bacino, alle articolazioni, alle reni, ai genitali,
allo stomaco. Bisogna venir qui per vedere in quante parti un uomo può esser ferito. Due muoiono
di tetano. La pelle diventa livida, le membra si irrigidiscono, ultimi vivono – e a lungo – gli occhi.
Alcuni tengono l’arto ferito sospeso a una carrucola, esposto in aria; sotto la piaga è posto un
bacile in cui cola a goccia a goccia il pus; il bacile viene vuotato ogni due o tre ore. Altri hanno un
apparecchio di trazione, fissato al letto, con grossi pesi. Vedo delle ferite d’intestino, che son
sempre piene di lordura. Lo scritturale (assistente, per i lavori d’ufficio) del medico mi mostra delle
radiografie, in cui si vedono ginocchi, anche, spalle, completamente fracassate. Non si può
comprendere come sopra corpi così orrendamente lacerati siano ancora volti umani, sui quali la
vita continua nel suo ritmo giornaliero. E pensare che questo è un ospedale solo: e ve ne sono
centinaia, migliaia uguali, in Germania, in Francia, in Russia! Come appare assurdo tutto quanto è
stato in ogni tempo scritto, fatto, pensato, se una cosa simile è ancora possibile! Dev’essere tutto
menzognero e inconsistente, se migliaia d’anni di civiltà non sono nemmeno riusciti ad impedire
che questi fiumi di sangue scorrano, che queste prigioni di tortura (gli ospedali per i feriti in
guerra) esistano a migliaia. Soltanto l’ospedale mostra che cosa è la guerra.
Henry Tonks,Un avamposto medicoin Francia (particolare,1918). L’autore del dipinto raffigura con estremo
realismo un ospedale da campo dopo un
duro scontro sul campo di battaglia.
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Io sono giovane, ho vent’anni: ma della vita non conosco altro che la disperazione, la morte, il
terrore, e la insensata superficialità congiunta con un abisso di sofferenze. Io vedo dei popoli spinti
l’uno contro l’altro, e che senza una parola, inconsciamente, stupidamente, in una incolpevole
obbedienza si uccidono a vicenda. Io vedo i più acuti intelletti del mondo inventare armi e parole
perché tutto questo si perfezioni e duri più a lungo. E con me lo vedono tutti gli uomini della mia
età, da questa parte e da quell’altra del fronte, in tutto il mondo; lo vede e lo vive la mia
generazione. Che faranno i nostri padri, quando un giorno sorgeremo e andremo davanti a loro a
chieder conto? Che aspettano essi da noi, quando verrà il tempo in cui non vi sarà guerra? Per
anni e anni la nostra occupazione è stata di uccidere, è stata la nostra prima professione nella vita.
Il nostro sapere della vita si limita alla morte.
Che accadrà, dopo? Che sarà di noi? ...”
E.M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale,
Mondadori, Milano 1988, pp. 223-224
Jünger, “In attesa dell’assalto”
L’ufficiale tedesco Ernst Jünger si mise invece all’opposto rispetto a Remarque. Nel 1920, pubblicò le sue memorie nel libro “Nelle tempeste d’acciaio”, uno dei più influenti testi divulgati in Germania nel primo dopoguerra. Come ha scritto lo storico inglese E.J. Leed, esso divenne il punto di riferimento morale per chiunque che “per qualsiasi ragione, non fosse disposto ad accettare il fatto di essere stato strumentalizzato, sfruttato, mutilato, e sacrificato in guerra senza alcun fine nazionale o personale”. Scritto sotto forma di diario di guerra, il libro di Jünger non nascondeva assolutamente nulla della tragicità della guerra, eppure, respingeva l’idea che questa fosse stata esclusivamente una distruzione priva di significato. Così, la terribile durezza del suo testo trasmetteva messaggi molto diversi rispetto a quelli della letteratura del disincanto, inglese o tedesca. La guerra era celebrata come un’esperienza straordinaria e unica, che aveva potenziato tutti i sensi di chi vi aveva preso parte. L’assalto contro le trincee nemiche non era ricordato come un assurdo macello di massa, ma come un momento eccitante, che trasmetteva all’individuo un’emozione e un’ebbrezza simili all’orgasmo. Jünger non esita a parlare dell’assalto alla baionetta in termini esplicitamente sessuali, raccontnado la conquista della trincea nemica come di uno stupro, di una scarica liberatoria dell'impetuosità e dell’aggressività. Ma l’assalto alla baionetta è frutto di una fantasia, utilizzata come provocazione: l'offensiva, in genere, avveniva in un tumulto di esplosioni, sotto il fuoco di copertura degli obici di grosso calibro, e il lancio delle granate risultava essere lo strumento più efficace. I soldati feriti o uccisi
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durante il conflitto da colpi di baionetta furono pochissimi. Alcuni soldati riconoscevano infatti che essa serviva più come utensile da campo che come arma. Eppure, la maggioranza dei soldati, forse per rifiutare di pensarsi come giocattoli nelle mani del potere diedero un senso alla propria esperienza bellica continuando a presentare l’assalto alla baionetta come il gesto più eroico di guerrieri. Tutte queste fantasie ci aiutano a comprendere come Jünger e tanti altri uomini non condannarono la guerra, né si sentirono calpestati da essa. Lo scontro, infatti, poteva essere vissuto come una straordinaria festa, come un’interruzione delle regole imposte all’individuo da secoli di progresso civile. Grazie alla guerra, il processo di civilizzazione, che imponeva un rigido controllo su ogni aspetto dell'istintività umana veniva temporaneamente sospeso; la natura più profonda dell’essere umano poteva provvisoriamente essere liberata, senza timore di censure e di punizioni. Dunque, occorreva approfittarne, prima di tornare alle “buone maniere”. Per certi versi, approfittarono di questa libertà anche poeti pacifisti come Owen e Sassoon. Il principio borghese della rispettabilità, infatti, negava al vero uomo il diritto a urlare il proprio dolore, e anzi lo costringeva a un severo autocontrollo anche di questa emozione. Nella temporanea sospensione delle regole dettata dalla guerra, e di fronte a uno spettacolo scioccante come il massacro di massa, non si poteva più negare che anche gli uomini più virili gridassero la loro rabbia, esprimessero la propria sofferenza, mettessero a nudo l’affetto che li legava ai compagni caduti.
