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Il ruolo del contesto famiglia nel percorso di una didattica inclusiva.

La famiglia: archetipo relazionale

• Tra gli ambienti che partecipano alla e della vita dell’uomo, la famiglia occupa senza alcun dubbio un posto privilegiato. La trama dei suoi legami, governata da regole, sotto l’aspetto pedagogico si costituisce come archetipo relazionale, suscettibile o d’incanalare e incrementare o di svilire e pregiudicare le potenzialità individuali

Tre fasi di approccio alla disabilità

• Durante la prima fase la famiglia viene sconvolta, in modo radicale, inizialmente dallo shock e dalla negazione, poi dalla depressione e dal dolore. Si determina così la disgregazione di modelli relazionali e comportamentali consolidati e l’insorgenza di stati della mente disorganizzati a causa dell’incredulità, dello stupore, del senso di impotenza e di oppressione iniziali.

• Nella seconda fase, invece, emergono in maniera più evidente i sentimenti di ambivalenza; il rifiuto si mescola a sensi di colpa violenti e a forme di rabbia reattiva; la paralisi del pensiero e la disorganizzazione della prima fase lasciano il posto ad un pensiero più attivo, anche se fortemente polarizzato su sentimenti negativi. L’oscillazione tra sentimenti di speranza e di frustrazione.

• Durante la terza fase nella famiglia si manifestano dimensioni più costruttive e flessibili, purché essa non sia patologicamente fissata alle fasi precedenti. Tra i coniugi, con differenti vissuti mentali, una sorta di patteggiamento interno si accompagna a elaborazioni adattive e di accettazione con l’evocazione di tutte le risorse emozionali adatte a favorire una crescita del figlio.

• Un intervento finalizzato al potenziamento e all’uso delle risorse intrafamiliari quali la conoscenza del problema, la capacità di affrontare razionalmente le situazioni problematiche, le abilità di risoluzione di specifici problemi nel rapporto con i figli, come quelli educativi, la fiducia nelle proprie capacità, le relazioni che permettono di creare un clima di benessere psicologico tra i vari membri della famiglia.

• Con il contributo teorico e pratico delle teorie sistemiche oggi si stanno affermando orientamenti i quali mirano a dimostrare che la famiglia con disabilità in molti casi non solo sopravvive alla situazione continuando a funzionare, seppure a “scartamento ridotto”, ma la fronteggia attivamente, sviluppando al proprio interno valori positivi, risorse vitali e coagulando aiuti esterni.

• A partire dagli anni ’70 che si va diffondendo l’empowerment model in contrapposizione al deficit model o pathology oriented; laddove quest’ultimo si sofferma sul negativo, sulla malattia, sul singolo, sulla patologia, sulle difficoltà, l’altro, invece, tende a valorizzare il positivo, la salute, la comunità, la crescita e la pienezza.

• Promuovere la famiglia significa agire sulle relazioni in un determinato contesto; l’empowerment ha, pertanto, un carattere sussidiario in quanto favorisce l’accrescimento delle competenze e delle capacità di una persona stimolando le risorse di ogni tipo (materiali, culturali, psicologiche, spirituali) nelle relazioni che permettono di sviluppare l’identità della persona.

• L’assunto centrale è che le diverse capacità, sia educative che affettive delle famiglie ‘problematiche’, possono essere aumentate inserendole in una rete di supporti realizzate da altre famiglie. Contemporaneamente, mediante il rafforzamento delle relazioni familiari, l’empowerment favorisce anche la trasformazione delle relazioni stesse.

• In particolare, si deve lamentare la scarsità di ricerche pedagogiche rivolte al ciclo vitale della famiglia con disabilità nelle prime fasi di vita del bambino. Come se gli spazi di generatività facessero fatica a concretizzarsi in aspettative, sguardi, gesti e parole agli inizi difficili dell’esistenza.

Sviluppare le competenze familiari

• rendere competenti (enabling) le famiglie rafforzando le loro abilità comunicative al fine di soddisfare i propri bisogni e di raggiungere gli obiettivi desiderati;

• rendere consapevoli del loro potere (empowering) le famiglie attuando interventi che consentono ai familiari di raggiungere una certa autonomia per soddisfare le varie esigenze di sistema;

• rendere forti (strenghthening) le famiglie e le loro reti in modo da promuovere la mobilitazione e lo scambio delle risorse tra i vari membri della rete.

