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LA CHIESA COLLEGIATA DI SAN GINESIO CENTRO INTERNAZIONALE STUDI GENTILIANI Una storia ritrovata a cura di Pio Francesco Pistilli, David Frapiccini Rossano Cicconi San Ginesio 2012

Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali

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la chiesa collegiatadi san ginesio

centro internazionale studi gentiliani

una storia ritrovata

a cura di Pio Francesco Pistilli, david Frapiccinirossano cicconi

san ginesio 2012

in questa collana

1. la confraternita di s. tommaso. i sacconi di san Ginesio (Marche), 2004

2. la confraternita di s. tommaso in sanginesio. nuove aperture documentarie, 2008

3. “Statutorum volumen” della comunità di sanginesio. la presenza di alberico Gentili dalla redazione manoscritta alla

stampa, 2008

4. la chiesa collegiata di san Ginesio. una storia ritrovata, 2012

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San Ginesio (Macerata) – Italy Via G. Matteotti, 18 tel. e fax 0733.656855 www.cisg.it•e-mail:[email protected]

la chiesa collegiatadi san ginesio

centro internazionale studi gentiliani

una storia ritrovata

a cura di Pio Francesco Pistilli, david Frapiccini

rossano cicconi

san ginesio 2012

a cura di Pepe Ragoni

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La pubblicazione è stata realizzata con

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©CopyrightCentroInternazionaleStudiGentiliani-CISG,SanGinesio-2012Latraduzione,l’adattamentototaleoparziale,lariproduzioneconqualsiasimezzo(compresimicrofilm,digitalizzazione,film,fotocopie),nonchélacondivisioneviainternet,sonoriservatipertuttiiPaesi.

ISBN978-88-95385-03-7

Grafica - David Crucianelli

Provinciadi Macerata

Assessorato ai Beni e Attività culturali

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Le immagini del Tesoro della collegiata di San Ginesio sono di Irene Sabatini.

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Macerata, CamerinoANSG:ArchivioNotarilediSanGinesiopressol’ArchiviodiStatodiMacerataASCSG:ArchivioStoricodelComunediSanGinesioASCollSG:ArchivioStoricodellaCollegiata,SanGinesioASDCAC:ArchivioStoricodellaCuriaArcivescovile,CamerinoASFVI:ArchivioStoricodellaFondazioneVittorialedegliItaliani,GardoneRivieraASGNAM:ArchivioStoricodellaGalleriaNazionaled’ArteModerna,RomaASM:ArchiviodiStato,MacerataASR:ArchiviodiStato,RomaASSBAPM:ArchivioStoricodellaSoprintendenzaaiBeniArchitettonicie

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Fonti

Abbreviazioni:

PG:Patrologia Graeca,ed.J.-P.Migne,165voll.,Parisiis1857-1866PL:Patrologia latina,ed.J.-P.Migne,221voll.,Parisiis1844-1866

con questo studio corposo e competente una delle bellezze più suggestive della nostra regione trova finalmente l’attenzione che merita.esempio di architettura originale, la collegiata della ss. annunziata in san Ginesio annoda le sue vicende a quelle della città che l’ha racchiusa nelle sue mura, trasfor-mandola nel cuore di una delle comunità marchigiane più ricche di storia.il prospetto principale, opera di un architetto del nord europa, rappresenta un caso di gotico fiorito che per la sua unicità nel panorama regionale non poteva restare ulterior-mente nell’ombra.Va dato atto al centro internazionale studi Gentiliani di aver colmato una carenza, gra-zie a questa pubblicazione confluita nella preziosa collana dei suoi Quaderni: perciò la Regione Marche ha voluto sostenere l’iniziativa scientifica, mirata a una ricostruzione storica e documentaria.Notevole è, infatti, l’importanza artistica e architettonica della collegiata, intorno alla quale si sviluppano ancora oggi dispute e ipotesi tra studiosi. essa rappresenta tra l’altro una “pinacoteca” di grande ricchezza per l’importanza delle opere racchiuse: dal crocifisso ligneo portato dai 300 esuli rientranti a San Ginesio da Siena nel Quat-trocento, evento ancora oggi solennemente rievocato, al ciclo di affreschi di lorenzo Salimbeni, dalla ‘Madonna con Bambino e Santo Patrono’ attribuita nel volume a Mar-chisiano di Giorgio, alle opere pittoriche di stefano Folchetti, simone De Magistris e Domenico Malpiedi.Per tutto questo la collegiata è non solo emblema della cittadina e dei momenti più importanti della sua storia, spesso contraddittori e laceranti, ma sempre caratterizzati da fierezza e forte senso dell’autonomia; essa è anche un monumento che va adeguata-mente valorizzato e che restituisce una delle immagini più belle delle Marche.sono molte, insomma, le ragioni che hanno spinto validi studiosi a contribuire ad una pubblicazione che consente una conoscenza più profonda del valore del complesso ar-chitettonico e artistico ed è per questo che la Regione ha voluto essere al fianco loro, del Centro Internazionale Studi Gentiliani e dell’Amministrazione comunale di San Ginesio.

Pietro MarcoliniAssessoreaiBeniealleAttivitàculturali

dellaRegione Marche

Premessa

orgoglio municipale, testimonianza viva del nostro passato, luogo dove si rendono solenni i momenti fondamentali del nostro breve passaggio sulla terra, un largo spazio pianeggiante di fronte al quale porsi il mattino presto a vedere montare lentamente il primo raggio di luce e la sera sedere a ristorarsi dalla fatica del giorno, bevendo l’incanto di una quinta che, col passare delle ore, ha lasciato l’oro della pietra e si è vestita del rosa antico penetrante del cotto, che addolcisce l’atmosfera tutta della piazza. tutto questo è la collegiata per noi che viviamo a san Ginesio.un tempo eravamo molti di più, avevamo molte chiese, facevamo riferimento a diverse parrocchie e a diversi ordini religiosi. Ora lo spazio dell’anima si è ristretto e concentrato sulla chiesa collegiata della SS. Annunziata e sull’arcipretura dei padri Francescani del terzo ordine Regolare. Forse solo il terremoto del 1997, in seguito al quale la nostra chiesa è rimasta chiusa per anni, ci ha indotto a prendere coscienza di quanto avremmo potuto perdere per sempre e ad accorgerci di quanto quel monumento significava per noi.Le possenti mura castellane, il delizioso doppio prospetto dell’ospedale dei pellegrini, le pietre e i segni di san tommaso, la solennità delle linee architettoniche di san Francesco, il neogotico di san Gregorio, la solitudine antica di san Michele, gli antichi conventi dei Benedettini e quelli delle diverse famiglie dei Francescani, gli altri dismessi degli agostiniani, dei Filippini e dei chierici, ognuno con il proprio delizioso edificio sacro, costituiscono il cospicuo patrimonio culturale di San Ginesio, ma nessuno di loro vive, pulsa ed interagisce con la comunità e con i visitatori come l’imponente complesso della collegiata. e questo fenomeno di vita in simbiosi va avanti da quasi mille anni, da quando il primo nucleo insediato sul colle san Giovanni decise di darsi una chiesa che potesse contenere quanti abitavano e lavoravano già al di fuori del castello originario, nella parte pianeggiante dell’ampia collina, e oltre, verso levante, e ancora, quanti volessero sciogliere il giogo feudale e, incastellandosi, respirare le ricche libertà della vita comunale.Da allora, ogni pietra della collegiata segna un momento, un’epoca della esistenza di san Ginesio. Da allora i personaggi simbolo della nostra storia intrecciano i loro destini con quello della chiesa maggiore eretta sulla piazza maggiore. ad essa vengono destinate volontà testamentarie importanti che permettono di erigere sul primo un altro edificio di ben diverse dimensioni. Ad essa si rivolge l’attenzione della più potente signoria locale, quella dei Varano da camerino, innestando sulla prima facciata romanica un frontespizio gotico di tendenza oltremontana, che non ha l’eguale in nessuna altra parte delle Marche e forse d’Italia. Tramontata l’era varanesca e tornato l’effettivo governo della città nelle mani dell’oligarchia locale, in collegiata si consuma l’assassinio del “padre della patria”, Troilo Cerri, che di soli due decenni anticipa, e forse è causa, dell’agguato al potentissimo magnate Gregorio Massilla, le cui ricchezze saranno profuse nell’ornamento della Basilica di loreto, quasi a sanare i traumi familiari subiti nel luogo natìo. siamo in piena controriforma, epoca che produce un forte impatto su san Ginesio. in collegiata

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arrivano i padri Gesuiti a purgare gli “eretici” dei loro peccati, e da lì parte la delazione che porterà al sacrificio in Roma di nove sanginesini e all’esilio per causa di religione di moltissimi altri, non ultimo, quello del giurista e ideologo umanista alberico Gentili. tutti sono chiamati ad ascoltare i quaresimali in collegiata e il Magistrato ogni anno si fa carico delle spese del predicatore. Disseminate nelle varie chiese, a volte erette solo per il loro culto, le confraternite pian piano convergono verso la chiesa maggiore, dove al termine delle ribellioni contro il vicariato dei Varano, è stato depositato il Crocifisso donato dai loro sostenitori, quegli esuli politici che di volta in volta venivano scacciati e riammessi nella comunità. Il “Sacro Legno” ha portato la pace sociale, gli Statuti hanno ristabilito le condizioni del buon governo. così sperano coloro che si recano in processione ai Giubilei del 1575 e del 1600, e in effetti è così. Lo Stato della Chiesa è tornato forte e con piglio centralistico e autoritario governa le sue terre. san Ginesio ha riassorbito le divisioni politiche e religiose che l’hanno a lungo travagliata, ma in quella artefatta pacificazione sta perdendo mordente, defilata geograficamente sul monte, deprivata della linfa vitale, orbata dei cittadini migliori, che oramai cercano altrove gloria ed onori, pur senza mai sradicarsi completamente dal luogo d’origine.in questo nuovo contesto la collegiata diviene ancor più il centro della vita locale. le grandi famiglie le fanno donazioni, progettano e costruiscono cappelle, commissionano cicli pittorici, s’industriano per ottenere favori dalle alte gerarchie ecclesiastiche. Grande è la pressione che i Matteucci, i severini, i Gualtieri, i Giberti, i tamburelli, i Baldoni, la Magistratura comunale e i canonici mettono in opera per procurarsi le reliquie del Santo eponimo della città, intorno al quale fin dai tempi più remoti ruota il ciclo delle festività religiose e dei festeggiamenti civili, così minuziosamente descritti e prescritti nello statuto della terra. Gli esponenti dell’antica aristocrazia locale e i nuovi cittadini adottivi, aggregati al “Bossolo del Reggimento” della città, esaltano il loro successo tramite l’ascrizione ad una delle confraternite erette in collegiata, in particolare a quella del ss. sacramento, custode del Crocifisso: il che significa anche essere parte di una qualche accademia locale, appartenere alla classe colta di governo, correlata ad importanti parentele, quella che si cimenta nei salotti, nel melodramma sacro e nel teatro. Più o meno, quella stessa che, dopo aver inseguito vanamente il miraggio napoleonico e patito le amare esperienze carbonare, costituirà il ceto di governo nel passaggio al Regno d’Italia. Quest’ultimo darà vita al riscatto di San Ginesio dal declino e dal torpore dei due secoli precedenti, impegnandosi anche in iniziative di architettura urbana ed ecclesiastica, quali il tracciato di nuove vie di comunicazione, la costruzione di un nuovo palazzo, ora Teatro comunale, al posto dell’antico palazzo Defensorale, e infine in commesse ad artisti di larga fama, per la definizione del fastigio neogotico a chiusura del frontespizio della collegiata e per la ristrutturazione della cappella della Madonna delle Grazie o del Popolo, o anche del sacro cuore, da sempre sotto il patronato della Municipalità, trasformata, negli anni Venti del secolo XX, nel sacrario dedicato ai 105 caduti sanginesini della Prima Guerra Mondiale.Per parlare correttamente di questo intreccio di percorsi, era necessario consultare molti archivi, mettere in gioco competenze diverse, allinearle su un progetto interdisciplinare unitario. Tutto ciò è stato realizzato in questo volume grazie al rigore dei curatori, alla padronanza delle rispettive discipline da parte degli autori e alla determinazione del centro internazionale di studi Gentiliani che, in cinque anni di lavoro, non si è lasciato intimidire dalle asperità del percorso. Ma su due punti è bene ritornare e soffermarsi, vale a dire su quella specie di prospero cimento innescatosi tra

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gli autori, che li ha portati via via a procurare preziose informazioni di prima mano, archivistiche e documentarie, appassionandoli al punto che, persone mai incontratesi prima e/o durante, si sono confrontate ed arricchite vicendevolmente con una generosità difficilmente reperibile in situazioni analoghe. Il secondo punto riguarda il contributo di professionisti, solo collateralmente connessi con i recenti lavori di restauro della collegiata o di coloro che della stessa avevano documentazioni inedite: tutti hanno dato le liberatorie necessarie e offerto alla pubblicazione “chicche” di cui si ignorava l’esistenza. Per ultimo, ma ovviamente come fondamentale, s’impone di citare l’ampia, illuminata disponibilità della Curia di Camerino, cui il Bene Culturale Ecclesiastico fa riferimento, e l’affettuosa, paziente assistenza dei parroci, p. Vallerico leone e p. Giuseppe Bonardi, e dei loro rispettivi vice parroci, anche loro religiosi francescani t.o.R., p. Mario Ricciatelli e p. Milestone.il centro studi si è imbarcato per questa lunga e tempestosa traversata in piena armonia con la sua mission di celebrare la vita e le opere di alberico Gentili. nella vita del nostro la collegiata è infatti il luogo dove il corteo delle magistrature comunali si recava almeno due volte al giorno, uscendo dal palazzo Defensorale, allineato come da Statuto secondo il grado e la mansione ricoperti. Lì Alberico ha pregato l’Onnipotente, che doveva essere lo stesso per coloro che l’onoravano attraverso la pompa fastosa dei riti e per gli altri che ritenevano di portarlo in ogni momento dentro di sé, essendo manifestazione terrena della sua Grazia. L’antica opulenta famiglia dei Gentili e la sua potente parentela, paterna e materna, avevano supportato la crescita magnifica della collegiata. il destino amaro dei precetti, dei processi e delle pene comminate dall’Inquisizione, a suo padre e a suo zio prima e al resto della sua famiglia poi, aveva avuto origine da quell’atto di sottomissione, in occasione della confessione nella chiesa maggiore. D’altra parte, se a San Ginesio non ci fosse stato il fervore civile e culturale di cui la collegiata è stata insieme espressione e teatro, come questo volume descrive ed illustra, mai sarebbe potuto nascere dal suo seno un gigante intellettuale quale alberico Gentili, degna espressione della grandezza del Rinascimento italiano ed europeo. il centro studi, pertanto, non ha ritenuto lontano dai suoi interessi statutari la promozione e la pubblicazione di questo studio sul complesso sacro millenario, e monumento nazionale, che così grande valore aggiunge alla suggestione architettonica e naturalistica di san Ginesio. la nostra epoca tende spesso a non approfondire, e quindi a sfigurare il proprio passato, accontentandosi di frettolose narrazioni folkloristiche, ignorando connessioni e analogie tra i momenti della “piccola” storia e gli eventi della “grande” storia, dimenticando che se tali fatali congiunzioni si verificano, esse accadono tanto per l’ardimento e il sapere di pochi, quanto per l’impegno e l’abnegazione di generazioni di istituzioni, di cittadini e di sacerdoti. Il volume che qui si apre vuole offrire un supporto rigorosamente scientifico alla ricostruzione storica, ma nel contempo mira anche a rammentare ai distratti quanto sia stato importante il contributo congiunto di laici, chierici e religiosi nell’abbellimento progressivo e nella conservazione costante del bene culturale inestimabile che oggi abbiamo la fortuna di vedere torreggiare, unico e superbo, a conforto dei nostri occhi e delle nostre anime.

