19
Graffiti Poetiche della rivolta Marcello Faletra postmedia books

Graffiti di Marcello Faletra

  • Upload
    ied-it

  • View
    2

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

GraffitiPoetiche della rivolta

Marcello Faletra

postmedia books

Etica dell'esteticaprefazione di Michel Maffesoli

introduzione

PRIMA PARTEStorie e poetiche

Paleografie, sismografie Elementi per una storia dei graffiti

Il demone alato Stilistica ornamentale dei graffiti

Nomi in rivoltaPolitiche del nome proprio:

de Certeau, Barthes, Derrida e i writer

Il teatro del nomeOpifici della letteratura potenziale

L'arte contemporanea di fronte ai graffiti

SECONDA PARTE La presa della città

Ordine\Disordine

L'immaginazione selvaggia

La presa dello spazio(che cos'è la città)

Ornamenti della rivolta(Loos, Benjamin, Baudrillard)

Crepuscolo

Il mio viaggio nei sotterraneipostfazione di Franco Berardi Bifo

7

11

23

39

67

77

87

99

115

123

139

161

163

Etica dell’estetica

prefazione di Michel Maffesoli

Essere all’«altezza» del quotidiano significa, per Max Weber, tener

conto del «non-razionale» che, ricordiamolo, non è semplicemente

irrazionale. Esso ha la sua razionalità e la sua propria logica. Non

ha necessariamente un senso (finalità) preciso, ma ha un senso

(significato) non meno reale.

Questo non-razionale estetico, Marcello Faletra lo vede all’opera in

quell’arte di strada di cui sottolinea l’aspetto prospettico e di cui mostra

le conseguenze nella mutazione sociale, o meglio «societale» in corso.

Ma si può estrapolare il suo discorso e mostrare in che cosa questo

«non-razionale» è quanto mai all’opera nelle molteplici manifestazioni

della socialità postmoderna.

Comunque sia, e come sempre nel bene e nel male, questo «non-

razionale» esiste. Percorre, come un filo rosso, l’insieme del tessuto

sociale. E bisognerebbe vedere in che cosa è all’opera in numerosi

ambiti. Quello dei graffiti inteso come una «poetica della rivolta» è un

esempio perfetto. In quanto valorizza il fenomeno tribale, quello del

nomadismo, senza dimenticare l’edonismo, e tutto ciò che definisce la

base delle evoluzioni in corso.

In breve, ecco qual è la conseguenza logica di queste evoluzioni:

non è più il contratto razionale che è alla base del vivere-insieme,

ma il patto emozionale che ha certo le sue ragioni, ma ragioni che la

Ragione non conosce!

Gr

aff

iti

⊗8 D’altronde, è perché questo non-razionale è all’ordine del giorno che

è importante creare un approccio comprensivo. «Comprensivo» non

nel senso morale che si accorda generalmente a questo termine, ma

in quello più vicino alla sua etimologia: prendere in considerazione

tutti gli elementi dell’esistenza. «Cum prehendere». Prendere insieme,

«prendere con» quelle che sono le specificità del «vivere-con», del

«vivere-insieme».

Le Illuminazioni di Rimbaud, la potenza sotterranea del lirismo di

William Blake, la cosmogonia favolosa di Malcolm de Chazal, ecco

tra una miriade di altri, i segni premonitori di un ambiente alquanto

marginale ma che tende, quanto mai, a occupare il primo piano.

È proprio questo che si ritroverà nel demoniaco di un certo «Black

Metal», nel naturalismo della «Deep Ecology» o, ancora, nel sincretismo

del «Cosmic Consciousness». Tutto, perfino il «Terreiro» del candomblé

dei culti afro-brasiliani poggia su una corrispondenza simbolica tra gli

elementi primordiali della terra e la comunità degli iniziati che i primi

servono a modellare e a confortare.

È questo che si può leggere, in filigrana, in tutto il libro di Faletra.

«L’immaginazione selvaggia», il dialogo «ordine/disordine», tutto ciò

ci ricorda la sola «legge» che mi piace riconoscere nella vita sociale:

l’anomico di oggi è il canonico di domani!

