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Silvia Contarini giani stuparich e la trilogia della guerra. dal «taccuino di un volontario» a RITORNERANNO 1 Una nitida descrizione del «taccuino di guerra» di Giani Stuparich si affaccia quasi per caso dal reticolo autobiografico di Trieste nei miei ricordi, in un frammento dove lo scrittore rievoca in maniera inattesa l’arruolamento volontario nel Primo reggimento granatieri, insieme al fratello Carlo e a Scipio Slataper, e i «settanta giorni di trincea e di combattimenti sul fronte di Monfalcone». 2 Da quella limpida pagina memoriale, che prende forma come per incanto tra riflessioni di natura assai diversa e pare non avere sèguito, si può ancora muovere per una rilettura della cosiddetta «trilogia della guerra», composta dai Colloqui con mio fratello (1925), Guerra del ’15 (1931) e Ritorneranno (1941): un trittico di generi e stili diversi unito dall’esigenza di rielaborare il trauma della guerra, con la morte di Scipio Slataper sul Podgora il 3 dicembre 1915, il suicidio di Carlo sul monte Cengio, il 30 maggio del ’16, e infine l’esperienza acutamente sofferta della prigionia da parte dello stesso Giani, caduto nelle mani del nemico il giorno successivo. Ricostruendo la genesi del fortunato Guerra del ‘15, nel quale, quasi per rispondere a un affettuoso auspicio di Carlo, 3 aveva trasformato in ( 1 ) Ringrazio Giusy Criscione per avere consentito la riproduzione dei brani inediti e Gabriella Norio per la disponibilità con cui l’Archivio diplomatico della Biblioteca Hortis ha risposto alle mie richieste. Sono anche particolarmente grata a Carlo Delcor- no, Giuseppe Sandrini e Mario Sechi per lo scambio fruttuoso di idee e di suggerimenti ricevuti durante la stesura del testo. ( 2 ) G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, in Id., Cuore adolescente, Trieste nei miei ricordi, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 177. ( 3 ) Scrive Carlo il 14 agosto del ’15, a proposito del taccuino che Giani gli ha inviato in lettura: «Due magnifiche ore m’ha fatto passare; ho incominciato a sfogliarlo e ho finito col leggerlo tutto come un romanzo tolstoiano [...]. Se da questi appunti sarai capace di fare un ingenuo tessuto semplice forte, in modo non di allungare gli strappi, ma di completare quello che io, avendolo vissuto, mi creo istantaneamente, ma gli altri no, farai un magnifico lavoro; forse ecco là una storia, un concentramento che cercavi» (C. Stuparich, Cose e ombre di uno, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1968³, pp. 219- 220).

Giani Stuparich e la trilogia della guerra: dal Taccuino di un volontario a Ritorneranno, in Gli Scrittori e la Grande Guerra, a cura di A. Daniele, Padova, Accademia Galileiana, 2015,

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Silvia Contarini

giani stuparich e la trilogia della guerra.dal «taccuino di un volontario» a ritorneranno1

Una nitida descrizione del «taccuino di guerra» di Giani Stuparich si affaccia quasi per caso dal reticolo autobiografico di Trieste nei miei ricordi, in un frammento dove lo scrittore rievoca in maniera inattesa l’arruolamento volontario nel Primo reggimento granatieri, insieme al fratello Carlo e a Scipio Slataper, e i «settanta giorni di trincea e di combattimenti sul fronte di Monfalcone».2 Da quella limpida pagina memoriale, che prende forma come per incanto tra riflessioni di natura assai diversa e pare non avere sèguito, si può ancora muovere per una rilettura della cosiddetta «trilogia della guerra», composta dai Colloqui con mio fratello (1925), Guerra del ’15 (1931) e Ritorneranno (1941): un trittico di generi e stili diversi unito dall’esigenza di rielaborare il trauma della guerra, con la morte di Scipio Slataper sul Podgora il 3 dicembre 1915, il suicidio di Carlo sul monte Cengio, il 30 maggio del ’16, e infine l’esperienza acutamente sofferta della prigionia da parte dello stesso Giani, caduto nelle mani del nemico il giorno successivo. Ricostruendo la genesi del fortunato Guerra del ‘15, nel quale, quasi per rispondere a un affettuoso auspicio di Carlo,3 aveva trasformato in

(1) Ringrazio Giusy Criscione per avere consentito la riproduzione dei brani inediti e Gabriella Norio per la disponibilità con cui l’Archivio diplomatico della Biblioteca Hortis ha risposto alle mie richieste. Sono anche particolarmente grata a Carlo Delcor-no, Giuseppe Sandrini e Mario Sechi per lo scambio fruttuoso di idee e di suggerimenti ricevuti durante la stesura del testo.

(2) G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, in Id., Cuore adolescente, Trieste nei miei ricordi, Roma, Editori Riuniti, 1984, p. 177.

(3) Scrive Carlo il 14 agosto del ’15, a proposito del taccuino che Giani gli ha inviato in lettura: «Due magnifiche ore m’ha fatto passare; ho incominciato a sfogliarlo e ho finito col leggerlo tutto come un romanzo tolstoiano [...]. Se da questi appunti sarai capace di fare un ingenuo tessuto semplice forte, in modo non di allungare gli strappi, ma di completare quello che io, avendolo vissuto, mi creo istantaneamente, ma gli altri no, farai un magnifico lavoro; forse ecco là una storia, un concentramento che cercavi» (C. Stuparich, Cose e ombre di uno, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1968³, pp. 219- 220).

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«scrittura corrente» le «annotazioni scheletriche» e «affannose» della vita di trincea, segnate «con la punta della matita su un blocchetto quadrettato»,4 lo scrittore si sofferma sulla storia del taccuino che lo aveva accompagnato nei mesi al fronte, spesso dato in lettura e allegato alle lettere al fratello e alla futura moglie, Elody Oblath, ma al ritorno «sepolto in fondo a un cassetto» in quanto testimone di «memorie troppo crude»: e qui lasciato giacere, ignorato, per più di dieci anni, «al modo di chi dimentica le cose che vuol dimenticare».5 Scrive Giani:

Lo portavo sempre con me e lo tiravo fuori dalla tasca della giubba con le guance ancora infocate da quella febbre che conoscono i combattenti di trincea, nell’odore delle frasche di pino e della terra smossa frammisto col fumo acre delle granate, in quei terri-bili silenzi quando s’ode il timido cinguettio d’un uccellino che riprova la propria voce dopo lo spavento o quando si sente battere il proprio cuore come fosse la prima volta. Allora annotavo in fretta le sensazioni provate, il nome dei compagni feriti o morti, le parole scambiate con Carlo. Lo tiravo fuori nelle pause, sul marciapiede di certe vie di Monfalcone o nel caffè Carducci o sotto l’arco del ponte della ferrovia, per annotare con più calma due o tre giornate di combattimento, di sangue, di stanchezza invincibile.6

Considerato perduto,7 il «taccuino di guerra» dal quale prende origine il racconto disteso e a tratti lirico di Guerra del ’15, pubblicato a puntate nella «Nuova Antologia» a partire dal 16 luglio 1930 con il sottotitolo Dal taccuino di un volontario, e poi in volume l’anno successivo,8 riaffiora oggi, insieme ad altri inediti di Stuparich, nell’Ar-chivio personale di Anita Pittoni, depositato alla biblioteca Hortis nel 2011 dalla famiglia Manfredi, erede della scrittrice triestina.9 Nel fon-

(4) G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 176. (5) Ibid., p. 177.(6) Ibid. (7) Cfr. G. Capecchi, «Morire non è più che fare un passo»: per una lettura di Guerra

del ‘15 di Giani Stuparich, in Giani Stuparich tra ritorno e ricordo. Atti del Convegno In-ternazionale (Trieste 20-21 ottobre 2011), a cura di G. Baroni e C. Benussi, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, 2012, p, 264. Del taccuino ritrovato dà notizia anche G. Sandrini nella postfazione alla ristampa di ‘Guerra del ’15’ per l’editore Quodlibet (2015), alla quale si rinvia per l’inquadramento più completo del testo di Stuparich.

(8) Sulla vicenda editoriale di Guerra del ’15 e la sua storia interna cfr. F. Bottero, Sul laboratorio di Giani Stuparich: Guerra del ’15 (Dal taccuino di un volontario), e G. Capecchi, «Morire non è più che fare un passo»: per una lettura di ‘Guerra del ’15’ di Giani Stuparich, entrambi contenuti nel già citato Giani Stuparich tra ritorno e ricordo, rispettivamente pp. 209-212 e 259-264.

(9) Cfr. a questo riguardo l’Inventario dell’Archivio di Giani Stuparich a cura di Gabriella Norio, secondo cui i documenti pervenuti «costituiscono solo una parte di

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do cospicuo di carte autografe che secondo un primo ordinamento sommario della Pittoni (non sempre rispondente al contenuto dei ma-noscritti) custodisce scritti autobiografici dal 1913 al 1945, poesie, novelle, abbozzi, lettere (compreso un carteggio con Elody Oblath), fotografie e altri materiali significativi tra cui una traduzione da Ki-pling, si trova dunque il nucleo genetico di Guerra del ’15, al quale dovrà fare riferimento ogni futura edizione del testo, agevolata anche dal ritrovamento, nel medesimo fondo, di un manoscritto che la gra-fia di Giani indica come la «prima stesura del taccuino con lettere a Elodì da Schio», per un totale complessivo di 39 carte.10 Nel catalogo degli inediti figura inoltre una sezione costituita da vari scritti auto-biografici dal 1915 al 1945, tra cui quattro quaderni catalogati come «Diari 1915-1916» ma composti in realtà da annotazioni autografe che interessano un arco cronologico più ampio, fino al marzo 1918, e dunque solo in minima parte sovrapponibili agli eventi documenta-ti nel taccuino, dei quali costituiscono piuttosto la continuazione. Si tratta in particolare di un quadernetto in piccolo formato (cm. 16x10) a righe, con copertina fiorata dal margine verde che reca sulla prima pagina l’indicazione «per il Romanzo», con annotazioni sparse dal ’15 al ’18, che per brevità chiameremo A; di un quaderno più grande (cm. 20,5x16,5), privo di copertina e mancante delle prime pagine, con note discontinue e frammentarie dal ’15 al ’18 (B); di un quaderno di dimensioni simili (cm. 20x16) ma con copertina a fiori verdi con mar-gine verde e fogli bianchi, contenente annotazioni dal 1 dicembre del ’15 al 29 maggio del ’16, e poi frammenti tratti dalle lettere di Elody (C); e infine di un quaderno viola con l’etichetta bianca profilata in

quell’archivio, che doveva essere ben più ampio, considerato il fatto che la Pittoni dichia-rava di conservarlo in otto casse, mentre il materiale giunto in biblioteca era custodito in una sola scatola». Sulla figura e il ruolo della Pittoni rimando alle informazioni contenute in A. Pittoni, Diario 1944-1945, Trieste-Padova, Simone Volpato Studio Bibliografico Editore, 2012 e nel saggio di S. Volpato, Una biblioteca e un diario. Spigolature su Anita Pittoni e Giani Stuparich, in Giani Stuparich tra ritorno e ricordo, cit., pp. 119-124.