http://www.cronacastorica.net/archivi/immagini/
"The Story of the Great War, Volume III", Francis Joseph Reynolds et al., 1916
In attesa dell’assalto
“… Mi sedetti su una scala del rifugio, accanto ai miei due ufficiali. Attendemmo le cinque e cinque, l’ora stabilita, quando avrebbe dovuto incominciare la preparazione di artiglieria. Il morale era un po’ più sollevato; la pioggia era infatti cessata e la notte piena di stelle prometteva un mattino asciutto. Passammo il tempo a fumare e a chiacchierare. Mangiammo alle tre; la borraccia fece il solito giro da una mano all’altra. Alle prime luci dell’alba l’attività dell’artiglieria nemica prese un ritmo tale da farci temere che, continuando, gli inglesi sarebbero
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forse riusciti a sventare la nostra minaccia. Qualcuna delle tante pile di munizioni sparse sul campo saltò in aria. Poco prima dell’ora X, fu diffuso questo radiogramma: «S.M. l’Imperatore e Hindenburg sono presenti sul teatro delle operazioni!» Vivi applausi salutarono quell’annuncio. La lancetta avanzava sempre più; contammo gli ultimi minuti. Infine furono le cinque e cinque. L’uragano scoppiò. Una cortina fiammeggiante, seguita da un improvviso boato, si levò verso il cielo. Un fragore indescrivibile, che inghiottiva persino i colpi di partenza dei grossi calibri, fece tremare il suolo. Il mortale ruggito degli innumerevoli cannoni posti dietro di noi era così spaventoso che anche le più dure battaglie da noi combattute ci sembravano, al confronto, giochi da bambini. Ciò che non avevamo osato sperare avvenne: l’artiglieria nemica tacque; era stata annientata da un solo gigantesco colpo. Non sopportavamo di restare più a lungo nella galleria, e in piedi sulle difese contemplammo il muro di fuoco alto come una torre, gravante sulle trincee inglesi e velato di nubi ondeggianti del colore del sangue. Lo spettacolo fu disturbato da un bruciore agli occhi e alle mucose. I vapori dei nostri proiettili lanciagas, spinti dal vento contrario, ci avvolsero spandendo un fortissimo odore di mandorle amare. Notai con preoccupazione che molti dei miei uomini cominciavano a tossire, a dar segni di soffocamento. Finalmente decisero di adoperare la maschera. Cercai di reprimere i primi colpi di tosse e di trattenere le lacrime. A poco a poco, però, i vapori si dispersero e un’ora dopo potevamo toglierci la maschera. Il giorno si era ormai levato. Dietro di noi il frastuono immane non faceva che crescere, benché la cosa sembrasse impossibile. Davanti a noi si alzava, impenetrabile allo sguardo, una muraglia di fumo, di polvere e di gas. Militari sconosciuti correvano lungo la trincea lanciando urli di gioia. Fanti e artiglieri, genieri e telefonisti, prussiani e bavaresi, ufficiali e soldati, tutti erano soggiogati dalla violenza di quell’uragano di fuoco e ardevano dal desiderio di buttarsi all’assalto previsto per le nove e quaranta. Alle otto e venticinque entrarono in azione i nostri lanciabombe pesanti: li avevamo vicinissimi, disposti a brevi intervalli, dietro la trincea di prima linea. Vedemmo le enormi bombe volare descrivendo lunghi archi nel cielo e cadere poi dall’altro lato provocando esplosioni paragonabili a boati vulcanici. Gli scoppi di quei proiettili si succedevano fittissimi, provocando sul terreno una catena di crateri in eruzione. Le leggi stesse della natura sembravano non aver più valore. L’aria tremolava come nei giorni afosi dell’estate e la sua varia densità faceva ballare di qua e di là oggetti assolutamente immobili. Strisce di ombra nera filtravano attraverso le nuvole di fumo. Il fragore era divenuto assoluto: non lo si sentiva più. Si notava soltanto, confusamente, che migliaia di mitragliatrici dietro di noi lanciavano verso il cielo le loro raffiche di piombo. [...]
