43
Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo. Lettura liturgica di Papa Innocenzo III e di Tommaso d’Aquino Dominik Jurczak 1 I numerosi problemi inerenti la concelebrazione eucaristica nell’am- bito del rito romano – o forse meglio: la mancanza di una sua specifica visione – dipendono probabilmente dalla scarsa comprensione delle sue origini. Perciò, prima di analizzare come gli altri riti (sempre all’inter- no della Chiesa cattolica) intendono ed applicano la concelebrazione, occorre studiare come essa viene percepita dal rito romano nel corso della sua evoluzione. Soltanto con questo “epochè” metodologico, cioè senza proporre soluzioni troppo affrettate, che cercherebbero in qualche modo di approvare o rifiutare la pratica odierna, possiamo scoprire, per quanto possibile, che cosa significava la concelebrazione. Sebbene la storia non abbia valore normativo, nondimeno ci potrebbe aiutare a comprendere meglio ed a verificare l’idea contemporanea di concele- brazione nel rito romano, riducendo il rischio di “derive” ideologiche. Ovviamente in un articolo è impossibile esaminare tutta la storia, perciò ci limiteremo a focalizzare la nostra attenzione solo su un breve periodo, pur tuttavia assai significativo e ai due autori occidentali di massima rilevanza: Papa Innocenzo III (c. 1160-1216) e il domenicano Tommaso d’Aquino (c. 1225-1274). Naturalmente la scelta non è ca- suale, non solo per la loro sostanziale contemporaneità, ma soprattutto per l’enorme influenza sulla vita e sulla storia della Chiesa. Al riguardo basti ricordare la nuova idea di papato – il papa quale il “vicario di Cri- sto” (vicarius Christi) investito della “piena potestà” (plenitudo potestatis) – introdotta da Innocenzo III, o l’eccezionale sintesi teologica propo- sta da Tommaso d’Aquino che per lungo tempo determinò il modo di Dominik Jurczak, è un domenicano della Provincia di Polonia, membro dell’In- ternazionale Commissione Liturgica dell’Ordine dei Predicatori, licenza in dogmatica all’Università Pontificia di Cracovia (2011), e in Sacra Liturgia al Pontificio Istituto Liturgico (PIL) a Roma (2014). Ora dottorando al PIL. Ecclesia orans 32 (2015) 387-429

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo. Lettura liturgica di Papa Innocenzo III e di Tommaso d’Aquino [The Idea of Concelebration in the Thirteenth Century. Liturgical Lecture

Embed Size (px)

Citation preview

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo.Lettura liturgica di Papa Innocenzo III

e di Tommaso d’AquinoDominik Jurczak1

I numerosi problemi inerenti la concelebrazione eucaristica nell’am-bito del rito romano – o forse meglio: la mancanza di una sua specifica visione – dipendono probabilmente dalla scarsa comprensione delle sue origini. Perciò, prima di analizzare come gli altri riti (sempre all’inter-no della Chiesa cattolica) intendono ed applicano la concelebrazione, occorre studiare come essa viene percepita dal rito romano nel corso della sua evoluzione. Soltanto con questo “epochè” metodologico, cioè senza proporre soluzioni troppo affrettate, che cercherebbero in qualche modo di approvare o rifiutare la pratica odierna, possiamo scoprire, per quanto possibile, che cosa significava la concelebrazione. Sebbene la storia non abbia valore normativo, nondimeno ci potrebbe aiutare a comprendere meglio ed a verificare l’idea contemporanea di concele-brazione nel rito romano, riducendo il rischio di “derive” ideologiche.

Ovviamente in un articolo è impossibile esaminare tutta la storia, perciò ci limiteremo a focalizzare la nostra attenzione solo su un breve periodo, pur tuttavia assai significativo e ai due autori occidentali di massima rilevanza: Papa Innocenzo III (c. 1160-1216) e il domenicano Tommaso d’Aquino (c. 1225-1274). Naturalmente la scelta non è ca-suale, non solo per la loro sostanziale contemporaneità, ma soprattutto per l’enorme influenza sulla vita e sulla storia della Chiesa. Al riguardo basti ricordare la nuova idea di papato – il papa quale il “vicario di Cri-sto” (vicarius Christi) investito della “piena potestà” (plenitudo potestatis) – introdotta da Innocenzo III, o l’eccezionale sintesi teologica propo-sta da Tommaso d’Aquino che per lungo tempo determinò il modo di

Dominik Jurczak, è un domenicano della Provincia di Polonia, membro dell’In-ternazionale Commissione Liturgica dell’Ordine dei Predicatori, licenza in dogmatica all’Università Pontificia di Cracovia (2011), e in Sacra Liturgia al Pontificio Istituto Liturgico (PIL) a Roma (2014). Ora dottorando al PIL.

Ecclesia orans 32 (2015) 387-429

388

fare teologia nell’Occidente cristiano. Nonostante la loro poca distanza temporale, ma appartenendo a due ambiti distinti, essi affrontano la questione in modi alquanto diversi. Non soltanto perché uno fu vesco-vo di Roma e l’altro frate dell’Ordine dei Predicatori e probabilmente il domenicano più conosciuto, ma perché il loro modo di fare teologia differì, basandosi sostanzialmente su diverse metodologie. Tommaso d’Aquino, contrariamente a Innocenzo III, visse e operò quando l’in-segnamento di Aristotele nelle università non era contestato1. Inoltre, Aristotele non era più conosciuto tramite Boezio o con la “Logica nuo-va” (lo studio scientifico del sillogismo e delle differenti specie di di-mostrazione), «come maestro di ragionamento, ma come maestro della conoscenza dell’uomo e del mondo»2. In altre parole, cambiò la “col-locazione” della teologia nella mappa dei saperi, venendo ad operare in qualche modo sotto il più stretto controllo del ragionamento filosofico, nella visione coerente dell’universo3. Perché dunque esaminare insieme Innocenzo III e Tommaso d’Aquino, se già il vivere nella stessa epoca e la formazione fatta quasi nel medesimo contesto culturale – come, ad esempio, la lettura dei quattro libri delle “Sentenze”4 (Quattuor Libri Sententiarum) di Pietro Lombardo che erano utilizzati di fatto come una specie di manuali nello studio della sacra doctrina – potrebbero sembrare elementi sufficienti? Lo si fa perché in questo modo procedet-te Tommaso d’Aquino: affrontando il problema della concelebrazione considerò Papa Innocenzo III come auctoritas. In questo lavoro allora si cercherà di capire come i suddetti autori intendono la concelebrazione. Partendo dal pensiero di Tommaso d’Aquino, si analizzerà in seguito ciò che su quel tema ha scritto Innocenzo  III, per poter arrivare ad alcune conclusioni.

1 Cf. M.-D. Chenu, Introduction a l’etude de saint Thomas d’Aquin, Institut d’études médiévales, Montréal 51993, 28-34.

2 I. Biffi, Mirabile Medioevo, Jaca Book, Milano 2009, 30. Cf. Y. Congar, «Théologie», in Dictionnaire de Theologie Catholique, vol. 15/1, Letouzey et Ané, Paris 1946, 359-360.

3 Cf. Biffi, Mirabile Medioevo, 22-40.4 Cf. Pietro Lombardo, Sententiae in IV libris distinctae (Spicilegium Bonaven-

turianum 5), Collegii S. Bonaventurae ad Claras Aquas, Grottaferrata (Romae) 31981.

Dominik Jurczak

389

In primis, bisogna constatare che nelle opere di Tommaso d’Aquino l’argomento della concelebrazione viene considerato explicite solo due volte, cioè quando commenta i quattro libri delle “Sentenze” di Pietro Lombardo e nella sua Summa Theologiae. In questo lavoro ci si è limitati soltanto a questi due frammenti, nella consapevolezza che per la com-pletezza dello studio bisognerebbe verificare anche gli altri momenti in cui Tommaso implicite presuppone la concelebrazione o addirittura la descrive. Occorre notare inoltre che i suddetti brani vengono redatti con più di quindici anni di distanza tra di loro. Tommaso scrive il com-mento alle “Sentenze” immediatamente dopo le lezioni che aveva dato nel biennio 1254-1256 presso il convento di Saint-Jacques a Parigi5, ovvero prima di ricevere la licentia docendi. Si tratta quindi di un opera giovanile che «dimostra l’impegno di studio, l’intensa attività scolasti-ca, la progressiva maturazione della personalità del giovane baccelliere parigino»6. Al lato opposto occorre collocare la terza parte della Summa alla stesura della quale Tommaso lavora poco prima della sua morte nel 1274, dopo il ritorno al convento di San Domenico a Napoli7. L’argo-mento della concelebrazione, dunque, compare tra le ultime questioni compilate dal Doctor Angelicus.

1. Il commento alle “Sentenze”

Per quanto concerne il commento ai libri delle “Sentenze” di Pietro Lombardo, bisogna osservare che Tommaso segue la composizione e la struttura dell’opera congegnata dall’autore che fa riferimento alle ca-tegorie proposte da Agostino: res et signa, frui et uti, ma non in modo pedissequo. Come gli altri commentatori dell’epoca non si limita a fare soltanto una expositio che analizzi (divisio textus) e letteralmente spie-ghi (expositio textus) un certo brano delle “Sentenze”, ma va più avanti.

5 Cf. Chenu, Introduction, 229.6 R. Spiazzi, San Tommaso d’Aquino. Biografia documentata di un uomo buono,

intelligente, veramente grande, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995, 76. Cf. J.-P. Torrell, Initiation a saint Thomas d’Aquin. Sa personne et son oeuvre, Cerf, Paris 1993, 79.

7 Cf. Chenu, Introduction, 257; Cf. Torrell, Initiation a Saint Thomas d’Aquin, 381-382; Cf. Spiazzi, San Tommaso d’Aquino, 308-330.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

390

Tommaso concentra tutti gli sforzi nel risolvere le questioni apparse du-rante la lettura del testo. In questa maniera ogni commentatore, più che esegeta, si presenta come un maestro rivelando la verità e offrendo la sua spiegazione più profonda e più convincente. Da dove, quindi, derivano le perplessità? Ad esempio, da un pensiero poco chiaro che converrebbe precisare, o quando le due auctoritas presentano opinioni divergenti dando diverse risposte allo stesso problema, in tal senso sarebbe allora necessario, da parte del maestro, far leva sulla sua autorevolezza per dimostrare la sua corretta interpretazione della realtà8.

In questa prospettiva la questione della concelebrazione appare nel commento del quarto e ultimo libro delle “Sentenze”, ivi Tommaso, dopo aver considerato il battesimo e la cresima, analizza tutti gli aspetti dell’Eucaristia in quarantadue articoli (che in seguito vengono spezzati in più piccole questioni, quaestiuncula). Il problema della concelebra-zione non introduce il discorso sull’Eucaristia, anzi, viene esaminato verso la fine, dopo le risposte sulla natura del sacramento, la forma, la materia, ecc. La concelebrazione, quindi, sorge intorno al problema del “rito della consacrazione” (ritus consecrandi) che Tommaso prende in esame studiando la persona del “ministro che consacra” (minister consecrans). E ancora, in altre parole, Tommaso, mentre commenta ciò che Pietro Lombardo nelle “Sentenze” aveva scritto sull’Eucaristia, dopo aver esaminato la natura, la materia e la forma del sacramento, comincia ad analizzare il ruolo del “ministro che consacra”. Prosegue scrutando tre prospettive: chi possa consacrare (quis possit consecrare), il rito della consacrazione (de ritu consecrandi) e l’amministrazione del sa-cramento (de dispensatione sacramenti)9. Intorno alla seconda, ovvero il “rito di consacrazione”, pone sei piccole questioni (quaestiuncula): (1) se sia lecito per un sacerdote astenersi completamente dalla consacra-zione, (2) se sia possibile che più ministri consacrino nello stesso tempo la medesima ostia, (3) se la messa debba essere celebrata nella Chiesa quotidianamente o (4) nell’ora vespertina, (5) se sia necessario che essa venga celebrata in un luogo sacro ed, infine, (6) qualora si palesassero

8 Cf. Chenu, Introduction, 77-83; 226-237.9 Cf. Tommaso d’Aquino, Scriptum super libros Sententiarum Magistri Petri Lom-

bardi, Episcopi Parisiensis [= Super Sent.], ed. M.F. Moos, P. Lethielleux, Parisiis 1947, lib. 4 d. 13 q. 1 pr.

Dominik Jurczak

391

delle omissioni riguardo alle cose predette, se vi sia la consacrazione10. Il problema della concelebrazione spunta precisamente nel momento in cui Tommaso riflette sulla seconda quaestiuncula, sempre nel contesto degli interrogativi sul “ministro che consacra” esercitando (o no) il “rito della consacrazione”.

Seguendo il metodo scolastico Tommaso comincia: «sembra che più [ministri] non possano consacrare nello stesso tempo la medesi-ma ostia»11. Subito dopo inizia a cercare tutti gli argomenti possibili, pro e contra, per mostrare tutta l’articolazione del problema. La prima obiezione si riferisce alla co-consacrazione (la consacrazione della me-desima ostia, nello stesso momento, da parte di parecchi ministri)12, ma la dimostrazione si trasforma subito in un discorso sulla dignità del sacramento:

Poiché di più agenti vi sono più azioni, soprattutto quando ciascuno [di loro] è sufficiente ad agire. Altresì, soltanto un solo sacerdote può consacrare. Quindi, se più consacrano simultaneamente, vi sono più consacrazioni sopra la stessa ostia; e così si fa ingiuria al sacramento13.