(10) L’originale del taccuino di guerra si conserva, insieme ad altre agende dello scrit-tore, nel faldone classificato R.P. MS MISC.212.239/2.2 del Fondo Giani Stuparich presso l’Archivio Diplomatico-Fondi Archivistici della Biblioteca Civica Attilio Hortis di Trieste (AD), mentre la così denominata «prima stesura» del manoscritto che porterà a Guerra del ’15 si trova all’interno della MISC. 212/239/2.3. Questo materiale prezioso va dunque ad aggiungersi alla redazione finale manoscritta di Guerra del ’15 già nota agli studiosi, conservata nel Fondo Stuparich dell’Archivio degli Scrittori e della Cultura Regionale del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste, insieme alle bozze dell’edizione Treves di Guerra del ’15 (con collocazione rispettivamente STU 4, D 11 e STU 6 F 10).

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rosso (cm. 24,5x19), la cui composizione appare più eterogenea: una serie di note dal 9 febbraio al 23 marzo, probabilmente di Elody, un cosiddetto «diario di guerra di Elodì» in formato più ridotto, allegato al diario, e infine un gruppo di fogli staccati di carta diversa, con anno-tazioni continue di mano di Giani dal 14 agosto al 19 gennaio, inseriti forse successivamente nel quaderno insieme a tre altre carte sempre di Giani, riconducibili però a un periodo cronologico più tardo, come sembra indicare la data 1932 appuntata su uno di essi (D).

Le pagine dei quaderni non sono numerate, e la cronologia di-scontinua, a tratti retrograda, così come l’indicazione degli anni aggiunta talvolta in margine, fa pensare che, ad eccezione dei fogli staccati di cui si è detto sopra, che sembrano appartenere a un altro diario di guerra, diverso dal taccuino, al quale fa cenno più volte Elody nella corrispondenza,11 non si tratti di avvenimenti registrati in presa diretta, quanto piuttosto di frammenti trascritti da Stuparich in un momento successivo, sulla base di altri documenti originali, forse pro-prio il diario ritrovato mutilo e con tutta probabilità lettere di Giani a Elody, lettere della stessa Elody e di familiari: la madre e la sorella Bianca, probabilmente Carlo. I passi delle lettere di Elody, copiate in modo più o meno diffuso nei quaderni, costituiscono una sorta di re-stituzione al femminile degli eventi narrati da Giani, che se da un lato conferma la consuetudine dello scambio di materiali autobiografici da parte dei protagonisti, separati dalle circostanze storiche, dall’altro lascia già intravedere la prospettiva «bipolare», intensamente dialogica, che darà forma a Ritorneranno, il romanzo uscito a puntate nel ’41 sulla «Nuova Antologia» e poi in volume nello stesso anno, dove, come è stato più volte notato, «il mondo della guerra viene contrapposto al mondo della città ‘irredenta’, in attesa».12 Uno dei quaderni (C) con-tiene infine un segmento cronologico più ampio (dal 27 gennaio del ’16 al 29 maggio del ’16), che registra gli eventi in maniera continua dopo il ritorno al fronte dei fratelli Stuparich. Anch’esso pare però

(11) Scrive Elody il 15 settembre del ’15: «Giani, ma saprai riordinare il tuo diario, ch’io ti ho tutto scompigliato?». È evidente che l’osservazione non può riferirsi al taccu-ino, composto di fogli incollati. Così come non può riferirsi al taccuino il commento sul diario che compare nella lettera del 3 novembre del ’15, dunque fuori del perimetro cronologico di Guerra del ’15 (cfr. E. Oblath Stuparich, Lettere a Giani, a cura di G. Criscione, Roma, Officina Edizioni, 1994, p. 77). Non è invece chiaro se Elody faccia riferimento a questo diario oppure al taccuino nelle lettere del 21 agosto e del 10 settem-bre del ’15 (Ibid., pp. 54, pp. 41 e 51).

(12) R. Lunzer, La cognizione del dolore. Giani Stuparich e la sua trilogia della guerra, in Giani Stuparich tra ritorno e ricordo, cit., p. 21.

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frutto di trascrizione, perché si colloca dopo una serie di altre note in ordine cronologico sparso, mentre le prime annotazioni di gennaio presenti nel testo – quelle relative alla morte di Scipio Slataper – sono tratte da lettere a Elody. La stessa laconica precisazione «ultima scrit-ta» (che può ben riferirsi a una lettera), inserita a fianco dell›appunto del 29 maggio, due giorni prima che Giani venga fatto prigioniero, sembra una conferma del fatto che lo scrittore sia ritornato su questi avvenimenti in un momento successivo, forse proprio durante la fase di ricopiatura delle note nei quaderni. Per il loro valore intrinseco, vale forse la pena di riprodurne qualche esempio, tratto dalle annotazioni che si riferiscono ai primi mesi del ’16, dopo che l’autore è ritornato al fronte:

27 febbr.

Sono una crosta di fango. La marcia di ieri sera per arrivare in trincea fu leggendaria. Tutto il Collio nevicato bianchissimo sotto il velo scuro di neve e pioggia, bora, di quelle che scheggiano il viso con granelli ghiacciati di pioggia, una lunga fila indiana d’alti frati incapucciati e carichi, battuta dal vento sulle serpentine esposte. Quando si scendeva in valle, ogni tanto l’uomo davanti spariva: una gran buca d’acqua e fango – e dentro anche tu. Si dorme come si mangia, in piedi, ginocchioni, ammazzati.

29 maggio (ultima scritta)

La pioggia continua ininterrotta: tre giorni ormai… siamo sempre inattivi, aspettando il momento o gli austriaci – non so. Guai abbandonarsi a riflessioni. Meglio camminare sotto la pioggia o dormire nell’umidità. Prendo spesso in mano le tue ultime fotografie. Ho riletto le lettere di mamma. Penso con grande malinconia a Trieste.

Se si mettono insieme le annotazioni comprese fra il 14 agosto del 1915 e il 19 gennaio del 1916 che abbiamo supposto fare parte del diario originale di Giani con quelle trascritte nel quaderno C, relative al periodo compreso fra il 27 gennaio e il 29 maggio 1916, si ottiene un assemblaggio fittizio che restituisce però nel dettaglio la cronistoria degli eventi lasciati fuori da Guerra del ’15. Com’è noto, il libro si apre infatti il 2 giugno con la partenza dalla stazione di Portonaccio degli Stuparich e di Slataper, diretti al fronte, e si chiude con un’ultima annotazione da Villa Vicentina, l’8 agosto, prima che i due fratelli, nominati ufficiali, si dividano per le rispettive destinazioni (Carlo a Verona, Giani a Vicenza). La scansione cronologica del volumetto non combacia del tutto con quella del taccuino, che ha inizio il 2 giugno (ma mancano le pagine iniziali) e si ferma al 5 agosto, prima di una serie di fogli bianchi. Dunque è possibile immaginare, almeno per il taccuino, un incipit diverso, e non a caso il mosaico dei quaderni

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conserva un appunto che registra fedelmente le sensazioni dell’autore e dei suoi compagni all’annuncio della guerra, il 23 maggio del 1915:

Italia dichiara guerra all’Austria – occhi e cuore che ci sfavillano in piazza, in mezzo al vocìo tutto gola e stomaco dei toscani – di codesti stenterelli grammatucoli [quaderno A].

Cronologicamente contiguo agli eventi narrati in Guerra del ’15, il frammento del quaderno avrebbe forse potuto trovare posto all’in-terno della rielaborazione letteraria, se non per il tono ingenuamente spavaldo del brano, assai diverso dalla meditazione pensosa che nella redazione definitiva permea il racconto, epico e colloquiale insieme, della partenza dei tre amici per il fronte. Il fatto è che quando Giani si accinge, alla fine degli anni Venti, alla riscrittura che porterà al «laico illuminismo»13 di Guerra del ’15, l’entusiasmo irridente e spontaneo di una nota che riporta ai giorni «radiosi» di maggio, nella quale risuona l’orgogliosa consapevolezza del ruolo assunto dai giovani triestini nel nuovo orizzonte politico e letterario aperto dalla guerra, doveva appa-rirgli oramai lontanissimo, e di certo incongruo, a paragone della nar-razione sofferta che la penna del reduce sta accingendosi faticosamente a rielaborare alla soglia degli anni Trenta. Osserva non a caso Stuparich in una pagina di Guerra del ’15 che ricostruisce l’atmosfera di quindici anni prima con malinconico distacco, accentuato dalla cesura crono-logica ed esistenziale:

Ricordo il giorno che andammo ad arruolarci volontari a Roma, Scipio, Carlo ed io [...]. C’era in noi, in quei giorni, qualche cosa di fanciullesco, d’estremamente serio e ingenuo nello stesso tempo: dovevamo esser commoventi e ridicoli insieme. Quanto sono lontani quei giorni, come ci siamo cambiati di colore, di spirito, d’età.14

Solamente più tardi, in Ritorneranno, il narratore proverà a spie-gare, pure dietro il velo trasparente della finzione romanzesca, l’origine dell’ingenua e generosa utopia che ruotava intorno al mito di Trieste e alla sua proiezione letteraria, nella forma quasi di un patto genera-zionale:

Amavano d’un uguale e appassionato amore la loro città: la grandezza e la funzione storica di Trieste erano stati l’argomento dei loro discorsi, lo scopo dell’attività a cui si

(13) C. De Michelis, «Amor fraterno», nota a G. Stuparich, Colloqui con mio fratel-lo, a cura di C. De Michelis, Venezia, Marsilio, 1985, p. 162

(14) G. Stuparich, Guerra del ’15, Torino, Einaudi, 1980², p. 82.

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preparavano. Nell’Europa vecchia e stanca essa doveva esprimere da sé una verità nuova, una fresca ricchezza di vita. Quante discussioni accalorate lungo le rive, nei piccoli caffè, per le strade del Carso! [...]. Avrebbero mostrato con gli argomenti e coi fatti che Trieste rappresentava l’avanguardia dello spirito italiano rinnovellato e capace di trasformare e unificare la cultura e la vita d’Europa. Intorno a sé avrebbero raccolto un gruppo d’amici, di cui ognuno doveva studiare la lingua e la storia di due popoli diversi. Vasti progetti, aspirazioni smisurate erano state le loro. La guerra abbatteva e travolgeva insieme ad opere secolari di civiltà anche quei sogni.15

Non è difficile riconoscere come, a dispetto delle coordinate cro-nologiche del racconto, l’ottica secondo la quale è costruito Guerra del ’15 non sia quella del giovane volontario che ha conosciuto insieme al fratello l’esperienza della trincea, bensì quella assorta e distaccata di chi rivive gli avvenimenti a distanza, consapevole di una frattura incolmabile tra i due tempi della sua biografia.16 Ma tutto ciò risulta ancora più evidente se al risultato dell’operazione compiuta nel libro si accostano le annotazioni sparse dei quaderni, le quali conservano ancora l’accento originario dell’epoca, nella celebrazione di una primi-tiva energia vitale che le rende simili a certe pagine de Il mio Carso17 e alle lettere raccolte in Cose e ombre di uno, il libro postumo di Carlo messo insieme da Giani nel 1919, il cui titolo trova il suo senso com-piuto nel toccante profilo biografico rinvenuto in un altro manoscritto del fondo.18 Era stato del resto proprio Carlo a confessare al fratello la sua franca ammirazione per la «sanità rudimentale»19 di Kipling, uno

(15) G. Stuparich, Ritorneranno, Milano, Garzanti, 2009³, p. 117. Circa il nesso tra politica e letteratura, che si riflette sull’interventismo di Stuparich, rimando alla lucida sintesi di M. Sechi, Sulle radici etico-politiche dello Stuparich scrittore. Il ‘Machiavelli in Germania’ e ‘La nazione ceca’, in Giani Stuparich tra ritorno e ricordo, cit., pp. 75-82.