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Guardai a destra e a sinistra. La linea di divisione di due popoli che si fronteggiavano offriva uno spettacolo singolare. Davanti alla trincea nemica, nelle buche che la tormenta di fuoco scavava sempre più, su un fronte che si allungava a perdita d’occhio, divisi in due compagnie, attendevamo i battaglioni d’assalto. Alla vista di quella massa di uomini, lo sfondamento mi sembrava cosa fatta. Ma avremmo trovato la forza di disperdere le riserve avversarie, di isolarle e annientarle? Io ne ero convinto. La battaglia finale, l’ultimo assalto sembravano ormai arrivati. Lì si gettava sulla bilancia il destino di due interi popoli; si decideva l’avvenire del mondo. Soltanto per intuizione avevo coscienza della gravità di quell’ora e credo che ognuno, in quel momento, sentisse sparire dentro di sé qualunque sentimento personale, compresa la paura. …”
E. JÜNGER, Nelle tempeste d’acciaio, Studio Tesi, Pordedone 1990,
pp. 233-236, trad. it. G. JAAGER-GRASSI
Giuseppe Scalarini, “Ah, la guerra non è rivoluzionaria? Guardate che rivoluzione ha fatto nel mio corpo”, 1920
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Leed, “Il soldato in trincea” La letteratura del disincanto presenta un nuovo uomo di guerra: non più il soldato aggressivo ed eroico in ogni sua azione, ma un soldato che attende in trincea, che si logora, e che a volte tende a solidarizzare col nemico.
“…La guerra di trincea, forse più di qualsiasi altro tipo di guerra prima e dopo, erose le concezioni universalmente diffuse del soldato come aggressore: piuttosto, essa produsse un tipo di personalità, la personalità difensiva, modellata sull’identificazione con le vittime di una guerra dominata da aggressori impersonali come l’acciaio e i gas. Chiunque soggiornasse un certo periodo di tempo in trincea riconosceva immediatamente la differenza fra la sua attitudine nei confronti del nemico e la stessa che caratterizzava coloro che rimanevano a casa. Jean Norton Cru è in grado di distinguere, sulla base di questa diversa attitudine verso il nemico, i testi di chi abbia realmente fatto esperienza di guerra da quelli di gente che si limitò a visitare le trincee o, peggio, scrisse della guerra direttamente dalle retrovie. [...] In una guerra in cui tutti i combattenti erano vittime indiscriminate della violenza dei materiali, in cui la tecnologia industriale era l’autentico aggressore, l’identificazione con il nemico e la sua motivazione dominante – la sopravvivenza – erano logiche, addirittura necessarie. Basti solo citare i tanti casi di fraternizzazione, il tacito accordo fra nemici, ufficialmente tali, che stabilivano e mantenevano settori tranquilli lungo il fronte, per capire come questa fu una guerra che alterò drammaticamente l’identità e la personalità dei combattenti. E sovente questa alterazione fu portata all’attenzione delle autorità, soprattutto quando assumeva forme patologiche: infatti, per quanto ammirevole e umana fosse l’identificazione con il nemico, era anche fonte di un conflitto radicale, profondamente sentito, attraverso il quale il combattente arrivava a ripudiare la concezione di sé esaltata dalla società e spesso da egli stesso condivisa. Sicuramente la rottura della personalità offensiva nella realtà della guerra difensiva fu una delle maggiori cause delle nevrosi di guerra: non a caso per le forme estreme di dissociazione dalle norme ufficiali era stata coniata una definizione patologica: simpatia nevrotica con il nemico. [...] Il ritorno in patria era sovente come l’arrivo in una terra straniera, mentre il ritorno al fronte poteva anche risultare un sollievo. Come molti altri, Robert Graves ammise che «l’Inghilterra appariva estranea a noi provenienti dal fronte. Non riuscivamo a capire la follia bellicistica che correva ovunque, cercando sfoghi para-militari. I civili parlavano una lingua straniera, il linguaggio dei giornali». Ma l’estraneazione del militare dal ruolo e dall’immagine del soldato guerriero sortì un effetto importantissimo soprattutto sullo stato psicologico delle truppe al fronte; infatti, con questa estraneazione il soldato smarrì gran parte delle fonti di legittimazione della propria attività , e
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soprattutto della propria morte in battaglia. Coraggio, onore, sacrificio di sé, eroismo, appartenevano ormai al mondo delle illusioni, distante, esterno al sistema di trincea. [...] Fu smarita tutta la sgargiante messinscena che nei tempi passati aveva accompagnato il soldato in guerra. Anche Henri Massis si trovò a riflettere sul fatto che fossero ormai scomparse le esteriorità gratificanti, tradizionali in tutti gli eserciti; tutto ciò che aveva a che fare con la guerra di trincea era dimesso, riguardava «l’interiorità della terra, del soldato». La rimozione di tutti i simboli esteriori del carattere offensivo, con il rintanarsi nella terra, comportò una trasformazione di base del soldato-tipo. [...] “Soldati privi del piacere di combattere, essi aspettano. Aspettano cosa? Tutto e niente, poiché la morte può seppellirli in qualsiasi momento senza che essi possano dar prova del loro valore contro di essa. Una morte casuale e stolida, che non pretende il loro coraggio... infatti, questa guerra richiede una virtù diversa: vuole che si impari ad attenderla, a qualsiasi ora, con pazienza. Non è affatto l’avventura di un solo eroico momento, l’esaltante passaggio dell’eroe di qui all’eternità, la sublime vocazione del guerriero. È molto meno solenne: coglie chi vuole, quando vuole, nelle più umili pose, però sempre imponendosi con la sua presenza continua, richiedendoci di essere sempre pronti». Qui Massis vede, in termini cristiani, la stessa figura che Zuckmayer aveva definito uno qualsiasi, cioè l’uomo che aveva raggiunto la consapevolezza della propria assoluta sostituibilità all’interno di un processo industriale.
