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problemi di conservazione materiali strutture e nuova serie v numero 9 2016 sapienza università di roma dipartimento di storia, disegno e restauro dell’architettura Restaurare nella città eterna estratto autore

Il tempo e il restauro: la chiesa di S. Stefano Rotondo fra invenzione, palinsesto e lacune, in \"Materiali e Strutture. Problemi di Conservazione\", 9, 2016, pp. 35-46; 62-64

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problemi di conservazione

materialistrutturee

nuova serie v

numero 92016

sapienza • università di romadipartimento di storia, disegno e restauro dell’architettura

Restaurare nella città eterna

estratto autore

materiali e strutture. problemi di conservazione© Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’ArchitetturaPiazza Borghese, 9 – 00186 – Roma

Rivista semestrale, fondata nel 1990 da Giovanni UrbaniAutorizzazione del Tribunale di Roma n. 265 del 25/09/2012Nuova serie, anno V (2016), 9

ISSN 1121-2373

Direttore editoriale: Donatella Fiorani

Consiglio Scientifico: Giovanni Carbonara, Paolo Fancelli, Antonino Gallo Curcio,Augusto Roca De Amicis, Maria Piera Sette, Fernando Vegas, Dimitris Theodossopoulos

Comitato di Redazione: Maurizio Caperna, Adalgisa Donatelli, Maria Grazia Ercolino,Rossana Mancini

In copertina: Roma, S. Stefano Rotondo, Veduta dell’ambulacro perimetrale (foto D. Fiorani)

La rivista è di proprietà dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza»© Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’ArchitetturaPiazza Borghese, 9 – 00186 – Roma

Roma 2016 – Edizioni Quasar di Severino Tognon s.r.l.via Ajaccio 41/43 - 00198 Romatel. 0685358444 - fax 0685833591

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Sommario

5 editoriale - mauRizio capeRna

SanTa maRia maGGioRe 9 la basilica di s. maria maggiore nel tempo: migrazioni di statue e rinnovamenti architettonici

- auGuSTo Roca de amiciS

19 il restauro dell’apparato scultoreo in s. maria maggiore: lettura storico-artistica, problematiche conservative e soluzioni tecniche

- SanTe Guido

SanTo STeFano RoTondo 35 il tempo e il restauro: la chiesa di s. stefano rotondo fra invenzione, palinsesto e lacune

- donaTella FioRani

47 s. stefano rotondo. pavimento e luci: un progetto di restauro?

- RiccaRdo d’aquino

San clemenTe 65 il coro d’inverno in s. clemente a roma. un imprevisto e complesso restauro rivelativo

- GiancaRlo palmeRio

73 il restauro del coro d’inverno e della cantoria di s. clemente in roma

- Romano ceRRo

SanTi quaTTRo coRonaTi 89 il restauro del chiostro dei ss. quattro coronati: un’esperienza fra comprensione storica e operatività del restauro

- daniela eSpoSiTo

95 un cantiere della conoscenza tra restauro e archeologia: il caso del chiostro dei ss. quattro coronati a roma

- lia baRelli

109 restauri d’architetture a roma: alcuni spunti di riflessione - Giovanni caRbonaRa

127 abstract

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mauRizio capeRnaProf. Associato, “Sapienza” Università di [email protected]

auGuSTo Roca de amiciSProf. Ordinario, “Sapienza” Università di [email protected]

SanTe GuidoRestauratore e storico dell’[email protected]

donaTella FioRaniProf. Ordinario “Sapienza” Università di [email protected]

RiccaRdo d’aquinoArchitetto, Roma [email protected]

GiancaRlo palmeRioArchitetto, già Prof. Associato presso “Sapienza” Università di [email protected]

Romano ceRRoArchitetto, Dottorando di [email protected]

daniela eSpoSiToProf. Ordinario, “Sapienza” Università di [email protected]

lia baRelliProf. Associato, “Sapienza” Università di [email protected]

Giovanni caRbonaRaProf. Emerito, “Sapienza” Università di [email protected]

Autori

Responsabili Peer Review per il presente numero:

Stefano della Torre, marina docci, Francesco doglioni, lorenzo Finocchi Ghersi, laura moro, Stefano Francesco musso, andrea pane,valentina Russo, carlo Tosco, maria Grazia Turco

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Il tempo e il restauro: la chiesa di S. Stefano Rotondo fra invenzione, palinsesto e lacune

donatella Fiorani

La presentazione degli ultimi lavori di restauro svolti sulla chiesa di S. Stefano Rotondo costituisce una buona occasione per condurre una riflessione di natura te-orica, dedicata al concetto del tempo, senza perdere di vista i nessi con le ricadute concrete riscontrabili su questo straordinario monumento paleocristiano.

