22
VITA E PENSIERO Università

Il Sessantotto dei professori. Il caso Scoppola a sociologia di Trento (2011)

  • Upload
    lumsa

  • View
    0

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

VITA E PENSIERO

Università

a cura di

LUCIANO CAIMI

Autorità e libertàTra coscienza personale, vita civilee processi educativi

Studi in onore di Luciano Pazzaglia

PE

DA

GO

GIA

E S

CIE

NZ

E D

EL

L’E

DU

CA

ZIO

NE

RIC

ER

CH

E

www.vitaepensiero.it

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dal-l’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico ocommerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essereeffettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso diPorta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected] e sito webwww.aidro.org

© 2011 Vita e Pensiero - Largo A. Gemelli, 1 - 20123 MilanoISBN 978-88-343-2017-4

La pubblicazione di questo volume ha ricevuto il contributofinanziario dell’Università Cattolica sulla base di una valutazionedei risultati della ricerca in essa espressa.

GIUSEPPE TOGNON

Il Sessantotto dei Professori.Il ‘caso Scoppola’ a Sociologia di Trento

È negli anni Sessanta che il Novecento ha incon-trato se stesso, liberandosi dalla tutela e dal ricatto morale del secolo che ci ha preceduto1.

Nella storia italiana il Sessantotto ha avuto un peso signifi cativo. Non soltanto per l’impatto su antichi schemi di comportamento e per lo squarcio aperto su di un mondo diverso, ma per l’incidenza che ha avuto, nel bene e nel male, su scelte politiche, culturali e sociali venu-te tutte a maturazione in un ristretto numero di anni (tra il 1966 e il 1971): la fi ne della stagione della ricostruzione del Paese dopo la seconda guerra mondiale, la prima grave crisi del sistema politico, incapace di consolidare l’esperienza del Centro-sinistra, il dispiegarsi degli effetti del Concilio Vaticano II, il fallimento di una politica di programmazione economica fondata su previsioni sbagliate, la sempre maggiore infl uenza della politica estera sui destini del Paese.

Il Sessantotto ha fatto da introduzione alla crisi della partitocrazia e del modello di governabilità che si fondava sulla conventio ad exclu-dendum tra i due maggiori partiti della Repubblica, la Democrazia cri-stiana e il Partito comunista italiano, ma ha anche agito come elemen-to di modernizzazione del Paese. Se a distanza di cinquant’anni siamo ormai in grado di valutarne meglio la rilevanza storica lo dobbiamo al fatto che siamo consapevoli del signifi cato emblematico ed annun-ciatore che sempre, nella storia di un popolo, assumono le contese tra le generazioni e l’emergere della contestazione come fenomeno pulsionale.

Il Sessantotto italiano è stato diverso da quello di molti altri paesi occi-dentali, ma le differenze non vanno cercate nelle apparenze o nei feno-meni, bensì nel modello interpretativo generale della vita e del rapporto tra passato e futuro di cui le diverse società occidentali erano portatrici2.

1 C. GARBOLI, Un po’ prima del piombo, Sansoni, Milano 1998, p. 359.2 Rinuncio, per limiti di spazio, a indicare una bibliografi a sul Sessantotto, ormai

260 GIUSEPPE TOGNON

Ancora recentemente, per limitarsi soltanto a qualche esempio, un inter-prete intelligente come Michele Serra ha sostenuto che per l’Italia il Ses-santotto è stata una drammatizzazione-celebrazione collettiva del ripudio del Padre, estrema nei modi ma soprattutto nei tempi, concentrata in uno scorcio di vita individuale e sociale così breve da defl agrare con portata impressionante, mai più ripetuta. Visto invece dal versante americano è sta-to tutt’altra cosa: per Todd Gitlin, che allora era presidente degli Students for Democratic Society, fu invece la riproposizione del dramma dell’Illumini-smo, della collisione tra autonomia ed autorità. Il Sessantotto sarebbe stato il tentativo di restaurare lo spirito americano, cioè il principio che ognuno deve assumere il controllo della propria vita per perseguire virtù e felicità3.

Anche se la storiografi a ha coperto in maniera signifi cativa il feno-meno del Sessantotto e siamo ormai consapevoli che sarebbe opportuno parlare non di uno ma di molti Sessantotto, e magari anche di tanti Ses-santotto ‘minori’ di gran lunga più signifi cativi di quanto ci veniva rap-presentato dai media, nondimeno restiamo carenti di studi e di analisi proprio nell’ambito della contestazione studentesca e della vita scolasti-ca e universitaria che pure ne hanno egemonizzato l’idea e la rappresen-tazione. Mancano ad esempio studi d’insieme sul Sessantotto visto dai professori universitari e più in generale dalle classi dirigenti e ciò non soltanto per la diffi coltà di disporre di fonti certe e di documentazione in molti casi conservata in archivi privati o dispersa, ma per la resistenza all’idea che per quanto rumorosa e visibile fosse stata, la contestazione studentesca e la violenza che ne scaturì, anche da parte dello Stato, non furono che le componenti più evidenti di una defi nitiva crisi di crescita e di sprovincializzazione della società italiana4.

molto vasta. Questo saggio sviluppa quanto esposto al convegno del Cirse dal titolo L’eredità del ’68: tra pedagogia e comunicazione. Per un bilancio, quarant’anni dopo, tenuto-si a Firenze il 23-24 ottobre 2009.3 Cfr. «La Repubblica», 1 febbraio 2008, p. 38. Sebbene il tema dell’autorità sia ricorrente in tutte le analisi sul Sessantotto, queste ultime, proprio per l’ambiguità e complessità del tema, possono divergere enormemente e rendere un cattivo servizio alla comprensione dei fenomeni determinando una sorta di ‘immaginario debole’ fondato su categorie potenti ma tipiche del linguaggio antropologico e introspetti-vo – desiderio di autoaffermazione, desiderio di felicità, autoreferenzialità… – che limitano la capacità di comprendere il Sessantotto all’interno di un’analisi di lungo periodo, secolare. Sul tema dell’autorità nei suoi aspetti antropologico-culturali, di teoria politica e pedagogici rimando alla raccolta recente di saggi S. BIANCU - G. TOGNON (a cura di), Autorità. Una questione aperta, Diabasis, Reggio Emilia 2010.4 Segnalo la tesi di dottorato di Roberta Giammaria in Storia dell’educazione dal titolo Professori nella crisi. L’università italiana prima e dopo il Sessantotto (1958-1980), Lumsa di Roma, a.a. 2009-2010.