In altre parole, il co-consacrare, lasciando da parte la questione della sua attuabilità, dal punto di vista del sacramento rischia l’injuria ad esso, ovvero, che i più sacerdoti consacrino più volte la medesima ostia che è già stata consacrata.

Soltanto la seconda obiezione si riferisce alla possibilità di una co-consacrazione: «Mentre uno [dei ministri] pronuncia le parole, consa-cra in virtù delle parole. Ora, ciò che è diventato, non può divenire;

10 Cf. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 1-6.11 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 arg. 1: Videtur

quod non possint plures simul eamdem hostiam consecrare. Quia plurium agentium sunt plures actiones, maxime quando unusquisque sufficit ad agendum. Sed unus sacerdos tan-tum potest consecrare. Ergo si plures simul consecrent, sunt plures consecrationes super eamdem hostiam; et ita fit injuria sacramento. Tutte le traduzioni dei testi di Tommaso d’Aquino sono dell’autore.

12 In questo articolo per il temine “co-consacrazione”, anche se né Innocenzo III né Tommaso d’Aquino lo adoperano, si sottintende l’azione di più sacerdoti che con-sacrano insieme nello stesso momento la medesima ostia.

13 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 arg. 1.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

392

perché ciò che è, non diventa. Quindi, gli altri [ministri] non fanno nulla. In conseguenza, quello che dicono è superfluo»14.

In questa maniera Tommaso presenta due argomenti vigorosi per ri-fiutare la co-consacrazione: è impossibile che più sacerdoti si accordino perfettamente nel pronunciare le parole della consacrazione (il difetto della forma del sacramento), per di più, se anche ipoteticamente lo si può supporre, la loro azione potrebbe fare ingiuria al sacramento (il difetto della materia del sacramento).

Per difendere questa pratiche Tommaso trova un solo argomento: «C’è la consuetudine di alcune Chiese in cui i nuovi sacerdoti concele-brano con il vescovo nello stesso tempo»15. Alla luce di questa prospet-tiva il maestro propone la soluzione del problema:

Secondo l’usanza di alcune Chiese più sacerdoti concelebrano con il vescovo mentre vengono ordinati; per rappresentare che il Signore, quando istituì questo sacramento e diede ai suoi discepoli il potere di consacrare, cenò assieme con loro, come il vescovo celebra nello stesso tempo con i presbiteri che vengono ordinati16.

In seguito, ovvero dichiarando già la soluzione, bisogna che il ma-estro stesso confuti le obiezioni sollevate precedentemente. Così Tom-maso risponde:

Alla prima: siccome per il compimento dei sacramenti bisogna [ave-re] l’intenzione, così, quando tutti hanno l’intenzione di compiere una sola consacrazione, non vi è lì se non una sola consacrazione.

Alla seconda: come dice Innocenzo, tutti i concelebranti devono ri-ferire l’intenzione a quell’istante in cui il vescovo proferisce le parole; e

14 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 arg. 2: Praeterea, unus dicens verba, virtute verborum consecrat. Sed quod factum est, fieri non potest; quia quod est, non fit. Ergo alii nihil faciunt; ergo superfluum est quod dicunt.

15 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 s. c. 1: Sed contra est consuetudo quarumdam Ecclesiarum, in quibus novi sacerdotes simul episcopo conce-lebrant.

16 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 co.: […] Secundum morem quarumdam Ecclesiarum plures sacerdotes episcopo concelebrant, quando ordinan-tur; ad repraesentandum, quod quando dominus hoc sacramentum instituit, et potestatem consecrandi discipulis dedit, eis concoenavit, sicut episcopus simul cum ordinatis presbyteris celebrat.

Dominik Jurczak

393

così l’intenzione del vescovo non viene defraudata, né alcuno lì compie ciò che è stato compiuto17.

Dopo aver presentato tutto il ragionamento, un’altra volta occor-re fare riferimento al contesto in cui compare il tema della concele-brazione. Non è da tralasciare il fatto che Tommaso non la consideri come quaestio, o come articulus, o quaestiuncula. Ciò che richiama la sua attenzione è il problema della co-consacrazione al cui intorno la concelebrazione, come “la consuetudine di alcune Chiese”, porta un ar-gomento in suo favore. In altre parole, non è la concelebrazione oggetto dell’analisi, ma la (im)possibilità della co-consacrazione. Infatti, il nu-cleo del dubbio lede la condizione di proferire le parole necessarie alla consacrazione18, affinché tutti i ministri le pronuncino insieme, come se fossero un unico ministro, per astenersi dal pericolo di consacrare ciò che è già consacrato ed evitare, di conseguenza, l’ingiuria al sacramento. Il problema che emerge è molto grave: o davvero si consacra in virtù delle parole (verba consecratoria), o bisogna rivedere il concetto della forma del sacramento. In ogni caso, al lato opposto Tommaso mette “la consuetudine di alcune Chiese” in cui i nuovi sacerdoti celebra-no insieme al vescovo. Infine quell’argomento è vincente e ciò, da una parte stupisce, dall’altra, dimostra l’umiltà di Tommaso e il suo inne-gabile sentire cum Ecclesia. Anche se la razionalità a primo avviso rifiuti la possibilità della co-consacrazione, nondimeno esiste una praxis della Chiesa, anche se applicata in momenti particolari, quasi occasionali, che però bisogna approfondire e spiegare.

Tuttavia Tommaso non risponde alle perplessità poste all’inizio della quaestiuncula: se più ministri possano consacrare insieme la medesi-ma ostia. La sua risposta si riferisce alla pratica della concelebrazione esistente in alcune Chiese. Afferma soltanto che «quando tutti hanno l’intenzione di compiere una sola consacrazione, non vi è lì se non una

17 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 ad 1-2: Ad primum ergo dicendum, quod quia intentio requiritur ad perfectionem sacramentorum, ideo, cum omnes habeant intentionem unam consecrationem faciendi, non est ibi nisi una tantum consecratio. Ad secundum dicendum, quod sicut Innocentius dicit, omnes celebrantes de-bent intentionem referre ad illud instans in quo episcopus verba profert; et sic episcopi intentio non defraudatur, nec aliquis ibi facit quod factum est.

18 Cf. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 arg. 2.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

394

sola consacrazione»19. Sembra, quindi, che la concelebrazione sia un si-nonimo della co-consacrazione. Non è però illecita un’altra interpreta-zione. Infatti, per giustificare la pratica esistente nella Chiesa Tommaso sposta il problema del pronunciare simultaneamente le stesse parole in quello d’avere la medesima «intenzione a quell’istante in cui il vesco-vo proferisce le parole»20. In conseguenza si potrebbe constatare che, nonostante si tratti di azioni somiglianti, la concelebrazione non sia la co-consacrazione, non si limiti al problema del pronunciare insieme le medesime parole, non si tratti di una sorta del pleonasmo. Dicendo di-versamente, per descrivere la concelebrazione come il vero sacramento dell’Eucaristia non basta il criterio delle parole (la forma del sacramen-to), che è sufficiente nel caso in cui consacra un solo ministro. Quando sono più d’uno a celebrare, per non rifiutare la pratica della Chiesa, bisogna “relativizzare” il citato principio ed “introdurne” un altro: oltre abituale «l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa»21, anche «l’intenzione di compiere una sola consacrazione»22.

Come mai Tommaso non approfondisce questo argomento? Forse perché la concelebrazione non viene conosciuta come consuetudine universale. Si parla di celebrazione vescovile, ovvero di una celebrazione molto particolare, in cui si ordinano i nuovi sacerdoti, ma che ripro-duce l’abitudine soltanto di alcune Chiese. Questo potrebbe significare che forse erano più usuali le celebrazioni nelle quali, coloro che veni-vano ordinati, non celebravano con il vescovo ordinante. In definitiva la concelebrazione, vista come azione di più ministri in cui si compie una sola consacrazione, pone domande serie sia sul concetto della for-ma del sacramento, sia sul ruolo dei ministri (tranne il vescovo), ma questo, nel contesto di tutto il discorso di Tommaso, sembra marginale e aggiuntivo.

Lasciando da parte il problema principale della quaestiuncula, ovvero la possibilità della co-consacrazione, sarebbe opportuno considerare ora

19 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 ad 1.20 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 ad 2.21 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 8 q. 2 a. 4 qc. 3 ad 1: […] Quod ad

sacramentum requiritur intentio faciendi quod facit Ecclesia in essentialibus sacramento, non autem in his quae pertinent ad decorem vel solemnitatem sacramenti […].

22 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 ad 1.

Dominik Jurczak

395

il “perché” della concelebrazione che Tommaso espone nel corpo della questione. Spiega infatti che essa si fa “per rappresentare” (ad repraesen-tandum) l’ultima cena quando il Signore «istituì questo sacramento e diede ai suoi discepoli il potere di consacrare»23. Gesù mangiò in quel momento con i suoi discepoli, così come il vescovo celebra insieme con i presbiteri che vengono ordinati. Dunque, il fine della concelebrazione non si deve focalizzare per forza sulla consacrazione – anche se, al di là del fare ciò che abitualmente fa la Chiesa, la si compie in unione tra le intenzioni degli altri ministri e quella del vescovo proferendo le parole nelle quali consiste la forma dell’Eucaristia – ma finisce per assumere un altro valore: quello che la colloca al livello di immagine, cioè ad repraesentandum.

Per capire meglio che cosa Tommaso intende per azione di rappre-sentazione occorre osservare i brani paralleli, sempre all’interno del suo commento alle “Sentenze”. Ad esempio, mentre Tommaso riflette sul-la materia del sacramento dell’Eucaristia, indica cinque motivi per cui debbano essere il pane e il vino, tra cui ci interessano soltanto i due ultimi.

Quarto [può essere dato] per la significazione della duplice realtà di questo sacramento: perché il pane è confezionato con molti grani e il vino confluisce da molti acini; ciò che spetta a significare il corpo di Cristo vero e mistico […]. Quinto, per la rappresentazione di ciò che precedé: infatti i grani vengono composti nell’aia, il pane cotto nel forno e il vino spremuto nel torchio; tutte queste cose sono adatte a rappresentare la passione di Cristo24.

Secondo Tommaso, il pane e il vino concorrono in modo corretto sia “a significare” (ad significandum) il corpo di Cristo che “a rappresen-tare” (ad repraesentandum) la sua passione. Non significano la passione di Cristo ma la rappresentano. In modo analogico si potrebbe afferma-

23 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 co.24 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 11 q. 2 a. 1 qc. 2 co.: Quarta ex

significatione duplicis rei hujus sacramenti: quia panis ex multis granis conficitur, et vi-num ex multis acinis confluit; quod competit ad significandum corpus Christi verum et mysticum […]. Quinta ex repraesentatione ejus quod praecessit: nam grana in area con-culcantur, et panis in fornace decoquitur, et vinum in torculari exprimitur; quae omnia competunt ad repraesentandum passionem Christi.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

396

re che la concelebrazione, durante la messa in cui vengono ordinati i nuovi ministri, possa rappresentare l’ultima cena: non la significa, ma la rappresenta.

In un altro frammento, oppure nella “spiegazione del testo” (expo-sitio textus) di Pietro Lombardo commentando una delle affermazioni secondo la quale «nel sacramento [dell’Eucaristia] si fa memoriale di ciò che è stato fatto una volta sola»25, Tommaso dichiara: «il sacerdote rappresenta la passione di Cristo non solo con le parole, ma anche con i fatti»26. Dopo di che, facendo una specie di expositio missae, individua gli esempi concreti nel canone della messa e fra di loro «cinque croci sulle parole: Victima pura, ecc., per rappresentare le cinque piaghe»27. Quindi, se il fine delle cinque croci fatte sulle parole proprie nel canone è “per rappresentare” (ad repraesentandum) le cinque piaghe di Cristo, così, analogicamente, i nuovi sacerdoti che concelebrano insieme con il vescovo nell’Eucaristia della loro ordinazione potrebbero rappresentare l’ultima cena, quando Gesù mangiando insieme con gli apostoli «istituì questo sacramento e diede ai suoi discepoli il potere di consacrare»28. Ovvero, come cinque croci si riferiscono alla passione di Cristo, così la concelebrazione si riferisce all’ultima cena.

Occorre infine analizzare il frammento, ove Tommaso studia che cos’è un sacramento. Considerando la definizione di Pietro Lombardo, “il sacramento è un segno di una cosa sacra” (sacramentum est signum rei sacrae), Tommaso richiama il serpente di bronzo dal libro dei Numeri che, nonostante sia un segno della cosa sacra, cioè della croce di Cristo, non viene riconosciuto come un sacramento29. Spiegando il problema dichiara:

25 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 12 q. 3 a. 2 qc. 3 expos.: «In sacra-mento recordatio illius fit quod factum est semel». Sacerdos enim non solum verbis, sed etiam factis, Christi passionem repraesentat. Unde et in principio canonis tres cru-ces facit […]. Quarto facit quinque cruces super illud: «hostiam puram» etc. ad reprae-sentandum quinque plagas.