Fisica e filosofia della scienza hanno approfondito, nel corso dell’ultimo secolo, le problematiche aperte con la formulazione della teoria della Relatività di Einstein nella concezione del tempo, data la sua distanza da quanto appare al senso comune. Al contrario di quanto avviene per la visione dello spazio, fisiologicamente subordinata al ‘punto di vista’, il concetto di tempo proposto dal relativismo scientifico si scontra con il convincimento diffuso che lo interpreta come un’entità diversamente orientata, ma comunque coerente e assoluta. Mauro Dorato ha evidenziato come un’evidente aporia sia riscontrabile nella relazione fra i termini ‘qui’ e ‘adesso’: mentre il ‘qui’ si confronta con un ‘altrove’ che comunque ritiene coesistere, l’‘adesso’ si misura con un tempo, passato e futuro, che ‘non è’. In effetti, il fatto che il presente sia effettivamen-te qualcosa di oggettivo, un’entità che, scorrendo, fa esistere le cose una dopo l’altra in un perenne divenire, oppure risenta del medesimo condizionamento soggettivo in gioco nel ‘qui’ può interessare altri ambiti del pensiero e dell’azione umana, anche in riferimento alle conseguenze che tale dualismo comporta1.

L’orizzonte metafisico coerente con i principi della relatività nella fisica moderna ha determinato importanti ricadute in ambito culturale, non ultimo in architettura. In questo contesto, l’idea di un tempo che interferisce con la realtà prevale in una tenden-za contemporanea specifica: la sovrapposizione di intersezioni, giaciture, interruzioni propria dell’edificio decostruttivista può essere infatti interpretata quale tentativo di far coincidere nell’immanenza tempi diversi2. Il rifiuto di stabilire sistemi di riferimen-to certi e la continua mutevolezza che ne deriva generano poi in questo linguaggio espressivo una forte indeterminatezza temporale, in cui l’architettura non ha modo di esprimere forme compiute riconoscibili; in tal modo, essa non diventa passato, mentre

1 Il confronto ‘qui’ e ‘adesso’ è stato formulato in doRato 2013 in riferimento ad un più complesso scenario epistemologico; è stato ripreso in Rovelli 2014 nei termini semplificati che qui si propongo-

no. Per un inquadramento generale delle proble-matiche poste dal concetto di tempo in filosofia cfr. abbaGnano 2001. 2 PuRini 2000, p. 98.

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guarda il futuro come ‘semplice accelerazione’, scivolando perpetuamente nell’effime-ro e nell’immaterialità3.

In modo ancora più evidente, l’aspetto temporale caratterizza la specificità me-todologica del progetto di restauro. Il restauro si configura, infatti, come disciplina a quattro dimensioni, in quanto ciò che elabora non ha a che fare soltanto con la realtà spaziale, costruttiva e materica degli oggetti ma anche con il loro trasmettersi da un’e-poca all’altra. In effetti, il restauro si è confrontato costantemente con il problema del tempo sia per via empirica che attraverso mirati approfondimenti teoretici4.

Una concezione ‘soggettiva’ del tempo trapela negli assunti del restauro stili-stico che, per restituire al ‘presente’ del XIX secolo la configurazione originaria del monumento, proiettava su di esso l’idea ottocentesca di stile. L’idea di un tempo og-gettivabile si accompagna invece al riconoscimento di valore della sovrapposizione materiale che interviene sul monumento con le azioni condotte in ‘presenti’ diversi. In questo passaggio, l’oggetto carico di forma e di segni diviene la testimonianza incarnata dell’esistenza di un ‘prima’ che sussiste ancora ‘adesso’ e va trasmesso ad un ‘dopo’, ribadendo con evidenza l’unidirezionalità della ‘freccia’ del tempo5.