IL SESSANTOTTO DEI PROFESSORI 261

L’elemento più signifi cativo che appare dalla rilettura del Sessantot-to italiano è quello della divergenza tra il sovvertimento dei rapporti civi-li e l’arroccarsi di quelli politici, così da determinare un corto circuito tra lo Stato e le sue classi dirigenti e impedire una prospettiva realistica di cambiamento. In questa logica, lo studio del comportamento dei pro-fessori universitari, alle prese con la contestazione in un momento di trapasso generazionale tra i baroni formatisi prima della guerra e nuo-ve leve aperte alle infl uenze culturali esterne, è molto interessante: il Sessantotto dei professori fu a cavallo tra il costume e la politica, ma di entrambe le dimensioni essi furono più vittime che protagonisti. Ceto dirigente di ‘frontiera’ nel pieno della contestazione studentesca e insie-me protagonisti inconcludenti di una stagione di mancate riforme della scuola superiore e dell’università quale fu quella del Centro-sinistra, i professori fi nirono per vivere quel periodo decisivo per le sorti dell’ac-cademia italiana in ordine sparso, dividendosi e lacerando rapporti con-solidati nel tempo, cavalcando la protesta o resistendole più sulla base di proiezioni personali che di una coscienza professionale condivisa. Alla fi ne, per l’università italiana il Sessantotto, così come fu interpretato dal-la classe politica e dalla corporazione accademica, si rivelò un’autentica ‘occasione mancata’5.

Solo nel nostro Paese, dopo la contestazione studentesca, non suc-cesse qualche cosa di meglio, ma semmai di peggio, come la strumen-talizzazione rivoluzionaria della nuova domanda sociale di istruzione e dei confl itti sociali. Negli Usa ripartì il mito americano e una nuova straordinaria stagione di innovazione scientifi ca e tecnologica; in Gran Bretagna si mise mano alla più importante riforma della scuola della seconda metà del Novecento; in Francia, malgrado l’innovativa legge Faure e il tentativo virtuoso di ristrutturare radicalmente l’università, ci fu la caduta di De Gaulle e l’avvento di una nuova stagione politica. A livello europeo si avviò la fase dei grandi rapporti sull’istruzione e sulla riqualifi cazione dell’offerta formativa. In molti altri paesi, dal Messico alla Germania, all’India, il Sessantotto fu l’occasione per accelerare il cambiamento e per sistemare molte partite politiche e sociali incompiu-te. In Italia, invece, la politica ‘tradizionale’ rimase al centro della scena

5 Per la situazione dell’università italiana a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta rinvio ai molti interventi apparsi sulla rivista bolognese «Il Mulino», la più ricca di documentazione e di analisi sulle politiche universitarie del tempo; G.P. BRIZZI - P. DEL NEGRO - A. ROMANO (a cura di), Storia delle università in Italia, vol. I, Sicania, Mes-sina 2007; G. CAPANO - G. TOGNON (a cura di), La crisi del potere accademico in Italia. Proposte per il governo delle università, il Mulino, Bologna 2008; B.R. CLARK, Academic Power in Italy. Bureaucracy and Oligarchy in a National University System, University Press, Chicago-London 1977; A. COLOMBO, Università e rivoluzione, Lacaita, Manduria 1970.

262 GIUSEPPE TOGNON

anche in presenza di sommovimenti e lacerazioni profonde del tessuto sociale senza riuscire a venire a capo di molte questioni urgenti come quelle dell’università, sottoposta dal 1969 a una cura di massifi cazione senza disporre di investimenti e soprattutto di un modello organizzativo adeguati.

Nel momento in cui negli atenei italiani si stava costruendo una nuo-va consapevolezza critica del ruolo della ricerca e dell’alta formazione, con l’apertura a saperi diversi e con la contaminazione tra discipline e tra modelli diversi di comunità docenti, venne scaricato sull’università tutto il peso di una prorompente domanda sociale di istruzione che un ceto piccolo borghese esprimeva per affermarsi nella sempre più accesa competizione tra una classe operaia in declino e un’antica ma impoten-te borghesia dirigente. L’urgenza della sfi da alla democrazia lanciata dal terrorismo contribuì certamente a ritardare e a complicare le risposte politiche, ma è pur vero che il caso dell’università fu molto particola-re, anche rispetto a quello della scuola che nella metà degli anni Set-tanta era riuscita a strappare riforme politiche e innovazioni didattiche importanti. Il Dpr n. 382, con il suo carico di provvedimenti in sanato-ria, giunse al traguardo solo nel 1980, nell’anno della massima involu-zione politica ed economica dell’Italia, dopo un decennio che non solo non aveva cambiato il Paese, ma aveva piegato defi nitivamente la fi bra dell’università che infatti lo subì senza mai più risollevarsene6.

Nel progetto di una ricostruzione del protagonismo accademico dei professori tra domanda sociale e crisi politica negli anni Sessanta e Set-tanta del XX secolo, con al centro il Sessantotto, un caso esemplare è rappresentato dalla vicenda della chiamata e delle repentine dimissioni di Pietro Scoppola da professore di Storia contemporanea nella facoltà di Sociologia del giovane Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento7

6 Sulla crisi di governabilità negli anni Settanta rinvio a G. TOGNON, La politica scolasti-ca italiana negli anni Settanta. Soltanto riforme mancate o crisi di governabilità?, in AA.VV., L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, vol. II, Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di F. Lussana - G. Marramao, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 61-87.7 Sull’Università di Trento cfr. F. CAMBI - D. QUAGLIONI - E. RUTIGLIANO (a cura di), L’università a Trento 1962-2002, Università degli Studi, Trento 2004; G. AGOSTINI, Socio-logia a Trento. 1961-1967: una «scienza nuova» per modernizzare l’arretratezza italiana, il Mulino, Bologna 2008; il fascicolo speciale di «Didascalie. Rivista della scuola trenti-na», La lunga marcia del Trentino per la sua università, 2000, 1; i contributi nel fascicolo 50/1 del 1986 della rivista «Letture trentine e altotesine»; P. PRODI, Università dentro e fuori. Un’esperienza aperta, Temi, Trento 1980; il saggio di V. CALÌ, Dalla difesa della spe-cifi cità nazionale all’affermazione a livello europeo: l’avventura dell’Università, in AA.VV., Storia del Trentino, vol. VI, L’età contemporanea. Il Novecento, a cura di A. Leonardi - P. Pombeni, il Mulino, Bologna 2005, pp. 395-429.

IL SESSANTOTTO DEI PROFESSORI 263

tra la fi ne del 1968 e la primavera del 1969, dopo mesi di aspro con-fronto all’interno del corpo docente, allora uno dei più brillanti gruppi dell’accademia italiana8. Per il prestigio dei protagonisti, compresi i lea-ders della contestazione, per il modo con cui si svolse, e per la personali-tà dell’attore principale, uno degli storici e degli uomini politici italiani che più hanno inciso nella coscienza civile del Paese9, il ‘caso Scoppola’ risulta di grande interesse e può diventare un metro di confronto per molte altre vicende personali e collettive fi nora relegate nei ricordi o non ancora adeguatamente studiate.

