28
FILOSOFIE N. 171 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) COMITATO SCIENTIFICO Paolo Bellini (Università “Insubria”, Varese) Claudio Bonvecchio (Università “Insubria”, Varese) Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3) Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano) Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna) Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo) Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari) Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari) I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review

A proposito della riflessione sull'antico di Nicole Loraux

Embed Size (px)

Citation preview

FILOSOFIEN. 171

Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine)

COMITATO SCIENTIFICOPaolo Bellini (Università “Insubria”, Varese)Claudio Bonvecchio (Università “Insubria”, Varese)Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3)Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano) Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna)Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo)Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari)Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari)

I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review

VOLTI DELLA MEMORIAa cura di Giuseppe Di Giacomo

MIMESISFilosofi e

Il presente volume è pubblicato con il contributo del MIUR, Progetto di Università 2010, Dipartimento di Filosofia, Università di Roma “Sapienza”; responsabile della ricerca prof. G. Di Giacomo.

© 2012 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)Collana: Filosofie n. 171Isbn 9788857510811www.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI)Telefono +39 02 24861657 / 24416383Fax: +39 02 89403935E-mail: [email protected]

INDICE

INTRODUZIONE p. 9

PROSPETTIVE TEORICO-FILOSOFICHE DAI CLASSICI ALLE NEUROSCIENZE

Memoria e testimonianza in Resp., X, 614 b-621 d: il mito platonico di Er.di Giovanna Sillitti p. 25

La concezione aristotelica della memoria: una semiotica naturalistadi Miguel Candel p. 35

Filosofi a e memoria nel pensiero di Hegeldi Guido Coccoli p. 43

Memoria e libertà. Rifl essioni su Sartre e Camus di Marcella D’Abbiero p. 51

Conoscere per contatto di Alessandro Simonicca p. 59

Memoria e testimonianza tra neuroscienze e scienze umane di Ignasi Rovirò p. 79

RIPENSARE LA MEMORIA NELL’ARTE MODERNA

Apertura del soggetto ipercontemporaneo: memorie, tracce, depositi di Simonetta Lux p. 95

Se l’arte archivia il tempo: memoria e trauma nella Cultural History di Hanne Darbovendi Carla Subrizi p. 119

Memoria ed esperienza estetica: alcune considerazioni sull’arte dell’appropriazione e dell’obliterazione.di Alfonso Ottobre p. 137

Tadeusz Kantor, il ready-made della memoria nella scena della vita di Dario Evola p. 159

Memoria del testo, memoria del vissuto in Gadda di Giorgio Patrizi p. 179

Il cinema e i limiti della testimonianza. Dall’immagine dell’11 settembre al Massacro di Parigi in “Niente da nascondere”di Alessandro Alfi eri p. 191

MONUMENTO, IDENTITÀ, MEMORIA

Ritratto, monumento e memoria nella cultura di Roma anticadi Giuseppe Pucci p. 209

Aby Warburg e la memoria delle immagini: Rembrandt e “Il Giuramento di Claudio Civile”di Claudia Cieri Via p. 225

Arte pubblica e memoria collettiva: Aby Warburg e il monumento di Bismarck ad Amburgo (1902-1906) di Micol Forti p. 245

L’arte fuori dal museo come recupero della memoria di luoghi, identità, storie antiche e attuali di Elisabetta Cristallini p. 263

Appunti sull’immemoriale: tra crisi del monumento e memory boom.di Francesca Gallo p. 277

Memoria come diagramma? Le “architetture della memoria” nel modernocontemporaneo di Alessandro Lanzetta p. 293

MEMORIA, OBLIO, TESTIMONIANZA

Tragedia, memoria e oblio nella rifl essione sull’antico di Nicole Lorauxdi Antonio Valentini p. 315

Tra Mnemosine e Lete: Reminiscences e A Sketch of the Past di Virginia Woolfdi Laura Talarico p. 335

Vuoti di memoria. Quattro voci sull’obliodi Micaela Latini p. 353

L’arte e la memoria dei campi. Zoran Music a Dachaudi Fiorella Bassan p. 367

Pensare contro se stessi. Su alcune domande che la musica composta a Terezín pone alla fi losofi a e all’artedi Leonardo Distaso p. 379

Sognare la fi losofi a ad Auschwitzdi Raffaella Di Castro p. 395

Radiodellamemoria 27.01.1945di Andrea Petrillo p. 415

Tradizione orale e lingua scritta in Somaliadi Gianni Mauro p. 429

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Memoria e testimonianza tra estetica ed eticadi Giuseppe Di Giacomo p. 445

315

ANTONIO VALENTINI

TRAGEDIA, MEMORIA E OBLIO NELLA RIFLESSIONE SULL’ANTICO

DI NICOLE LORAUX

All’interno della presente ricerca dedicata al tema “Memoria e testimo-nianza”, mi pare interessante proporre un contributo relativo alla questione del rapporto memoria-oblio così come questo emerge e viene tematizzato nell’ambito della rifl essione che la celebre antichista francese Nicole Lo-raux sviluppa in riferimento al mondo greco e, in particolare – com’è noto – in riferimento alla tragedia attica del V sec. a.C. Non a caso, come vedre-mo, è appunto alla tragedia che la Loraux – scomparsa nel 2003 – dedica quella che forse costituisce la sua ultima grande opera, La voce addolorata, opera che nasce da un ciclo di sette conferenze tenute dall’autrice presso l’Università Cornell (negli Stati Uniti) nel 1993, e all’interno della quale la tragedia viene esaminata in quanto rappresentazione – e, con ciò stesso, in quanto rammemorazione – di una particolare forma di pathos: il pathos connesso all’esperienza, per se stessa irrappresentabile, del lutto.

Ma, prima di procedere all’analisi del rapporto memoria-tragedia, quale emerge appunto dai lavori della Loraux, facciamo un piccolo passo indie-tro. Per capire meglio quanto il tema della memoria risulti decisivo all’in-terno della rifl essione sull’antico compiuta dalla studiosa francese, e quali molteplici signifi cati tale tema assuma nell’orizzonte della sua ricerca, è opportuno prendere le mosse dalla lettura di una sua raccolta di saggi che ha per titolo La città divisa. L’oblio nella memoria di Atene, e che costituisce in qualche modo il precedente teoreticamente più rilevante rispetto al sag-gio del 1999. Intanto, mi pare importante ricordare che, a partire dal 1994, tutti i lavori di Nicole Loraux si collocano all’interno di un programma di studi più generale promosso da un centro di ricerca che la studiosa fonda – sempre nell’ambito della Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales dove insegna dal 1981 –, dopo aver abbandonato il Centre Louis Gernet (un tempo diretto dal suo maestro Jean-Pierre Vernant), e che è consacrato all’analisi degli “Usi moderni dell’antico”: un centro il cui programma è effi cacemente riassunto dalla dizione “Histoires, temporalités, turbulences” (“Storie, temporalità, turbolenze”). Tutto ciò è interessante perché ci aiuta a comprendere, nei suoi tratti caratteristici, l’orizzonte teorico e metodolo-

316 Volti della memoria

gico all’interno del quale si inscrive la specifi ca tematizzazione, da parte della Loraux, del nesso memoria-oblio. Da questo punto di vista, il fatto che la studiosa abbandoni un’istituzione tanto prestigiosa come il “Centro Louis Gernet”, per orientare in modo “diverso” i suoi studi sull’antico, non è che l’esito ultimo – e, insieme, la conseguenza inevitabile – di un processo di maturazione e di elaborazione critica il cui tratto essenziale è il progressivo allontanamento della stessa Loraux da quel paradigma teorico – ereditato, appunto, dai suoi maestri Vernant e Vidal-Naquet – che si fonda su una complessa mescolanza di marxismo e strutturalismo, e che risulta per molti versi dominante negli studi di antichistica sviluppati dalla scuola francese nella seconda metà del Novecento.