E.J. LEED, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 143-149, trad. it. R. FALCIONI
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Scalarini, La guerra, 1914.
«Se scoppia una guerra con l’Austria – disse nel 1913 Mussolini, allora direttore dell’Avanti,
a Giuseppe Scalarini, che ogni giorno disegnava una vignetta per il quotidiano socialista,
– io ci vado.» «Ma io no», rispose deciso Scalarini.
«Anche se fosse una guerra di difesa?» «Anche quella. I poveri non hanno niente da difendere:
il patrio suolo deve difenderlo chi se lo gode.»
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Ungaretti, “La poesia di guerra”
Per poter leggere la Storia, in particolare entrando nelle sue accezioni più sentimentali e nelle
declinazioni dell’animo, è importante analizzare e conoscere anche altre figure letterarie che,
attraverso una forma poetica, permettono di avvicinarsi il più possibile al cuore e allo degli uomini
del tempo.
La poesia di guerra ha la caratteristica di saper
cogliere ed interpretare in un modo più profondo la
realtà, riuscendo ad umanizzare gli aspetti della vita,
anche quelli più tragici, perché attraverso le sue
immagini, i suoi richiami, i suoni percepibili tra i suoi
versi, riesce a farci prendere coscienza della
disumanità di ciò che la prima guerra mondiale ha
comportato.
Quando anche l’Italia prese posizione nella
scacchiera europea del conflitto, tanti intellettuali accolsero con entusiasmo la decisione di
intervenire, seppur con motivazioni diverse, ma quasi con lo stesso impeto dei giovani europei.
Di fronte però ai terribili esiti della guerra stessa, causa di morte, di supplizio e di distruzione,
buona parte di essi trasformò radicalmente la propria visione, cogliendo solo gli aspetti tragici di
questo evento. Nelle poesie di quegli anni trapelano i segni più o meno evidenti del tormento
provocato da un conflitto così terribile e distruttivo.
Giuseppe Ungaretti visse in prima persona l’esperienza di soldato al fronte. Questa sua
partecipazione lo sconvolse profondamente e le poesie composte durante tale periodo sono
indelebilmente segnate da tal esperienza: le poesie sono quelle contenute nella raccolta “Allegria
di naufragi”.
Il titolo rappresenta la speranza dell’uomo di continuare a vivere (l’allegria) nonostante le terribili
sciagure (i naufragi) come la guerra, un’allusione dell’allegria del marinaio sopravvissuto al
naufragio.
La guerra, per il poeta, significò infatti solitudine, freddo, morte. Reagì riscoprendo la propria
dignità interiore e il senso di partecipazione al destino comune dell’umanità. In un certo modo fu
anche paradossale, perché proprio grazie alle sofferenze create dal dramma della guerra, l’uomo,
torna a recuperare i suoi più profondi valori.
In questa raccolta, Ungaretti, denuncia le crudeltà della guerra e le sue assurdità e offre un invito a
recuperare i veri valori della vita come la fratellanza, l’amicizia, l’amore, la solidarietà.
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I temi del dolore e della morte sono leggibili con note crude e desolate, con parole angosciose e
strazianti. Ci sono poche parole ma con molti significati, pochi vocaboli e molti stati d’animo,
spesso diversi e contrastanti. La poesia riproduce con efficacia un modo d’essere e di sentire,
comunica con immediatezza, grazie a metafore e similitudini.
VEGLIA
Un’intera nottata buttato vicino
a un compagno massacrato
con la sua bocca digrignata
volta al plenilunio con la congestione
delle sue mani penetrata
nel mio silenzio ho scritto
lettere piene d’amore Non sono mai stato
tanto attaccato alla vita
FRATELLI
Di che reggimento siete fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua fragilità
Fratelli
https://youtu.be/mi3UGy9BKFs
SAN MARTINO DEL CARSO
Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
E’ il mio cuore
Il paese più straziato
MATTINA
M’illumino
d’immenso.
SOLDATI
Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie
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Emilio Lussu, “il racconto in pima linea” Da Un anno sull’altipiano
Emilio Lussu ha combattuto la prima guerra mondiale sull’altipiano di Asiago. Le vicende narrate in Un anno sull’altipiano, il suo romanzo più noto, sono ispirate a quella drammatica esperienza. In questo brano il disertore Marrasi abbandona la trincea e corre per mettersi in salvo verso la linea nemica. I commilitoni, su ordine del sergente, gli sparano addosso. Il momento è drammatico, la tensione è alta e il capitano Lussu, l’ufficiale più alto in grado sul posto, è costantemente chiamato al telefono dal comandante di battaglione impaziente di sapere come si è sistemata la faccenda, per comunicarlo a sua volta ai suoi superiori. Da qui l’ordine del capitano di troncare bruscamente la linea. “Potevano essere le due del pomeriggio. Dalla trincea della compagnia, partì un grido d’allarme, seguito da colpi di fucile. Immediatamente, tutta la linea aprì il fuoco. In quattro salti fui in trincea. I soldati correvano alle feritoie. In mezzo alla piccola vallata, oltre la linea dei nostri reticolati, il soldato Marrasi, le gambe affondate nella neve, le mani in alto, senza fucile, stentatamente avanzava verso le trincee nemiche.