In tutti gli esempi che fornisce il suo libro, è la magia simbolista che

tende a prevalere. E questo in un senso preciso, adattare insieme (sum-

bolé), in segno di riconoscimento, tutte le parti, sparse, della totalità

naturale e sociale. È quest’ordine simbolico che trova nell’emozionale

il suo vettore più efficace.

Emozionale. Ecco appunto un termine che torna, in modo lancinante,

nelle conversazioni, discussioni e dibattiti vari. Ma usato, molto spesso,

in modo sbagliato. In effetti, si tratta, il più delle volte, di sottolineare

l’aspetto emotivo di un individuo, o l’emotività come capacità che ha

quest’individuo di provare emozioni. In breve, e come accade spesso,

nell’individualismo epistemologico proprio alle élites della modernità

al tramonto, si riconduce ogni cosa al campo egotista, sesamo

universale dei diversi osservatori sociali.

9

E si dimentica, stando così le cose, che queste emozioni, che non si

possono non constatare, non sono certo individuali, ma essenzialmente

collettive. Sono infatti presenti come espressione di quegli istinti

animali che costantemente continuano a rodere il corpo sociale. Riferirli

all’animalità non è affatto peggiorativo. Basta ricordarsi dell’adagio d

Pascal: «il cuore ha le sue ragioni che la ragione…». Dopotutto, può

esserci nobiltà nelle emozioni collettive. E solo coloro che sapranno

analizzarli con pertinenza saranno in congruenza con lo spirito del

tempo. Questo è il cuore pulsante del libro di Marcello Faletra. Egli

dà la chiave per capire la «nuova lingua» che sta emergendo; il che

testimonia di un cambiamento importante nello spirito del tempo.

Non si cita più molto il vecchio Taine e ciò che diceva sul clima che

ha sugli uomini un’influenza molto più grande della storia razionale

e raziocinante. Estrapolando il suo discorso, possiamo ricordare che

ci sono ugualmente dei climi spirituali che non lasciano niente e

nessuno indenne. La poetica (e implicitamente l’estetica) dei graffiti

sottolinea quest’atmosfera del meraviglioso, in cui il timore e il fascino

si mescolano in un miscuglio inestricabile.

Le giovani generazioni attuali sanno bene in effetti, di un sapere

incorporato, di un sapere non teorico, di una conoscenza fatta di

esperienze, che la vita è lungi dall’essere un fiume tranquillo. Ma che

ci sono dei mulinelli, dei vortici e altre vicissitudini. Tutte cose che

bisogna sapere affrontare con grazia, disinvoltura, insolenza anche.

L’oscurità luminosa che attraversa i graffiti, accettando l’aspetto

«selvaggio» della nostra umana natura, ricorda che la figura retorica

della postmodernità è l’ossimoro: l’oscura chiarezza, il mostro delicato.

È appunto quel che rappresentano tutte le figure iscritte sui muri

delle nostre città. Esse mettono in gioco la luce nera dei sentimenti,

la carica dell’emozione, l’importanza degli affetti che sono all’opera

nei miti, racconti e leggende attorno ai quali si riuniscono le comunità

contemporanee. Ecco dunque la lezione essenziale che ci propone

Graffiti, Poetiche della rivolta.

postmediabooks

Comunicazione antagonista, Napoli

11

introduzione

Una poetica dei graffiti? A leggere le cronache sembrerebbe che essi apparterrebbero più a fenomeni di ordine pubblico che di poetica1. Eppure questa preoccupazione, che emerge dalla presa della città da parte dei graffiti, tocca una questione cruciale, che è quella della produzione sociale dello spazio e della sua rappresentazione.

Lo straordinario privilegio accordato allo spazio dal capitalismo (globalizzazione dei mercati) è il sintomo che più d’ogni altro rileva che esso può essere visto come un “analizzatore della società”2 e delle sue contraddizioni. In questa prospettiva una lettura che attraversa i graffiti come fenomeno di poiesis non può essere separata da una analisi della produzione dello spazio nella società contemporanea. In altre parole: in che misura la produzione della parola e dell’immagine è libera di circolare in un regime di totalitarismo economico? Questa egemonia economica è tanto più evidente quanto più la colonizzazione dello spazio e delle immagini si pone come argine, perimetro, ultima frontiera in cui la geo-economia determina il processo di espropriazione dello sguardo e dell’immaginario che sta segnando il presente.

