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- 1 - Fondazione Giangiacomo Feltrinelli Viale Pasubio 5, Milano | www.fondazionefeltrinelli.it Approfondimenti | kit didattico “Dall’esperienza di guerra al suo racconto” Materiale: Scheda PDF Remarque, “Denunciare l’assurdità della guerra” “…Al piano inferiore sono i feriti al ventre, alla spina dorsale, alla testa, e gli amputati delle due gambe. Nell’ala destra i feriti alle mascelle, gli avvelenati dai gas, i colpiti al naso, alle orecchie, al collo. Nell’ala sinistra i ciechi, i feriti ai polmoni, al bacino, alle articolazioni, alle reni, ai genitali, allo stomaco. Bisogna venir qui per vedere in quante parti un uomo può esser ferito. Due muoiono di tetano. La pelle diventa livida, le membra si irrigidiscono, ultimi vivono – e a lungo – gli occhi. Alcuni tengono l’arto ferito sospeso a una carrucola, esposto in aria; sotto la piaga è posto un bacile in cui cola a goccia a goccia il pus; il bacile viene vuotato ogni due o tre ore. Altri hanno un apparecchio di trazione, fissato al letto, con grossi pesi. Vedo delle ferite d’intestino, che son sempre piene di lordura. Lo scritturale (assistente, per i lavori d’ufficio) del medico mi mostra delle radiografie, in cui si vedono ginocchi, anche, spalle, completamente fracassate. Non si può comprendere come sopra corpi così orrendamente lacerati siano ancora volti umani, sui quali la vita continua nel suo ritmo giornaliero. E pensare che questo è un ospedale solo: e ve ne sono centinaia, migliaia uguali, in Germania, in Francia, in Russia! Come appare assurdo tutto quanto è stato in ogni tempo scritto, fatto, pensato, se una cosa simile è ancora possibile! Dev’essere tutto menzognero e inconsistente, se migliaia d’anni di civiltà non sono nemmeno riusciti ad impedire che questi fiumi di sangue scorrano, che queste prigioni di tortura (gli ospedali per i feriti in guerra) esistano a migliaia. Soltanto l’ospedale mostra che cosa è la guerra. Henry Tonks,Un avamposto medicoin Francia (particolare,1918). L’autore del dipinto raffigura con estremo realismo un ospedale da campo dopo un duro scontro sul campo di battaglia.

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Approfondimenti | kit didattico “Dall’esperienza di guerra al suo racconto” Materiale: Scheda PDF

Remarque, “Denunciare l’assurdità della guerra”

“…Al piano inferiore sono i feriti al ventre, alla spina dorsale, alla testa, e gli amputati delle due

gambe. Nell’ala destra i feriti alle mascelle, gli avvelenati dai gas, i colpiti al naso, alle orecchie, al

collo. Nell’ala sinistra i ciechi, i feriti ai polmoni, al bacino, alle articolazioni, alle reni, ai genitali,

allo stomaco. Bisogna venir qui per vedere in quante parti un uomo può esser ferito. Due muoiono

di tetano. La pelle diventa livida, le membra si irrigidiscono, ultimi vivono – e a lungo – gli occhi.

Alcuni tengono l’arto ferito sospeso a una carrucola, esposto in aria; sotto la piaga è posto un

bacile in cui cola a goccia a goccia il pus; il bacile viene vuotato ogni due o tre ore. Altri hanno un

apparecchio di trazione, fissato al letto, con grossi pesi. Vedo delle ferite d’intestino, che son

sempre piene di lordura. Lo scritturale (assistente, per i lavori d’ufficio) del medico mi mostra delle

radiografie, in cui si vedono ginocchi, anche, spalle, completamente fracassate. Non si può

comprendere come sopra corpi così orrendamente lacerati siano ancora volti umani, sui quali la

vita continua nel suo ritmo giornaliero. E pensare che questo è un ospedale solo: e ve ne sono

centinaia, migliaia uguali, in Germania, in Francia, in Russia! Come appare assurdo tutto quanto è

stato in ogni tempo scritto, fatto, pensato, se una cosa simile è ancora possibile! Dev’essere tutto

menzognero e inconsistente, se migliaia d’anni di civiltà non sono nemmeno riusciti ad impedire

che questi fiumi di sangue scorrano, che queste prigioni di tortura (gli ospedali per i feriti in

guerra) esistano a migliaia. Soltanto l’ospedale mostra che cosa è la guerra.

Henry Tonks,Un avamposto medicoin Francia (particolare,1918). L’autore del dipinto raffigura con estremo

realismo un ospedale da campo dopo un

duro scontro sul campo di battaglia.

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Io sono giovane, ho vent’anni: ma della vita non conosco altro che la disperazione, la morte, il

terrore, e la insensata superficialità congiunta con un abisso di sofferenze. Io vedo dei popoli spinti

l’uno contro l’altro, e che senza una parola, inconsciamente, stupidamente, in una incolpevole

obbedienza si uccidono a vicenda. Io vedo i più acuti intelletti del mondo inventare armi e parole

perché tutto questo si perfezioni e duri più a lungo. E con me lo vedono tutti gli uomini della mia

età, da questa parte e da quell’altra del fronte, in tutto il mondo; lo vede e lo vive la mia

generazione. Che faranno i nostri padri, quando un giorno sorgeremo e andremo davanti a loro a

chieder conto? Che aspettano essi da noi, quando verrà il tempo in cui non vi sarà guerra? Per

anni e anni la nostra occupazione è stata di uccidere, è stata la nostra prima professione nella vita.

Il nostro sapere della vita si limita alla morte.

Che accadrà, dopo? Che sarà di noi? ...”