La ricostruzione dei fatti è ora resa possibile, oltre che dai documenti di stampa e o conservati negli archivi dell’Università di Trento, anche dai materiali raccolti dallo stesso Scoppola e confl uiti dopo la sua morte (2007) nell’archivio personale depositato presso l’Istituto Luigi Sturzo di Roma10. Del valore storico e politico della vicenda si è accorto anche Leopoldo Elia che ne tratta nell’intervento letto in occasione della com-

8 Nell’a.a. 1968-1969 insegnavano a Trento i professori F. Alberoni, V. Levis, G. Fonta-na, F. Metelli, G. Pasetti, G. Pastori, G. Harrison, M. Livolsi, E. Rotelli, O. Cucconi, E. Spaltro, G. Bellone, A. Pasquinelli, V. Capecchi, F. Barbano, I. Gasparini, A. Spreafi co,G. Baglioni, F. Demarchi, G. Braga, S. Aquaviva, P. Scoppola, A. Manoukian, G. Fred-di, C.T. Altan, E. Arcaini, B. Secchi, G. Galli, P. Bortot, F. Fornari, G. Petter, G. Flores d’Arcais, R. Prodi, C. D’Adda, B. Disertori. Gli assistenti incaricati erano G. Rusconi, C. Mantovani, M. Laura Bonin, F. Bercelli, M. Santuccio, D. Capozza, G. Di Bernar-do, G. Bellone, B. Benato, A. Izzo. Collaboratori a tempo pieno: A. Schizzerotto, G. Corradini, C. Saraceno, G. Albertelli, R. Strassoldo Graffembergo. Collaboratori esterni a tempo parziale L. Del Grosso Destrieri, A. De Lillo, G. Cella, M. Egidi, O. Bertolini, A. Brunazzo, F. Pesarin, R. Kolarczyk, Helen Valentini.9 Su Pietro Scoppola si vedano: F. BAZOLI - L. PAZZAGLIA, Pietro Scoppola. La fede e le ragioni, «Città e dintorni», 2008, 95, pp. 68-83; N. LIPARI, Pietro Scoppola: un cattolico a modo suo, «Studium», 2 (2008), pp. 213-219; U. GENTILONI SILVERI, Pietro Scoppola (1924-2007). History as Civil Commitment, «Journal of Modern Italian Studies», 14 (2009), 3, pp. 357-364; i tre saggi di G. TOGNON, Pietro Scoppola. Storia e politica come ricerca di identità, A. GIOVAGNOLI, Coscienza religiosa, ricerca storiografi ca e impegno civile in Pietro Scoppola e F. DE GIORGI, La «Repubblica delle coscienze». L’esperienza della Lega democratica di Scoppola, Gorrieri e Ardigò, in L. GUERZONI (a cura di), Quando i cattolici non erano moderati. Figure e percorsi del cattolicesimo democratico in Italia, il Mulino, Bolo-gna 2009, pp. 71-105, 107-137 e 139-190; A. GIOVAGNOLI, Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 2011 e il più vecchio C. BREZZI - C.F. CASULA - A. GIOVAGNOLI - A. RICCARDI (a cura di), Democrazia e cultura religiosa. Studi in onore di Pietro Scoppola, il Mulino, Bologna 2002. La Bibliografi a degli scritti di Pietro Scoppola è pubblicata in P. SCOPPOLA, Lezioni sul Novecento, a cura di U. Gentiloni Silveri, Later-za, Roma-Bari 2010 nonché on line sul sito dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma.10 Utilizzo i documenti raccolti nel fascicolo «Istituto di Trento» della Serie Atti (1968-69), incrociati con qualche lettera dell’Epistolario, in corso di inventariazione, con la ras-segna stampa dell’epoca e con le carte dell’Archivio storico dell’Università di Trento.

264 GIUSEPPE TOGNON

memorazione tenutasi al Senato della Repubblica il 17 gennaio 2008, a pochi mesi dalla scomparsa di Scoppola11.

Scoppola, laureato in Giurisprudenza a Roma nel 1948, conseguì la libera docenza in Storia contemporanea nel 1964 e, sempre senza abban-donare il suo posto al Senato, insegnò a vario titolo presso le università di Lecce e Perugia (dove fu assistente di Sergio Cotta). Il suo interesse per un passaggio alla carriera universitaria, sia pure frenato dalla necessità di man-tenere dignitosamente la sua numerosa famiglia, era cresciuto insieme alla sua produzione scientifi ca, che tra il 1961, anno di pubblicazione presso il Mulino del suo primo volume importante Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, e il 1967, quando pubblicò per Laterza Chiesa e Stato nella Storia d’Italia, lo aveva imposto tra i più brillanti studiosi di Storia contem-poranea e in particolare del movimento cattolico. Nel 1967 era stato terna-to nel concorso bandito dalla facoltà di Scienze politiche dell’università di Bologna per Storia della Chiesa12 e a partire da quel momento, facendosi più concreta la prospettiva di una cattedra, egli prese a sondare varie uni-versità per valutare il da farsi. Il 21 aprile 1968 scriveva ad esempio al prof. Lotti per sapere se corrispondeva a verità che l’Istituto Cesare Alfi eri di Firenze era in procinto di modifi care lo statuto e includervi nuove discipli-ne e per proporsi come titolare di una cattedra nell’ambito di materie che «riguardassero la presenza e l’infl usso del fattore religioso nella vita socia-le». Altri sondaggi vennero fatti per una chiamata a Scienze politiche di Roma, dove per altro gli era stato ripetutamente negato l’incarico di Storia dei partiti e dei movimenti politici, o a Genova.

L’idea di una chiamata a Trento era stata suggerita da Andreatta, che Scoppola aveva incontrato ai primi di luglio del 1968 a Roma. Subito si era messo in contatto con il presidente del comitato ordinatore prof. Marcello Boldrini, per fi ssare un incontro a Trento che avvenne ai primi di agosto 1968. Nel mese di ottobre aveva inviato il suo curriculum anche a Norberto Bobbio il quale scrivendogli il 27 ottobre gli annunciava che la chiamata «era stata fatta con la piena convinzione da parte nostra» e dichiarava di essere persuaso che «per la qualità dei suoi studi e della sua preparazio-

11 Cfr. SENATO DELLA REPUBBLICA, Commemorazione di Pietro Scoppola, a cura del Servizio dei resoconti e della comunicazione istituzionale, n. 11, aprile 2008, pp. 19-26. Elia, amico suo carissimo fi n dal tempo in cui insieme avevano vinto il medesimo concorso per funzionari del Senato, dove entrarono all’inizio del 1950, fu anche all’origine del recupero defi nitivo di Scoppola alla vita accademi-ca, dopo la parentesi trentina, grazie a una norma derogatoria inserita nel decre-to legge n. 580 del 1973, quando ministro era Franco Malfatti e lui era presidente della sezione universitaria del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione.12 La commissione era costituita dai proff. Gismondi, Nicolini, Bolgiani, Firpo, Pro-sdocimi. Pietro Scoppola risultò il terzo dei ternati.