L’emergenza dei graffiti, alla luce di questo processo, acquista un significato ben diverso che è quello di un racconto antagonista che pone al centro la presenza non assoggettata di “comunità narrative”3

che sfuggono all’igienismo coatto del mercato. D’altra parte i fatti di cronaca che accompagnano i graffiti pongono la questione della loro presenza ad un livello più profondo: come si effettua nell’ordine del tardo capitalismo la produzione dello spazio e della parola, come anche dell’immagine e la loro distribuzione sociale? Perché il cosiddetto “vandalismo” dei graffiti sarebbe associato al “disordine” e al disequilibrio sociale, mentre la pubblicità e la sua profilassi colonizzatrice del desiderio all’ordine e alla norma?

Gr

aff

iti

⊗12 A queste domande il presente saggio cerca di rispondere secondo

due prospettive di indagine: da un lato tratta il fenomeno dei graffiti come un capitolo obliato della storia della decorazione, laddove esso è trattato a parte, separato dalle storie più o meno ufficiali dell’arte contemporanea e che non va confuso con la generica espressione di street art oggi in voga, anche se per certi aspetti il fenomeno dei graffiti possa suggerire una sussunzione del genere per il semplice fatto che investe lo spazio pubblico.

Dall’altro come non vedere in questo fenomeno un antagonismo irriducibile alle forme di assoggettamento dello sguardo pubblico cui negli ultimi anni corrisponde la nascita di un’estetica dei visual media, “nuova agorà di un pubblico internazionale”, secondo la definizione di Boris Groys, a cui i graffiti si contrappongono come forme antagoniste di poetiche del sé4.

Una scelta del genere va contro un diffuso pregiudizio che vuole che i graffiti, per quanto esotici o seducenti, siano in fondo un fenomeno secondario rispetto alla pratica istituzionale dell’arte, eccetto rari casi, vale a dire quando un writer è riconosciuto dal sistema dell’arte. Ma in questo caso è quest’ultimo che è immesso nel sistema dell’arte, non l’insieme del fenomeno (valga per tutti il caso Basquiat). Se il fenomeno di un certo decorativismo che era presente in molta produzione dell’arte moderna aveva provocato aspre critiche (Loos, Greenberg), a maggior ragione il fenomeno dei graffiti, sorto prevalentemente a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, sulla scia dei movimenti di protesta, ha stentato a farsi strada come oggetto degno di indagine poetica, e sia pure in senso lato anche estetica, se non in modo occasionale. Una specie di “ornamentazione senza nome” come le grottesche del passato, si propagava in quegli anni non in cripte inaccessibili, ma nell’aperta visibilità dello spazio delle città. La loro rapida diffusione ha toccato in tal modo la sovranità sullo spazio, ragion per cui di fronte ai graffiti spesso l’atteggiamento è stato (ed è) quello che ha fatto largo uso di arnesi concettuali da sociologia della devianza, a cui un certo giornalismo pruriginoso ha attinto proficuamente.

Un pregiudizio, questo, contro il tratto ornamentale e ludico dei graffiti, a cui si deve aggiungere anche quello che agli inizi del secolo scorso si scagliò contro l’ornamentazione quale indice di un abbassamento del “gusto” e della “civiltà” da parte di Adolf Loos (1908), che portato impropriamente alle estreme conseguenze ha investito l’ornamento nella sua generalità, fino a connotare dispregiativamente il significato del termine. Le accuse più superficiali rivolte all’ornamento, risentono di questa connotazione negativa che pretende vedere in esso, in particolar modo, un abbassamento dell’esperienza estetica o

