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Delli Zotti 2000 Intervento internazionale: Solidarietà o ingerenza?

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SOMMARIO

GOVERNI MONDIALI A MACCHIA DI LEOPARDO E

SOVRANITÀ BALCANICHE

a cura di Giovanni Delli Zotti e Antonella Pocecco pag. Editoriale 7 Mutazioni nella sovranità nazionale e nelle organizzazioni internazionali. Governi mondiali a macchia di leopardo per la soluzione dei conflitti balcanici?, di Alberto Gasparini Introduzione, di Giovanni Delli Zotti e Antonella Pocecco 21

Solidarietà internazionale e sovranità nazionale

Quale equilibrio è possibile tra solidarietà internazionale e 35 sovranità nazionale, di Giandomenico Picco Stato, sovranità e modelli di relazioni internazionali, di Mo- 41 hammad Jivad Larijani Formazione post-coloniale e disintegrazione post-Guerra 44 fredda degli stati, di Barnett R. Rubin

Abbiamo più doveri verso i vicini? Osservazioni su univer- 50 salismo, patriottismo e doveri internazionali, di Luigi Bona- nate Sovranità e tutela delle minoranze, di Achille Vinci Giacchi 54 Il mondo arabo nel nuovo ordine mondiale: traccia per una 58 discussione, di Abdall Al-Ashaal Solidarietà internazionale e sovranità nazionale: alcuni com- 61 menti, di Juli Kvitsintsky Teoria e pratica della sovranità e della solidarietà: il caso 65 francese, di Marcel Merle Società civile e Nazioni Unite per uscire dallo stato di 69 natura delle relazioni internazionali, di Antonio Papisca Intervento internazionale: solidarietà o ingerenza?, di Gio- 77 vanni Delli Zotti Governo mondiale, governo di organizzazioni internazio- 97 nali, governi bipolari: cosa resta ai singoli stati?, di Franco Mistretta Business Community ed Institutional Framework: un appa- 107 rente conflitto, di Mario Pines Le operazioni di pace nell’ex-Jugoslavia: alcune problema- 117 tiche di formazione e funzionamento delle forze di pace, di Silvia Bonacito

Jugoslavia e Kossovo: verso il governo delle organizzazioni

Piccoli dei con grandi sogni, e il rischio di produrre un futu- 125 ro piccolo, pulito, instabile, di Alberto Gasparini

La violenza della nazione e l’etnia, di Luigi Bonanate 146 Kossovo: un problema, una crisi, una catastrofe?, di Igor V. 162 Bestuzhev-Lada La guerra in Kossovo e la fine dell’Onu, di Claude Karnoouh 166 Nato e Kossovo, di Giovanni Nifosì 170 La lunga estate calda, di Miroljub Radojkovic 173 La crisi del Kossovo nel contesto degli sviluppi albanesi, di 177 Kosta Barjaba Cent’anni per imparare la verità su un conflitto, di Naim 181 Zoto Proposte per risolvere la crisi nel Kossovo e dintorni: il 186 progetto Transcend, di Johan Galtung, Kinhide Mushakoji e Ramon Lopez-Reyes Dall’esperienza non-violenta alla guerra del Kossovo. È 189 possibile tornare alla costruzione non-violenta del futuro? – Tavola rotonda virtuale condotta da Mauro Cereghini con Alberto L’Abate, Howard Clark, Roberto Morozzo della Rocca e Johan Galtung Kossovo: plaidoyer per la spartizione, di Marco Dogo 208 Alcune riflessioni sulla società civile in Kossovo, di Anto- 216 nella Pocecco

Conclusione: per un futuro europeo auspicabile

I vantaggi per l’Unione Europea di allargarsi ai paesi del- 235 l’ex-socialismo reale e del bacino del Mediterraneo, e il ruo- lo dell’Italia, di Piero Fassino

Documenti per la pace Elementi essenziali dell’Accordo di pace di Dayton e stato 245 di attuazione, di Massimo Moratti General Framework Agreement for Peace in Bosnia-Herze- 255 govina (Accordo di pace di Dayton - 21 novembre 1995) Appunti per una lettura delle due versioni per uno statuto di 314 autonomia del Kossovo (La versione degli albanesi del Kos- sovo e le controproposte della Repubblica Federale di Jugo- slavia), di Anna Lisa Ghini Interim Agreement for Peace and Self-Government in 317 Kosovo-Kosmet (Accordi di Rambouillet - 15 marzo 1999) The agent of the Federal Republic of Yugoslavia (aprile 370 1999) Military Technical Agreement (Accordo di Kumanovo - 9 371 giugno 1999) Resolution 1244 (Consiglio di sicurezza Onu - 10 giugno 377 1999) Charter for European Security (Osce, Istanbul - 19 novem- 382 bre 1999) English summaries 397 Gli autori 405

INTRODUZIONE

di Giovanni Delli Zotti e Antonella Pocecco Questo numero di “Futuribili” è dedicato in generale al tema della so-

vranità internazionale ed al problematico rapporto di questo diritto/dovere di intervento della comunità internazionale (negato da alcuni) con il prin-cipio della sovranità nazionale (la cui “sacralità” è anch’essa ormai conte-stata da più parti). Il caso più recente (a parte l’episodio presto “circoscrit-to” di Timor Est) in cui tutte le contraddizioni sono esplose con particolare virulenza è quello della crisi del Kossovo, ma, più in generale, tutte le vicen-de legate alla dissoluzione dell’ex-Jugoslavia hanno messo a dura prova le “cancellerie” e le opinioni pubbliche rispetto alla liceità dell’intervento ed alle sue eventuali modalità.

Su questa tematica più specifica si incentrano perciò gli interventi della seconda parte del volume, che si conclude con una sezione in cui vengono riprodotti e commentati alcuni documenti fondamentali che hanno segnato le tappe di questa profonda e perdurante crisi. Si tratta degli accordi di Dayton che hanno concluso, purtroppo tuttora in maniera provvisoria, il conflitto in Bosnia, e poi, per quanto concerne la crisi del Kossovo, dell’ “accordo” di Rambouillet e di quelli che hanno segnato la fine dell’intervento della Nato. I testi sono riprodotti nell’edizione originale della negoziazione e della fir-ma, per offrire la possibilità di utilizzare uno strumento di conoscenza non reso “spurio” dai tradimenti di senso che una qualsiasi traduzione inevitabil-mente comporta.

* * *

Nella prima parte del volume sono dunque raccolti gli interventi di di-

versi autori che si sono impegnati in un dibattito intorno ad un tema del qua-le è difficile negare l'importanza e l'attualità (1). L’incontro è stato organiz-

1. Gli interventi sono qui presentati in una versione ridotta, basata sugli ampi abstract pubblicati in un volume curato da Giandomenico Picco e Giovanni Delli Zotti (1995), Solidarietà internazionale e sovranità nazionale/International solidar-ity and national sovereignty, Isig, Gorizia.

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Delli Zotti e Pocecco Introduzione

zato dall’Isig (Istituto di sociologia internazionale) a Gorizia, nel settembre del 1992, ed il tema era quello della Solidarietà internazionale e sovranità nazionale. Il dibattito, oltre che nella sede che ha ospitato il convegno, era vivace (lo è tuttora) anche negli ambienti politici interni ed internazionali e presso l'opinione pubblica. Era ancora viva all'epoca l'eco della Guerra del Golfo e l'Onu era impegnata in Somalia in una azione di conflict resolution che si è dimostrata alla fine quanto mai avventurosa e inconcludente, cui si è posto fine con una avvilente ritirata. Era inoltre di strettissima attualità la questione dell'ex-Jugoslavia, con la necessità di prendere una decisione su quali fossero le migliori strategie da attuare (embargo, intervento militare, attendismo) ed anche, nel caso di una decisione per qualche forma d'inter-vento, su quali dovessero essere i protagonisti di questo intervento (Onu, Nato, Ueo, ecc.).

È passato un po' di tempo, ma il tema non è certamente passato di mino-re attualità, anzi, sembra acuirsi la percezione della necessità di risolvere i nodi problematici che propone, perché, ad esempio, proprio la mancata chiarezza su limiti e modalità dell'intervento possono essere state le cause del quanto mai fallimentare intervento in Somalia. Nel frattempo gli attori internazionali si sono trovati di fronte agli stessi dilemmi nel caso del con-flitto in Bosnia e, più recentemente, a proposito delle crisi del Kossovo e di Timor Est.

La perdurante attualità del tema ha suggerito di inserire un convegno in-ternazionale dal titolo A partire dalla Pace di Westfalia. Ripensare le re-lazioni internazionali nell’era della globalizzazione, all’interno della V Scuola estiva internazionale dedicata a I problemi della Nuova Europa, cui hanno partecipato diversi relatori, alcuni dei quali già presenti all’incontro di studio precedente. Anche alcuni dei contributi presentati a quest’ultimo convegno sono ospitati in questa prima parte di Futuribili, in particolare quelli della prima sessione dei lavori intitolata Per il futuro, dopo la crisi dei modelli di Westfalia. Quale rapporto tra solidarietà internazionale e so-vranità nazionale.

Si tratta dunque di un tema che il sociologo (o comunque lo scienziato sociale) potrebbe definire appassionante, se non fosse anche così denso di gravi implicazioni, e sul quale furono chiamati a dibattere nel primo con-vegno, oltre agli “accademici”, anche alcuni protagonisti della vita interna-zionale (in particolare della vita diplomatica) che con questi temi si sono do-vuti confrontare nella realtà. Picco e Larijani, ad esempio, sono stati due tra i più importanti protagonisti delle trattative che, sotto l'egida del Segretario generale delle Nazioni Unite, Perez de Cuèllar, hanno portato alla conclu-sione del conflitto tra Iran e Iraq: il primo era all'epoca vice-segretario del-l'Onu ed il secondo, un accademico esperto di relazioni internazionali, il

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Delli Zotti e Pocecco Introduzione

rappresentante ufficiale del governo iraniano. Vi sono poi altri due esponen-ti della diplomazia che rivestono un duplice ruolo. L'egiziano Al-Ashaal, già vice-direttore dell'Istituto di studi diplomatici del Cairo, era ambasciatore del suo paese in Burundi; percorso inverso quello del russo Kvitsintsky che, già vice-ministro degli esteri dell'Urss, ha poi dedicato il suo impegno, con il ruolo di responsabile per la Germania, alla Foreign Policy Association di Mosca. Lavora in diplomazia anche Vinci Giacchi, ministro plenipotenziario del Ministero degli esteri italiano e, inoltre, membro del comitato scientifico dell'Isig.

Gli altri autori sono tutti di estrazione accademica ed anche per questi si è voluto che le voci raccolte avessero una, per quanto possibile, ampia di-versificazione di esperienze e tradizioni culturali ed accademiche. Accanto a due molto noti studiosi italiani, Bonanate e Papisca, entrambi professori or-dinari di relazioni internazionali, sono infatti presenti un accademico ameri-cano, il professor Rubin della Columbia University di New York ed il pro-fessor Merle della Sorbona di Parigi. Tratto dai lavori del convegno più re-cente è invece il contributo di Franco Mistretta, direttore dell’Istituto diplo-matico, come pure gli interventi di Picco e Bonanate. Sono presenti anche due saggi scritti da Silvia Bonacito, una giovane ricercatrice, collaboratrice dell’Isig, e di Mario Pines, docente di tecnica bancaria, presso l’Università degli studi di Trieste.

Il primo contributo presentato è quello di Giandomenico Picco, il quale sostiene, utilizzando anche informazioni di prima mano che provengono dal-la sua lunga esperienza alle Nazioni Unite, che la moltiplicazione degli atto-ri sulla scena internazionale ha provocato un cambiamento rivoluzionario che consiste nel fatto che gli stati non ne hanno più il controllo monopoli-stico. La sovranità nazionale è stata talmente erosa che ormai è diventata un mito, e i miti lentamente, gradualmente scompaiono. L’arroganza dello stato nazionale mostra dunque tutti i suoi limiti ed il colpo di grazia è stato dato da qualcosa che nessuno di noi si aspettava, vale a dire la tecnologia.