IL SESSANTOTTO DEI PROFESSORI 265

ne, avrebbe potuto dare un ottimo contributo allo sviluppo della “diffi cile” università trentina, che si stava facendo le ossa dopo un’infanzia forse un po’ troppo gracile». Il 31 ottobre 1968 gli fu trasmesso il decreto di nomi-na, a fi rma di Marcello Boldrini, a professore straordinario. In seguito, il 21 dicembre 1968, fu incaricato anche dell’insegnamento di Storia politica.

La chiamata di Scoppola a Trento era stata l’oggetto di un’interessante seduta del Consiglio di amministrazione dell’Istituto Superiore di Scienze Sociali del 31 ottobre, presieduto dal presidente della Provincia di Trento, avv. Bruno Kessler, nel quadro della discussione generale sulla politica del-le chiamate per le cattedre. L’illustrazione della proposta complessiva fu tenuta da Nino Andreatta, componente con Boldrini e Bobbio del Comita-to ordinatore: per una sesta cattedra a disposizione di una disciplina storica il comitato aveva proposto Scoppola, in quanto «vero studioso di movimen-ti storici moderni e contemporanei», ma anche «per la diffi coltà di trovare allora docenti di storia contemporanea». Ma è a Norberto Bobbio che toc-ca il compito ‘di spezzare una lancia in favore della storia’ e di posizionare la candidatura di Scoppola:

Oggi la dicotomia fra storia e sociologia è ancora presente. Vent’anni fa, la Sto-ria ha avuto il monopolio delle scienze umane, oggi non deve averlo la socio-logia, perché la connessione tra storia e sociologia è strettissima. La proposta del comitato di dare una cattedra agli insegnamenti storici ha signifi cato nella misura in cui si parla di storia contemporanea. Questa dizione è una conqui-sta recente. La storia contemporanea oggi si può articolare in tre fi loni: Storia del movimento socialista, Storia del movimento cattolico, Storia del movimen-to fascista. Il prof. Scoppola è uno studioso dei movimenti cattolici. Ciò non esclude che non abbia approfondito necessariamente anche la storia degli altri movimenti: pertanto ha tutte le carte in regola per essere chiamato ad insegna-re a Trento. La necessità contingente di chiamare il vincitore di un concorso di Storia della chiesa non deve stupire nessuno, data la legislazione attuale in materia. Il prof. Scoppola nella sua attuale posizione di vicedirettore dell’uffi cio studi del Senato ha curato la raccolta dei discorsi parlamentari di Benedetto Croce. Ciò sta a dimostrare che anche da questa sua posizione si è interessato a problemi di Storia.

Nella medesima seduta il padre gesuita Luigi Rosa espresse una riserva di metodo che forse nascondeva una preoccupazione sul profi lo della candi-datura: ricordò che «nelle intenzioni dell’università si era posto l’accento sulla aconfessionalità dell’Istituto e per una facoltà autenticamente scien-tifi ca»; sollevò inoltre il problema della residenzialità dei docenti – un problema molto dibattuto in quegli anni a Trento, che avrebbe riguardato anche il prof. Scoppola. Toccò ancora ad Andreatta garantire che Scoppo-la era «persona integra e precisa che svolge scrupolosamente i compiti che si impegna ad assumere» e dichiarare che si era impegnato a sganciarsi il

266 GIUSEPPE TOGNON

più presto possibile dal Senato anche se come «ricercatore egli ritiene sia in grado di lavorare di più stando a Roma che non a Trento».

L’arrivo di Scoppola nella città di Trento avvenne in piena acme di con-testazione, in un passaggio diffi cile della vita del giovane istituto universita-rio. Tra i suoi appunti troviamo una rapida cronaca del suo primo approccio con la realtà: il 21 novembre aveva telefonato a Trento per fi ssare le lezioni ed annota che, parlando con Alberoni, questi gli aveva detto: «Non vorrei che tu diventassi (fi ssando le lezioni) capro espiatorio del movimento stu-dentesco». Il 22 l’assemblea studentesca aveva impedito gli esami del prof. La Pergola, ma nel pomeriggio del 22 egli aveva tenuto la sua prima lezio-ne per presentare il corso. Ritornò a Trento il 29-30 novembre per tenere lezioni sulla conoscenza e la ricerca in storia. Alle ore 15 del 29 novembre aveva partecipato alla riunione del corpo docente riunito da Francesco Alberoni, da pochi mesi direttore della Facoltà al posto di Mario Volpato, intervenendo nella discussione per segnalare che i «problemi nascevano dalla caratterizzazione ideologica del movimento studentesco». Anno-ta che la lezione del 30 andò deserta perché gli studenti erano riuniti in assemblea e che il 2 dicembre il direttore amministrativo Tarcisio Andreolligli comunicò lo stato di occupazione, tolta il 5 dicembre successivo. Nella lettera con cui darà le dimissioni racconta:

Ho accettato la discussione con gli studenti al termine delle lezioni ed ho faticosa-mente ottenuto il consenso di un ristretto gruppo intorno ad un tema da me svolto in lezioni tradizionali che avrebbe potuto poi essere approfondito in seminari e gruppi di ricerca. Alla dodicesima lezione, il 21 dicembre 1968, il mio corso è stato di nuovo duramente contestato da un gruppo di studenti che dopo aver assistito per pochi minuti, hanno dichiarato che il corso non rispondeva ai loro interessi e hanno preteso, abbandonando l’aula, di prendere i nomi dei giovani che resta-vano ad ascoltarmi, qualifi candosi, di fronte alla mia sdegnata reazione – come movimento studentesco.

La situazione precipitava e Scoppola decise di non poter condividere la politica istaurata da Alberoni nel tentativo di guidare, cavalcandola, la protesta giovanile e di trasformare la vicenda trentina in un esempio di «università critica» che istaurasse un «nuovo corso» nella storia dell’uni-versità italiana ed anche internazionale13. Le ambizioni del manipolo di

13 In un ritratto pubblicato il 24 dicembre 1968 su «Alto Adige», a fi rma di Fran-co Filippini, Alberoni fu presentato in questo modo: «La prima volta che si mostrò agli studenti – un pomeriggio di prima estate, nell’aula 5 superaffollata e caldissima, vestiva una camicia azzurra e una cravatta color fragola (niente giacca: non la porta neanche adesso, preferendo i maglioni). Giovane di anni (trentotto) e d’aspetto, alzò un braccio per farsi riconoscere nella calca quando il prof. Boldrini, presidente

IL SESSANTOTTO DEI PROFESSORI 267

giovani professori sociologi che avevano investito nell’avventura trenti-na erano molto alte e comunque commisurate allo scenario di una rivo-luzione metodologica e culturale di portata planetaria. Tra le carte di Scoppola sono conservati i quattro Documenti di Lavoro predisposti da Alberoni tra il dicembre 1968 e il gennaio 1969 che servirono come piat-taforma per la discussione all’interno del corpo docente, riunitosi più volte in seduta plenaria aperta anche ai rappresentanti degli studenti, e tra i docenti e gli studenti che a singhiozzo si incontravano in una Commissione per la Sperimentazione dove avrebbero dovuto essere individuate nuove forme di didattica e di valutazione. Sono documenti importanti, che meriterebbero di essere pubblicati e che solo i limiti di spazio concessoci non consentono di farlo ora. Sono certamente frutto della creatività e dell’impegno politico, in chiave antimarxista e insie-me anticattolica di Alberoni, ma in gran parte condivisi da molti altri docenti, ad esempio da Norberto Bobbio: essi scandiscono, anche nelle dimensioni, un crescendo impressionante di rifl essione politica e di ana-lisi sociologica che – ad esempio per quanto riguarda l’esame del conte-sto trentino – è di grande interesse ed ancora di attualità.