13

una sua volgarizzazione. Per certi aspetti (e forzando un po' il paragone con i graffiti), qui Baudelaire, che esaltava il trucco e i rossetti, si prende una rivincita postuma quando metteva sullo stesso piano il “selvaggio” di ieri col selvaggio moderno del suo tempo, attratti da ciò che “brilla”, dai “piumaggi multicolori”, dalle “stoffe cangianti”, che nel loro insieme “attestano il disgusto per il reale” a cui preferiscono il bordo nero che contorna gli occhi, questa “finestra sull’infinito”, vale a dire celebrano “l’immaterialità della propria anima”5. Il gioco illusionistico dell’artificio, sia esso un rossetto o un graffito, è una forma di adescamento, che prodotto nello spazio urbano attende al varco i passanti per lanciare la sfida della seduzione, poiché coglie l’occhio in uno spazio che diventa un punto di fuga illusionistico. La miseria del reale è espropriata della sua quotidianità a vantaggio dell’artificialità del grafo scritturale, del colore, che truccano le città allo stesso modo delle donne descritte da Baudelaire.

Riferendosi ai pregiudizi che gravano sull’ornamento Christine Buci-Glucksmann scrive: “Primitivo, criminale, degenerato, femminile: la serie di termini, la loro violenza e le rimozioni che manifestano la dicono lunga”, e auspica una “critica della ragione ornamentale”6. Ironia del destino, che vede, oggi, il ritorno dell’ornamentazione urbana sotto le spoglie del “vandalismo”, del “delitto”, contro l’igienismo che veste le città consegnate senza appello ai cartelloni pubblicitari.

In questo scenario, gravido di pregiudizi, i graffiti ponendosi oltre il potere simbolico istituito del linguaggio e opponendosi a qualsiasi norma estetica7, sono il sintomo di un’alterità sociale irrisolta. Inoltre, in questo rifiuto c’è da leggere una vecchia sopravvivenza borghese dell’idea di “buon gusto”, secondo cui esisterebbero “arti primitive” o

“La nostra forza è nelle strade”, Istanbul 2013

Gr

aff

iti

⊗14 “popolari”, intese come sinonimi di regressione. In questa accezione

l’ornamento sarebbe indizio di frivolezza, di superfluità, una pratica ritenuta per convenzione inferiore all’arte razionale. Ora, nonostante l’estetica generalizzata che segna l’età contemporanea, i graffiti sono assimilati ad una pratica “barbara”, “vandalica”, rispetto alla quale vi sarebbero delle pratiche della parola e dell’immagine legittime. Contraddizione di un’età che si vuole, nell’immagine, libera da tutto, libera da ogni tabù, ma non di una certa idea di ordine che segna la percezione dello spazio urbano. Nonostante questi pregiudizi si tratta di capire in che misura i graffiti sono una forma di produzione del Sé e quali caratteristiche li lega all’ornamentazione genericamente accettata.

D’altra parte questa connotazione negativa relega la parola ornamento, in modo improprio, nell’universo del superfluo, e il confine tra il superfluo e il Kitsch è sottile, poiché sono entrambi associati alla cultura di massa - bersaglio prediletto del gusto elitario di ieri e che oggi soccombe a sua volta al processo di banalizzazione che investe l’intera società, di cui l’arte contemporanea è a suo modo un veicolo8. Tuttavia in questo caso è da notare che benché i graffiti siano un fenomeno che è emerso da strati sociali marginali, essi però non sono ascrivibili alla generica espressione “cultura di massa”9. Anzi, per certi aspetti (lo vedremo più avanti) ne sono l’antagonismo estremo. E qui entriamo nella

seconda parte della questione, e cioè che i graffiti senza le città non avrebbero senso. Occorre allora interrogarsi sulla natura dello spazio urbano, quali caratteristiche la rendono tale e, soprattutto, quali condizioni sono alla base della sua formazione come fulcro della produzione sociale dello spazio e in che misura i graffiti incidono sulla sovranità che si esercita su di esso. La seconda parte del saggio cerca di rispondere a queste interrogazioni di fondo.

Clet, Sviamento della segnaletica stradale, Firenze

15

La produzione dello spazio nella società capitalistica, in modo particolare, elegge la città a scena, a facciata, a superficie, in cui l’elemento pubblicitario definisce l’unità di misura della rappresentazione, la sua immagine trasfigurata in merce. È in questa egemonia pubblicitaria che la rappresentazione dello spazio si trasforma nello stesso tempo in una ideologia dello spazio.