In questa nuova situazione persino i singoli individui (accanto alle orga-nizzazioni internazionali e transnazionali) possono giocare un ruolo essen-ziale. Se si possiede sufficiente credibilità, infatti, si può giocare al tavolo delle relazioni internazionali, indipendentemente da ciò che dice il diritto in-ternazionale, al punto che si può sostenere che, mentre lo stato nazionale sta perdendo la sua forza, un’altra sovranità sta nascendo: la sovranità indivi-duale. Una testimonianza di ciò sono i tribunali internazionali, i quali costi-tuiscono un passo concreto che porterà al trionfo del concetto di responsa-bilità personale nel sistema internazionale.

L'intervento seguente è piuttosto teorico, in quanto Larijani conduce il dibattito verso l'analisi dei modelli interpretativi delle relazioni internazio-

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Delli Zotti e Pocecco Introduzione

nali, per vedere quale tra essi riesca meglio a cogliere l'essenza dei muta-menti in corso. La teoria tradizionale “ortodossa” trova difficoltà a cogliere il “nuovo che avanza”, in quanto insiste a proporre un approccio stato-cen-trico quanto mai inattuale, anche se l'autore afferma che si possono indivi-duare linee di difesa di tale modello. Vengono proposti modelli alternativi, definiti monistici, transnazionali (o multi-attore), oppure derivanti dall'appli-cazione della teoria dei giochi, e la differenza tra questi nuovi approcci e quello ortodosso consiste proprio nel fatto che, mentre tutti concordano sul-l'essenzialità dei primi tre elementi che costituiscono la nozione di stato (ter-ra, popolo, governo), si dividono sul quarto, la sovranità, appunto.

L'articolo di Rubin traccia un quadro assai completo delle differenze “ambientali” che si sono trovati di fronte coloro che hanno fondato gli stati nazione in un momento di statu nascenti del sistema internazionale, rispetto agli “ultimi arrivati”: le élite che si sono dedicate al nation building in un mondo di rapporti consolidati, in cui la lotta per il controllo delle risorse in-terne è stata sostituita dal ricorso alle risorse disponibili nel sistema interna-zionale. Il caso della fondazione dei nuovi stati nel periodo post-coloniale è però diverso dalla situazione più recente in cui la dissoluzione di federazioni ha dato origine a nuovi stati che si trovano ad essere “spiazzati” nel mutato contesto internazionale. Non c'è più la rivalità, generata dalla Guerra fredda, che può fornire ai clientes le risorse che invece erano disponibili solo una decina di anni fa. In questo contesto possono svolgere un nuovo ruolo le or-ganizzazioni universalistiche, come l'Onu, che non si possono nascondere dietro l'ossequio al principio della sovranità. Questo principio viene in-vocato dalle Grandi potenze quando non hanno nessuna voglia o interesse ad intervenire, ma esse sono pronte ad invocare le ragioni umanitarie, quan-do invece prevalgono altri motivi che consigliano di intervenire e cioè di praticare la solidarietà internazionale. L'Onu è obbligata “moralmente” ad intervenire, perché gli stati sono incapaci di difendere quei diritti umani che essa ha definito e ha promesso di proteggere.

Sul fatto che vi sia un preciso dovere ad intervenire, non ha certamente né dubbi né tentennamenti Bonanate, che si chiede anche quale fondamento possa avere un approccio al problema che appare a prima vista piuttosto corretto e ragionevole: dalla constatazione che è impossibile difendere o aiutare tutti potrebbe discendere che, dovendo scegliere, è più giusto aiutare i più vicini, perché verso di essi abbiamo una qualche maggiore “responsa-bilità”, quando non vi siano anche precisi interessi. L'autore dimostra però che si tratta di un principio assai poco facilmente difendibile sul piano del-l'etica, a parte il fatto che andrebbe chiaramente definito ciò che si può con-siderare vicino. Dopo avere osservato che non regge il “sacro” rispetto che i teorici di scuola realista invocano per la sovranità, in quanto essi stessi defi-

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Delli Zotti e Pocecco Introduzione

niscono “anarchico” il sistema internazionale stato-centrico, l'autore con-clude che «non abbiamo più doveri verso i più vicini, perché abbiamo uguali doveri verso tutti».

Tra i diritti umani da proteggere si pongono con una certa urgenza in particolare quelli delle minoranze etniche e culturali, che sono particolar-mente minacciati in un momento di disordine interno e relativa anomia, o, per lo meno, di scarsa chiarezza di intenti sul piano internazionale. Se ne oc-cupa nel suo intervento Vinci Giacchi, il quale afferma che è anche dal pie-no riconoscimento dei diritti delle minoranze etniche e culturali che può passare l'attenuazione delle spinte centrifughe che si fanno sentire così pre-potentemente.

Anche quello di Al-Ashall è un breve intervento, ma piuttosto deciso, ol-tre che chiaro, nella premessa e nelle conclusioni. Se collochiamo lungo un continuum i concetti di solidarietà e sovranità che altri (Merle), in questo stesso volume definiscono “antinomici”, l'autore si colloca decisamente sul versante della tutela della sovranità. Esaminando alcuni casi di intervento o di pressione internazionale che coinvolgono stati arabi, egli rileva come il community concern si sia, a volte in maniera indebitamente “intrusiva” e strumentale, sovrapposto alla sovranità nazionale. Ma la sovranità nazionale è un valore, a giudizio dell'autore, che va salvaguardato proprio nell'interes-se della comunità internazionale, almeno fino a quando gli stati-nazione ri-marranno i principali attori del sistema internazionale.

Il contributo di Kvitsinsky si incentra tutto sull'analisi della disintegra-zione dell'Unione Sovietica. L'autore è scettico rispetto alla possibilità che la solidarietà internazionale possa veramente essere in grado di contribuire a risolvere i problemi dei paesi che ora compongono la Comunità degli stati indipendenti. La situazione è complessa e pericolosa, ma non si può certa-mente addebitare alle sole tendenze etniche separatiste; anzi, queste ultime sono in gran parte proprio l'effetto, e non la causa, di una profonda crisi eco-nomica, sociale e morale. Solo se la comunità internazionale sarà in grado di contribuire a rimuovere queste cause, vi potrà essere un miglioramento, e ciò sarà possibile, innanzitutto, se la maggiore espressione organizzata della Comunità internazionale, le Nazioni Unite, intraprenderanno un processo di reale democratizzazione, iniziando con un passo fondamentale, quello della riforma del Consiglio di sicurezza, allargando il numero dei membri perma-nenti. Marcel Merle, dopo avere offerto delle chiarificazioni concettuali sui termini centrali della discussione (sovranità e solidarietà), pone al centro dell'attenzione il caso francese. Tutti i governi francesi si sono, in linea di massima, attenuti nella pratica a ciò che le elaborazioni dottrinarie e poli-tiche hanno sempre proclamato in modo fermo e costante: la difesa del prin-cipio della sovranità. Solo negli ultimi decenni vi sono stati casi di in-

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Delli Zotti e Pocecco Introduzione

tervento armato al di fuori dei confini, ed anche l'opinione pubblica non è più così monolitica e si cominciano a levare opinioni critiche della neutra-lità, specialmente con riferimento a casi in cui l'intervento potrebbe servire a salvaguardare i diritti e le stesse vite di popolazioni oppresse. L'autore con-clude che, a suo avviso, il problema del rapporto tra dovere di solidarietà e tutela della sovranità non è di facile soluzione perché ritiene che i due ter-mini siano antinomici, letteralmente contraddittori. Merle però nota che la tutela della sovranità è un'esigenza che si afferma nel passato, quando era prioritario costruire gli stati-nazione, mentre la solidarietà è un valore che si potrà gradualmente affermare, perché rivolto al futuro, in quanto inteso ad affermare di valori universali che si oppongono con sempre maggiore forza alla difesa del particulier.

Ciò appare chiaro in particolare nell’intervento di Papisca secondo il quale, in un mondo massicciamente interdipendente ed affollato da un nu-mero crescente di attori la sovranità è ormai in molti casi null’altro che una finzione. Si è intanto affermato un vero e proprio corpus di Diritto interna-zionale dei diritti umani ed è anche perciò importante porre la questione del rafforzamento delle strutture “di governo” della Comunità internazionale. Un importante punto di partenza per costruire un nuovo ordine mondiale più giusto, pacifico, democratico e solidale risiede nel ripensare ruolo e funzioni delle Nazioni Unite, che vanno “potenziate e democratizzate”, dell’Unione Europea, che dovrà essere “costituzionalizzata ed allargata”, mentre il futuro “legittimo” della Nato dovrebbe consistere nella sua trasformazione in forza di polizia militare internazionale collegata alle Nazioni Unite.

Sulla stessa linea si colloca il lavoro di Giovanni Delli Zotti che arriva alle medesime conclusioni, dopo avere esaminato i risultati di due sondaggi che, effettuati a distanza di quasi tre anni l'uno dall'altro, hanno consentito di verificare gli elementi di stabilità e di mutamento dell'atteggiamento dei cit-tadini verso le ipotesi di intervento e la loro concezione di sovranità. Si trat-ta di problemi che, in particolare nel Friuli-Venezia Giulia, regione confi-nante con l’ex-Jugoslavia, hanno un impatto emotivo, e anche “visivo”, cer-tamente maggiore che in altre regioni d'Italia. I risultati dell’analisi portano l’Autore a concludere che, tra due principi assoluti che astrattamente si po-trebbero porre agli estremi di un continuum, quello dell’acritico rispetto del-la sovranità (che implica l’opzione del non interventismo assoluto) non pare essere praticabile, alla luce della proclamazione dei diritti dell’uomo. È pro-blematico anche affermare che sempre e comunque si possa intervenire quando questi diritti siano violati ma, anche se rimangono molte questioni aperte (chi deve intervenire, in quali casi e con che modalità), ciò non con-traddice la tendenza di fondo verso l’affermazione di un diritto/dovere di in-tervento di polizia internazionale che verrà gradualmente sempre più legitti-

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mato dai passi che verranno ulteriormente fatti nella direzione evocata da Papisca.

Con questo intervento si conclude la parte che comprende i saggi ripresi e in alcuni casi (Picco, Papisca, Delli Zotti) rivisti ed aggiornati rispetto al-l’edizione già pubblicata. Gli interventi seguenti si pongono comunque sulla stessa linea dei precedenti, affrontando in generale il tema del mutato ruolo degli attori internazionali nel nuovo ordine mondiale che si sta faticosa-mente costruendo nei fatti. Paradigmatico, da questo punto di vista, l’inter-vento di Franco Mistretta, secondo il quale, anche se le dimensioni della nuova legalità non sono ancora prevedibili, lo scenario più probabile appare quello multipolare delle aggregazioni internazionali. Le organizzazioni in-ternazionali cercano infatti di assolvere al ruolo di regolatore dei conflitti globali o regionali. In sostanza vi è la tendenza alla dissoluzione dello stato-nazione ed all'aggregazione regionale: non più protagonista, lo stato è ora in concorrenza con gli organismi internazionali e con altre forme di raggruppa-mento. Queste ultime, in particolare, stanno emergendo con autorevolezza sulla scena internazionale e sono un fenomeno da considerare.

Tra gli attori emergenti, secondo Mario Pines, vi è la comunità interna-zionale degli affari (business community). L’articolo di Pines affronta infatti il tema dell’individuazione dei più rilevanti fattori determinanti l’evoluzione e l’assetto delle strutture normative ed istituzionali nelle moderne società in evoluzione. Tra questi si collocano i soggetti dell’economia globale e post-industriale: mercati finanziari, banche, assicurazioni ed intermediari finan-ziari in genere, da un lato, ed il tradizionale mondo politico, con le sue scel-te e tempi di realizzazione, spesso non adatti alle realtà più evolute del mon-do contemporaneo, dall'altro. Non è facile stabilire se, considerata la veloci-tà con cui evolve la tecnologia e la diffusione della cultura e delle informa-zioni in genere, condizionata spesso dal mondo dell’economia, saranno de-cisivi i particolari soggetti della cosiddetta business community, ovvero le tradizionali determinanti sociali e politiche che hanno, sempre, condizionato l’evoluzione delle strutture politiche. Anche il saggio seguente, di Silvia Bo-nacito, concentra la sua attenzione su una specifica categoria di attori del nuovo ordine internazionale in via di definizione: si tratta in particolare del ruolo dell’Onu e delle organizzazioni regionali nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Tutta l’analisi viene svolta a partire dal ca-so dell’ex-Jugoslavia e con l’attenzione rivolta all’esame del modello origi-nario di peace-keeping, che vive, proprio in conseguenza di quanto accaduto in quell’area, un’intensa fase di rielaborazione e riconcettualizzazione (2).