E.M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale,

Mondadori, Milano 1988, pp. 223-224

Jünger, “In attesa dell’assalto”

L’ufficiale tedesco Ernst Jünger si mise invece all’opposto rispetto a Remarque. Nel 1920, pubblicò le sue memorie nel libro “Nelle tempeste d’acciaio”, uno dei più influenti testi divulgati in Germania nel primo dopoguerra. Come ha scritto lo storico inglese E.J. Leed, esso divenne il punto di riferimento morale per chiunque che “per qualsiasi ragione, non fosse disposto ad accettare il fatto di essere stato strumentalizzato, sfruttato, mutilato, e sacrificato in guerra senza alcun fine nazionale o personale”. Scritto sotto forma di diario di guerra, il libro di Jünger non nascondeva assolutamente nulla della tragicità della guerra, eppure, respingeva l’idea che questa fosse stata esclusivamente una distruzione priva di significato. Così, la terribile durezza del suo testo trasmetteva messaggi molto diversi rispetto a quelli della letteratura del disincanto, inglese o tedesca. La guerra era celebrata come un’esperienza straordinaria e unica, che aveva potenziato tutti i sensi di chi vi aveva preso parte. L’assalto contro le trincee nemiche non era ricordato come un assurdo macello di massa, ma come un momento eccitante, che trasmetteva all’individuo un’emozione e un’ebbrezza simili all’orgasmo. Jünger non esita a parlare dell’assalto alla baionetta in termini esplicitamente sessuali, raccontnado la conquista della trincea nemica come di uno stupro, di una scarica liberatoria dell'impetuosità e dell’aggressività. Ma l’assalto alla baionetta è frutto di una fantasia, utilizzata come provocazione: l'offensiva, in genere, avveniva in un tumulto di esplosioni, sotto il fuoco di copertura degli obici di grosso calibro, e il lancio delle granate risultava essere lo strumento più efficace. I soldati feriti o uccisi

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durante il conflitto da colpi di baionetta furono pochissimi. Alcuni soldati riconoscevano infatti che essa serviva più come utensile da campo che come arma. Eppure, la maggioranza dei soldati, forse per rifiutare di pensarsi come giocattoli nelle mani del potere diedero un senso alla propria esperienza bellica continuando a presentare l’assalto alla baionetta come il gesto più eroico di guerrieri. Tutte queste fantasie ci aiutano a comprendere come Jünger e tanti altri uomini non condannarono la guerra, né si sentirono calpestati da essa. Lo scontro, infatti, poteva essere vissuto come una straordinaria festa, come un’interruzione delle regole imposte all’individuo da secoli di progresso civile. Grazie alla guerra, il processo di civilizzazione, che imponeva un rigido controllo su ogni aspetto dell'istintività umana veniva temporaneamente sospeso; la natura più profonda dell’essere umano poteva provvisoriamente essere liberata, senza timore di censure e di punizioni. Dunque, occorreva approfittarne, prima di tornare alle “buone maniere”. Per certi versi, approfittarono di questa libertà anche poeti pacifisti come Owen e Sassoon. Il principio borghese della rispettabilità, infatti, negava al vero uomo il diritto a urlare il proprio dolore, e anzi lo costringeva a un severo autocontrollo anche di questa emozione. Nella temporanea sospensione delle regole dettata dalla guerra, e di fronte a uno spettacolo scioccante come il massacro di massa, non si poteva più negare che anche gli uomini più virili gridassero la loro rabbia, esprimessero la propria sofferenza, mettessero a nudo l’affetto che li legava ai compagni caduti.

http://www.cronacastorica.net/archivi/immagini/

"The Story of the Great War, Volume III", Francis Joseph Reynolds et al., 1916

In attesa dell’assalto

“… Mi sedetti su una scala del rifugio, accanto ai miei due ufficiali. Attendemmo le cinque e cinque, l’ora stabilita, quando avrebbe dovuto incominciare la preparazione di artiglieria. Il morale era un po’ più sollevato; la pioggia era infatti cessata e la notte piena di stelle prometteva un mattino asciutto. Passammo il tempo a fumare e a chiacchierare. Mangiammo alle tre; la borraccia fece il solito giro da una mano all’altra. Alle prime luci dell’alba l’attività dell’artiglieria nemica prese un ritmo tale da farci temere che, continuando, gli inglesi sarebbero