Sul frastuono del colpi, si levava la voce da baritono del sergente Cosello:
- Sparate sul disertore!
La trincea nemica taceva.
Dovetti correre al telefono in trincea. Il comandante di battaglione mi chiamava per avere la
spiegazione di quanto accadeva. Egli parlava eccitato:
- Che c’è? che c’é? Debbo mandare rincalzi?
Io lo rassicurai:
- Ma no. Un soldato sta passando al nemico, solo, senza armi, e la compagnia tira su di lui. Gli
austriaci, per non spaventarlo, non sparano.
- Un disonore simile sul battaglione!
- Lo so, lo so: non lo stia a raccontare a me. Che ci posso fare?
- Me lo rimandi indietro, vivo o morto!
- Eh, vivo, sarà difficile. Sparano tutti su di lui.
- Tanto meglio. Meglio morto. Me lo mandi morto.
- Sta bene. Posso andare?
- Sì, vada pure e mi dia le novità al più presto.
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Io ritornai alla feritoia. Al fuoco della compagnia s’era aggiunto quello delle due mitragliatrici del
battaglione. Marrasi continuava ad avanzare, ma con molta difficoltà. Superata la vallata, il
terreno era ripido e la neve sempre alta. Io mi stupivo ch’egli non fosse ancora caduto, quando
m’accorsi che, dietro di lui, ad una cinquantina di metri, anch’egli sprofondato nella neve,
camminava il sergente Cosello. Impugnava il fucile con le due mani e, ad ogni passo, tirava un
colpo su Marrasi. Ma questi non cadeva. Con tutta la mia voce, ordinai al sergente di rientrare in
trincea.
Il sergente si fermò. Era in piedi, in mezzo alla vallata. Io temevo che gli austriaci tirassero su di lui
e ripetei l’ordine. Gli austriaci non sparavano. Egli si voltò e mi gridò:
- Signor sì!
Aveva le gambe sepolte nella neve. Da fermo, puntò lungamente e sparò tutto il caricatore sul
disertore. Questi cadde e si rovesciò sulla neve. Io lo credetti colpito. Ma, dopo qualche istante, si
rialzò e riprese ad avanzare. Tutta la linea continuava a sparare su di lui.
Marrasi camminava. Anche il sergente, ch’era un tiratore scelto, l’aveva sbagliato. Ho sempre
notato che, nei momenti d’eccitazione, i soldati guardano e sparano ad occhi aperti senza puntare.
Il sergente rientrò. Venne da me, coperto di sudore. Parlava a fatica:
- Che vergogna! Che disonore! - diceva ansante. - Il 2° plotone è disonorato.
Il 2° plotone era disonorato. La compagnia era disonorata. Il battaglione era disonorato. Fra poco,
si sarebbero considerati disonorati il reggimento, la brigata, la divisione, il corpo d’armata e, con
ogni probabilità, tutta l’armata. Marrasi continuava ad avanzare.
Il piantone al telefono venne di corsa per dirmi che il comandante di battaglione mi chiamava
nuovamente, perché il comandante del reggimento voleva essere messo al corrente.
- Rispondi che sono in trincea e non mi posso allontanare. Che verrò tra poco.
Il piantone disparve.
Marrasi s’allontanava sempre più da noi. Gli austriaci avevano due sbarramenti di reticolati di
fronte alle loro trincee. Egli era arrivato al primo. La neve lo copriva pressoché intieramente, ma
l’ostacolo era egualmente insormontabile. S’aggrappò ai fili, li scosse, tentò scavalcarli, ma
inutilmente. Capì che non sarebbe potuto passare. Scoraggiato, si fermò un istante e si strinse la
testa fra le mani. Sembrava gli mancasse ormai la forza di continuare. Fece qualche passo attorno
allo stesso punto, disperato. Così, egli girava attorno a se stesso, sperduto, ma invulnerabile, sotto
il tiro dei nostri.
Marrasi si riprese. Risolutamente, camminò verso un albero che era a pochi metri da lui. Questo
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era lungo la linea dei reticolati, al di fuori, verso di noi, e gli austriaci vi avevano appoggiato un
cavallo di frisia, dall’altra parte. Marrasi si slacciò il cinturone che aveva ancora alla cintola, con le
due giberne. Agilmente, si arrampicò al tronco. Non era più impacciato. Era gia a qualche metro da
terra. Dall’alto, spiccò un salto e si sprofondò nella neve, al di là del reticolati. Il primo
sbarramento era passato.
I nostri sparavano sempre. Gli austriaci tacevano.
Il piantone al telefono venne un’altra volta. Il comandante del battaglione, assillato di richieste dal
comandante del reggimento, il quale, a sua volta, era assediato in permanenza dal comandante di
brigata, mi chiedeva insistentemente all’apparecchio.
Lo rinviai, urlando:
- Tira una fucilata sul filo telefonico e, dopo, va dal comandante del battaglione e informalo che la
linea è interrotta.
- Signor sì.
- Hai capito bene?
- Signor sì.