(16) Alla frattura operata dalla guerra nella sua biografia, Giani alluderà anche nel ca-pitolo finale dei Ricordi istriani. Cfr. G. Stuparich, Un anno di scuola e Ricordi istriani, Torino, Einaudi, 1966, pp. 94-95.

(17) Cfr. S. Slataper, Il mio Carso, a cura di C. Milanini, Milano, Editori Riuniti, 1982, pp. 47, 49 e 53. Ma al riguardo si veda anche l’Epistolario a cura di G. Stuparich, Milano, Mondadori, 1950, pp. 25-28.

(18) Scrive Giani il 29 maggio del 1913, in una sorta di premonizione, riguardo al fratello: «Un uomo che significherà qualche cosa nel mondo. La sua vita, se la fermiamo ora, è stata un processo strano. Io ne parlo perché lo conosco, come si conoscono le om-bre che suscitiamo noi e le facciamo vivere autonome dinanzi ai nostri occhi sognanti. E non voglio che passi dimenticata quali cadono quest’ombre nel vuoto che le produce. La sua vita! Forse ha dell’ombra, in quanto non sembra che sia fatta di carne e di sangue come tutte le vite dei soliti mortali […]». Diario 1.1.1913-1.2.1915, in R.P. MS. MISC. 239/2.4 del Fondo Stuparich (AD).

(19) C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. 123.

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scrittore «senza ombre», che come aveva osservato già Cecchi20 offriva a suo parere un sicuro antidoto alle «fluttuazioni vaporose» della lette-ratura.21 Vale la pena di riprodurre il passo in questione, tratto da una lettera a Giani spedita da Firenze nel gennaio del 1914 e poi raccolta in Cose e ombre di uno, perché vi circola la medesima aspirazione alla «buona vita» che si affaccia anche dagli appunti dei quaderni (e non a caso Kipling, come Maupassant e Zola, è tra le letture di Giani duran-te i mesi della guerra):22

Guardò gli alberi e l’estensione dei campi con le capanne dai tetti di stoppia nasco-ste tra le messi, guardò con occhi assenti, incapaci a definir la grandezza la proporzione l’uso delle cose, e restò con gli occhi spalancati, per una mezz’ora, in silenzio. In tutto quel tempo sentì, benché non avesse saputo esprimerlo a parole, che la sua anima non si ingranava in ciò che lo circondava, ruota senza relazione con nessun meccanismo, proprio come la ruota oziosa di una macchina da dozzina, buttata in un canto. Io sono Kim. Io sono Kim. E che cosa è Kim? – ripeteva ancora la sua anima. [...]. Il suolo era tutto cosparso di buona polvere pulita, non di erba nuova, che essendo vita, è già a metà cam-mino della morte, ma di polvere piena di speranza, che racchiude i germi di tutta la vita. La sentì fra le dita dei suoi piedi, la carezzò con la palma delle mani, e, articolazione ad articolazione, sospirando di voluttà, si stese tutto lungo, all’ombra del carro…E la madre terra lo penetrò del suo alito, per rendergli il suo equilibrio ecc.23

Non è probabilmente un caso che lo stesso passo di Kipling fosse stato citato in precedenza da Renato Serra nel 1912, in un frammento del capitolo incompiuto della Partenza di un gruppo di soldati per la Libia.24 Ma diversamente da Serra, che come ha mostrato Raimondi vi leggeva «il tema dell’”uomo solo”, esasperato al limite della pro-pria intelligibilità nel buio (o nell’abisso) di un’anima fuori “ingra-naggio”»,25 Carlo intravede in Kim una possibilità di riscatto nei con-fronti di quella che egli definisce con malcelato fastidio «la Sehnsucht romantica».26 E dentro quella che con Cecchi verrebbe voglia di defi-

(20) Cfr. E. Cecchi, Rudyard Kipling, Firenze, Pubblicazioni della Casa Editrice Ita-liana, 1910 (Quaderni de «La Voce» raccolti da Giuseppe Prezzolini), p. 19.

(21) C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. 124.(22) Sulle letture cfr. l’annotazione dell’8 settembre 1915 nei fogli di diario conservati. (23) C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. 123. La stessa idea è ribadita in una

lettera alla madre del periodo: «Ho un mio ideale di solidità di equilibrio, voglio essere sano tutto, purificarmi di tutte quelle aspirazioni fluttuazioni gazose di carbon fossile istupidenti» (p. 159).

(24) Cfr. E. Raimondi, Il lettore di provincia. Renato Serra, Firenze, Le Monnier, 1964, pp. 82-83, nota 1.

(25) Ibid., p. 82 n.1. (26) C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. 124.

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nire ancora la «rude coscienza di irrefrenabile attivismo retto da una legge elementare»27 si collocano anche alcuni dei frammenti inediti di Giani, in verità piuttosto distanti dalla «pacatezza apollinea» che Gadda, nella recensione pubblicata in «Solaria» nel marzo del 1932, identificava come la sfumatura stilistica prevalente di Guerra del ‘15, tutto pervaso da «virile fermezza» e «creaturale umiltà» e perciò così diverso dal tono «atrabiliare» e «dionisiaco» delle sue proprie memo-rie.28 Nelle rapide annotazioni dei quaderni l’esperienza della trincea viene evocata spesso come rimedio salutare all’«ascetismo» e al freddo ripiegamento intellettuale che l’io avverte come una minaccia concreta e pressante. Il 21 luglio del ’15, per esempio, Giani scrive: «La guerra è vita nella morte». E il 20 agosto, da Vicenza, dove si trova dopo la nomina a ufficiale: «Tu sapessi quanta sana animalità s’è risvegliata in me dopo la trincea! Ma pericolosa, perché il diavolo dentro di me è sempre tanto vivo». Infine il 25 agosto: «Vado esaurendo le mie riserve d’esuberanza vitale sento avvicinarsi la crisi e temo una ricaduta molto grave nell’ascetismo. Un sogno – Trieste e mamma».29 Ancora, l’8 set-tembre del ’15, da Schio:

Vado volontario. Mi libero almeno del vuoto. Sono un po’ stanco, non so perché – di niente: meglio è la vita del fronte, forse! Nella sorgente delle mie risorse di vita c’è come un ingorgo [quaderno A].

Quando lo scrittore ritorna al fronte, le riflessioni mutano ancora di tono, ma la sostanza sembra rimanere la stessa, mentre lo sguardo si estende inevitabilmente alla visione del dopoguerra, fino a compren-dere quella che è definita, in termini quasi gaddiani, «la matassa aggro-vigliata del nostro tempo» dopo la «tempesta vissuta». Il 26 febbraio del ‘16, Giani annota:

(27) E. Cecchi, Rudyard Kipling, cit., p. 49. (28) C.E. Gadda, Giani Stuparich, Guerra del ’15, in Id., Saggi giornali favole e altri scrit-

ti, I, a cura di L. Orlando, C. Martignoni, D. Isella, Milano, Garzanti, 1991, pp. 746-747. A questo riguardo cfr. G. Bonifacino, La «verità del soldato». Gadda recensore di ‘Guerra del ’15’, in Giani Stuparich tra ritorno e ricordo, cit., pp. 313-318. Per un confronto tra Gadda e Stuparich cfr. A. Daniele, Carlo Emilio Gadda e Giani Stuparich: due scrittori nella Grande Guerra, in Atti e Memorie dell’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti, Vol. CXVI (2003-2004), Padova, Tipografia “La Garangola”, 2004, pp. 67-101.

(29) Il passo pare copiato da quello che resta del diario originale. In uno dei fogli staccati infatti si legge lo stesso brano, con una variante che si riferisce all’occasione precisa della nota, poi lasciata cadere: «Vado esaurendo le mie riserve d’esuberanza vitale, sento avvici-narsi la crisi, temo una ricaduta nell’ascetismo. Un sogno – Trieste e mamma, in contrasto con la serata».

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Il contrasto in trincea tra la vita che si vive e la concezione che si ha della vita: quella affannata, torbida stanca ecc. – questa serena, semplice. Com’è facile una volta intesa la semplice essenza della vita, vivere! Anche qui fra i miei soldati le nubi passano presto e l’adattamento alle più piccole cose dell’ambiente più duro e scabroso è pronto, semplice, naturale [quaderno C].

E pochi mesi dopo, il 25 aprile:

Si diceva con Carlo come dopo queste esperienze si sappia apprezzare la semplice materia della vita [...]. Non si ritornerà all’idillio dopo questa guerra, ma alla robustezza della vita naturale [quaderno C].

Sembra una sorta di testamento, valido tanto per i caduti che per i reduci della guerra, e infatti lo si trova ripetuto nel ‘33, con una tena-cia resa più forte dalla disillusione, nella nota introduttiva alla seconda edizione di Cose e ombre di uno, anche se ora la formula letteraria prende i contorni di una precisa scelta etica che unisce Carlo e Giani, aprendo la via alla meditazione storica e morale di Ritorneranno:

Quando scoppiò la guerra egli capì che la storia veniva ancora una volta a scuotere gli uomini dall’idillio tragicomico d’una loro civiltà strafatta per risbalzarsi nel dramma della vita [...]. Egli sentì che solo nel fuoco della guerra poteva temprarsi la sua gene-razione e che solo dalla guerra poteva nascere la nuova serietà della vita e della cultura italiana.30

Della riflessione spontanea dei quaderni, già parzialmente atte-nuata nella riscrittura “postuma” di Guerra del ’15 e di Cose e ombre di uno, non rimarrà nel romanzo che la necessità universale della catarsi, ribadita per bocca di Sandro, l’alter ego di Giani, qui più che mai il portavoce dello scrittore che fa i conti con il proprio passato:

Ho cambiato molte idee sulla guerra, dopo che l’ho provata; ma una m’è rimasta uguale e immutabile: l’idea della catarsi ch’è in essa. La guerra è una tragedia. Abbiamo il sacrosanto dovere di viverla nell’anima, come la viviamo nel corpo.31

L’accostamento dei quaderni al disegno narrativo di Ritorneranno non è casuale. La limitata coincidenza degli appunti sparsi con la ma-teria narrata in Guerra del ’15, non sovrapponibile neppure dal punto

(30) G. Stuparich, Prefazione [Alla seconda edizione, 1933], in C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. XVIII.

(31) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. 110.