PepeRagoniPresidente

Centro Internazionale Studi Gentiliani

Sommario

PioFrancescoPistilliSan Ginesio e la sua collegiata: ascesa e crepuscolo nel tardo medioevo 1

L’etàmedievale

FabrizioCortellaDa incastellamento a città: le mura urbane 13

MaurizioFicarila platea. Dinamiche economiche e politiche nello spazio cittadino 49

RossanoCicconinotizie storiche 59

Giorgia Corsoil frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali 123

DavidFrapiccinii salimbeni 159

Giuseppe CapriottiMimo e musico in difesa del battesimo. L’iconografia di san Ginesio 183

L’etàmoderna

DavidFrapicciniUno sguardo sull’età moderna 215

FrancescaColtrinariGli interventi pittorici del quattrocento e del primo cinquecento.Pietro alamanno, stefano Folchetti e Marchisiano di Giorgio 231

sommarioXIV

Giuseppe Capriottila decorazione della cappella del ss. sacramento.i dipinti di simone De Magistris 273

DavidFrapicciniUlteriori testimonianze figurative di età moderna 289

Guido ArbizzoniUn ciclo di imprese nell’oratorio di San Biagio 309

Irene Sabatiniil tesoro della collegiata 327

L’etàcontemporanea

MaurizioFicariL’Ottocento e il Novecento 341

MaurizioFicaristoria e ragioni di un restauro neogotico 349

Matteo PiccioniInterventi novecenteschi: la Cappella Votiva di Adolfo De Carolis 369

Indiciindice dei nomi 403indice dei luoghi 411

Tavole 417

Appendice

Silvia LapponiL’archivio storico della pieve collegiata della SS. Annunziata 421

Giorgia Corso

Il frontespizio tardogoticoe le presenze oltremontanenelle Marche meridionali

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Nell’anno 1421 gli abitanti di San Ginesio assistono ad un evento destinato a connotare in modo inconfondibile l’immagine della pieve urbana e della stessa città, quando un vistoso frontespizio in mattoni viene applicato alla chiesa per rinnovare in forme tardogotiche il prospetto rivolto alla piazza (Tav. XXII). La data dell’intervento è riportata sulla targa in pietra calcarea che ancora oggi si conserva murata nella facciata. Il testo, inciso in caratteri gotici alquanto irregolari, aggiunge all’esatta indicazione cro-nologica il riferimento al papa regnante, Martino V e a Porfirio da Camerino, “insigne maestro di diritto” e pievano di San Ginesio:

a : d : m : iiii : xxi : tpe : d : martini : pp : v : ettpe : egregii : decr etor : doctoris : d : porfilii : de cam : ple bani : sancti : genesii

Grazie alle informazioni contenute nell’iscrizione (Tav. XXIX, 1), siamo in grado di contestualizzare con precisione una delle più singolari manifestazioni che l’arte gotica internazionale abbia prodotto nella penisola al tramonto del Medioevo.

Il restauro dell’opera, intrapreso alcuni anni orsono con l’intento iniziale di risolvere alcuni urgenti problemi di statica, ma poi sviluppatosi nel progetto di un com-plessivo recupero estetico1, permette ora di acquisire ulteriori dati tecnici sui materiali utilizzati e sulle fasi costruttive, fornendo strumenti indispensabili per accrescere la comprensione di un monumento sotto molti aspetti eccezionale, che tuttavia solo in tempi recenti, grazie al contributo storico-critico di Cristiano Marchegiani, è stato sottratto all’orizzonte circoscritto degli studi locali per essere correttamente posto in relazione con i principali fatti dell’arte tardogotica europea2.

1 Il restauro, eseguito per iniziativa della Curia vescovile di Camerino, sotto l’alta sorveglianza delle Soprintendenze competenti, è stato condotto dalle ditte “Tecnogroup” e “Il Compasso”, sotto la direzione dell’arch. Massimo Fiori. La consultazione del materiale tecnico inerente i restauri è stata possibile gra-zie alla cortese disponibilità del prof. Michele Papi e dell’arch. Massimo Fiori, mentre al dott. Gabriele Barucca va il ringraziamento per aver condiviso osservazioni e riflessioni scaturite dalle indagini e dall’a-nalisi ravvicinata del manufatto. 2 La letteratura critica sul prospetto tardogotico della SS. Annunziata prende avvio con G. salvi, La facciata della chiesa collegiata di San Ginesio e l’allogazione della medesima a M. Enrico Alemanno, in «Nuova Rivista Misena», 6, 1893, II, pp. 19-20, per registrare poi una breve menzione nei repertori di L. serra, Arte nelle Marche dalle origini cristiane alla fine del gotico, Pesaro 1924, p. 204, e una trattazione più ampia nella guida storico-artistica della chiesa di l.m. armellini, La pieve-collegiata di San Ginesio. Guida storico-artistica, San Ginesio 1990. Le notazioni in F. mariano, Architettura nelle Marche. Dall’età classica al Liberty, Fermo 1995, p. 67, che inquadrano l’opera nella cultura gotica internazionale, trovano infine sviluppo nel saggio monografico di C. marchegiani, Il frontespizio in terracotta della pieve di San Ginesio. Una proposta gotica alemanna nella Marca di Martino V, in I Da Varano e le arti, Atti del conve-gno a cura di A. De Marchi-P.L. Falaschi (Camerino, 4-6 ottobre 2001), Ripatransone 2003, pp. 637-654, e ulteriori notazioni in P. sanvito, Artisti transalpini itineranti nell’area adriatica. Alcune questioni ancora aperte, in Universitates e Baronie. Arte e architettura in Abruzzo e nel Regno al tempo dei Durazzo, Atti del

Giorgia Corso126

Il nuovo frontespizio tardogotico per l’antica pieve

Al principio del XV secolo la città di San Ginesio si avvia a raggiungere il culmine di uno sviluppo economico e politico che, a partire dalla seconda metà del Due-cento, l’ha condotta ad affermarsi tra i centri più floridi e dinamici della Marca camerte3. Nel corso degli ultimi decenni del Trecento, la crescita avviata in concomitanza con il progressivo coinvolgimento della famiglia da Varano nel governo cittadino si riflette sul tessuto urbano per mezzo di interventi finalizzati alla valorizzazione dei luoghi di culto e al potenziamento dello spazio pubblico costituito dalla piazza civica (oggi piazza A. Gentili), dove si svolgono le attività connesse al mercato e si concentrano, accanto alla pieve, i principali edifici di rappresentanza dei poteri politici.

Durante il Medioevo la chiesa, allora dedicata a san Ginesio e forse non ancora elevata al rango di collegiata, registra puntualmente, attraverso le vicende costruttive, i passi della continua evoluzione demografica e culturale dell’abitato. Scomparsa ogni testimonianza del primitivo edificio, ricordato da fonti scritte non più verificabili come già esistente nella seconda metà dell’XI secolo4, si conservano in facciata tracce di mura-tura riferibili ad una nuova fase costruttiva, da porre poco oltre la metà del Duecento.

Se agli anni di passaggio tra il XIII e il XIV secolo va assegnata la riedifica-zione pressoché integrale della chiesa, completata dal portale lapideo, nella seconda metà del Trecento si concentrano ulteriori rifacimenti, compiuti con il patrocinio dei da Varano, in direzione di un ampliamento e di una monumentalizzazione dell’edifi-cio, nonché di un suo più organico inserimento nel contesto architettonico e funzionale della piazza5. Nel 1367 viene ricostruito il portico, che si connette a quello del palazzo Defensorale, mentre entro il 1398 (ma con un intervento intrapreso forse già nel 1348, e probabilmente in atto nel 1363), al tempo del plebano Angelo di Antonio di Tommaso, si demolisce il vecchio coro per erigerne uno più profondo e ampio, affiancato da due cappelle minori, ottenute dal prolungamento delle navate laterali tramite l’aggiunta di

convegno a cura di P.F. Pistilli-F. Manzari-G. Curzi (Guardiagrele-Chieti, 9-11 novembre 2006), Pescara 2008, I, pp. 197-198.3 Sulla città di San Ginesio, v. G. salvi, Memorie storiche di San Ginesio (Marche) in relazione con le terre circonvicine, Camerino 1889; F. allevi-g. crispini, San Ginesio, Ravenna 1969; A. porzi, San Ginesio: terrazza delle Marche, potente castello medioevale piceno, 2 voll., Roma-Monte San Giusto 1986; E. di stefano, Per una ricostruzione demografica dell’alta valle del Fiastra: popolazione ed epidemie a San Ginesio tra XIV e XVI secolo, in «Studi Maceratesi», 23, 1988. Per una più approfondita disamina delle vicende storiche si rimanda al contributo di F. Cortella in questo volume.4 Marinangelo severini, nella sua storia manoscritta di San Ginesio (Genesiae Historiae Libri XII, presso BCSG, ms. FM C 6, cc. 6v-10v), colloca la fondazione della pieve in un periodo tra il 1072 e il 1098, ma il più antico documento conservato riguardante l’edificio (ASCollSG, Fondo diplomatico, 48) risale invece al 1175.5 La pieve si presenta con impianto a tre navate, originariamente coperte da capriate. Si deve anche alle ripe-tute trasformazioni dell’edificio l’asimmetria dell’aula, evidente soprattutto all’altezza dell’arco trionfale, a causa del sensibile decentramento verso destra del vano del coro. I sostegni che suddividono le tre navate introducono un’altra insolita difformità, alternando alla prevalente struttura cilindrica la sezione ottagonale o cruciforme con colonnine pensili, secondo criteri non del tutto chiariti.

Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali127

nuove campate6. Così modificato, lo spazio della chiesa si protrae verso Oriente, ele-vandosi sulla cripta sottostante, nella quale di lì a poco i fratelli Salimbeni avrebbero eseguito il ciclo pittorico dedicato a san Biagio7.

Nel 1421 è infine la volta della facciata, fatta oggetto di una trasformazione radicale tramite l’aggiunta del prospetto in laterizio sovrapposto alla superficie lapidea preesistente. Sotto la nuova cortina scompare la parte superiore del progetto primitivo, che fino a quel momento doveva avere conservato l’aspetto originario. Il nuovo fronte-spizio risparmia la zona basamentale, lasciando a vista il muro in arenaria e salvaguar-dando del tutto il portale. Il limite inferiore del rivestimento in cotto è segnato da una cornice marcapiano che attraversa tutta la larghezza della parete, correndo parallela alla fila di mensole inserite un poco più in basso. Su di esse doveva poggiare il tetto del portico trecentesco conservatosi fino alla metà dell’Ottocento, allorché fu sostituito con un nuovo andito neogotico, edificato da Giovanni Battista Carducci e a sua volta demo-lito nel 19498. La messa in opera della cortina in cotto venne chiaramente condizionata dall’ingombro del loggiato medievale, presumibilmente interessato da un parziale e temporaneo smantellamento delle coperture per consentire l’esecuzione dei lavori.

Sembra tuttavia possibile collegare al rifacimento del prospetto l’aggiunta dell’edicola in mattoni posta accanto all’ingresso, sulla destra, si direbbe in corrispon-denza di una preesistente cappella, menzionata in documenti del 1387 e del 1390 in rapporto alla celebrazione annuale della festa della Santa Croce, che si teneva nella log-gia della pieve9 (Tav. XVIII, 2). La struttura, realizzata in laterizio, individua un altare esterno, adibito a particolari pratiche liturgiche osservate da fraternite e artes, probabil-mente correlate alle attività che si svolgevano nella piazza. La datazione dell’edicola è confermata dai lacerti di affresco che aderiscono all’intradosso e al fondo della lunetta sovrastante l’altare. Le figure della Vergine e dei Santi ancora riconoscibili, indicano infatti nei dati stilistici e tecnici un’appartenenza al primo Quattrocento. Un filare di conci sottili collega la sommità dell’edicola alla muratura della torre, facendo intuire tra i due elementi una relazione non più decifrabile.

Le trasformazioni subite a più riprese nel corso dei secoli fanno sì che il fron-tespizio tardogotico appaia all’osservatore odierno parzialmente alterato, soprattutto

6 La data di avvio dei lavori, fissata al 1348 da severini (Genesiae Historiae, c. 180r-v) sulla base di un’epigrafe perduta, è stata posticipata da salvi (Memorie storiche, p. 310) al 1398, ovvero al tempo del pievano Angelo di Antonio di Tommaso, ricordato come committente dallo stesso Severini. Tuttavia, tanto l’apparente “svista” di quest’ultimo, quanto la notizia di un lascito testamentario finalizzato all’amplia-mento della chiesa nell’anno 1363, inducono a prendere in considerazione l’eventualità che le modifiche della tribuna siano state intraprese alla metà del Trecento e completate alla fine del secolo, come chiarisce Cicconi in questo volume.7 Per l’analisi degli affreschi tardogotici, datati al 1406, v. il contributo di D. Frapiccini in questo volume.8 Sulle vicende architettoniche della piazza e degli edifici che la attorniano, v. il contributo di M. Ficari in questo volume.9 Sulle testimonianze relative alla cappella trecentesca (riportate in severini, Genesiae Historiae, c. 202r, e in ASCSG, Consigli Comunali 1389-1392, c. 29r-v), v. ancora Cicconi in questo volume.