Nel primo Documento viene formulato l’assunto che guiderà Alberoni nella gestione della fase ‘creativa’ del movimento contestatore di que-gli anni, alla ricerca di una maieutica che riuscisse a risvegliare la parte migliore del protagonismo giovanile dall’interno del movimento così da isolare le frange rivoluzionarie marxiste ed al contempo le forze di una radicale reazione conservatrice.

Consapevoli dell’importanza dell’esperimento culturale e politico in atto nell’Istituto e che l’opera dei gruppi di lavoro degli studenti possa portare alla realizzazione di tipi nuovi di formazione individuale e di produzione di cultura, che potranno servire di modello per quelle radicali ristrutturazioni dell’inse-gnamento, che non possono ovviamente limitarsi ad una serie di riforme di tipo amministrativo e organizzativo, i docenti dell’istituto di Trento ritengono pro-prio dovere di dare il loro pieno contributo a questa fase della sperimentazione critica, nelle più varie forme e nella massima misura in cui ognuno di essi è libero di disporre del proprio tempo. Questa partecipazione sembra essenziale alla sopravvivenza e allo sviluppo del nostro istituto, perché solo da una diretta e immediata collaborazione fra docenti e studenti può prendere vita una nuova forma di attività scientifi co didattica, per la quale non esistono ancora esempi soddisfacenti e concreti né in Italia né all’estero.

del comitato ordinatore (con Andreatta e Bobbio) lo presentò e disse: “Vi ringrazio di avermi dato l’occasione di lasciare l’Università Cattolica”. Soggiunse che si sareb-be subito messo al lavoro perché c’era molto da fare».

268 GIUSEPPE TOGNON

Alberoni lavorava su uno schema dialettico tra riformismo ed anarchia, ma al contempo considerava la contestazione come l’occasione per libe-rarsi dalla ghettizzazione – dalla ‘reifi cazione’ – in cui la stratifi cazione sociale borghese aveva collocato studenti e professori e far emergere così una coscienza collettiva depurata da ogni condizionamento.

Nel secondo Documento, anche se non lo citò, individuò Scoppola come l’emblema della opposizione al tentativo di sperimentare il «nuo-vo corso» e come esponente di un ceto autoreferenziale, interessato comunque, anche nella migliore delle ipotesi, alla redistribuzione del potere accademico e non invece interessato alla «responsabilizzazione collettiva e alla consapevolezza che il ruolo del docente nell’università va completamente ripensato, reinventato».

Nonostante le mie affermazioni non è mai venuto un attacco diretto alla dire-zione e al suo operato anche da parte di chi non poteva non essere in disaccor-do. L’unica volta che ci furono critiche e si costituì un principio di opposizione fu quando comparve tra di noi un professore ordinario (della nostra facoltà) che si trovò involontariamente, forse, a diventare l’opposizione uffi ciale. Que-sto dimostra, a mio avviso, che si restava entro la prima area di interessi, del tipo cioè tradizionale accademico, anche se molti cercavano di superarla.

Nel terzo Documento, Alberoni dichiarava:

Accettare il nuovo corso signifi ca di più che fare un mestiere, signifi ca imporsi pregiudizialmente di credere nell’uomo, nelle sue illimitate possibilità creative. La linea politica che ho esposto più di una volta era quella di reclutare docenti giovani (noi per docenti intendiamo tutti, dal direttore all’assistente) che potes-sero sfuggire all’antico condizionamento coscienziale che ne faceva dei servi del professore, dei pavidi concorsualisti, degli uomini il cui senso della vita si riduce al concorso e alla lotta l’uno contro l’altro a forza di pubblicazioni e di pressioni […]. Il clima repressivo di Trento agisce su tutti e questa azione non è casuale: è politica. Oggettivamente voi [rivolto ai colleghi critici] agite nella stessa direzio-ne in cui il Trentino ti rifi uta la casa, ti spegne la luce nel bar, ti insulta. Docenti e studenti, agli occhi dei trentini sono assimilati, non distinguono neppure me da uno studente: ma il loro ghetto è ancora più ristretto del vostro e per resiste-re coerentemente nella linea del nuovo corso la loro forza morale deve essere più grande. Se se ne andranno da Trento non resteranno che gli avvoltoi, e nel resto d’Italia le forze reazionarie diranno di avere la prova che non si può fare nulla con gli studenti teppisti, anarcoidi, cinesi ed altre panzane.

Pur rifi utando la violenza e riconoscendo il valore della conoscenza, Alberoni non rinunciò mai alla teorizzazione di una strategia antiauto-ritaria che si facesse carico della necessità di smascherare l’intrinseco limite della realtà e di smontare la presunta apoliticità delle istituzioni, riconoscendone per altro anche i limiti di funzionamento (ad esem-

IL SESSANTOTTO DEI PROFESSORI 269

pio, la laurea trentina era ancora sprovvista di ogni equipollenza). Sia pure con un argomentare contorto, il direttore e i suoi colleghi socio-logi più impegnati (egli cita Capecchi, Fornari, Livolsi, Altan, Rusconi «giunti a Trento per libera scelta, rinunciando o rifi utando incarichi più comodi, più remunerati e più prestigiosi») avrebbero dovuto cer-care di superare, attraverso una compartecipazione studenti-professori ai processi riformatori, la comune condizione di isolamento collettivo in cui si erano venuti a trovare malgrado o piuttosto a causa dell’espe-rienza universitaria particolare che stavano vivendo.