2. Il saggio qui presentato costituisce la parte conclusiva di un più lungo elabo-rato nel quale, nella parte iniziale, vi è una puntuale ricostruzione, sulla base di un’ampia documentazione, del ruolo svolto in particolare dalle agenzie delle Nazio-

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* * * Affrontare una volta di più un tema analitico come la realtà post-

jugoslava comporta il rischio di cadere nel “già detto”. Ma gli autori chia-mati a realizzare questa sezione si caratterizzano immediatamente per la loro volontà di eliminare ogni possibile forma di retorica o luogo comune, cer-cando invece di dare un apporto significativo ed originale.

I loro interventi sono profondamente diversi e distanti fra loro, riflet-tendo anche posizioni discordanti se non opposte: alle voci di critica ragio-nata all'intervento della Nato si levano quelle - altrettanto ragionate - a favo-re; alla disanima del problema albanese in Kossovo si affianca la testimo-nianza serba di chi ha vissuto quell'intervento dall'interno.

Non era nostro interesse raccogliere un materiale pro o contro, la nostra preoccupazione risiedeva invece nel voler registrare obiettivamente l'ampio spettro di posizioni speculative che la crisi del Kossovo ha suscitato all'in-terno della comunità scientifica internazionale, e non solo. Pur talvolta dis-sentendo con quanto è stato scritto, il nostro intento documentario è stato anche connotato dalla speranza che, con il tempo, le posizioni più aspre o espresse con maggior amarezza, possano temperarsi in un maggior equili-brio.

L'intervento internazionale in Kossovo ha infatti segnato un momento di intensa discussione circa l'applicabilità e l'interpenetrazione dei concetti di solidarietà internazionale e sovranità nazionale. Le stesse società civili eu-ropee, superando le classiche dicotomie legate all'appartenenza politica, hanno manifestato apertamente i dissidi che le animavano. In effetti, al di là dell'accettare o meno che il proprio paese partecipasse ad una missione di tal genere, vi erano riflessioni di ben più ampia portata.

Come, ad esempio, la discussione inerente il rapporto fra importanti arti-colazioni concettuali come quella fra politica e forza, da un lato, fra azione politica e giustizia internazionale, dall'altro. Trasposti in una delle più con-flittuali e sanguinose realtà del post-comunismo, questi concetti assumono una loro pregnanza fattuale, vale a dire non sono più oggetto di mere spe-culazioni, ma implicano decisioni importanti sul futuro di popoli e territori.

È facile appellarsi ancora una volta ai “Balcani insanguinati”, ad una guerra di “tutti contro tutti”, alla “complessità del caos balcanico”. In realtà,

ni Unite nei diversi conflitti che si sono succeduti nell’area dell’ex-Jugoslavia per tutti gli anni Novanta [Silvia Bonacito (1998), Le operazioni di pace nella ex-Jugo-slavia. Il ruolo dell’Onu e delle organizzazioni regionali nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, Programma Sociologia internazionale sezione “Relazioni interetniche”, n. 98-3, Isig, Gorizia].

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oltre a ricercare le ragioni profonde di una situazione che non cessa di es-sere sotto il profilo dell'emergenza, gli interrogativi si riferiscono anche al-l'applicabilità e realizzabilità di progetti e modelli, genericamente assi-milabili all'idea di Europa.

Alla volontà di comprendere per capire, di interpretare per cogliere il particolare originale, si ispira il saggio di Alberto Gasparini. Il suo è un mo-dello esplicativo ma problematico (che non si propone cioè di essere esau-stivo o risolutivo) dei recenti avvenimenti dell'ex-Jugoslavia. Basato su una serie di variabili indipendenti, esso sottolinea la precarietà degli stati nati dalla dissoluzione della Federazione, a causa del loro “assimilare” idee poli-tiche, culturali ed istituzionali che non vengono poi sufficientemente elabo-rate ed adattate al contesto.

Questo intervento ripropone così in chiave originale, e in un diverso con-testo, quello che fu uno dei maggiori punti di fragilità del regime sovietico e dei regimi che lo riprodussero all'interno delle singole realtà nazionali: l'aver innestato sul tessuto sociale preesistente forme e modalità sistemiche non sufficientemente interiorizzate. E la conclusione cui approda Gasparini non può essere che una sola: ulteriori e nuove forme di instabilità generalizzata, la cui estensione non può essere aprioristicamente limitata alla sola ex-Jugo-slavia.

La riflessione di Luigi Bonanate affronta direttamente la questione del-l'intervento internazionale in Kossovo. La sua è una suggestiva sequenza di interrogativi che impongono una considerazione seria ed obiettiva del con-cetto stesso di guerra. Ogni guerra, infatti, si propone di essere l'ultima, ma assimilarla ad aggettivi come “umanitaria” e “democratica” pare all'autore una vera e propria trappola morale per gli stati democratici. È infatti impos-sibile che una guerra sia al contempo “democratica e giusta”, ma prima di ri-spondere a tale domanda vi sono altre ben più pressanti: “la vita è più im-portante della democrazia? E, senza democrazia, siamo certi che la vita si salvi?”

A tali quesiti rispondono, e duramente, alcuni interventi critici circa l'a-zione della Nato. Essi provengono da autori di paesi e competenze scienti-fiche diversi, costituendo così un'interessante panoramica di come le posi-zioni assunte al riguardo non siano assolutamente collocabili né sul piano dell'appartenenza nazionale né su quello dell'appartenenza ideologica. Ciò rappresenta l'indicatore manifesto di come l'epoca attuale sia caratterizzata da una “globalizzazione intrinseca del pensiero” che, in questo frangente, ri-vela la sua fecondità ai fini della circolazione ed elaborazione delle idee. La questione del Kossovo rivela così le sue numerose ripercussioni a livello analitico, e senza cadere in facili entusiasmi, è plausibile affermare che essa

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Delli Zotti e Pocecco Introduzione

abbia imposto un momento di seria riflessione sul nuovo “disordine mon-diale”.

Il Kossovo può essere dunque visto sotto molteplici punti di vista. Esso può essere interpretato sia da una prospettiva politica, come ultimo

passo per una nuova guerra mondiale, che da una geo-politica, come model-lo in miniatura del XXI secolo. Igor Bestuzhev-Lada concentra i suoi sforzi concettuali per inquadrare queste potenzialità interpretative nel contesto del-la crisi, adottando una posizione molto critica nei confronti della politica attuata dagli Usa e presagendo una loro disintegrazione.

Altrettanto critica è l'opinione di Claude Karnoouh, il quale sottolinea - a suo avviso - una delle maggiori conseguenze dell'intervento della Nato con-tro la Federazione Jugoslava. Quest'ultimo si configura come il tentativo de-finitivo di relegare l'Onu in una posizione di secondo piano ed a tale consi-derazione si sovrappone l'analisi del perché gli stati europei abbiano deciso di aderire ad un intervento che allontana progressivamente la realizzazione di un'Europa unita, rinfocolando al contrario odi e risentimenti.

Ancor più duro l'intervento di Giovanni Nifosì che, senza mezzi termini o giri di parole, definisce Parigi e Rambouillet come delle semplici confe-renze-schermo per legittimare una guerra. E dimostra come, nel far ciò, la Nato abbia posto in essere evidenti violazioni delle convenzioni e dei proto-colli internazionali.

A questa serie di speculazioni teoriche sull'intervento fanno eco le ana-lisi di autori che si potrebbe definire “direttamente coinvolti”, sia di nazio-nalità serba che albanese.

Vi sono innanzitutto le due testimonianze di chi tale intervento lo ha vis-suto dall'interno.

Miroliub Radojkovic affronta il tema della Serbia che, incerta del suo fu-turo dopo la fine dei bombardamenti, oltre ad affrontare problemi di più va-sta portata, si trova a scontrarsi anche con una dura “quotidianità”: finita la “guerra armata” comincia la “guerra per la sopravvivenza”. Non manca di lucidità analitica il suo intervento, in cui si sofferma anche sulla debolezza delle forze di opposizione a Milo⎣evi≡, debolezza che le rende di fatto “così simili” al regime.

Pari lucidità analitica - anche se “dell'altra parte” - è ravvisabile nell'arti-colo di Kosta Barjaba, dove l’incapacità della classe politica kossovara vie-ne vista come uno dei momenti decisivi dell’esplosione della crisi nel Kos-sovo. Un lungo “periodo di letargo” della leadership kossovara e di quella albanese in generale si è precipuamente manifestato nel non saper formulare in maniera chiara strategie e tattiche per la soluzione della questione nazio-nale albanese. L’autore ripercorre così alcuni momenti fondamentali, muo-vendosi simmetricamente sia all'interno della realtà albanese che di quella kossovara, come ad esempio la nascita dell’Uck al pari di una risposta alle

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Delli Zotti e Pocecco Introduzione

esitazioni della classe politica kossovara; l’ “auto-regolazione” della popo-lazione albanese di fronte al massiccio flusso di profughi; l’unificarsi della politica albanese in questa situazione di emergenza e, infine, l’incertezza e la cautela presenti negli atteggiamenti dei paesi vicini.

Naim Zoto, dal canto suo, prende in esame gli eventi prodottisi in questi ultimi dieci anni, evidenziando il passaggio dalla reazione non-violenta e dalla messa in pratica dei suoi concetti fondamentali all'entrata in scena del-l'Uck. L'esercito di liberazione è stato - a parere dell'autore - il fattore de-terminante per la mobilitazione dell'opinione internazionale ai fini di una ri-soluzione politica del problema.

Sempre incentrato su una risoluzione politica, ma di tutt'altra natura, è l'intervento di Galtung, Mushakoji e Lopez-Reyes attraverso il loro progetto Transcend. Il documento contenuto in questo articolo presenta una delle al-ternative progettuali avanzate durante i mesi del bombardamento della Nato sulla Serbia, partendo anch’esso dal presupposto che tale azione sia stata assolutamente infeconda dal punto di vista della pacificazione dell’area.

Si tratta con evidenza di uno sforzo interpretativo atto a definire quelle azioni che possono realmente sostenere e supportare un processo di pace: conferenze di pace a livello locale, intensificazione del ruolo delle diverse confessioni religiose, abolizione delle sanzioni, ecc. Più che istituire Corti preposte a giudicare i crimini, bisogna incentivare ed incoraggiare i processi di riconciliazione a tutti i livelli: è questa la possibile sintesi delle opinioni espresse dagli autori.

La tavola rotonda funge da ideale completamento super-partes, chia-mando alcuni studiosi ad affrontare una serie di nodi problematici, ed invi-tandoli a confrontarsi su un tema importante quanto essenziale per la com-prensione di quanto è avvenuto in Kossovo, nonché per poter avanzare alcu-ne proiezioni interpretative: la non-violenza. Da questa riflessione iniziale, il dialogo a più voci si amplia, toccando anche il fallimento di Rambouillet (e la “lezione” che si può ricavare da questo insuccesso della diplomazia euro-pea); lo sconvolgimento degli equilibri geo-politici a seguito dei bombarda-menti della Nato e, infine, l’ipotesi di politiche “possibili” per l’intera area, in grado cioè di garantire una pianificazione durevole, in cui, ancora una volta, sia la ricerca della pace che la teoria della non-violenza possono ri-vestire un ruolo notevole.

Gli esperti che hanno accettato l'invito di Futuribili sono di formazione e campo scientifico diversi, accrescendo così la vivacità del confronto cooor-dinato da Mauro Cereghini: Howard Clark, Johan Galtung, Alberto L'Abate, e Roberto Morozzo della Rocca.

Gli interventi di Marco Dogo ed Antonella Pocecco si collocano ideal-mente e contenutisticamente all'inizio ed alla fine della seconda parte. En-

Futuribili 31 n. 2-3, 1998 (2000)

Delli Zotti e Pocecco Introduzione

trambi esprimono un quadro analitico personale, vertendo su presupposti fra loro complementari l'analisi del problema del Kossovo.