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di vista cronologico, pone infatti dei dubbi riguardo al recupero e alla trascrizione dei materiali, che sembra avere come obiettivo un’ope-ra diversa da Guerra del ‘15, ma il cui progetto si situa in parallelo, o comunque nel decennio che intercorre fra il ritorno a Trieste e la pubblicazione di Guerra del ’15, come parrebbe indicare un laconico appunto a proposito del libro di Jacques Rivière («L›Allemand. Ricor-di di prigionia, Nouvelle Revue Française, marzo 1928») collocato in apertura di uno dei quaderni. Un indizio prezioso a sostegno di questa ipotesi si trova nell’intitolazione «Per il Romanzo» che compare nel medesimo quaderno, seguita, qualche pagina dopo, da una nota si-gnificativa: «La guerra di riflesso nel racconto di quelli che hanno par-tecipato (tante sfumature potrebbero uscirne)», che sembra alludere all’intreccio a più voci di Ritorneranno: un libro di cui Giani stesso ha evocato l’origine lontana nella ricostruzione allusiva di Trieste nei miei ricordi. Se la genesi del libro che vedrà la luce nel ’41, in un contesto politico e culturale profondamente mutato e nella sostanza ostile, ri-sulta volutamente sfumata («L’opera mi occupava già da qualche anno l’animo e la mente»),32 è pur vero che l’autore indica come punto di avvio del romanzo una sera d’autunno del 1935, allorché la vicenda, narrata a un’amica (Maria Chiappelli) nell’intimità della «cucinetta silenziosa», aveva acquistato «per la prima volta» la «giusta distanza dalla materia».33 A dare ascolto a Stuparich, il libro dovrebbe insomma la sua esistenza concreta all’unione del ricordo autobiografico con un non meglio precisato «motivo morale» che è di fatto la prova esibita di quella distanza, e tuttavia la sua ossatura interna, così come è riassunta poco più oltre dallo scrittore stesso, appare formata da una serie di tessere sparse che sembrano provenire direttamente dagli abissi della memoria, per aggregazione spontanea di immagini a tratti oniriche trasformate in simboli, la cui impressione risulta alla fine straordina-riamente simile a quella suscitata dalla lettura dei quaderni. Scrive in-fatti Giani:

La materia del mio romanzo era ancora Trieste e questa volta una Trieste intessuta con la più decisiva esperienza della mia vita, la guerra. Era la mia famiglia, la nostra, di Carlo e di me. Erano i quadri antichi (nel volume Cose e ombre di uno) che avevamo pro-gettato insieme con Carlo, che Carlo aveva iniziato e che io continuavo. [...] Era tutto il testamento di Carlo ch’io non potevo ricordare senza sentirmi scosso nelle radici dell’es-sere e che non mi dava pace. Erano i momenti di Monfalcone quando tra la febbre d’un bombardamento e l’altro, sdraiati vicini sotto le frasche scottanti, rievocavamo insieme la

(32) G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 203.(33) Ivi, p. 204.

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nostra vita: i momenti a Bigliana sotto il ciliegio; l’angosciosa notte d’Oslavia che sapevo Carlo coinvolto a poca distanza da me, in un feroce combattimento. Era Monte Cengio, la solitaria Val Silà, sotto il canto malinconico dei cuculi, e Carlo nella sua mantellina di granatiere che si sfaceva lentamente nella zolla bagnata del suo sangue.34

Serbatoio prezioso di voci lontane, il mosaico dei quaderni può di fatto ben rappresentare una sorta di avantesto di Ritorneranno: una serie di frammenti memoriali da cui prende inizio – assai prima della sua effettiva stesura e probabilmente negli stessi anni degli altri scritti sulla guerra –, il respiro corale di Ritorneranno, che come era già avve-nuto per Guerra del ’15 amplierà quelle note scarne, a tratti icastiche, ritessendo manzonianamente il retroterra emotivo degli eventi a cui si riferiscono. Un esempio illuminante è quello della morte di Slataper, appresa dalla famiglia a Trieste attraverso la lettura del giornale socia-lista al quale l’autore de Il mio Carso aveva collaborato. In un appunto del 23 dicembre del 1915, segnato su un foglietto volante dentro un quaderno, al quale però verosimilmente non appartiene, Giani aveva annotato al riguardo:

Nerina: notizia di Scipio: suo padre per la strada, lei allegra alla finestra; suo padre letto sul Lavoratore [quaderno A].

La medesima circostanza ritorna nella parte terza del romanzo a proposito della morte di Cesare Alessandri, alter ego di Slataper, dove però la restituzione letteraria dell’evento viene affidata alla voce di Al-bina, il cui nome richiama per antitesi quello di Nerina, la sorella di Slataper, presente di scorcio nel frammento del quaderno, e allo sguar-do intimamente partecipe di Angela, controfigura di Bianca Stuparich (che nelle lettere a Giani si firma spesso Biancangela):

«Papà...leggeva il giornale...tornava a casa per colazione e, come al solito, per la strada leggeva il giornale…lo aveva piegato bene, perché la bora non glielo sfogliasse». La voce di Albina si spezzò. Angela vide camminare per quella stessa strada il vecchio padre d’Albina, col suo passo lentissimo, misurato; la figura eretta, impeccabile nel pastrano nero; il cappello duro ben calcato in capo. La faccia ancora fresca, coi candidi baffi legge-ri, mossi dal vento, e la sua espressione di bontà. «Papà si fermò a quel cancello…quello lì, che abbiamo oltrepassato ora. Sì fermò al riparo dal vento per voltar la pagina del giornale…”Cesare Alessandri caduto sul fronte italiano”. Cesare? Alessandri? Un Cesare Alessandri nell’esercito austriaco, che muore combattendo contro l’Italia? Poi seguitò

(34) Ibid.

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a leggere: “Cesare Alessandri, triestino, volontario nell’esercito italiano, è caduto nella battaglia dell’Isonzo».35

Procedendo in ordine sparso (che è poi quello dei quaderni) ci si imbatte in altre annotazioni significative, di cui mi limito a citare solo due casi particolari che mostrano come Stuparich attinga al corpus della corrispondenza familiare, trascritta per frammenti nei quaderni e poi rifusa nella costruzione narrativa del romanzo:

Mamma Scrive il 23/4/915: “papà nervosissimo sul ritornare in Dalmazia... non resterà quindi che stringerci noi tre donne e mettersi nelle mani di Dio […] forse Dio mi concederà ancora la grande gioia di stringere sul mio cuore i figli miei. Io sento di vivere soltanto per quella speranza, e guai se quella parte mi venisse a mancare” [quaderno A].

Bianca: 11 nov (1915?) Bianca nella sua cameretta rischiarata dal petrolio, mamma in cucina con Mario “Qualche giornata che si passa triste – è questa vita sospesa vedi che abbatte l’animo. Il desiderio di vederti è qualche giorno così grande che m’addolora tutta” [quaderno A].

Altrove il circuito dei prestiti si amplia a comprendere le altre ope-re della trilogia, e l’intertestualità ridondante dell’autobiografia che si fa narrazione, tornando in maniera ossessiva sui medesimi particolari, mette insieme le tessere dei quaderni, le lettere di Carlo raccolte in Cose e ombre di uno, e i Colloqui: come la viola di «colore fresco cupo», acclusa alla lettera della sorella Bianca appuntata in uno dei quaderni, alla quale fanno allusione sia Carlo che Giani,36 che riaffiora, dentro il romanzo, nella lettera di Angela a Marco («Una violetta secca d’un color cupo, gli fece l’effetto d’una lagrima calda lasciata cadere in mez-zo a quel foglio»),37 divenendo quasi l’emblema dell›operazione della scrittura, se non proprio della condizione esistenziale dello scrittore, perché il motivo della «fibra recisa»,38 in origine dei Colloqui, è di fatto la cifra ricorrente del libro:

Ogni parola somigliava a quel fiore secco, staccato dalla sua radice viva. Eppure, quale potere di evocazione aveva! Cose e sentimenti d’un mondo, tante volte richiamato con angoscia alla memoria, prendevano sostanza da quella violetta, da ognuna di quelle

(35) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., pp. 227-228.(36) Cfr. C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., pp. 243 e 261, e G. Stuparich, il

frammento in data 11 marzo 1916 [quaderno C]. (37) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. 113.(38) G. Stuparich, Colloqui, cit., p. 15.

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umili parole: mai erano stati così veri, così giusti di vibrazione e di tono, come in quel momento.39

Sempre all’interno del diagramma sentimentale che trasforma l’autobiografia in romanzo si colloca poi la «cameretta rosso-oro» che riunisce i due fratelli Stuparich a Bigliana, della quale racconta Carlo nella lettera del 18 marzo del ’16 ripresa in Cose e ombre di uno, dove si fa cenno anche alla visita di Giani alla tomba di Slataper:40 un luogo separato dal mondo reale, quasi edenico, in tutto simile alla stanza con le pareti dipinte «d’un color rosa pallido a ghirlandette»41 ravvivata dai raggi del sole dove Marco ritrova Sandro nell’ultimo episodio felice del libro, ignaro del fatto che la morte prossima di Cesare farà «crollare gran parte dell’edificio ideale che avevano costruito insieme per l’av-venire».42 Ma prima di parlare di Ritorneranno, e provare a delineare almeno in parte il senso del vincolo profondo che lo unisce a Guerra del ’15 e ai testi autobiografici dei due Stuparich, bisogna chiarire con l’aiuto dei quaderni un punto altrettanto cruciale riguardo al taglio cronologico imposto al primo libro sulla guerra, che rispecchiando la scansione del taccuino originario si conclude dopo la nomina a ufficia-le dello scrittore e del fratello Carlo, in evidente contrasto con quanto dichiara la prefazione a Cose e ombre di uno, dove Giani rivendicava l’importanza decisiva del periodo che segue il ritorno al fronte. Nel passo che si è già avuto l’occasione di citare parzialmente, egli infatti scrive a proposito di Carlo (ma lo stesso potrebbe dire di sé):

Non tanto la prima volta, quando si arruolò volontario più per l’ebbrezza di com-piere un dovere e di vincere, quando la vittoria voleva dire anche ritornare a Trieste e riabbracciare la mamma; ma la seconda volta, quando la decisione di ritornare al fronte da ufficiale fu maturata dalla sua coscienza, senza illusioni e senza entusiasmo, egli sentì che solo nel fuoco della guerra poteva temprarsi la sua generazione e che solo dalla guerra poteva nascere la nuova serietà della vita e della cultura italiana.43

Se di una tale confessione non pare lecito dubitare, viene da chie-dersi dunque perché il racconto memoriale di Guerra del ’15 lasci vo-lutamente fuori – al momento della rielaborazione – il periodo del

(39) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. 113. (40) C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. 265.(41) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. 103.(42) Ivi, p. 117.(43) G. Stuparich, Prefazione [Alla seconda edizione, 1933] di Cose e ombre di uno,

cit., p. XVIII.

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ritorno al fronte documentato invece in maniera diffusa nelle annota-zioni dei quaderni, quasi che l’esperienza della guerra dovesse coinci-dere per forza con i primi mesi narrati nel taccuino, e fosse impossibile contemplarne una continuazione, se non nella forma privata delle let-tere e di un diario di cui l’autore per altro sembra negare l’esistenza. In uno dei manoscritti ritrovati nel fondo Pittoni, lo stesso Giani illustra infatti con inconsueta precisione il motivo per cui il taccuino di guerra da cui deriva Guerra del ’15 non ha sèguito dopo il ritorno volontario al fronte dei due Stuparich. All’inizio di quello che si può definire a tutti gli effetti un diario di prigionia,44 con tutta probabilità il «qua-dernaccio» nominato di sfuggita in Trieste nei miei ricordi, la cui soglia appare allo scrittore «non più varcabile»,45 si legge infatti questo brano, datato 22 giugno 1916:

Quante volte ho troncato, e ripreso il mio diario! Da quando sono partito da Schio per il fronte, non ho più scritto nulla nel mio giornale. Un altro diario di guerra mi stonava. Emozioni oltre a quelle inerenti alla vita militare, molto rare. Eccettuato forse il periodo di Sigmundsherberg in cui, riavvicinato a Carlo, ho potuto discernere e riflettere sulla mia psiche. È stato anche il periodo di abbattimento completo – di negazione. Fatto prigioniero (31 maggio) s’è fatto un taglio profondo nella mia vita. Ora voglio riprendere il mio diario e saranno, quelle che noterò, riflessioni sul passato più che sul presente, inutile e uguale [...].