È evidente che in un contesto segnato da una forte egemonia economica che s’irradia in modo capillare nella produzione e nella rappresentazione dello spazio sociale, una poetica dei graffiti deve misurarsi inevitabilmente con un’economia politica della città e con l’ideologia che vi è connessa.

Ora, dagli Stati Uniti all’Europa un vento antigraffiti investe le politiche dello spazio urbano10. Moralismo, multe e carcere sono gli strumenti adottati dai governanti per fronteggiare il fenomeno. In molte città i graffiti corrono da una casa all’altra, da un muro all’altro, dai finestrini della metropolitana ai marciapiedi, si accavallano, si sovrappongono, fino a diventare galassie decorative, arabeschi incandescenti che inglobano le abitazioni o spettrali muri periferici. Per le amministrazioni sono immagini “vandaliche” che vanno interdette. Ed è paradossale constatare che nell’epoca delle immagini vi possono essere visioni interdette. Eppure in molti casi i graffiti lo sono. Siamo immersi e costretti a partecipare ad ogni specie d’immagine: brutali,

Escif, Panoptico e Wikileaks, Valencia, 2012

postmediabooks

Gr

aff

iti

⊗16

abiette, violente, oscene, ma ci sono ancora visioni che non sono ammesse nel mondo delle immagini. Immagini marginalizzate come un male, visioni condannate come un residuo del sociale. Immagini contrassegnate da una barra d’esclusione, relegate nel regno del negativo a partire dal quale prende corpo il positivo delle immagini, la loro accettazione e condivisione come quelle pubblicitarie.

Sono passati molti anni dalle prime apparizioni dei graffiti nelle città. Tuttavia il sentimento di rifiuto che questo fenomeno provoca non sembra attenuarsi. Nel frattempo i graffiti e la pubblicità antagonista si sono moltiplicati in modo esponenziale. Non c’è città che non abbia i suoi autori writer, mentre in alcune grandi metropoli – soprattutto americane – si è diffusa la pratica del “subvertising” (sovversione dei segni pubblicitari).

Si tratta come nota Franco Berardi (Bifo) di uno scenario virale che stà propagandosi in molte metropoli, dove il “detournamento semantico dei messaggi proveniente dal potere può essere decisivo per un processo di liberazione dello spazio mentale”11.

L’aspetto a volte gioiosamente infantile dei graffiti, la rivendicazione di una innocenza che non abbia confini e tempo per addomesticarsi, per

Lex e Sten, Palermo 2008

17

trasformarsi in retorica, in cliché, è posto sotto assedio dall’immagine come medium pubblicitario che s’impone, nella sua apparente libertà, come sola legittima forma di immagine sociale. In questa prospettiva la posta in gioco è la sovranità sullo spazio e sulla sua rappresentazione, uno spazio che a volte, come nel caso della Culture Jam, è sottratto alla distrazione dell’attenzione.

Ieri, per essere indice di verità, un’immagine, un simbolo, un segno, andavano visti nelle pareti affrescate di una chiesa o nelle facciate di monumentali palazzi, oggi, dopo analisi di Guy Debord e di Jean Baudrillard, una cosa per essere vera deve essere spettacolarizzata e simulata. Certo, non è da trascurare il fatto che negli anni Trenta del secolo scorso, per la prima volta i murales messicani divennero la verità del popolo contro l’oppressione del potere. Un’anticipazione storica di quello che oggi circola sotto la parola ‘vandalismo’. Ma anche una conferma del fatto che il potere delle corporation mediatiche temi l’appropriazione dello spazio delle città da parte di fasce sociali marginali che sfuggono al controllo. Naturalmente i contesti storici sono molto diversi. Tuttavia il problema di fondo è il tratto antagonista che li accomuna. Nel caso dei murales messicani si trattava di un’arte sociale: l’artista si metteva a disposizione del popolo oppresso e contro lo sfruttamento del capitalismo, e va ricordato pure il fatto che diversi murales di Diego Rivera realizzati negli Stati Uniti, vennero fortemente avversati per le immagini sovversive che comunicavano. Non diversamente, oggi, le prese di posizione nei confronti dello sfruttamento capitalista da parte di autori come Blu provocano censure e aspre reazioni fino alla cancellazione.