In questa prospettiva, il distacco sempre più deciso della Loraux dalla tradizione strutturalistica (la cui infuenza, di fatto, condiziona ancora pe-santemente l’orizzonte della “psicologia storica” di Vernant) implica, in primo luogo, la messa in atto di quello che potremmo defi nire un tenden-ziale slittamento non soltanto “da Marx a Freud”, ma anche – ed è pro-prio questo, forse, l’aspetto teoreticamente più rilevante e innovativo – “da Marx a Nietzsche”. In questo senso, è appunto a partire dalla consapevole assimilazione della duplice lezione freudiana e nietzscheana, che il lavoro compiuto dalla Loraux, al di là di ogni possibile «ricorso» (tipicamente strutturalistico) «a “rappresentazioni” distribuite sulla superfi cie piana di tabelle di opposizioni», e lungi dal procedere quindi per «antitesi nette» («tranchées») e di fatto metastoriche – l’antitesi, per esempio, «tra ciò che è bello (buono, uno, legittimo, civico) e ciò che non lo è»1 –, pare piuttosto orientato a una messa a fuoco dell’antico che proceda “ai margini” del det-to e del determinato. L’obiettivo di una tale indagine, infatti, sembra essere quello di “rammemorare” tutto ciò che, nella storia, tende a essere nascosto e rimosso: le tensioni e i confl itti latenti, le contraddizioni inespresse, le dissonanze implicite o dissimulate. Quello che emerge, allora, è una pratica storiografi ca volta, innanzitutto, a riconoscere l’altro nel proprio, ovvero l’estraneo nel familiare, portando così a visibilità quelle “zone di confi ne” o «di sovrapposizione» – zone che l’autrice stessa defi nisce «torbide»2 –, all’interno delle quali a manifestarsi è non già la presunta incontrovertibi-lità o irrevocabilità dell’identico, bensì (nietzscheanamente) la coappar-

1 N. Loraux, Ripoliticizzare la città, in La cité divisée. L’oubli dans la mémoire d’Athènes, Ed. Payot & Rivages, Paris, 1997, tr. it. di S. Marchesoni, La città divisa. L’oblio nella memoria di Atene, Neri Pozza, Vicenza, 2006, p. 115.

2 Ibidem.

Antonio Valentini - Tragedia, memoria e oblio nella rifl essione sull’antico di N. Loraux 317

tenenza indissolubile degli opposti, il loro reciproco presupporsi, la loro complementarità.

Ora, il motivo conduttore che attraversa tutti i saggi contenuti nel volume La città divisa è il riconoscimento del fatto che la polis greca – o, meglio, la rappresentazione che, di se stessa, dà la città greca «per eccellenza»3, vale a dire Atene – si fonda sull’oblio: un oblio che assume la forma di una vera e propria rimozione. Secondo la Loraux, infatti, alla base della cosiddetta “ideologia civica” (intesa come insieme dei modi e delle forme attraverso i quali la città greca, appunto, pensa e defi nisce se stessa) c’è il rifi uto, o la negazione, di tutto ciò che, rispetto alla presunta stabilità, per-manenza e coesione dell’ordine sociale e politico vigente, viene percepito come l’espressione di una discontinuità e di una disarmonia. Si tratta in particolare della tendenza, propria appunto della polis, a occultare, o a can-cellare, quel momento della “divisione” – e quindi del confl itto (la stàsis) – che costituisce, a ben vedere, la stessa condizione di possibilità di ogni atto o pratica comunitaria: il fondo opaco ineliminabile – un fondo fatto di violenza, dolore e pathos – che sempre “sopravvive”, sia pure nella forma della latenza o dell’inespresso, all’interno delle molteplici rappresentazioni che la polis fa di se stessa, e più in generale all’interno di ogni possibile kosmos storicamente determinato. Ebbene, è esattamente questo che la cit-tà «non vuole vedere né pensare»4: l’«altra faccia»5 di se stessa. Potremmo anche dire: l’ombra della luce che la luce sempre presuppone e custodisce in sé. In questo senso, se la «dimenticanza del confl itto» è la dimenticanza del «carattere per defi nizione confl ittuale del politico»6, allora è legittimo affermare che a fondamento della polis greca c’è quello che Nicole Loraux non esita a defi nire l’«ellissi del politico nel contesto del politico stesso»7.

Tutto ciò è una conseguenza del fatto che il tratto distintivo dell’ideolo-gia civica è senza dubbio il suo presentarsi come l’espressione di una stra-tegia eminentemente “identitaria”: una strategia che lavora, a ben vedere, per sottrazioni e per esclusioni, tacendo e omettendo, vale a dire censuran-do e mettendo in parentesi, negando e respingendo. In questa prospettiva, osserva acutamente la Loraux, la polis si istituisce come «luogo geometri-co dei simili»8, e di conseguenza come uno spazio rigorosamente omoge-

3 N. Loraux, L’oblio nella città, in La città divisa, cit. p. 75.4 N. Loraux, Ripoliticizzare la città, in La città divisa, cit., p. 111.5 Ibidem.6 N. Loraux, La voix endeuillée, Gallimard, Paris, 1999, tr. it. di M. Guerra, La voce

addolorata. Saggio sulla tragedia greca, Einaudi, Torino, 2001, p. 47.7 N. Loraux, Ripoliticizzare la città, in La città divisa, cit., p. 106.8 N. Loraux, L’oblio nella città, in La città divisa, cit., p. 76.

318 Volti della memoria

neo e isomorfi co: uno spazio fondato sulla condivisione tendenzialmente ugualitaria del potere politico e, per ciò stesso, su un complesso sistema di integrazioni e di esclusioni, costruito non a caso attorno al nucleo domi-nante degli andres. Questi ultimi, del resto, e soltanto loro, sono i veri e propri “cittadini”, resi tali non soltanto dal fatto di essere individui adulti di sesso maschile, ma anche dalla loro “autoctonia”, dal loro essere cioè stretti simbolicamente da un vincolo originario di parentela per il quale tutti, pur avendo ciascuno individualmente un padre diverso, hanno però collettivamente la stessa madre: la terra attica, appunto, secondo il celebre mito di Erittonio. Ebbene, è proprio il gruppo degli andres a fare della polis, secondo la Loraux, una città «unitaria e costituita da identici»9: una comunità composta da soggetti di fatto «intercambiabili», ossia recipro-camente sostituibili, «perché in linea di principio perfettamente simili tra loro»10. In defi nitiva, proprio perchè “equivalenti”.

Di qui, allora, l’idea di una città che, in quanto agitata da un «sacro terrore del Due»11, non può pensarsi e rappresentarsi se non in quanto «una e in pace con se stessa»12. In questo quadro, la polis si defi nisce come il risultato di un’evoluzione teleologicamente orientata: un’evoluzione che procede, in modo rigorosamente lineare e “necessitato”, dal caos al ko-smos, dal disordine all’ordine, dalla guerra alla pace, dalla disarmonia alla concordia. Da questo punto di vista, si può dire che il confl itto – la disso-nanza, lo squilibrio – rappresenta quel “prima” che, essendo stato elimi-nato dalla città “all’inizio dei tempi”, a partire da quel momento, può poi riaffi orare soltanto nella forma di una disfunzione patologica. In questo modo, l’ideologia civica non fa che considerare «sempre già superato»13, o superato «una volta per tutte»14, qualcosa che invece, nella sua originarietà e fondamentalità, costituisce una dimensione «sempre da superare»15, da superare cioè sempre-e-di-nuovo, al di là di qualunque garanzia apodittica e al di là di ogni possibile rassicurazione.