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nella zona sommitale, dove non è più possibile definire l’autentico profilo e risalire all’originaria soluzione di coronamento, sacrificata già tra Sei e Settecento e nuova-mente rimodellata in forme “neomedievali” alla metà del XIX secolo. Una corretta lettura dell’intervento quattrocentesco deve necessariamente escludere le porzioni fatte oggetto di successive modifiche, la cui estensione, in assenza di un’adeguata documen-tazione coeva, può essere definita confrontando le variazioni della tessitura muraria con le preziose fonti iconografiche costituite dai disegni in cui la pieve è raffigurata con la sua facies barocca10 (Tav. XXIII).

La cortina antica presenta un arrangiamento piuttosto regolare di mattoni posti in varia alternanza di testa e di taglio, con sporadici inserti di conci in arenaria, che si fanno più fitti nella zona centrale del prospetto, interessata da diffusi rappezzi (Tav. XXVIII, 1). Il colore dei laterizi varia dal rosso, al giallo, al grigio; tale disomogeneità, determinata dalla tecnica di fabbricazione e dalla cottura, era solitamente destinata ad essere celata dall’intonaco o camuffata da tecniche di finitura, qualora non la si volesse appositamente sfruttare come elemento di decorazione11. In seguito al recente restauro, vediamo ora prevalere una sfumatura rosata, determinata dal trattamento della superficie e dalla tonalità delle nuove stuccature, in grado di conferire alla costruzione una tonalità calda e uniforme, attenuando l’interferenza visiva creata dalla presenza dei blocchi in arenaria e dalle manomissioni della muratura verificatesi in occasione di precedenti restauri, tesi a riparare i danni causati dal degrado dei materiali, dalle intemperie e dai terremoti (Tavv. XXIV-XXVI). Grazie all’accurata pulitura, risaltano maggiormente i rari elementi in marmo o pietra calcarea, che con il loro candore richiamano la luminosa cromia del portale. Sono invece forgiati in terracotta rossa e gialla e applicati sulla muratura i segmenti che compongono la trama disegnativa di arcate e trafori ciechi distribuita sulla superficie.

Il bordo inferiore del frontespizio è percorso da un fregio fittile ottenuto dalla iterazione di un medesimo motivo floreale racchiuso in una cornice quadrata. Questa fascia decorativa è ritmicamente interrotta da mensole lapidee a forma di campana rovesciata, declinata in tre diverse varianti: sfaccettata nelle due più esterne, liscia nelle intermedie e modanata in quelle centrali. Su tali sostegni si impostano sei semipilastri pensili a sezione mistilinea che, risalendo lungo la parete, la suddividono in cinque specchiature parallele, fino a raggiungere la sommità, dove si innesta il fastigio ottocen-tesco (Tav. XXII).

10 Un primo disegno, già di proprietà della famiglia Morichelli, presenta un carattere pittorico – dovuto all’uso dell’acquerellatura – e narrativo, che induce Marchegiani (Il frontespizio, pp. 642-643, nota 19) ad interpretarlo come una “rievocazione” della facciata barocca, posteriore di qualche decennio ai rifacimenti del secolo XIX. Una seconda riproduzione grafica, già in possesso del pittore Guglielmo Ciarlantini, regi-stra in forme più nitide l’aspetto della facciata barocca ma omette la raffigurazione del portico, proponendo una fase intermedia, forse solo teorica, della rielaborazione ottocentesca.11 M. rossi, I colori del mattone: monotonia, policromia ed effetto colore, in «Materia e geometria», 8, 2008, pp. 83-88.

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All’altezza del registro mediano della facciata, immediatamente sopra il fregio, lo scomparto centrale contiene una grande finestra ogivale cui corrispondono, nelle quattro specchiature laterali, altrettante arcate cieche coronate da un traforo in cotto dalla forma archiacuta, leggermente inflessa e culminante con un motivo fogliaceo (Tav. XXVIII, 1). Ciascuna delle quattro arcate inquadra una nicchia ad arco ribassato, attual-mente vuota, ma verosimilmente predisposta ad accogliere una statua. Ogni nicchia è a sua volta sovrastata da uno stemma e affiancata da due colonnine fittili ornate da intagli tortili che alternano nastri lisci a file di stelle o foglie di quercia12. Al di sopra della finestra centrale è invece inserita una scultura marmorea raffigurante una testa virile, innestata direttamente nella muratura13 (Tav. XXIX, 2).

Al livello superiore, separato da quello sottostante tramite una sottile cornice marcapiano costituita da mattoni allineati e leggermente sporgenti, il prospetto si restringe, riducendosi ad una larghezza equivalente all’estensione di tre soli scomparti. Nei due laterali ritroviamo le medesime arcate cieche del registro inferiore, ornate da stemmi ma prive delle nicchie. Nello spazio centrale, cui corrisponde in basso la finestra, i profili in terracotta disegnano una trifora ogivale più acuta e slanciata (Tav. XXVIII, 1). Il traforo cieco ora visibile all’interno della lunetta è frutto di un intervento che ha ricomposto in modo incongruo elementi di recupero14. È probabile che il rimontaggio sia avvenuto in tempi piuttosto recenti, dal momento che il disegno del secolo XIX, in cui è immortalato l’aspetto della collegiata prima del restauro di Carducci, descrive l’ogiva principale con un traforo analogo a quello delle arcate laterali. All’interno della trifora cieca si trovano murati uno stemma cardinalizio dalla superficie scalpellata ed una cornice marmorea ormai priva della sua lastra incisa, databili entrambi alla seconda metà del secolo XVII, quando la facciata aveva probabilmente già subito la rimodella-zione nelle forme barocche del Volutengiebel, il “frontone a volute” in cui il raccordo tra i due livelli, ora risolto in semplici salienti rettilinei, era affidato a eleganti profili

12 sanvito (Artisti transalpini, pp. 197-198) mette in rilievo alcune irregolarità del registro mediano del prospetto, imputandole in parte all’incompiutezza o a modifiche successive – come nel caso dell’assenza di un coronamento decorativo ad arco ribassato che avrebbe dovuto poggiare sulle coppie di colonnine tortili –, in parte a scelte originali del progettista, quali l’alternanza ABAB tra i due diversi disegni del traforo nelle lunette, preferita ad una più comune disposizione simmetrica, secondo il ritmo chiastico ABBA.13 La modalità di inserimento della testa scolpita risulta quantomeno insolita. Va tuttavia notato che la muratura che circonda la scultura è apparsa nel corso del restauro piuttosto disordinata e indebolita, come se l’innesto non fosse stato inizialmente previsto e avesse comportato un rimaneggiamento in quella porzione del muro. 14 Lo dimostrano i due segmenti ad arco posti adesso a collegamento tra la cornice esterna dell’ogiva e il medaglione situato al centro: i due pezzi appaiono infatti rovesciati rispetto all’uso consueto e logico, men-tre la losanga dai lati curvi, che riprende il motivo decorativo del fregio orizzontale, non si adatta allo spazio della lunetta e non si combina armonicamente con le tre lancette sottostanti. Tale composizione appare tanto più “sgrammaticata” se la si confronta con esempi di finestre a traforo che utilizzano le medesime forme, tipiche dell’area germanica, quali le trifore eseguite intorno al 1430 lungo la navata del duomo di Santo Stefano a Vienna, in cui l’angolo superiore della losanga va sempre a combaciare con l’ogiva. Per un dettagliato repertorio del traforo gotico, v. G. binding, Masswerk, Darmstadt 1989, pp. 317-346.

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ondulati15. L’ultimo livello della facciata tardogotica, al di sopra delle tre arcate, è com-pletamente perduto.

Pertinenti e coevi al frontespizio quattrocentesco sono invece i sei scudi affissi all’interno di ogni arcata laterale, modellati in terracotta e recanti in due casi lo stemma ginesino, in altri due quello dei da Varano, in quelli rimanenti l’insegna papale e il disegno dell’archipendolo. Incerta è l’attribuzione di quest’ultimo stemma, da mettere forse in relazione con la famiglia cui apparteneva il vescovo Giovanni di Camerino, in carica negli anni 1407-143216 (Tav. XXX). In tal caso, tutti gli emblemi starebbero a dichiarare una volontà di fare proprio il patrocinio sulla chiesa cittadina da parte dei diversi soggetti implicati nella committenza insieme alla comunità ginesina. A corollario dell’epigrafe del 1421, le insegne ribadiscono il coinvolgimento del papa e chiamano in causa i da Varano, cui la stessa Curia romana aveva affidato e confermato a più riprese il vicariato sulla città, fino all’assegnazione in feudo nel 141817.

La presenza degli stemmi apposti in facciata, prerogativa a quel tempo di sedi comunali e dimore private, piuttosto che di edifici ecclesiastici, si presta ad essere inter-pretata come una spia dello speciale valore civico della chiesa rinnovata. Nonostante i disordini sociali, ai primi del Quattrocento San Ginesio è teatro di una economia vivace, in cui sono ancora latenti i segni dell’inarrestabile declino che di lì a poco avrebbe sancito la marginalizzazione del territorio. Negli anni a ridosso del 1421, Porfirio Salim-beni e la sua chiesa sono indicati come beneficiari di numerose donazioni e lasciti, che dovettero determinare un significativo incremento dei beni e delle rendite dell’istitu-zione18. Ed è proprio la pieve, in qualità di committente, a comparire come erogatrice di

15 Le fonti ginesine non registrano la rimodulazione della facciata nelle forme barocche del “frontone a volute”, ma l’intervento deve avere avuto luogo nel lasso di tempo che intercorre tra l’arrivo delle reliquie dei santi Ginesio ed Eleuterio, donate alla pieve da papa Clemente VIII nel 1603, e la nuova consacrazione della chiesa, avvenuta nel 1695. Non sono tuttavia da escludere ulteriori modifiche alla metà del Settecento, quando in città è documentata la presenza attiva di architetti e stuccatori ticinesi, v. marchegiani, Il frontespizio, p. 647, nota 30. La lapide superstite fu dedicata nel 1672 al card. Giacomo Franzoni, vescovo di Camerino (1666-1693), per la sua opera di mediazione che salvò la vita e gli averi di diciannove giovani ginesini (salvi, La facciata, pp. 19-20 e armellini, La pieve-collegiata, p. 5).16 Un emblema simile è presente sulla campana bronzea datata 1485 che si conserva nella chiesa di Santa Maria di Piazza Alta a Sarnano, nella diocesi camerte. L’attribuzione dello stemma alla famiglia del vescovo porta ad escludere un riferimento iconografico alla corporazione di muratori impegnati nel cantiere o allo stesso architetto, eventualità documentata in alcuni casi centro italiani, sui quali v. R. chiovelli, Tecniche costruttive murarie medievali. La Tuscia, Roma 2007, pp. 216 e 220.17 Sulla famiglia da Varano, v. g. de rosa, Qualche nota sui vicariati dei Da Varano, in «Studi Macera-tesi», 18, 1983, pp. 77-111; I. tozzi, Le Marche dei Varano. Storia di una dinastia dell’Italia mediana, Loreto 1999; P.L. falaschi, Splendori di una dinastia inedita, in I volti di una dinastia. I da Varano di Camerino, Catalogo della mostra a cura di V. Rivola-P. Verdarelli (Camerino, 21 luglio-4 novembre 2001), Milano 2001, pp. 14-19; M.T. guerra medici, Famiglia e potere in una signoria dell’Italia cen-trale. I Da Varano di Camerino, Camerino 2002; P.L. falaschi, Orizzonti di una dinastia, in I Da Varano e le arti, pp. 19-42.18 Cfr. i testamenti ricordati nelle fonti ginesine, con i quali Nicolutia da San Severino e Catalutia da San

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tutti i pagamenti nel documento relativo al contratto che Porfirio stipulò con l’architetto incaricato di progettare la nuova facciata19.

Si tratta dei pacti ricordati a più riprese nelle fonti ginesine e di cui si è con-servata una copia presso l’Archivio della Collegiata (Tav. XXVII). Più precisamente, il testo che si legge vergato in scrittura notarile su un foglio cartaceo privo di filigrana e logoro ai margini, costituisce la minuta dell’atto, mancante delle firme dei contraenti e dei testimoni. Sebbene gli storici locali dei secoli XVI-XVIII abbiano dimostrato di conoscere il contenuto del documento20, una prima trascrizione dell’accordo, peraltro incompleta, fu pubblicata da Giuseppe Salvi solo nel 1893, prima che il foglio andasse temporaneamente smarrito, e poi ripresa senza variazioni nella letteratura successiva21. Ora che l’atto è nuovamente consultabile nella sua originaria collocazione, individuata dalla segnatura San Ginesio, Archivio della Collegiata, 1.13.1 (fasc. 6), è stato possibile redigerne una trascrizione completa22.

Questa scrittura è giunta fino a noi parzialmente mutila dell’intestazione, nella quale si registrava la data esatta e il luogo della stipula, avvenuta presso un tale France-sco Buti che abitava sulla piazza23. In questa sede il pievano Porfirio è menzionato come il contraente dei pacti e s’impegna, unitamente ai canonici, ad assicurare il pagamento delle opere e dei materiali per le voci di spesa spettanti alla pieve, secondo le modalità specificate nel testo:

Quisti è li pacti facti per [l]u venerabile homo meser Perfilio de Camerino pievano de la pieve de sanginesio [d]a una parte et magistro Herrigo de Ia-picho de la Magna de la proventia de Befaria de lu lavorero de lu fronte ho-spitio dela cchiesiae de la dicta pieve la quale promecte fare el dicto magistroHerrigo secundo el designo lui à adsignato in uno folglo Realecon quelli membri che mereta none obstante non seggha nel dictodesigno. Et la dopna nostra che [s]e in cima de lu fronte hospitio siade sua ragione secundo el lavore de preta.