Palermo, Stazione Notarbartolo, 2009

Gr

aff

iti

⊗18

Se dai murales passiamo all’universo dei writer la questione non cambia. Perché l’attività del writer tenta di riscattare forme di soggettivizzazione (autopoietiche) attraverso una pratica individuale, ma che si produce anch’essa in forma antagonista alla comunicazione mediatica mercificata.

È a partire da questo scenario che il graffitista mette in opera una trasmutazione del valore della rappresentazione dello spazio sociale e della comunicazione che vi è connessa, e al modo di un bricoleur si muove in tutte le direzioni e tasta tutte le connessioni immaginarie delle superfici urbane, lasciando le tracce di un “mimetismo tribale”12.

Qui è evidente quanto la produzione dello spazio concerne non soltanto le merci, ma la produzione della storia, del diacronico, di una temporalità che è quella che s’inscrive sulle facciate delle città: in queste facciate come scrive Henry Lefebvre “vi è l’inscrizione della società in atto”13. L’arte ‘selvaggia’ del graffitista intacca la ‘società dello spettacolo’ con la socialità diffusa che opera una sorta di pratica della deriva urbana con i soli mezzi di una bomboletta spray e di un nome.

Eppure le immagini violente hanno un mercato e un pubblico, mentre la loro presenza garantisce una pulsione voyeuristica socialmente accettata. La questione allora non è il contenuto delle immagini, ma la loro forza di colonizzare gli spazi sociali e la loro possibilità di tradursi in veicolo del profitto economico.

Muro di Berlino, 2014

19

In questa prospettiva di controllo, i graffiti (più esattamente la pratica del writing), come anche il postgraffitismo d’oggi e tutte le forme di antagonismo dello sguardo, rientrano nelle procedure d’esclusione, eccetto rari casi. Non sono ammessi nella giungla delle immagini che popolano i nostri spazi. Se esistono è per la loro clandestinità, da cui traggono tutto il loro fascino e la loro potenza d’attrazione. Alla politica del non-tempo e del non-luogo perseguito dall’immagine della città come prolungamento di centri commerciali, e quindi alla politica della disindividuazione e della formazione di un soggetto universale e anonimo in cui tutti possono riconoscersi (il consumatore), i graffitisti oppongono la seduzione di mitologie personali, la loro territorializzazione e localizzazione spaziale. In tal senso svolgono un ruolo analogo a quello di artisti come Jeremy Deller e Francis Alÿs, le cui opere cercano di sollecitare una concezione dello spazio sociale e antropologico coniugando poetica e politica14.

Si fa strada un’ipotesi: nella società globalizzata la produzione di immagini è controllata, articolata attraverso un insieme di procedure e divieti che ne regolano il flusso. Allo spazio cellulare del potere cui corrisponde la funzionalità delle azioni dell’uomo, i graffiti

Valparaiso, Cile 2014

Gr

aff

iti

⊗20

rispondono con lo spazio sincretico (dis-funzionale) delle lettere e delle immagini. Michel Foucault parlava di “codificazione strumentale del corpo”15 nella costituzione del potere disciplinare, a cui occorre aggiungere, oggi, la codificazione strumentale dello sguardo. ‘Corpi docili’ e sguardi assoggettati sono alla base della produzione dello spazio nel capitalismo.

Si ha il diritto di mostrare qualsiasi immagine, ma solo se questa, anche se violenta, è monetizzabile e conforme al flusso mediatico mercificato e alla sussunzione del linguaggio al capitale16. Diversamente, anche l’immagine più innocua, la più seducente ed eccentrica come può esserlo un graffito, se tocca la sovranità del potere sulla produzione sociale dello spazio, non è certo che abbia diritto di esistere.