Avendo riconosciuto – scriveva sempre nel Documento n. 3 – che ogni istituzio-ne non è apolitica e che quindi occorre una responsabilizzazione politico-cri-tica non ripetitiva o, il che è lo stesso, non dogmatica o aprioristica, il che si ottiene solo verifi cando contro la realtà quanto si sta facendo, abbiamo in più riconosciuto la necessità di combattere l’autoritarismo in qualsiasi forma esso si manifesti. Antiautoritarismo è un modo più autentico di dire libertà per-ché alcune istituzioni sono formalmente non autoritarie ma concretamente tali; così come molte istituzioni sono non violente nelle loro formulazioni giuridiche ma oggettivamente violente. Anche qui però università critica signifi cava capacità di cogliere ed eliminare le componenti di autoritarismo e di violenza nell’azione stessa antiautoritaria ed antiviolenta. Qui non è in gioco la legittimità della violenza e dell’antiviolenza, è semplicemente rifi uta-re la questione una volta per tutte, come formulazione adialettica dogmatica. Io cioè rifi uto la violenza in quanto non si è verifi cata contro altri mezzi ed accetto la violenza in quanto non restano alternative criticamente cercate e verifi cate. La scelta morale, di moralità politica che sta sotto a questa affer-mazione, è che la violenza è l’estremo rifugio rispetto alla intelligenza strate-gica. Ma ciò impone grande vigilanza perché la nostra reazione coscienziale violenta scatta automaticamente in certe circostanze (reazione aggressiva o sadica) e, per di più, in altre circostanze in cui la nostra coscienza non media più un rapporto con l’esistente, la nostra azione soggettivamente colta come non violenza lo è tale per altri. Col che si ritorna alla valutazione critica della prassi nel quadro di una qualsivoglia azione politica. Regole pratiche come il rispetto dell’altro che ti parla, rinuncia alla intimidazione, azione dimo-strativa e altro sono non soltanto strumenti tattici spregiudicati, o frutto di moralismo, ma l’incontro di teoria e prassi per uno scopo antiautoritario di ricerca di altri rapporti sociali, di una utopia operante nella realtà autoritaria che è fuori e dentro di noi.

Non è diffi cile credere che documenti infi ammati e complessi come quelli che uscivano dalla penna di Alberoni e dei suoi amici colpirono molto uno studioso attento come Scoppola, un moderato, cresciuto in un ambiente ovattato come il Senato, ma non per questo estraneo al travaglio di una generazione che aveva trovato, dopo lunga e sofferta attesa, nel Concilio e nelle aperture a Sinistra della Democrazia cri-

270 GIUSEPPE TOGNON

stiana elementi di speranza per un ordinato cambiamento della vita politica e religiosa dell’Italia. Egli era ben preparato a comprendere e a usare tutte le sottigliezze di cui la politica e la Chiesa avevano sem-pre fatto uso, ma non poteva tollerare di passare, oltre che come uno sprovveduto, come un reazionario. In verità, Scoppola non conosceva la realtà dell’università dove si era fatto chiamare, non aveva capito quanto diffi cile fosse il rapporto tra la città di Trento e la sua universi-tà, non aveva messo in conto di trovarsi di fronte un ‘collettivo’ molto articolato, dove crescevano fi gure di primo piano della storia italiana dei movimenti, da Curcio a Rostagno a Nadia Mantovani a Franceschi-ni a Boato, allora uniti nel comune rifi uto dell’ideologia dominante capitalistico-borghese ma anche già divisi sulla direzione da prende-re e sugli sbocchi da dare alla lotta. Soprattutto, Scoppola non aveva mai fatto esperienza di che cosa signifi casse gestire un confronto poli-tico in presa diretta, al di fuori dei ruoli garantiti dall’istituzione, nel quadro di un animato scontro tra generazioni, avendo contro di fatto anche un’opinione pubblica conservatrice come quella trentina, che già sopportava con malcelata insofferenza la presenza di un’università che non aveva mai chiesto e che solo la preveggenza di pochi capi, in primis Bruno Kessler, aveva voluto e continuava a sostenere con con-vinzione e con tutto il potere, crescente, di cui potevano disporre. La situazione trentina era giunta a un punto di non ritorno e Alberoni aveva ben chiare le possibili alternative.

La prima – scriveva nel Documento n. 3 – è di eliminare l’università a Trento, cosa che molti trentini, credo, vorrebbero, e ne sono trattenuti solo dall’illu-sione che una università potrebbe essere trasformata in qualche cosa di simile ad una scuola media. La seconda è quella di statalizzare l’università, cosa che sarebbe di vantaggio per i trentini che almeno non si sentirebbero derubati dei loro denari, ma che non modifi cherebbe la realtà delle cose. La terza, non incompatibile con la seconda, è quella di una reinvenzione politico orga-nizzativa che riesca a rompere il circolo vizioso instaurato, almeno a qualche livello, creando le premesse di un nuovo rapporto umano e di funzionamento dell’università.

Ultimo arrivato tra i professori di ruolo, Scoppola, con la sua forte perso-nalità entrò subito, forse, come disse Alberoni, senza rendersene piena-mente conto, nel piatto della contestazione trentina, ma soprattutto nel-la dinamica complessa che legava il gruppo docente a una prospettiva in qualche modo ‘speciale’ e carica di pathos. Con le dimissioni da profes-sore, che formalizzò in una lettera uffi ciale il 23 gennaio 1969, si pose come segno di contraddizione vivente agli occhi di colleghi molto coin-volti nelle vicende trentine e, richiamandosi ai doveri dell’insegnamen-

IL SESSANTOTTO DEI PROFESSORI 271

to ed ai suoi principi di libertà, divenne l’interlocutore critico di Albe-roni. Scoppola introdusse un elemento di chiarezza in una discussione che stava diventando sempre più autoreferenziale. Egli era e rimarrà un grande professore da ‘lezione’: la discussione, libera ed appassionata, che poteva seguirne, doveva comunque essere fondata su argomenti e crescere intorno a un ‘rito’ come quello della trasmissione del sapere, che era l’unico possibile per onorare la libertà di insegnamento e per testimoniare la passione per la verità e il confronto autentico tra le gene-razioni. Nella sua lettera di dimissione scriveva:

L’istituto infi ne rischia di diventare sede di elezione per gli studenti di tutta Ita-lia di un certo orientamento ideologico e politico, mentre altri, di diverso indi-rizzo, tendono ad allontanarsene. È certo legittimo che una università libera sia ideologicamente orientata, ma tale orientamento deve allora risultare da una precisa disposizione statutaria e non essere il frutto della imposizione di una parte, anche se maggioritaria, del corpo studentesco, resa possibile dalle struttu-re didattiche […] di fatto il nuovo corso è nato da una intesa tra la direzione e alcune correnti del movimento studentesco; la funzione direttiva sembra sostan-zialmente esercitata sulla base dell’appoggio «politico» di determinate forze o gruppi studenteschi. Ogni garanzia di libertà di insegnamento ed ogni eventua-le intervento della direzione per tutelarla appaiono così condizionati da questo mutevole e precario equilibrio politico.