Ginesio, rispettivamente nel 1405 e nel 1409, destinano genericamente alla pieve parte dei loro averi e forniture di cera, mentre la donazione di Benedictus de lu Molenaro del 1411 e il testamento di Giovanna di San Ginesio del 1418 menzionano già come pievano il decretorum doctor Porfirio Salimbeni (ASCollSG, Fondo diplomatico, 143-149).19 Nei cantieri di natura ecclesiastica l’organizzazione amministrativa era solitamente appannaggio di uno o più membri del clero. Apposite istituzioni di maggiore complessità venivano create solo nei casi più prestigiosi e impegnativi.20 Alla metà del XVI secolo, severini (Genesiae Historiae, c. 220v), afferma di avere avuto il documento tra le mani e ne annota il contenuto, collegandolo al testo della lapide, in corrispondenza dell’anno 1421: «Fabricatur frontispicium ecc(lesi)ae Plebis ab Henrico Alemano. Hoc an(n)o Porfirius a Camerino […] plebis Plebanus conventione facta ducatorum ducentorum auri d(e) ipsius plebis frontispicio fabricando ut modo iussit(ur) cum quodam henrico ab alemania quod in folio dederat designatum cuius […] memoria legit(ur) in cocto lapide ibi affixo foliumq(ue) ipsius conventionis ad meas devenit man[us]».21 salvi, La facciata, pp. 19-20, 1893, pp. 19-20.22 Per la trascrizione integrale, comprensiva dell’intestazione lacunosa, v. Cicconi in questo volume.23 Alla medesima famiglia, tra le più insigni della città, apparteneva il pievano Angelo di Antonio di Tommaso, che abbiamo visto impegnato nel 1398 nel rifacimento della tribuna, v. marchegiani, Il frontespizio, p. 641.

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Item promecte el dicto magistro invitriare tucti colopnelli adtorti et folgleet scudi et lu frisio da pe’ in biancho et li scudi secundo el colore de larme et lu piombo che intrasse paghe la dicta pieve li colori paghe ipso magistro.Item lo arrechare de lu lavorer[o] tucto degga fare lu dicto piovano adspese de la pieve ove ipso magistro lu farra.Item promecte el dic(t)o mag(ist)ro […]nere lu dicto lavorero et se ferroce besongiasse pagare la pieve et lu muro dentro et larmadure facciaale spese da la dicta pieve et rena et calcina.Item promecte lu dicto piovano et cannonaci dare et pagare al dicto magistroducati ducento doro ad livere IIII per ducato de tucto lavorero che farra ipso magistro. Et li primi cento ducati pagare in tre termini cio per tucto ma-ggio proximo lo terço de cento, per tucto lulglo l’altro terço, et l’altro terçoper tucto septembre. Et gli altri cento infino de lu lavorero. Etmanchando li cinquanta duc(ati) che la pieve no(n) lavesse p(ro)mecte el dicto magistro fare termene sei misii da po facto lu lavorero.

«Lu lavorero» del magister Herrigo

Di seguito vengono riportati nella minuta i dati relativi all’architetto incaricato di realizzare il frontespizio, vale a dire il «magister Herrigo de Iapicho de la Magna de la proventia de Befaria», del quale, al di là della provenienza geografica, non è dato conoscere le vicende biografiche o altre creazioni.

Oltre all’ideazione del progetto preliminare, corredato da un disegno consi-derato vincolante ai fini della costruzione, al maestro è richiesto un impegno diretto e costante riguardo a diversi aspetti dell’attività del cantiere. La sua fisionomia profes-sionale corrisponde dunque a quella del Werkmeister, così come viene delineata dai regolamenti tecnici e dalle fonti storiche e letterarie di area germanica, ossia il ruolo di architetto cui si accedeva dopo un apprendistato pluriennale, perfezionato dal tirocinio itinerante in città diverse da quella di provenienza24.

Insieme progettista e capocantiere, responsabile dell’esecuzione pratica dei lavori e del reperimento dei materiali, secondo il contratto Herrigo deve far sì che ven-gano correttamente eseguite anche tutte le parti che non compaiono nel suo disegno. Era infatti consuetudine integrare in corso d’opera, con schemi più specifici e dettagliati, il progetto preliminare presentato al committente e proprio al Werkmeister spettava l’e-laborazione dei grafici esecutivi, secondo la pratica largamente attestata nei cantieri di area germanica in età gotica e tardogotica.

24 Sullo status e le prerogative delle diverse figure professionali attive nei cantieri nordici, v. C. bozzoni, Architetto, Area germanica, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, II, Roma 1991, pp. 276-281 e G. binding, Cantiere, Area germanica, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, IV, Roma 1993, pp. 169-175. Secondo marchegiani (Il frontespizio, p. 644), il contratto di Herrigo sarebbe pertinente piuttosto al ruolo di un Par-lier, ovvero un capomastro, aiuto del Werkmeister, dunque figura intermedia tra l’architetto e il muratore specializzato.

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Non sappiamo se nel disegno approvato dal pievano fossero rappresentate le statue destinate a riempire le quattro nicchie del frontespizio, nel rispetto dell’usanza, mirabilmente attestata dalle pergamene per il duomo di Strasburgo e, in area italiana, dai progetti relativi al portale di San Petronio a Bologna, di descrivere con grande cura i corredi scultorei delle architetture25. È probabile che vi fosse indicata quantomeno la posizione della statua in pietra raffigurante la Madonna menzionata nel contratto, destinata forse alla nicchia sommitale conservatasi fino al rifacimento ottocentesco26.

Il paragrafo finale della minuta getta luce sul versante economico dell’ingaggio. Quello offerto dal pievano al maestro si potrebbe oggi definire un “contratto a progetto”, che prevede un trattamento separato per quanto riguarda le spese dei materiali e di even-tuali imprevisti, mentre fissa in anticipo e con precisione la remunerazione del lavoro di Herrigo. Come compenso finale vengono pattuiti duecento ducati, dei quali i primi cento sarebbero stati pagati in tre rate, a cadenza bimestrale (da marzo a settembre), gli altri a saldo, alla consegna del lavoro finito. È altresì prevista una dilazione del pagamento di altri sei mesi, qualora i canonici della pieve si fossero trovati in difficoltà economiche alla scadenza del contratto. Di solito, infatti, i cantieri non potevano contare su finan-ziamenti costanti, perciò era sempre possibile che un contrattempo determinasse una mancanza di liquidità da parte del committente. Non sappiamo se l’eventualità di dover attendere il saldo comportasse per Herrigo la necessità di prolungare il suo soggiorno a San Ginesio oltre il termine previsto oppure se egli dimorasse già stabilmente in città.

La presenza di immigrati di origine germanica nei centri urbani della Marca è largamente attestata dagli atti notarili negli archivi cittadini, come rivelano le indagini condotte negli ultimi anni27. Gli ambiti professionali in cui compaiono più frequente-

25 Sul disegno architettonico, v. J. gimpel, Costruttori di cattedrali (ed. or. Les batisseurs de cathédrales, Bourges 1966), Milano 1982; a. cadei, Cultura artistica delle cattedrali: due esempi a Milano, in «Arte Medievale», ser. II, 5, 1991, I, pp. 83-103; A. ascani, Disegno architettonico, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, V, Roma 1994, pp. 668-677 e Il Trecento disegnato. Le basi progettuali dell’architettura gotica in Italia, Roma 1997. 26 Il disegno non doveva scendere eccessivamente nel dettaglio, date le dimensioni del “foglio reale”, cal-colate intorno ai cm 45x60, v. marchegiani, Il frontespizio, p. 647, nota 32. 27 Sul tema delle presenze straniere nelle città italiane del Medioevo si registra da qualche decennio un inte-resse crescente, testimoniato da convegni e seminari, v. I forestieri nelle realtà locali, Venezia 1985 (Quaderni medievali, 10); Dentro la città: stranieri e realtà urbane nell’Europa dei secoli XII-XVI, a cura di g. Rossetti, Napoli 1989 (Europa mediterranea, 2); Le migrazioni in Europa, secoli XIII-XVIII, 1993 (1994); Comuni-cazione e mobilità nel Medioevo. Incontri fra il Sud e il Centro dell’Europa (secoli XI-XIV), a cura di S. de Rachewiltze-J. Riedmann, Bologna 1997; La città italiana e i luoghi degli stranieri: XIV-XVIII secolo, a cura di D. Calabi-P. Lanaro, Roma 1998, nonché i contributi in Forestieri e stranieri nelle città basso-medievali, Atti del seminario internazionale (Bagno a Ripoli 1984), Firenze 1988 (Quaderni di storia urbana e rurale, 9). Sulla situazione nel territorio marchigiano, v. Stranieri e forestieri nella Marca dei secc. XIV-XVI, in «Studi Maceratesi», 30, 1996, e le indagini condotte da Emanuela Di Stefano sulla demografia e le dinamiche socio-economiche di Camerino e di altri centri minori, v. E. di stefano, Dinamica del popolamento di una comunità dell’Appennino centrale. Sarnano nei secoli XIII-XVI, Ancona 1994; Mercanti e artigiani, ebrei. Flussi migratori e articolazione produttiva nella Camerino del primo Quattrocento, in Stranieri e forestieri, pp. 191-232 e Una città mercantile. Camerino nel tardo medioevo, Camerino 1998.

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mente impegnati sono quello imprenditoriale e il manifatturiero, mentre più rara risulta la presenza documentata degli artisti, che pure talvolta potevano inserirsi nelle colonie di concittadini stanziatisi nella penisola. Si tratta per lo più di scultori e intagliatori del legno, sopravanzati a partire dalla seconda metà del Quattrocento da un più consistente intervento dei pittori28.

Tuttavia la mancata registrazione del passaggio di un magister, residente in città magari soltanto per la durata dell’ingaggio e del compimento di un incarico, non va considerata anomala, ponendosi al contrario come una concreta conseguenza delle legislazioni statutarie. Era infatti consuetudine che i regolamenti locali assegnassero uno status particolare ai forestieri che soggiornavano per brevi periodi, come accadde forse a Herrigo, il quale, nel presunto rispetto dei pacti, avrebbe protratto la sua perma-nenza soltanto per alcuni mesi. In casi del genere, l’immigrato doveva sottostare ad una certa limitazione dei propri diritti, non avendo accesso ad alcuni servizi e possibilità di acquisto e vedendo così drasticamente ridotte le occasioni di lasciare il proprio nome registrato negli atti notarili29.

La presenza nel territorio di maestranze o singoli individui impegnati nell’at-tività artistica deve di conseguenza essere per lo più dedotta in modo indiretto là dove compaiono evidenze materiali in cui risultino riconducibili alla cultura nordica i con-notati stilistici ed espressivi, oppure le opzioni tipologiche e iconografiche. Ben più rari sono i casi in cui, come a San Ginesio, sussiste la possibilità di abbinare testimonianze materiali e documentarie.

L’origine e il percorso del magister Herrigo

Nel contratto il nome del magister è accompagnato, oltre che dal patronimico «de Iapicho», dall’indicazione circostanziata «de la Magna de la proventia de Befa-ria». Vale la pena di dare credito all’informazione che il notaio ha voluto puntualmente registrare nell’atto e tentare di verificare se l’origine del magister sia effettivamente compatibile con le scelte tecniche e formali da lui messe in campo nel cantiere ginesino e quanto sia plausibile tale specifico caso di immigrazione nel più ampio contesto della mobilità artistica del tempo.

28 È quanto emerge ad es. dalle indagini condotte da Francesca Coltrinari riguardo al territorio di Tolentino; qui le fonti archivistiche hanno restituito per lo più casi sporadici, ma hanno anche permesso di far emergere la trentennale carriera del maestro intagliatore del legno Enrigo di Basilea, capostipite di una bottega capace di ottenere importanti committenze pubbliche nei decenni centrali del Quattrocento, v. F. coltrinari, Circo-lazione di artisti, trasmissione di modelli e tradizioni di bottega nel Quattrocento. Ricerche documentarie sul territorio marchigiano, in Giovani studiosi a confronto. Ricerche di storia dell’arte dal XV al XX secolo, a cura di A. Fiabane, Roma 2004, pp. 9-14.29 D. cecchi, Disposizioni statutarie sugli stranieri e sui forestieri. in Forestieri e stranieri, pp. 29-91; M. ascheri, Lo straniero nella legislazione statutaria, ivi, pp. 7-28.

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Herrigo dichiara di provenire da una regione, la Baviera, che all’inizio del Quat-trocento è da annoverare tra le più floride del continente e a partire dagli ultimi decenni del XIV secolo è capace di esprimere un potenziale innovativo anche a livello arti-stico, accogliendo specialmente nel campo dell’architettura e della scultura esperienze cruciali per lo sviluppo del Tardogotico mitteleuropeo. Tali furono i precoci interventi parleriani dislocati tra Svevia e Baviera intorno dal secondo quarto del Trecento, con l’introduzione delle nuove concezioni spaziali nelle cattedrali di Schwäbisch-Gmünd, Ulma e Augusta, e successivamente, al volgere del XV secolo, la fioritura della scuola architettonica di Landshut scaturita dalle sperimentazioni di Hans von Burghausen30.

I principali centri della Germania meridionale, a partire proprio dalla città di Landshut, che fu capitale del ducato bavarese fino al 1503, erano connessi ai circuiti commerciali transregionali e contribuivano alla vitalità del sistema economico con l’ap-porto dei loro mercati e delle attività finanziarie, particolarmente sviluppate ad Augusta e nella ricchissima Ulma. La produzione artistica dell’area era pienamente partecipe del fenomeno di rinnovamento innescato dai cantieri dei Parler, con la conseguente ricezione e la trasmissione delle nuove forme architettoniche applicate alle cattedrali, a partire dal cantiere della chiesa di Heilig-Kreuz a Schwäbisch Gmünd, diretto da Hein-rich I, e con un notevole incremento in seguito all’operato di Peter Parler nel duomo di San Vito a Praga. Si diffondono su larga scala il motivo dell’arco inflesso – quasi una sigla della nuova tendenza –, gli inediti disegni dei trafori “a vesciche di pesce” e il repertorio ornamentale fitomorfo comprendente le caratteristiche rose e le onnipresenti foglie di quercia rigonfie, avvolte attorno a capitelli e piedritti, collegate da tralci cor-renti o disposte come gattoni su arcate e ghimberghe.

Con buona probabilità tramite il Tirolo, che a quel tempo rientrava nei posse-dimenti del ramo dei Wittelsbach regnante in Baviera, alcune delle più rilevanti novità artistiche elaborate al di là delle Alpi penetrarono verso Sud, lungo le vie, o meglio i fasci viari, che attraversando i valichi, solcavano l’arco alpino raggiungendo la pianura Padana31. Le nuove proposte tecniche e stilistiche erano diffuse da professionisti e mae-stranze che, seguendo tali direttrici – le stesse battute dai traffici commerciali, come dai flussi dei pellegrini e dai viaggiatori occasionali – prendevano la via dell’Italia, attratti dai grandi cantieri cittadini, o, in seconda istanza, da committenze e mercati minori, spesso collegati alle comunità straniere stanziate nella penisola32.