• La capacità generativa nei confronti del figlio in difficoltà e la tenuta della progettualità familiare sono intimamente collegate: un processo riabilitativo e abilitativo basato su un’impostazione olistica, dove il bambino disabile viene considerato nella sua dimensione antropologica e non nelle singole disabilità favorisce tra i genitori e il piccolo nato quell’attaccamento indispensabile ad alimentare la progettualità familiare.

• Quello della famiglia è un ruolo fondamentale per una positiva crescita del disabile all’interno del contesto sociale in cui vive, ma così come può fungere da trampolino di lancio per una buona inclusione, altrettanto facilmente può diventare un ostacolo se non comprende a fondo che uno dei suoi membri, anche se speciale, ha diritto, come tutti gli altri, ad un costante e continuo aiuto affinché possa sviluppare al meglio le sue potenzialità, al fine di delineare un adeguato percorso di vita.

Il distanziamento educativo

• Con le persone disabili non c’è il distanziamento educativo. C’è una sorta di “troppo vicino” che non finisce mai e che è sempre connotato dalle stesse caratteristiche (le carezze, le spiegazioni,..) modalità relazionali che testimoniano un approccio educativo del non allontanamento. Il distanziamento, nelle persone con disabilità, rappresenta un problema difficile da risolvere, perché la separazione non è facilitata dal conflitto adolescenziale.

Il dopo di noi

• Assai raramente si prende in considerazione il fatto che la persona disabile che oggi è un adolescente, domani diventerà un adulto con tutti i diritti e doveri che questo passaggio impone al singolo soggetto, ma anche con tutte le responsabilità che una comunità sociale deve assumersi nei confronti delle persone più deboli. … La famiglia a volte non è in grado di comprendere l’importanza di un progetto educativo e sociale da iniziare a scuola, durante gli anni dell’obbligo, e che deve con lungimiranza proiettarsi in un futuro prossimo

• Sulla prospettiva del dopo di noi, si concorda sul fatto che tale evento debba essere preparato dai familiari con un programma del durante noi, perché solo così si ha a disposizione un tempo utile per una verifica sulle scelte, eventualmente per possibili aggiustamenti, per individuare e calibrare l’intervento privilegiato e una messa a punto.

• I servizi attuali offrono alcuni modelli di residenzialità’ la cui progettazione richiede l’apporto dei genitori stessi. E’ necessario, infatti, non solo curare il disturbo, ma prendersi cura della persona con il suo deficit, primariamente attraverso la famiglia che deve saper riconoscere il figlio (identificazione) e credere in quanto egli potrà comunque fare (investimento).

• Disabilità: ricerca di senso attraverso l’esperienza nascosta con le famiglie

La narrazione appartiene all’uomo fin dalle origini della storia dell’umanità poiché, trascendendo l’oralità e la scrittura e, pur- tuttavia, servendosi anche di esse, la narrazione è connaturata al genere umano. Essa è lo strumento di cui la memoria si serve per mostrarsi depositaria della storia di ognuno e testimone della nostra identità.

• Ripescare nella memoria gli avvenimenti fondamentali, i momenti critici, i fallimenti e i traguardi, per approfondire le reazioni emotive e le spiegazioni è il percorso che meglio contribuisce alla ricostruzione della nostra storia.

• Se raccontare di sé è l’unico strumento che l’uomo possiede per far conoscere la propria storia, ne deriva che non sia possibile presentarsi al mondo se non narrandosi. La vita di ognuno, di fatto, è un intrecciarsi di narrazioni; esse stesse non sono altro che rielaborazioni inconsapevoli di eventi, episodi, emozioni, sogni. La narrazione ci immerge in un abisso in cui la rivalutazione del passato e la progettazione del futuro guidano le nostre azioni e orientano il racconto di noi stessi.

• Quanto più abbiamo vissuto intensamente nel dolore o nel piacere, eventi e circostanze, tanto più questi diventano ricordi indelebili e intermittenti e si avverte l’esigenza di raccontarli quasi a cercare un sollievo e una cura che alleggerisca dal peso ingombrante che tale evento ha segnato nel corso della vita; così, il bisogno di narrarsi in modo diverso attraverso un Io che tesse le trame del racconto segna un’inequivocabile nuova tappa della nostra maturità. (D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Cortina, Milano 1996, p. 21).