Di grande interesse è il verbale della accesa discussione tenutasi al plenum dei docenti del 27 gennaio 1969 (una cinquantina i presenti) proprio sul-le dimissioni di Scoppola. Esso, conservato tra le sue carte in bozza e non fi rmato, presenta spunti molto utili per comprendere come vivevano alcu-ni tra i migliori professori italiani la crisi di identità di quegli anni e per valutare quanto profonde e radicate fossero già allora tra loro le differen-ze nel modo di rappresentare il rapporto tra coscienza civile e professio-ne intellettuale. Fu Norberto Bobbio, che presiedeva, a dare lettura della lunga lettera di dimissioni di Scoppola ed a porla insieme alla relazione di Alberoni come ‘piattaforma della discussione’, per altro dicendo espli-citamente che non vedeva margini per una soluzione diversa da quella di accettare le dimissioni del collega. Per Alberoni, Scoppola aveva centrato due problemi decisivi: il nuovo metodo di insegnamento istauratosi con il nuovo corso e la collusione tra la direzione e un gruppo di studenti. Gli interventi furono numerosi: Andreatta affermò che «il nucleo centrale della lettera di Scoppola è la richiesta di quale spazio sia rimasto al dissen-so»; Spaltro disse che Scoppola era stato contestato «per la sua chiamata di carattere autoritario»; Galli rifl etté sulla contraddizione oggettiva tra il movimento studentesco, «erede storico della sinistra marxista italiana» e l’idea di una «università critica»; Fornari sviluppò una interessante lettu-

272 GIUSEPPE TOGNON

ra psicanalitica14; il dott. Izzo più brutalmente accusò Scoppola di essersi messo «nell’alternativa tra fare lezione o di fuggire»; Rotelli, che era sensi-bile alla domanda di ordine posta dal collega romano, chiese che il plenum «faccia un voto per il ritorno di Scoppola» e subito si associarono Bobbio ed altri docenti; Andreatta riprese infi ne la parola per affermare:

La forza del Movimento studentesco sta tutta nella capacità di contestazione di una certa università. L’analisi di Fornari chiede di togliere loro la forza rivo-luzionaria, ma rincorrere continuamente il Movimento è fare loro un cattivo servizio perché si cerca di distruggere una forza che bisogna lasciare in vita. Allo stato attuale il confl itto deve esserci e chi non lo accetta ha declinato la sua responsabilità di lavoratore intellettuale per proclamarsi politico.

Tra le carte di Scoppola conserviamo la lettera che Bobbio, al rientro da quella diffi cile giornata trentina, gli scrisse da Torino il 29 gennaio 1969 per annunciargli che il plenum aveva votato una mozione in cui gli chiedeva di ritirare le dimissioni, la qual cosa era stata riferita con grande risalto sul giornale cittadino «Alto Adige» del 28 gennaio, a testimonianza di quanto il ‘caso Scoppola’ fosse stato assunto come caso esemplare. Bobbio scriveva:

Ti è stata data una prova di solidarietà che spero ti potrà indurre a ripensare la tua grave decisione che hai preso […] mi rendo conto della tua amarezza (fi gu-rati poi dopo quello che è successo in questi giorni a Torino), ma credo che non sia utile abbandonare il campo. Chi lascia il campo dà un punto di vantaggio all’avversario: se davvero si fossero ritirati tutti i docenti che in questi due anni sono stati contestati gli studenti avrebbero fatto il deserto o tutt’al più sarebbero rimasti solo i docenti che mai non furon vivi e di cui a loro non importava nulla.

Scoppola gli rispose il 9 febbraio seguente:

In una parola non accetto «il nuovo corso» […]. Tutti sappiamo che ogni istituzione e perfi no ogni nostro atto hanno un signifi cato e conseguenze politiche: il problema nella università è di misura, di limiti e di stile. Questo è il mio modesto avviso. Non credo che per lavorare insieme in una univer-sità si debba prima defi nirla e defi nire in che senso la si vuole critica e poi ancora sottolineare come fa Alberoni che questa università deve rappresen-tare «un’utopia operante» che serva da modello per le altre università […].

14 «È necessario introdurre delle indagini più avanzate. Il docente è preso emotivamen-te dal movimento studentesco per cui qui si confi gura il modello dell’allievo che diventa psicanalista. Si stabiliscono da parte degli studenti dei meccanismi del tipo di “diventa-re superiore al padre” cioè prevalente su chi lo psicanalizza. Questo modello è possibile perché gli studenti sono all’ultimo gradino prima di uscire dall’infl uenza paterna. È una lotta tra due superiori: il docente cerca di fare prevalere i suoi insegnamenti come strumenti tecnici; gli studenti contrappongono i valori etici a quelli tecnici».

IL SESSANTOTTO DEI PROFESSORI 273

Mi si chiede di ritirare le dimissioni sulla base dei punti conclusivi del docu-mento n. 3 di Alberoni; ma il documento è quello che è nella sua ispirazione d’insieme e io non posso condividerlo. Confermo perciò con dispiacere la mia decisione […]. Mi è dispiaciuto invece che qualcuno nella discussione sulla mia lettera precedente abbia usato il verbo «fuggire» parlando della mia posizione: io la sento invece come una questione di responsabilità e di chiarezza: chi crede nella «utopia operante» resta, chi non ci crede se ne va e lascia ai primi la responsabilità dell’esperimento; anche se non giudico con questo la posizione degli incaricati che è diversa. Fare da martinicca al carro della utopia (mi si consenta questa versione libera di una espressione stori-ca) standoci dentro, questo no, non è il mio mestiere!15.

Scoppola dovette impegnarsi in una potente azione informativa, proprio per fugare l’impressione che fosse ‘fuggito’ e soprattutto per far sapere anche al Consiglio di amministrazione dell’ateneo che non solo non aveva ritirato le sue dimissioni ma che anzi le aveva riconfermate: evidentemen-te Alberoni, ma soprattutto Bobbio e Andreatta, ritenevano che vi fossero ancora margini per un ripensamento o non volevano riaccendere la que-stione e impegnare nuovamente il corpo docente su di un caso ‘partico-lare’. Scoppola scrisse a Kessler, a Boldrini e ad altri consiglieri dell’uni-versità manifestando la propria amarezza, ma anche per ringraziare della chiamata e della fi ducia. Il 19 marzo dovette scrivere anche al consigliere padre L. Rosa per ricapitolare i fatti e per segnalare che

Al fondo della mia decisione, lungamente meditata, vi è la convinzione che l’Istituto di Trento abbia assunto una caratterizzazione ideologica imposta in qualche modo, attraverso le nuove strutture didattiche, dal movimento studen-tesco. Non mi è parso di poter accettare tale situazione.

Più intima e sofferta fu la lettera di spiegazioni che inviò ad Andreatta, suo mentore nella vicenda trentina, il 14 febbraio 1969.

Il documento n. 3 di Alberoni è tutto ispirato ad un confuso pragmatismo. Ne emerge chiaro però un concetto di coscienza «prodotta dal dato […] essa stessa parte del dato da cui scaturisce la nuova coscienza. Di qui il concetto di università critica, intesa come mezzo di un grosso esperimento, di una “utopia operante” che crei un nuovo tipo di uomo». Chi è a Trento dovrebbe aver fatto questa scelta. Ma come si può pensare che un lavoro insieme nell’Università dovrebbe chiedere scel-te di questo tipo o anche solo ipotesi di lavoro così impegnative che porterebbero l’università a somigliare a un noviziato di religiosi? Per me l’università è innanzi tut-to ed essenzialmente sede di libera ricerca e di libero confronto di idee; l’università

15 Dello stesso tenore della lettera di Bobbio era stata quella di E. Rotelli del 27 gen-naio, a cui Scoppola rispose il 3 febbraio seguente.