30 Per un orientamento generale, v. J. Bialostočki, Il Quattrocento nell’Europa settentrionale, Torino 1989, pp. 64-76, mentre sulla Baviera, v. K. otto, Baviera, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, III, Roma 1992, pp. 248-257, in part. pp. 252-254.31 Le tematiche relative ai sistemi plurimi dei percorsi viari e dei passi alpini sono passate in rassegna in e. castelnuovo, Strade, passi, chiuse nelle Alpi del basso medioevo, in Il gotico nelle Alpi: 1350-1450, Catalogo della mostra a cura di E. Castelnuovo-F. de Gramatica (Trento, 20 luglio-20 ottobre 2002), Trento 2002, pp. 61-77.32 Tale è ad esempio il percorso, passante per il Brennero, tramite il quale le formule spaziali dell’alzato a sala, sperimentate all’inizio del secolo in Svevia e Baviera, raggiungono precocemente il Tirolo e Bolzano, v. n. caviezel, Chiese gotiche nelle Alpi: 1350-1450, in Il gotico nelle Alpi, pp. 123-137. In alternativa,

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La vicenda di Herrigo rientra pienamente in tale casistica, in quanto l’opera da lui ideata per San Ginesio si presta ad essere interpretata come un episodio erratico del Bäcksteingotik, la cultura architettonica del mattone diffusa in vaste regioni dell’Eu-ropa centro-settentrionale e orientale, le cui manifestazioni più significative interessano l’area baltica intorno a Lubecca, la Marca di Brandeburgo con capolavori a Prenzlau e Tangermünde, la Prussia e successivamente la Polonia, mentre nel Sud della Germania si distingue la produzione bavarese33.

Episodio erratico, si diceva, ma in fondo non spaesato, poiché il cotto connota fortemente il panorama urbano basso-medievale di molti centri delle Marche. Non occorre presumere che il progetto di Herrigo abbia richiesto l’ingaggio di maestranze straniere, dal momento che nella regione non mancavano né la materia prima, né le tecnologie e gli operatori specializzati nell’uso del mattone. Anzi, la diffusione del laterizio può avere ispirato al Werkmeister una certa aria di familiarità con l’area del Bäcksteingotik oltremontano, dato che, solo per limitarsi a qualche esempio nel Mace-ratese, troviamo prospetti gotici ornati in cotto a Santa Maria della Porta a Macerata, nel santuario di San Pacifico a San Severino, in San Francesco nella stessa San Ginesio, seppure con esiti formali assai lontani da quello della collegiata34. Gran parte dell’ori-ginalità della nuova facciata risiede infatti nell’applicazione al laterizio del linguaggio stilistico tardogotico, in una combinazione inedita per la terra marchigiana35.

L’articolazione della superficie in arcate cieche, nicchie, trafori e fregi correnti rimanda al repertorio proprio dell’architettura in mattoni della Germania meridionale, perfezionato in forme tutto sommato piuttosto sobrie nei cantieri diretti da Hans von Burghausen nei primi decenni del Quattrocento36 (Fig. 1). Lo si trova di norma appli-cato sui fianchi dei campanili, ma anche sui timpani triangolari sovrapposti alle facciate, come nella Heiliggeistkirche a Landshut (Fig. 2). Tuttavia alcune componenti linguistiche individuabili nell’opera del maestro bavarese rimandano ad altre realtà. Innanzitutto la

erano praticabili anche altre vie, come quella che attraverso il San Gottardo scendeva dalla regione di Costanza verso il lago di Como e da lì a Milano, o ancora, il percorso più orientale che sfruttava i collega-menti adriatici. 33 Sull’architettura in cotto e il suo sviluppo nell’età tardogotica, v. A. springer, Manuale di storia dell’arte, ed. it. a cura di C. Ricci, II, Arte del Medio Evo, Bergamo 1930, pp. 331-336; A. kamphausen, Bäcksteingo-tik, München 1978; r. recht, L’architettura, in a. chatelet-r. recht, L’autunno del gotico, 1380-1500, Milano 1989, pp. 61-65; W. schäfke, Deutsche Mittelalterliche Bäcksteinarchitektur, Köln 2008; v. inoltre i contributi in Technik des Bäcksteinbaus im Europa des Mittelalters, Atti del convegno a cura di J. Cramer-D. Sack (Berlino 2003), Petersberg 2005.34 Sull’uso del cotto nelle Marche, v. b. montuschi simboli, Decori architettonici in cotto nella Marca meridionale, in Le terraglie italiane, Atti del XXII convegno internazionale della ceramica (Albisola, 26-28 maggio 1989), Albisola 1992, pp. 195-205. Per l’architettura tardogotica nelle Marche in generale, v. mariano, Architettura, pp. 3-67, mentre sul territorio del Maceratese v. A.A. bittarelli, Macerata e il suo territorio. La scultura e le arti minori, Milano 1986, e le schede dedicate ai singoli monumenti in Atlante del gotico nelle Marche, 3, Macerata e provincia, Milano 2004.35 B. schock Werner, Parler, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, IX, Roma 1998, pp. 227-232.36 schäfke, Deutsche Bäcksteinarchitektur, pp. 13-17.

Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali137

conformazione del prospetto lascia intuire che il perduto coronamento tardogotico doveva in origine assumere un profilo a gradoni corrispondente alla diffusa tipologia dello Stufen-giebel (o Staffelgiebel), i cui modelli risiedono nell’architettura del cotto del Nord Europa, dove già nel XIII secolo compaiono frontespizi scalati, applicati come schermi decorativi alle facciate di edifici sacri, ma anche nell’edilizia civile, pubblica e privata37.

Tra la fine del XIV secolo e i primi decenni del Quattrocento, l’attitudine ad impreziosire i prospetti con rivestimenti in laterizio decorati e policromi si era ormai estesa a una vasta regione centroeuropea, dando vita a varianti locali dalle forme peculiari. Nell’area Baltica, una raffinata evoluzione estetica delle facciate a gradoni è offerta al volgere del secolo dalle creazioni di Heinrich Brunsberg, quali i Rathaus di Tangermünde e Chojna, più o meno in concomitanza con la stagione creativa che vede emergere la scuola di Landshut38, dove però il gioco cromatico è solitamente limitato all’alternanza binaria tra il mattone e la pietra, con l’aggiunta di fregi bianchi correnti sotto le grondaie (Figg. 3-4).

A questa seconda formula si avvicina oggi la veste cromatica della facciata ginesina, che però in origine doveva apparire sensibilmente diversa. Riprendendo la lettura dei pacti, ricaviamo una rara informazione sulla tecnica di finitura adottata per la superficie del frontespizio: il magister promette di applicare un’invetriatura bianca a base di piombo su tutte le colonnine tortili, sui motivi ornamentali fogliacei e sul fregio che attraversa longitudinalmente la facciata al disotto delle arcate. Anche i sei stemmi dovevano essere invetriati nei rispettivi colori, mentre non si fa cenno ad alcun tipo di trattamento superficiale per gli elementi in terracotta del traforo e delle nervature architettoniche in mattoni.

Ora, l’informazione riguardo all’uso dell’invetriatura «in biancho» contrasta con l’esperienza delle più comuni soluzioni adottate nel Bäcksteingotik: le vernici colo-rate, utilizzate specialmente in area baltica per impreziosire le facciate con brillanti poli-cromie, erano di solito limitate alle tinte nere e rosse, oppure si risolvevano nella stesura di una cristallina trasparente che esaltava il colore del mattone rendendolo lucido. Tale tecnica non era certo sconosciuta ai ceramisti centroitaliani, che ne facevano un uso regolare per le terraglie e il vasellame, servendosi del piombo importato tramite gli approdi commerciali sull’Adriatico; tuttavia, il suo impiego in campo architettonico è decisamente più raro, specialmente se paragonato ad altre forme di finitura, quali il

37 L’impiego decorativo del cotto per i frontespizi dei palazzi comunali ha dato vita a soluzioni spettacolari in numerose città nordeuropee, tra le quali vale ricordare Lubecca, Chojna, Tangermünde, Stralsund, Bran-deburg e Hannover, v. kamphausen, Bäcksteingotik, pp. 156-189; W. schäfke, Mittelalterliche Bäckstei-narchitektur von Lübeck zur Marienburg, Köln 1995 e Deutsche Bäcksteinarchitektur, pp. 103-109. Quanto alle dimore private, springer (Manuale, pp. 378-379) ricorda, tra le altre, la Casa della Società dei Mariani a Lubecca e la casa dei fratelli Calendarii a Luneburgo (1491).38 Le più significative creazioni di Heinrich Brunsberg compaiono a ridosso del 1400 (il coro della St. Katharinenkirche a Brandeburg risale al 1395 circa), mentre l’attività di Hans von Burghausen è attestata a partire dal 1407 e si ripercuote nell’area alpina del Tirolo nel decennio successivo.

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Fig. 1. Landshut, Martinskirche

Fig. 2. Landshut, Heiliggeistkirche, prospetto

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Fig. 3. Choijna, Rathaus Fig. 4. Tangermünde, Rathaus

Fig. 5. Brandeburg, Katharinenkirche

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rivestimento a intonaco o a cocciopesto, o la sagramatura39. Significativamente, l’ado-zione dell’invetriatura è più comune nell’architettura in cotto dell’area alpina, a minore distanza e in più diretto collegamento con le regioni centro-europee dove il Bäckstein-gotik trovava il suo maggiore sviluppo40.

Un esame ravvicinato della superficie della facciata ginesina, reso possibile in occasione del recente restauro, ha permesso di appurare la scomparsa della patina colorata, ad eccezione di sporadiche tracce molto degradate, oltre alla sostituzione di una parte degli elementi decorativi stampati o modellati in terracotta (le colonnine, le foglie, i segmenti dei trafori) con copie moderne.

C’è da chiedersi se l’invetriatura «in biancho» non sia in verità da intendere come trasparente41, poiché è logico pensare che il gioco cromatico generato dall’alter-nanza tra mattoni rossi e gialli, particolarmente regolare lungo il fusto dei semipilastri (Tav. XXXI, 2), ma presente anche nelle colonnine intagliate, non fosse destinato a restare nascosto da una patina colorata. Al contrario, un’eventuale verniciatura incolore e brillante avrebbe fatto risaltare i diversi toni del mattone in contrasto con le specchiature lisce della parete, specialmente qualora esse fossero state campite con intonaco chiaro, come sembra di poter evincere indirettamente da una descrizione della città stilata nel 1592 dall’avvocato Guido Gualtieri42. Nel testo, segnalato da Marchegiani, la chiesa di San Francesco è ricordata come l’unico edificio in cotto del paese, un’affermazione che si giustificherebbe nel caso in cui il monumentale prospetto della collegiata fosse stato interamente camuffato dall’intonacato43.

39 Sull’invetriatura, v. La ceramica invetriata tardoantica e altomedievale in Italia, Atti del seminario a cura di L. Paroli (Certosa di Pontignano, Siena, 23-24 febbraio 1990), Firenze 1992 (Quaderni del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti, Sezione Archeologia, Università di Siena, 28/29); La ceramica invetriata tardomedievale dell’Italia centro-meridionale, a cura di S. Patitucci Uggeri, Firenze 2000 (Quaderni di archeologia medievale, 3). Per quanto riguarda l’area della Marca, l’unico caso in cui siano state rilevate tracce di coperture in vetrina colorata su elementi architettonici in cotto riguarda la chiesa collegiata di Sant’Elpidio a Mare, sulla quale v. montuschi simboli, Decori architettonici, p. 97.40 Particolarmente estesa ed evoluta fu la cultura architettonica del cotto nell’area alpina occidentale, indagata a più riprese da Giovanni Donato, v. G. donato, Il rinnovamento della plastica ornamentale fra Tre e Quattrocento, in Jaquerio e le arti del suo tempo, a cura di W. Canavesio, Torino 2000, pp. 71-92; Ceramiche e arti fittili, in Arte e storia nel medioevo, 2, Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, Torino 2003, pp. 479-491 e L’architettura e i suoi complementi: uno sguardo sui due versanti alpini, in Corti e città: arte del Quattrocento nelle Alpi occidentali, Catalogo della mostra (Torino, 7 febbraio-14 maggio 2006), Torino 2006, pp. 47-51. A partire dal primo Quattrocento, con i portali dalle slanciate ghimberghe di Chieri e della successiva Chivasso, ha inizio l’assimilazione di moduli formali francesi e fiamminghi, mentre il repertorio ornamentale in cotto si rinnova con l’introduzione dei motivi naturalistici mitteleuropei filtrati dal cantiere di Milano.41 La vetrina incolore si presenta come una vernice bianca al momento dell’uso, per acquisire la trasparenza solo in seguito alla cottura. 42 La Descrizione della Terra di Sanginesio di Gualtieri è riportata in G. colucci, Delle antichità picene, Fermo 1795, XXIII, pp. 1-39 (il passo citato è a p. 9); v. marchegiani, Il frontespizio, p. 649, nota 37.43 Nelle architetture gotiche in cotto sussiste spesso il dubbio sull’eventuale stesura dell’intonaco sulle superfici piane, un trattamento protettivo ed estetico che doveva essere consueto, ma di cui rimangono

Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali141

La livrea del frontespizio, nel rispetto del contratto, avrebbe dunque previ-sto l’intelaiatura dei semipilastri salienti ravvivata da un’alternanza di mattoni gialli e rossi, eventualmente lucidati a vernice; le colonnine tortili e le foglie invetriate in bianco, al pari del fregio orizzontale; gli stemmi smaltati e colorati secondo le rispettive divise; i disegni dei trafori lasciati al loro colore naturale, a contrasto con le specchiature murarie intonacate.

Nonostante il Werkmeister attivo a San Ginesio si dichiari proveniente «de la proventia de Befaria», un simile gusto per la policromia richiama piuttosto gli stili locali dell’area baltica e del Brandeburgo, dove non sono rare le invenzioni appariscenti come i prospetti della St. Katharinenkirche a Lubecca o dell’omonima chiesa nella città di Brandeburgo. Nulla impedisce che Herrigo abbia appreso queste formule decorative nei cantieri settentrionali, dato che le esperienze al di fuori del proprio territorio facevano normalmente parte della formazione e dell’apprendistato del professionista44.