Dogo, infatti, sviluppa la precisa “natura politica” di esso, che risiede nella questione concernente il rapporto fra stato e cittadini, vale a dire il fon-damento della legittimazione del potere statale. Ripercorrendo le varie fasi storiche che hanno interessato la regione, egli vi ravvisa il paradigma so-stanziale per comprenderne la complessità: le istituzioni albanesi non sono state riconosciute dallo stato e lo stato, a sua volta, non è stato oggetto di identificazione da parte della stragrande maggioranza della popolazione lo-cale. Ciò ha ingenerato un'endemica instabilità, espressione al contempo della difesa della propria identità etnica.

Pocecco si focalizza invece su uno dei topos più discussi nell'orizzonte di quello che oramai siamo abituati a definire genericamente come post-co-munismo. La società civile è pertanto il nodo concettuale privilegiato, af-frontato criticamente poiché è necessario abbandonare l'alone ideologico che si è voluto crearle dopo gli eventi dell'89 e problematizzare l'esistenza di forme diverse di auto-organizzazione della società. La società balcanica contiene in sé caratteristiche e fenomenologie che rendono praticamente im-possibile applicare una teorizzazione classica del concetto, ed in ciò risiede la difficoltà maggiore di interpretare società rette da “regole non scritte”. In-fatti, il Kossovo presentava due società statali a loro modo molto forti, rette da rigidi principi di esclusione ed inclusione. Tuttavia, solo considerando la peculiarità del tessuto sociale ed evitando così di “esportare” modelli che ri-mangono al pari di gusci vuoti a causa di una loro mancata aderenza al dato contestuale, è possibile realizzare una politica di pacificazione passibile di un qualche successo.

L’intervento di chiusura è dedicato all'attuale complessità di uno dei processi più caratterizzanti la nostra epoca, quello di integrazione europea. Piero Fassino lo incentra su due direttrici principali: il progressivo allarga-mento verso Est (verso i paesi dell'ex-blocco sovietico) ed il rafforzamento del dialogo verso Sud (con i paesi che si affacciano sul bacino del Mediter-raneo).

È evidente che si tratti di processi che esulano dal dato meramente eco-nomico o politico, ma che inferiscono direttamente ad un dialogo fra cul-ture, senza il quale nessuna dinamica evolutiva risulta possibile o addirittura auspicabile. Sulla base di questo dialogo, inoltre, si fondano reciproche defi-nizioni di tolleranza che permettono al rapporto interlocutorio di stabilirsi su un livello paritario per ciascun soggetto che vi partecipa.

In altre parole, considerare l'Europa post-comunista (con le fenomeno-logie che in essa prendono corpo) come un “mondo a parte” significa con-dannarla ad una nuova forma di mutismo, diverso da quello imposto dalla

Futuribili 32 n. 2-3, 1998 (2000)

Delli Zotti e Pocecco Introduzione

Cortina di ferro, ma non per questo meno cogente. L'allargamento/l'avvici-narsi ad essa deve essere invece dettato da una chiara volontà di confronto paritario, realizzando così le condizioni di una reale comprensione.

* * *

Questo numero di Futuribili contiene infine una parte in cui, come an-

ticipato, sono riportati (in lingua originale) alcuni documenti che hanno ri-vestito e rivestono un ruolo essenziale nella definizione degli assetti nelle zone interessate dai recenti conflitti balcanici.

Si tratta innanzitutto degli accordi di Dayton, che hanno concluso la “fa-se bosniaca” della crisi dell’ex-Jugoslavia e che vengono riprodotti inte-gralmente ed in lingua originale. Gli Accordi sono introdotti da un com-mento di Massimo Moratti che fornisce una guida alla lettura ed una chiave valutativa del grado di realizzazione degli undici “Annessi” al General A-greement.

Anche i “tentati” accordi di Rambouillet (per alcuni, come si evince da quanto detto in alcuni interventi di questo numero di “Futuribili”, non si sa-rebbe trattato di un sincero tentativo di trovare un accordo) sono preceduti da un intervento interpretativo di Anna Lisa Ghini, che fornisce una chiave di lettura che si incentra in particolare sulle differenze riscontrabili tra le due versioni dello Statuto di autonomia del Kossovo. Infine, vengono riportati anche i testi degli accordi che hanno posto fine ai bombardamenti della Nato sulla Serbia.

Conclude la sezione documentaria il testo della Carta per la Sicurezza Europea, approvata il 19 novembre 1999 alla Conferenza di Istanbul del-l’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la Cooperazione in Europa). Si tratta di un documento di importanza fondamentale, in quanto stabilisce l’ammissibilità, da valutarsi comunque “caso per caso”, di quello che Papi-sca nel suo intervento definisce come “intervento da autorità della Comunità internazionale”. Esso perciò costituisce un altro ulteriore e molto significa-tivo passo nella riaffermazione della difesa dei diritti umani, anche se ciò dovesse andare a detrimento di una sovranità nazionale che, del resto, nel-l’attuale assetto internazionale è comunque sempre più indebolita.

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INTERVENTO INTERNAZIONALE: SOLIDARIETÀ O INGERENZA?

di Giovanni Delli Zotti

Abstract: I risultati di due sondaggi hanno consentito di verificare gli elementi di stabilità e di mutamento negli atteggiamenti dei cittadini di una regione confinante con l’ex-Jugoslavia (il Friuli-Venezia Giulia), dove l’impatto emotivo, e anche “vi-sivo”, delle problematiche implicate nelle ipotesi di intervento “umanitario” sono certamente maggiori che in altre regioni d'Italia. L’analisi effettuata porta l’Autore a concludere che l’acritico rispetto della sovranità non pare essere praticabile, alla luce della proclamazione dei Diritti dell’uomo. È problematico anche affermare che sempre e comunque si possa intervenire quando questi diritti siano violati. Anche se rimangono molte questioni aperte (chi deve intervenire, in quali casi e con che mo-dalità), ciò non contraddice la tendenza di fondo verso l’affermazione di un dirit-to/dovere di intervento di polizia internazionale che verrà gradualmente sempre più legittimato dai passi che verranno ulteriormente fatti nella direzione di un raffor-zamento delle istituzioni sovranazionali.

* * * * * Premessa

I drammatici avvenimenti che hanno dolorosamente colpito le popola-

zioni dell'ex-Jugoslavia (dapprima nelle Krajne, e poi in Bosnia e nel Kos-sovo) hanno posto l'opinione pubblica di fronte a quesiti cui non è facile da-re una risposta che sia allo stesso tempo razionale e moralmente accettabile. Il problema fondamentale è individuare il limite cui si può arrivare nella tu-tela del principio della sovranità nazionale: essa, infatti, a volte sembra esse-re un inutile mito, ma è anche, contemporaneamente, il “sacro” principio cui si appellano i “nuovi” popoli che cercano di ottenere l'indipendenza.

Il problema si è posto con drammaticità, oltre che nel caso dell'ex-Jugoslavia, anche in occasione dell'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq, in relazione alla lotta del popolo curdo contro l'Iraq e la Turchia, ed anche a proposito di quanto è accaduto in Somalia, Ruanda ed attualmente a Timor Est (solo per esemplificare rispetto ad alcuni degli avvenimenti più noti ac-caduti grosso modo nell'ultimo decennio del secolo che si va a concludere).

Su queste tematiche l'Isig ha svolto nel settembre 1992 un sondaggio te-lefonico su un campione di 400 cittadini maggiorenni del Friuli-Venezia

Futuribili 77 n. 2-3, 1998 (2000)

G. Delli Zotti Solidarietà o ingerenza

Giulia (1). Il sondaggio è stato ripetuto nel giugno 1995 con analoghe moda-lità ed il questionario è stato modificato in alcuni punti per tenere conto dei più recenti avvenimenti attinenti al tema trattato.

Con quei due sondaggi e con il dibattito internazionale che venne realiz-zato, l'Isig intendeva offrire un contributo scientifico di riflessione ad una discussione che, a livello politico e di opinione pubblica, rischia spesso di esaurirsi in sterili confronti tra posizioni di principio. I risultati completi dei due sondaggi sono riportati in una pubblicazione dalla quale in questo vo-lume sono tratti, in ampie sintesi, diversi interventi (2). Per quanto riguarda il sondaggio, riproporremo qui alcuni risultati essenziali che possono essere ancor utili, vista la perdurante attualità del tema, ad illustrarne la complessi-tà e a mostrare quanto sia difficile prendere decisioni in merito, al di là delle superficiali semplificazioni più o meno di parte.

1. Le dimensioni della solidarietà e della sovranità Con la prima domanda del sondaggio si chiedeva agli intervistati che co-

sa, a loro parere, implicasse la solidarietà internazionale, oltre alla fornitura di cibo o medicinali a popolazioni bisognose. Il 36% riteneva che la solida-rietà internazionale implicasse anche la rinuncia ai nostri crediti verso i pae-si del Terzo Mondo (3), il 42.3% che potesse essere intesa anche come for-nitura di aiuto militare e, infine, il 60% come accoglienza di profughi nel nostro paese. Il complemento a 100 di ognuna di queste percentuali rappre-senta la quota di coloro che invece non ritengono ammissibile considerare queste attività come una forma in cui si può manifestare la solidarietà inter-nazionale. Si può allora sottolineare il fatto che quasi due terzi degli intervi-stati non era disposto a rinunciare ai crediti (4). Ci si può solo augurare che

1. L'inchiesta svoltasi nel 1992 è stata realizzata con il contributo dell'Archivio

per la pace dell'Isig e quella del 1995 con il contributo dei fondi 40% del Murst, partendo dall'idea iniziale di Alberto Gasparini, con la collaborazione di Maura Del Zotto, che ha curato la rilevazione, e di Luigi Pellizzoni, che ha contribuito notevol-mente alla realizzazione del questionario. Vorrei ringraziare questi colleghi, e alcuni altri che hanno visto una versione preliminare del questionario e fornito utili sugge-rimenti.

2. G. Picco, G. Delli Zotti (eds./cur.) (1995), International solidarity and na-tional sovereignty. Solidarietà internazionale e sovranità nazionale, Isig, Gorizia.

3. Si tratta di un tema rilanciato recentemente nell'agenda politica con interventi, oltre che a livello delle agenzie internazionali e da autorità morali come il Papa, an-che da una campagna in cui sono impegnati esponenti del mondo musicale.

4. Salvo dove diversamente indicato, la percentuale di mancate risposte è molto bassa e, dunque, quasi ininfluente nell'apprezzamento delle risposte valide.

Futuribili 78 n. 2-3, 1998 (2000)

G. Delli Zotti Solidarietà o ingerenza

tale percentuale si sia nel frattempo ridotta, anche in considerazione del fat-to che, come viene sottolineato dalla campagna per l'eliminazione del debito che è attualmente in corso, tale azione si limiterebbe ad un sacrificio eco-nomico davvero modesto (si tratterebbe di una quota pro capite di circa 40 mila lire). Con l'eliminazione del debito, oltre a salvare numerosissime vite umane, si potrebbe contribuire in maniera determinante a rilanciare le eco-nomie dei paesi più indebitati che non riescono a decollare proprio perché impediti da questo pesante condizionamento, nonostante le enormi somme già corrisposte ai creditori per il pagamento degli interessi maturati.

Nella sezione successiva del questionario veniva affrontato l'altro tema fondamentale dell'indagine, quello della sovranità. Una domanda era riferita agli aspetti indispensabili perché uno stato possa considerarsi veramente so-vrano. Poter controllare rigorosamente l'accesso degli stranieri al proprio territorio è ritenuto indispensabile dal 74.8%; avere un governo che prenda le sue decisioni senza dipendere da quelle di altri governi dal 61.8%; non dipendere economicamente da nessuno dal 56%; avere un esercito che di-fenda i confini nazionali dal 54%; che all'interno dello stato si parli un'unica lingua dal 42.8%; che all'interno dello stato vi sia una popolazione etnica-mente omogenea dal 37.8%.

Nel sondaggio successivo si notavano solo pochi scostamenti significati-vi da questi risultati (5) e, comunque, la gerarchia rimaneva la stessa. La di-stinzione tra “in-group” e “out-group” è dunque ritenuta la più importante per definire una comunità nazionale ed è indispensabile essere sovrani per decidere chi ammettere a far parte della comunità, filtrando gli accessi, an-ziché subire incontrollate “invasioni”. L'attenuazione registrata da un son-daggio all'altro è attribuibile al fatto che nel periodo di tempo trascorso era diminuita la paura che nel 1992 era alimentata dai primi arrivi di esuli dal-l'ex-Jugoslavia e, più ancora, dal massiccio espatrio di albanesi verso l'Italia.