Nel collocare il tempo dell’opera d’arte al di fuori del dominio esistenziale, Ce-sare Brandi aveva sicuramente presente le aporie, già evidenziate in filosofia, che ren-devano inconciliabili le concezioni del tempo di matrice fisico-naturalistica ed esisten-ziale-fenomenologica6. Secondo i suggerimenti del critico senese, la ‘astanza’, ‘realtà pura’, restava sospesa in un empireo scandito dai tre tempi ‘assoluti’ dell’espressione artistica, del distacco temporale e del riconoscimento critico. Solo quest’ultimo con-sente di stabilire una relazione fra tempo ‘oggettivo’ dell’opera e tempo ‘soggettivo’ di coloro che ne colgono il valore (fra cui lo stesso restauratore). L’istituzione di un nesso fra restauro delle testimonianze del passato e aspettativa umana del futuro estende quella che era considerata da Brandi una puntuale “fulgurazione” della coscienza a una coestensiva modalità di essere al mondo che lega il soggetto all’oggetto della conserva-zione, vincolandone la prassi operativa.

Radicali e contrapposte nel loro percorso, alcune posizioni contemporanee, in prevalenza di origine anglosassone, hanno aderito alla concezione di un tempo relativo, soggettivo e mutevole, legato ad una realtà non meno sfuggente. Questa appare infatti determinata dall’interazione fra un soggetto che interpreta, in modo condizionato e variabile, un oggetto mai totalmente afferrabile nella sua vera essenza. Tale convinzio-ne colloca il restauro in un presente ‘istantaneo’, unica dimensione ricettiva, e apre alle più infinite possibilità operative, non necessariamente indirizzate dalla conoscen-za d’un passato, considerato insondabile come la ‘cosa in sé’ di kantiana memoria. In

3 GReGotti 2008, pp. 98-99. 4 Per un inquadramento generale del problema del tempo nel restauro, comprensivo di un’esau-riente bibliografia, si rimanda a SquaSSina 2012a e SquaSSina 2012b.

5 La modalità più consueta di rapportare gli approc-ci del restauro al modo di intendere il tempo è legata alla forma tracciata dal tempo: vettore orientato, cir-colare, spiraliforme, sinusoidale ecc. (Fancelli 1998).6 bRandi 1977.

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assenza di una ‘teoria del tutto’, diviene quindi legittimo considerare tempo e realtà nei modi più diversi, riferiti a sistemi e a orizzonti culturali distinti, dissonanti fra loro ma perfettamente in grado di funzionare al loro interno. Di fatto, una tale visione non pone vincoli particolari all’intervento di restauro e apre nel contempo ampi orizzonti alla valorizzazione e alla narrazione della preesistenza7.

Viene da chiedersi se vi sia il modo di valutare l’esistenza di un tempo soggettivo nell’architettura senza che ciò comporti la ‘smaterializzazione’ dell’oggetto progettato, come accade in diverse realizzazioni contemporanee, o la legittimazione di qualsiasi tipo di approccio sulla preesistenza, come appare talvolta oggi soprattutto in ambi-to internazionale. Se occorra piuttosto rimanere ancorati alla visione tradizionale del tempo, oggettivo e progressivo, l’unica che offra all’architettura rassicuranti, anche se autoreferenziali, scenari di ordine logico e operativo. O se sia invece possibile accettare l’ipotesi di un duplice binario di riferimento, e in che modo.

Le recenti formulazioni proposte dal cosiddetto ‘realismo negativo’8 hanno avuto il merito d’insistere sul sostegno che offre al contenimento delle logiche interpreta-tive l’oggetto in sé, sottolineandone l’inconfutabile presenza nella storia e la capacità di modificarsi senza perdere i caratteri specifici che lo identificano nella sua unicità, carico del bagaglio temporale che gli appartiene. L’idea di un oggetto che resiste alla libera interpretazione e che interagisce con il soggetto per determinare gli eventi che possono modificarlo comporta l’accettazione della duplice esistenza di un tempo ‘sog-gettivo’, per sua natura mobile, variabile, relativo e finito, e di un tempo ‘oggettivo’ e ‘assoluto’, proprio della preesistenza. Ciò conduce alla possibilità d’istituire, nell’atto del restauro, una sorta di finestra di collegamento temporale – simultaneità – in grado di consentire, a determinate condizioni, l’interazione fra i due sistemi. Tale assunto colloca le scelte conservative all’interno di un rapporto fra soggetto e oggetto non di assimilazione ma di ‘Cura’.