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forse riusciti a sventare la nostra minaccia. Qualcuna delle tante pile di munizioni sparse sul campo saltò in aria. Poco prima dell’ora X, fu diffuso questo radiogramma: «S.M. l’Imperatore e Hindenburg sono presenti sul teatro delle operazioni!» Vivi applausi salutarono quell’annuncio. La lancetta avanzava sempre più; contammo gli ultimi minuti. Infine furono le cinque e cinque. L’uragano scoppiò. Una cortina fiammeggiante, seguita da un improvviso boato, si levò verso il cielo. Un fragore indescrivibile, che inghiottiva persino i colpi di partenza dei grossi calibri, fece tremare il suolo. Il mortale ruggito degli innumerevoli cannoni posti dietro di noi era così spaventoso che anche le più dure battaglie da noi combattute ci sembravano, al confronto, giochi da bambini. Ciò che non avevamo osato sperare avvenne: l’artiglieria nemica tacque; era stata annientata da un solo gigantesco colpo. Non sopportavamo di restare più a lungo nella galleria, e in piedi sulle difese contemplammo il muro di fuoco alto come una torre, gravante sulle trincee inglesi e velato di nubi ondeggianti del colore del sangue. Lo spettacolo fu disturbato da un bruciore agli occhi e alle mucose. I vapori dei nostri proiettili lanciagas, spinti dal vento contrario, ci avvolsero spandendo un fortissimo odore di mandorle amare. Notai con preoccupazione che molti dei miei uomini cominciavano a tossire, a dar segni di soffocamento. Finalmente decisero di adoperare la maschera. Cercai di reprimere i primi colpi di tosse e di trattenere le lacrime. A poco a poco, però, i vapori si dispersero e un’ora dopo potevamo toglierci la maschera. Il giorno si era ormai levato. Dietro di noi il frastuono immane non faceva che crescere, benché la cosa sembrasse impossibile. Davanti a noi si alzava, impenetrabile allo sguardo, una muraglia di fumo, di polvere e di gas. Militari sconosciuti correvano lungo la trincea lanciando urli di gioia. Fanti e artiglieri, genieri e telefonisti, prussiani e bavaresi, ufficiali e soldati, tutti erano soggiogati dalla violenza di quell’uragano di fuoco e ardevano dal desiderio di buttarsi all’assalto previsto per le nove e quaranta. Alle otto e venticinque entrarono in azione i nostri lanciabombe pesanti: li avevamo vicinissimi, disposti a brevi intervalli, dietro la trincea di prima linea. Vedemmo le enormi bombe volare descrivendo lunghi archi nel cielo e cadere poi dall’altro lato provocando esplosioni paragonabili a boati vulcanici. Gli scoppi di quei proiettili si succedevano fittissimi, provocando sul terreno una catena di crateri in eruzione. Le leggi stesse della natura sembravano non aver più valore. L’aria tremolava come nei giorni afosi dell’estate e la sua varia densità faceva ballare di qua e di là oggetti assolutamente immobili. Strisce di ombra nera filtravano attraverso le nuvole di fumo. Il fragore era divenuto assoluto: non lo si sentiva più. Si notava soltanto, confusamente, che migliaia di mitragliatrici dietro di noi lanciavano verso il cielo le loro raffiche di piombo. [...]

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Guardai a destra e a sinistra. La linea di divisione di due popoli che si fronteggiavano offriva uno spettacolo singolare. Davanti alla trincea nemica, nelle buche che la tormenta di fuoco scavava sempre più, su un fronte che si allungava a perdita d’occhio, divisi in due compagnie, attendevamo i battaglioni d’assalto. Alla vista di quella massa di uomini, lo sfondamento mi sembrava cosa fatta. Ma avremmo trovato la forza di disperdere le riserve avversarie, di isolarle e annientarle? Io ne ero convinto. La battaglia finale, l’ultimo assalto sembravano ormai arrivati. Lì si gettava sulla bilancia il destino di due interi popoli; si decideva l’avvenire del mondo. Soltanto per intuizione avevo coscienza della gravità di quell’ora e credo che ognuno, in quel momento, sentisse sparire dentro di sé qualunque sentimento personale, compresa la paura. …”

E. JÜNGER, Nelle tempeste d’acciaio, Studio Tesi, Pordedone 1990,

pp. 233-236, trad. it. G. JAAGER-GRASSI

Giuseppe Scalarini, “Ah, la guerra non è rivoluzionaria? Guardate che rivoluzione ha fatto nel mio corpo”, 1920

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Leed, “Il soldato in trincea” La letteratura del disincanto presenta un nuovo uomo di guerra: non più il soldato aggressivo ed eroico in ogni sua azione, ma un soldato che attende in trincea, che si logora, e che a volte tende a solidarizzare col nemico.

“…La guerra di trincea, forse più di qualsiasi altro tipo di guerra prima e dopo, erose le concezioni universalmente diffuse del soldato come aggressore: piuttosto, essa produsse un tipo di personalità, la personalità difensiva, modellata sull’identificazione con le vittime di una guerra dominata da aggressori impersonali come l’acciaio e i gas. Chiunque soggiornasse un certo periodo di tempo in trincea riconosceva immediatamente la differenza fra la sua attitudine nei confronti del nemico e la stessa che caratterizzava coloro che rimanevano a casa. Jean Norton Cru è in grado di distinguere, sulla base di questa diversa attitudine verso il nemico, i testi di chi abbia realmente fatto esperienza di guerra da quelli di gente che si limitò a visitare le trincee o, peggio, scrisse della guerra direttamente dalle retrovie. [...] In una guerra in cui tutti i combattenti erano vittime indiscriminate della violenza dei materiali, in cui la tecnologia industriale era l’autentico aggressore, l’identificazione con il nemico e la sua motivazione dominante – la sopravvivenza – erano logiche, addirittura necessarie. Basti solo citare i tanti casi di fraternizzazione, il tacito accordo fra nemici, ufficialmente tali, che stabilivano e mantenevano settori tranquilli lungo il fronte, per capire come questa fu una guerra che alterò drammaticamente l’identità e la personalità dei combattenti. E sovente questa alterazione fu portata all’attenzione delle autorità, soprattutto quando assumeva forme patologiche: infatti, per quanto ammirevole e umana fosse l’identificazione con il nemico, era anche fonte di un conflitto radicale, profondamente sentito, attraverso il quale il combattente arrivava a ripudiare la concezione di sé esaltata dalla società e spesso da egli stesso condivisa. Sicuramente la rottura della personalità offensiva nella realtà della guerra difensiva fu una delle maggiori cause delle nevrosi di guerra: non a caso per le forme estreme di dissociazione dalle norme ufficiali era stata coniata una definizione patologica: simpatia nevrotica con il nemico. [...] Il ritorno in patria era sovente come l’arrivo in una terra straniera, mentre il ritorno al fronte poteva anche risultare un sollievo. Come molti altri, Robert Graves ammise che «l’Inghilterra appariva estranea a noi provenienti dal fronte. Non riuscivamo a capire la follia bellicistica che correva ovunque, cercando sfoghi para-militari. I civili parlavano una lingua straniera, il linguaggio dei giornali». Ma l’estraneazione del militare dal ruolo e dall’immagine del soldato guerriero sortì un effetto importantissimo soprattutto sullo stato psicologico delle truppe al fronte; infatti, con questa estraneazione il soldato smarrì gran parte delle fonti di legittimazione della propria attività , e