Di qui, nell’orizzonte appunto della polis, la tendenza a cancellare il momento della divisione e del confl itto che inevitabilmente accompagna le procedure di voto, le decisioni cioè prese a maggioranza –, con la conse-guente pretesa che, nel dibattito pubblico, «in conclusione di uno scontro

9 Ivi, p. 77.10 N. Loraux, Ripoliticizzare la città, in La città divisa, cit., p. 109.11 G. Pedullà, Introduzione a N. Loraux, La città divisa, cit., p. 24.12 N. Loraux, La voce addolorata, cit., p. 46.13 N. Loraux, Ripoliticizzare la città, in La città divisa, cit., p. 113.14 Ivi, p. 107.15 Ivi, p. 113.

Antonio Valentini - Tragedia, memoria e oblio nella rifl essione sull’antico di N. Loraux 319

fra discorsi, l’opinione che ha la meglio passi per la migliore»16. Ma il risul-tato di questa rimozione della disarmonia da parte della polis è anche la sua tendenza a rifi utare l’origine politica della stasis, descrivendola magari nei termini di una malattia che aggredisce il corpo civico dall’esterno (il che, non a caso, vale anche in riferimento alla fi gura del tiranno). Ma esemplare, a tale proposito, è pure quella diffusa rinuncia al «lessico della vittoria» che mostra in modo perspicuo come l’ideale politico resti sempre e comunque quello delle «decisioni prese all’unanimità»17. Quello della vittoria, infatti, è un lessico che include nozioni decisive quali kràtos e nìke: termini che, esprimendo il prevalere di una determinata posizione sulla posizione op-posta, portano alla luce una perdita di coesione, e quindi una lacerazione, nell’unità dello spazio civico. In questo senso, la rinuncia della città a un tale lessico non fa che confermare, ancora una volta, il carattere in ultima analisi identitario del sistema ideologico che regge e governa la città greca: il suo fondarsi sul primato incontrovertibile assegnato all’ “uno” rispetto al “due”, ovvero all’unità rispetto alla molteplicità, e con ciò stesso all’iden-tità rispetto alla differenza.

Ebbene, il risultato di questo “oblio del confl itto” – emergente in modi diversi e a livelli diversi nella cultura greca antica – è, per la Loraux, il trionfo di un’idea del politico «come circolazione immobile»18: come luo-go geometrico «senza scosse»19 e già da sempre «a riposo»20; è, in defi ni-tiva, il prevalere di uno schema interpretativo – di fatto ideologico e “mi-tizzante” – che punta a “dimenticare”, più o meno consapevolmente, tutte le dinamiche che, proprio in virtù del loro carattere tensivo e contrastivo, risultano irriducibili al movimento «regolare e ripetitivo» della rotazione annuale della cariche. Tale rotazione, infatti, va intesa come «redistribu-zione annuale del politico»21 all’interno di uno spazio – la comunità degli àndres, appunto – che, pur essendo fondato sull’esclusione dell’altro o del diverso (le donne, gli schiavi, gli stranieri), si pretende tuttavia egualita-rio e indivisibile. Non è un caso, allora, che, là dove le fonti letterarie la-sciano emergere l’istanza del confl itto e della divisione, come accade per esempio nel III libro della Guerra del Peloponneso di Tucidide, quando l’autore narra i fatti di Corcira del 427 a.C., all’evocazione della stàsis sia

16 Ibidem.17 N. Loraux, L’oblio nella città, in La città divisa, cit., p. 70.18 Ivi, p. 64.19 N. Loraux, Ripoliticizzare la città, in La città divisa, cit., p. 109.20 N. Loraux, L’oblio nella città, in La città divisa, cit., p. 64.21 Ivi, p. 67.

320 Volti della memoria

strettamente connesso il manifestarsi di ciò che la polis percepisce come altro da sé; il che, nel caso dell’episodio rievocato da Tucidide, si traduce nell’improvvisa irruzione sulla scena politica dei soggetti tradizionalmente «dimenticati»22 – le “donne” e gli “schiavi”, da sempre esclusi dalla vita pubblica – che, in quella circostanza invece, partecipano attivamente alla lotta, combattendo tra le fi la del partito popolare.

In particolare, nel saggio intitolato L’oblio nella città, Nicole Loraux mette bene in evidenza come l’attitudine della polis a dimenticare e a ri-muovere la divisione emerga già nell’epos omerico. È quanto troviamo, esemplarmente, nel XVIII canto dell’Iliade, là dove viene descritto lo scu-do di Achille, scudo sul quale Efesto, che appunto l’ha costruito, ha raffi gu-rato due città umane, entrambe “belle”: l’una impegnata nelle attività che sono proprie dei tempi di pace (la celebrazione dei matrimoni e l’ammini-strazione della giustizia), e l’altra, la città “in guerra”, pronta ad affrontare il nemico che preme minaccioso alle porte (un nemico, dunque, rigorosa-mente “esterno” rispetto allo spazio civico). Ora, se è vero che anche nella città “in pace” sono presenti e attive dinamiche di carattere confl ittuale – dal momento che l’amministrazione stessa della giustizia è neìkos (con-trapposizione e battaglia) –, è anche vero che una tale presenza di neikos all’interno della città non può essere letta in alcun modo come una sorta di «riconoscimento sereno della necessità del confl itto»23. Non è un caso infatti che, nella “città in pace”, la contesa si concluda «con un concorso di sentenze che, come la parola del buon re di Esiodo, sanno rovesciare una situazione “dolcemente”»24. Da questo punto di vista, osserva ancora l’au-trice, «pare davvero che nulla debba minacciare dall’interno la bella città omerica»25. Al contrario, se per il poeta dell’Iliade è possibile assegnare un nome al «male assoluto», tale nome non può che essere quello di Eris, la «Lotta», o quello di Kèr oloè, il «Trapasso funesto», che però Omero tende sempre a proiettare all’esterno, evitando accuratamente di collocarli “entro le mura” della città.