Nel sondaggio del 1992, per quanto senza differenze radicali, si notava una maggiore preoccupazione per questo attributo della sovranità da parte delle categorie socialmente più deboli (i meno scolarizzati, i più anziani, le donne e, in particolare, casalinghe e pensionati). Tra le categorie professio-nali era abbastanza degna di nota una differenza di oltre dieci punti percen-tuali tra i lavoratori autonomi che sostenevano, più di operai ed impiegati, l'importanza del controllo dell'accesso agli stranieri. Si trattava, evidente-mente, di un atteggiamento culturale di chiusura più che di una razionale preoccupazione legata ad interessi economici, perché la pretesa minaccia

5. In questa sede non verranno considerati significativi, in generale, scostamenti

da un sondaggio all'altro inferiori a 2 punti percentuali.

Futuribili 79 n. 2-3, 1998 (2000)

G. Delli Zotti Solidarietà o ingerenza

derivante dagli stranieri “che portano via il lavoro” dovrebbe essere sentita maggiormente dai lavoratori dipendenti.

Questo quadro si confermava e, anzi, si delineava con maggiore chiarez-za esaminando i dati del sondaggio 1995. Il ridimensionamento della preoc-cupazione per l'incontrollato ingresso degli stranieri in Italia era infatti quasi interamente dovuto all'abbandono delle paure irrazionali da parte delle cate-gorie più “forti” (ad esempio, i laureati scendevano dal 64 al 40%) e perciò, la differenza con i più “deboli” risaltava ancora di più. Le donne, in genera-le, si allineavano con i maschi nel secondo sondaggio, ma, dal momento che le casalinghe mantenevano un livello di “diffidenza” leggermente superiore alla media, anche in questo caso la revisione dell'atteggiamento di chiusura è da addebitarsi maggiormente alla componente più scolarizzata, giovane e professionalmente impegnata del mondo femminile. Fig. 1 - Elementi che caratterizzano la sovranità

0 10 20 30 40 50 60 70 80

omogeneità etnica

parlare un'unica lingua

difesa confini

indipendenza economica

indipendenzadecisionale

controllo accessostranieri

19951992

Come abbiamo visto, secondo gli intervistati, il secondo importante ele-

mento che caratterizza la sovranità dello stato è la capacità del governo di prendere decisioni autonome. In questo caso le differenze tra le categorie sono davvero minime e vale la pena di segnalare solo che dirigenti e liberi professionisti, in entrambi i sondaggi, erano meno convinti dell'importanza di questo aspetto, forse perché più consapevoli del crescere dell'interdipen-denza a livello planetario, che rende illusoria ogni pretesa di una politica nazionale che possa prescindere dalle decisioni di altri governi.

Futuribili 80 n. 2-3, 1998 (2000)

G. Delli Zotti Solidarietà o ingerenza

Su un quasi pari livello di importanza si collocava la presenza di un e-sercito che difenda i confini nazionali. In questo caso si registrava in en-trambi i sondaggi una relazione inversa con il livello di scolarità, e diretta con l'età: gli anziani e meno scolarizzati risultano essere le categorie che più considerano importante la dimensione della sicurezza verso l'esterno (6). Il processo di socializzazione, assai diversificato quanto ai contenuti tra le ge-nerazioni più distanti, può certamente avere svolto un ruolo rispetto a questo atteggiamento.

Entrambe le ultime due dimensioni si collocavano al di sotto del 50% delle menzioni. Si tratta dell'aspetto dell'unicità linguistica all'interno dello stato, che veniva indicato come importante da poco più del 40% degli inter-vistati e di quello correlato dell'omogeneità etnica, per il quale la percentua-le scendeva al 38% (35% nel 1995).

Per apprezzare correttamente il fatto che questi due item ricevevano l'at-tenzione di una minoranza, per quanto consistente, vale forse la pena di sot-tolineare che l'indagine si è svolta all'interno di una regione di confine in cui convivono popolazioni di diversa etnia e che parlano lingue diverse. L'espe-rienza di una convivenza etnica che si è sviluppata in maniera tutto sommato sufficientemente armonica e la conoscenza delle opportunità che derivano dalla presenza di abilità linguistiche che possono favorire gli scambi ad ogni livello con le regioni contermini, possono avere favorito questo atteggia-mento (7).

2. I motivi che giustificano l'intervento internazionale Un’ulteriore domanda era volta a rilevare quali motivazioni potessero

giustificare un intervento armato. Va innanzitutto detto che il 12% non ave-va risposto alla domanda (17% nel sondaggio più recente) oppure - si tratta-va della maggioranza dei casi - riteneva che nessuno dei motivi proposti nel questionario rendessero ammissibile un intervento armato in un paese terzo. Queste percentuali si elevano ad oltre il 20% nel caso dei più anziani: è la generazione che ha sperimentato sulla propria pelle il significato della guer-ra e dunque appare meno incline ad approvare lo spostamento di eserciti, sia pure per ragioni umanitarie o cause “giuste”. Una certa maggior avversione ad ogni intervento (nella domanda si precisava “armato”) proveniva anche

6. Si tratta di due variabili che, come è noto, sono significativamente correlate

tra di loro. 7. L'affermazione andrebbe naturalmente verificata con la replica della domanda

in regioni del paese non confinarie e/o maggiormente omogenee dal punto di vista linguistico ed etnico.

Futuribili 81 n. 2-3, 1998 (2000)

G. Delli Zotti Solidarietà o ingerenza

dalla generazione dei quarantenni che si presume abbiano - almeno alcuni di essi - partecipato ai movimenti pacifisti degli anni Sessanta.

Entrando nel merito degli item proposti, si può vedere, nell'ordine, che lottare contro la malavita organizzata veniva considerata una motivazione ammissibile dal 73.3%; abbattere una dittatura dal 59.3%; impedire atti che possano provocare un disastro ecologico dal 59%; difendere i diritti umani di popolazioni oppresse dal 54.3%; difendere un governo democratico dal 45%; sostenere la conquista dell'autonomia da parte di minoranze etniche dal 28.5%.

I risultati registrati nel 1992 non mutano drasticamente nel sondaggio del 1995, se non per due aspetti interessanti. Scendeva di quindici punti (pur rimanendo su percentuali elevate) la motivazione della lotta contro la mala-vita organizzata, in conseguenza, si può ritenere, dei successi ottenuti all'e-poca dalle forze dell'ordine e dalla magistratura in Italia, e saliva di sette punti la difesa dei diritti umani, probabilmente a causa dell'impatto sull'opi-nione pubblica della sistematica violazione di questi diritti in Bosnia.

Fig. 2 - Motivi che giustificano l’intervento

0 10 20 30 40 50 60 70

ingerenza in questioniinterne

politicamente opportuno

non otterrebbe/haottenuto risultati

concreti

doveroso moralmente

19951992

Anche se questo dato si è ridimensionato nel sondaggio più recente, è

importante sottolineare che la lotta contro la malavita organizzata convince-va quasi i tre quarti degli intervistati quale giustificazione per una possibile ingerenza, anche militare, negli interessi interni di un paese.

Ciò è abbastanza sorprendente, perché il caso concreto di intervento pro-spettato riguardava la Bosnia ed apparivano invece lontani nel tempo, e con un impatto ormai attenuato, l'intervento americano in Panama per la cattura

Futuribili 82 n. 2-3, 1998 (2000)

G. Delli Zotti Solidarietà o ingerenza

di Noriega accusato di narcotraffico, o le minacce (o promesse) d'intervento in Colombia.

Gli intervistati, indicando questa motivazione come la più importante, manifestavano quindi una preoccupazione reale per la situazione interna che si rivelava, tra l'altro, pressoché uniforme tra le diverse categorie sociali in-dividuate dalle variabili indipendenti (sesso, età, scolarità e condizione pro-fessionale). Una conferma della concretezza di questa preoccupazione e, contemporaneamente, della sfiducia nella nostra classe politica, si ottiene analizzando le risposte date ad una domanda che riguardava proprio l'ipotesi che, nell'ambito della lotta alla mafia, le Nazioni Unite decidessero di invia-re in Italia una forza militare.

Le altre situazioni trattate nel questionario riguardavano interventi effet-tuati o prospettati in zone più o meno lontane del mondo. Era quindi interes-sante verificare se mutasse l'opinione degli intervistati ipotizzando un inter-vento internazionale sul suolo della nostra nazione, nel caso, cioè, in cui i ruoli si fossero invertiti.

Alla domanda diretta riguardante il caso italiano, nel primo sondaggio il 45% ha risposto che sarebbe favorevole ad un intervento internazionale, an-che nel caso che le autorità italiane fossero state contrarie, il 19.5% sarebbe stato favorevole solo se le autorità italiane fossero state d'accordo, ed il 34.5% sarebbe stato decisamente contrario. Va ulteriormente precisato che, nel formulare la domanda, si è ritenuto di parlare di un intervento generico in Italia, e non in Sicilia o in qualche altra ben definita regione meridionale. Per un'opinione pubblica di una regione del Nord, la domanda così formula-ta sarebbe potuta risultare troppo direttiva (8).

Si può ritenere comunque che, al di là della possibile influenza che pos-sono avere atteggiamenti genericamente anti-meridionalistici nella popola-zione intervistata, le risposte confermino l'esistenza, all'epoca della prima rilevazione, di un profondo scollamento tra società civile e classe politica. La maggioranza infatti era comunque a favore dell'intervento internazionale per combattere la mafia, ma quel 45% che accetterebbe l'intervento anche se le autorità italiane non fossero d'accordo la dice assai lunga sulla perdita di legittimità subita dalle istituzioni di governo. Un discredito, tra l'altro che - è il caso di sottolineare - risultava più marcato nelle due classi di età più gio-vani.

La domanda, riproposta nella rilevazione più recente, ha dato risultati radicalmente diversi. Si era ristabilita una situazione di “normalità”, in quanto la maggioranza (53.3%) era contraria a quest'ipotesi di intervento, il

8. In realtà lo è anche formulata in questa maniera, perché viene pur sempre e-vocata la mafia e dunque sarebbe interessante verificare in un campione nazionale se i nostri risultati trovano un riscontro in altre regioni, magari anche del Sud.

Futuribili 83 n. 2-3, 1998 (2000)

G. Delli Zotti Solidarietà o ingerenza

27.8% favorevole, ma solo con il consenso delle autorità italiane ed, infine, solo il 16.3% avrebbe accettato l'intervento delle Nazioni Unite contro la mafia, anche se le autorità fossero state contrarie. Il “partito” degli interven-tisti era dunque sceso di 30 punti percentuali, perdendo quasi due terzi dei suoi effettivi. Si può affermare, quindi, che si trattava di un buon recupero per una classe politica la cui credibilità tre anni prima aveva probabilmente toccato il fondo.

Ritornando all'ordine di importanza tra i motivi ritenuti plausibili per ac-cettare l'ipotesi di un intervento, al secondo posto si collocava l'abbattimen-to di una dittatura ma, quasi sullo stesso piano, si situavano motivazioni as-sai diverse, come l'impedire un disastro ecologico e la difesa dei diritti uma-ni di popolazioni oppresse.

L'elevato “gradimento” dell'item ecologico ben rappresenta il livello di consapevolezza ormai raggiunto riguardo all'importanza del mantenimento di condizioni accettabili del “substrato territoriale” per garantire le condi-zioni di vita. Forse sottolinea anche l'impatto che avevano avuto presso l'o-pinione pubblica le immagini agghiaccianti di maree nere di petrolio o dense nuvole di fumo scaturenti dai pozzi in fiamme che oscuravano in pieno gior-no il fiero sole del deserto kuwaitiano.

La motivazione della difesa di un governo democratico è simile, ma spe-culare, rispetto a quella dell'abbattimento di una dittatura. L'accettazione del primo item registrava quindici punti percentuali in meno rispetto al secondo (undici nel sondaggio più recente). L'esistenza di una dittatura viene proba-bilmente considerata una situazione irrimediabilmente compromessa e non facilmente risolvibile con le sole forze interne; al contrario, nel caso di mi-nacce di abbattimento di un governo democratico, la condizione di “società aperta” tipica di una democrazia, per quanto minacciata, può mobilitare al-l'interno forze sufficienti per fugare i pericoli che si addensano; perciò, l'in-tervento internazionale può essere percepito come meno indispensabile.