Inoltre, come è stato rilevato, nell’opera del magister la lezione nordeuropea appare stemperata nella contaminazione con alcune declinazioni settentrionali del tardogotico italiano, in particolare con le invenzioni formali della cultura parleriana mediate dagli architetti del duomo di Milano e con le aggraziate soluzioni del gotico veneziano45. Le analogie dovevano essere in origine anche più stringenti, se si pensa che l’aspetto alquanto castigato del frontespizio ginesino, che lo rende così vicino al Sonderngotik tedesco, è in parte il risultato della perdita di elementi ornamentali quali i gattoni fogliacei che dovevano correre lungo tutti gli archi ogivali e inflessi, come stanno a dimostrare gli incavi sull’estradosso delle lunette a traforo (Tav. XXXI, 1).

Partendo dall’intreccio di riferimenti culturali rintracciabili nel prospetto e dando credito ai dati anagrafici di Herrigo, si può ipotizzare per il Werkmeister una formazione nella terra d’origine, implementata da successive esperienze professio-nali in area baltica e con l’attività itinerante presso cantieri parleriani, tra i quali è lecito includere anche il duomo di Milano. Qui infatti si attesta la prima e più significativa concentrazione di presenze germaniche in Italia, una volta oltrepassato l’arco alpino, dove la circolazione e gli scambi tra le aree limitrofe erano resi pos-sibili e persino favoriti della permeabilità delle barriere orografiche. I numerosi e talvolta prolungati passaggi di personalità di origine teutonica si avvicendano nella

testimonianze limitate, a causa dell’alta deperibilità dei materiali di finitura, v. schäfke, Deutsche Bäck-steinarchitektur, pp. 10-13.44 Altri elementi riconducibili alla lezione settentrionale sono i semipilastri sagomati con una funzione prettamente decorativa, più frequenti nel Brandeburgo, con il loro sistema di imposta su mensole sospese, attestato specialmente nell’area orientale dell’Impero. Per il motivo ornamentale della colonna avvolta da tralci o serie di foglie, destinato ad avere fortuna anche in Piemonte e in Abruzzo, si avanza invece l’ipotesi di un’origine bavarese, suffragata dalla testimonianza grafica dell’album di Hans Böblinger (München, Bayerische Nationalmuseum, ms. 3604), v. sanvito, Artisti transalpini, pp. 203-204.45 marchegiani (Il frontespizio, pp. 648-650), coniando per i trafori ginesini l’efficace definizione di “archi alemanno-veneziani”, ne evidenzia l’analogia con le strutture dei polittici di area adriatica, ad es. quello di Arcangelo di Cola alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino.

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Fig. 6. Milano, duomo: Hans von Fernach, portale della sacrestia meridionale

Fig. 7. Sulmona (pressi), Badia Morronese, cappella Cantelmo-Caldora: Walter Monich, monumento di Restaino Caldora (Edizioni Zip, Pescara)

Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali143

fabbrica milanese fin dalle prime fasi della progettazione architettonica e dell’ese-cuzione del corredo scultoreo46 (Fig. 6).

Da qui alcuni maestri si allontanano poi per proseguire altrove la propria espe-rienza artistica, raggiungendo altri cantieri oppure andando alla ricerca di nuovi ingaggi, talvolta seguendo le vie battute dai loro conterranei impegnati nei traffici commerciali. Esemplare a questo proposito è la vicenda di Walter Monich, che all’inizio del XV secolo presta la sua opera di scultore per il duomo di Milano, per intervenire successi-vamente nel cantiere di Orvieto e spingersi infine entro i confini del Regno di Napoli, dove il suo peculiare linguaggio è riconosciuto nel monumento funebre della famiglia Caltelmo-Caldora presso la Badia Morronese a Sulmona47 (Fig. 7).

L’iter professionale del magister Herrigo non sembra dunque discostarsi da quello presumibile per i suoi più noti colleghi attivi nel capoluogo lombardo48. Non è esclusa, come si vedrà, la sua presenza in territorio alpino al tempo del Concilio di Costanza (1414-1418), ma l’assimilazione di spunti decorativi propri dell’area veneta induce ad immaginare anche un’ipotesi alternativa, che vedrebbe il maestro bavarese in transito sulla trafficata via che dalla Germania meridionale conduceva al Brennero, per approdare successivamente nella propaggine orientale della pianura Padana e da lì, seguendo le direttrici adriatiche pedemontane, in cammino verso la Marca, dove Herrigo sarebbe stato intercettato dalla committenza locale49.

46 Sul cantiere di Milano e le presenze oltremontane, v. A.M. romanini, L’architettura gotica in Lombardia, Milano 1964, pp. 381-385; cadei, Cultura artistica, pp. 83-103; P. sanvito, Il Duomo di Milano: le fasi costruttive, Milano 1995; M. rossi, Architettura e scultura tardogotica tra Milano e l’Europa. Il cantiere gotico del duomo alla fine del Trecento, in «Arte lombarda», 126, 1999, pp. 5-29; sanvito, Il tardogotico del duomo di Milano: architettura e decorazione intorno all’anno 1400, Münster 2002; L. cavazzini, Il crepuscolo della scultura medievale in Lombardia, Milano 2004, pp. 1-16 e 49-53. 47 La vicenda critica del monumento scolpito da Gualterius de Alemania nella Badia Morronese, avviata da P. piccirilli (Monumenti architettonici sulmonesi descritti e illustrati, dal 14. al 16. secolo, fasc. 1, Sulmona 1888, pp. 161-186), registra con A. venturi (Storia dell’arte italiana, VI, La scultura del Quattrocento, Milano 1908, p. 63) l’identificazione dell’autore con il Walter Monich del cantiere milanese, un’attribu-zione variamente dibattuta nella letteratura successiva, v. C. baroni, La scultura gotica lombarda, Milano 1944, pp. 138-139; v. pace, Il sepolcro Caldora nella Badia Morronese presso Sulmona, in Skulptur und Grabmal des Spätmittelalters in Rom und Italien, Atti del congresso Scultura e monumento sepolcrale del tardo medioevo a Roma e in Italia, a cura di J. Garms-A.M. Romanini (Roma, 4-6 luglio 1985), Vienna 1990, pp. 413-422; cavazzini, Il crepuscolo, pp. 49-53; d. benati, Presenze tedesche all’Aquila da Gual-tieri d’Alemagna a Giovanni Teutonico, in L’Abruzzo in età angioina. Arte di frontiera tra Medioevo e Rinascimento, atti del Convegno a cura di A. Tomei e D. Benati (Chieti, 1-2 aprile 2004), Cinisello Balsamo 2005, pp. 309-319; E. camilli giammei, Devozione e memoria familiare: la committenza di Rita Cantelmo nella cappella Caldora della Badia Morronese, in Universitates e Baronie, pp. 35-51.48 Oltre a Walter Monich, tralasciando le schiere di lapicidi provenienti dalla Svevia, dalla Baviera o dalla Renania, va ricordato Hans von Fernach, giunto forse da Friburgo, autore tra il 1390 e il 1395 di un orna-tissimo portale scolpito per la sacrestia meridionale del duomo, v. L. cavazzini, Un collega tedesco di Giovannino de’ Grassi e Giacomo da Campione: l’attività di Hans von Fernach al cantiere del Duomo di Milano e di San Petronio a Bologna, in Scritti per l’Istituto Germanico di Storia dell’Arte di Firenze, Firenze 1997, pp. 73-80 e Il crepuscolo, 2004, pp. 7-16; rossi, Architettura e scultura, 1999, pp. 5-10.49 Sui percorsi alpini, con particolare riguardo alla via del Brennero, v. R. salvarani, Le strade della devo-

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Solo in tempi recenti si è cominciato ad indagare il fenomeno che vede mol-tiplicarsi gli interventi riferibili ad artefici nordici proprio nell’area medio-adriatica, tra le Marche e l’Abruzzo, dove peraltro un rilevante indizio di una certa propensione ad accogliere proposte “esotiche” risiede nella capillare diffusione dei gruppi scultorei raffiguranti la Pietà, oggetti di devozione conformi alla tipologia tedesca del Vesperbild, prodotti in gran parte da botteghe straniere operanti sul territorio e inclini ad una pro-gressiva assimilazione del gusto locale. La stessa pieve di San Ginesio ne custodisce un notevole esemplare, di incerta provenienza (Tav. XXXII)50. La statua, eseguita con la tecnica semiseriale dello “stucco duro” (Steinguss)51, si distingue dagli altri gruppi marchigiani per una maggiore compostezza e una pacata monumentalità, così come per il fatto di rifuggire gli esiti più aspri ed espressionistici, in favore di un tono quasi elegiaco. Il volto ovale della Vergine, serenamente malinconico, è contraddistinto da lineamenti giovanili – le guance piene, la bocca piccola e tenera, le palpebre socchiuse – che rimandano alla statuaria tedesca del primo Quattrocento, aderente al weicher Stil, lo “stile dolce” che caratterizza specialmente la produzione renana52.

zione. Mondo germanico e mondo latino sui percorsi dei pellegrini tra Alpi e Appennino dal Mille al Concilio di Trento, Brescia 1997, pp. 65-75.50 I caratteri di questo particolare tipo di scultura devozionale, a seguito del fondamentale saggio di W. körte, Deutsche Vesperbilder in Italien, in «Kunstergeschichte Jahrbuch der Bibliotheca Hertziana», 1, 1938, pp. 1-138, sono stati oggetto di specifici approfondimenti in E. steingräber, Zur “Italianisierung” des deutschen Vesperbildes, in Skulptur in Süddeutschland, 1400-1770, Festschrift für Alfred Schädler, a cura di R. Kahsnitz, München 1998 (Forschungshefte / Bayerisches Nationalmuseum München, 15), pp. 11-16; S. castri, “In virginis gremium repositus”: dall’archetipo del “Vesperbild” alla “Bella Pietà”; un “excursus”, non solo alpino, in Il gotico nelle Alpi, pp. 170-185. Il Vesperbild di San Ginesio, ora collocato su una mensola inserita nella spalla sinistra dell’arco trionfale, risulta menzionato per la prima volta da armellini (La pieve-collegiata, p. 50) e non è stato mai interessato da uno studio approfondito. Sconosciuto a Körte, che lo tralascia nel suo pur accuratissimo catalogo, è stato esposto a San Severino nel 2006, senza tuttavia essere accompagnato da una descrizione storico-critica, v. I pittori del Rinascimento a Sanseverino: Bernardino di Mariotto, Luca Signorelli, Pinturicchio, Catalogo della mostra a cura di V. Sgarbi (San Severino Marche, 25 marzo-31 agosto 2006), Milano 2006, pp. 114-115. Si deve a Francesca Coltrinari un primo tentativo di contestualizzazione, con l’accostamento dell’opera al Vesperbild e al crocifisso di tipo “doloroso” conservati presso il duomo di San Catervo a Tolentino, entrambi attribuiti al maestro Enrigo da Basilea (coltrinari, Circolazione di artisti, pp. 10-13). Ritengo che una simile interpretazione non dia il giusto rilievo alle peculiarità che distinguono la Pietà ginesina, a mio avviso da anticipare al primo quarto del secolo in virtù dei riferimenti formali transalpini e di alcuni tratti di arcaicità nel disegno dei panneggi.51 La tecnica di esecuzione dello “stucco duro” è considerata una peculiarità della produzione scultorea salisburghese e caratterizza la maggior parte dei Vesperbild presenti in Italia. Essa prevede dapprima la colatura di una speciale miscela di gesso e altri minerali (Steinguss) in uno stampo, da cui si ottiene una forma abbozzata, che dopo il consolidamento deve essere rifinita a intaglio e dipinta, per essere persona-lizzata secondo le esigenze della committenza, v. M. koller, Zur Technologie und Konservierung der Vesperbilder, in «Österreichische Zeitschrift für Kunst und Denkmalpflege», 24, 1970, pp. 188-193 e Zur Gussteintechnik in der Spätgotik, in Sculptures médiévales allemandes: conservation et restauration, a cura di S. Guillot, Paris 1993, pp. 79-99. Il gruppo ginesino, mai sottoposto a indagini diagnostiche, presenta il tergo cavo, dettaglio tipico di questa lavorazione. Sono inoltre rimaste sulla superficie consistenti tracce di policromia, probabilmente antica.52 Alcuni confronti formali di area bavarese sono offerti dalle sculture, di materiali diversi, conservate presso il Nationalmuseum di Norimberga, quali la testa erratica della Vergine in terracotta, databile

Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali145

Le ricerche sulla presenza degli artisti tedeschi nella penisola ha raggiunto significativi risultati per il territorio abruzzese, riguardo al quale alcuni studi recenti hanno permesso di fare luce sui numerosi interventi precocemente individuati nell’am-bito della scultura architettonica e monumentale. Tra i più noti, al già citato monumento sulmonese firmato nel 1412 da Gualtieri d’Alemagna (alias Walter Monich), si aggiunge il gruppo scultoreo dell’Incoronazione della Vergine eseguito da artisti probabilmente renani per essere collocato entro la lunetta del portale nella collegiata di Santa Maria Maggiore a Guardiagrele53 (Fig. 8).

Il portale “teutonico” di Santa Maria di Piazza Alta a Sarnano

Assai meno indagata è la terra marchigiana, al punto che resta ancora quasi del tutto sconosciuto un episodio verificatosi a brevissima distanza da San Ginesio, trascurato dagli studi storici e, a quanto mi risulta, mai correttamente inquadrato nelle coordinate culturali del gotico internazionale. Mi riferisco al portale in pietra che orna la facciata della chiesa di Santa Maria di Piazza Alta a Sarnano, una cittadina situata sulle colline maceratesi, alle pendici dei monti Sibillini, in un territorio confinante con la rivale contrada ginesina54 (Fig. 9).