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MARC BLOCH, IL VERO E IL FALSO IN GUERRA Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra, 1921
Marc Bloch, storico francese, ebreo, contemporaneo e
protagonista come soldato della Grande guerra, scrisse un
saggio, intitolato “Riflessioni di uno storico sulle false notizie di
guerra”, in cui trattava il problema delle testimonianze come
fonti della storia e i concetti di vero e falso.
Essendo coinvolto in prima persona nelle vicende a lui
contemporanee, partecipò per scelta e responsabilità ad
entrambi i conflitti mondiali. In particolare, nella seconda
guerra, aderì alla Resistenza, motivo per il quale fu catturato e
torturato, e nel 1944 fucilato.
Le due esperienze belliche incisero sulla sua concezione della
storia e produssero riflessioni rilevantissime e ancora molto
attuali sul mestiere di storico (con Febvre, nel 1929, aveva
fondato la scuola storica degli “Annales”.)
Tra i soldati in trincea, isolati da tutta la realtà esterna, si diffondevano false notizie e leggende che
influenzavano gli stati d’animo collettivi, e partendo da queste vicende Bloch iniziava una
riflessione sulla critica delle testimonianze e sull’opposizione tra verità ed errore, tra la realtà delle
cose e la loro rappresentazione. La Prima guerra mondiale era stata un esperimento di psicologia
sociale che lo storico doveva imparare a studiare come tale.
Le false notizie avrebbero dovuto essere analizzate come realtà riconoscibili che, al di là della loro
falsità, riportavano in modo indiretto qualcosa di nascosto e di vero sugli uomini e sulle masse:
infatti, queste notizie false, erano accettate e diffuse solo perché corrispondevano a attese e
bisogni profondi. Insomma, le false notizie (come le credenze popolari relative al potere di
guarigione dei re1) diventavano oggetto di studio per lo storico in quanto testimonianze indirette
sulle mentalità collettive. Ogni credenza e ogni falso racconto nel momento in cui sono creduti e
diffusi costituiscono una “realtà” storica il cui studio consente di raggiungere la coscienza
collettiva di un’epoca.
1 M. Bloch, “I re taumaturghi”, 1924, avrebbe costituito il primo esempio concreto della fecondità della strada
tracciata con le prime riflessioni sulle false notizie.
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La prima guerra mondiale, vissuta in prima persona da Bloch, diventa l’ennesimo esperimento di
laboratorio che consente allo storico di evocare e ricostruire per molti aspetti una società e una
mentalità lontanissime: una società isolata da altri gruppi distanti nello spazio, con pochi contatti e
collegamenti, in cui a dominare sono la tradizione orale, la costruzione di leggende e di false
notizie che esprimono le paure, gli odi, i pregiudizi, le emozioni, cioè la mentalità dominante. “La
falsa notizia è lo specchio in cui la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti”, scrive Bloch,
aggiungendo che “i falsi racconti hanno sollevato le folle”.
L’errore diventa allora oggetto di studio e dunque verità, ma è lo spirito critico dello storico che
disvela e spiega l’errore.
Una lezione di questo tipo, scritta un secolo fa, è ancora attuale nei giorni nostri, in cui ci troviamo
a vivere per capire – ma non giustificare – errori e pregiudizi.
… “Così, grazie alla psicologia della testimonianza, possiamo sperare di ripulire con mano più
abile l’immagine del passato dagli errori che l’offuscano. Ma l’opera critica non è tutto per lo
storico. L’errore non è per lui soltanto il corpo estraneo ch’egli si sforza di eliminare con tutta la
precisione dei suoi mezzi; egli lo considera anche come un oggetto di studio sul quale si china
allorché si sforza di capire la concatenazione delle azioni umane. Falsi racconti hanno sollevato le
folle. Le notizie false, in tutta la molteplicità delle loro forme – semplici dicerie, imposture,
leggende ‑, hanno riempito la vita dell’umanità. Come nascono? Da quali elementi traggono la
loro consistenza? Come si propagano, guadagnando in ampiezza a mano a mano che passano di
bocca in bocca o di scritto in scritto? Nessun interrogativo più di questi merita d’appassionare
chiunque ami riflettere sulla storia.
Ma in merito a esse la storia non ci arreca se non insufficienti chiarimenti. I nostri antenati non si
ponevano affatto questo tipo di problemi; essi rigettavano l’errore quando l’avevano riconosciuto
come tale; non s’interessavano al suo sviluppo. E per questo che le indicazioni che ci hanno lasciato
non ci permettono di soddisfare le nostre curiosità, ch’essi ignoravano. Lo studio del passato …
deve, in questo campo, basarsi sull’osservazione del presente. Lo storico che cerca di capire la
genesi e lo sviluppo delle false notizie, deluso dalla lettura dei documenti, penserà naturalmente a
rivolgersi ai laboratori degli psicologi. Gli esperimenti che vi s’istituiscono quotidianamente sulla
testimonianza, saranno bastevoli a fornirgli l’insegnamento che l’erudizione gli nega? Non credo
affatto; e ciò per svariate ragioni.” …
March Bloch, Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra,
trad. italiana di Donzelli.