L’affermazione di non aver scritto più nulla dopo il ritorno al fron-te, per altro contraddetta dalle pagine superstiti del diario e da quanto osserva Elody il 3 novembre del ’15 («Quello che racconti nel diario mi fa così pena, che quasi non posso leggere»)46 suona sorprendente anche da un punto di vista più interno. In quel periodo si collocano infatti alcuni degli eventi più drammatici della biografia di Stuparich, come la morte di Slataper, commentata diffusamente nelle lettere di Elody a Giani47 e di Carlo a Giani. Una di queste ultime, inserita poi in Cose e ombre di uno, è determinante non solo per ciò che rivela in prima battuta («In questo giorno sereno e luminoso, la mattina ho let-to Cadorna, e a mezzogiorno la morte di Scipio»),48 ma anche perché

(44) Il diario 22 maggio 1916-13 ottobre 1918 (140 cc) è contenuto all’interno della MISC 239/2.3, nella sezione del Fondo Stuparich (AD) contrassegnata come “diari di guer-ra”.

(45) Cfr. G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 120.(46) Cfr. E. Oblath Stuparich, Lettere a Giani, cit., p. 77.(47) Cfr. ad es. la lettera del 21 dicembre 1915 da Sturla: «Io chiamo nella notte – Scipio

Scipio! Egli è morto. Notte profonda» (E. Oblath Stuparich, Lettere a Giani, cit., p. 91). (48) C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. 238.

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da essa si apprende che la decisione di Carlo di ritornare al fronte è strettamente connessa ai sentimenti suscitati dalla notizia dell’attacco frontale a Cadorna e della morte improvvisa dell’amico:

La seconda impressione ha integrato e consolidato la prima. Tutte e due sono im-pressioni di semplice energia libera da titubanze morali, da rimpianti, da nostalgie do-mestiche. Operiamo in questo momento tutto quello che abbiamo idea di operare fra mesi! Siamo padroni solo del presente. Dobbiamo dire: noi facciamo, no noi faremo. [...]. Compiuta la licenza, voglio far la domanda.49

Stando alle note dei quaderni, dove la morte di Scipio ritorna più volte in una sorta di eco dolorosa e attonita, è Giani, che si trova in licenza e ha raggiunto Elody a Sturla, a comunicare al fratello che Slataper è caduto sul Podgora:

20 dic. scrivo a Carlo: Scipio è morto. Vado questa sera o domattina a Roma. La prima bella, immensamente bella giornata: il mare respira così ampio [quaderno D].

E ancora:

20 dic. (annuncio a Carlo la morte di Scipio). La terra credo stia germinando qual-cosa che noi non possiamo sopportare – e quindi moriamo, a pochi per volta, uno di qua, uno di là. E noi avremo ancora il tempo di stringerci la mano [quaderno C].

Altrove Stuparich riporta alcuni brani delle lettere a Elody, tra cui quella dell’8 gennaio alla quale fa allusione l’appunto precedente, e una successiva del 9 gennaio, che si riferiscono tutti alle sensazioni suscitate dall’evento tragico in quel momento particolare della sua vita intima, nel quale morte e vita appaiono congiungersi in una sorta di ossimoro naturale che riecheggia ancora le parole di Cecchi a proposi-to di Kipling: «la vita risoverchia la morte, indifferente, in ogni punto, come l’onda soverchia il riparo di rena costrutto dal bimbo alla forza del mare».50 Confessa Giani a Elody:

Se non dovessi più ritornare, io so d’aver lasciato a te la parte migliore della mia anima, che è la coscienza della serenità della vita…la vita non è un mistero, la morte non è un mistero, appunto perché s’equivalgono, noi non scegliamo piuttosto l’una che l’altra. È così semplice vivere, e morire è un passo così facile della vita, che io guardo stupito a tutte le complicazioni che si sono create artificialmente intorno a questi fatti

(49) Ibid.(50) E. Cecchi, Rudyard Kipling, cit., p. 49.

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tanto puramente semplici. È morto Scipio ed io ho singhiozzato sul tuo petto come un bambino, sì come un bambino ingenuo, perchè credevo d’esser morto io; poi il mare così chiaramente disteso sotto il sole e il pulsare del tuo sangue sotto la pelle mi hanno persuaso, sì come un bambino, che sì vivevo ancora, e allora ho creduto che Scipio non è morto neppure lui, e mi sono sentito intimamente contento, ed ho sorriso e mi sono meravigliato di come avessi potuto offuscare col mio torbido senso la chiarezza del cielo [egoismo d’innamorato?].

Io sono così calmo! Mi sento lontano d›ogni atmosfera torbida e mi pare che il mondo coi suoi dolori non sia altro che una terra nello sforzo di vegetare. Anche il de-stino di Trieste non mi tormenta più [...]. Abbiamo fatto quello che abbiamo potuto? Meravigliosa saldezza della vita che è tanto ampia da non sfinirsi mai nel battere contro nessun ostacolo. E la guerra? La guerra è una nuova prova che la vita non cessa mai. La morte stessa mi diventa di giorno in giorno più limpida e niente che tronchi che spezzi che laceri, ma come un trapasso indefinibile che lascia intatti. Chi muore non porta nul-la con sé, tutte le sue cose rimangono nel mondo. Come nel rimpiangere i morti siamo piccoli, stretti da un’attitudine cieca, nel sentire il vuoto dove maggiormente è stata la vita [quaderno C].

L’incipit del secondo brano si ripete in un foglio staccato di quello che abbiamo ipotizzato essere una parte del diario originale, che re-stituisce anche il contesto emotivo della riflessione poi trascritta nel quaderno:

9 genn. Io sono così calmo! Mi sento lontano d’ogni esperienza torbida e mi pare che il mondo coi suoi dolori non sia altro che una terra nello sforzo di vegetare! Con Carlo lunghe passeggiate son riuscito a rasserenarlo. Parlato di Scipio, di Papini, di Trie-ste non come problema angoscioso come dolorosa aspirazione ma come ricordo caro e speranza simile a quelle figure dell’arte che si vogliono realizzare. Della morte, come la sentivano i Greci.

Il 16 marzo, infine, Giani annota la visita alla tomba di Scipio («disperavo di trovarla») e ne riporta laconicamente l’iscrizione: «Sci-pio Sandri caduto eroicamente 5 dic. 1915» [quaderno C].

A fronte di questo materiale così emotivamente connotato, sem-bra dunque di poter affermare che le ragioni della scelta che impongo-no a Guerra del ’15 il taglio cronologico del taccuino, senza attingere agli eventi narrati nell’altro diario e nelle lettere, dipendono da un pro-cesso di rimozione, ovvero dall’esigenza più o meno inconscia di pre-servare il racconto dall’evento tragico della morte di Slataper, al quale segue, nella tarda primavera successiva, quella ancora più traumatica di Carlo. Non bisogna dimenticare che la prosa misurata di Guerra del ‘15 è il risultato di un decennio estenuante di «lotta coi morti», come scrive Giani mentre si accinge a «leggere, a ordinare, a ricopiare le carte

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di Carlo e di Scipio»,51 che darà alle stampe con la consapevolezza di chi seppellisce con loro una parte del proprio passato, e che dalla lette-ratura si attende, se non la pacificazione interiore, almeno una forma di risarcimento. A chiarire lo stato d’animo dello scrittore, finora con-segnato all’incipit lapidario dei Colloqui («Mio fratello è morto da un anno e da un anno io vivo in prigionia»), valgono le pagine del diario redatto durante i mesi della permanenza forzata in Austria. Sono que-sti, come scrive Giani, i mesi della «sofferenza passiva», tra depressione e senso di colpa, documentati nell’ultima nota del 13 ottobre 1918, scritta «fra due reticolati di faccia a un pezzo di campagna», che merita di essere citata per intero anche perché mostra dove affonda le radici la chiusa lirica del primo capitolo dei Colloqui:52

Non ricordo più i mesi, mesi d’inattività che non contano che passivamente per la mia sofferenza. Oggi ho bisogno d’un esame di coscienza generale. Sta per finire la guerra. Abbiamo vinto. Sono parole che vorticano nell’abisso della mia anima, sfiorano le sue pareti. Nel suo immenso silenzio il loro ronzìo riecheggia come il tuono e lo riem-pie di rumoroso confuso stupore. La coscienza d’esser prigioniero in questo momento è come un rigido freddo appiombo di roccia. Il ricordo sanguinante di Carlo che è morto è il velo cupo di un’ombra che non si scioglierà mai più dal sole. [...]. E io ritornerò con una diversità sul cuore che non mi permetterà più di sentirmi uguale a loro né a loro di comprendermi. Rimarrò solo come sono stato finora, serrando in me il segreto d’una vita che era destinata ad altro. È questo il pensiero che mi turba la serena visione di quel che succede. È il mio dolore che si proietta tetro sullo scoppio raggiante d’un’epoca solare dell’umanità. Tutto sta per risolversi per me. Rivedrò, forse fra non molto, patria e fa-miglia insieme. La mia città. Sentimento indicibile di sentirla tutta mia. Eppure quanto sarebbe stato diverso se fossi ritornato prima! Resterà invece con me l’anima stanca d’es-ser stata delusa, l’umiliazione d’esser rimasto estraneo allo scioglimento del mio destino come di quello del mondo.53

Di là dall’allusione esplicita all’esame di coscienza che riaffiora di lì a poco in un saggio del ’24 per «Orizzonte italico», intitolato appunto,

(51) G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 151. Ma su questo punto cfr. anche le lettere del 1919 a Prezzolini pubblicate in appendice a E. Apih, Il ritorno di Giani Stuparich. Con lettere inedite, Milano, Vallecchi, 1988, pp. 149-150 e 151-166.

(52) «Ecco l’alba fumosa. Svela nella loro cruda orridezza queste sorde baracche, il sen-tiero all’intorno, un poco d’erba rifrusta e, di là dalla rete violetta, la campagna. Sonno cruccioso qua dentro, fuori un quieto gorgheggiato risveglio. Notte affannosa è ancora nella mia carne; perdona, fratello. Ma con l’anima veglio; tu mi vedi dal pallido cielo, a cui mi protendo, e in cui dal tremor della nebbia sta per spandersi il sole» (G. Stupa-rich, Colloqui, cit., p. 21).

(53) G. Stuparich, Diario 22.6.1916-13.10.1918. Nel medesimo fondo è conser-vato anche un altro manoscritto, intitolato Riflessioni sulla prigionia (12 cc recto/verso).

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alla Serra, Esame di coscienza, il passo appare illuminante perchè sembra riflettere già l’intenzione segreta del romanzo del ’41, dove Giani si ri-appropria della storia sua e di Carlo, riscrivendone la fine. Ma su questo tornerò fra poco.