Al pari della pieve dell’Annunziata, Santa Maria di Piazza Alta sorge nel cuore dell’abitato, sullo slargo sommitale circondato dai principali edifici della città. Nata come presidio urbano dei monaci benedettini della potente abbazia di Piobbico, la chiesa

al 1410-1420, o le due sculture lignee raffiguranti la Madonna con il Bambino in trono, assegnabili sempre alla Baviera, fra il terzo e il quarto decennio del Quattrocento, v. Kataloge des germanische Nationalmuseums Nürnberg. Die Bildwerke in Stein, Holz, Ton und Elfenbein bis um 1450, I, Die Mit-telalterlichen Bildwerke, bearbeitet von H. stafski, Nürnberg 1965, pp. 127, 171-172 e 178. In Renania sono da considerare alcune statue in legno, talvolta datate ancora entro il XIV secolo, paragonabili alla Vergine dolente di San Ginesio per le fisionomie aggraziate, v. Schnütgen-Museum. Die Holzskulpturen des Mittelaters (1000-1400), bearbeit von U. bergmann, Köln 1989, al pari di alcuni Vesperbilder di tipo “dolce” pertinenti a Düsseldorf e Colonia, v. Die Parler und der Schöner Stil 1350-1400. Europäische Kunst unter den Luxemburgern, Catalogo della mostra a cura di A. Legner (Köln, 29 novembre 1978-18 marzo 1979), Köln 1978, I, pp. 191-193.53 Sulla figura di Walter Monich e gli interventi a lui attribuiti, v. pace, Il sepolcro Caldora, pp. 413-422; cavazzini, Il crepuscolo, pp. 49-53; benati, Presenze tedesche, pp. 309-319. Sul gruppo dell’Incorona-zione guardiese, ora custodito presso il Museo della collegiata di Santa Maria Maggiore, v. P. piccirilli, Monumenti abruzzesi e l’arte teutonica a Caramanico, in «L’arte», 18, 1915, IV, pp. 258-272 e V-VI, pp. 392-403; a. cadei, Il portale dell’Incoronazione della Vergine di Santa Maria Maggiore a Guardiagrele, in Santa Maria Maggiore a Guardiagrele: la vicenda medievale, a cura di P.F. Pistilli, Guardiagrele 2005, pp. 287-307; sanvito, Artisti transalpini, pp. 191-212. 54 Sulla storia di Sarnano v. G. pagnani, Sarnano. Lineamenti storici, 1984; g. pagnani-G. gentili-A.A. bittarelli, Sarnano. Santa Maria di Piazza Alta, Recanati 1979, pp. 9-21; di stefano, Dinamica del popolamento, pp. 53-68. Le notizie sulla storia della chiesa sono alquanto scarse e la loro raccolta si deve all’erudito Giacinto Pagnani, che compilò centinaia di schede recanti trascrizioni di documenti ed epigrafi, oltre a notizie e notazioni personali. Tali schede, suddivise per tema e purtroppo mai riorganizzate in una pubblicazione organica, sono tuttora consultabili presso la Biblioteca Comunale di Sarnano.

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istaurò con il passare dei secoli un più profondo legame con la comunità sarnanese, ottenendo nel XVI secolo il titolo di collegiata. L’edificio conserva ancora l’originario impianto medievale, ma tanto nella struttura architettonica quanto nella veste decora-tiva appare contraffatto da ripetute manipolazioni, culminate con un ampio restauro di ripristino che allo scadere della Seconda Guerra mondiale eliminò tutte le sovrastrutture barocche, recuperando un ipotetico quanto discutibile aspetto primigenio55.

Le manomissioni sembrano tuttavia aver risparmiato il portale scolpito, fatta eccezione per l’eliminazione di un protiro, documentato da una fotografia 1930 e a sua volta costruito in sostituzione di una struttura medievale perduta, da cui provengono i leoni stilofori e altri elementi erratici attualmente murati nel prospetto in posizione incongrua. Pur lesionato da tali operazioni, specialmente lungo i bordi esterni, il portale può dirsi sostanzialmente integro nelle sue componenti strutturali e decorative. Si pre-senta leggermente strombato, contornato lungo gli stipiti e intorno alla lunetta da una tripla ghiera entro cui sono alloggiate due colonnine intagliate con motivi avvolgenti di tralci fioriti, stelle, elementi fogliacei o lacunari geometrici.

Le colonnine, ispessite e lisciate alla base, terminano in alto con capitelli mul-tipli, decorati nella campana da tralci con grappoli o da foglie di quercia profondamente incise, cui si sovrappone l’abaco costituito da due listelli che racchiudono una fila continua di piccole bugne56. Qui si imposta la lunetta dal profilo archiacuto per nulla slanciato, culminante con una inflessione quasi impercettibile. L’estradosso dell’arco è percorso dalle medesime foglie di quercia accartocciate, che al culmine si trasformano in una nube stilizzata, da cui fuoriesce a mezzobusto la figura dell’Eterno. Una nuvola in tutto simile accoglie, poco più in basso, una seconda raffigurazione di Dio padre che sostiene Cristo inginocchiato e l’animula di Maria (Figg. 10-11).

Lo specchio della lunetta è interamente occupato da un bassorilievo in pietra calcarea raffigurante la Dormitio Virginis, con il compianto degli apostoli sul corpo della Vergine appena spirata (Fig. 12). Ignorato nei lavori di Serra e Zampetti dedicati all’arte marchigiana, il portale viene preso in considerazione da uno studioso locale, Bittarelli, con una erronea datazione intorno al 130057.

Nel corredo ornamentale delle colonnine e dei capitelli troviamo lo stesso reper-torio di foglie di quercia rigonfie, tralci correnti e stelle che ingentiliscono il frontespizio della pieve ginesina, dove però i moduli decorativi sono forgiati in terracotta. Benché

55 L’impianto a navata unica absidata e coperta a capriate, con presbiterio sopraelevato sulla cripta, segue una tipologia molto diffusa nella regione. Nell’anno 1396 l’abate di Piobbico fece erigere la torre campana-ria, posta sulla cappella terminale. Notizie dei restauri effettuati da Mariano Gavasci alla fine della Seconda Guerra mondiale vennero tempestivamente trasmesse alla stampa locale, v. A.A. bittarelli, Sarnano, il tempio ritrovato, in «L’Appennino Camerte», 10 novembre 1945, p. 2 e Sarnano, restauri in Collegiata, in «L’Appennino Camerte», 14 settembre 1946, p. 2. 56 Lo stesso elemento decorativo è presente nella pieve di San Ginesio, precisamente sui capitelli dei pilastri eretti per ampliare il presbiterio alla fine del XIV secolo.57 bittarelli, Macerata, p. 92, ripreso in E. simi varanelli, Marche-scultura, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, VIII, Roma 1997, p. 190.

Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali147

Fig. 8. Guardiagrele, Museo di Santa Maria Maggiore, Incoronazione della Vergine (Edizioni Zip, Pescara)

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Fig. 9. Sarnano, Santa Maria di Piazza Alta, portale

Figg. 10-11. Sarnano, Santa Maria di Piazza Alta, portale, figure dell’Eterno

Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali149

Figg. 13-14. Sarnano, Santa Maria di Piazza Alta, portale, decorazioni plastiche

Fig. 12. Sarnano, Santa Maria di Piazza Alta, portale, lunetta con la Dormitio Virginis

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Fig. 15. Ratisbona, duomo, portale, lunetta con la Dormitio Virginis

Fig. 16. Udine, duomo, portale, lunetta con l’Incoronazione della Vergine

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Fig. 17. Tolentino, San Catervo: Vesperbild (Giorgio Semmoloni, Tolentino)

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nella scarsissima documentazione relativa alla chiesa di Sarnano non sia rimasta traccia dell’autore del portale, gli aspetti formali, così affini a quelli che caratterizzano l’opera del magister Herrigo, denunciano anche qui un’impronta germanica (Figg. 12-14).

Il tema prescelto per il rilievo della lunetta, del tutto eccezionale per il suo contenuto narrativo nel contesto della coeva scultura monumentale marchigiana, è al contrario tra i più frequenti nei portali istoriati di area tedesca. Si possono richiamare le toccanti rappresentazioni, solitamente comprese in più ampli cicli mariani, realizzate dagli scultori di ambito parleriano attivi tra Svevia e Baviera tra la metà del Trecento e l’inizio del secolo successivo, quali il portale meridionale del duomo di Augusta, o il pannello a rilievo nella cattedrale di Ratisbona58 (Fig. 15).

La Dormitio di Sarnano condivide con le opere citate la temperatura dram-matica, specie nella rappresentazione degli apostoli, ciascuno intento ad esprimere il proprio dolore con una specifica attitudine del corpo e del volto. Non altrettanto può dirsi per il linguaggio plastico, qui risolto nel rilievo compresso e schiacciato delle figure, che affollano lo spazio annullando qualsiasi notazione ambientale59. Volendo rintracciare confronti credibili per la semplificazione spaziale, le incerte proporzioni, la durezza dei volti, e per lo schematismo che conferisce ai panneggi un aspetto “arcaico”, si dovrebbe piuttosto guardare alla scultura devozionale dei Vesperbild, e non è forse azzardato supporre una continuità dei rispettivi ambiti di produzione. Tuttavia, proprio lungo la direttrice levantina che collegava la Mitteleuropa con l’Italia adriatica, soprav-vivono testimonianze della diffusione della scultura narrativa di marca parleriana in forme corsive e ibride che ricordano, o meglio, si pongono come presupposto di quanto è stato realizzato a Sarnano. La lunetta del portale nel transetto nord del duomo di Udine, istoriato nel 1395-1396 da un maestro teutonico con il tema dell’Incoronazione della Vergine, condivide con il rilievo marchigiano la mescolanza tra un vocabolario figurativo moderno e una sintassi incerta, con esiti di apparente arcaismo (Fig. 16). La dislocazione del portale di Udine, al pari della presenza di alcune sculture architettoni-che di natura simile nel duomo di Aquileia, si offre come un segnale della via seguita dalle maestranze dirette verso la regione medio-adriatica60.

58 La produzione scultorea di marca parleriana, sviluppatasi tra XIV e XV secolo tra Svevia e Baviera con esiti piuttosto omogenei e ben riconoscibili, è stata oggetto di approfonditi e prolungati studi da parte di Assaf Pinkus, che ha indagato il comportamento delle maestranze e la trasmissione dei modelli nei numerosi cantieri, v. A. pinkus, Patrons and narratives of the Parler School. The Marian tympana 1350-1400, München 2009 (Kunstwissenschaftliche Studien, 151), con un’ampia sintesi dei temi principali in A. pinkus, The Parler School of Southwestern Germany. A reconsideration of fourteenth-century workshops and mass-sculpture, in «Zeitschrift des Deutschen Vereins für Kunstwissenschaft», 61, 2007 (2008), pp. 49-80. Per un orientamento sui principali maestri v. schock Werner, Parler, pp. 227-232, mentre per una disamina dei singoli monumenti si rimanda alle schede storico-critiche nel catalogo della grande mostra di Colonia (Die Parler).59 Ben diverso è lo stile espresso dalle maestranze parleriane tra la fine del Trecento e l’inizio del Quat-trocento, nei portali delle cattedrali di Schwäbisch-Gmünd, Ulma, Friburgo e Augusta, dove domina una estrema vivacità nel racconto, affollato e ricco di dettagli, ambientato in paesaggi e scenari architettonici. 60 La lunetta, coronata dai tipici gattoni a foglia di quercia e grappoli d’uva, è arricchita da statuine di santi

Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali153

Le relazioni tra la Marca camerte e l’area veneta erano del resto assai intense nell’ambito dei commerci, dal momento che la città di Camerino funzionava come centro di smistamento per gli articoli provenienti da Venezia e destinati ai mercati centro-italiani su entrambi i versanti appenninici. I mercanti marchigiani ponevano a loro volta nella città lagunare le basi per gli affari da condurre nell’Europa centrale e settentrionale61.

Stupisce nella Dormitio di Sarnano l’apparente omissione della figura di Cristo disceso ad accogliere l’anima di Maria, di contro alla duplice rappresentazione dell’E-terno. Sebbene la tipologia e la posizione del busto collocato alla sommità dell’arco richiamino l’uso dei portali marchigiani aderenti al gotico fiorito di matrice veneta62, l’incongruenza iconografica può essere il risultato di un banale rimaneggiamento. Anche il gruppo inferiore, ad un’osservazione ravvicinata, appare fissato alla lunetta in modo disarmonico, tramite un blocco d’innesto moderno. A seguito dello smantellamento dei vari elementi del portale, potrebbe essersi verificato un errore nella ricollocazione dei pezzi, con l’inversione dei gruppi scultorei. In tal caso, la sommità dell’arco avrebbe dovuto accogliere l’Eterno con il Figlio e la Vergine, mentre l’altra effigie, a questo punto identificabile con Cristo, si sarebbe trovata presso il compianto di Maria, col-mando così l’inspiegabile lacuna figurativa della lunetta.

Le ragioni di una scelta “esotica”

Benché la vicinanza dei cantieri di Sarnano e San Ginesio porti ad escludere che la comparsa pressoché simultanea dei due monumenti nordici sia dovuta ad una mera coincidenza, al momento sfuggono i termini della relazione tra le due realizzazioni. Sorge il dubbio di trovarsi al cospetto di un episodio della secolare competizione che vide contrapporsi i due centri, spesso su piani ben diversi da quello della committenza artistica. Come si è detto, i lavori condotti nella pieve ginesina nella seconda metà del

nell’intradosso e dai personaggi dell’Annunciazione ai lati, mentre l’architrave è istoriato con le scene della Strage degli Innocenti. Nonostante la consunzione del modellato, punti di contatto con la Dormitio marchi-giana sono riscontrabili nelle fisionomie delle figure, nelle grosse mani, nei singolari panneggi appiattiti in pieghe sovrapposte dagli orli ondulati. Su questo monumento e sulle sculture parleriane presenti nel duomo di Aquileia, v. M. Walcher, Il Gotico, in La scultura nel Friuli-Venezia Giulia, 1, Dall’epoca romana al Gotico, a cura di M. Buora, Pordenone 1988, pp. 358-364 e G. tigler, Scultori itineranti o spedizioni di opere? Maestri campionesi, veneziani e tedeschi nel Friuli gotico, in Artisti in viaggio 1300-1450. Presenze foreste in Friuli-Venezia Giulia, Atti del convegno a cura di M.P. Frattolin (Passariano, 15-16 novembre 2002), Udine 2003, pp. 161-168.61 di stefano, Una città mercantile, pp. 27-29.62 Le evidenti manipolazioni della muratura nella zona che fa da sfondo al portale possono spiegare la goffa posizione della scultura e degli elementi ornamentali dell’arco, che sembrano quasi affondare nella cortina di rifoderatura. La rappresentazione dell’Eterno benedicente al culmine dell’arcata di coronamento si trova ad esempio nel portale gotico del Monte di Pietà a Fermo e nel Sant’Agostino di Amandola. Possibili modelli possono essere rintracciati nei tabernacoli tardogotici di area veneziana, quali i due dedicati al SS. Sacramento nella basilica di San Marco a Venezia, riferibili a seguaci di Pierpaolo delle Masegne operanti intorno al 1388, v. W. Wolters, La scultura veneziana gotica (1350-1450), Venezia 1976, I, pp. 215-216.