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RACCONTARE LA GUERRA AL CINEMA Due episodi di esecuzione a confronto: “Orizzonti di Gloria” e “la Grande Guerra”
LA GRANDE GUERRA MONICELLI, 1957
Dopo lo scoppio della guerra, Busacca, appena uscito di
prigione, viene chiamato alle armi per combattere nella Prima
Guerra Mondiale. Con un tentativo di corruzione, Busacca
cerca di non partire, fingendosi malato. Iacovacci accetta la
quota e mettendo in scena una situazione credibile, inganna
l'uomo. I due si ritrovano qualche tempo dopo, arruolati
entrambi nell'esercito e costretti a condividere le sofferenze
della guerra. Da nemici diventano amici e i due fanno coppia
fissa in tutte le missioni, provando a scamparle il più a lungo
possibile. Nelle camerate sono conosciuti come i più lazzaroni e
codardi, al contrario di altri soldati come Bordin. Egli ha cinque
figli e una moglie da mantenere, accetta perciò di affrontare le
missioni più pericolose in cambio di soldi extra, ma morirà in
uno dei tanti attacchi. Nel 1916, quando i soldati italiani tornano a casa, Busacca e Iacovacci fanno
una colletta per i militari, con lo scopo poi di tenerla per sé. Incontrano, però, la vedova di Bordin
e non hanno il coraggio di dirle della morte del marito, così decidono di lasciarle la somma
raccolta.
Un nuovo attacco obbliga i due a tornare sul fronte. Vedono le crudeltà della guerra, fra i milioni di
feriti e di vittime, fra ragazzi molto giovani che muoiono per portare banali messaggi, fra le corse
alle trincee e le ritirate, fra le contestazioni del rancio e le condizioni critiche.
Un giorno, poi, Busacca e Iacovacci vengono scelti come messaggeri, perché i più inefficienti.
Arrivati a destinazione, riferiscono il messaggio e durante il ritorno si fermano in un pagliaio non
sapendo fosse occupato dai tedeschi. Decidono così di prendere i cappotti dei tedeschi per cercare
di scappare. Durante la fuga vengono presi e portati dal capitano, rischiando la fucilazione.
Iacovacci si lascia scappare un'indicazione del messaggio segreto e perciò i tedeschi vorrebbero
ottenere da loro le informazioni per bloccare l'attacco. I due italiani sembrano disposti a cedere, in
particolar modo Iacovacci, ma Busacca non rivela nulla e muore così fucilato. L'amico, vedendolo
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morire sotto i suoi occhi, decide di morire da vigliacco dicendo di non sapere niente, ma allo stesso
tempo da eroe. Intanto l'Italia riesce a vincere la battaglia. Gli altri soldati pensano che anche
questa volta i due amici–codardi l’abbiano scampata; non sanno che sono morti per non tradire la
patria.
https://www.youtube.com/watch?v=-tavJaJMtU8
ORIZZONTI DI GLORIA KUBRICK, 1957 Al colonnello Dax viene ordinata dai suoi superiori, la conquista del
"Formicaio", l'avamposto chiave della difesa tedesca schierato
davanti alla trincea del suo reggimento. La missione è quasi
impossibile, i suoi uomini sono pochi, in pessime condizioni, ed il
numero delle vittime stimate è estremamente elevato. La prima
ondata dei soldati del 701° parte all'attacco, attraversando la "terra
di nessuno", ma, decimati dalle pallottole nemiche saranno costretti
a ritirarsi, mentre i restanti soldati non riusciranno nemmeno ad
uscire dalla trincea.
L'attacco è fallito, ed il generale Broulard, diretto superiore di Dax
decide furioso di convocare una corte marziale per mandare al
plotone di esecuzione una parte dei suoi uomini, causa la loro
presunta codardia. Le iniziali elevate pretese (un centinaio di uomini)
per compiere "giustizia esemplare" si ridurranno a soli tre uomini,
scelti da ogni comandate di compagnia fra i componenti della prima
ondata.
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Gli uomini per varie ragioni vengono scelti, ed il colonnello Dax si schiererà dalla loro parte come avvocato
difensore davanti al tribunale di guerra, ma fallirà nel compito di salvarli dalle "pallottole francesi". Giustizia
verrà fatta davanti al plotone francese e a nulla servirà rivelare che Broulard aveva ordinato di fare fuoco
sulle propria fanteria.
Nella scena finale, i soldati francesi riuniti in un'osteria prima di partire nuovamente per il fronte, si
uniscono commossi al malinconico canto di una ragazza tedesca.
https://www.youtube.com/watch?v=uJNXXMaIV7w
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DUE PAROLE CHIAVE DELL’ESPERIENZA DI GUERRA
Cameratismo
L’addestramento formale come va fatto» – scrive Robert Graves – «è qualcosa di meraviglioso,
specialmente quando la compagnia marcia all’unisono come un unico essere ed ogni movimento
non ha più nulla di individuale, ma è il movimento singolo di una grande creatura» (Addio a tutto
questo, 1929). Per militari e volontari, l’addestramento era il primo momento di vita comunitaria
nella struttura gerarchica dell’esercito e generava un sentimento di solidarietà che nel passo di
Graves ha i tratti dello spirito di corpo, ma che sul fronte poteva diventare “ciò che di più bello
abbia prodotto la guerra”: il cameratismo (Niente di nuovo sul fronte occidentale, 1929).