Il rapporto istituito fra presente e passato in architettura è stato spesso veicolato dall’approccio emotivo e intellettuale della ‘premura’. Ciò è osservabile almeno a par-tire da Leon Battista Alberti, la cui pietas motivava lo studio e l’illustrazione dei monu-menti antichi, anche se con il prioritario intento di trasmetterne le regole compositive e formali9. Il concetto di ‘Cura’ è apparso poi nelle riflessioni sul restauro soprattutto in relazione al parallelismo istituito con la prassi medica, sia dal punto di vista lessicale che tecnico, e facendo riferimento alla distinzione esistente fra il ‘curare’ (contrastando in maniera scientifica la malattia) e il ‘prendere cura’ (favorendo il miglioramento e la crescita della persona)10. Su questa seconda strada, la filosofia ha particolarmente insistito in merito al valore relazionale della ‘Cura’, che può essere intesa in senso inau-tentico, come modalità di dominio (aiutare l’altro impedendogli di assumere su di sé la propria cura), o autentico, come strumento di liberazione (sostenere l’altro nell’aver

7 GlendinninG 2014.8 FioRani 2014.

9 caSSani 2011. 10 tReccani 1996.

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cura di sé)11. Quest’ultima riflessione, in origine rivolta a caratterizzare un rapporto “non utilizzabile” fra esseri viventi, potrebbe essere traslata proprio per indicare l’i-stituzione di una relazione non strumentale fra restauratore e oggetto del restauro: il prender cura accoglie la possibilità del monumento di orientare il proprio destino.

Il restauro-Cura, comunque, si svolge nel tempo, lavora sul tempo e del tempo fa il luogo di mediazione fra opera e conservatore. Ma nel restauro l’elaborazione tempo-rale si manifesta come intervento sullo spazio: un intervento che fonde la temporalità-durata, materica e additiva, dell’oggetto storico con la visione istantanea, sintetica e globale, del soggetto che la percepisce come altro da sé. La Cura ‘autentica’ lavora nella fusione di tutti i possibili status temporali della fabbrica: il passato su cui si pro-ietta la conoscenza, il presente in cui si attua la percezione e il futuro che si delinea nel progetto, ricomposti in un equilibrio transtemporale, in cui lo spazio diventa la forma della comunicazione istituita fra generazioni diverse, espressione di un dialogo fra i vivi e i morti12.

Questa appare la chiave più appropriata con cui è possibile rileggere in una pro-spettiva ampia l’intervento condotto fra il 2000 e il 2007 sulla chiesa di S. Stefano Rotondo in Roma.

Che la si consideri come “ultima grande architettura dell’antichità a Roma” o come “insuccesso affascinante”13, S. Stefano Rotondo, consacrata da papa Simplicio (468-483), occupa una posizione particolare nello scenario dell’architettura tardoanti-ca e paleocristiana, per la considerevole persistenza materiale della fabbrica originaria, per l’inconsueta forma circolare del suo impianto, per l’arditezza e la singolarità del modello spaziale proposto (Fig. 1)14.

Hugo Brandenburg, nel segnalarne la vicinanza con l’architettura monumentale romana, fa riferimento alla straordinaria volumetria, che rimanda, per le dimensioni e il rapporto istituito fra spazio interno ed esterno, alle grandi strutture della classicità imperiale, in specie mausolei e templi: il diametro complessivo, pari a 65,80 metri, era nettamente più ampio di quello del mausoleo riconducibile alla figlia di Costantino (27,74 m) o del Pantheon (43,44 m)15, cristianizzato un secolo e mezzo dopo. L’am-piezza del cerchio di base uguagliava poi quella della Mole di Adriano, che, scriveva Procopio, “non si oltrepassava con un tiro di sasso”16. L’accurata orchestrazione di ma-teriali, luci e ombre determinava un contrasto calibrato fra la conclusa geometria ester-na, priva di facciata principale e parcamente coperta ad intonaco, e il trionfo interno dei rivestimenti marmoreo e in stucco, d’ispirazione imperiale. La percezione di questi ultimi veniva a sua volta modulata nella luminosità diretta e indiretta degli spazi, rispettivamente calata dall’alto del tamburo forato da 22 ampie finestre, e diffusa at-