Ma, per quanto riguarda la questione del rapporto politica-oblio, ad as-sumere un valore paradigmatico, per la Loraux, è in particolare l’amnistia proclamata ad Atene nel 403 a.C., dopo la caduta del regime oligarchico dei Trenta Tiranni e dopo l’avvenuta restaurazione della democrazia ad opera di Trasibulo. In questo contesto, ciò che l’amnistia impone ai citta-

22 Ivi, p. 73.23 Ivi, p. 71.24 Ibidem.25 Ibidem.

Antonio Valentini - Tragedia, memoria e oblio nella rifl essione sull’antico di N. Loraux 321

dini, attraverso la forma duplice di un divieto che vale a livello collettivo e di un giuramento solenne che impegna ciascuno a livello individuale, è una vera e propria prescrizione della memoria: «mè mnesikakeìn», «non rievocare le sventure», e «ou mnesikakèso», «non rievocherò le sventure». In questo modo, a venire a rappresentazione è, in primo luogo, la volontà della polis di attuare una riconciliazione che si traduce, sì, in una rinun-cia collettiva alla vendetta ma che, a ben vedere, passa attraverso l’espul-sione del confl itto in quanto tale. Si pretende insomma di riaffermare un principio di continuità nella vita interna della polis, «come se nulla fosse accaduto»26 e, soprattutto, come se nulla fosse ormai più in grado di intac-care tale continuità, o di revocarne la certezza invincibile. Il che, fa notare l’autrice, è confermato, tra l’altro, dall’uso di un verbo carico di impli-cazioni simboliche quale «exaleìphein»: verbo che signifi ca «cancellare scrivendo sopra», come quando su una tavoletta uffi ciale imbiancata di calce si dà un’altra mano per creare uno spazio vuoto da riempire, o come quando su una pietra incisa si procede a una correzione, «celando in tal modo la lettera vecchia sotto quella nuova»27. Dimenticanza e oblio, dun-que, in quanto risultato di una cancellazione che rimuove il passato, come se nell’idea stessa di memoria, ormai, i cittadini ateniesi riconoscessero un’entità che fi gura «nell’elenco spaventoso dei fi gli della Notte, a titolo di fi glia di Discordia (Eris)»28.

Da questo punto di vista, è importante sottolineare come la prescri-zione della memoria operata dalla città non possa essere in alcun modo assimilata a quella forma dolce, e tuttavia «inquietante»29, di “oblio dei mali” (lèthe kakòn, o lesmosyne kakòn) che è dono delle Muse (fi glie, non a caso, di Mnemosyne, la Memoria), e che viene spesso evocata a livello poetico – per esempio nella Teogonia di Esiodo (v. 55), o da Omero nel IV canto dell’Odissea (vv. 222-226), quando Elena, per sottrarre Telema-co e Menelao al “lutto indimenticabile” (l’àlaston pènthos) di Odisseo, fa ricorso all’uso di una droga e a un racconto. Ebbene, nel caso dell’amni-stia proclamata dalla città, il divieto della memoria, nel momento stesso in cui evita ogni riferimento diretto alla dimensione dell’oblio, è appunto l’espressione della volontà politica di annullare quell’ossimoro, di fatto mai formulato esplicitamente, che si nasconde sotto la nozione poetica di

26 N. Loraux, Dell’amnistia e del suo contrario, in La città divisa, cit., p. 237.27 Ivi, p. 239.28 Ivi, p. 263.29 Ivi, p. 249.

322 Volti della memoria

“oblio dei mali”, inteso evidentemente come «oblio del non-oblio»30: come oblio, cioè, di quell’«indimenticabile» che la stessa Loraux defi nisce anche come l’«indimentico», trattandosi di qualcosa che, nella tradizione poetica greca, «abita l’individuo in lutto al punto da poter dire “io” attraverso la sua bocca»31. Il che, fa notare ancora la studiosa, porta signifi cativamente alla luce la «consonanza» di una tale nozione di “indimentico” con quella di “cosa intrattabile”, strettamente congiunta all’idea di irrappresentabile, tematizzata da F. Lyotard32.

Ma, per capire meglio in che modo, e con quale intensità, la polis pro-ceda alla rimozione o al controllo-contenimento del pathos in quanto pa-thos individuale, è estremamente interessante quello che la Loraux scrive a proposito di una “scena civica” che, pur avvenendo come la tragedia nell’orizzonte liturgico delle Grandi Dionisie, tuttavia se ne differenzia in modo radicale proprio in virtù della sua sostanziale conformità alle istanze fondanti dell’ideologia civica. Si tratta della cerimonia che consiste nella presentazione, all’interno del teatro, degli orfani di guerra, il che avviene poco prima dell’inizio del concorso drammatico. Ora, l’importanza di una tale cerimonia, dal punto di vista della Loraux, consiste proprio nel fatto che, in essa, i parenti prossimi degli orfani vengono sollecitati al supera-mento, o al “differimento”, del loro risentimento individuale, e quindi alla messa in atto di un processo di liberazione dal peso del loro lutto privato (oikeion). Tutto ciò, fa notare giustamente l’autrice, si realizza a due livelli: una prima volta nella forma di una «sublimazione politica»33 del lutto, nel momento in cui il dolore dei parenti si converte in quel sentimento di rico-noscenza per la generosità della città che fi nisce per confermare l’adesione dei partecipanti all’«idealità civica»34, e una seconda volta nella forma di un vero e proprio “oblio”. Tale oblio è infatti favorito dalla condizione di “spettatori distaccati” che gli stessi parenti assumono, in occasione della messa in scena delle tragedie che verranno appunto rappresentate subito dopo la proclamazione politica dell’araldo, con la conseguenza di far de-fl uire ogni passione e ogni dispiacere in lacrime: lacrime che, in tal senso, vengono versate su dolori e sofferenze sentiti ormai come qualcosa di lon-tano dalla sfera del privato, e quindi dalla dimensione individuale.

30 Ibidem.31 Ivi, p. 248.32 Ibidem (il riferimento è a J.F. Lyotard, À l’insu, in «Le genre humain», n. 18

[Politiques de l’oubli], 1988).33 N. Loraux, La voce addolorata, cit., p. 32.34 Ibidem.

Antonio Valentini - Tragedia, memoria e oblio nella rifl essione sull’antico di N. Loraux 323

È a questo punto, allora, che il riferimento alla tragedia diventa decisi-vo. È proprio nella tragedia, infatti, che a ogni possibile prescrizione della memoria operata dalla città si contrappone, consapevolmente, non soltanto una sostanziale «affermazione del non-oblio» ma, addirittura, una potente «dichiarazione di non-amnistia»35. In questa prospettiva, ciò di cui la tra-gedia si fa “rammemorazione” è precisamente quell’alaston pènthos, quel “lutto indimenticabile”, o “indimentico”, che – s’è detto – emerge potente-mente già nell’Odissea, e nella cui radice etimologica “alast” – costruita, al pari di alètheia, attraverso la negazione del radicale dell’oblio (lèthe, dal verbo lanthàno) – dobbiamo riconoscere la «matrice di senso per esprime-re il pathos […] di una perdita irreparabile»36, scomparsa o morte che sia. Da questo punto di vista, se il termine politico “mnesikakèin”, in quanto «versione civica e rassicurante dell’oblio dei mali»37, è già il risultato di un «processo di eufemizzazione»38, al contrario l’aggettivo “alastos” ha in sé una carica di pathos che, in quanto espressione di un «lutto che non vuole elaborarsi»39, si sottrae a qualunque possibilità di dominio e di controllo da parte del soggetto. Quella di “alaston penthos”, del resto, è una nozione che, nella sua irriducibile materialità mai dissociabile dalla sua dimensione spirituale, «esprime in sé la durata atemporale, immobilizzata in un volere negativo, che rende il passato un eterno presente»40. Di qui, allora, l’idea del “lutto indimenticabile” come «presenza fantasmatica e persistente che, in senso forte, occupa il soggetto e non lo lascia mai»41, proprio come il «sangue del parricidio e dell’incesto che, in Edipo, non dimentica»42.