26 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 12 q. 3 a. 2 qc. 3 expos.27 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 12 q. 3 a. 2 qc. 3 expos.28 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 co.29 Cf. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 1 q. 1 a. 1 qc. 1 arg. 3.

Dominik Jurczak

397

Nonostante il serpente di bronzo fosse il segno di una cosa sacra consacrante, non però in quanto è consacrante in atto: perché non ve-niva adoperato affinché fosse ricevuto qualche effetto di santificazione, ma solo l’effetto di una guarigione esteriore; e lo stesso si dica dell’im-magine della croce, che viene posta soltanto a rappresentare30.

Dunque, sia il serpente di bronzo che l’immagine della croce non hanno di per sé la capacità di santificazione, tuttavia sono “per rappre-sentare” (ad repraesentandum) l’azione che porta la santificazione. In modo analogico si potrebbe supporre che al livello d’immagine, cioè sempre lasciando da parte il problema della consacrazione, la sola con-celebrazione non ha capacità di santificare, ma viene adoperata per rap-presentare (nel senso iconografico) l’evento dell’ultima cena.

Per concludere il commento di Tommaso alle “Sentenze” di Pietro Lombardo, ciò che emerge dalla lettura è il concetto della concelebra-zione non necessariamente vista nell’ottica della co-consacrazione, ma come l’azione di più ministri, fra cui sempre si trova il vescovo che proferisce le parole. Per di più, in questo contesto molto specifico ed unico, ovvero della messa in cui si ordinano i nuovi sacerdoti, la conce-lebrazione crea un’immagine aggiuntiva: non soltanto della passione di Cristo, ma anche dell’ultima cena.

2. Summa Theologiae

Andando ora alla Summa Theologiae, ovvero all’opera che Tommaso compone almeno quindici anni dopo il commento alle “Sentenze” e poco prima della sua scomparsa (†1274), nel primo passo occorre de-terminare il contesto in cui appare la questione della concelebrazione. Esso sembra molto simile, non è tuttavia uguale.

Infatti, Tommaso, dopo aver considerato i sacramenti in generale, li analizza dettagliatamente l’uno dopo l’altro, come nel commento alle “Sentenze”. Nella Summa però, a causa della sua morte, lo studio sui

30 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 1 q. 1 a. 1 qc. 1 ad 3: Ad tertium dicendum, quod quamvis serpens aeneus esset signum rei sacrae sacrantis, non tamen in-quantum sacrans est actu: quia non ad hoc adhibebatur ut aliquis sanctificationis effectus perciperetur; sed solum effectus exterioris curationis; et similis est ratio de imagine crucis, quae ponitur tantum ad repraesentandum.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

398

sacramenti non è completo. Tommaso è riuscito ad esaminarne com-pletamente solo tre: il battesimo, la cresima, l’Eucaristia ed ha lasciato solo una parte sulla penitenza. Esaminando il terzo, cioè l’Eucaristia, inizia dalle questioni fondamentali, e successivamente considera la ma-teria e forma, gli effetti, la ricezione, il ministro ed, infine, il rito31. La concelebrazione quindi, sia nel commento alle “Sentenze” che nella Summa, sorge all’interno delle questioni sull’Eucaristia, quando si ri-flette sul ministro. Per di più, in entrambi i casi essa non si pone come il problema principale, ma viene considerata come a fianco degli altri. La concelebrazione è esaminata in un ambito molto concreto del sacra-mento, condizionato inter alia dalle risposte precedenti.

Quindi, quale è la differenza nel contesto? Nel commento alle “Sen-tenze” Tommaso considera la concelebrazione nella prospettiva delle domande sul ministro che consacra esercitando (o no) il rito della con-sacrazione, invece nella Summa i problemi collegati con il rito costitui-scono una questione distinta, dedicata esclusivamente ad essi32. Sembra che Tommaso tenti di riorganizzare tutto il materiale approfondendolo, per ottenere la migliore chiarezza. Quali però sono le conseguenze dei suddetti spostamenti? Non è da escludere che distaccare e liberare il problema del rito dalla questione del ministro, da un lato valorizzi mag-giormente il significato del rito stesso, ma che, dall’altra parte, colleghi il problema della concelebrazione con il ministro di maggior peso. Co-munque, gli accenti e la prospettiva cambiano33.

Nel nuovo contesto, ossia nella questione ottantadue della Summa dedicata soltanto alla persona del ministro del sacramento dell’Euca-ristia, Tommaso pone una domanda simile alla precedente: «se più sa-cerdoti possano consacrare insieme la medesima ostia»34. Subito dopo,

31 Cf. Thomas Aquinas [o Tommaso d’Aquino], Opera omnia iussu impensaque Leonis XIII P. M. edita, t. 11-12: Tertia pars [= IIIª] Summae theologiae [= ST], Ex Ty-pographia Polyglotta S. C. de Propaganda Fide, Romae 1903-1906, q. 73-83.

32 Cf. Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 83.33 Cf. P.-M. Gy, «Avancées du traité de l’Eucharistie de S. Thomas dans la Somme

par rapport aux Sentences», Revue des sciences philosophiques et theologiques 77 (1993) 220.

34 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 pr.: Utrum plures sacerdotes simul possent eandem hostiam consecrare. Cf. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 arg. 1.

Dominik Jurczak

399

usando il metodo già conosciuto, presenta gli argomenti contra la sud-detta questione:

[…] Più individui non possono battezzare una medesima persona. Però, la capacità di un sacerdote che consacra non è minore di quella di uno che battezza. Quindi più sacerdoti non possono consacrare nello stesso momento una medesima ostia.

In seguito, ciò che può essere fatto da uno, è superfluo fatto da mol-ti. Nei sacramenti di Cristo infatti non ci deve essere nulla di superfluo. Poiché uno è sufficiente a consacrare, sembra che molti non possono consacrare un’ostia.

Inoltre, come dice Agostino, questo sacramento è un “sacramento dell’unità”. Ma la pluralità è contraria all’unità. Pertanto, non sembra conveniente a questo sacramento che più sacerdoti consacrino una me-desima ostia35.

Si nota che Tommaso cambia il modo di argomentare, o forse me-glio, come la sua argomentazione diventa più misurata e precisa. Infatti, sin dall’inizio introduce il concetto di “capacità di un sacerdote” (vis sacerdotis) quando gestisce un sacramento, per poter trovare l’analogia tra i sacramenti e, di conseguenza, per proporre l’argomento contra che non compariva in precedenza: siccome «più individui non possono bat-tezzare una medesima persona», così «più sacerdoti non possono consa-crare nello stesso momento una medesima ostia»36.

Inoltre occorre osservare come Tommaso decisamente attenua l’ar-gomento dell’ingiuria al sacramento che nel commento alle “Sentenze” è particolarmente presente. La sua dimostrazione nella Summa deriva più dalla comparazione con le altre azioni di un sacerdote che dalla “preoccupazione dogmatica” della materia e della forma del sacramen-

35 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 arg. 1-3: Dictum est enim supra quod plures non possunt unum baptizare. Sed non minor vis est sacerdotis consecrantis quam ho-minis baptizantis. Ergo etiam non possunt simul plures unam hostiam consecrare. Praete-rea, quod potest fieri per unum, superflue fit per multos. In sacramentis autem Christi nihil debet esse superfluum. Cum igitur unus sufficiat ad consecrandum, videtur quod plures non possunt unam hostiam consecrare. Praeterea, sicut Augustinus dicit, hoc sacramentum est sacramentum unitatis. Sed contrarium unitati videtur esse multitudo. Ergo non videtur conveniens esse huic sacramento quod plures sacerdotes eandem hostiam consecrent.

36 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 arg. 1.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

400

to, vale a dire, come se Tommaso non volesse limitare tutto il problema della co-consacrazione alla sua possibilità o impossibilità. Essa piuttosto viene vista come vana superfluità che non conviene al sacramento, e non come ingiuria fatta ad esso.

Nella stessa prospettiva compare l’ultimo argomento, ex auctoritate, assente in precedenza, ove Tommaso richiama la descrizione dell’Eu-caristia di Agostino, concepita come un “sacramento dell’unità”. Dato che in primo luogo ogni sacramento deve attuare ciò che significa, la co-consacrazione, coinvolgendo più ministri, infrange la sua res, cioè lo contraddice al livello dell’immagine. In conseguenza, essa non conviene al “sacramento dell’unità”.

Occorre constatare che le obiezioni nella Summa, paragonandole con quelle dal commento alle “Sentenze”, sono ampliate ed elaborate più accuratamente. Infatti, Tommaso sviluppa gli argomenti sia della “capacità di un sacerdote” (vis sacerdotis) che della res sacramentum, pre-senti prima solo in modo implicite. Anche l’ingiuria al sacramento, il centro dell’argomentazione precedente, diventa ora la dimostrazione ex convenientia che non tanto si concentra sulla possibilità o impossibilità di co-consacrare, quanto sul trovare la propria ottica del problema.

Da dove possono venire le suddette trasformazioni? Probabilmente dalla forza dell’argomento in favore alla co-consacrazione che, al con-trario delle obiezioni, rimane immutato: «Secondo la consuetudine di alcune Chiese i sacerdoti, quando vengono ordinati, concelebrano con il vescovo che li ordina»37. Sembra che Tommaso perfettamente si ren-da conto che la co-consacrazione è la consuetudine per la quale bisogna o trovare la spiegazione, o negare la praxis di alcune Chiese. Quale ri-sposta propone Tommaso?

[…] Il sacerdote mentre viene ordinato, viene inserito nel grado di coloro che ricevettero dal Signore nella Cena il potere di consacrare. Perciò secondo la consuetudine di alcune chiese, come gli Apostoli con-cenarono con Cristo che cenava, così i nuovi ordinati concelebrano con il vescovo che li ordina. Nel qual caso la medesima ostia non viene con-

37 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 s. c.: Sed contra est quod, secundum consuetudinem quarundam Ecclesiarum, sacerdotes, cum de novo ordinantur, concele-brant episcopo ordinanti.

Dominik Jurczak

401

sacrata più volte: poiché, come dice Innocenzo III, tutti allora devono avere l’intenzione di consacrare nel medesimo istante38.

Ancora una volta Tommaso opta per la consuetudine della Chiesa appoggiandosi su Innocenzo III e sul suo concetto dell’avere la stessa intenzione di consacrare nel medesimo istante. Però, a differenza del commento alle “Sentenze”, Tommaso riprende “di propria iniziativa” la spiegazione del Papa o, per meglio dire, essa non compare come la risposta all’obiezione concreta, ma proprio come la soluzione nel corpo dell’articolo.

Tommaso cambia anche la prospettiva mentre parla del “potere di consacrare” (potestas consecrandi). Nel commento alle “Sentenze” esso è stato dato ai discepoli durante l’ultima cena e i nuovi sacerdoti con-celebrano con il vescovo che li ordina soltanto per rappresentare quel momento. Nella Summa, invece, il “potere di consacrare” appartiene al sacerdote che dal momento dalla sua ordinazione «viene inserito nel grado di coloro che ricevettero dal Signore nella Cena il potere di consacrare»39. Per questo motivo il nuovo sacerdote, avendo l’intenzio-ne di consacrare nel medesimo istante, può co-consacrare insieme con il vescovo.

In ogni caso, prima di giungere a una conclusione generale, è op-portuno verificare le risposte che Tommaso offre come le soluzioni alle difficoltà.

Alla prima: Non si legge che Cristo battezzasse insieme con gli apo-stoli quando impose loro l’ufficio di battezzare. Perciò il paragone non regge.

Alla seconda: Se ciascun sacerdote agisse per virtù propria, gli altri celebranti sarebbero superflui, bastandone uno solo. Ma poiché il sa-cerdote non consacra che in persona di Cristo, e i molti non sono che

38 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.: […] Sacerdos, cum ordinatur, con-stituitur in gradu eorum qui a domino acceperunt potestatem consecrandi in cena. Et ideo, secundum consuetudinem quarundam Ecclesiarum, sicut apostoli Christo cenanti concenaverunt, ita novi ordinati episcopo ordinanti concelebrant. Nec per hoc iteratur consecratio super eandem hostiam, quia, sicut Innocentius III dicit, omnium intentio de-bet ferri ad idem instans consecrationis.

39 Cf. Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

402

“una cosa sola in Cristo”, poco importa che questo sacramento venga consacrato da uno o da molti, purché si ripeta il rito della Chiesa.

Alla terza: L’Eucaristia è il sacramento dell’unità ecclesiastica, la quale risulta dal fatto che molti sono “una cosa solo in Cristo”40.

Le soluzioni presentate de facto confermano le osservazioni espresse prima: Tommaso non insiste nel risolvere il problema della co-consa-crazione nella prospettiva della possibilità o impossibilità di compierla senza fare ingiuria al sacramento, ma semplicemente assume la consue-tudine della concelebrazione di alcune Chiese come fatto innegabile, che bisogna approfondire e spiegare. Perciò tutta la sua argomentazio-ne è volta ad indagare i problemi emersi nelle obiezioni, cercando di dare infine una risposta accettabile sia dal punto di vista del sacramento dell’Eucaristia che del suo ministro.