11 heideGGeR 2006. 12 SchlöGel 2009, p. 227.13 Si vedano rispettivamente bRandenbuRG 2004a e KRautheimeR 1993, pp. 66-69.14 Tutti gli interventi sulla chiesa riconducibili ai pontefici dal V al XII sec. sono documentati

nel Liber Pontificalis (ducheSne 1886), ulteriori testimonianze sono offerte da epigrafie e stemmi in situ. 15 bRandenbuRG 2004b. 16 venuti coRtoneSe 1824.

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Fig. 1. Ricostruzione dell’impianto originario della chiesa di S. Stefano Ro-tondo secondo Hugo Brandenburg (bRandenbuRG 2000).

traverso i settori interni scoperti che, alternati ad omologhi spazi coperti, consentivano di evidenziare all’interno del cerchio ampi e simmetrici bracci di croce, in un disegno innovativo e coraggioso sia dal punto di vista spaziale che strutturale e liturgico.

È proprio in questa ardita innovazione e nella diversità dal modello basilicale che si andava contemporaneamente affermando nella nuova Roma capitale della cristiani-tà che Richard Krautheimer coglie il carattere unico, non imitabile e non durevole, del-la chiesa rotonda. La sua mancanza di gerarchia, di assialità e di facciata, le non poche

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trasformazioni necessarie per definire la sistemazione opportuna dell’altare maggiore (legate all’indeterminatezza liturgica della pianta centrale, come spiegava, a più di mille anni di distanza, Cesare Baronio), la fragilità delle strutture, alte, forate e sottili hanno infatti determinato la mancata affermazione della fabbrica come modello, il suo uso limitato e, soprattutto, la sua precoce obsolescenza, almeno parziale.

In questo senso, S. Stefano Rotondo diventa l’emblema dell’ultimo – impossibile – tentativo di riscatto di Roma dal declino (Fig. 2). Costruita in un periodo di grande crisi politica ed economica17 ma ancora caratterizzato dalla possibilità di utilizzare materiale scolpito primario e di avvalersi al tempo stesso di maestranze in grado di mo-dellare in opera l’alta trabeazione sopra il colonnato centrale, la fabbrica si compone attorno alla combinazione di diversi elementi simbolici (i cerchi concentrici, la croce inscritta, la luce), in una vocazione monumentale, astratta e rigida, difficilmente adat-tabile nel tempo. A ribadire il carattere programmatico, quasi ideologico, dell’edificio vi è la totale assenza di rapporto con la preesistenza: la chiesa s’imposta infatti con nuove fondazioni al di sopra dei resti livellati dei Castra Peregrinorum, comprensivi di un mitreo ristrutturato poco prima dell’avvio del cantiere di demolizione.

La chiesa a tre cerchi inscritti è rimasta tale per almeno quattro secoli, periodo in cui fu sottoposta ad interventi minori, forse per la richiusura dei cortili con volte a tubi fittili nel VI secolo18, sicuramente per la decorazione musiva e arredamento liturgico e per la creazione della cappella dei SS. Primo e Feliciano in uno dei quattro bracci della croce, con l’innesto di un’abside, durante il pontificato di papa Teodoro I (642-649).

17 Nel 455 l’imperatore Valentiniano III, figlio di Galla Placidia, viene assassinato e Roma subisce il saccheggio dei Vandali di Gianserico, con due set-

timane di incendi e saccheggi che spinsero la classe più abbiente ad abbandonare la città.18 bRandenbuRG 2004a.

Fig. 2 Veduta interna della chiesa con il pavimento li-gneo prima dell’intervento di restauro (foto R. D’Aquino).

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Malgrado la sua monumentalità e l’importanza storica della prima significativa trasformazione, legata alla mutazione del culto delle reliquie nella cristianità, S. Ste-fano Rotondo ha scandito la sua vicenda costruttiva fra fasi di marginalizzazione, co-struzioni di presidi strutturali e adattamenti funzionali. Consolidamenti e adattamenti che hanno comunque garantito, malgrado la vulnerabilità complessiva del sistema, una persistenza significativa della fabbrica19. Le sue vicende sono testimoniate pertanto, più che da documenti, da tracce materiali, soprattutto reperite con la lettura diretta dell’elevato, nel corso di scavi e di cantieri di restauro20.