È quanto emerge, con la massima fl agranza, dall’Elettra di Sofocle. È proprio Elettra, infatti, a costituire la «perfetta incarnazione» di quella «memoria in carne viva il cui unico nome», osserva la Loraux, «è eccesso di dolore»43. Così, quando Elettra afferma «ou lathei m’orgà»44, ciò che tali parole esprimono è non soltanto il fatto che Elettra “non dimentica la sua collera”, o che a essa “non sfugge la collera”, ma anche che “la sua collera”, strettamente connessa al suo lutto, “non la dimentica”. La collera,

35 N. Loraux, Dell’amnistia e del suo contrario, in La città divisa, cit., p. 257.36 Ivi, p. 253.37 Ivi, p. 263.38 Ivi, p. 252.39 Ibidem.40 Ivi, p. 253.41 Ivi, p. 254.42 Ibidem (il riferimento è a Sofocle, Edipo a Colono, v. 1672).43 Ivi, p. 250.44 Sofocle, Elettra, v. 222.

324 Volti della memoria

dunque, come «legame che si rafforza da sé fi no a resistere a ogni tentativo di scioglimento»45. In questa prospettiva, inoltre, è estremamente interes-sante osservare come il discorso di Elettra proceda per negazioni, anzi per accumulo, o per raddoppiamento, di negazioni: «L’hai evocato» – dice per esempio ai vv. 1246-1247, riferendosi al suo dolore – «limpido, indissolu-bile (ou pote katalysimon), e che mai dimenticherà (oude pote lesomenon), tale è di natura il nostro male»; e ancora, ai vv. 223-224: «Nelle cose tre-mende non tratterrò queste calamità»; oppure, ai vv. 103-109: «Ma certo non smetterò i pianti e i lugubri gemiti […] che come l’usignolo uccisore dei fi gli» – il riferimento è, ovviamente, al mito di Procne – «in gemito di fronte a queste porte paterne risuoni a tutti l’eco». E a questi esempi, già di per sé signifi cativi, se ne potrebbero aggiungere altri. A emergere, in tutti questi casi, è l’irresistibile evocazione di un lutto che, nel suo sottrarsi all’oblio, e insieme nella sua tendenza a espandersi, inglobando il tem-po e lo spazio, si impone come insopprimibile «potenza del negativo»46: come una «pura intensità negativa»47, capace di rimanere attiva al di là di qualunque limite. Così, sempre nell’Elettra di Sofocle – ma si tratta di un elemento già presente nelle Coefore di Eschilo –, non è soltanto la fi glia di Agamennone a non poter dimenticare il dolore prodotto dall’assassinio del padre, ma anche il morto (Agamennone stesso), e persino l’antica scure di bronzo che lo ha ucciso “con turpe violenza” (vv. 481-485).

E tuttavia, anche all’interno della forma-tragedia – in virtù di quella che, in termini nietzscheani, potremmo defi nire la sua componente “apollinea” –, l’ideologia civica fa sentire la sua voce. È quanto accade, ancora una vol-ta esemplarmente, nell’Orestea di Eschilo, e in particolare nelle Eumenidi, dove una tale ideologia è, di fatto, incarnata dalla fi gura di Atena. È proprio Atena, non a caso, ad assegnare alle Erinni, trasformate ormai in Eumenidi e come tali onorate all’interno della polis, il compito di proteggere la città dalla minaccia della guerra civile, vegliando sulla fecondità, vale a dire convertendo la «proliferazione degli omicidi in fecondità benefi ca»48. In questa prospettiva, il fatto che le Erinni siano «preposte alla memoria delle sventure» (mnèmones kakòn, v. 382) attesta non già l’ammissione del non-oblio nell’orizzonte apollineo dello spazio civico, ma piuttosto il prevalere di una forma di memoria del tutto neutralizzata e “addomesticata”, liberata cioè da ogni connotazione autenticamente patica. Una «memoria», questa,

45 N. Loraux, Dell’amnistia e del suo contrario, in La città divisa, cit., p. 250.46 Ivi, p. 256.47 Ivi, p. 259.48 N. Loraux, L’oblio nella città, in La città divisa, cit., p. 90.

Antonio Valentini - Tragedia, memoria e oblio nella rifl essione sull’antico di N. Loraux 325

che, nel suo essere «atemporale, impermeabile e come raccolta in se stessa […] dispensa preventivamente i cittadini dal dover “rievocare le sventure” che si sono reciprocamente infl itti nella stasis»49.

Resta però il fatto che, sempre nelle Eumenidi, la presenza delle Erin-ni, in quanto incarnazione del «terrore» e della «collera», è pur sempre la presenza di una dimensione – quella appunto della paura, e con ciò stesso del pathos – che risulta, sì, «domata» ma che, cionondimeno, è «sempre minacciosa»50, nel senso che continua a porsi come fonte inesauribile di in-quietudine. Essendo insediate ai piedi dell’Areopago, infatti, le Erinni sono sempre e comunque «dentro Atene»51: sono interne alle strutture olimpico-apollinee che fondano la città. Ed è appunto dall’interno stesso della polis che la loro presenza – la presenza di divinità designate, non a caso, con il nome di «Semnaì»: le «Temibili» – si rende percepibile, al di là di qua-lunque volontà di rimozione o di trasfi gurazione. Il che, a ben vedere, non fa che denunciare i limiti, e insieme il carattere inevitabilmente parziale e provvisorio, di ogni possibile strategia fi nalizzata alla neutralizzazione o al disinnesco del confl itto: i limiti, quindi, di ogni tentativo di trascendere le tensioni e le contraddizioni dell’oikos inglobandole, e dunque trasvalutan-dole, nell’equilibrio armonico della polis.

Alla luce di quanto s’è detto fi nora, possiamo capire meglio in che sen-so, e sulla base di quali motivazioni, la Loraux insista tanto nel sottolineare l’irriducibilità della tragedia e del tragico all’orizzonte dell’ideologia civi-ca: l’impossibilità, insomma, di riconoscere nel dramma un mero «vettore di consenso civico»52, in quanto tale del tutto rassicurante e tranquillizzan-te. Ebbene, è proprio nella Voce addolorata che Nicole Loraux mette bene in evidenza come la tragedia non si risolva affatto in una «rappresentazione addomesticata che la Città vuole dare di se stessa»53. Al contrario, se lo spazio politico si fonda su una dimenticanza del confl itto che è insieme una dimenticanza del pathos, allora è appunto nella tragedia che l’illimitata po-tenza negativa di un tale pathos viene rammemorata e portata – per quanto è possibile – a rappresentazione. Di qui, sempre secondo l’analisi proposta dalla Loraux, la legittimità di una lettura volta a riconoscere nella tragedia la messa in scena eminente di quello stesso «lutto ineffabile»54 che la cit-

49 Ivi, p. 91.50 Ivi, p. 93.51 Ivi, p. 94.52 N. Loraux, La voce addolorata, cit., p. 149.53 Ivi, p. 24.54 Ivi, p. 46.

326 Volti della memoria

tà vorrebbe invece espellere da sè: il luogo paradigmatico, insomma, nel quale le «prescrizioni della dimenticanza e delle interdizioni di memoria»55 vengono di fatto superate.

In questa prospettiva, la tragedia può essere letta come l’espressione del tentativo sempre rinnovato di rammemorare, e insieme di rappresentare, una sofferenza e un dolore che, proprio in virtù della loro costitutiva irrap-presentabilità, non possono essere né del tutto ricordati (il che equivarrebbe a risolverli senza residui nello spazio della rappresentazione), né del tutto dimenticati (il che equivarrebbe semplicemente a rimuoverli, a metterli in parentesi). Abbiamo a che fare, insomma, con la memoria di qualcosa che si lascia pensare solo nella forma, paradossale, dell’ “immemoriale”. Da questo punto di vista, il carattere propriamente testimoniale della tragedia consiste precisamente nel suo offrirsi a noi come l’attestazione di qualcosa che deve essere in qualche modo portato alla parola, nonostante il ricono-scimento della costitutiva impotenza e inadeguatezza di ogni nostra parola, anzi proprio in virtù di un tale riconoscimento. Testimonianza, dunque, come espressione di una possibilità di fatto, malgrado una impossibilità di principio, o a dispetto di essa56.