Tra le tracce scelte da Tommaso emerge la questione del “potere di consacrare”, che caratterizza tutti gli ordinati al sacerdozio. Infat-ti, esaminando le azioni di più sacerdoti che co-consacrano insieme, Tommaso rifiuta l’argomento della superfluità del loro agire. Il ragio-namento potrebbe essere stato valido perfino soltanto se si presume che ognuno di essi opera “per virtù propria” (in virtute propria), tuttavia, come dimostra Tommaso, «il sacerdote non consacra che in persona di Cristo»41. In altre parole, nella messa in occasione dell’ordinazione, sono i nuovi sacerdoti che consacrano insieme con il vescovo, non con la loro sola virtù propria, ma “nel nome di Cristo” (in persona Christi). Perciò «poco importa che questo sacramento venga consacrato da uno o da molti, purché si ripeta il rito della Chiesa»42. In questa maniera – usando il linguaggio odierno – Tommaso decreta che, sebbene ci siano più ministri che co-consacrano, anche se ciascuno di loro perfettamente

40 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 ad 1-3: Ad primum ergo dicendum quod Christus non legitur simul baptizasse cum apostolis quando iniunxit eis officium bapti-zandi. Et ideo non est similis ratio. Ad secundum dicendum quod, si quilibet sacerdotum operaretur in virtute propria, superfluerent alii celebrantes, uno sufficienter celebrante. Sed quia sacerdos non consecrat nisi in persona Christi, multi autem sunt unum in Christo, ideo non refert utrum per unum vel per multos hoc sacramentum consecraretur, nisi quod oportet ritum Ecclesiae servari. Ad tertium dicendum quod Eucharistia est sacramentum unitatis ecclesiasticae, quae attenditur secundum hoc quod multi sunt unum in Christo.

41 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 ad 2.42 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 ad 2.

Dominik Jurczak

403

potrebbe agire (presiedere) da solo, colui che in realtà agisce è Cristo. Soltanto nell’ottica della sua azione sacerdotale (di Cristo) si può capire il problema della co-consacrazione ed, in conseguenza, della concele-brazione. Da qui deriva anche la giusta “spiritualità sacerdotale”: non è unicamente il sacerdote, che attrezzato del “potere di consacrare”, opera per virtù propria proferendo i verba consecratoria, ma – essendo unico sacerdote Cristo – è il ministro che, «inserito nel grado di coloro che ricevettero dal Signore nella Cena il potere di consacrare»43, pronuncia le parole di Gesù nel nome di Lui (in persona Christi). Dunque, nel giorno dell’ordinazione dei nuovi sacerdoti, che concelebrano insieme con il vescovo che li ordina, tutti sono “una cosa sola in Cristo” (cf. 1Cor 10,17), il Sommo Sacerdote, e soltanto così, ossia nel nome di Lui, tutti sono in grado di co-consacrare.

Ora si capisce meglio l’ultima obiezione di Tommaso, come se la co-consacrazione rompesse l’unità della Chiesa, pure negando la descri-zione dell’Eucaristia di Agostino44. Difatti è così quando più sacerdoti, usando ancora l’espressione odierna, desiderano presiedere soltanto in virtù propria dimenticando che agiscono in persona Christi. In questa ridotta prospettiva la concelebrazione diventa l’azione che smentisce il fondamentale segno dell’Eucaristia, ovvero la sua res, come se ciascu-no dei sacerdoti celebrasse individualmente avendo il “potere di con-sacrare”. Infatti, ogni singolo ministro, essendo ordinato al sacerdozio, dovrebbe essere in grado di compiere la consacrazione, però, da quel ridotto punto di vista la concelebrazione diventa la co-consacrazione di molti, i quali infine non comportano nessun segno di unità, vale a dire, né costruiscono né significano il vero Corpo di Cristo e l’unità del Mistico Corpo. L’ottica cambia radicalmente quando si ricorda che il sacerdote non consacra che in persona di Cristo. Questa condizio-ne, però, non appartiene soltanto alla res sacramentum, come se pos-sa costruire l’unità unicamente al livello di immagine. Essa è il frutto dell’Eucaristia, il suo res tantum. In altre parole, grazie alla “trasforma-zione” (transformatio, transmutatio, conversio) dell’uomo in Cristo che nasce dall’Eucaristia, o forse ancor meglio, grazia alla sua incorporazio-

43 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.44 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 arg. 3.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

404

ne in Cristo, viene costruita la Chiesa45 e molti possono divenire “una cosa sola in Cristo”. Quest’affermazione in primo luogo si riferisce ai sacerdoti che celebrano insieme. Dunque, la concelebrazione, per non rompere l’unità della Chiesa, deve essere il frutto dell’Eucaristia, ove molti proferiscono i verba consecratoria nel nome di Cristo.

Occorre ora interrogarsi in qual modo Tommaso comprenda la concelebrazione all’interno della Summa. Come nel commento alle “Sentenze”, all’inizio della questio Tommaso pone la domanda sulla possibilità della co-consacrazione, ma la sua risposta è tutta indirizzata alla giustificazione della pratica della concelebrazione. Questo collega-mento, dato che i due argomenti vengono messi insieme, permette di verificare il mutuo rapporto tra di loro. Nondimeno bisogna notare che tra gli argomenti “contra” nella Summa non viene posta nessuna obiezione che neghi la possibilità di co-consacrare, anzi, tutta l’argo-mentazione si concentra nel dimostrare la sua inopportunità rispetto al sacramento dell’Eucaristia, che però non vieta la pratica presente in alcune Chiese. Perciò la concelebrazione, nella Summa, sembra essere una co-consacrazione par excellence, che si fa solitamente quando il sa-cerdote viene ordinato. Per di più, il punto centrale conforma il “potere di consacrare” che il nuovo sacerdote ottiene quando «viene inserito nel grado di coloro che ricevettero dal Signore nella Cena il potere di consacrare»46. Partendo dai principi teologici Tommaso dimostra che la co-concelebrazione è accettabile e spiegabile soltanto quando il “po-tere di consacrare” si intende non tanto come l’azione della propria virtù dei sacerdoti, quanto come il loro agire nel nome di Cristo, in cui tutti vengono incorporati grazie all’Eucaristia stessa. Per questo motivo «come gli Apostoli con-cenarono con Cristo che cenava, così i nuovi ordinati concelebrano con il vescovo che li ordina»47, agendo sempre in persona Christi. Quindi, si può presumere che la consuetudine del-la concelebrazione esiste non tanto per raffigurare l’ultima cena, come Tommaso proponeva nel commento alle “Sentenze”, quanto per sotto-lineare quell’inserimento.

45 Cf. G. Emery, «The Ecclesial Fruit of the Eucharist in St. Thomas Aquinas», Nova et Vetera 2 (2004) 47-51. (English Edition)

46 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.47 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.

Dominik Jurczak

405

Da dove provengono questi spostamenti? Non è da escludere, inter alia, dal cambiamento di contesto prodotto dall’analisi della co-consa-crazione unicamente dal punto di vista del sacerdote. In questa prospet-tiva ciò che consente di concelebrare insieme con il vescovo è il “potere di consacrare” ricevuto nel sacramento dell’ordine. Così cresce la figura del ministro: il sacerdote è il depositario del “potere di consacrare”, in-serito nell’ordine (gradus) di coloro che lo tengono.

D’altra parte il rito in sé, stralciato dal problema del ministro, de facto viene enfatizzato. Il modo di pensare di Tommaso si manifesta, forse ancor meglio, nell’articolo in cui domanda «se siano convenien-ti le cerimonie che vengono compiute nella celebrazione di questo sacramento»48. In questa occasione, presentando l’argomento a favore di quest’affermazione, dichiara: «In contrario sta la consuetudine della Chiesa, la quale non può errare, essendo guidata dallo Spirito Santo»49. Si nota perfettamente quale valore per Tommaso ha la consuetudine della Chiesa, anche se si tratta soltanto «di alcune Chiese»50. Qual è dunque l’obiettivo della concelebrazione?

[…] Nella celebrazione di questo mistero alcuni riti hanno lo sco-po di rappresentare la passione di Cristo, o anche l’organizzazione del corpo mistico; altri invece mirano a eccitare la devozione e la riverenza nell’uso di questo sacramento51.

Sembra che appunto in questa ottica bisognerebbe collocare la con-celebrazione, il cui obiettivo sarebbe il rappresentare (ad repraesentan-dum) «l’organizzazione del corpo mistico»52 e l’inserimento dei nuovi sacerdoti nel gradus di «coloro che ricevettero dal Signore nella Cena il

48 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 83 a. 5 arg. 1: Videtur quod ea quae in celebra-tione huius sacramenti aguntur, non sunt convenientia.

49 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 83 a. 5 s. c.: Sed in contrarium est Ecclesiae consuetudo, quae errare non potest, utpote spiritu sancto instructa.

50 Cf. Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 s. c.51 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 83 a. 5 co.: […] In celebratione huius mysterii

quaedam aguntur ad repraesentandum passionem Christi; vel etiam dispositionem cor-poris mystici; et quaedam aguntur pertinentia ad devotionem et reverentiam usus huius sacramenti.

52 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 83 a. 5 co

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

406

potere di consacrare»53. Ciò che emerge dalla lettura della Summa è il concetto della concelebrazione vista piuttosto come la co-consacrazio-ne, spiegata all’interno del problema del sacramento, soprattutto nel prospettiva teologica dell’agire del ministro.

3. Il concetto della concelebrazione di Tommaso d’Aquino

Volendo operare una sintesi riassuntiva dell’evoluzione del pensiero di Tommaso riguardo la concelebrazione, nelle sue opere composte ad almeno quindici anni di distanza, essa viene discussa in una maniera sottilmente diversa. Una delle possibili spiegazioni è in relazione al dif-ferente contesto all’interno di ciascuna delle opere, infatti le domande sulla concelebrazione spuntano sempre ogni qual volta Tommaso ri-flette sul ministro dell’Eucaristia, però nel commento alle “Sentenze” il ministro viene analizzato contestualmente al rito, mentre nella Summa le due realtà vengono esaminate autonomamente: prima il ministro, dopo il rito.

È opportuno ricordare che a Tommaso non interessa la concelebra-zione come epifenomeno in se stesso, anzi, in tutti e due casi essa ap-pare come consuetudine, ossia un argomento che non si può tralasciare nella discussione sulla possibilità di co-consacrazione (la consacrazione della medesima ostia, nello stesso momento, da parecchi ministri). Per quanto riguarda la concelebrazione in sé, nelle opere di Tommaso essa si presenta sempre come «la consuetudine di alcune Chiese»54. Non si parla quindi di una sua usanza universale o obbligatoria. Infatti non si sa se e come la pratica del concelebrare fosse diffusa nella seconda metà del Duecento. Non è neanche da escludere che Tommaso non l’abbia mai vista nella sua vita! Le difficoltà che ha con un’unica e coerente definizione del “che cos’è” e “perché si fa” la concelebrazione, rafforza soltanto l’ipotesi che essa non era in quei tempi né comprensibile né evidente. Ciò che tuttavia explicite emerge dai frammenti analizzati, vie-ne sempre collegata con la celebrazione vescovile dell’Eucaristia, e non

53 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.54 Cf. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 s. c. 1; Cf.

Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 s. c.

Dominik Jurczak

407

una qualsiasi, ma durante la quale vengono ordinati i nuovi sacerdoti. Soltanto loro possono concelebrare con il vescovo che li ordina.

Tommaso non ci lascia nessuna traccia sul “come” si fa la conce-lebrazione, tuttavia nella sua esposizione si potrebbe intuire, con un buon margine di precisione, cosa lui pensi che sia la concelebrazione all’interno della sua visione dei sacramenti. Così, nel commento alle “Sentenze”, Tommaso parla della concelebrazione come se essa non fosse necessariamente concepita come la co-consacrazione. Vale a dire, sembra che in tutto l’articolo si parli di due realtà simili, ma non in tutto: concelebrazione e co-consacrazione non sono sinonimi. Ciò che preoccupa Tommaso è difatti l’impossibilità di compiere la simultanea consacrazione senza fare ingiuria al sacramento. Siccome nella risposta al problema della co-consacrazione Tommaso non fa nessun riferimen-to ad essa, ma dedica tutto il corpus a commentare la concelebrazione, si potrebbe ipotizzare che essa si potrebbe riferire a qualcos’altro e non per forza si dovesse limitare alla co-consacrazione. Questo silenzio di Tommaso è molto significativo perché la soluzione proposta da Papa Innocenzo III, secondo cui la medesima intenzione di tutti i sacerdo-ti basta per compiere una sola consacrazione, non lo sollevi dalle sue perplessità. Come se dicesse: la questione della concelebrazione non è soltanto il problema della possibilità di co-consacrazione; inoltre, no-nostante non si sappia come definirla bene – nota bene: non esiste un gran bisogno di farlo perché probabilmente si tratta della consuetudine già non diffusa – ma è qualcosa di più.