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soprattutto della propria morte in battaglia. Coraggio, onore, sacrificio di sé, eroismo, appartenevano ormai al mondo delle illusioni, distante, esterno al sistema di trincea. [...] Fu smarita tutta la sgargiante messinscena che nei tempi passati aveva accompagnato il soldato in guerra. Anche Henri Massis si trovò a riflettere sul fatto che fossero ormai scomparse le esteriorità gratificanti, tradizionali in tutti gli eserciti; tutto ciò che aveva a che fare con la guerra di trincea era dimesso, riguardava «l’interiorità della terra, del soldato». La rimozione di tutti i simboli esteriori del carattere offensivo, con il rintanarsi nella terra, comportò una trasformazione di base del soldato-tipo. [...] “Soldati privi del piacere di combattere, essi aspettano. Aspettano cosa? Tutto e niente, poiché la morte può seppellirli in qualsiasi momento senza che essi possano dar prova del loro valore contro di essa. Una morte casuale e stolida, che non pretende il loro coraggio... infatti, questa guerra richiede una virtù diversa: vuole che si impari ad attenderla, a qualsiasi ora, con pazienza. Non è affatto l’avventura di un solo eroico momento, l’esaltante passaggio dell’eroe di qui all’eternità, la sublime vocazione del guerriero. È molto meno solenne: coglie chi vuole, quando vuole, nelle più umili pose, però sempre imponendosi con la sua presenza continua, richiedendoci di essere sempre pronti». Qui Massis vede, in termini cristiani, la stessa figura che Zuckmayer aveva definito uno qualsiasi, cioè l’uomo che aveva raggiunto la consapevolezza della propria assoluta sostituibilità all’interno di un processo industriale.

E.J. LEED, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1985, pp. 143-149, trad. it. R. FALCIONI

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Scalarini, La guerra, 1914.

«Se scoppia una guerra con l’Austria – disse nel 1913 Mussolini, allora direttore dell’Avanti,

a Giuseppe Scalarini, che ogni giorno disegnava una vignetta per il quotidiano socialista,

– io ci vado.» «Ma io no», rispose deciso Scalarini.

«Anche se fosse una guerra di difesa?» «Anche quella. I poveri non hanno niente da difendere:

il patrio suolo deve difenderlo chi se lo gode.»

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Ungaretti, “La poesia di guerra”

Per poter leggere la Storia, in particolare entrando nelle sue accezioni più sentimentali e nelle

declinazioni dell’animo, è importante analizzare e conoscere anche altre figure letterarie che,

attraverso una forma poetica, permettono di avvicinarsi il più possibile al cuore e allo degli uomini

del tempo.

La poesia di guerra ha la caratteristica di saper

cogliere ed interpretare in un modo più profondo la

realtà, riuscendo ad umanizzare gli aspetti della vita,

anche quelli più tragici, perché attraverso le sue

immagini, i suoi richiami, i suoni percepibili tra i suoi

versi, riesce a farci prendere coscienza della

disumanità di ciò che la prima guerra mondiale ha

comportato.

Quando anche l’Italia prese posizione nella

scacchiera europea del conflitto, tanti intellettuali accolsero con entusiasmo la decisione di

intervenire, seppur con motivazioni diverse, ma quasi con lo stesso impeto dei giovani europei.

Di fronte però ai terribili esiti della guerra stessa, causa di morte, di supplizio e di distruzione,

buona parte di essi trasformò radicalmente la propria visione, cogliendo solo gli aspetti tragici di

questo evento. Nelle poesie di quegli anni trapelano i segni più o meno evidenti del tormento

provocato da un conflitto così terribile e distruttivo.

Giuseppe Ungaretti visse in prima persona l’esperienza di soldato al fronte. Questa sua

partecipazione lo sconvolse profondamente e le poesie composte durante tale periodo sono

indelebilmente segnate da tal esperienza: le poesie sono quelle contenute nella raccolta “Allegria

di naufragi”.

Il titolo rappresenta la speranza dell’uomo di continuare a vivere (l’allegria) nonostante le terribili

sciagure (i naufragi) come la guerra, un’allusione dell’allegria del marinaio sopravvissuto al

naufragio.

La guerra, per il poeta, significò infatti solitudine, freddo, morte. Reagì riscoprendo la propria

dignità interiore e il senso di partecipazione al destino comune dell’umanità. In un certo modo fu

anche paradossale, perché proprio grazie alle sofferenze create dal dramma della guerra, l’uomo,

torna a recuperare i suoi più profondi valori.

In questa raccolta, Ungaretti, denuncia le crudeltà della guerra e le sue assurdità e offre un invito a

recuperare i veri valori della vita come la fratellanza, l’amicizia, l’amore, la solidarietà.

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I temi del dolore e della morte sono leggibili con note crude e desolate, con parole angosciose e

strazianti. Ci sono poche parole ma con molti significati, pochi vocaboli e molti stati d’animo,

spesso diversi e contrastanti. La poesia riproduce con efficacia un modo d’essere e di sentire,

comunica con immediatezza, grazie a metafore e similitudini.

VEGLIA

Un’intera nottata buttato vicino

a un compagno massacrato

con la sua bocca digrignata

volta al plenilunio con la congestione

delle sue mani penetrata

nel mio silenzio ho scritto

lettere piene d’amore Non sono mai stato

tanto attaccato alla vita

FRATELLI

Di che reggimento siete fratelli?