Di qui, allora, la distanza incolmabile che separa la forma-tragedia da quell’altra tipica espressione della cultura ateniese classica che è l’orazione funebre – l’epitàphios logos: il discorso annuale pronunciato, nella polis, in onore dei soldati caduti in battaglia – la quale, pur avendo a che fare in modo diretto, come appunto la tragedia, con la dimensione del lutto, tutta-via, a differenza appunto del dramma, fi nisce per confermare la tendenza della città a dimenticare, rimuovendolo, il pathos. Ciò è dovuto al fatto che, nella percezione degli ateniesi, l’orazione funebre funziona essenzialmente come vettore uffi ciale dell’ideologia civica, in particolare attraverso la ce-lebrazione della “bella morte”: attraverso l’esaltazione, dunque, di quella virtù civica e militare (l’aretè) che garantisce non soltanto il conseguimen-to del klèos (la gloria) da parte del combattente, ma anche la continuità e la permanenza della polis nel succedersi delle generazioni. In tal senso, ciò che nell’epitàphios lògos si esprime è la capacità della polis di restare «onnipotente» e «indivisibile»57 al di là della morte dei singoli individui, con la consapevolezza dunque che tale morte acquista senso e valore solo

55 Ivi, p. 70.56 Su questo tema, cfr. le importanti osservazioni di G. Didi-Huberman, Images mal-

gré tout, Les Editions de Minuit, 2003, tr.it. di D.Tarizzo, Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005.

57 N. Loraux, L’oblio nella città, in La città divisa, cit., p. 76.

Antonio Valentini - Tragedia, memoria e oblio nella rifl essione sull’antico di N. Loraux 327

in funzione di un «trasferimento di gloria»58 alla città; in defi nitiva: solo in funzione di un’istanza del tutto astratta e ideale rispetto all’ineludibile concretezza e materialità del dolore patito dai singoli.

Non solo, ma ad attestare in modo quantomai esplicito l’irriducibilità della tragedia (o comunque la sua riducibilità solo parziale e limitata) alla sfera del politico, è senz’altro la testimonianza di Erodoto relativa a uno dei casi più emblematici di “prescrizione della memoria” operata dalla cit-tà: quello che ha per protagonista il tragediografo Frinico, l’autore della Presa di Mileto. È appunto Erodoto, infatti, a ricordare come, a differenza dei Sibariti, che si astengono dal portare il lutto in onore degli abitanti di Mileto – dopo la distruzione della loro città da parte dei Persiani (nel 494) –, gli Ateniesi abbiano manifestato nei loro confronti un’affl izione che si è rivelata “eccessiva”. E tale affl izione è venuta alla luce proprio in occasio-ne della messa in scena del dramma di Frinico, il quale, per aver rievocato agli Ateniesi «mali che li riguardavano» (oikeìa kakà), tanto da indurli al pianto, viene punito con una multa di 1000 dracme, alla quale si aggiunge signifi cativamente il divieto di portare nuovamente in scena la tragedia “imputata”.

Di qui, osserva giustamente la Loraux, la condizione di «inattualità forzata»59 alla quale il genere tragico, a partire appunto dalla prescrizione che colpisce Frinico, costringe se stesso, scegliendo in modo esplicito e con-sapevole la fi nzione, facendosi cioè rappresentazione di eventi e azioni che appartengono non già alla sfera del reale in quanto empiricamente esisten-te, bensì a quella del “possibile” e dell’ “immaginario”. Di qui, insomma, l’esigenza di proiettare l’azione in uno spazio che, nell’autodenunciarsi in quanto spazio fi ttizio, ossia in quanto non-esistente, fi nisce con l’assumere – almeno a un certo livello – la funzione di schermo distanziante. Quello incarnato dalla fi nzione scenica, infatti, è uno spazio rappresentativo che, nel collocarsi consapevolmente in un “passato mitico”, viene percepito da tutti come l’espressione di un “inaccessibile altrove”60: come l’altro del reale, del quale si tratta allora di esplorare i rapporti con l’ordine fattuale vigente. In questo senso, è proprio tale funzione distanziante svolta dal mythos, e insieme la consapevolezza della differenza che necessariamente

58 Ibidem.59 N. Loraux, Dell’amnistia e del suo contrario, in La città divisa, cit., p. 235.60 A tale proposito, restano fondamentali le osservazioni di J.-P. Vernant e P. Vidal-

Naquet, Mythe et tragédie II, Ed. La Découverte, Paris, 1986, tr.it. di C. Pavanello e A. Fo, con uno scritto di M. Bettini, Mito e tragedia due. Da Edipo a Dioniso, Einaudi, Torino, 1991 e 2001.

328 Volti della memoria

sussiste tra realtà e fi nzione, ossia tra arte e vita, a rendere possibile la ram-memorazione di passioni e sofferenze la cui intensità emotiva e patemica, altrimenti, risulterebbe insopportabile.

E ancora. Se è vero che l’orazione funebre conosce soltanto “cittadini-soldati” – gli àndres, dei quali viene celebrato il coraggio (l’andreìa), e il cui ruolo politico li distingue, non a caso, dalla sfera dei semplici ànthropoi (esattamente come gli “autoctoni” di Atene sono distinti dai cittadini di tutte le altre città) –, è anche vero che, nella tragedia, concepita appunto come messa in scena di un lutto sempre-e-di-nuovo da rammemorare, a es-sere protagonisti sono non più gli uomini in quanto cittadini-soldati, bensì gli uomini in quanto appartenenti, in modo più originario e fondamentale rispetto a ogni possibile appartenenza civica, «alla stirpe dei mortali»61. In questo senso, si può dire che l’uomo tragico in primo luogo è non già anèr, bensì brotòs o thnetòs. Il che, evidentemente, fa esplodere qualun-que distinzione, storicamente e politicamente determinata, tra l’identico e il diverso, ovvero tra la sfera del proprio e quella dell’estraneo. I Persiani di Eschilo, del resto, lo mostrano con la massima evidenza: qui, infatti, «l’ “altro” è lo “stesso”, e mortali sono, l’uno e l’altro»62. Così, nel fruire di una tragedia come i Persiani, gli Ateniesi non cedono al compiacimento immediato che dovrebbe scaturire in loro dalla consapevolezza di essere, in quanto “vincitori”, la causa del dolore infl itto ai “nemici”, ossia ai “vinti”; e ciò è una conseguenza del fatto che la tragedia insegna loro a riconoscere, in quel medesimo spazio teatrale che non si risolve mai in una semplice riproduzione dell’esistente – come se il dramma fosse un «facsimile»63 o un «doppione»64 della città e delle sue istituzioni –, qualcosa che li riguarda in modo «essenziale»65 e, di fatto, al di là della loro stessa identità civica. E questo “qualcosa” è, evidentemente, la consapevolezza della irredimibile fi nitezza, e quindi della intrascendibile contingenza, della condizione uma-na in quanto tale.