L’intervento di restauro della chiesa “quassatam”, con la tamponatura delle ar-cate intermedie richiesta dall’espunzione dell’anello esterno21 e la conseguente ri-duzione del diametro della fabbrica a 44 m, la chiusura di 14 finestre del tamburo e la costruzione del diaframma centrale (per consentire la sistemazione di un nuovo tetto in legno) nonché la creazione di un portico d’accesso sono preferibilmente at-tribuiti a papa Innocenzo II (1130-43). Fra questo intervento e quello di Bernardo Rossellino che, tre secoli dopo, non modificò lo spazio acquisito ma si limitò ad ab-bellirne e a completarne le parti (sistemando bifore nei vani delle finestre residue, rimodellando il vano d’ingresso e ricostruendo il pavimento ad una quota superiore) si trovano soltanto testimonianze di ulteriori dissesti. La successione di interventi puntuali, discontinui e separati da periodi di abbandono (nel Trecento) partecipò a stabilizzare l’immagine dalla fabbrica, compressa, dissimmetrizzata e con palesi segni di stratificazione; tale processo può dirsi completato con la stesura degli affreschi del Pomarancio, nel 1582 (Fig. 3).

In questi quattro secoli si lavora per sommatoria al sovvertimento della coerenza relazionale del monumento paleocristiano – inteso quale rigorosa sintesi di uno spazio perfetto e rigido – per giungere alla costituzione di un palinsesto complesso, stratifi-cato e fruibile per parti. L’ambiente tridimensionale unitario si stempera per dare ori-gine ad una serie di spazi paralleli: quello liturgico, con l’altare principale finalmente ‘fissato’ al centro della fabbrica; quello devozionale, con il culto delle cappelle peri-feriche; quello pedagogico, con la rassegna dei martìri illustrata dagli affreschi; quello umanistico ed erudito, con il repertorio delle colonne e dei capitelli antichi ma anche

19 Fra gli edifici più ricordati dalla letteratura nel confronto figurativo e tipologico, l’Anastasis di Gerusalemme è stata distrutta e ricostruita cinque volte, l’ultima delle quali nel XIX secolo, il santua-rio di Filippo a Hierapolis è oggi allo stato di rude-re mentre ancora permane la più piccola chiesa di S. Michele Arcangelo a Perugia. 20 Le maggiori problematiche interpretative po-ste dalle evidenze materiali hanno riguardato la copertura originaria del tamburo centrale, la realizzazione del diaframma interno, la configu-razione aperta o voltata dei segmenti di circolari fra i bracci di croce. Per la ricostruzione dello spa-

zio originario e delle vicende storico-costruttive dell’edificio nel tempo, si segnalano, senza esaurire l’abbondante bibliografia esistente, coRbett 1960; KRautheimeR 1976; ceSchi 1982; KRautheimeR 1994; bRandenbuRG, Pál 2000; antinoRi 2014; bRandenbuRG 2004a.21 La distruzione dell’anello perimetrale esterno del S. Stefano Rotondo è stata ricondotta ai ter-remoti del IX secolo (847 e 896), fatali per altre chiese romane, o a un arco temporale più ampio, che va dal IX al XII secolo, compatibile con le caratteristiche costruttive delle tamponature del colonnato del secondo anello.

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con l’evocazione intellettuale di una dimensione monumentale che molti coglievano come ancora classica e pagana. Il principale elemento strutturale innovativo, costituito dal rafforzamento dell’asse nord-est/sud-ovest tramite la realizzazione di un’absidiola e, soprattutto, dello slanciato diaframma ortogonale posizionato al centro del tamburo, non riesce a rinserrare le diverse spazialità, anche a ragione della posizione deviata del portico, tale da generare un’inedita dinamica interna (Fig. 4).