Parola tremante

nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante involontaria rivolta

dell’uomo presente alla sua fragilità

Fratelli

https://youtu.be/mi3UGy9BKFs

SAN MARTINO DEL CARSO

Di queste case

Non è rimasto

Che qualche

Brandello di muro

Di tanti

Che mi corrispondevano

Non è rimasto

Neppure tanto

Ma nel cuore

Nessuna croce manca

E’ il mio cuore

Il paese più straziato

MATTINA

M’illumino

d’immenso.

SOLDATI

Si sta come

d'autunno

sugli alberi

le foglie

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Emilio Lussu, “il racconto in pima linea” Da Un anno sull’altipiano

Emilio Lussu ha combattuto la prima guerra mondiale sull’altipiano di Asiago. Le vicende narrate in Un anno sull’altipiano, il suo romanzo più noto, sono ispirate a quella drammatica esperienza. In questo brano il disertore Marrasi abbandona la trincea e corre per mettersi in salvo verso la linea nemica. I commilitoni, su ordine del sergente, gli sparano addosso. Il momento è drammatico, la tensione è alta e il capitano Lussu, l’ufficiale più alto in grado sul posto, è costantemente chiamato al telefono dal comandante di battaglione impaziente di sapere come si è sistemata la faccenda, per comunicarlo a sua volta ai suoi superiori. Da qui l’ordine del capitano di troncare bruscamente la linea. “Potevano essere le due del pomeriggio. Dalla trincea della compagnia, partì un grido d’allarme, seguito da colpi di fucile. Immediatamente, tutta la linea aprì il fuoco. In quattro salti fui in trincea. I soldati correvano alle feritoie. In mezzo alla piccola vallata, oltre la linea dei nostri reticolati, il soldato Marrasi, le gambe affondate nella neve, le mani in alto, senza fucile, stentatamente avanzava verso le trincee nemiche.

Sul frastuono del colpi, si levava la voce da baritono del sergente Cosello:

- Sparate sul disertore!

La trincea nemica taceva.

Dovetti correre al telefono in trincea. Il comandante di battaglione mi chiamava per avere la

spiegazione di quanto accadeva. Egli parlava eccitato:

- Che c’è? che c’é? Debbo mandare rincalzi?

Io lo rassicurai:

- Ma no. Un soldato sta passando al nemico, solo, senza armi, e la compagnia tira su di lui. Gli

austriaci, per non spaventarlo, non sparano.

- Un disonore simile sul battaglione!

- Lo so, lo so: non lo stia a raccontare a me. Che ci posso fare?

- Me lo rimandi indietro, vivo o morto!

- Eh, vivo, sarà difficile. Sparano tutti su di lui.

- Tanto meglio. Meglio morto. Me lo mandi morto.

- Sta bene. Posso andare?

- Sì, vada pure e mi dia le novità al più presto.

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Io ritornai alla feritoia. Al fuoco della compagnia s’era aggiunto quello delle due mitragliatrici del

battaglione. Marrasi continuava ad avanzare, ma con molta difficoltà. Superata la vallata, il

terreno era ripido e la neve sempre alta. Io mi stupivo ch’egli non fosse ancora caduto, quando

m’accorsi che, dietro di lui, ad una cinquantina di metri, anch’egli sprofondato nella neve,

camminava il sergente Cosello. Impugnava il fucile con le due mani e, ad ogni passo, tirava un

colpo su Marrasi. Ma questi non cadeva. Con tutta la mia voce, ordinai al sergente di rientrare in

trincea.

Il sergente si fermò. Era in piedi, in mezzo alla vallata. Io temevo che gli austriaci tirassero su di lui

e ripetei l’ordine. Gli austriaci non sparavano. Egli si voltò e mi gridò:

- Signor sì!

Aveva le gambe sepolte nella neve. Da fermo, puntò lungamente e sparò tutto il caricatore sul

disertore. Questi cadde e si rovesciò sulla neve. Io lo credetti colpito. Ma, dopo qualche istante, si

rialzò e riprese ad avanzare. Tutta la linea continuava a sparare su di lui.

Marrasi camminava. Anche il sergente, ch’era un tiratore scelto, l’aveva sbagliato. Ho sempre

notato che, nei momenti d’eccitazione, i soldati guardano e sparano ad occhi aperti senza puntare.

Il sergente rientrò. Venne da me, coperto di sudore. Parlava a fatica:

- Che vergogna! Che disonore! - diceva ansante. - Il 2° plotone è disonorato.

Il 2° plotone era disonorato. La compagnia era disonorata. Il battaglione era disonorato. Fra poco,

si sarebbero considerati disonorati il reggimento, la brigata, la divisione, il corpo d’armata e, con

ogni probabilità, tutta l’armata. Marrasi continuava ad avanzare.

Il piantone al telefono venne di corsa per dirmi che il comandante di battaglione mi chiamava

nuovamente, perché il comandante del reggimento voleva essere messo al corrente.

- Rispondi che sono in trincea e non mi posso allontanare. Che verrò tra poco.

Il piantone disparve.

Marrasi s’allontanava sempre più da noi. Gli austriaci avevano due sbarramenti di reticolati di

fronte alle loro trincee. Egli era arrivato al primo. La neve lo copriva pressoché intieramente, ma

l’ostacolo era egualmente insormontabile. S’aggrappò ai fili, li scosse, tentò scavalcarli, ma

inutilmente. Capì che non sarebbe potuto passare. Scoraggiato, si fermò un istante e si strinse la

testa fra le mani. Sembrava gli mancasse ormai la forza di continuare. Fece qualche passo attorno

allo stesso punto, disperato. Così, egli girava attorno a se stesso, sperduto, ma invulnerabile, sotto

il tiro dei nostri.