• La narrazione, in forma orale o scritta, può rivelarsi prezioso strumento di ri-orientamento anche per l’esperienza della disabilità. Non è un caso, infatti, che anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia riconosciuto l’importanza della narrazione e sancito il diritto dell’individuo di affermare la propria autonomia decisionale nel partecipare consapevolmente alla gestione del percorso di cura che può prevedere, quindi, anche l’adesione a modalità narrate di cura e di intervento.

• Di fronte a una persona con disabilità, immersa nel suo mondo, spesso incomprensibile e inaccessibile, coglierne esigenze e necessità non è possibile solo attraverso l’osservazione del comportamento; serve, al contrario uno strumento che penetri la storia personale e ne delinei i contenuti; per far ciò, utile è recuperare la storia del soggetto attraverso il racconto dei caregiver che lo hanno assistito o abilitato. Il prodotto che ne deriva è una riflessione orientata sull’esperienza vissuta e sull’emozione originata volta a “curare” la propria interiorità Cfr. C. Ruggerini, S. Manzotti, G. Griffo, F. Veglia, Narrazione e disabilità intellettiva. Valorizzare le esperienze individuali nei percorsi educativi e di cura, Erickson, Trento 2013.

• “Lui guardava nel vuoto, è stato difficile guadagnare il suo sguardo… io gli parlavo ma non mi guardava e questo mi faceva tanto male, solo 4 anni fa mio figlio ha imparato a guardarmi… io mi chiedevo perché non mi guardasse, ma sono stato tenace, ho parlato, ho giocato, ho scherzato, non ho usato la bacchetta magica… Io con mio figlio parlavo di tutto, lo accarezzavo, cercavo il contatto fisico, sono andato contro i consigli di mio padre che insisteva perché mantenessi le distanze pur di fare in modo che mio figlio mi riconoscesse nel mio ruolo di padre”. (papà)

• La storia del disabile, infatti, non è solo la sua propria storia ma anche la storia della sua famiglia. “Quello della famiglia è un ruolo fondamentale per una positiva crescita del disabile all’interno del contesto sociale in cui vive, ma così come può fungere da trampolino di lancio per una buona inclusione, altrettanto facilmente può diventare un primo e insormontabile ostacolo se non comprende a fondo che uno dei suoi membri, anche se speciale, ha diritto, come tutti gli altri, ad un costante e continuo aiuto affinché possa sviluppare al meglio le sue potenzialità, al fine di delineare un adeguato percorso di vita”.

• G. Elia, La Famiglia con figlio disabile, in L. Pati (ed.), Pedagogia della famiglia, La Scuola, Brescia 2014, p. 298.

• «È stato un lavoro fatto da sempre, c’è sempre stata la ricerca del continuo incoraggiamento: voi potete farcela! Abbiamo sempre creduto che potevano farcela e abbiamo creduto nelle loro capacità di risoluzione” per far questo, la strategia è sempre stata quella di normalizzare il problema, renderlo lineare e di possibile fronteggiamento». (racconta una mamma)

• Il modello narrativo costituisce un principio interpretativo e organizzativo di tutte le manifestazioni della condotta umana, poiché è usato dagli uomini per costruire la loro immagine del mondo, dove agiscono con delle intenzioni: per Bruner la vita collettiva è possibile grazie alla capacità umana di organizzare e comunicare l’esperienza in forma narrativa secondo il proprio punto di vista, le proprie credenze e intenzioni.

• J. S. Bruner, La fabbrica delle storie: diritto, letteratura, vita, Roma-Bari, Laterza 2002, p. 8

• La famiglia costituisce un contesto educativo e relazionale indispensabile per la trasmissione delle eredità e la formazione delle identità. Essere parte di una storia familiare conferisce la sicurezza di non essere soli, di avere dei riferimenti, certamente da elaborare con atteggiamento critico e da rinnovare, ma comunque incoraggianti. Nell’invito a coltivare una memoria familiare elemento importante è la necessità d’imparare a riflettere sulla complessa trama che intreccia i rapporti familiari passati e presenti, i quali sono a fondamento dell’identità di ciascun membro.

• Raccogliere storie significa dunque dare voce, parola e dignità alla persona con disabilità e favorire in tal modo la sua partecipazione restituendo dignità alla sua condizione e a quell’identità spesso negata e banalizzata. Il procedere comunicativo, la collaborazione che ne deriva svolgono, dunque, la funzione di generare nuove possibilità.