Infatti, questo “di più” Tommaso lo chiarisce mentre spiega il “per-ché” della concelebrazione. Essa, secondo la sua risposta, si fa “per rap-presentare” (ad repraesentandum) l’ultima cena, ossia nel momento in cui il Signore «istituì questo sacramento e diede ai suoi discepoli il po-tere di consacrare»55. Ricordando che si tratta della celebrazione in cui vengono ordinati i nuovi sacerdoti, la concelebrazione sembra avere il suo primo obiettivo nel raffigurare il Cenacolo. Soltanto parallelamente Tommaso stabilisce il carattere definitivo che è dato dalla medesima intenzione di compiere una sola consacrazione. Procedendo così «non

55 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 co.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

408

vi è lì se non una sola consacrazione»56. Non tante co-consacrazioni, ma una sola consacrazione.

Può darsi che, tranne per altri fattori, questa prospettiva in cui i nuovi sacerdoti, compiendo una sola consacrazione col vescovo, ripe-tendo i verba consecratoria soltanto per rappresentare l’ultima cena era-no difatti superflui, abbia indotto Tommaso ad un ripensamento e di cambiare pertanto le coordinate nella Summa. Evidentemente, quasi venti anni dopo, Tommaso concepisce la concelebrazione già come co-consacrazione. Ciò che gli consente di fare questa scelta e di precisare il “che cos’è” la concelebrazione, è ancora una volta l’autorità di Papa Innocenzo  III. Come risponde Tommaso nel corpo dell’articolo, nel caso della concelebrazione, vista ora solamente come co-consacrazione, «la medesima ostia non viene consacrata più volte: poiché, come dice Innocenzo III, tutti allora devono avere l’intenzione di consacrare nel medesimo istante»57. In questa maniera addirittura stabilisce il “come” della concelebrazione.

Occorre notare che cambiando, o forse meglio, precisando il concet-to della concelebrazione, Tommaso doveva modificare anche il “perché” di essa e trovare la sua nuova interpretazione ad un altro livello. Infatti, mettendo al centro il “potere di consacrare” del nuovo sacerdote che dal momento dalla sua ordinazione «viene inserito nel grado di colo-ro che ricevettero dal Signore nella Cena il potere di consacrare»58, lo scopo della concelebrazione non è più di raffigurare l’ultima cena, ma di rappresentare «l’organizzazione del corpo mistico»59 e l’ammissione nel nuovo gradus. Nello stesso momento Tommaso sviluppa il tema della co-consacrazione dal punto di vista del ministro. In modo genia-le intuisce che ogni sacerdote, mentre proferisce i verba consecratoria, non opera “per virtù propria” (in virtute propria), ma agisce in persona Christi. Traversando il pensiero di Tommaso, non è il sacerdote che consacra, ma il Cristo Sacerdote nel cui nome il sacerdote pronuncia le parole. Perciò più sacerdoti possono co-consacrare insieme, a patto

56 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 ad 1.57 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.58 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.59 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 83 a. 5 co.

Dominik Jurczak

409

che siano “una cosa sola in Cristo” (cf. 1Cor 10,17). Questo, infatti, è il frutto dell’Eucaristia.

Nonostante Tommaso mai riveli explicite come intende la concele-brazione, esaminandola semplicemente come un fatto, tuttavia si nota che gli accenti cambiano. In entrambi i casi la concelebrazione appare in occasione della celebrazione vescovile quando ordina i nuovi sacer-doti. In entrambi i casi il suo scopo è di creare un’immagine: nel com-mento alle “Sentenze” però l’obiettivo è di raffigurare l’evento dell’ulti-ma cena, invece nella Summa serve per rappresentare l’ammissione nel nuovo gradus di «coloro che ricevettero dal Signore nella Cena il potere di consacrare»60. In entrambi i casi la consacrazione si compie grazie alla medesima intenzione: però nel commento alle “Sentenze” essa do-vrebbe riferirsi «a quell’istante in cui il vescovo proferisce le parole»61, mentre nella Summa bisognerebbe che tutti abbiano l’intenzione «di consacrare nel medesimo istante»62. Non si può negare quindi che nel-le opere di Tommaso il “perché” della concelebrazione e la questione d’intenzione riportano due risposte diverse. La soluzione relativa all’in-tenzione è ancora più curiosa perché in ambedue casi Tommaso la in-troduce appoggiandosi all’autorità di Papa Innocenzo III.

Quale delle due opinioni proviene davvero da Papa Innocenzo III e quale è la sua interpolazione? Non esiste prova migliore che verificarla senza intermediari, ossia leggendo direttamente che cosa dice Innocen-zo III stesso.

4. De sacro Altaris Mysterio

Prima di esaminare il frammento del trattato ove Innocenzo III af-fronta il problema della concelebrazione, bisogna rendersi conto della distanza che intercorre tra Tommaso d’Aquino e il Papa. E non si parla tanto di quella spaziale o temporale, il primo nasce circa dieci anni dopo la morte dell’altro, ma del diverso ambito sociale e culturale della Chiesa e soprattutto della teologia in cui essi vivono e compongono le loro opere. Basti pensare al mondo delle università che, al tempo

60 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.61 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 ad 2.62 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

410

di Lotario di Segni (Innocenzo III), si trova ancora in statu nascendi, mentre, soltanto cinquanta anni dopo è il perno del pensiero teologico, filosofico e scientifico della cristianità e di cui Tommaso ne diventa un simbolo vivente. In conseguenza di tutto ciò, il De sacro altaris my-sterio non è un’esposizione riferentesi ad un manuale teologico, come quello di Tommaso alle “Sentenze” di Pietro Lombardo, né pretende di essere la Summa Theologiae, si tratta di un commento alle cerimo-nie e allo svolgimento della messa papale. In altre parole, è un trattato che vuole descrivere la liturgia, usando ovviamente un genere letterario ed un impianto teologico assai diverso da quello che userà Tommaso, più allegorico e con termini dogmatici meno precisi63. Inoltre, non si può prescindere dal fatto che Innocenzo III compone il suo commento prima di essere eletto papa (il 6 gennaio 1198), verosimilmente verso la fine dei suoi otto anni di cardinalato. Nondimeno poco dopo la sua elezione lo rielabora per pubblicarlo.

La struttura del trattato è molto semplice. De sacro altaris mysterio è composto da sei libri, in cui, cominciando dalla riflessione sui ministri e paramenti sacri, Innocenzo III descrive tutto lo svolgimento della ce-lebrazione eucaristica, dando sempre una spiegazione di ciò che avvie-ne. Nel quarto libro, dedicato esclusivamente ai problemi connessi alla consacrazione eucaristica, ovvero «il vertice sommo del sacramento»64 – ad esempio, la questione del pane azzimo o lievitato, delle due specie, della presenza reale, ecc. – considera anche «la concelebrazione di più sacerdoti sulla stessa ostia»65. Precisamente in quel contesto riflette:

Se, concelebrando talora molti sacerdoti, per caso non pronunciano tutti insieme le parole della consacrazione, si domanda: forse consacra solo colui che le ha pronunciate per primo? E allora gli altri che fanno, replicano il sacramento? Potrebbe accadere dunque che non consacri il

63 Cf. H. Wolter, «Innocenzo III. Personalità e programma», in Civitas medieva-le. La scolastica, gli ordini mendicanti, 12.-14. sec., ed. H. Jedin Storia della Chiesa 5/1, Jaca Book, Milano 4 rist. 1987, 195.

64 Cf. Wolter, «Gli ordini mendicanti», in Civitas medievale, 244-245.65 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare (De sacro altaris mysterio), Libre-

ria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 176, 304-305. Il testo latino secondo: Innocentius III, Mysteriorum evangelicae legis et sacramenti eucharistiae libri sex, Mi-gne, Paris 1855 (PL 217), 763-915.

Dominik Jurczak

411

celebrante principale e che invece consacri un celebrante subordinato, e così venga defraudata la pia intenzione di chi celebra?

Si può dire, probabilmente come risposta, che i sacerdoti possono pronunciare prima o dopo la formula, ma è della loro intenzione che si deve sempre tener conto, in accordo con le parole del vescovo, che è il celebrante principale col quale gli altri concelebrano, e allora tutti consacrano e concludono insieme.

Benché alcuni ammettano che consacra colui che pronuncia per primo, non va però defraudata l’intenzione degli altri, perché si com-pie ciò che si intende. I cardinali preti è consuetudine che attornino il pontefice e celebrino alla pari con lui; e dopo che il sacrificio è stato compiuto, che ricevano la comunione delle mani di lui, a imitazione degli Apostoli che, allo stesso modo distesi con il Signore, presero dalle sue mani la santa Eucaristia, ed in quello che essi concelebrano mani-festano che gli Apostoli ricevettero allora dal Signore il rito di questo sacrificio66.

In primis, occorre sottolineare il diverso punto di partenza dei due autori: Tommaso, studiando i sacramenti, all’interno della questione sull’Eucaristia, si interroga sulla possibilità della co-consacrazione e at-torno ad essa riflette sulla concelebrazione, Innocenzo III, invece, nello svolgimento della messa papale prende la concelebrazione come dato di fatto e prova ad applicare ad esso il principio della forma verborum. Tanto è vero che ambedue, alla fine, arrivano alla stessa domanda – come si può (co-)consacrare concelebrando? – nondimeno per Tom-maso la principale prospettiva è il concetto di sacramento con tutte le sue conseguenze, per Innocenzo III invece è la celebrazione stessa alla quale sarebbe opportuno applicare le categorie scolastiche. Al riguardo basti osservare che il De sacro altaris mysterio per due terzi commen-ta le cerimonie, offrendo una sorte di expositio missae. Inoltre, ciò che Innocenzo  III scrive in quattro libri, Tommaso lo racchiude de facto nel corpo di un articolo della Summa67 e neppure lo svolgimento della messa, all’interno della questione dedicata ai problemi del rito, occupa il posto centrale, ma soltanto uno di sei articoli. Al contrario, per quan-to si riferisce al sacramento stesso, ciò che Tommaso dettagliatamente

66 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.67 Cf. Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 83 a. 4 co.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

412

esamina in tante questioni, Innocenzo III vi riflette in un frammento del quarto libro.

Proprio per questo motivo, prima di affrontare il problema della (co-)consacrazione, bisogna verificare in che modo il Papa concepisce la concelebrazione. A differenza di Tommaso, Innocenzo III riporta il “come” la si esegue. Parla, infatti, dei cardinali presbiteri (cardinales pre-sbyteri) che hanno l’abitudine di stare intorno al pontefice celebrando ugualmente (pariter) con lui. In seguito, quando il sacrificio è stato compiuto, ricevono la comunione dalle sue mani (de manu ejus com-munionem recipere) a imitazione (significantes) degli apostoli che, ugual-mente (pariter) distesi con il Signore, ricevettero (acceperunt) dalle sue mani la santa Eucaristia.

Ciò che emerge dalla richiamata descrizione è il fatto che la concele-brazione non si limita né si concentra sul momento della consacrazione, ma si estende al momento della comunione, quando colui che concele-bra, la riceve dal pontefice assieme con il diacono e il suddiacono68. In questa prospettiva la concelebrazione è qualcosa di più di una consacra-zione insieme al vescovo. Inoltre, Innocenzo III dichiara che si procede così con l’obiettivo di imitare l’ultima cena. Quest’affermazione viene ripetuta un’altra volta nella frase seguente, alla fine del paragrafo: «in quello che essi concelebrano manifestano (ostendunt) che gli apostoli ricevettero allora dal Signore il rito di questo sacrificio»69.

Soltanto ora si potrebbe tornare alla domanda dei verba consecrato-ria: nel momento della celebrazione di più sacerdoti, che insieme con il pontefice proferiscono le parole circondandolo, chi consacra? Colui che le ha pronunziate per primo? Innocenzo III – non senza esitazio-ne, «probabilmente come risposta» – decide di non mettere al centro del problema le parole ma «l’intenzione che si deve sempre tener con-to, in accordo con le parole del vescovo, che è il celebrante principale col quale gli altri concelebrano, e allora tutti consacrano e concludono insieme»70. Evidentemente nel caso della concelebrazione il criterio delle parole non sembra sufficiente, a differenza di quando celebra uno solo. Nonostante ciò il Papa non suggerisce che si possa ometterle e

68 Cf. Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 231, 404-407.69 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.70 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.

Dominik Jurczak

413

neppure che siano di poca importanza. Anzi, sottintende che ognu-no dei concelebranti le proferisce, soltanto che non importa se essi lo facciano perfettamente sincronizzati o no. Conta però l’intenzione. In questa prospettiva Innocenzo  III è ancora pronto ad accettare l’opi-nione secondo la quale «consacra colui che pronuncia per primo»71, ovvero non più il celebrante principale ma un qualunque subordinato, perché «non va defraudata l’intenzione degli altri, perché si compie ciò che si intende»72.

Dunque, che cos’è la concelebrazione nella messa papale secondo Lotario di Segni? Senz’altro si tratta dell’azione dei più cardinali pre-sbiteri che attorniano il papa celebrando con lui. Quest’azione non deve essere vista necessariamente attraverso le categorie scolastiche della co-consacrazione, anche se de facto infine «tutti consacrano e conclu-dono insieme», perché non è questa a stare al centro del problema, è invece necessario che ognuno dei concelebranti pronunci le parole avendo «l’intenzione in accordo con le parole del vescovo»73. Tramite la concelebrazione, cioè non soltanto attraverso la co-consacrazione sul-la stessa ostia, si manifesta l’evento del cenacolo, o forse meglio, «che gli apostoli ricevettero allora dal Signore il rito di questo sacrificio»74. L’obiettivo della concelebrazione è quindi soprattutto di creare l’imma-gine, di raffigurare il mistero dell’Eucaristia e della Chiesa in modo più pieno possibile.