Lo stato d’animo in cui si svolge l’elaborazione del lutto è testimo-niato dall’opera «tormentosa e lenta»54 dei Colloqui, dove, come è stato notato, «le voci dei due fratelli si sovrappongono e finiscono per non distinguersi»,55 proprio come avverrà in Ritorneranno alle loro contro-figure letterarie, Marco e di Sandro. Stesi «come dopo un naufragio»56 – per provare a sciogliere almeno un poco il «povero grumo tenebroso»57 (e «grumo» è parola di Slataper, che porta con sé l’ombra di un altro lutto immedicabile, quello del suicidio di Anna Pulitzer, nel 1910)58 – gli scritti di questo periodo prendono inevitabilmente la forma di una palinodia nei confronti delle illusioni giovanili. Se la «ritenuta e genero-sa pacatezza»59 avvertita da Gadda in Guerra del ’15 deriva dall’esigenza iniziale di ricondurre il «miserando grumo»60 dell’io e la «turbata at-mosfera» della memoria e del sangue «alla calma d’un compito chiaro e inquadrato»,61 l’affresco a più voci di Ritorneranno rappresenta il punto di arrivo del percorso dentro la memoria, paragonato a «una galleria» interiore costruita «per procurarci un varco nell’universo».62 Attingere alle possibilità del romanzesco, inteso ancora in senso manzoniano, rappresenta allora una rivincita sulla coazione a ripetere che domina le opere degli anni Venti, se non altro perché l’invenzione che opera sul

(54) G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 147.(55) Cfr. G. Giacomazzi, Ritorno e ricordo dell’esperienza di guerra in Giani Stuparich,

in Giani Stuparich tra ritorno e ricordo, cit., p. 151. (56) G. Stuparich, Colloqui, cit., p. 72.(57) Ivi, p. 121. (58) Cfr. a questo proposito la lettera di Giani alla Dallolio del 5 luglio 1922: «Io non

so dimenticare il ritornello doloroso del Mio Carso: c’è sempre dentro di noi il mistero come un piccolo grumo che non si scioglie» (in E. Apih, Il ritorno di Giani Stuparich, cit., p. 167). La genesi de Il mio Carso in rapporto alla vicenda esistenziale di Slataper e della Pulitzer è ricostruita – in modo non del tutto convincente per la lettura impres-sionistica del materiale biografico – nel libro di I. Caliaro, Intrecci di vita e di scrittura, Firenze, Olschki, 2011. Più interessante risulta, in questo contesto, il confronto con l’orizzonte storico-culturale delineato da T. Harrison, 1910. The emancipation of disso-nance, Berkeley-Los Angeles-Oxford, University of California Press, 1996, tr. it. 1910. L’emancipazione della dissonanza, Roma, Editori internazionali Riuniti, 2014.

(59) C.E. Gadda, Giani Stuparich, Guerra del ’15, cit., p. 745. (60) G. Stuparich, Colloqui, cit., p. 11.(61) Ivi, p. 71.(62) G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 142.

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filo più volte spezzato e riannodato della storia permette di riscrivere i fatti, mitigandone l’ingiustizia acutamente avvertita e testimoniata dal diario di prigionia. Se infatti, come sostiene Sandro, il protagonista alter ego dello scrittore (che come lui sceglie alla fine di tessere «la tela del racconto»),63 il ricordo non si può distruggere perché «è nel nostro sangue, nelle fibre del nostro cervello», l’unica possibilità consiste a «imparare a ricordare» per «staccarci da quello che è avvenuto»: «non per subire ma per dominare i sentimenti del passato».64 Una confer-ma indiretta viene del resto da un rapidissimo schema rinvenuto nel fondo, schizzato a penna su due fogli, dove il libro del ’41, ancora allo stadio progettuale, appare simbolicamente diviso in due parti: la pri-ma (1911-1915), reca l’indicazione tra parentesi «a Trieste» e prevede quattro capitoli rispettivamente dedicati ai personaggi principali della storia: Elody, Scipio, Carlo e Giani («amico di Scipio e amico di Car-lo»), uno sul matrimonio di Scipio e Gigetta ad Amburgo e l’ultimo ancora intorno alla figura di Carlo. La seconda parte, in otto capitoli, unisce invece il periodo di Guerra del ’15 (nella tripartizione consueta: Portonaccio, Monfalcone, Schio) agli eventi successivi al ritorno al fronte «(Lenzuolo Bianco, Altopiano e Trieste»), con un un ultimo capitolo, dal titolo «Prigionia e Trieste», che giunge fino alle soglie del 1918. È la storia, questa volta intera, della guerra combattuta da Gia-ni, ma è anche il romanzo che egli non scriverà, per ragioni a questo punto facilmente intuibili.

Solo nella finzione trasparente di Ritorneranno (romanzo “autobio-grafico”, nel senso di Nievo e di Bassani), lo schermo della parola lette-raria, ricercato d’istinto nel lirismo sommesso di Guerra del ’15 (che si ferma prima di ciò che appare a quell’altezza indicibile) e portato all’e-stremo nella sintassi quasi alfieriana dei Colloqui (dove il ricorso insistito alle figure di inversione mima la lotta del linguaggio con la realtà), rende possibile la trasformazione del vissuto autobiografico in un racconto di-steso che guarda al grande modello di Guerra e pace, un libro carissimo ai due Stuparich,65 come del resto a Slataper e a Serra,66 la cui eco Carlo percepiva già nel taccuino, e che, come testimonia il diario di prigio-nia,67 il fratello maggiore legge e rilegge durante il periodo in Austria,

(63) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. 290.(64) Ivi, p. 265. (65) C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. 211e 220. (66) Rimando su questo punto alle pagine risolutive di E. Raimondi, Il lettore di

provincia, cit., in particolare pp. 80-93.(67) Annota Stuparich il 9 luglio: «Rileggo Guerra e Pace, libro che la prima volta che

lo lessi, ebbe grandissima influenza su di me. Il libro che Lulli leggeva prima di partire per la [manca, n.d.r]» (Diario 22.6.1916-13.10.1918, cit.).

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trascrivendone brani interi accanto a citazioni da Kipling. Non è eviden-temente solo l’analogia di superficie con il destino di Pierre Besuchov prigioniero che gli fa segnare d’istinto sul «quadernaccio», accanto alle iniziali G.S. (Giani Stuparich) un brano come questo:

Pierre guardò il cielo profondo, le stelle in moto e scintillanti. E tutto ciò è mio, e tutto ciò è in me, e tutto ciò sono io! pensò egli. Tutto ciò essi hanno fatto prigioniero e chiuso in una baracca costruita di tavole! Sorrise e andò presso i suoi camerati, per mettersi a dormire.68

La medesima tonalità esistenziale impregna la lunga sequenza del-la morte di Marco, al termine del capitolo VII della seconda parte del romanzo, nella quale lo scrittore fonde l’assoluto immanente e la tensione lirica dei Colloqui e di Guerra del ’15 in un’esperienza più alta della sofferenza e della morte, riuscendo perfino a evocare, nelle ultime battute, il fantasma di uno degli autori preferiti di Carlo, Leopardi:

Un’ebbrezza rimase nell’animo di Marco, dopo il furore. Più che dalla riconquista della trincea, tale ebbrezza gli veniva dalla fusione con le cose intorno. L’alba si levava in una striscia di cielo sgombro e ne infocava lievemente l’azzurro; un fresco vento di-sperdeva le nuvole; laghetti d’un azzurro più intenso si formavano e s’allargavano in alto. Gli occhi appesantiti dalla stanchezza e dalla tensione si rinfrescavano in quell’azzurro, ritrovando il cielo, la serenità del cielo, quasi cancellata dalla memoria. Una terra stra-ziata, giunta agli estremi della sofferenza, offriva la faccia moribonda al cielo rasserenato per l’ultima consolazione.69

Ora sentiva che la patria gli si allargava in qualche cosa di più vasto. Nell’armonia di quei suoi ultimi istanti provava dominante un sentimento che in altri momenti gli aveva solamente sfiorato l’animo: l’accordo con Dio, della creatura di Dio.70

Nell’immenso cielo luminoso, nel mare di stelle naufragò il suo sguardo. Nessuna fibra lo legava più alla terra.71

Il modello di partenza è evidentemente il monologo più noto di Tolstoj, che raccoglie i pensieri del principe Andrej ferito sul campo di battaglia alla fine del capitolo XVII di Guerra e pace, tutto giocato sul

(68) G. Stuparich, Diario 22.6.1916-13.10.1918, cit. Ma anche Slataper rilegge il libro di Tolstoj durante i mesi della guerra. Cfr. al riguardo E. Oblath Stuparich, Lettere a Giani, cit., p. 36, e S. Slataper, Alle tre amiche. Lettere, a cura di G. Stuparich, Milano, Mondadori, 1958, pp. 477 e 497.

(69) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. 149.(70) Ivi, p. 159.(71) Ivi, p. 161.

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rapporto tra l’io e la natura fuori di lui (il «cielo alto, infinito» percorso dalle nubi), ma non si può escludere che scrivendo la fine del capitolo forse più lirico di tutto il libro Stuparich avesse in mente un frammento senza data di Slataper, che più di dieci anni dopo egli stesso porrà a sug-gello del Taccuino di guerra dell’amico, dato alle stampe nel 1953. Aveva scritto Slataper, alludendo ancora una volta al mito letterario di Guerra e pace vissuto alla luce della sua esperienza quotidiana di soldato:

La guerra non è in ciò che si crede da lontano la sua realtà tremenda e che da vicino è in fondo una povera cosa che fa pochissima impressione; ma è – come sentì bene il Tolstoj – in quel curioso spazio al di là della propria trincea, silenzioso, placido, col suo grano che matura senza scopo. È quel senso di sicura morte che c’è “più in là”, dove pure c’è il sole e le strade secolari e le case dei contadini.72

Alla visione ambivalente di questo Tolstoj, al quale sempre Slataper aveva rimproverato in un’altra lettera di essere «troppo impressionista per essere religioso»,73 Stuparich prova in fondo a dare una risposta nel romanzo, prospettando dopo la guerra «un mondo di coscienza e liber-tà».74 Lo conferma il dialogo conclusivo tra Sandro e il personaggio em-blematico della madre, che pare davvero una replica, a distanza di anni, a quanto già Serra aveva osservato a proposito della «dialettica turbata di natura e storia»:75

La verità ch’egli aveva cercato con angoscia, era forse là in quelle semplici parole. Biso-gnava salvare coscienza viva del dolore. Gli uomini passavano sopra il dolore, la vita conti-nuava ignara: una legge spietata governava la terra; ma dentro la vita, in relazione a qualche cosa di più vasto della terra, pulsava un cuore che accoglieva a una a una tutte le sofferenze del mondo. Quel cuore era divino; quel cuore aveva battuto nel petto d’una creatura uma-na; e quella creatura umana e divina aveva un volto; gli uomini lo conoscevano, ma ancora gli passavano davanti specchiandovisi fuggevolmente o rinnegandolo. No, non poteva non accadere che un giorno, vicino o lontano, non si fossero ritrovati in Esso. L’orrore, la super-bia umana potevano oscurare, ma non cancellare il volto di Cristo nel mondo.76

Ma nonostante lo sforzo di imprimere alla vicenda esistenziale e storica un senso compiuto, nell’impossibilità di accettare che «nel

(72) S. Slataper, Appunti e note di diario, a cura di G. Stuparich, Milano, Mondadori, 1953, p. 277.

(73) S. Slataper, lettera a Gigetta del 23 novembre 1915, in Id., Alle tre amiche, cit., p. 497.

(74) G. Stuparich, Trieste nei miei ricordi, cit., p. 205. (75) E. Raimondi, Il lettore di provincia, cit., p. 78.(76) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. 477.