• Quello della famiglia, si rivela un luogo funzionale nel momento in cui al suo interno non vi siano abdicazioni dei ruoli genitoriali o rinunce all’esercizio dell’autorità funzionale alla crescita del disabile; piuttosto la resilienza nasce dalle risorse che caratterizzano le relazioni del familiari, dalla fiducia espressa nei confronti delle potenzialità delle abilità residue del disabile e sull’apprezzamento delle stesse nonché dal rafforzamento dei codici identitari.

• Cfr. C. Marocco Muttini, La famiglia e l’adolescenza del figlio disabile, in M. Pavone (a cura di), Famiglia e progetto di vita. Crescere un figlio disabile dalla nascita alla vita adulta, Erickson, Trento 2010, p. 67.

• L’approccio da utilizzare per l’analisi di questi aspetti, dunque, non può basarsi sul deficit ma sulle risorse e quindi sulle caratteristiche familiari che consentono l’attivazione di meccanismi funzionali a favorire un buon adattamento delle famiglie alla disabilità.

• “A poco a poco imparo a scremare chi lavora con serietà dai

tanti venditori di illusioni, che speculano sul dolore delle famiglie e sull’assenza di un approccio universalmente riconosciuto come efficace. […] sono intenzionato a insegnare a Giulio a parlare, giocare, chiedere, relazionarsi con gli altri, a cominciare da me, per tentare di fargli vivere una vita quanto più normale possibile […] mio figlio sta crescendo, e come genitore sono chiamato ad agire, subito”. (papà, 2015)

• Inoltre, per i genitori, non ci sono manuali di percorso, ma solo diari di bordo per infondere fiducia, per dare speranza, per fornire sostegno. E’ necessario che questi continuino a cercare la propria rotta interiore, sperimentando la formazione all’umanità che è in loro, continuando nell’estenuante ricerca di nuove parole e di nuovi discorsi, per ascoltare e comunicare con i propri ragazzi.

• Modelli relazionali genitoriali volti alla condivisione e alla complicità; modelli educativi volti a fornire esempi pratici, a stimolare l’analisi critica, a contenere le difficoltà, a differenziare le soggettività e a condividere le esperienze; stili comunicativi centrati sulla trasparenza e sulla condivisione tarati e rivolti alla capacità di comprensione dei figli; dinamiche relazionali centrate sul dialogo empatico, sulla ricerca dell’affetto, hanno rappresentato elementi caratterizzanti le pratiche buone che hanno favorito l’evoluzione positiva di queste famiglie.

• Il racconto della disabilità può apparire incomprensibile a coloro che di disabilità non sono abituati a sentir parlare; la difficoltà sta nella necessità di andare oltre il contenuto per accedere all’universo dell’intrinseco e dell’inaccessibile; la banalità del messaggio trasmesso resterebbe tale se l’ascoltatore si soffermasse a coglierne i contenuti, piuttosto arricchente e soprattutto chiarificatore quel messaggio diventa nel momento in cui si riesce a coglierne il carattere; non basta, infatti, “sentire” quello che ci viene espresso verbalmente.

• La famiglia che narra la storia del disabile, che narra, dunque, la sua storia, sta sottoponendosi ad un percorso di cura che attraverso il recupero delle memorie e la rivisitazione dei vissuti, mette fuori le proprie emozioni, ri-orientandole e reinterpretandole. Così il processo della narrazione è un processo dinamico poiché ridefinisce e ricostruisce.

• La questione della disabilità è, quindi, una questione culturale poiché essa comporta l’incontro/confronto con il limite che in quanto tale segna il confine tra l’accettazione e il rifiuto o il non riconoscimento di una realtà oggettiva differente da quella comune. Paradossalmente, la sfrenata ricerca di cure, l’accanimento scientifico, l’attivazione incontrollata di interventi preventivi rappresentano escamotage per cercare di “arrestare” il limite, ma quel che ne rimane è l’illusione del successo che peggiora i vissuti di coloro che vivono la disabilità.

• Afferma Anna Maria Sorrentino,

• “il disabile diviene perciò una presenza fastidiosa: è riconosciuto soggetto di diritti, ma il permettergli di conseguirli è così difficile e pone problemi così insormontabili rispetto alle aspettative sociali da voler essere dimenticato. Il vissuto dominante nei suoi confronti e nei confronti della sua famiglia, è l’ambivalenza, con i tentativi più comuni per superarla che sono l’evitamento, la compassione e la banalizzazione del problema”.

• L. Bichi, Disabilità e pedagogia della famiglia…, op. cit., p. 13.

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