5. Tra Innocenzo III e Tommaso d’Aquino

Nell’ultimo passo occorre operare un confronto sui concetti di con-celebrazione che hanno Innocenzo III e Tommaso d’Aquino al fine di giungere ad una conclusione.

Dalla nostra analisi risulta immediatamente che la concelebrazione sempre compare all’interno dell’Eucaristia e sempre in occasione della celebrazione presieduta dal vescovo accompagnato dai presbiteri. Nel caso di Innocenzo III si parla della messa papale dove i cardinali pre-

71 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.72 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.73 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.74 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

414

sbiteri sono i concelebranti, mentre nel caso di Tommaso si propone il caso della messa vescovile, durante la quale il vescovo ordina i nuovi sacerdoti. Nonostante una apparente similarità ogni autore adotta una differente prospettiva per determinare il senso della concelebrazione.

Innocenzo III cerca, in primo luogo, di fare una esposizione comple-ta della messa papale, del suo svolgimento e delle cerimonie ad essa con-nesse. In questo contesto il Papa non può lasciare da parte il problema della concelebrazione, in particolar modo in occasione delle questioni relative alla consacrazione, che però non esauriscono tutto il tema, con-siderando le consuetudini relative ai riti della comunione e la maniera in cui il pontefice la distribuisce ai concelebranti a similitudine degli apostoli che, cenando allo stesso modo con il Signore, ricevettero dalle sue mani la santa Eucaristia. Riferendosi al concetto della concelebra-zione nel suo complesso, analogamente Innocenzo III suggerisce il mo-tivo per cui la si esegue: «in quello che essi concelebrano manifestano (ostendunt) che gli apostoli ricevettero allora dal Signore il rito di questo sacrificio»75. Quindi il primo scopo della concelebrazione, secondo In-nocenzo III, si compie nel ricreare l’immagine dell’ultima cena, ovvero l’immagine dell’Eucaristia e della Chiesa. Solo successivamente, e in modo secondario, ci si pone la domanda sulla consacrazione, ove Inno-cenzo III tenta di applicare le categorie scolastiche della forma verborum che evidentemente non sono adeguate a descrivere le consuetudini delle messe papali. Consapevole delle conseguenze delle varie soluzioni, il Papa propone, non senza perplessità, che tutti i sacerdoti che concele-brano e pronunciano i verba consecratoria, devono avere l’intenzione «in accordo con le parole del vescovo» (sacerdotes debet referri eorum intentio ad instans prolationis episcopi)76. Nondimeno, senza una simile rispo-sta bisognerebbe o modificare il concetto del sacramento e della forma dell’Eucaristia, oppure contestare la pratica della concelebrazione.

Questo è probabilmente il dilemma più grande su questo tema non soltanto per Innocenzo III ma soprattutto per Tommaso d’Aquino. An-che se lo scopo del domenicano non è di descrivere la messa papale, ma di commentare i libri delle “Sentenze” di Pietro Lombardo oppure di

75 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.76 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.

Dominik Jurczak

415

considerare i sacramenti della Chiesa come realtà che da Cristo ricevono la loro efficacia77, alla fine arriva alla stessa “aporia teologica”: come si può giustapporre l’esistente consuetudine della Chiesa con le categorie scolastiche? A differenza di Innocenzo III, ciò che importa a Tommaso non è la celebrazione dell’Eucaristia come tale, che basta descrivere con le parole proprie nel suo svolgimento, ma il sacramento dell’Eucaristia, all’interno del quale bisogna applicare le distinzioni elaborate preceden-temente. Perciò la concelebrazione, come problema periferico, Tomma-so la considera effettivamente dal punto di vista del sacramento e del suo ministro. Questa prospettiva in realtà è un capovolgimento: non è più la celebrazione dell’Eucaristia che è il sacramento, ma il sacramento dell’Eucaristia che si compie dentro una celebrazione. Per questo mo-tivo Tommaso nella Summa è capace di considerare il problema della consacrazione come se fosse stato indipendente dalle questioni sul rito. Per di più, non a caso esso appare come l’ultima questione delle undici che nella Summa si riferiscono all’Eucaristia. Tutto questo dimostra che a Tommaso non interessa la concelebrazione come tale, ma la possibilità della co-consacrazione all’interno del fenomeno di essa, che è il fatto innegabile.

Tommaso, dunque, cerca di giustificare la consuetudine della Chiesa utilizzando le categorie precedentemente stabilite, quando esaminava il concetto di sacramento. Infatti, nel commento alle “Sentenze”, ve-rosimilmente per non dare adito al sospetto di ingiuria al sacramento che si potrebbe palesare rifiutando la concelebrazione, Tommaso non la vuole spiegare come la co-consacrazione, ma assume una posizione simile a quella di Innocenzo III, ovvero come l’azione di più ministri che, insieme al vescovo, proferiscono le parole che hanno la medesima intenzione. Per di più, probabilmente a causa della stessa preoccupazio-ne, Tommaso non insiste nell’obbligo di pronunciare i verba consecrato-ria, ciò che non proviene dalla voglia di dispensare il concelebrante dal proferire le parole, ma dalla difficoltà di concordare i criteri scolastici con la praxis della Chiesa. Ancora in altro modo, se la concelebrazione si potesse descrivere senza difficoltà, cioè utilizzando il criterio della for-

77 Cf. Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 60 pr.: Post considerationem eorum quae pertinent ad mysteria verbi incarnati, considerandum est de Ecclesiae sacramentis, quae ab ipso verbo incarnato efficaciam habent.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

416

ma del sacramento (verba consecratoria) che non rischierebbe l’ingiuria per il problema dei ministri, Tommaso la accetterebbe subito. Infatti, nella Summa Tommaso precisa il suo pensiero per poter definire la con-celebrazione come la co-consacrazione. Quali sono le conseguenze di questa sottile modifica? Senz’altro, non si può più avere l’impressione che la forma del sacramento sia una realtà secondaria, anzi, se è vero che le parole sono i verba consecratoria efficaci che possono essere proferite soltanto dagli inseriti «nel grado di coloro che ricevettero dal Signore nella Cena il potere di consacrare»78, dall’altra, hanno una virtù capace di operare la conversione che si realizza nel sacramento79, quindi do-vrebbero “causare” la vera consacrazione. Di conseguenza, nella Sum-ma, Tommaso non vede più la concelebrazione come le singole azioni in cui si compie una sola consacrazione, come la descriveva ancora nel commento alle “Sentenze”80, ma come le molte azioni di sacerdoti che agiscono insieme in persona Christi81, purché tutti rimangano “una cosa sola in Cristo”.

Tuttavia, modificando la suddetta prospettiva, Tommaso doveva an-che precisare il concetto di intenzione. Rispondendo alle obiezioni nel commento alle “Sentenze” scrive che essa, nel caso di più agenti, dovreb-be riferirsi all’eseguire una sola consacrazione82. Subito dopo aggiunge: «come dice Innocenzo, tutti i concelebranti devono riferire l’intenzione a quell’istante in cui il vescovo proferisce le parole»83. Dunque, per po-ter concelebrare, ovvero compiere una sola consacrazione, bisogna che tutti abbiano l’intenzione che si deve riferire a quel momento in cui il vescovo proferisce le parole (omnes celebrantes debent intentionem referre ad illud instans in quo episcopus verba profert). Questa soluzione infatti concorda con la proposta fatta da Innocenzo III:

[…] I sacerdoti possono pronunciare prima o dopo la formula, ma è della loro intenzione che si deve sempre tener conto, in accordo con le parole del vescovo, che è il celebrante principale col quale gli altri

78 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.79 Cf. Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 78 a. 4 co.80 Cf. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 ad 1.81 Cf. Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.82 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 ad 1.83 Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 ad 2.

Dominik Jurczak

417

concelebrano, e allora tutti consacrano e concludono insieme. Benché alcuni ammettano che consacra colui che pronuncia per primo, non va però defraudata l’intenzione degli altri, perché si compie ciò che si intende84.

Tuttavia l’affermazione di Innocenzo III, secondo la quale i sacerdoti che concelebrano con il vescovo consacrano e compiono tutti insieme (omnes simul consecrant et conficiunt), non determina se si tratta di una sola consacrazione o forse di più. Difatti, la frase del Papa «episcopo principaliter celebranti concelebrant» si potrebbe intendere diversamen-te, in modo particolare quando essa viene derivata dal contesto origi-nario, o quando il contesto non viene più compreso, oppure quando si vuole imporre un’altra spiegazione. Sembra perciò che originariamente Innocenzo III con il temine principaliter voglia attribuire al vescovo il ruolo di persona principalis, cioè il primo, il principale, il fondamenta-le, ecc., insieme al quale tutti gli altri indifferentemente concelebrano. Quest’interpretazione si conforma anche al linguaggio usato da Inno-cenzo III: infatti il Papa stesso introduce la distinzione tra i concele-branti mentre pone la domanda: «Potrebbe accadere che non consacri il celebrante principale (qui celebrat principaliter) e che invece consacri un celebrante subordinato (qui secundario celebrat), e così venga defraudata la pia intenzione di chi celebra?»85 La concelebrazione, dunque, viene concepita come l’azione di più sacerdoti che, essendo subordinati al vescovo, uniscono le loro intenzioni alle sue parole e insieme con lui compiono una sola consacrazione. L’ottica, e di conseguenza l’interpre-tazione, cambia, se nella frase il temine principaliter si abbina non al vescovo, ma agli altri celebranti che concelebrano “direttamente” con il vescovo. Per questa spiegazione si può trovare qualche giustificazio-ne, poiché Innocenzo III presenta la concelebrazione come l’azione dei cardinali che stanno intorno al pontefice celebrando ugualmente (pa-

84 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305: […] Sane dici potest, et probabiliter responderi, quod sive prius, sive posterius proferant sacerdotes, refferi debet eorum intentio, ad instans prolationis episcopi, cui principaliter celebranti conce-lebrant, et tunc omnes simul consecrant et conficiunt. Quanquam nonnulli consentiant, quod qui prius pronuntiat, ille consecrat: nec aliorum defraudatur intentio, quia actum est quod intenditur.

85 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

418

riter) con lui. Inoltre, nel momento della comunione i concelebranti la ricevono delle mani del vescovo «a imitazione degli apostoli che, allo stesso modo (pariter) distesi con il Signore, ricevettero dalle sue mani la santa Eucaristia»86. Il concelebrante, quindi, non tanto viene visto in un ruolo subordinato, quanto come colui che concelebra principaliter con il pontefice. In questa maniera la concelebrazione sarebbe le azioni compiute pariter con quella del vescovo, avendo sempre l’intenzione che si riferisca alle parole del vescovo. Così «tutti consacrano e conclu-dono insieme»87.

Sembra che quest’ultima descrizione venga utilizzata da Tommaso nella Summa e probabilmente perché gli offre i migliori risultati per concordare con la visione del sacramento e la sua soluzione. La crescen-te precisazione risulta anche all’interno della questione dell’intenzione. Infatti, nel suo trattato Innocenzo III stabilisce che i concelebranti de-vono riferirla al momento del pronunciare le parole da parte del vescovo (ad instans prolationis episcopi)88. Nel commento alle “Sentenze”, ap-poggiandosi sul medesimo Papa, Tommaso precisa: tutti i celebranti de-vono riferire l’intenzione a quel momento in cui il vescovo proferisce le parole (ad illud instans in quo episcopus verba profert)89. Nella Summa, infine, Tommaso dichiara: l’intenzione di tutti deve essere rivolta allo stesso momento della consacrazione (ad idem instans consecrationis)90. Dunque, il desiderio di giustapporre il concetto della concelebrazione con la co-consacrazione, di conseguenza è causa del sottile spostamen-to degli accenti per poter infine comprendere la concelebrazione come la co-consacrazione (difatti, l’unica conosciuta da Tommaso). Mentre Innocenzo III prova ad applicare alla concelebrazione le categorie della forma verborum, Tommaso ormai si preoccupa della possibilità della co-consacrazione per giustificare la consuetudine della Chiesa all’inter-no di tutto il suo sistema. Lo fa conformemente allo spirito della sua epoca, ove, invece di mettere al centro tutta la celebrazione eucaristica vista nella sua integrità, ovvero nel contesto celebrativo, la si concepisce

86 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.87 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.88 Cf. Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.89 Cf. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 ad 2.90 Cf. Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.

Dominik Jurczak

419

anzitutto tramite il concetto del sacramento dell’Eucaristia eliminando via via ciò che, dal punto di vista della concelebrazione, sembra inessen-ziale, superfluo o difficile da descrivere.