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mondo sia stato vano tanto dolore»,77 il vincolo del romanzo con la viva materia autobiografica continua ad agire nella struttura profonda del testo, introducendo più di una sfasatura nel chiaro disegno di su-perficie. Di là da ogni esigenza morale e razionale, il nucleo pulsante di Ritorneranno rimane infatti riconoscibile in una delle pagine più intense di Guerra del ‘15: una proiezione fantastica che forse più anco-ra di quanto dichiarato in Trieste nei miei ricordi svela l’insopprimibile origine inconscia della scrittura:

Mentre cammino, il cuore mi fa sentire la commozione; corro con la fantasia a Trieste. Passiamo, noi granatieri, per la via delle Poste, per il Ponte Rosso e ci fermiamo in Piazza Grande, bianchi di polvere, col fucile a pied’armi e col sottogola calato; un grido di donna erompe a un tratto di mezzo all’entusiasmo della folla e ne esce Bianca: - Giani! Carlo! [...]. Chiediamo il permesso al colonnello d’andar a casa nostra, in via Carradori; e Bianca ci trascina tutta raggiante; i tre piani di scale son fatti in un baleno e nostra madre ci sta singhiozzante tra le braccia, stupita, palpandoci: - Giani, Carlo, soldati italiani, fra i primi entrati a Trieste! [...]. Mi volto verso Carlo e lo vedo trasfigurato, forse dalla medesima speranza.78

La fantasia dell’ingresso trionfale a Trieste che domina la pagina dell’8 giugno del ‘15 e dà forma all’unico ricordo luminoso nella trama dolorosa dei Colloqui («Trieste. Imbocchiamo la strada a passo marca-to, un reggimento, tutta la nostra brigata. Il cuore altro non è che una campana a gloria»)79 è anche quella che dà l’avvio al romanzo dell’at-tesa, i cui personaggi sono la famiglia stessa di Stuparich, a cominciare dalla figura ideale della madre, e la comunità triestina formata dagli amici al fronte e dai loro familiari. L’onomastica ribadisce l’intenzio-ne del calco autobiografico, che rispetta fedelmente i ruoli e i legami familiari e affettivi: Angela è la sorella Bianca; Albina, la sorella di Ce-sare Alessandri, è Nerina Slataper; Lella è Gigetta, la vedova di Scipio, madre di un bambino che il padre non ha fatto in tempo a conoscere, alla quale sono dedicate molte note dei quaderni; Allegra, la donna amata da Marco, è Elody, alle cui lettere attinge senza riserve il sostrato emotivo romanzo. Più complesso è il gioco di specchi che coinvolge i tre fratelli Vidali. La letteratura critica, a cominciare da Bruno Maier, è unanime nel riconoscere nell’unico superstite, Sandro, «il più oscuro e il meno degno»80 dei tre, la controfigura di Giani nella veste consueta

(77) Ibid.(78) G. Stuparich, Guerra del ’15, cit., p. 23. (79) G. Stuparich, Colloqui, cit., p. 25.(80) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. 476.

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del reduce piegato dal senso di colpa che, come nello schema del ro-manzo autobiografico poi lasciato da parte, domina la parte conclusiva del libro. Un senso di colpa, si potrebbe aggiungere, che lo scrittore sconta non solo nei confronti di Carlo, ma anche dell’amico intimo di gioventù (conosciuto «come un fratello conosce suo fratello»),81 se è vero che il nome scelto per il suo personaggio contiene un’allusione esplicita al nome di Slataper nell’esercito italiano (Sandri). Se non c’è dubbio che il profilo stoico del fratello maggiore, Marco, la figura più letteraria del romanzo, sia modellato su quello di Carlo Stuparich, il malinconico «tenente democratico» di cui narrano i quaderni e le pa-gine autobiografiche di Cose e ombre di uno, il confronto con il diario di prigionia restituisce per così dire la storia interna del personaggio, intessuta di ricordi e di simboli, tra i quali l’esperienza dolorosa e stra-niante della morte percepita da Giani nella forma del «velo cupo di un’ombra» discesa sul mondo, che nel libro passa dall’astratto metafo-rico al concreto, spiegando la cecità di Sandro.

Dentro la trama coerente di allusioni e di simboli che costituisce il fitto tessuto narrativo di Ritorneranno, dove nulla sembra lasciato al caso, va letta anche l’inserzione della figura di Alberto, che nell’esegesi ingenua di Maier sarebbe «un personaggio inventato, suggerito dal proposito di attenuare o di dissipare la troppo scoperta aderenza au-tobiografica della vicenda narrata»:82 un compromesso in verità poco convincente, e soprattutto poco riuscito, se si pensa alla molteplicità di elementi autobiografici disseminati nel romanzo e facilmente ri-conoscibili attraverso la lettura in controluce dei Colloqui e di Cose e ombre di uno. Altri ritengono che Alberto rappresenti Slataper,83 e che raccontando la sua morte Giani riesca finalmente a parlare di quella dell’amico: un’ipotesi plausibile, se non fosse che la coincidenza di Alberto con Slataper viene smentita – non bastassero gli indizi disse-minati nella seconda parte del romanzo, il capitolo più denso di rife-rimenti autobiografici – dai quaderni, che mostrano come il ritratto fisico e morale di Scipio abbia ispirato quello di Cesare Alessandri, a partire dal riuso insistito del nome di battaglia di cui si è già parlato (Sandri/Alessandri/Sandro). Del resto anche la descrizione di Cesa-re, colto ancora una volta di riflesso, all’inizio del libro, attraverso lo

(81) G. Stuparich, Prefazione a S. Slataper, Appunti e note di diario, cit., p. 17. .

(82) B. Maier, Presentazione di Ritorneranno, in G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. XXXVI.

(83) Cfr. G. Capecchi, «Morire non è più che fare un passo», cit., p. 261.

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sguardo ingenuo della sorella, lascia intravedere i lineamenti roman-zeschi di Slataper:

Albina vide ergersi, nella divisa dell’ufficiale italiano, la maschia figura di suo fra-tello Cesare. La bocca carnosa sottoi morbidi baffetti biondi, gli occhi incassati e azzurri come le genziane. È al comando di molti uomini. Tutti lo seguono come un dio. Egli si volge un poco indietro quasi per rincorarli, ma poi guarda dritto davanti a sé. Sarà certamente il primo di tutti a metter piede a Trieste.84

L’analisi complementare delle carte inedite e delle pagine di Cose e ombre di uno, soprattutto per quello che riguarda i ricordi d’infan-zia,85 fa pensare piuttosto che Alberto e Marco rappresentino i due lati, opposti e complementari, della personalità di Carlo, il «fanciullo-filosofo» cui Giani allude spesso nei diari. Mentre Marco ne restituisce l’indole malinconica e lo spirito di sacrificio, Alberto ne incarna il tratto fanciullesco e impulsivo testimoniato anche da Guerra del ’15,86 attingendo direttamente alla biografia di Carlo. Se la figura del fratello appare sdoppiata nei due personaggi di Marco e di Alberto, d’altro canto i caratteri complementari di Marco e di Sandro mescolano ele-menti del vissuto di Carlo e di Giani, creando una sorta di doppio speculare, per cui Giani arriva ad attribuire a sé, nel personaggio al-fieriano di Sandro (e Alfieri è, insieme a Dante l’autore di Carlo),87 i «bollori di superficie», la passione per Beethoven e le letture preferite del fratello (Dante, Leopardi, la Bibbia) di cui narrano Cose e ombre di uno.88 Grazie a una significativa inversione cronologica, il fratello minore – che nei Colloqui era già percepito come la coscienza dell’au-tore – diviene poi nel romanzo il maggiore, e lo scambio di ruoli ha come effetto quello di far rivivere a Giani i ricordi e le impressioni di Carlo, in una sorta di gioco delle parti che è anche un riconoscimento della figura intellettuale del fratello, troppo presto scomparso. Il mo-

(84) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. 43. (85) Cfr. ad es. le lettere alla madre da Firenze, del febbraio del ’14, in C. Stuparich,

Cose e ombre di uno, cit., pp. 143 e 155. (86) G. Stuparich, Guerra del ’15, cit., p. 65.(87) Cfr. la lettera a Giani dell’aprile del ’12, raccolta in Cose e ombre di uno, cit.,

p. 92: «Ho letto tutta la “Vita” dell’Alfieri con un trasporto, con un fremito, con un ardore mai sentito, o raramente; vi ho trovato delle teorie che seguirò, che cercherò di appropriarmi. Dante e Alfieri sono i miei poeti: in loro trovo tutta la dignità, la forza, lo spirito umano, tutta la poesia. Dopo tutto quel seicento, tutta quella musicalità che mi stomacava, era ora che m’imbattessi in un rude gigante. Per queste vacanze mi fisso la lettura piena, intera del mio poeta ».

(88) C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. 104.

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nologo di Sandro dopo la morte di Cesare/Slataper restituisce bene la mise en abîme prospettica di una narrazione nella quale i sentimenti originari provati da Carlo all’interno del gruppo dei triestini a Firen-ze, nei primi anni de «La Voce», vengono attribuiti nel romanzo alla controfigura di Giani:

Soltanto tre anni prima, quale distanza fra lui e quel suo fratello maggiore! Allora, ragazzo, gli pareva che non l’avrebbe mai potuto raggiungere. Come si sentiva piccolo, umiliato dalla disinvoltura di lui, dalla sua aria d’uomo che dominava la vita con l’intel-ligenza, dal suo modo di trattare gli amici. A quanti colloqui di lui con Cesare aveva assi-stito, in disparte, trascurato, escluso dai loro progetti. Lo sforzo per farsi notare, per esser accolto anche come minore fra di loro, non gli serviva. Gli pareva fatale che una differen-za di pochi anni dovesse dividerli, come se appartenessero a due lontane generazioni.89

Se accostiamo a questo brano una lettera originale di Carlo da Firenze, del febbraio del ’14, che è già quasi una piccola autobiografia nei termini del Bildungsroman, si comprende bene come la letteratura abbia un ruolo determinante nel ristabilire la verità intima dei fatti, dopo che la guerra ha rivelato per così dire l’individuo a se stesso e agli altri. Aveva scritto all’epoca Carlo al fratello:

Venne il «Mio Carso» e mi turbò terribilmente. Mi ricordo che piansi di nascosto colla faccia sprofondata nel cuscino e ti dirò perché. Avevo i nervi spaventosamente ro-vinati dalle bruciature e dalle piaghe in bocca, era verso giugno, i calori mi prostravano. Lessi «Il mio Carso» e non lo capii tutto. Mi disperai: mio Dio, se non capisco, se non capisco. Slataper, un triestino, cose della nostra anima! Avevo una specie di rabbia contro Slataper. Mi affrettai il giorno stesso a scriverti domandandoti spiegazioni. Tutte le mie speranze mute, rinserrate nel petto erano crollate; e mi sentivo soffocato soffocato come se qualcuno mi premesse contro la bocca un guanciale di piume; gli altri correvano avanti e io fermo sulle mie fragili gambe; ero anche assai solo; avevo paura di perderti, ero geloso di te, che anche tu non corressi avanti e mi lasciassi abbandonato, e mi aggrappavo mi arrampicavo quasi con uno sforzo fisico. Se hai salvato le mie lettere di quell’epoca te le farò rileggere.90

(89) G. Stuparich, Ritorneranno, cit, pp. 118-119. (90) C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p. 153. Un manipolo di lettere di Giani

a Carlo, precedenti la guerra, è conservato anch’esso nel fondo Stuparich (cfr. RP.MS MISC 239/2/2). Alle lettere di Carlo, conservate o meglio «salvate» dentro la raccolta sentimentale di Cose e ombre di uno, si aggiungono ora quelle di Giani, che nella com-pagine ampia dei materiali d’archivio restituiscono il medesimo scenario descritto dal fratello, consentendo il confronto con quella che è, dentro il romanzo, la rielaborazione letteraria della storia dei triestini a Firenze.

