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N ella tasca di uno degli arrestati, un mazzetto di carte proteggeva il ‘canto’ del popolo armeno, Il canto del Pane di Daniel Varujan, ritrovato fra i beni sequestrati, viene pubblicato nel 1921 a Istanbul. Il giovane autore, astro nascente del risorgimento letterario armeno dell’inizio secolo, muore, appena trentenne pochi mesi dopo l’arresto assieme alle altre voci che avrebbero potuto denunciare al mondo ciò che stava per accadere nel- le terre dell’Armenia storica. I versi di quel libro raccon- tano la rottura traumatica fra una gente e la propria terra, fra gli armeni, le pianure coltivate a grano, le montagne dell’Anatolia orientale, dalla Cilicia al Monte Ararat. L’Ararat, la montagna sacra sulla quale leggenda vuole si sia arenata l’arca di Noè dopo il diluvio, ricopre un ruolo fondamentale nell’immaginario culturale armeno (si ve- da ad esempio il film Ararat di Atom Egoyan, 2002), ma la sua imponente silhouette vista da Yerevan ricorda ogni giorno agli abitanti dell’Armenia che quasi tutto ciò che resta della loro memoria, storica e culturale, giace al di là del confine inaccessibile fra Armenia e Turchia, preda della dimenticanza, del tempo e del silenzio imposto da cent’anni di negazionismo turco. Ai massacri e alle de- portazioni del 1915 di un milione e mezzo di Armeni dall’Anatolia centrale e orientale, è seguito la mordac- chia imposta sull’eredità culturale armena. La filosofia Kemalista alla base del nuovo stato turco, sorto dalle ce- neri dell’Impero Ottomano, applicava alla lettera i det- tami del nazionalismo europeo che i leader intellettuali kemalisti avevano studiato e conosciuto a Parigi o a Lon- dra. Uno stato per una nazione, con una sola lingua e una sola memoria condivisa. Non c’è spazio per alcun tipo di pluralismo e tutto ciò che fa emergere tracce di un pas- sato altro va eliminato. Laddove c’era un nome di paese, di fiume o di collina in lingua armena o curda, un nuovo nome turco lo sostituiva. La confisca dei beni dei depor- tati, così come la loro sostituzione in aree cruciali indu- striali e commerciali apriva il varco a una nuova classe imprenditoriale turca. In realtà, la scomparsa della po- polazione cristiana, la rottura dei rapporti clientelari così come di quelli culturali e la scomparsa di un sapere arti- 16 GALATEA Armeni IL SILENZIO E LA MEMORIA Il 24 aprile è il centenario del Metz Yeghern, ‘il grande crimine’, il genocidio armeno. Cento anni fa la prima sistematica operazione di pulizia etnica dell’epoca moderna. Nasce qui il termine di ‘genoci- dio’, lo conia Raphael Lemkin nel 1944. Il 24 aprile del 1915, la polizia dei Giovani Turchi arresta a Istanbul l’élite culturale del popolo armeno, primo passo per silenziare la voce di un intero popolo, quella che avrebbe potuto gridare aiuto. di Francesco Marilungo foto di Qedri Dêwanî © Qedri Dêwanî

Il silenzio e la memoria. Il genocidio e il risorgimento della memoria armena

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Nella tasca di uno degli arrestati, un mazzetto dicarte proteggeva il ‘canto’ del popolo armeno,Il canto del Pane di Daniel Varujan, ritrovato fra

i beni sequestrati, viene pubblicato nel 1921 a Istanbul. Ilgiovane autore, astro nascente del risorgimento letterarioarmeno dell’inizio secolo, muore, appena trentenne pochimesi dopo l’arresto assieme alle altre voci che avrebberopotuto denunciare al mondo ciò che stava per accadere nel-le terre dell’Armenia storica. I versi di quel libro raccon-tano la rottura traumatica fra una gente e la propria terra,fra gli armeni, le pianure coltivate a grano, le montagnedell’Anatolia orientale, dalla Cilicia al Monte Ararat. L’Ararat, la montagna sacra sulla quale leggenda vuole sisia arenata l’arca di Noè dopo il diluvio, ricopre un ruolofondamentale nell’immaginario culturale armeno (si ve-da ad esempio il film Ararat di Atom Egoyan, 2002), mala sua imponente silhouette vista da Yerevan ricorda ognigiorno agli abitanti dell’Armenia che quasi tutto ciò cheresta della loro memoria, storica e culturale, giace al di làdel confine inaccessibile fra Armenia e Turchia, preda

della dimenticanza, del tempo e del silenzio imposto dacent’anni di negazionismo turco. Ai massacri e alle de-portazioni del 1915 di un milione e mezzo di Armenidall’Anatolia centrale e orientale, è seguito la mordac-chia imposta sull’eredità culturale armena. La filosofiaKemalista alla base del nuovo stato turco, sorto dalle ce-neri dell’Impero Ottomano, applicava alla lettera i det-tami del nazionalismo europeo che i leader intellettualikemalisti avevano studiato e conosciuto a Parigi o a Lon-dra. Uno stato per una nazione, con una sola lingua e unasola memoria condivisa. Non c’è spazio per alcun tipo dipluralismo e tutto ciò che fa emergere tracce di un pas-sato altro va eliminato. Laddove c’era un nome di paese,di fiume o di collina in lingua armena o curda, un nuovonome turco lo sostituiva. La confisca dei beni dei depor-tati, così come la loro sostituzione in aree cruciali indu-striali e commerciali apriva il varco a una nuova classeimprenditoriale turca. In realtà, la scomparsa della po-polazione cristiana, la rottura dei rapporti clientelari cosìcome di quelli culturali e la scomparsa di un sapere arti-