Il cameratismo nasce dalla condivisione dell’esperienza del fronte: stallo e fatica delle trincee,
morte e devastazione degli scontri. Per gli uomini che hanno vissuto insieme la guerra, il
cameratismo lega più spesso i soldati di trincea con gli ufficiali di grado inferiore che li comandano,
ed esclude i superiori, rimossi dalla prima linea e spesso ignari della realtà che si vive all’interno.
Non è dunque lo spirito di corpo di cui scrive Giovanni Boine, tra gli altri, nei suoi Discorsi militari
(1914): non coinvolge tutti i membri dell’esercito in quanto tali, né deriva da una scelta ideologica.
Emergono così due aspetti sociali importanti.
1. Il legame del cameratismo supera le divisioni di classe: nelle sue Memorie di una ragazza per
bene (1958), Simone de Beauvoir racconta di un suo insegnante che ricordava l’esperienza
di cameratismo vissuta in guerra come felice liberazione dalle barriere sociali.
2. I livelli gerarchici dell’esercito tendono però a riprodurre le divisioni di classe della società, e
ciò significa che l’esercito stesso, in qualche modo, quasi celato, le ricalca. Infatti, di norma, il
reggimento unisce uomini di bassa estrazione sociale, al massimo studenti, intellettuali e
altre figure della piccola borghesia, ma non esponenti delle classi superiori.
Il cameratismo diventa così una forma di legame egualitario che vive sullo sfondo di una doppia
struttura gerarchica, una sociale e l’altra militare, e che pertanto incorpora spesso un sentimento
di ribellione.
Ribellione come quella di Paul Bäumer e dei suoi amici contro l’istruttore Himmelstoss, durante
l’addestramento, che porta i soldati del plotone di esecuzione, nel capitolo XXVIII di Un anno
sull’altipiano (1938), a uccidere il maggiore Melchiorri invece dei compagni condannati alla
fucilazione. Teso al suo limite, il cameratismo può comprendere il nemico – il soldato nemico che
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vive la stessa esperienza al di là della frontiera – e opporre i veterani ai civili o anche ai
commilitoni mai usciti dalle retrovie. Sempre Lussu, nel capitolo XV dello stesso testo, di fronte
all’assalto insensato dei soldati italiani, gli austriaci smettono di sparare e cominciano a gridare
“Basta! Basta!”, “Non fatevi ammazzare così”: così come gli austriaci stessi non avrebbero voluto
farsi ammazzare per l’ordine disumano di un ufficiale.
Lost Generation
L’origine dell’espressione è nota, se crediamo a ciò che
Hemingway racconta in Festa Mobile (1964): Gertrude
Stein, a Parigi, aveva portato dal meccanico la sua Ford
T, ma il giovane al quale era stato affidato il lavoro
“forse non si era reso conto di quanto fosse importante il
diritto della vettura di Miss Stein a una riparazione
immediata”. Stein si era lamentata e il proprietario del
garage aveva rimproverato il giovane: “Siete tutti una
génération perdue”, gli aveva detto.
Stein lo ripete a Hemingway, reduce dalla guerra e
apprendista scrittore che di Stein frequenta il salotto:
“Ecco che cosa siete tutti quanti. […] Tutti voi giovani
che avete fatto la guerra. Siete una generazione
perduta”. Hemingway si mostra scettico e Stein insiste:
“Non avete rispetto per niente. Vi uccidete a forza di
bere. […] Siete tutti una generazione perduta,
esattamente come ha detto il gestore del garage”.
Hemingway la sera torna a casa e intanto ricorda i suoi giorni da ambulanziere, si chiede se quel
giovane sia mai stato portato su una di quelle ambulanze, pensa a come frenassero in discesa,
all'egocentrismo di certi scrittori più anziani come Stein e alla propria disciplina nel lavoro e si
domanda “chi è che chiama chi una generazione perduta?”. All’improvviso si trova di fronte la
statua del maresciallo Ney e, ricordando “che razza di casino aveva combinato a Waterloo”, si dice
“che tutte le generazioni sono perdute per una cosa o per l’altra”.
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E proprio a Waterloo Fabrizio del Dongo, risalendo da Hemingway a Stendhal, era stato
protagonista della prima compiuta rappresentazione letteraria del legame unico degli eventi bellici
per il soldato gettato sul campo di battaglia.
A Waterloo, soprattutto, e nelle campagne napoleoniche dopo le guerre della Francia
rivoluzionaria, le generazioni di europei che per prime avevano creduto nella possibilità di un
ideale politico attuato nella storia, si erano imbattute nella scoperta che la storia, se può essere
orizzonte dell’ideale, può essere e più spesso sarà il luogo della sua negazione. Non diversamente,
coloro che si erano affacciati alla Grande Guerra come all’ora, in cui i propri ideali e il proprio
sentire sarebbero divenuti storia, conobbero invece la delusione e la catastrofe e, tornati, non
trovarono come riannodare i fili della storia interrotta.
“Ci darà la guerra quello che molti delle nostre generazioni hanno atteso da una rivoluzione?”,
domandava Prezzolini sulla “Voce” il 28 agosto 1914.
La generazione perduta non è solo quella dei demografi, che contano gli assenti.
La generazione perduta è anche quella di coloro che, reduci, scoprirono il danno subito nella
propria umanità e l’impossibilità del ritorno alla vita civile. Così dice Paul Bäumer prima di morire
sul fronte occidentale: “La guerra, come un’inondazione, ci ha spazzati via”.
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