Tra i due motivi che potremmo connotare con caratteristiche più post-moderne, o comunque proposti più di recente all'attenzione dell'opinione pubblica, prevale di gran lunga quello più universalistico della difesa am-bientale, rispetto al valore, più particolaristico, della difesa dell'etnia. Si può arguire, in generale, che la gente ritenga che il problema della difesa delle etnie e delle lingue “locali” possa essere risolto con sistemi meno traumatici (come le diverse graduazioni di un sistema federale) che la rivendicazione di un'assoluta autonomia. Nello specifico, si può ancora una volta sostenere che la particolare condizione della popolazione del Friuli-Venezia Giulia, che ha potuto constatare la praticabilità della convivenza, in un regime de-mocratico, di diverse etnie su uno stesso territorio, abbia fatto scendere in secondo piano questa motivazione per giustificare un intervento armato.

Futuribili 84 n. 2-3, 1998 (2000)

G. Delli Zotti Solidarietà o ingerenza

Le domande preliminari erano servite, oltre che a registrare le opinioni, anche a far familiarizzare gli intervistati con i due concetti fondamentali di “solidarietà” e “sovranità” e, dunque, a questo punto era possibile proporre una domanda riassuntiva, che li ponesse di fronte all'alternativa “secca” con-sistente nel decidere se, valutati tutti gli aspetti visti in precedenza, alla fine la solidarietà dovesse prevalere sulla sovranità, oppure viceversa.

Questa specifica domanda è stata posta solo nel secondo sondaggio; di-ciamo subito che è prevalso il rispetto per la sovranità, in quanto il 54% de-gli intervistati ha scelto la seguente formulazione: “si può intervenire per solidarietà, ma solo se questo aiuto è richiesto dalle autorità del paese este-ro, perché altrimenti la sovranità viene violata”. Solo il 36.5% ha scelto l'al-tra: “vi sono dei casi in cui è doveroso intervenire per solidarietà, anche se ciò può costituire una violazione della sovranità di uno stato estero”.

Abbiamo così la possibilità di interpretare più correttamente i risultati della batteria di domande sulle diverse ipotesi di intervento, in quanto si è visto che la maggioranza era favorevole per molte di queste; ma possiamo ritenere che molti sottintendessero che ciò si potesse fare solo con il consen-so dei governi. Che la Comunità internazionale possa chiedere ad un gover-no che viola i diritti umani di popolazioni oppresse il permesso di interveni-re per porvi fine è del tutto assurdo, ma, come si può vedere anche da altri saggi presenti in questo volume, tentare di salvaguardare entrambi i principi della “solidarietà” e della “sovranità” può certamente portare a queste situa-zioni paradossali.

Registriamo anche che, oltre ad un 5% che non sapeva rispondere alla domanda, vi era un altro 5% che si divideva quasi equamente tra coloro che affermavano che “dipende” dai casi quale principio debba prevalere e colo-ro che rifiutavano invece l'alternativa, affermando che in nessun caso si può intervenire.

Un'altra domanda proponeva il problema dell'ammissibilità del criterio della vicinanza nella valutazione dell'opportunità dell'intervento (9). Per po-ter rivolgere la domanda a tutti, anche a coloro che avevano un'avversione più o meno decisa per l'ipotesi dell'intervento, si è premesso: “Se si accetta che vi siano dei casi in cui è lecito intervenire”. Tra le due alternative pro-poste è prevalsa la formulazione: “è più giusto intervenire in questioni che riguardano i paesi vicini (come la ex-Jugoslavia nel caso dell'Italia), perché verso i vicini abbiamo maggiori doveri di responsabilità” (scelta dal 26.5% degli intervistati), sull'altra: “è più giusto intervenire in paesi lontani (ad e-

9. La domanda, aggiunta nel questionario somministrato nel sondaggio del

1995, raccoglieva lo stimolo offerto dall'intervento di Bonanate al convegno dell'Isig del 1992 contenuto in sintesi anche in questo numero di Futuribili.

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sempio il Ruanda), perché non si può essere accusati di perseguire i propri interessi (si è meno parte in causa)”. Per questa alternativa si è espresso il 14.5%.

Come si vede, mancano all'appello diversi intervistati, ed infatti, la mag-gioranza relativa affermava, pur non essendo sollecitata dall'intervistatore, che quello della vicinanza non è un criterio valido. Una quota molto consi-stente (un 45% che trova accomunati coloro che in linea di principio sono favorevoli con coloro che sono contrari all'intervento) era infatti dell'avviso che, se è proprio necessario intervenire, allora devono entrare in campo altre considerazioni. A questi va aggiunto il 3.8% che aveva risposto con un “di-pende” che, in fondo, ribadisce sinteticamente che la vicinanza non è rile-vante. In questo modo riceve l'avallo dell'opinione pubblica il parere, molto ben argomentato, espresso da Bonanate nel suo saggio.

Il 57% delle persone interpellate nel sondaggio del 1992 dichiarava che approverebbe una partecipazione militare italiana ad una forza internaziona-le se fosse promossa dalle Nazioni Unite (55% nel sondaggio del 1995), il 50.5% se a promuoverla fosse la Comunità Europea (valore che sale al 57% nel 1995), il 30.8% se fosse la Nato ed il 17.8% nel caso i promotori fossero gli Stati Uniti (rispettivamente 37 e 20% nel 1995).

Come si può vedere, il grado di accettazione scende in misura drastica passando da un'organizzazione universalistica, come le Nazioni Unite, ed un'altra, simile per certi aspetti, ma di portata sub-continentale, come la Comunità Europea, ad organizzazioni come la Nato che, pur avendo subito, come conseguenza dell'abbattimento della Cortina di ferro, una notevole modificazione strategica, viene pur sempre percepita come l'espressione di precisi interessi geo-politici. Il grado di accettazione è ancora meno elevato per gli Stati Uniti, su cui molti probabilmente nutrono dubbi riguardo alla genuinità degli intenti. Saliva comunque per tutti, nel sondaggio più recente, in qualche misura il “livello di credibilità”, con l'eccezione delle Nazioni Unite, che avevano nel frattempo subito gli “smacchi” della Somalia ed an-che delle “umiliazioni” in Bosnia.

Va rilevato, comunque, che il 30% degli intervistati (34% nel 1995) non riteneva accettabile una partecipazione militare italiana a forze internaziona-li, chiunque fosse il promotore tra quelli elencati.

3. Gli atteggiamenti nel caso dell'ipotesi e del concreto intervento in Bosnia All'epoca del primo sondaggio si prospettava l'ipotesi di un intervento in

Bosnia e all'epoca del secondo esso si era concretizzato. Era dunque interes-

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sante verificare quali mutamenti d'opinione potessero avere indotto le due diverse prospettive.

Il 68.5% delle persone interpellate nel 1992 riteneva che l'intervento in-ternazionale in Bosnia fosse doveroso moralmente, ma solo il 35.5% lo rite-neva politicamente opportuno; il 32.8% affermava che fosse da evitare per-ché inutile, ed il 26.3%, da evitare perché contrario al principio della sovra-nità nazionale (10).

Dalle risposte date si può dunque ricavare un'altra indicazione - applica-ta ad un caso specifico - di quale sia il termometro dell'opinione pubblica in merito al dilemma se l'intervento internazionale debba ritenersi un'indebita ingerenza negli affari interni di un'altra nazione o una genuina forma di soli-darietà. Gli intervistati infatti, messi di fronte ad un caso concreto, erano chiaramente a favore di questa seconda ipotesi e sentivano fortemente il ri-chiamo morale di non lasciare nulla di intentato per alleviare le sofferenze delle popolazioni civili coinvolte negli eventi bellici. Sentivano però anche i pericoli insiti in una decisione di intervento e quindi l'intenzione di interve-nire si accompagnava alla prudenza riguardo all'opportunità politica e all'ef-ficacia.

Fig. 3 - Valutazioni sull’intervento in Bosnia

0 10 20 30 40 50 60 70 80

ingerenza in questioniinterne

politicamente opportuno

non otterrebbe/haottenuto risultati

concreti

doveroso moralmente

19951992

Se incrociamo le risposte relative alla doverosità morale dell'intervento

con l'opportunità politica, possiamo ricavare una tipologia. Possiamo defini-re “moralisti coerenti” una quota di poco inferiore ad un terzo di intervistati che ritenevano l'intervento doveroso moralmente e politicamente opportuno. Poco più di un terzo era invece “moralista prudente”, poiché non riteneva

10. Anche in questo caso è opportuno ricordare che le diverse ipotesi erano state proposte una ad una agli interpellati e il complemento a 100 di ogni percentuale in-dica la parte del campione che rifiutava ognuna delle affermazioni proposte dal que-stionario.

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politicamente opportuno un intervento che lo era invece sul piano morale. Poco meno di un quarto potrebbe definirsi “coerentemente non interventi-sta”, perché, accanto alla consapevolezza dell'inopportunità politica dell'in-tervento, non concedeva nemmeno che lo fosse dal punto di vista morale. “Opportunista” tout-court si potrebbe definire invece una ristretta minoran-za (3.5%) che riteneva politicamente opportuno un intervento che non era invece fondato su motivazioni morali. Vi era anche un 5.6% che non si sen-tiva in grado di rispondere a una o entrambe le domande e che si collocava dunque al di fuori della tipologia.

Incrociando le risposte date alle altre due domande (con cui si motivava l'eventuale rifiuto all'intervento) si vede innanzitutto che quasi metà del campione non accettava né il motivo dell'impossibilità di registrare concreti risultati, né quella di evitare l'indebita ingerenza in questioni interne (inter-ventisti “fiduciosi”). Si tratta di persone che, dunque, accettavano in linea di massima la possibilità dell'intervento, salvo, come abbiamo visto sopra, ve-rificarne l'opportunità politica o la doverosità morale. Un 20% di interventi-sti “realisti” invece non riteneva che l'intervento dovesse essere considerato un'ingerenza, ma nutriva serie preoccupazioni sulla concretezza dei risultati. Un altro 14%, al contrario, non si poneva problemi quanto ai risultati, ma era ossequioso del principio della non ingerenza (non interventisti “dubbio-si”). Infine, un 12% di non interventisti “oltranzisti” riteneva entrambi que-sti aspetti rilevanti per impedire l'adesione ad ogni ipotesi di intervento. Gli intervistati non classificabili sono in questo caso il 6.7%. Tab. 1 - Tipologie di intervistati (tra parentesi i risultati del sondaggio 1995) Doveroso Politicamente opportuno moralmente Sì No ______________________________________ Sì moralisti coerenti moralisti prudenti 31.8 (19.0) 35.8 (41.5) No “opportunisti” non interventisti coerenti 3.5 (3.5) 23.5 (19.5) ______________________________________________________________________________________________________

Evitare: Evitare: ingerenza esterna nessun risultato Sì No _________________________________________ Sì non interventisti “oltranzisti” interventisti “realisti” 12.0 (25.5) 20.0 (12.5) No non interventisti “dubbiosi” interventisti “fiduciosi” 14.3 (3.8) 47.0 (46.5)

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In conclusione, si può affermare che, dall'incrocio delle coppie di do-mande, emergono piuttosto nitidamente due posizioni “estremistiche”. Da un lato vi è, come si è già visto, poco meno di un terzo che era incondizio-natamente a favore dell'intervento in quanto esso supera sia il vaglio della doverosità morale che quello dell'opportunità politica; dall'altro vi era quel 12% di non-interventisti ad oltranza, che superavano sia il vaglio dell'inop-portunità sotto il profilo dell'ossequio al principio della sovranità, che quel-lo, più pragmatico, della percepita impossibilità di ottenere con l'azione ri-sultati concreti. Nel mezzo, diverse situazioni variegate, a volte anche con-traddittorie, che scontano del resto le stesse difficoltà che incontrano i go-verni, ed anche le Nazioni Unite, nel definire una chiara e coerente linea di azione che non appaia, e sia, ad esempio diversa, a seconda che entrino in gioco, o meno, pesanti interessi economici.