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È probabilmente a causa del medesimo desiderio di risarcimento più o meno inconscio che lo scrittore riserva a Marco (cioè a Carlo), la storia con Elody-Allegra, e anzi la duplica nell›idillio di Alberto e di Lida (quasi anagramma di Elody), sostanzialmente identico nel-la sequenza narrativa di una storia che attinge alle lettere private del gennaio del ’16 di cui si è già parlato. Ma soprattutto, alla letteratura è affidato il compito di riscrivere quella parte della storia alla qua-le la confessione raggelata del diario di prigionia, interrotta da spazi bianchi e parole sospese, non riesce a dare forma: il suicidio di Carlo, accerchiato dai nemici sul Cengio, e il mancato ritorno di Giani, pri-gioniero, al termine della guerra.91 Tutto il capitolo sesto della quar-ta parte del romanzo narra la disperazione del capitano «giovinetto», Alberto, isolato con i suoi alpini su una cima di quello che Carlo, nelle ultime lettere, aveva definito più volte il «triste e pittoresco alti-piano»:92 l’attesa angosciosa del nemico, la tentazione del suicidio, e infine l’insperata salvezza, nei termini quasi della fiaba, o del miracolo, tanto che l’accento della narrazione, tra stupore e incanto, sogno e vi-sione, richiama alla mente il racconto del diacono Martino nella scena seconda del terzo atto dell’Adelchi:

Allo stremo delle forze, col cervello annebbiato e le membra disciolte, s’affacciarono un giorno, in pieno sole, sopra una valle, in cui parve loro di vedere movimento d’uomi-ni e di udire, come in un sogno, le note d’una cornetta che chiamava al rancio.93

Seguendo un itinerario scolpito nella memoria e più volte riper-corso in sogno, come testimonia il diario di prigionia,94 il racconto

(91) «19 luglio. Il binomio tremendo che mi assilla il cervello è questo: egli è morto, io sono prigioniero. La sua morte e la mia salvezza – un’ironia» (G. Stuparich, Diario 22.6.1916-13.10.1918, cit.).

(92) C. Stuparich, Cose e ombre di uno, cit., p.276 e 277. (93) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. 325.(94) Ancora dal già citato Diario 22.6.1916-13.10.1918: «30 luglio. Ho pensato nel

sogno questa notte per ricostruire la morte di Carlo». E qualche giorno prima: «28 giu-gno. Brutti sogni! Quante volte ho sognato di ritrovare Lulli vivo. Questa notte invece ho pianto tanto sulla sua morte. Che sia stata realmente l’ultima volta quando lo vidi pallido [...] camminare in testa al suo plotone per la Strada di Belmonte il 28 maggio dietro alla bandiera del reggimento che si ripiegava disordinato e sbalordito? “Addio Carlo” gli dissi! “Addio Giani”: sorriso e tristezza fonda in quel suo saluto di risposta. E fece un segno col suo bastone, che parve di tranquillo diniego, di superiore disapprovazione, quasi voler dire “non approvo, ma sono calmo”». Com’è noto la descrizione torna, ricomposta, nel ritratto stoico di Carlo che chiude la seconda prefazione a Cose e ombre di uno: «Ricordo ancora l’ultimo suo saluto, sull’Altipiano d’Asiago, sotto il Cengio. Mi fece un cenno col

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sembrerebbe destinato a chiudersi sulla testimonianza della morte di Carlo riportata da Giani nei Colloqui, che si chiude sul fotogramma del corpo «avvolto nella mantellina»,95 con cui termina anche il passo autobiografico di Trieste nei miei ricordi. Ma nella riscrittura epico-lirica del romanzo, che prova a stemperare in chiaroscuro lo scenario luttuoso dei Colloqui (evocazione cristologica del martirio sul Golgo-ta), la conclusione appare alla fine del tutto diversa:

Bocconi sulla terra, con le mani avvolte nei ciuffi d’erba, era scosso da un ribrezzo che gli faceva battere i denti. «Mamma, perdonami», mormorò «non ho più la forza». Cessato il tremito, un gelo lo irrigidì. Liberò a stento una mano dall’erba e la portò alla fondina della rivoltella. Finirla! Quegli uomini poi sarebbero stati liberi di fare quello che volevano: scendere nei villaggi, abbandonarsi al riposo, arrendersi al nemico; così per loro sarebbe terminata ogni tribolazione. Nel girare la rivoltella vide che l’orologio al polso segnava l’ora indicata a Ciolin. Una colata di porpora accendeva in mezzo alla foschia l’alta cima che gli stava dinanzi. Contornato di nubi e di vapori s’alzava, sangui-nante, il sole. Alberto chiuse gli occhi. Il gelo in lui si scioglieva. Tornò con la mente a sua madre. La rivoltella fredda che teneva in mano lo sorprese; ne esaminò la sicurezza, la rimise lentamente nella fondina. Nell’altra mano aveva ancora dell’erba tra le dita.96

Di fatto, Alberto morirà in battaglia al termine del libro a lui dedi-cato, il quarto: non più solo, come accusava, tra rabbia e disperazione, il diario di prigionia,97 ma «sulle ginocchia» di un soldato che raccoglierà

bastone ferrato, come se dicesse: “Addio, vado a morire”. La sua figura aveva la calma ma-estosa e il pallore dei grandi avvenimenti, e forse della consapevolezza del proprio destino» (p. XX).

(95) «Nel pomeriggio cupo quel caporale chiese di me. Sul lettuccio stavo sdraiato affran-to, e rabbrividii sotto il presentimento. Parlò, ch’io lo incalzavo sempre più stretto e freddo. Disse il vero e io dubitavo. Che un’isola avanti eravate sin dal mattino accerchiata di fuoco e intorno ingorgava il nemico rabbioso per non potersi gettar sulla nostra difesa e fulminava sì che in pochi rimasti tu, piantato, quasi inumano agli invocanti rispondevi: qui si rimane. [...]. S’annerò l’aria, diluviò, come se il cielo, poi che non reggeva il cuore agli uomini, lui volesse proteggervi. Ma tu anche quel velo, per gli altri strisciante salvezza, aspettasti che si sciogliesse e nel nuovo sereno coi tuoi occhi vedesti che bastava davvero e, solo aiuto austero a te stesso, dietro uno spigolo bianco di roccia ti portasti e le palle nemiche incolume ti lasciarono in questo passaggio, perché tu potessi appoggiare il pugno armato alla tempia e rotolar giù avvolto nella tua mantellina» (G. Stuparich, Colloqui, cit., pp. 17-18).

(96) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. 320.(97) Così si legge nell’appunto del 12 luglio: «Vigliacchi! Lo trattavate da bambino con

disprezzo e ironia. E voi tutti siete scappati o vi siete lasciati far prigionieri. Lui solo è morto, perchè era calmo, aveva il coraggio del dovere e la temerità di rimanere al suo posto non cal-colando quel che gli dovesse costare» (G. Stuparich, Diario 22.6.1916-13.10.1918, cit.).

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gli ultimi istanti del «suo capitano».98 Allo stesso modo, benché privato della vista, Sandro rientra a Trieste insieme agli altri soldati, e alla fine la narrazione può dare sèguito al desiderio originario del ritorno a casa di cui aveva fantasticato Guerra del ’15, lasciando alla rievocazione turbata dei Colloqui il compito di raccontare il fallimento di un sogno e la sua punizione. La riscrittura della scena comune ai Colloqui e a Ritorneranno mostra però soprattutto come nell’ultimo episodio del trittico memoriale Carlo e Giani siano divenuti un’identità unica e indissolubile, che contra-sta con la figura sconsolata dell’alterità dominante nei Colloqui, metafora della condizione di separatezza e di solitudine imposte dalla morte:

(98) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. 370.(99) G. Stuparich, Colloqui, cit., pp. 25-26.(100) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., pp. 467-468.(101) Ivi, pp. 472-473.

La casa era quieta; nulla era mutato: la stessa luce per le scale, la stessa tinta pallida dei muri, come allora. [...]. Per otto anni tutti i giorni Sandro aveva fatto quelle scale. [...]. Vedeva ogni sca-lino, ogni pianerottolo [...]. Una mattina, una mattina poco prima di partire, egli aveva salito quelle scale con sua madre. Oh, rivederla, ri-vederla come l’aveva vista allora [...]. Tornare a quel momento, abbracciarla con gli occhi aperti, consolarla! Non pensare più a se stesso, ma cede-re a quella maternità in ansia, ricambiare col solo povero bene di cui era capace l’amore infinito di lei.100

Carolina aveva chiuso gli occhi, appoggiata la testa al petto di Sandro riposava; a uno a uno ascoltava da quel petto il battito di tre cuori [...]. «Era così che Marco s’appoggiava a te?». «Così». La mano le si fermò sul solco della ferita: questa le penetrava a poco a poco nelle fibre, le si im-primeva nel cuore. «Ma forse io non so essere tanto leggero come lui». «Oh, il suo peso: è come se vi portassi insieme, lui e te»101

Fu un sogno da guerriero fan-ciullo. Solo son ritornato, per le vie più nascoste frettoloso. Diritto a casa, sono salito che mi dovetti sostenere alla ringhiera. Tutto come prima, lo stesso odore, i pianerotto-li vuoti; all’uscio mi sono fermato che mi pareva di non potervi en-trare mai più. E quando entrai fu come le volte che ritornavo a inter-valli dagli studi, che tutte le cose fa-miliari mi riconoscevano. Ma l’in-contro con mamma, più sconsolato fu di quello che io m’aspettassi. «Me l’hai affidato, ma guardartelo non ho saputo, ti ritorno senza di lui»: queste parole avevo preparate, ma non ebbi voce per dirle e caddi in ginocchio davanti alla pietà di quel-la faccia. Poi mi ritrovai nell’antica abitudine di questa casa, più forte d’ogni singola vita.99

Se nel libro i tratti individuali della personalità dei fratelli Vidali appaiono indistinti, al punto che, come notava già Maier, «paiono quasi confondersi l’uno con l’altro», non è perché l’autore intende de-

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lineare «il personaggio-simbolo del volontariato triestino»,102 ma più istintivamente perché l’autore li percepisce riuniti nella figura del so-pravvissuto. Lo confermano a livello simbolico i sogni che distendono per tutto il libro l’ombra inquieta del diario di prigionia, e che sono anch’essi parte della storia interna del reduce, come l’incubo della ma-dre nella terza sezione del romanzo: «Sebbene terrorizzata, avvicinò il suo volto fino a toccare quello cereo del morto. “Ma tu chi sei dimmi, chi sei?”, ella gemeva, “sei Marco, sei Sandro?”. A volta a volta era Marco, era Sandro. Improvvisamente, dietro le palpebre di cera, si spalancarono i grandi occhi di Sandro. “Non vedi che sono Marco?”, diceva».103 O il ricordo che tormenta il padre nel capitolo sesto della quinta parte («Me li vedo ancora davanti come fosse adesso. In quella luce i tratti dei loro volti erano imprecisi; ma uno slancio solo muove-va i loro corpi», «un ritmo solo, un solo affannoso respiro»), al quale fa eco di nuovo il grido muto della madre, in una sorta di premonizione: «Anche tu li hai visti allora come fossero uno solo. Spiegami, spiegami, non è pazzia la mia? [...]. Io non capisco più, io non li vedo più, io non li distinguo più i nostri figlioli».104

A conti fatti, l’affresco solo in apparenza corale di Ritorneranno – il cui titolo riecheggia crudelmente l’ambigua dimensione plurale – appare più che mai il prodotto della coscienza dell’autore, teatro di opposte tensioni: da un lato il desiderio di risarcimento e di compren-sione storica che richiede la rielaborazione del lutto, dall’altra l’insor-gere continuo di dinamiche più complesse e sofferte, che non possono essere riassorbite entro la cornice letteraria, né appagate dall’opera-zione terapeutica della scrittura, sulle quali fanno luce ora i materiali inediti. Ma proprio il sostrato più profondo del testo – la sua verticale dimensione psichica – avvicina Stuparich a Gadda, invitando a una ri-lettura che lasci da parte il volto «apollineo» del romanzo per tornare a interrogare il «grumo tenebroso» da cui la trilogia della guerra prende origine.

(102) B. Maier, Presentazione, cit., p. XXXVII. (103) G. Stuparich, Ritorneranno, cit., p. 200.(104) Ivi, p. 424.