Il sovvertimento delle regole relazionali che tengono assieme in un tutto coeren-te le varie componenti della fabbrica attraverso la modifica puntuale di alcuni singoli elementi, definibile quale ‘infrazione metonimica’, è frequente nell’architettura stori-ca e appare soprattutto evidente negli edifici monumentali, sempre che le successive campagne di restauri stilistici l’abbiano risparmiata. Esso ha costituito spesso il neces-sario compromesso per consentire la sopravvivenza stessa dell’edificio, che viene in tal modo adattato, dal punto di vista funzionale o del gusto, alle esigenze del tempo esistenziale e soggettivo22.

Il medesimo sovvertimento è, in S. Stefano, alla base di contraddizioni e squilibri chiaramente illustrati nelle raffigurazioni redatte dal XVIII all’inizio del XX secolo. Il rialzamento del pavimento rosselliniano, tale da coprire i dadi irregolari costruiti per un adeguato appoggio delle colonne di reimpiego, in origine a vista; la ruderizza-zione delle murature del cerchio esterno; le lesioni di volta in volta sanate alle pareti evidenziano indirettamente la difficoltà di comprendere e risolvere la vicenda storico-costruttiva e il degrado della fabbrica.

Non a caso, comprensione e conservazione costituiscono la cifra dell’interven-to di Carlo Ceschi, condotto alla metà del Novecento e oggetto di un volume po-

Fig. 3. Veduta dell’ambula-cro perimetrale con le arca-te tamponate e gli affreschi del Pomarancio.

22 Tale modalità ha coinvolto molti edifici con in-terventi più o meno importanti, alcuni dei quali, come la riduzione della non lontana chiesa dei SS.

Quattro Coronati, si sono consolidate, altre, meno incisive, sono state emendate dagli interventi di re-stauro più tardi.

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stumo. Un aiuto determinante per questo sforzo di ricomposizione è stato fornito dagli scavi di Antonio Colini e, più recentemente, dell’Università di Münster, i qua-li hanno messo in luce, con la rimozione del pavimento quattrocentesco, le diver-se stratificazioni edilizie, estese allo svuotamento del mitreo del III secolo (Fig. 5).

I diversi interventi condotti sull’edificio a cavallo del millennio hanno presentato un prioritario carattere conservativo, avendo comportato perlopiù il trattamento delle strutture, soprattutto in copertura, e delle superfici23. La natura di questi presidi non ha richiesto più di tanto il confronto diretto fra la dimensione spaziale – e temporale – della preesistenza con quella della contemporaneità, diversamente da quanto accade con i recenti interventi di restauro e rifacimento della pavimentazione e sull’illuminazione, che toccano l’intrinseca e primaria qualità artistica del monumento, com’è in genere nell’architettura tardoantica e paleocristiana a Roma.

Se l’illuminazione dell’edificio è stata trasformata in maniera irreversibile con le chiusure delle arcature del tamburo e la scomparsa dei pozzi di luce nell’anello esterno, la nuova luce artificiale viene ordinata secondo una precisa gerarchia nei corpi illuminanti e nella luminosità indotta. Essa cerca di dosare con equilibrio il ful-cro liturgico dello spazio centrale e il percorso anulare seriale della galleria affrescata alle pareti, restituendo alla fabbrica la centralità perduta senza eludere la sua ormai irreversibile parzializzazione (Fig. 6).

Pavimenti diversi si sono sovrapposti nel tempo nella chiesa, imponendo dise-gni, materiali e quote di livello sempre differenti, molti dei quali ancora persistenti in tracce, frammenti e impronte. Il restauro del pavimento presso la cappella dei SS.

Fig. 4. Veduta del por-tico d’accesso.

23 Rientrano in questo contesto la stuccatura delle murature esterne della cappella dei SS. Primo e Fe-liciano (cfr. baSile 1993), il rifacimento del tetto al di sopra del tamburo centrale, la sistemazione del

mitreo sotterraneo (Filetici 2000), i restauri degli affreschi (tibeRia 2012). Permangono comunque ancora oggi diverse problematiche conservative da risolvere con una certa urgenza.

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Primo e Feliciano, intrapreso nel 2007 dalla Soprintendenza sotto la guida di Mario Lolli Ghetti, aveva affrontato in parte problematiche analoghe, relative alla reintegra-zione delle lacune e alla coerenza dell’impaginato complessivo, ma la porzione limitata dell’ambiente, la sua ‘eccezionalità’ (la cappella insiste su uno dei bracci cruciformi della chiesa), la minuta, ma significativa, permanenza materiale avevano sollecitato una soluzione piuttosto orientata alla ricomposizione filologica del disegno antico24.