Questo set di domande è stato riproposto nel sondaggio più recente, ade-guando il testo della domanda, perché il suo significato era mutato: nel set-tembre del 1992 si trattava di esprimere un atteggiamento verso un'ipotesi di intervento da attuare, nel giugno del 1995 era possibile invece chiedere agli intervistati di stilare un bilancio.

Vediamo, allora, che non muta, anzi si rafforza leggermente, l'opinione che l'intervento fosse doveroso moralmente (un'opinione condivisa nel se-condo sondaggio da oltre il 70% degli intervistati); scendeva invece (da 35% a 23%) la percentuale di coloro che ritenevano che l'intervento fosse politicamente opportuno. Non è fonte di alcuna sorpresa poi il fatto che si fosse rafforzato (da 33% a 41%) il “partito” di coloro che dicevano (però retrospettivamente) che l'intervento era da evitare, in quanto si poteva pre-vedere che non avrebbe ottenuto risultati concreti, ed anche perché si tratta-va di un'ingerenza in questioni interne (da 26% a 30%).

Rispetto alle tipologie che avevamo individuato si possono riscontrare alcuni “movimenti” abbastanza chiaramente identificabili, anche se il fatto che non si siano intervistate le stesse persone sotto forma di panel, non per-metterebbe, a rigore, di inferire gli spostamenti effettivi di opinione da una categoria all'altra, ma solo riscontrarne la mutata consistenza (11). Si raffor-zano i “moralisti prudenti”, a scapito dei “moralisti coerenti” e, dal momen-to che la consistenza dell'insieme dei moralisti non muta da un sondaggio all'altro, si può anche affermare, pur con qualche prudenza, che sia da attri-buire ad una quota di moralisti che, alla luce degli scarsi risultati conseguiti, aveva abbandonato la valutazione positiva dell'opportunità politica dell'in-tervento attuato. Da notare anche che la gravità della situazione e la difficol-

11. Il problema metodologico è analogo a quello della “pretesa” di stimare, sulla

base dei risultati elettorali, i flussi interpartitici tra due elezioni successive.

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tà di trovare vie di uscita portava a triplicare la quota di coloro che non era-no classificabili in quanto non in grado di esprimersi sulla doverosità mora-le, l'opportunità politica o entrambe.

Anche rispetto all'altra tipologia siamo di fronte ad un movimento abba-stanza chiaro: mentre rimanevano abbastanza stabili i favorevoli all'inter-vento, si rafforzavano i contrari, ricevendo “rinforzi” sia da coloro che non lo ritenevano opportuno perché inconcludente - ma non consideravano vali-da l'obiezione del “vulnus” alla sovranità - sia da coloro che erano preoccu-pati per la sovranità violata, ma ritenevano che l'intervento avrebbe potuto portare a qualche risultato. Anche in questo caso si registra un notevole in-cremento di coloro che non si sono espressi (dal 6.5 all'11.7%).

Riflessioni conclusive sui risultati dei sondaggi Dalle due indagini presentate provengono, a nostro avviso, alcune “sug-

gestioni” che mantengono piena validità anche riguardo ai più recenti fatti che hanno coinvolto le popolazioni del Kossovo e di Timor Est.

Non si scioglie, comunque, né era forse lecito aspettarselo, il nodo della contraddizione di fondo tra tutela della sovranità e necessità di intervento internazionale a fini di solidarietà. Ben pochi intervistati, come abbiamo vi-sto, si schierano apertamente per l'uno o per l'altro fronte. Sono pochi quelli che, ad esempio, rifiutano di prendere in considerazione le diverse ipotesi di intervento, in quanto sono del parere che mai si debba intervenire. D'altro canto, sono ancor meno numerosi coloro che non hanno dubbi, ed accettano tutte le ipotesi prospettate come ragioni valide per intervenire, oppure, anco-ra, sulle domande riferite alla situazione bosniaca, ritengono acriticamente che l'intervento fosse moralmente lecito, politicamente opportuno, non le-desse il principio della sovranità e potesse anche portare risultati positivi.

Tra queste due posizioni “estremistiche” vi è una serie di atteggiamenti ed opinioni più sfumate. Avremmo potuto “sfrangiare” l'opinione pubblica ancor di più di quanto appaia dalle due semplici tipologie proposte, studian-do le combinazioni tra tutte e quattro le variabili dicotomiche utilizzate. E avremmo anche potuto porre ulteriori domande che avrebbero rivelato con ancor più chiarezza quanto i dubbi e le perplessità si moltiplicano, anziché chiarirsi, se si considerano tutte le sfaccettature e le implicazioni. E non si tratterebbe di un artificioso prodotto del moltiplicarsi delle domande che “girano intorno” al problema, perché è abbastanza evidente che l'opinione pubblica, in fondo, riflette semplicemente le incertezze che la stessa classe politica internazionale dimostra di avere.

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In realtà, non vi sono principi generali validi in assoluto e, dunque, non vi è nulla di strano nel fatto che vi siano decisioni difformi da caso a caso. Come sostiene Picco in questo stesso volume, non è necessariamente un ma-le che sia così, se ciò serve a sollevare il problema e a discuterne con spirito costruttivo.

Si può ricordare, non con spirito polemico, quanto “strumentale” allo scopo di dimostrare l'improponibilità di decisioni prese sulla base di principi assoluti, il paradosso in cui si è trovato il vescovo di Timor Est che con pa-role accorate invitava i paesi occidentali e l'Onu ad intervenire nel suo pae-se. Il vescovo stigmatizzava l'indecisione ed affermava che l'Occidente, non intervenendo, avrebbe in pratica adottato “due pesi e due misure” (si era in-fatti intervenuti in Kossovo), tralasciando il fatto che si era resa responsabile di questa contraddizione in primis proprio la Chiesa cattolica. Il Vaticano, infatti, nel passato si era proposto come paladino di tutti i “pacifisti” e non interventisti, che, pur appartenendo spesso a sponde ideologiche lontanissi-me da quella della Chiesa, cercavano supporto e trovavano conforto nel fat-to che da Roma provenivano parole di condanna per ogni tipo di intervento.

Intervento/non intervento: un dilemma in via di soluzione?

Ritornando ai risultati dei nostri sondaggi, le posizioni, come abbiamo visto, sono “sfumate” per la maggior parte delle persone ma, analiticamente, possiamo individuarne due opposte, che si basano su principi assoluti. Da un lato il non interventismo e dall'altro una posizione, in verità individuabile solo astrattamente perché nessuno sembra sostenerla apertamente, secondo la quale si dovrebbe sempre e comunque intervenire, quando sia percepito un vulnus dei diritti umani. Quest'ultima posizione sembra essere la più irre-alistica, e in fondo lo è allo stato delle cose, ma in realtà, come cercheremo di dimostrare, è proprio quest'ultima che, in prospettiva, sembra essere la più plausibile, mentre la prima già ora può, per lo meno a nostro avviso, es-sere considerata inaccettabile.

Per tentare di indebolire le certezze dei non interventisti ad oltranza pos-siamo citare un intervento di André Glucksmann:

«Con l'aiuto insostituibile, ancora per molto tempo, degli Stati Uniti, l'Europa infine fa piazza pulita, risolvendo la duplice questione del per-ché e del come. Problema di diritto: in nome di che cosa? In nome del-l'urgenza. Davanti all'orrore flagrante. Senza attendere un'autorizzazione dell'Onu. Pazzo chi fa il delicato! Quando i comunisti vietnamiti invase-ro la Cambogia grondante sangue e misero fine al genocidio perpetrato dai khmer rossi, ancor più comunisti, chi li condannò? Ufficialmente, es-

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si violarono la “sovranità” di una nazione riconosciuta, ufficiosamente tutto il mondo tirò un sospiro di sollievo. Al contrario, quando l'Onu non fa nulla per impedire il genocidio dei tutsi (1994), rispetta la sovranità del Ruanda hutu, ma si rende complice di un crimine gravissimo (sareb-bero stati sufficienti 5 mila soldati di una forza internazionale per salvare un milione di vite umane). Solo, Clinton chiese scusa. In caso di delitti contro l'umanità è colpevole chi lascia fare, è giustificato chi si oppone all'inferno. L'intervento della Nato è legittimo per l'unica e inconfutabile ragione che era necessario agire e che nessun altro l'avrebbe fatto al suo posto» (12). Si può poi discutere sul “problema di fatto: come?”, ma ciò non toglie

che “il nostro diritto d'ingerenza non è che un diritto di contro-ingerenza” di fronte alla barbarie. E infatti, secondo un altro commentatore, Amos Oz:

«L'unico aspetto positivo della tragedia in Kossovo è che il genocidio non è più considerato una faccenda interna del paese in cui viene con-sumato. Questo è un cambiamento e un progresso rispetto a cinquant'an-ni fa, quando la maggior parte delle nazioni ritenevano il genocidio una questione interna: al massimo protestavano, ma non interferivano mai. Naturalmente, la linea di dove è ammissibile o meno l'intervento è del tutto arbitraria […] In ogni caso, io credo che da qualche parte bisogna pur cominciare […] e poiché il genocidio è il male sommo, è giusto che un regime che commette genocidio sappia che non è più immune dall'in-tervento esterno. Spero che questa diventi una scelta universale» (13). È logico che, se si decide di intervenire, sorgano una serie di questioni di

alcune delle quali si è fatto portavoce Alessandro Pizzorno, sempre per ri-correre ad alcuni degli interventi autorevoli apparsi sulla stampa quotidiana durante la crisi del Kossovo (14).

Pizzorno, infatti, si pone delle legittime domande riguardo a chi deve da-re giudizi morali, chi è in grado di valutare se chi interviene non sia guidato da interessi nazionali o di potenza o sul perché l'Onu sia così debole. Do-mande che però, pur legittime, non vanificano il ragionamento di Habermas il quale, nella sintesi dello stesso Pizzorno, sostiene che:

«in attesa della costituzione di un ordine giuridico internazionale, il qua-le sia fornito di istituzioni capaci di giudicare e sanzionare le infrazioni ai diritti umani di questo o di quel governo, è inevitabile fare affidamen-

12. A. Glucksmann, “La nuova Europa nasce a Pristina”, La Repubblica, vener-

dì 11 giugno 1999, p.11. 13. A. Oz, “Genocidio questione universale. L'amara illusione del Villaggio

Globale”, La Repubblica, mercoledì 26 maggio 1999, p. 1. 14. A. Pizzorno, “Ma l'intervento Nato è poco umanitario”, La Repubblica, gio-

vedì 20 maggio 1999, p. 15.

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to a una politica dei diritti umani che sia mossa da valutazioni morali, non giuridicamente determinabili. Sarebbe auspicabile che una tale poli-tica fosse nelle mani delle Nazioni Unite. Ma poiché queste attualmente sono impotenti, in attesa che vengano riformate bisogna adattarsi a la-sciar svolgere questa funzione alla Nato. Anche se l'autoinvestitura della Nato non può diventare la regola». Sollevare dubbi sulla modalità dell'intervento non implica infatti negare

come principio assoluto la possibilità dell'intervento, per lo meno in alcuni casi. È logico che vi siano molte questioni aperte: se tutto fosse già regolato giuridicamente, non saremmo qui a discuterne.

Su quest'ultimo punto torneremo nel seguito, intanto però vorremmo sot-tolineare ancora l'esistenza di un'asimmetria tra i due principi opposti che abbiamo delineato. Non si può sostenere, allo stato attuale, che si possa sempre, in ogni caso intervenire, ma in linea di principio non è escluso che ci si possa arrivare.

Ciò avviene normalmente nel caso del diritto interno: non ci si pone, ad esempio, il problema della violazione della patria potestà se la polizia o la magistratura intervengono per impedire che venga commesso un reato quale la violenza sui minori. Si agisce così, però, perché la legislazione in materia è abbastanza precisa e prevede i casi in cui è ammessa questa “violazione” della privacy familiare. Nel caso del diritto internazionale siamo in una si-tuazione di “de jure condendo” e dunque è lecito avere maggiori perplessità. Non siamo ancora di fronte ad un governo mondiale democraticamente elet-to cui è stata demandata la sovranità, quindi, tra l'altro, la potestà dell'uso le-gittimo della forza, con il correttivo di una magistratura internazionale indi-pendente che ne possa impedire l'abuso.