Marrasi si riprese. Risolutamente, camminò verso un albero che era a pochi metri da lui. Questo

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era lungo la linea dei reticolati, al di fuori, verso di noi, e gli austriaci vi avevano appoggiato un

cavallo di frisia, dall’altra parte. Marrasi si slacciò il cinturone che aveva ancora alla cintola, con le

due giberne. Agilmente, si arrampicò al tronco. Non era più impacciato. Era gia a qualche metro da

terra. Dall’alto, spiccò un salto e si sprofondò nella neve, al di là del reticolati. Il primo

sbarramento era passato.

I nostri sparavano sempre. Gli austriaci tacevano.

Il piantone al telefono venne un’altra volta. Il comandante del battaglione, assillato di richieste dal

comandante del reggimento, il quale, a sua volta, era assediato in permanenza dal comandante di

brigata, mi chiedeva insistentemente all’apparecchio.

Lo rinviai, urlando:

- Tira una fucilata sul filo telefonico e, dopo, va dal comandante del battaglione e informalo che la

linea è interrotta.

- Signor sì.

- Hai capito bene?

- Signor sì.

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MARC BLOCH, IL VERO E IL FALSO IN GUERRA Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra, 1921

Marc Bloch, storico francese, ebreo, contemporaneo e

protagonista come soldato della Grande guerra, scrisse un

saggio, intitolato “Riflessioni di uno storico sulle false notizie di

guerra”, in cui trattava il problema delle testimonianze come

fonti della storia e i concetti di vero e falso.

Essendo coinvolto in prima persona nelle vicende a lui

contemporanee, partecipò per scelta e responsabilità ad

entrambi i conflitti mondiali. In particolare, nella seconda

guerra, aderì alla Resistenza, motivo per il quale fu catturato e

torturato, e nel 1944 fucilato.

Le due esperienze belliche incisero sulla sua concezione della

storia e produssero riflessioni rilevantissime e ancora molto

attuali sul mestiere di storico (con Febvre, nel 1929, aveva

fondato la scuola storica degli “Annales”.)

Tra i soldati in trincea, isolati da tutta la realtà esterna, si diffondevano false notizie e leggende che

influenzavano gli stati d’animo collettivi, e partendo da queste vicende Bloch iniziava una

riflessione sulla critica delle testimonianze e sull’opposizione tra verità ed errore, tra la realtà delle

cose e la loro rappresentazione. La Prima guerra mondiale era stata un esperimento di psicologia

sociale che lo storico doveva imparare a studiare come tale.

Le false notizie avrebbero dovuto essere analizzate come realtà riconoscibili che, al di là della loro

falsità, riportavano in modo indiretto qualcosa di nascosto e di vero sugli uomini e sulle masse:

infatti, queste notizie false, erano accettate e diffuse solo perché corrispondevano a attese e

bisogni profondi. Insomma, le false notizie (come le credenze popolari relative al potere di

guarigione dei re1) diventavano oggetto di studio per lo storico in quanto testimonianze indirette

sulle mentalità collettive. Ogni credenza e ogni falso racconto nel momento in cui sono creduti e

diffusi costituiscono una “realtà” storica il cui studio consente di raggiungere la coscienza

collettiva di un’epoca.

1 M. Bloch, “I re taumaturghi”, 1924, avrebbe costituito il primo esempio concreto della fecondità della strada

tracciata con le prime riflessioni sulle false notizie.

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La prima guerra mondiale, vissuta in prima persona da Bloch, diventa l’ennesimo esperimento di

laboratorio che consente allo storico di evocare e ricostruire per molti aspetti una società e una

mentalità lontanissime: una società isolata da altri gruppi distanti nello spazio, con pochi contatti e

collegamenti, in cui a dominare sono la tradizione orale, la costruzione di leggende e di false

notizie che esprimono le paure, gli odi, i pregiudizi, le emozioni, cioè la mentalità dominante. “La

falsa notizia è lo specchio in cui la coscienza collettiva contempla i propri lineamenti”, scrive Bloch,

aggiungendo che “i falsi racconti hanno sollevato le folle”.

L’errore diventa allora oggetto di studio e dunque verità, ma è lo spirito critico dello storico che

disvela e spiega l’errore.

Una lezione di questo tipo, scritta un secolo fa, è ancora attuale nei giorni nostri, in cui ci troviamo

a vivere per capire – ma non giustificare – errori e pregiudizi.

… “Così, grazie alla psicologia della testimonianza, possiamo sperare di ripulire con mano più

abile l’immagine del passato dagli errori che l’offuscano. Ma l’opera critica non è tutto per lo

storico. L’errore non è per lui soltanto il corpo estraneo ch’egli si sforza di eliminare con tutta la

precisione dei suoi mezzi; egli lo considera anche come un oggetto di studio sul quale si china

allorché si sforza di capire la concatenazione delle azioni umane. Falsi racconti hanno sollevato le

folle. Le notizie false, in tutta la molteplicità delle loro forme – semplici dicerie, imposture,

leggende ‑, hanno riempito la vita dell’umanità. Come nascono? Da quali elementi traggono la

loro consistenza? Come si propagano, guadagnando in ampiezza a mano a mano che passano di

bocca in bocca o di scrit­to in scritto? Nessun interrogativo più di questi merita d’appas­sionare

chiunque ami riflettere sulla storia.