Di conseguenza, facendosi memoria del lutto, e insieme memoria di quella caducità e di quella precarietà che propriamente fanno uomo l’uo-mo, la tragedia non solo “parla del mondo”, ma si offre anche al pubblico ateniese come il luogo eminente della compartecipazione affettiva (la sym-pàtheia): come uno spazio all’interno del quale diventa possibile l’attiva-

61 N. Loraux, La voce addolorata, cit., p. 159.62 Ivi, p. 85.63 Ivi, p. 35.64 Ivi, p. 34.65 Ivi, p. 159.

Antonio Valentini - Tragedia, memoria e oblio nella rifl essione sull’antico di N. Loraux 329

zione di quel sentimento di pietà (l’èleos aristotelico) che è «tutto meno che tranquillizzante», giacché «non senza lacerazioni né diffi coltà» consente l’«acclimatazione dell’altro come uguale a sé»66, il riconoscimento cioè del “simile” (l’homoios) all’interno stesso dell’ “altro”. Da questo punto di vi-sta, ciò di cui gli Ateniesi sono perfettamente consapevoli è «l’irriducibile incompatibilità» tra la sfera della “realtà”, nella quale è sempre il “princi-pio di identità” a dominare, e nella quale proprio per questo «i nemici sono i nemici», e quella sfera della fi nzione artistica che invece, nel suo essere governata insieme dall’istanza apollinea del distacco critico-rifl essivo e da quella dionisiaca del coinvolgimento emotivo, «rende l’altro sorprendente-mente vicino»67. La conseguenza, nella tragedia, è il tendenziale fl uidifi car-si, o addirittura il completo venir meno, dei confi ni e dei limiti socialmente stabiliti, come pure delle distinzioni e delle dicotomie sancite dal logos, e da questo imposte come qualcosa di immutabile e di incontrovertibile.

Di qui, allora, la capacità della tragedia di sconvolgere e insieme di mescolare le «identità civiche»68, sfruttando le «incompatibilità»69, ossia le tensioni e le dissonanze, fi ssate dal discorso politico, anzi accentuan-dole e drammatizzandole, tanto da conferire loro il contrassegno della «irriducibilità»70, ovvero della intrascendibilità. E tutto ciò all’interno di un orizzonte che si pone compiutamente e integralmente «sotto il segno dell’oxymoron»71: sotto il segno, cioè, di una coincidentia oppositorum, o di una “consonanza dissonante”. Necessariamente dissonante, infatti, è l’equilibrio instabile istituito dal dràma, all’interno del quale gli elementi di natura logico-apollinea e quelli di natura patico-dionisiaca, in virtù della loro «sconcertante complicità»72 (acutamente rilevata da Nietzsche), sono sottoposti a uno «scambio»73 reciproco di fatto interminabile – basti pen-sare, a tale proposito, al dialogo tra Cassandra e il coro, in una delle scene più signifi cative dell’Agamennone di Eschilo. In questo modo, ciò che la tragedia porta a rappresentazione è la tensione polare irrisolta tra «i due poli del politico che prescrive la dimenticanza e del lutto che risveglia la memoria»74.

66 Ivi, p. 85.67 Ivi, p. 83.68 Ivi, p. 113.69 Ivi, p. 114.70 Ivi, p. 112.71 Ivi, p. 107.72 Ivi, p. 121.73 Ivi, p. 125.74 Ivi, p. 140.

330 Volti della memoria

In questa prospettiva, che la tragedia sia il luogo eminente deputato alla rammemorazione dell’indicibile è una conseguenza del suo presentarsi non già come l’espressione di un teatro costitutivamente e integralmente politico – secondo un paradigma interpretativo per molti versi dominante negli ultimi decenni (esemplare, in tal senso, la lettura proposta da un au-tore come Christian Meier, o quella elaborata dallo stesso Vidal-Naquet, per la quale «la tragedia è il politico»75) –, ma piuttosto come la messa in opera esemplare di quello che Nicole Loraux, proprio tenendo conto del carattere non meramente riproduttivo-naturalistico del dramma, defi -nisce l’«antipolitico»76. Attraverso tale nozione, infatti, la studiosa designa non soltanto «l’altro dalla politica», in quanto negazione di ogni possibile realtà politica storicamente data, ma anche un «politico altro», inteso – potremmo dire – come l’altro non già dalla politica, bensì della politica: l’altro, dunque, “della” polis, e più in generale l’altro del mondo, in quanto incarnazione di un politico diverso e ulteriore, irriducibile a quello effet-tivamente realizzato all’interno dell’ordine civico e istituzionale vigente. L’antipolitico, insomma, come espressione della possibilità del possibile (il non-identico), in quanto dimensione che lo spazio identitario della polis ha, in modi diversi, escluso, dimenticato o rimosso.

In questo senso, abbiamo a che fare con una nozione di “politico” basa-ta non più su quella rimozione del confl itto e del pathos, e insieme su quel-la volontà di controllo-canalizzazione delle passioni, che contraddistingue, come abbiamo visto, lo spazio democratico e consensuale della città, ma piuttosto sulla loro effettiva rammemorazione: sulla loro assunzione con-sapevole e responsabile. A essere in gioco, infatti, è un politico fondato su quello che la Loraux – anche a partire da una ricomprensione della nozione eraclitea di palintropos harmonìe (l’armonia paradossalmente discordante degli opposti) – defi nisce il «“legame della divisione”»77: sul riconosci-mento, appunto, dell’intrascendibilità del confl itto e della contraddizio-ne, in quanto presupposto implicito di ogni ordine sociale storicamente determinato. Di qui, ancora una volta, l’esemplarità, e insieme la «forza corrosiva»78, di una fi gura come quella di Elettra la quale, identifi cando l’attuazione della giustizia con il compimento della propria vendetta, e fi nendo addirittura col defi nire «cittadine» (polìtides) le donne del coro, si fa incarnazione di una «“politica al femminile”» che, in Grecia, non

75 Cit. in ivi, p. 35.76 Ivi, p. 40.77 ibidem.78 Ivi, p. 38.

Antonio Valentini - Tragedia, memoria e oblio nella rifl essione sull’antico di N. Loraux 331

può che essere sentita come «impossibile», giacché in una tale prospettiva «la rabbia», e dunque il pathos dionisiaco, «ha preso il posto della parola (logos)»79.

Tutto ciò, allora, spiega perché il «teatro di Dioniso» non si trovi sull’agorà80. Dal punto di vista storico, ciò è dovuto precisamente a quel doppio spostamento, avvenuto all’inizio del V sec. a.C., in virtù del quale l’assemblea dei cittadini (l’Ecclesia) e il teatro tendono a debordare, sia pure per motivi diversi, al di fuori dei limiti che la città assegna alla vita pubblica: l’una, l’Ecclesia, per installarsi sulla collina della Pnice e l’altro, il teatro, per insediarsi ai piedi dell’Acropoli. In questo modo, fa notare la Loraux, teatro e assemblea si separano, ciascuno per collocarsi nel luogo che più gli è proprio, con la conseguenza che l’agorà fi nisce col diventare il luogo di riunioni civiche più ristrette.