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XIV secolo trovano compimento nel 1398, appena due anni dopo i rifacimenti docu-mentati in Santa Maria di Piazza Alta. Di rimando, il monumentale frontespizio tardo-gotico sembra voler rilanciare, alzando la posta, l’originale opzione messa in campo dai vicini per il portale scolpito63. L’adozione del cotto avrebbe potuto persino costituire un valore aggiuntivo, poiché il ricorso al laterizio, di per sé meno dispendioso rispetto alla pietra, applicato a strutture complesse aveva il merito di esaltare le capacità tecniche dell’artefice.

La ricerca delle motivazioni sottese alla scelta della nuova veste per la pieve di San Ginesio non può prescindere dai dati storici in nostro possesso, che individuano i fautori dell’opera nelle massime autorità cittadine, concordi nell’enunciare il patrocinio sull’impresa tramite l’apposizione degli stemmi. Sebbene infatti il successo di alcune forme artistiche tedesche, specialmente devozionali, sia spesso correlato ad un preciso orientamento di gusto del pubblico, piuttosto che alla domanda di un singolo committente, nel nostro caso va tenuto nella dovuta considerazione il fattore costituito dalla valenza simbolica che la facciata della chiesa andava ad assumere nel contesto della piazza.

Nelle città mercantili nordeuropee, l’erezione di un frontespizio sagomato e variamente ornato con trafori, lesene, pinnacoli o cortine policrome, specie se svettante su edifici laici, pubblici o privati, equivale all’innalzamento di un vessillo, adatto a dichiarare il prestigio e la ricchezza del committente. La moltiplicazione e lo sviluppo di queste “insegne”, rappresentanti l’orgoglio civico al pari della costruzione di nuove cattedrali o l’ampliamento di quelle antiche, accompagna e sottolinea l’ascesa econo-mica e demografica delle città64.

Particolarmente significativa è la comparsa di frontespizi decorati nello spazio pubblico destinato al mercato, il cuore pulsante dove si produce quella ricchezza che trasforma le realtà urbane allo scadere del medioevo. È questa una congiuntura econo-mica che accomuna i centri delle aree germaniche ai loro corrispettivi medio-adriatici, altrettanto favoriti dai traffici mercantili e dalla fioritura di redditizie attività manifat-turiere. Nel caso di San Ginesio, è la produzione tessile dei pannilana ad assumere un ruolo trainante nell’economia urbana. Nelle piazze tedesche, la facciata della chiesa principale dialoga sovente con quella del palazzo civico, talvolta contrapponendosi ad esso, mentre il patriziato cittadino può a sua volta contribuire a questo slancio di auto-rappresentazione, tramite l’esibizione di decorazioni sgargianti apposte sulle abitazioni private. Analogamente, nel centro ginesino, il nuovo volto della pieve si poneva a con-fronto con i prospetti del palazzo Defensorale e della residenza dei signori.

All’impatto visivo generato da un prospetto più alto e ornato di quello antico, va aggiunto l’effetto “sorpresa” sicuramente suscitato dalla forma che poteva apparire

63 Va forse inteso come un indizio significativo la comparsa del medesimo elemento decorativo (la moda-natura costituita da due listelli contenenti una fila di piccole bugne) tanto nell’area presbiteriale della pieve ginesina, quanto nel portale di Santa Maria di Piazza Alta. 64 schäfke, Deutsche Bäcksteinarchitektur, pp. 103-109.

Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali155

inusitata e bizzarra, per quanto regolarmente approvata dal pievano Porfirio. Non è possibile stabilire se tale scelta anticonformista abbia preceduto – e anzi, determinato – l’ingaggio del maestro bavarese, o se al contrario la disponibilità del Werkmeister abbia convinto i committenti ad accoglierne l’insolita proposta, tecnicamente interessante e stilisticamente aggiornata alle formule moderne del Tardogotico europeo.

È lecito ammettere che i da Varano abbiano avuto parte attiva nella definizione estetica di un monumento su cui apponevano i propri stemmi e che si trovava a fron-teggiare la loro stessa dimora, ma allo stesso modo va preso in considerazione il ruolo della committenza ecclesiastica. Ci si chiede specialmente se la fascinazione esercitata da uno stile esotico possa essere sorta dalla conoscenza diretta della cultura nordica, attinta nel corso di viaggi al di là delle Alpi. Un’occasione davvero straordinaria in questo senso può averla fornita il concilio tenutosi a Costanza tra il 1414 e il 1418, durante il quale lo scisma della Chiesa occidentale trovò finalmente una composizione, sancita dall’elezione di papa Martino V. Va tenuto conto del fatto che le ripercussioni di un simile evento storico e culturale sulla coeva produzione artistica non risultano ancora sufficientemente indagate.

È tuttavia noto che Rodolfo III da Varano, signore di Camerino dal 1399 al 1424, capace di riunire tutti i vasti possedimenti familiari e apprezzato come condot-tiero e rettore di città, nel 1416 inviò suo figlio Berardo III a Costanza, per ricevere l’assegnazione in feudo per dodici anni di Tolentino e San Ginesio, prerogativa subito confermata dal neoeletto pontefice65. L’esecuzione del frontespizio della pieve segue questi avvenimenti a distanza piuttosto ravvicinata, mentre il nuovo papa ha appena concluso il lungo viaggio di ritorno che nel 1420 lo avrebbe ricondotto a Roma dopo aver toccato Torino, Milano e diversi centri dell’Emilia, la Romagna e la Toscana.

È dunque il momento in cui i da Varano riscuotono il massimo riconoscimento per i loro servigi alla Curia e si avviano ad allacciare, tramite matrimoni strategici dei numerosissimi figli di Rodolfo III, proficue relazioni con i più influenti signori della penisola. Ed ecco sorgere, in uno dei feudi appena acquisiti, un monumento che con il suo implicito riferimento a prospere terre lontane e l’adozione di formule decorative messe in circolazione dai principali cantieri tardogotici, dà forma visibile al rinnova-mento in atto, nel contempo promuovendo l’immagine della pieve, non tanto – o non solo – alla stregua di una piccola cattedrale, quanto piuttosto esaltandone la valenza civica, intesa come il ruolo aggregante e simbolico riconosciuto all’edificio dalla comunità66. La facciata della chiesa, ostentando simultaneamente tutti gli emblemi delle autorità, diventa schermo palese della concordia cittadina, forse più auspicata

65 Contestualmente, Martino V conferma o assegna ex novo ai da Varano il vicariato su Montecchio, Bel-forte, Sarnano, Amandola, Penna San Giovanni, Gualdo, Montefortino, Montemilone (Pollenza), Visso, Cerreto e Montesanto (le ultime tre località collocate nel Ducato di Spoleto).66 marchegiani (Il frontespizio, pp. 641-643) avanza l’ipotesi che un simile gesto d’orgoglio municipa-listico vada letto anche alla luce dell’antagonismo con la vicina Fermo, dove, in quegli stessi anni, la cattedrale veniva ristrutturata secondo uno stile ancora trecentesco.

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che fattivamente raggiunta, in un momento profondamente segnato dall’intervento papale nel territorio marchigiano.

Alcuni indizi alimentano l’ipotesi che in questa iniziativa abbia in qualche modo avuto parte lo stesso Martino V, menzionato nell’epigrafe del 1421 ed evocato dalle insegne pontificie. Non c’è da stupirsi del fatto che il papa abbia voluto avallare il patrocinio di una famiglia alla cui ascesa la Chiesa di Roma aveva contribuito con l’affidamento dei vicariati, prima ancora di conferirle i feudi. D’altra parte, è lo stesso sistema di delega dell’autorità, attuato dalla Curia per il controllo della Marca, a generare ed accrescere il potere dei signori locali, un potere che nel volgere di qualche decennio verrà drasticamente ridimensionato dalle mutate nuove strategie politiche dei pontefici.

La nuova affermazione della Chiesa, specialmente nei territori più travagliati, ha inizio già con Martino V e ben presto cerca sostegno nell’efficacia mediatica delle imprese artistiche. È il pontefice in prima persona a promuovere la propria immagine tramite la diffusione di un’effigie riconoscibile, adombrata in criptoritratti o anche apertamente esposta in contesti pubblici di forte rilevanza simbolica. È quanto accade nel coro del duomo di Milano, che accoglie la statua del papa dopo la consacrazione dell’altar maggiore del 1419, o ancora nel portale di San Petronio a Bologna, secondo il primo progetto di Jacopo della Quercia, ideato nel 1425 e poi rimasto disatteso nell’o-riginaria inclusione del pontefice e del legato apostolico locale tra i personaggi scolpiti nella lunetta67.

La tradizionale identificazione della testa marmorea inserita nel frontespizio del magister Herrigo con il ritratto di papa Colonna porterebbe ad annoverare la pieve ginesina tra i siti beneficiati dalla presenza virtuale del pontefice, tuttavia si tratta di un’ipotesi da vagliare con grande cautela. Nel contratto di allogazione non si fa parola della scultura, ma di certo l’attuale posizione non rispecchia quella autentica, come dimostrano la strana “immersione” della testa nella parete, l’insolito taglio all’altezza del collo e il disordine della muratura circostante68.

Permane il dubbio sulla data in cui il frammento erratico, evidentemente antico e rilavorato, fu collocato sull’arco: l’ipotesi più suggestiva è che la testa sia appartenuta a una delle statue che dovevano occupare le nicchie attualmente vuote sul prospetto della pieve. Spingendosi oltre, si noterà quindi una certa somiglianza fisionomica del volto, per quanto deturpato da vistose lesioni, con i ritratti conosciuti di Martino V,

67 Per una disamina della politica delle immagini attuata da papa Martino V in riferimento alla propria stessa effigie, v. l. di calisto, Per una ricostruzione dell’iconografia di Martino V, in Martino V. Genazzano, il pontefice, le idealità, Studi in onore di Walter Brandmüller, a cura di P. Piatti-R. Ronzani, Roma 2009, pp. 109-125, in cui si ricordano in particolare il monumento eseguito intorno al 1419 da Jacopino da Tradate nel duomo di Milano, la perduta lunetta progettata da Jacopo della Quercia nel 1425 per il portale di San Petronio e quella superstite nella collegiata di Castiglione Olona, del 1428. 68 La scultura di San Ginesio è quasi del tutto sconosciuta alla critica, poiché la posizione molto elevata ha impedito un’osservazione ravvicinata fino all’innalzamento del ponteggio per il restauro della facciata. Per un confronto con la fisionomia di Martino V tramandata dalle effigi coeve, v. di calisto, Per una ricostruzione, p. 121, nota 25.

Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali157

specialmente nella parte inferiore, per via della forma squadrata del mento, degli zigomi sporgenti e delle guance cadenti, dettagli resi con sufficiente realismo. Al contrario, malgrado l’orlo intagliato di un colletto lasci pensare ad un accenno di veste ecclesia-stica, il capo scoperto e il cranio pervaso da una capigliatura leggermente rilevata non corrispondono ai canoni del presunto modello iconografico.

L’interpretazione resta dunque incerta e non permette di aggiungere ai tanti motivi d’interesse del frontespizio, quello di uno speciale omaggio al papa del Conci-lio, tanto più rilevante in quanto estremamente precoce, rispetto alle altre manifestazioni dell’iconografia martiniana69. A rammentare l’autorità pontificia, rimangono comunque i riferimenti nell’epigrafe e l’evidenza dello stemma, quest’ultimo accompagnato e coadiu-vato dall’omologo emblema che molto probabilmente affermava l’apporto della diocesi.

L’episodio artistico del frontespizio della pieve, così carico di valori culturali internazionali, ma allo stesso tempo così strettamente legato alla specifica situazione locale, non era destinato a replicarsi. Forse in virtù della sua eccentrica singolarità, oppure a causa dell’inatteso e rapido declino che investì San Ginesio alla caduta dei da Varano, relegandola ad un ruolo nettamente marginale, la prova del bavarese Herrigo non sembra contare epigoni nell’area medio-adriatica, dove nel frattempo si vanno affermando quelle esperienze del gotico fiorito destinate a mediare la transizione verso l’età rinascimentale70.

69 Tra i diversi contesti in cui Martino V promosse la propria immagine in edifici di pubblica fruizione, è quello bolognese ad offrire maggiori affinità con il caso di San Ginesio, per via dei difficili equilibri tra i poteri laici, la cittadinanza e il delegato pontificio. A proposito della vicenda esecutiva e conservativa del portale di Jacopo della Quercia, v. specialmente C. gnudi, Per una revisione critica della documentazione riguardante la porta Magna di San Petronio, in «Romische Jahrbuch fur Kunstgeschichte», 20, 1983, pp. 13-52, dove sono riprese e rettificate le precedenti considerazioni di J.H. Beck, Jacopo della Quercia e il portale di San Petronio a Bologna. Ricerche storiche, documentarie e iconografiche, Bologna 1970, pp. 19-33 e 63-85. 70 Per un ragguaglio introduttivo sull’architettura marchigiana in età rinascimentale, v. mariano, Architet-tura, pp. 83-88.

Tav. XXII

San Ginesio, collegiata, prospetto

Tav. XXIII

AGC, n. 55: Prospetto della Facciata della Insigne Collegiata di Sanginesio

Tav. XXIV

Grafico restitutivo del prospetto della collegiata di San Ginesio: i materiali (Il Compasso atelier di restauro, Urbino)

Tav. XXV

Grafico restitutivo del prospetto della collegiata di San Ginesio: degrado differenziale (Il Compasso atelier di restauro, Urbino)

Tav. XXVI

Grafico restitutivo del prospetto della collegiata di San Ginesio: degrado strutturale (Il Compasso atelier di restauro, Urbino)

Tav. XXVII

ASCollSG, 1.13.1, fasc. 6: Contratto di allogazione del 1421 per la costruzione della facciata

Tav. XXVIII

1-2. San Ginesio, collegiata, prospetto: finestroni ciechi e fregio a traforo

Tav. XXIX

1-2. San Ginesio, collegiata, epigrafe del 1421 e testa virile

Tav. XXX

San Ginesio, collegiata, stemmi in facciata: vescovo di Camerino; chiavi pontificie; San Ginesio; da Varano

Tav. XXXI

1-3. San Ginesio, collegiata, prospetto: finestrone cieco; muratura in laterizi bicromi e decorazioni plastiche

Tav. XXXII

San Ginesio, collegiata, coro: Vesperbild

E 30,009 788895 385037

ISBN 978-88-95385-03-7