Ma in merito a esse la storia non ci arreca se non insufficienti chiarimenti. I nostri antenati non si

ponevano affatto questo tipo di problemi; essi rigettavano l’errore quando l’avevano riconosciuto

come tale; non s’interessavano al suo sviluppo. E per questo che le indicazioni che ci hanno lasciato

non ci permettono di soddisfare le nostre curiosità, ch’essi ignoravano. Lo studio del passato …

deve, in questo campo, basarsi sull’osservazione del presente. Lo storico che cerca di capire la

genesi e lo sviluppo delle false notizie, deluso dalla lettura dei documenti, penserà naturalmente a

rivolgersi ai laboratori degli psicologi. Gli esperimenti che vi s’istituiscono quotidianamente sulla

testimonianza, saranno bastevoli a fornirgli l’insegnamento che l’erudizione gli nega? Non credo

affatto; e ciò per svariate ragioni.” …

March Bloch, Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra,

trad. italiana di Donzelli.

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RACCONTARE LA GUERRA AL CINEMA Due episodi di esecuzione a confronto: “Orizzonti di Gloria” e “la Grande Guerra”

LA GRANDE GUERRA MONICELLI, 1957

Dopo lo scoppio della guerra, Busacca, appena uscito di

prigione, viene chiamato alle armi per combattere nella Prima

Guerra Mondiale. Con un tentativo di corruzione, Busacca

cerca di non partire, fingendosi malato. Iacovacci accetta la

quota e mettendo in scena una situazione credibile, inganna

l'uomo. I due si ritrovano qualche tempo dopo, arruolati

entrambi nell'esercito e costretti a condividere le sofferenze

della guerra. Da nemici diventano amici e i due fanno coppia

fissa in tutte le missioni, provando a scamparle il più a lungo

possibile. Nelle camerate sono conosciuti come i più lazzaroni e

codardi, al contrario di altri soldati come Bordin. Egli ha cinque

figli e una moglie da mantenere, accetta perciò di affrontare le

missioni più pericolose in cambio di soldi extra, ma morirà in

uno dei tanti attacchi. Nel 1916, quando i soldati italiani tornano a casa, Busacca e Iacovacci fanno

una colletta per i militari, con lo scopo poi di tenerla per sé. Incontrano, però, la vedova di Bordin

e non hanno il coraggio di dirle della morte del marito, così decidono di lasciarle la somma

raccolta.

Un nuovo attacco obbliga i due a tornare sul fronte. Vedono le crudeltà della guerra, fra i milioni di

feriti e di vittime, fra ragazzi molto giovani che muoiono per portare banali messaggi, fra le corse

alle trincee e le ritirate, fra le contestazioni del rancio e le condizioni critiche.

Un giorno, poi, Busacca e Iacovacci vengono scelti come messaggeri, perché i più inefficienti.

Arrivati a destinazione, riferiscono il messaggio e durante il ritorno si fermano in un pagliaio non

sapendo fosse occupato dai tedeschi. Decidono così di prendere i cappotti dei tedeschi per cercare

di scappare. Durante la fuga vengono presi e portati dal capitano, rischiando la fucilazione.

Iacovacci si lascia scappare un'indicazione del messaggio segreto e perciò i tedeschi vorrebbero

ottenere da loro le informazioni per bloccare l'attacco. I due italiani sembrano disposti a cedere, in

particolar modo Iacovacci, ma Busacca non rivela nulla e muore così fucilato. L'amico, vedendolo

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morire sotto i suoi occhi, decide di morire da vigliacco dicendo di non sapere niente, ma allo stesso

tempo da eroe. Intanto l'Italia riesce a vincere la battaglia. Gli altri soldati pensano che anche

questa volta i due amici–codardi l’abbiano scampata; non sanno che sono morti per non tradire la

patria.

https://www.youtube.com/watch?v=-tavJaJMtU8

ORIZZONTI DI GLORIA KUBRICK, 1957 Al colonnello Dax viene ordinata dai suoi superiori, la conquista del

"Formicaio", l'avamposto chiave della difesa tedesca schierato

davanti alla trincea del suo reggimento. La missione è quasi

impossibile, i suoi uomini sono pochi, in pessime condizioni, ed il

numero delle vittime stimate è estremamente elevato. La prima

ondata dei soldati del 701° parte all'attacco, attraversando la "terra

di nessuno", ma, decimati dalle pallottole nemiche saranno costretti

a ritirarsi, mentre i restanti soldati non riusciranno nemmeno ad

uscire dalla trincea.

L'attacco è fallito, ed il generale Broulard, diretto superiore di Dax

decide furioso di convocare una corte marziale per mandare al

plotone di esecuzione una parte dei suoi uomini, causa la loro

presunta codardia. Le iniziali elevate pretese (un centinaio di uomini)

per compiere "giustizia esemplare" si ridurranno a soli tre uomini,

scelti da ogni comandate di compagnia fra i componenti della prima

ondata.

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Gli uomini per varie ragioni vengono scelti, ed il colonnello Dax si schiererà dalla loro parte come avvocato

difensore davanti al tribunale di guerra, ma fallirà nel compito di salvarli dalle "pallottole francesi". Giustizia

verrà fatta davanti al plotone francese e a nulla servirà rivelare che Broulard aveva ordinato di fare fuoco

sulle propria fanteria.

Nella scena finale, i soldati francesi riuniti in un'osteria prima di partire nuovamente per il fronte, si

uniscono commossi al malinconico canto di una ragazza tedesca.

https://www.youtube.com/watch?v=uJNXXMaIV7w

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DUE PAROLE CHIAVE DELL’ESPERIENZA DI GUERRA

Cameratismo

L’addestramento formale come va fatto» – scrive Robert Graves – «è qualcosa di meraviglioso,

specialmente quando la compagnia marcia all’unisono come un unico essere ed ogni movimento

non ha più nulla di individuale, ma è il movimento singolo di una grande creatura» (Addio a tutto

questo, 1929). Per militari e volontari, l’addestramento era il primo momento di vita comunitaria

nella struttura gerarchica dell’esercito e generava un sentimento di solidarietà che nel passo di

Graves ha i tratti dello spirito di corpo, ma che sul fronte poteva diventare “ciò che di più bello

abbia prodotto la guerra”: il cameratismo (Niente di nuovo sul fronte occidentale, 1929).