In questa prospettiva, ad assumere una particolare rilevanza è l’attenta analisi che la Loraux dedica, nel III capitolo della Voce addolorata, al di-verso uso che, dell’avverbio aeì (in genere tradotto con «sempre»), viene fatto, per un verso, all’interno dell’orizzonte ideologico-culturale della po-lis e, per altro verso, all’interno dello spazio mimetico-fi nzionale instaurato dalla tragedia. Nel primo caso – gli esempi addotti dall’autrice vanno dalla Politica di Aristotele (III libro), alla Guerra del Peloponneso di Tucidide (I e II libro), fi no alla pseudo-aristotelica Costituzione di Atene –, l’avver-bio, etimologicamente e semanticamente connesso alla nozione di aiòn (la “forza vitale” che sempre-e-di-nuovo rinasce, conservandosi senza fi ne e sussistendo, così, eternamente), viene utilizzato, in riferimento all’ordine istituito dalla polis, per esprimere, sia pure in modi e contesti eterogenei, la permanenza e la continuità della polis stessa: il suo conservarsi (secondo Aristotele) come una realtà che rimane identica attraverso il succedersi delle generazioni, il suo essere fondata (secondo Tucidide) su un principio di autoctonia, o infi ne il suo presentarsi come il risultato di un’evoluzione che, indipendentemente dalle diverse trasformazioni accidentali (metabo-laì) via via realizzate a livello storico-politico, costituisce di fatto una «pro-gressione per ripetizione nell’elemento di ciò che è sempre lo stesso»81. Tutto ciò, appunto, se restiamo nell’orizzonte dell’ideologia civica, all’in-terno del quale è la polis a incarnare, per l’uomo-anèr (il cittadino), l’unica istanza davvero legittima di immortalità.

79 Ivi, p. 39.80 Cfr. ivi, p. 24 e ss.81 Ivi, p. 50.

332 Volti della memoria

Se prendiamo invece in considerazione la forma-tragedia, ci rendiamo subito conto che, qui, l’avverbio aeì si riferisce, innanzitutto, non tanto agli uomini e alla sfera delle loro azioni politiche, ma piuttosto a quel «Tempo Onnipossente»82 che consuma e travolge ogni cosa e la cui evocazione, proprio per questo, è la rammemorazione della ineludibile contingenza e caducità di tutto ciò che riguarda i mortali, con la consapevolezza che è solo «nella forma del caso (tyche)» che essi «esperimentano la loro pro-pria vita»83. Non solo, ma se l’avverbio aeì è presente nei testi tragici – nell’Elettra di Sofocle, per esempio, il termine viene riferito alla stessa Elettra almeno una quindicina di volte –, tale presenza esprime, in genere, la ripetitività inesorabile del lutto: la sua persistenza ossessiva e in nessun modo padroneggiabile, il suo eterno ricominciare, il suo interminabile sot-trarsi all’oblio. Da questo punto di vista, l’aeì è l’espressione di un lutto «infl essibile» e «disperante» che, scrive la Loraux, «non vuole scendere a patti con nessuna ragione»84 nel senso che, non essendo spiegabile in termini logico-concettuali, non si lascia in alcun modo addomesticare o imbrigliare dalle strutture del logos. Anche l’uso dell’avverbio aeì, allora, non fa che confermare quello che per la Loraux è forse il tratto distintivo della tragedia: il suo istituirsi nel segno di un infl essibile “rifi uto della di-menticanza”.

Non solo, ma se dell’avverbio aeì è ancora possibile e pensabile un uso di carattere politico, tale uso diventa impossibile nel momento in cui la tragedia – scrive la Loraux – «raddoppia aei in aiai»85, trasformando così l’avverbio (“sempre”) in una interiezione (“ahimé”) capace di esprimere, «con immediatezza assoluta» e «senza l’intermediazione del linguaggio articolato», la pura intensità negativa di un dolore appunto non-spiegabile e non-rappresentabile, o mai del tutto rappresentabile. Quello evocato dal raddoppiamento di aei in aiai, infatti, è un dolore la cui memoria in tanto eccede la sfera del discorso politico – collocandosi, scrive la Loraux, «mol-to al di là» o «molto al di qua»86 rispetto ad esso –, in quanto, innanzitutto, eccede la «percezione limpida»87 richiesta da tale discorso. Se è vero in-fatti che, in quest’ultimo caso, «il senso prevale sul suono»88, è anche vero che, nel caso della tragedia, il senso fa tutt’uno con lo spessore emotivo e

82 Ivi, p. 52.83 Ivi, pp. 52-53.84 Ivi, p. 60.85 ibidem.86 Ivi, p. 67.87 Ibidem.88 Ibidem.

Antonio Valentini - Tragedia, memoria e oblio nella rifl essione sull’antico di N. Loraux 333

affettivo del suono, con la sua densità patica che non si lascia mai percepi-re-pensare in modo chiaro e distinto (saphès)89. Nella tragedia, insomma, «non c’è altro senso che il suono stesso»90. In questo quadro, essendo la materializzazione di un lutto trasformato in pura emissione vocale, essendo cioè un puro «condensato di lamento»91, l’interiezione aiai funziona come un autentico «indicatore del tragico»92: come la cifra stessa della capacità rammemorante e testimoniale del dramma. È proprio la presenza di questa interiezione, infatti, a contrassegnare e a scandire i vari momenti dell’azio-ne, di volta in volta spostandosi e cambiando locutore, via via che il tragi-co, ossia il pathos, tocca e intride di sé questo o quel personaggio. Di qui, sempre alla luce dell’analisi proposta dalla Loraux, la possibilità di pensare il «suono del lamento» come la manifestazione paradigmatica di quella “inquietante estraneità” che la studiosa, riprendendo una dizione aristoteli-ca, defi nisce come «xenikòn»93: l’«effetto di straniamento che caratterizza tutto ciò che, nel linguaggio, è sonoro prima di essere chiaramente perce-pibile e […] ben delineato (saphès)»94. E «niente» – precisa l’autrice – «lo illustra meglio della vocalizzazione del lamento nei Persiani», là dove il nome che il coro assegna ai vincitori ateniesi, «Ianon (Iaonon)», di fatto, «suona come una variante del lamento interminabile», essendo il risulta-to di una «sorprendente trasmutazione […] del nome della Ionia in urlo lugubre»95 (l’urlo fi nale, ai vv. 1070-1071 è, non a caso, «Ioa»).

In quanto memoria del lutto, allora, la tragedia si offre a noi, innanzi-tutto, come la messa in scena paradigmatica di un thrènos: la sua voce è, appunto, la “voce addolorata” di un «canto senza lira»96; un canto che, pro-prio in virtù del suo statuto eminentemente dionisiaco, facendosi espres-sione di un privilegiamento dell’ascolto rispetto alla visione, con ciò stesso esibisce l’originarietà non solo della phoné (la voce inarticolata, e quindi il gesto, il grido, l’urlo) rispetto alle mediazioni del logos apollineo, ma anche del canto rispetto all’azione, come pure del pathos rispetto alla dra-ma, o del coro rispetto alla scena e al dialogo. Così, se è indubbio che è precisamente l’aulòs, il fl auto – strumento dionisiaco per eccellenza – ad accompagnare, per defi nizione, le lamentazioni e il canto dei cori tragici,

89 Cfr. ivi, p. 69.90 Ivi, p. 67.91 Ibidem.92 Ivi, p. 66.93 Cfr. Aristotele, Poetica, 1458 a 22-23.94 N. Loraux, La voce addolorata, cit., p. 69.95 Ivi, p. 70.96 Cfr. ivi, pp. 90-112.

334 Volti della memoria

allora si può dire che, nella tragedia, la rammemorazione del lutto è, in-sieme, la rammemorazione – ma potremmo anche dire: la testimonianza – dell’origine stessa della forma-tragedia: la rammemorazione della musica in quanto dimensione dionisiaca che, nella sua indeterminatezza, precede e insieme eccede, rendendola tuttavia possibile, ogni rappresentazione apol-linea determinata.