Occorre domandarsi ora se le trasformazioni, che si notano tra il pensiero di Innocenzo III e Tommaso d’Aquino, derivino soltanto dai differenti obiettivi delle loro opere e dai cambiamenti metodologici all’interno della teologia nel Duecento, oppure se bisogna cercare le ragioni anche in altri ambiti. In tal senso basta osservare la differenza esistente nei termini usati dai due autori per descrivere la concelebra-zione, e basti esaminare l’uso di episcopus e sacerdos, quando parlano dei ministri. Tommaso, però, li utilizza in maniera molto precisa e tecnica: l’episcopus ordinans91 o il sacerdos consecrans92 che in occasione deter-minata, come gli agentes93 inseriti nel gradus di coloro che hanno la potestas consecrandi94, possono simul celebrare o concelebrare e, in con-seguenza, virtute verborum consecrare95. Invece Innocenzo III, al posto di episcopus o sacerdos, parla del pontifex e di cardinales presbyteri. Nota bene, Tommaso, nei frammenti analizzati, adopera una volta sola (nel commento alle “Sentenze”), il termine presbyter96, quando riporta la soluzione del Papa. Per di più, Innocenzo  III differenzia il ruolo dei ministri, uno è qui celebrat principaliter, un altro è qui celebrat secun-dario, e per descrivere le loro azioni usa parecchie espressioni: celebrare, pariter celebrare, concelebrare, circumstare, simul consecrare, conficere. Si potrebbe riassumere dunque che il linguaggio tecnico di Tommaso, che nella Summa è ancora più evidente che nel commento alle “Sentenze”, proviene dalle sue considerazioni e conclusioni precedenti (per es., il concetto di sacramento, la forma e materia, gli effetti dell’Eucaristia, ecc.) e viene ancora rafforzato dal desiderio di «esporre la dottrina sacra con la maggiore brevità e chiarezza consentita da tale materia»97.

91 Cf. Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.92 Cf. Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 arg. 193 Cf. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 arg. 1.94 Cf. Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.95 Cf. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 arg. 2.96 Cf. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 co.97 Thomas Aquinas [o Tommaso d’Aquino], Opera omnia iussu impensaque Leo-

nis XIII P. M. edita, t. 4-5: Pars prima [= Iª] Summae theologiae [=ST], Ex Typographia Polyglotta S. C. de Propaganda Fide, Romae 1888-1889, pr.: Haec igitur et alia hui-

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

420

Partendo da questo principio, non è da trascurare il fatto che nel suo trattato Innocenzo III «ha proposto di seguire la consuetudine della sede apostolica – non quella che si racconta avesse una volta, ma quella che sappiamo essere attualmente in vigore»98 sotto i quattro aspetti: (1) persone (celebranti, ministranti, circostanti), (2) opere (gesti, azioni, movimenti), (3) parole (preghiere, modulazioni, letture), (4) cose (or-namenti, strumenti, elementi)99. Il suo progetto si propone i massimi obiettivi: una descrizione della celebrazione dell’Eucaristia nel modo più completo possibile. Tommaso, invece, tranne le soluzioni nel suo commento alle “Sentenze” di Pietro Lombardo, scrive la Summa con l’obiettivo di «esporre quanto concerne la religione cristiana nel modo più confacente alla formazione dei principianti»100 della teologia. La Summa è dunque un libro per studenti101, ma non un manuale (com-pendium) per la sacra dottrina che pretenda di esaurire tutto il discorso, ma un testo introduttivo per “poi” fare teologia. Può darsi che proprio per questo motivo Tommaso non considera la messa papale come la ce-lebrazione eucaristica “normativa”, ma, dal suo punto di vista, la perce-pisce come la celebrazione troppo eccessiva. Infatti, per poter analizzare l’Eucaristia nell’ottica del sacramento non bisogna esaminarla, come Innocenzo III, sotto tanti aspetti. Basta analizzarne solamente alcuni.

Per Tommaso la suddetta prospettiva poteva essere persino consoli-data dalle usanze liturgiche domenicane. Infatti, per i Frati Predicatori la messa “normativa”, anche la più solenne possibile, non è la celebra-zione presieduta dal vescovo. La messa conventuale, nonostante la già esistente consuetudine delle cosiddette “messe private”, prende posto centrale nella vita delle comunità domenicane. Nondimeno, si tratta sempre della celebrazione presieduta da un solo presbitero, e tutti gli altri frati, tranne gli assistenti all’altare, “ascoltavano la messa” (missam

usmodi evitare studentes, tentabimus, cum confidentia divini auxilii, ea quae ad sacram doctrinam pertinent, breviter ac dilucide prosequi, secundum quod materia patietur.

98 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 8, 34-35. (traduzione dell’au-tore)

99 Cf. Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 8, 32-33.100 Tommaso d’Aquino, ST Iª pr.: Propositum nostrae intentionis in hoc opere est,

ea quae ad Christianam religionem pertinent, eo modo tradere, secundum quod congruit ad eruditionem incipientium.

101 Cf. Chenu, Introduction, 255.

Dominik Jurczak

421

audierunt)102. Nel caso della presenza del vescovo il cosiddetto «Prototi-po» – manoscritto redatto intorno al 1254 con lo scopo di armonizzare e uniformare la liturgia all’interno dell’Ordine dei Predicatori – stabili-sce le seguenti norme per la messa conventuale:

Se dovesse essere presente nella messa un vescovo, deve essere in-vitato all’inizio della messa dal cantore a effettuare la confessio. Gli de-vono essere richieste anche la benedizione dell’acqua da mescolare con il vino, e dell’incenso da portare per la lettura del Vangelo. Inoltre, dopo aver letto il Vangelo, esso viene offerto da baciare a lui per primo. Dopo, a lui per primo viene offerto l’aspersorio dell’acqua benedetta per aspergere se stesso e i suoi vicini. Se tutto ciò avvenisse durante la messa, per primo deve anche essere incensato. Dopo, per primo, gli deve essere offerta la pace. Inoltre, al termine della messa, viene invitato dal cantore a dare la benedizione. Se, invece, fosse presente un cardinale non vescovo ma presbitero oppure diacono, o un legato non vescovo né cardinale, si richieda e si osservi la tradizione al riguardo103.

Si nota facilmente che la messa “normativa”, ossia la messa conven-tuale, in nessun modo è quella pontificale che, se pur molto solenne, tuttavia non contempla la possibilità di essere presieduta dal vescovo e, di conseguenza, di poter introdurre la concelebrazione. Quindi, il para-gone con la descrizione del De sacro altaris mysterio sembra impratica-bile. Alla liturgia domenicana di per sé presbiterale le manca un “fram-mento” del rito pontificale, che è fondamentale per la possibilità della

102 Cf. Acta Capitulorum Provincialium Provinciae Romanae (1243-1344) (Monu-menta Ordinis Fratrum Praedicatorum Historica 20), ed. T. Käppeli-A. Dondaine, Institutum Historicum Fratrum Praedicatorum, Romae 1941, 23 (15); 27 (21).

103 Ordinarium juxta ritum Sacri Ordinis Fratrum Praedicatorum, ed. L. Theissling, Apud Collegium Angelicum, Romae 1921, 245-246: Si episcopus praesens fuerit in missa, invitandus est a cantore ad faciendam confessionem in principio missae. Petendae etiam sunt ab eo benedictiones aquae miscendae in vino, et thuris deferendi ad Evange-lium legendum. Item, post Evangelium lectum, offerendum est ei primo ad osculandum. Item, primo est ei aspersorium aquae benedictae offerendum ad aspergendum se et colla-terales. Primo etiam est thurificandus, si haec in missa fiant. Item, primo est ei offerenda pax. Item, in fine missae est invitatus a cantore ad dandam benedictionem. Si autem cardinalis non episcopus sed presbyter vel diaconus vel legatus non episcopus nec cardinalis interfuerit, quaeratur consuetudo eius circa haec et servetur. (traduzione dell’autore)

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

422

concelebrazione, ovvero, di ciò che scrive Innocenzo III, la celebrazio-ne, in cui di solito partecipa Tommaso, addirittura non lo prevede.

Un simile ragionamento si potrebbe applicare al rito della comunio-ne. Infatti, Innocenzo III, mentre parla della concelebrazione, non la li-mita unicamente al problema della consacrazione, ma la estende anche al momento della comunione: «dopo che il sacrificio è stato compiuto [i concelebranti] ricevano la comunione delle mani di lui [dal vescovo], a imitazione degli Apostoli che, allo stesso modo distesi con il Signore, presero dalle sue mani la santa Eucaristia, ed in quello che essi concele-brano manifestano che gli Apostoli ricevettero allora dal Signore il rito di questo sacrificio»104. È lecito inoltre notare che una simile immagine, ovvero la comunione come pasto con il Signore, il Papa la riporta anche mentre descrive il rito della comunione all’interno di tutta la celebrazio-ne, non per forza concelebrata.

Il vescovo poi si comunica con i ministri, ad indicare che Cristo dopo la risurrezione mangiò con i discepoli. […] Che egli prenda una parte e lasci le altre ai ministri significa ciò che ricorda l’evangelista Luca, che Gesù prese il pane e lo mangiò davanti ai suoi discepoli, e prendendo i resti li dette ad essi. E poiché, come afferma lo stesso evangelista, «Gesù prese il pane, lo spezzò e lo porse loro, e il loro cuore ardeva in loro», così il pontefice prendendo l’esatta metà dell’Eucaristia sulla patena, la fa in pezzi che porge ai ministri per mangiarli105.

Il Romano pontefice non si comunica quando spezza, ma spezza sull’altare e si comunica nel suo seggio. Perché Cristo spezzò il pane a Emmaus davanti a due discepoli, e lo mangiò a Gerusalemme davanti agli undici apostoli106.

Innocenzo III nella sua descrizione si riferisce alla tradizione riporta-ta dagli Ordines romani dell’VIII secolo, secondo cui la comunione vie-ne portata al papa seduto alla sua cattedra dal diacono e il calice dall’ar-cidiacono (o dal suddiacono). In seguito, i vescovi insieme ai presbiteri dovevano avvicinarsi al pontefice per poter ricevere la comunione dalle

104 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.105 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 232, 406-407.106 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 234, 410-411.

Dominik Jurczak

423

sue mani107. È opportuno notare che il suddetto rito ancora si svolge al tempo di Innocenzo III, vale a dire, che la comunione si fa all’interno della celebrazione, anche se fossero presenti esclusivamente i ministri e i concelebranti. Quegli ultimi perciò, in modo più evidente e significa-tivo, devono attuare l’immagine dell’ultima cena e della Chiesa, cioè il pasto unico fra tutti che il Signore fece con gli apostoli, in cui loro non soltanto mangiarono con Gesù ma anche ricevettero «il rito di questo sacrificio»108.

Al tale riguardo l’Ordinarium del «Prototipo» domenicano, compo-sto circa cinquanta anni dopo il trattato di Innocenzo III, tranne qual-che situazione particolare, colloca la comunione nelle celebrazioni dei Predicatori fuori della messa. Nota bene, similmente si fa anche nelle altre liturgie. Inoltre, la prima tradizione domenicana dà più rilievo alla preparazione per ricevere la comunione che alla comunione stes-sa. In certe occasioni, ancor prima di celebrare la messa conventuale, il superiore nella sala capitolare esorta i frati, sia presbiteri che non-presbiteri, ad avvicinarsi più degnamente al sacramento (ut ad tantum sacramentum dignius praeparati accedant)109. Il processo di prestare mag-giore attenzione al sacramento e che non alla celebrazione stessa poteva essere anche indotto e rafforzato dalla festa del Corpus Domini che ve-niva estesa a tutta la Chiesa da Papa Urbano IV proprio in quegli anni (precisamente nel 1264)110. Comunque, lo spostamento degli accenti si presenta come evidente.

Non è inoltre da escludere che le risposte di Tommaso vengano condizionate dalle caratteristiche dei nuovi ordini, sia Frati Minori che Predicatori, che – nota bene – si formano durante il pontificato di In-nocenzo  III. A primo avviso l’affermazione di Tommaso, sia nel suo

107 Cf. ad esempio Ordo I, 106-121, in M. Andrieu, Les “Ordines romani” du haut moyen-âge 2, (Études et documents 23), Spicilegium sacrum Lovaniense, Lou-vain 1960, 101-106; Ordo XV, 54-65, in M. Andrieu, Les “Ordines romani” du haut moyen-âge 3, (Études et documents 24), Spicilegium sacrum Lovaniense, Louvain 1961, 106-109.

108 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.109 Cf. Ordinarium juxta ritum Sacri Ordinis Fratrum Praedicatorum, 246-248.110 Cf. Urbanus  IV, «Transiturus de hoc mundo» (bolla, 11.08.1264), in En-

chiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, ed. H. Denzinger-P.Hunermann, Edizioni Dehoniane, Bologna 52009, 846-847.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

424

commento alle “Sentenze” che nella Summa, induce a pensare che lui non conoscesse né appartenesse a nessuna Chiesa. In realtà parla della concelebrazione come la consuetudo (oppure mos) quarumdam Ecclesia-rum111. Lasciando da parte il problema della sua ordinazione, se con-celebrasse insieme con il vescovo o no, cosa intendeper «alcune Chie-se»? Infatti, i domenicani e i francescani di per sé costituiscono quegli ordini itineranti che superano una diocesi, una provincia ecclesiastica, un’abbazia. Si tratta di ordini che fortemente si diffondono in tutta la Chiesa della Christianitas. Non meraviglia quindi che nel momento in cui Tommaso lavora sul commento alle “Sentenze” conosca ormai le usanze liturgiche dell’abbazia benedettina di Montecassino, delle Chie-se di Napoli, Parigi e Colonia, per non menzionare le consuetudini che scopre durante i suoi viaggi. Per di più, in tutti questi luoghi Tommaso incontra certamente consuetudini diverse, o forse meglio, non può atte-stare un’unica ed universale usanza della concelebrazione, testimonian-do così lo stadio della sua atrofia. Una simile situazione gli consente, da una parte, di essere in dubbio sulla questione della concelebrazione, dall’altra, di ripensarla e giustapporla audacemente, secondo le catego-rie scolastiche, al sacramento nella Summa.