274 GIUSEPPE TOGNON

è un momento della vita sociale e non un tutto. Ho davvero l’impressione che sulla via indicata da Alberoni si arrivi più che ad una università critica ad una universi-tà… totalitaria. Nella discussione (del 27 gennaio) d’altra parte non è stato detto gran ché sulla sostanza delle mie critiche al «nuovo corso» e tutta la discussione si è concentrata sul problema della contestazione; gli aspetti di fondo della questio-ne sono stati accantonati nonostante che proprio Bobbio, quasi in apertura, avesse detto che la mia era una posizione totalmente opposta per cui non vedeva possibi-lità di incontro. Alberoni nel suo 4° documento conclude invitandomi a ritirare le dimissioni «perché non condivide la interpretazione da me data della situazione universitaria». Ciò è coerente da parte sua: è coerente che egli non condivida la mia interpretazione, ma come è possibile che proprio su questa base mi si inviti a muta-re atteggiamento? Ti dico questo non per continuare in una polemica che non mi è affatto gradita; il distacco mi è costato molto di più di quanto inizialmente pensassi; ma perché ho sentito veramente sincero e amichevole l’invito tuo e di Kessler a restare […] mi sembrava perciò di doverti ancora una parola di spiegazione.

L’8 febbraio due giovani studenti, Cesare Zilocchi e Giovanni Tassani, gli scrissero per invitarlo a ritornare e per rappresentargli che il movimento aveva varato un nuovo codice di comportamento «civico e scientifi co» con i docenti ed aveva abbracciato la tesi di un «nuovissimo corso ad elevato contenuto scientifi co (non politico!)»; che M. Rostagno – uno dei leader della contestazione – avrebbe detto che «il professore non va considerato una macchina a gettone che sforna esami» e che qualcun altro avrebbe det-to anche «che chi faceva gatto selvaggio a lezione era da considerarsi uno sciocco e un controrivoluzionario». Scoppola rispose il 14 febbraio con una punta di ironia: «Sono lieto delle buone notizie sul “nuovissimo corso”. Ma quello che è emerso dalla discussione provocata dalle mie dimissioni non mi consente di riveder le mie posizioni».

Solo il 5 marzo 1969 Francesco Alberoni gli spedì una lapidaria letterina in cui, confermando il proprio dispiacere, prendeva comunque atto delle dimissioni. E solo il 22 luglio lo stesso Alberoni poté comunicargli che a seguito del nulla osta del Ministero della Pubblica Istruzione si era potuto emanare il decreto di accettazione delle sue dimissioni dall’uffi cio di profes-sore straordinario di Storia della chiesa, con decorrenza 1 febbraio 1969.

Per Pietro Scoppola parvero chiudersi così le porte della carriera universitaria: le dimissioni erano un atto uffi ciale defi nitivo che, preso prima di aver portato a termine il periodo dello straordinariato, gli avrebbero precluso la possibilità, ancora oggi vigente per gli ordinari, di farsi riassumere in ogni momento da qualche università che voles-se richiamarlo in servizio. Lo storico riprese con lena il suo lavoro al Senato, da cui non si era ancora dimesso. Nell’università di Roma restò ancora per qualche anno come semplice incaricato di Storia dei rapporti tra Stato e Chiesa fi no a quando, come già ricordato, fu recu-perato insieme ad altri pochi valenti studiosi dall’intelligenza politica

IL SESSANTOTTO DEI PROFESSORI 275

e dalla sapienza giuridica di amici preveggenti che con una piccola norma superarono l’ostacolo della defi nitività della sua rinuncia.

Per Scoppola si era aperta nel frattempo una seconda e più importante pagina di vita, con l’affacciarsi, quasi subito da leader, sulla scena politica nella battaglia civile dei primi anni Settanta intorno al referendum abroga-tivo della legge sul divorzio e poi, in un crescendo, a favore della solidarietà nazionale e, dopo l’assassinio di Moro, per una sempre più intensa azione di rinnovamento della Democrazia cristiana e della Chiesa. Fu uno dei capi della Lega democratica e più in generale della corrente dei cattolici demo-cratici e, per una sola legislatura, senatore indipendente eletto nel 1983 nelle fi la della Dc. Dopo il rientro nei ruoli svolse il suo magistero univer-sitario alla Sapienza di Roma fi no al pensionamento avvenuto nell’anno accademico 1998-1999, diventando un grande professore di Storia ed al contempo, o forse anche per questo, un importante uomo pubblico. Del-le vicende di Trento non parlò mai più esplicitamente, associandole nel ricordo ad altre traversie – compresa una minaccia di attentato – che visse a Roma nella stagione del terrorismo, ma in molte circostanze ebbe modo di intervenire e di rifl ettere su di un fenomeno e un’esperienza che lo avreb-be accompagnato per tutta la vita. Non cambiò il suo giudizio storico sul Sessantotto16, ma estese la sua rifl essione a molti aspetti della vita e del-la società di cui negli anni Sessanta non aveva ancora colto l’importanza. Richiamandosi all’ideale di un’autentica riforma civile e religiosa dell’Ita-lia sviluppò un atteggiamento di sempre maggior fi ducia nei confronti del-le nuove generazioni, sfi date a fare meglio e di più ed a colmare quel defi cit culturale che riteneva all’origine delle diffi coltà della Repubblica e causa non ultima di molti errati revisionismi.

16 Scrisse, ad esempio: «In molte delle risposte alla lezione del Concilio, nel clima della contestazione si può cogliere questo meccanismo di ribaltamento dei vecchi atteggiamenti senza nessun superamento reale. Il recupero della dimensione esca-tologica del messaggio cristiano, che è uno degli apporti della rifl essione conciliare sulla chiesa, assume nel clima del ’68 forme di profetismo mondano, di “terzomon-dismo emotivo”, di spinta a sinistra incontrollata. Dalla teologia della speranza si passa alla teologia della liberazione e da questa per corto circuito alla teologia della rivoluzione», P. SCOPPOLA, Cultura e politica nella storia della Dc, in P. CABRAS ET AL., La Democrazia cristiana degli anni 80 tra crisi dei partiti e domande della società civile, Cinque Lune, Roma 1981, p. 214. In un articolo del 1980 scriveva: «Non tutte le lotte di massa sono uguali: Torino non è Danzica. Sacralizzare le lotte delle masse signifi ca, ancora una volta, indulgere a quel vecchio irrazionalismo volontaristico che è stata una delle componenti delle peggiori sciagure del nostro secolo. La classe operaia non è il messia di una società nuova e non è protagonista di una storia sacra; le sue lotte sono spesso viziate da quello stesso spirito corporativo che distingue altri grup-pi sociali; la classe operaia non è del resto una realtà unitaria, è diversifi cata e divisa al suo interno», Quali speranze?, «Appunti di cultura e di politica», 10 (1980), p. 3.