Diverso, e assai più complesso, era il problema del governo di una pavimenta-zione moderna estesa a tutta la superficie ecclesiastica, che doveva risolvere in unità le numerose e preziose stratificazioni conservate al di sotto del pavimento in legno su travi metalliche, ‘reversibile’ e ‘neutro’, realizzato negli scorsi anni settanta dalla Soprintendenza ai Monumenti di Roma25.

La scelta della quota di calpestio, del disegno e dei materiali pavimentali (ma anche il raccordo con la fase romana sottostante la chiesa) rappresenta, nella meticolosa atten-zione alla persistenza materiale di ogni singolo frammento e, soprattutto, nel rigoroso

Fig. 6. Disposizione dei corpi luminosi nel tratto centrale della chiesa.

24 Il pavimento della cappella è stato ricompo-sto – con l’uso combinato di marmi e miscele di resine e graniglia e il supporto di pannelli alveo-lari – sulla base della configurazione originaria ma con integrazioni visivamente reinterpretate e sce-gliendo un livello di calpestio poco più alto, così da consentire l’eventuale rimozione del marmo e la

messa in luce dello strato archeologico sottostate (lolli Ghetti 2000). 25 Il lavoro svolto sul pavimento della chiesa è stato analiticamente descritto in d’aquino 2008, quello nella cappella dedicata a S. Stefano d’Ungheria è in d’aquino 2010. Si rimanda inoltre al successivo te-sto dello stesso autore in questo numero.

Fig. 5. Veduta del tratto centrale della chiesa con un’asola nella pavimentazione che lascia in vista gli strati archeologici d’età classica.

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controllo sintetico dello spazio, la cifra con cui si è lavorato per risolvere la diacronia dell’edificio: la composizione del nuovo pavimento vuole infatti disvelare su un piano bidimensionale la quarta dimensione temporale espressa dalla fabbrica. La selezione di trame diverse in cui si relazionano lastre e frammenti lapidei con zone più o meno ampie di conglomerato in cocciopesto si adatta puntualmente alle condizioni della preesisten-za, in un disegno coerente desunto dalla logica geometrica dell’insieme (Figg. 7-8).

Il tempo dell’opera è visibilmente rimasto ‘incapsulato’ nel pavimento ecclesia-stico contemporaneo e tale percezione dimostra come un restauro adeguatamente controllato sia in grado di trasformare la diacronia in immagine, istituendo un interfac-cia di contatto fra temporalità diverse.

Se la scienza è arrivata a negare l’esistenza del tempo, quella che essa definisce ‘il-lusione’ temporale permane nella nostra coscienza, come analizzato da sant’Agostino, Martin Heidegger, Henry Bergson e Paul Ricoer. La presenza di queste due visioni con-cettuali per ora inconciliabili dal punto di vista logico non esclude comunque, come abbiamo visto, la possibilità d’istituire interrelazioni. Per dirla con Biuso, che richiama

Fig. 7. Nuova pavimentazione: pianta di progetto.

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alcune proposte dei filosofi sopra richiamati, “il tempo esiste e scorre nella sostanza umana come presente delle cose che sono state, presente delle cose che sono, presente delle cose che saranno, come Cura rivolta al mondo a partire dalla comune finitudine che attraversa tutti e l’intero”26.

Quando il restauro riesce a calibrarsi correttamente su vincoli e complessità dell’esistente e a non rinunciare, nel contempo, alla definizione di un proprio carattere unificante riflettiamo in esso in maniera tangibile il senso della ‘Cura’ sopra formulato. Con la nuova pavimentazione, ma anche con la complessa orchestrazione dell’impian-to illuminotecnico nel S. Stefano Rotondo, il presente si sostanzia di uno spessore più denso di quello che si può cogliere in un mero ‘adesso’, di natura soggettiva ed esisten-ziale: la ‘finestra’ temporale istituita fra contemporaneità e preesistenza consente di attraversare la storia per riconoscerne i vincoli e di guardare a quei vincoli non come limiti ma come stimoli creativi, strumenti di reciproco soccorso.

Fig. 8. Veduta interna della chiesa con la nuova pavimentazione.

26 biuSo 2001.

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