Se partiamo ora dai principi della concelebrazione di Innocenzo III, secondo cui non soltanto la possibilità della consacrazione forma il nu-cleo della questione, ma anche l’atto di riprodurre l’immagine dell’ulti-ma cena durante la comunione, è lecito domandare: che cosa in realtà doveva rivedere e modificare Tommaso per non perdere il concetto del Papa? Infatti, rispettando le consuetudini di alcune Chiese e seguendo le tendenze del descrivere la realtà in modo preciso e univoco, Tommaso inizia dalla questione intorno alla possibilità della co-consacrazione di più sacerdoti. Non trovando una soluzione né sufficiente né adatta, e che inoltre non provochi ingiuria al sacramento dell’Eucaristia, nel suo commento alle “Sentenze” de facto, non dà altra risposta se non quella di Innocenzo III, ossia avere la medesima intenzione del vescovo che in quell’istante proferisce le parole112. Nondimeno Tommaso si ricorda del suo obiettivo, così come vuole il Papa: rappresentare l’ultima cena.

111 Cf. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 s. c. 1; Cf. Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.

112 Cf. Tommaso d’Aquino, Super Sent., lib. 4 d. 13 q. 1 a. 2 qc. 2 ad 1-2.

Dominik Jurczak

425

Questa immagine però Tommaso la sposta dal momento della comu-nione all’istante in cui vengono proferite i verba consecratoria. Ciò che gli consente di fare questa traslazione sono le categorie scolastiche del sacramento dell’Eucaristia insieme con la soluzione di «avere la stessa intenzione» per compiere una sola consacrazione, il fatto che la con-celebrazione si fa soltanto durante la messa in occasione dell’ordina-zione e, infine, che la comunione si sposta al di fuori dell’Eucaristia. Dunque, non si tratta più della celebrazione papale, che al tempo di Innocenzo III avviene «talora» (interdum)113 senza precisare la circostan-za concreta, ma della celebrazione vescovile che si svolge unicamente quando vengono ordinati i nuovi sacerdoti. Questo accostamento tra ordinazione e concelebrazione – e di conseguenza ancor più forte tra la consacrazione e la concelebrazione – in realtà spingono Tommaso a cer-care nuove vie di interpretazione della concelebrazione, ove il momen-to della consacrazione comporterebbe il comune denominatore. Vale a dire, ciò che nella Summa viene sottolineato è il “potere di consacrare” (potestas consecrandi), unendo tutte e tre le realtà: l’ordinazione, la con-sacrazione e la concelebrazione. La nuova proposta dà a Tommaso un gran vantaggio: gli permette di vedere la concelebrazione nelle categorie scolastiche del sacramento, come l’esecuzione del “potere di consacrare” intesa come l’agire di più sacerdoti, che rimangono nell’unità in Cristo operando nel nome di Lui. In questa prospettiva più teologica non si può presumere che la concelebrazione introduca un elemento superfluo al sacramento come se tutti operassero “per virtù propria” (in virtute propria); non si può nemmeno suggerire che la forma del sacramento non sia adatta, perché in realtà tutti consacrano in persona Christi. È tuttavia necessario tener ben saldo il riferimento al concetto di Inno-cenzo III per evitare di fare ingiuria al sacramento, visto ora non nella chiave della «medesima intenzione» in quel momento in cui il vescovo proferisce le parole, quanto di indirizzarla al preciso momento della consacrazione, a patto che tutti siano «una cosa sola in Cristo» (cf. 1Cor 10,17) e consacrino in persona Christi.

In questa maniera non è più l’immagine del cenacolo al centro del problema della concelebrazione, come per Innocenzo III, ma il “potere

113 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

426

di consacrare” che consente a più sacerdoti di concelebrare e co-consa-crare. L’immagine dell’ultima cena, costruita nel tempo di Tommaso soltanto in occasione dell’ordinazione, deve raffigurare l’inserimento nel grado di coloro che ricevettero dal Signore non tanto «il rito di questo sacrificio»114, come voleva Innocenzo III, quanto la potestas con-secrandi, «purché si ripeti il rito della Chiesa»115.

Conclusione

Quali conclusioni si potrebbero trarre da questa analisi? Innanzitut-to che nell’Occidente cristiano del XIII secolo esisteva la consuetudi-ne della concelebrazione, che nel corso del tempo, appare sempre più ridotta e meno compresa. Ciò che nei testi analizzati appare come il leitmotiv è il fatto che essa veniva sempre collegata con la celebrazione dell’Eucaristia presieduta dal vescovo. Non si parla, quindi, almeno non in modo explicite, né di concelebrazione degli altri sacramenti né della concelebrazione di presbiteri o di vescovi tra loro. Inoltre, si potrebbe asserire che all’interno dell’Eucaristia il motivo della concelebrazione si polarizza nel rappresentare l’ultima cena, ovvero un momento par-ticolare nella vita della Chiesa, anche se quest’immagine non compare come la più caratteristica per la concelebrazione o viene interpretata di-versamente. Con il pensiero scolastico la concelebrazione, mentre viene sottoposta all’analisi delle categorie più rigide e precise, la si studia an-che dal punto di vista del sacramento dell’Eucaristia, generando molte problematiche domande. Tommaso d’Aquino, tuttavia, per trovare una giustificazione all’esistente consuetudine della Chiesa, e conoscendo-la probabilmente soltanto in occasione dell’ordinazione, ridimensiona il suo concetto vedendo la concelebrazione, a differenza del passato, prevalentemente come la simultanea consacrazione della medesima ostia. Ciò che difatti gli permette di farlo è il sviluppato e approfon-dito concetto del “potere di consacrare”, inteso non come l’azione per virtù propria che appartiene al sacerdote, ma come un unico agire dei sacerdoti che, rimanendo «una cosa sola in Cristo», proferiscono i verba consecratoria nel nome di Lui. Occorre sottolineare che si tratta dell’a-

114 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.115 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 ad 2.

Dominik Jurczak

427

zione comune sia al vescovo che ai presbiteri, a cui ugualmente con-viene la potestas consecrandi. In tal modo emerge in primo piano non l’immagine dell’ultima cena, come modello della piena manifestazione della Chiesa mentre celebra l’Eucaristia, ma il tema del sacerdozio per il quale l’Eucaristia è azione fondamentale. Cambia sottilmente il “che cos’è” della concelebrazione. Nella stessa maniera, appoggiandosi sulla risposta del Papa Innocenzo III d’avere la medesima intenzione, cambia il “come” della concelebrazione che sempre più si riferisce ad un livello concettuale piuttosto che d’immagine.

Quali sono le conseguenze? Prima di tutto, risulta che la concelebra-zione, nonostante l’innegabile approfondimento teologico, viene vista tramite il problema della consacrazione, o forse meglio, viene ridotta al caso molto particolare della consacrazione, esclusivamente in occasione dell’ordinazione dei nuovi sacerdoti. In tal modo, si “sgonfia” – mi si consenta il termine – il ruolo della concelebrazione come manifesta-zione dell’ultima cena, per cui non si tratta più della concelebrazione che rappresenta la Chiesa del cenacolo, ma di una simultanea consa-crazione. Si potrebbe dire, con ragione, di trovarsi di fronte ad una sua riduzione.

Per di più, ci si può chiedere, se l’atrofia della concelebrazione, intesa come la raffigurazione dell’ultima cena, non abbia provocato o almeno permesso lo sbilanciamento nel modo di percepire l’Eucaristia nei secoli seguenti. Infatti, se in conseguenza dell’affermazione di Innocenzo III – «in quello che essi concelebrano manifestano che gli Apostoli ricevette-ro dal Signore il rito di questo sacrificio»116 – rimane (e successivamente viene accentuato) soltanto «il rito di questo sacrificio», scompare a livel-lo dell’immagine la dimensione della manifestazione del cenacolo, così fondamentale per capire la concelebrazione nel tempo di Innocenzo III. In conseguenza l’Eucaristia viene vista non tanto come la cena durante la quale si compie il sacrificio, quanto come il «sacramento perfetto della passione del Signore»117, ove il sacerdote in persona Christi compie

116 Innocenzo III, Il sacrosanto Mistero dell’Altare, 176, 304-305.117 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 73 a. 5 ad 2-3: Ad secundum dicendum quod

Eucharistia est sacramentum perfectum dominicae passionis, tanquam continens ipsum Christum passum. Et ideo non potuit institui ante incarnationem, sed tunc habebant locum sacramenta quae erant tantum praefigurativa dominicae passionis. Ad tertium di-

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo

428

la consacrazione. In conseguenza, dal concetto dell’Eucaristia potrebbe scomparire l’immagine del banchetto, ricordando inoltre che nel tempo di Tommaso la comunione si distribuisce ormai al di fuori della messa.

Occorre anche notare che la riduzione della concelebrazione alla consacrazione, da una parte ha sminuito il senso della concelebrazio-ne intesa come visibile manifestazione del cenacolo, e dall’altra però, ha approfondito teologicamente il concetto della Chiesa, la cui unità scaturisce dall’Eucaristia. Essa, infatti, è la res tantum dell’Eucaristia, la fondamentale condizione di poter compiere la co-consacrazione da parte di più sacerdoti. Per di più, in questa prospettiva cresce e ancora viene precisato il ruolo del ministro. Forse la suddetta posizione nasce in Tommaso poiché conosceva un’unica concelebrazione – a differenza di Innocenzo III – come la messa in cui vengono ordinati i nuovi sacer-doti. Si tratta allora di una celebrazione specifica, inoltre, nell’ambito concettuale del “potere di consacrare” che caratterizza tutti i sacerdoti. Sembra che proprio in tale occasione sorga il concetto di “unità del sa-cerdozio”, che in questa forma senz’altro non esisteva al tempo di Inno-cenzo III, ovvero, come il «grado di coloro che ricevettero dal Signore nella Cena il potere di consacrare»118.

Dal punto di vista dell’Eucaristia i mutamenti nel modo di concepi-re la concelebrazione, anche se aiutano molto ad approfondire e a preci-sare i concetti teologici, cambiano l’immagine di essa. Pongono, infine, una perplessità seria e più generale: è l’Eucaristia all’interno della quale bisogna cercare le definizioni, o forse, le definizioni ai quali occorre “adattare” l’Eucaristia? Se inoltre il rinnovamento della concelebrazione all’interno del rito romano, realizzato ancora nel percorso del Concilio Vaticano II, in qualche modo si è appoggiato sul pensiero di Tommaso d’Aquino, occorrerebbe chiedersi: su quale Tommaso? Quello che cer-ca di spiegare la consuetudine della Chiesa usando i concetti teologici dell’epoca, o piuttosto sul le nostre “idee tomiste”, derivate dal contesto liturgico e dalla metodologia del Doctor Angelicus, correndo il rischio di “derive” ideologiche. Basti pensare soltanto della concelebrazione odier-

cendum quod sacramentum illud fuit institutum in cena ut in futurum esset memoriale dominicae passionis, ea perfecta. Unde signanter dicit, haec quotiescumque feceritis, de futuro loquens.

118 Tommaso d’Aquino, ST IIIª q. 82 a. 2 co.

Dominik Jurczak

429

na che, a differenza del Duecento, è soprattutto presbiterale sottoline-ando il “potere di consacrare”. Però per rispondere ai dubbi di questo genere occorrerebbe uno studio distinto e più complesso.

Sommario

Il presente contributo mette in rilievo il problema della concelebra-zione nel XIII secolo, limitandosi ai due autori tipici per l’Occidente cristiano: Papa Innocenzo III (c. 1160-1216) e il domenicano Tomma-so d’Aquino (c. 1225-1274). Malgrado la loro poca distanza temporale, ciascuno di essi affronta la questione in modo alquanto diverso: il pri-mo più “descrittivo”, il secondo più “dogmatico”. Queste loro peculia-rità vengono evidenziate nella lettura liturgica delle loro opere, ove gli autori esplicitamente trattano della concelebrazione, cercando di tirare fuori il suo pieno significato e marcando gli spostamenti. Infine, lo stu-dio indica brevemente il rischio di una superficiale o scorretta interpre-tazione di concelebrazione.

Abstract

This paper highlights the problem of concelebration in the thirteenth century, by considering two authors whose perspectives are characteris-tic of Western Christianity, Pope Innocent III (c. 1160-1216) and the Dominican Thomas Aquinas (c. 1225-1274). Despite their proximity in time, each of them addresses this important question in a different way. The approach of the first is much more “descriptive”, that of the second more “dogmatic”. These distinct emphases are examined in the liturgical reading of their works, where the authors explicitly deal with the problem of concelebration, trying to demonstrate its full meaning and to show other alternatives. Finally, the study concludes by noting the risk of a superficial and incorrect interpretation of concelebration.

Il concetto di concelebrazione nel XIII secolo