Non possiamo però, in linea di principio, dire che un giorno ciò non av-verrà e, quando ciò si verificasse pienamente ci troveremmo nella situazione adombrata da Sofri, che propone di considerare l'intervento contro la Serbia come un'operazione di polizia internazionale (15). Un'operazione che, anche così definita, suscita profonde resistenze.

«C'è una riluttanza ad affrontare il tema della polizia internazionale. Nessuno (più o meno) obietta all'esistenza della polizia all'interno dei singoli stati. Tuttavia l'accettazione non va senza preoccupazioni e diffi-denze, tutt'altro che infondate. Si fa una decisiva differenza fra uno stato democratico e uno stato di polizia. Il linguaggio - parole come “sbirro” - serba la memoria di una ostilità allo stato e al suo monopolio della forza. [Comunque] L'avversione “antimperialista” contro la nozione di gen-

15. A. Sofri, “Ma non è giusto chiamarla guerra”, La Repubblica, venerdì 7

maggio 1999, p. 17.

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darme del mondo non può continuare a riparare nel tabù della sovranità statuale. Il controllo di legalità dei comportamenti della polizia, così vi-tale per la civiltà degli stati, lo è altrettanto per le relazioni internaziona-li. […] nessuno può sottovalutare i pericoli provenienti dal monopolio e dall'esercizio smargiasso o stupido di una forza internazionale. Ma si tratta dei pericoli che democrazia e civiltà corrono in ogni stato per l'e-ventuale abuso delle forze di polizia, o militari o della giustizia. Né sono superiori ai pericoli che comporta la rinuncia a una prevenzione e san-zione internazionale delle sopraffazioni più gravi contro gruppi umani indifesi». Naturalmente, se si tratta di un'operazione di polizia e non di una guerra:

«il principio della proporzione fra mezzi e fini è decisivo. Il principio della prevenzione - dunque, dell'interposizione necessaria e non effimera - altret-tanto». Non si possono sterminare sequestratori ed ostaggi: «Se si smette di giocare alle guerre, e ci si propone un'azione di polizia, il braccio legato die-tro la schiena non è altro che il vincolo della legalità: la vera differenza fra le bande degli epuratori di villaggi e la “Comunità internazionale”».

Ma questa è un'altra storia e non inficia il principio dell'ammissibilità dell'intervento.

L'intervento di polizia sarebbe dunque legittimo se si fosse stipulato un nuovo contratto sociale a livello globale ma, anche se questa non è una si-tuazione pienamente realizzata vi sono comunque, come afferma Bobbio (ed anche, ad esempio, Papisca o Bonanate in questo stesso volume), le prime fondanti basi giuridiche e non possiamo dunque nasconderci dietro ad un dito.

Secondo Bobbio: «Il cammino continuo, se pure più volte interrotto, del-la concezione individualistica della società procede lentamente dal ricono-scimento dei diritti del cittadino di un singolo stato al riconoscimento dei diritti del cittadino del mondo» (16).

E, anche se i diritti dell'uomo, per fondamentali che siano, sono diritti storici, lo sono anche i diritti del cittadino all'interno dello stato. Quando certe leggi sono state democraticamente scelte e formulate per regolare i rapporti in una data società, il fatto che siano storicamente situate, e a volte certamente perfettibili, non impedisce che esse vengano applicate fino a quando restano in vigore.

Sempre secondo Bobbio bisogna cercare il consenso e con esso «si sosti-tuisce la prova dell'intersoggettività a quella ritenuta impossibile o estrema-mente incerta dell'oggettività» (17). Ma con la Dichiarazione dei diritti del-

16. N. Bobbio (1990), L'età dei diritti, Einaudi, Torino, p. XII. 17. Ibidem, p. 20.

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l'uomo: «un sistema di valori è (per la prima volta nella storia) universale, non in principio ma di fatto, in quanto il consenso sulla sua validità e sulla sua idoneità a reggere le sorti della comunità futura di tutti gli uomini è stato esplicitamente dichiarato» (18).

Seguendo ulteriormente il ragionamento di Bobbio: «si potrà parlare a ragion veduta di tutela internazionale dei diritti dell'uomo solo quando una giurisdizione internazionale riuscirà a imporsi e a sovrapporsi alle giurisdi-zioni nazionali, e si attuerà il passaggio dalla garanzia dentro lo stato - che contrassegna ancora prevalentemente la fase attuale - alla garanzia contro lo stato» (19). Ma il fatto che attualmente manchi nel sistema internazionale “un potere comune tanto forte da prevenire o reprimere la violazione dei di-ritti dichiarati” non ci esime dal lavorare nella direzione dell'ottenimento di queste cose.

Intanto, vale forse la pena di rassegnarci a vivere in un mondo che è lun-gi dall'essere perfetto e conviene agire con molto pragmatismo, che non si-gnifica necessariamente cinismo, al punto che anche gli stessi interessi, da molti vituperati quando vengono utilizzati come guida per l'azione (o per l'inazione), possono essere recuperati ad una qualche dignità.

In questo senso si esprime Angelo Panebianco, in uno degli ultimi inter-venti che in questa sede ci pare opportuno citare:

«Le leggende sull'esistenza delle cosiddette “guerre etiche”, le guerre che verrebbero combattute non per interesse ma esclusivamente per o-maggio a qualche astratto principio morale, nascono così: dall'incapacità di ammettere francamente che se si va alla guerra lo si fa perché c'è qualche (legittimo) interesse da difendere. Eppure, dei propri legittimi interessi (politici, economici, o di qualunque altro tipo essi siano) non ci si dovrebbe affatto vergognare. Anzi, bisognerebbe educare il pubblico a tenerne sempre conto. [...] Alla politica internazionale non si adatta l'eti-ca della convinzione (faccio ciò che devo, ossia ciò che la mia morale mi comanda, disinteressandomi delle conseguenze). Applicata alla politica estera l'etica della convinzione può produrre solo disastri. Alla politica internazionale si adatta solo l'etica della responsabilità (mi faccio re-sponsabilmente carico delle possibili conseguenze delle mie azioni). La decisione più grave di tutte, quella di usare le armi, non può pertanto mai dipendere dall'ossequio a qualche principio morale. Può dipendere solo dalla attenta considerazione, caso per caso, delle poste in gioco e delle

18. Ibidem, p. 21. 19. Ibidem, p. 36.

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conseguenze che, presumibilmente, la decisione di intervenire (o di non intervenire) provocherà» (20). Noi stessi, del resto, nella vita quotidiana, ci prendiamo più a cuore certe

situazioni rispetto ad altre perché ci coinvolgono meno dal punto di vista emotivo o, più prosaicamente, perché ledono in minore misura i nostri inte-ressi.

Sul contributo di chiarezza fornito dallo “sdoganamento degli interessi” si esprime anche Picco il quale, in un'intervista alla Stampa sostiene che:

«Bisogna sfatare un mito. Il negoziatore non deve essere imparziale. L'imparzialità non è certo un concetto operativo. La teorizza chi non ha mai negoziato. È, invece, una malattia culturale, tipicamente europea, un trave-stimento della incapacità di scegliere … Mi disse una volta un dittatore ara-bo: perché mi mandano questi cosiddetti imparziali europei? Che me ne fac-cio di un mezzo amico-mezzo nemico? Meglio uno schierato, almeno lo ca-pisco» (21).

Si può conclusivamente affermare, ritornando al dilemma “sovrani-tà/solidarietà” da cui siamo partiti, che il mito della sovranità, bene assoluto ed unico valore cui deve tendere una comunità nazionale, è ormai intaccato, forse anche a causa delle tragedie cui si è arrivati per affermare le nuove so-vranità sorte dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica e della Jugoslavia.

Che l'affermazione graduale dei valori universalisti possa essere il trend futuro più probabile lo si può sperare, osservando, per ritornare al nostro sondaggio, che le risposte in senso solidaristico provengono maggiormente dagli intervistati più giovani e scolarizzati. È opportuno però, che chi condi-vide queste speranze non si lasci cullare dalle illusioni, perché la storia, e purtroppo anche l'attualità, ci ammoniscono che le tentazioni autoritarie e le nostalgie di “restaurazione” di un preteso “ordine” internazionale possono essere sempre in agguato.

20. A. Panebianco, “Gli interessi e le ipocrisie”, Corriere della Sera, lunedì 13

settembre 1999. 21. La Stampa, mercoledì 26 maggio 1999, p. 24.

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GLI AUTORI Abdall Al-Ashal, già ambasciatore dell’Egitto in Burundi e direttore del-

l’Istituto diplomatico egiziano. Kosta Barjaba, professore di sociologia all’Università di Durazzo; direttore

generale del Ministero del lavoro, Repubblica di Albania. Igor Bestuzhev-Lada, professore di sociologia all’Università di Mosca; pre-

sidente dell’International Futures Research Academy. Silvia Bonacito, collaboratrice dell’Isig - Istituto di sociologia internazio-

nale di Gorizia. Luigi Bonanate, professore di relazioni internazionali; presidente del Corso

di laurea in Scienze internazionali e diplomatiche, Università di Torino. Mauro Cereghini, Università internazionale delle Istituzioni e dei Popoli per

la Pace, Rovereto (Trento). Howard Clark, ricercatore dell’Albert Einstein Institute. Giovanni Delli Zotti, professore di sociologia, Università di Trieste; diret-

tore di ricerca dell’Isig - Istituto di sociologia internazionale di Gorizia. Marco Dogo, professore di storia dell’Europa orientale, Università di Trie-

ste. Piero Fassino, ministro del Commercio estero della Repubblica Italiana. Johan Galtung, professore di studi della pace, Università di Granada, Trom-

sö, Witten/Herdecke; direttore del progetto Transcend “A peace and de-velopment network”.

Alberto Gasparini, professore di sociologia, Università di Trieste; direttore dell’Isig - Istituto di sociologia internazionale di Gorizia.

Anna Lisa Ghini, collaboratrice dell’Isig - Istituto di sociologia internazio-nale di Gorizia; docente di diritto comunitario, Università di Karachi.

Claude Karnoouh, ricercatore del Cnrs, Parigi; professore di filosofia, Uni-versità di Cluj.

July Kvitsinsky, già vice-ministro degli esteri dell'Urss, rappresentante a Berlino della Foreign Policy di Mosca.

Alberto L’Abate, professore di metodologia della ricerca sociale, Università di Firenze.

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Mohammad Jivad Larijani, professore di matematica, Università di Tehe-ran; deputato al Parlamento iraniano; già consigliere del Presidente della Repubblica Iraniana Rafsanjani.

Ramon Lopez-Reyes, co-autore del progetto Transcend. Marcel Merle, professore di relazioni internazionali, Università “Sorbona”

di Parigi. Franco Mistretta, direttore dell’Istituto diplomatico del Ministero degli af-

fari esteri, Repubblica Italiana. Massimo Moratti, responsabile dell’Ufficio locale di Prijedor, Missione O-

sce, Bosnia ed Erzegovina. Roberto Morozzo della Rocca, professore di storia dell’Europa orientale,

Terza Università di Roma. Kinhide Mushakoji, co-autore del progetto Transcend. Giovanni Nifosì, ricercatore del Lawer’s Committee on Nuclear Policy, New

York. Antonio Papisca, professore di relazioni internazionali, Università di Pado-

va; direttore del Centro di studio e ricerca sui diritti dei popoli, Univer-sità di Padova.

Giandomenico Picco, già vice segretario dell’Onu; rappresentante personale del Segretario generale Onu, Kofi Annan, per l’anno del dialogo tra ci-viltà, direttore del GDP Associates Inc., New York.

Mario Pines, professore di tecnica bancaria, Università di Trieste. Antonella Pocecco, direttore di ricerca dell’Isig - Istituto di sociologia inter-

nazionale di Gorizia. Miroljub Radojkovic, professore di sociologia delle comunicazioni, Univer-

sità di Belgrado. Barnett R. Rubin, professore di relazioni internazionali, Columbia Univers-

ity di New York; direttore del Centro studi sull’Asia centrale. Achille Vinci Giacchi, ministro plenipotenziario del Ministero per gli affari

esteri della Repubblica Italiana. Naim Zoto, consigliere del Ministero del lavoro, Repubblica di Albania.

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