Il cameratismo nasce dalla condivisione dell’esperienza del fronte: stallo e fatica delle trincee,

morte e devastazione degli scontri. Per gli uomini che hanno vissuto insieme la guerra, il

cameratismo lega più spesso i soldati di trincea con gli ufficiali di grado inferiore che li comandano,

ed esclude i superiori, rimossi dalla prima linea e spesso ignari della realtà che si vive all’interno.

Non è dunque lo spirito di corpo di cui scrive Giovanni Boine, tra gli altri, nei suoi Discorsi militari

(1914): non coinvolge tutti i membri dell’esercito in quanto tali, né deriva da una scelta ideologica.

Emergono così due aspetti sociali importanti.

1. Il legame del cameratismo supera le divisioni di classe: nelle sue Memorie di una ragazza per

bene (1958), Simone de Beauvoir racconta di un suo insegnante che ricordava l’esperienza

di cameratismo vissuta in guerra come felice liberazione dalle barriere sociali.

2. I livelli gerarchici dell’esercito tendono però a riprodurre le divisioni di classe della società, e

ciò significa che l’esercito stesso, in qualche modo, quasi celato, le ricalca. Infatti, di norma, il

reggimento unisce uomini di bassa estrazione sociale, al massimo studenti, intellettuali e

altre figure della piccola borghesia, ma non esponenti delle classi superiori.

Il cameratismo diventa così una forma di legame egualitario che vive sullo sfondo di una doppia

struttura gerarchica, una sociale e l’altra militare, e che pertanto incorpora spesso un sentimento

di ribellione.

Ribellione come quella di Paul Bäumer e dei suoi amici contro l’istruttore Himmelstoss, durante

l’addestramento, che porta i soldati del plotone di esecuzione, nel capitolo XXVIII di Un anno

sull’altipiano (1938), a uccidere il maggiore Melchiorri invece dei compagni condannati alla

fucilazione. Teso al suo limite, il cameratismo può comprendere il nemico – il soldato nemico che

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vive la stessa esperienza al di là della frontiera – e opporre i veterani ai civili o anche ai

commilitoni mai usciti dalle retrovie. Sempre Lussu, nel capitolo XV dello stesso testo, di fronte

all’assalto insensato dei soldati italiani, gli austriaci smettono di sparare e cominciano a gridare

“Basta! Basta!”, “Non fatevi ammazzare così”: così come gli austriaci stessi non avrebbero voluto

farsi ammazzare per l’ordine disumano di un ufficiale.

Lost Generation

L’origine dell’espressione è nota, se crediamo a ciò che

Hemingway racconta in Festa Mobile (1964): Gertrude

Stein, a Parigi, aveva portato dal meccanico la sua Ford

T, ma il giovane al quale era stato affidato il lavoro

“forse non si era reso conto di quanto fosse importante il

diritto della vettura di Miss Stein a una riparazione

immediata”. Stein si era lamentata e il proprietario del

garage aveva rimproverato il giovane: “Siete tutti una

génération perdue”, gli aveva detto.

Stein lo ripete a Hemingway, reduce dalla guerra e

apprendista scrittore che di Stein frequenta il salotto:

“Ecco che cosa siete tutti quanti. […] Tutti voi giovani

che avete fatto la guerra. Siete una generazione

perduta”. Hemingway si mostra scettico e Stein insiste:

“Non avete rispetto per niente. Vi uccidete a forza di

bere. […] Siete tutti una generazione perduta,

esattamente come ha detto il gestore del garage”.

Hemingway la sera torna a casa e intanto ricorda i suoi giorni da ambulanziere, si chiede se quel

giovane sia mai stato portato su una di quelle ambulanze, pensa a come frenassero in discesa,

all'egocentrismo di certi scrittori più anziani come Stein e alla propria disciplina nel lavoro e si

domanda “chi è che chiama chi una generazione perduta?”. All’improvviso si trova di fronte la

statua del maresciallo Ney e, ricordando “che razza di casino aveva combinato a Waterloo”, si dice

“che tutte le generazioni sono perdute per una cosa o per l’altra”.

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E proprio a Waterloo Fabrizio del Dongo, risalendo da Hemingway a Stendhal, era stato

protagonista della prima compiuta rappresentazione letteraria del legame unico degli eventi bellici

per il soldato gettato sul campo di battaglia.

A Waterloo, soprattutto, e nelle campagne napoleoniche dopo le guerre della Francia

rivoluzionaria, le generazioni di europei che per prime avevano creduto nella possibilità di un

ideale politico attuato nella storia, si erano imbattute nella scoperta che la storia, se può essere

orizzonte dell’ideale, può essere e più spesso sarà il luogo della sua negazione. Non diversamente,

coloro che si erano affacciati alla Grande Guerra come all’ora, in cui i propri ideali e il proprio

sentire sarebbero divenuti storia, conobbero invece la delusione e la catastrofe e, tornati, non

trovarono come riannodare i fili della storia interrotta.

“Ci darà la guerra quello che molti delle nostre generazioni hanno atteso da una rivoluzione?”,

domandava Prezzolini sulla “Voce” il 28 agosto 1914.

La generazione perduta non è solo quella dei demografi, che contano gli assenti.

La generazione perduta è anche quella di coloro che, reduci, scoprirono il danno subito nella

propria umanità e l’impossibilità del ritorno alla vita civile. Così dice Paul Bäumer prima di morire

sul fronte occidentale: “La guerra, come un’inondazione, ci ha spazzati via”.