Nati nei ghetti, dalla repressione e dalle sommosse urbane negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta, continuano ad esistere, seppure con un senso oggi del tutto diverso e con procedure le cui ricorrenze stilistiche tracciano una mappa straordinariamente variegata di questi rituali di iniziazione all’alterità della visione.

La rivolta è fra noi.

Jeremy Deller, installazione a WIELS, Centre d'Art Contemporain, June–August 2012, Bruxelles

21

1. Le iniziative contro il “vandalismo grafico” negli ultimi anni si sono moltiplicate ovunque. A Milano è nata anche un’associazione dal nome eloquente: “Milano Muri Puliti”; La Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna ha stilato una carta contro “grafomani o tifosi, innamorati o filosofi di strada”, si tratta di un libro dal titolo “Contro il vandalismo grafico” pubblicato dalla edizioni Minerva; una recente legge a New York obbliga i proprietari dei negozi e dei condomini a ripulire le facciate. Questi sono soltanto alcuni esempi che investono il fenomeno dei graffiti, che rilevano un sintomo ben più profondo: un’alterità sociale irrisolta che si condensa in una specie di capro espiatorio delle profonde e violente contraddizioni che attraversano le superfici visibili delle città. Quanto alla pubblicità che spesso colonizza intere facciate di edifici di centri storici, questa ha mano libera.

2. Cfr. Lefebvre, Henry, La production de l’espace, Anthropos, Paris, 2000, p. 43. Faremo spesso riferimento a questo importante libro di Lefebvre.

3. La nozione di “comunità narrativa” che ho preso a riferimento nel mio saggio è stata efficacemente argomentata da Paolo Jedlowski in Il racconto come memoria, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

4. Cfr. Groys, Boris, Going Public. Scrivere d’arte in chiave non estetica, Postmedia Boooks, Milano 2013, p.12.

5. Baudelaire, Charles, “Il pittore della vita moderna”, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1981.

6. Buci-Glucksman, Christine., Filosofia dell’ornamento, Sellerio, Palermo, 2010, p. 36.

7. Cfr. Bourdieu, Pierre, “La production et la reproduction del la langue légitime”, in Langage et pouvoir symbolique, Seuil, Paris, 2001.

8. Cfr. Baqué, Dominique, Pour un nouvel art politique, Flammarion, Paris, 2006; si veda soprattutto il primo capitolo dal titolo “L’art en deça du politique” in cui l’autore analizza la massiccia preponderanza di un certo

“essenzialismo dell’intimità” che ha segnato la scena artistica contemporanea a scapito di quella rivolta al sociale. Per un’analisi del rapporto fra arte e società di massa si veda di Mikel Dufrenne, “Esiste l’arte di massa?” In Estetica e filosofia, Marietti, Genova, 1989.

9. Su questo aspetto si veda Frank Popper, “Deux formes d’art non éloitiste aux Etats-Unis (Les graffiti et la pentre murale “ethnique)”, in Revue d’Esthetique, n° ¾ 1974.

10. Graig Castleman, nel suo studio Getting Up: Subway Graffiti in New York, MIT Press, 1982) sottolineava nell’introduzione quanto questo fenomeno avesse provocato dure reazioni da parte della municipalità di New York. Alcune significative informazioni relative ai graffitisti della prima generazione si devono a questo studio; in effetti si tratta di una ricognizione sulla comparsa dei graffiti, poiché, tra l’altro, riporta un’intervista fatta dall’autore ad alcuni graffitisti della prima generazione come Lee163, Dust, Revolt, Tracy168, Crash, kase, T-Rex, Phase Two e altri.

11. Cfr. Berardi, Franco. (Bifo), Il sapiente, il mercante, il guerriero, Derive/Approdi, Roma 2004, p. 172.

12. Maffesoli, Michel, Il tempo delle tribù, Guerini, Milano 2004.

13. Lefebvre, Henry, cit. p.131.

14. Cfr. Macrì, Teresa, Politics/poetics, Postmedia Books, Milano 2014

15. Foucault, Michel, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1993.

16. Cfr. Christian Marazzi, Capitale e linguaggio, Derive/Approdi, Roma 2002.