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Armeni

IL SILENZIO E LA MEMORIA

Il 24 aprile è il centenario del Metz Yeghern, ‘il grande crimine’, il genocidio armeno. Cento anni fa laprima sistematica operazione di pulizia etnica dell’epoca moderna. Nasce qui il termine di ‘genoci-dio’, lo conia Raphael Lemkin nel 1944. Il 24 aprile del 1915, la polizia dei Giovani Turchi arresta aIstanbul l’élite culturale del popolo armeno, primo passo per silenziare la voce di un intero popolo,quella che avrebbe potuto gridare aiuto. di Francesco Marilungo foto di Qedri Dêwanî

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stici kemalisti e svela una presenza armena nel cuore del-la città. Così, anche in questa occasione, la nuova legit-timazione del passato ottomano portata avanti dal parti-to al governo, scavalcando all’indietro quasi un secolo distoria repubblicana, permette ha in qualche misura lariemersione del patrimonio armeno. Segni di distensione nei rapporti fra Turchia e Armenia si

sono registrati nel 2008, quandol’allora presidente della Repub-blica Abdullah Gül visita la con-troparte armena per la primavolta nella storia. L’occasione èuna partita di qualificazione aimondiali fra Turchia e Armenia.I commentatori la definironofootball diplomacy. Un anno

prima, sulla minuscola isola di Ahtamar sul lago di Vanin Turchia, veniva inaugurata con grande eco mediatica,la restaurata chiesa armena della Sacra Croce. Il progetto,finanziato dal ministero della cultura turco, cercava dimostrare al mondo la ‘buona disposizione’ del governoturco a compiere passi, quantomeno simbolici, verso lariappacificazione. In realtà, la chiesa è stata aperta al pub-blico in forma di museo e nonostante una simbolica cele-brazione nel settembre del 2010, la chiesa è chiusa al cul-to. L’isola viene turchificata cambiandone il nome - dal-l’armeno Ahtamar al turco Akdamar - e una bandiera tur-ca viene piantata accanto alla chiesa. E il progetto vieneinscritto nel piano di sfruttamento turistico del patrimo-nio culturale armeno da parte della Turchia.

I massacri di DiyarbakirIl vero attore chiave del processo di legittimazione dell’e-redità armena in Turchia è rappresentato dal partito po-litico curdo, che ha come suo centro la città di Diyarbakir,capitale del Regno d’Armenia dal II secolo a. c. al II secolo

gianale, hanno reso il sudest della Turchia una delle areepiù povere del paese; un’area dove dopo il genocidio del1915, lo sforzo assimilatorio si è rivolto nei confronti deicurdi, ancora una popolazione altra. Cento anni di silen-zio, di vento, d’intemperie hanno abbandonato il patri-monio culturale Armeno in Turchia al saccheggio pro-gressivo dell’oblio. Ma, da qualche tempo, il passatosembra voler tornare in superfi-cie, fra le crepe della propagan-da nazionalista turca si infilanocorrenti di memorie alternati-ve. Le narrative minoritarie inTurchia hanno progressivamen-te guadagnato legittimità nelpaese, prima fra tutte quellaislamista, bandita e osteggiatadal laicismo estremo dei kemalisti e questo ha facilitatoil risorgere, non sempre gradito al governo, anche di altrenarrative represse ed escluse per anni.

Le ceneri armeneNel giugno 2013, la Turchia occupa i titoli di tutti iprincipali giornali del mondo per la poliziesca repressio-ne del movimento ‘Occupy Gezi’. La società civile pro-testava contro il progetto del governo di costruire un me-gacentro commerciale in stile neo-ottomano sul modellodi una precedente caserma militare, in uno dei pochi spa-zi verdi rimasti nel centro di Istanbul. Occupazione escontri tra poilizia e movimento, ma il progetto del go-verno che cerca di sostituire l’architettura kemalista delparco Gezi con una rinnovata narrativa ottomana, correin realtà il rischio di far emergere incubi di un passato re-moto. Il parco Gezi si erge sulle ceneri di un cimitero ar-meno. L’intervento neoliberista del governo, adornatocoi fronzoli del passato imperiale, va così a risvegliarememorie dormienti, obliterate dagli interventi urbani-

Il vero attore chiave delprocesso di legittimazione

dell’eredità armena inTurchia è rappresentato

dal partito politico curdo

Armenia, deportazione

d.c. col nome di Dikranagerd (Tigranocerta). La narrativapolitica curda decostruisce i dogmi del nazionalismo mo-noetnico turco e apre la possibilità del riconoscimento ditutte le minoranze, etniche e religiose, sottomesse. Diyar-bakir, la città che nel 1915 fu il centro logistico delle de-portazioni, era, assieme a Van e a Urfa, uno dei maggioricentri culturali, religiosi ed economici della popolazionearmena. Nel Sedicesimo secolo i viaggiatori europei la de-finivano ‘l’Atene degli Armeni’. A Diyarbakir, la tensio-ne fra le varie comunità della città esplode già vent’anniprima del genocidio, nel 1895 la situazione precipita inveri e propri pogrom contro la popolazione cristiana (Ar-mena e Assira) della città. Sono i ‘massacri di Diyarbakirdel 1895’. L’agente segreto britannico Gertrude Bell (re-centemente celebrata da un film di Werner Herzog) sostaa Diyarbakir qualche anno dopo quegli eventi, e scrive:«Non c’è pace per la capitale senza legge del Kurdistan.Fedi in conflitto si combattono ferocemente come fosseroimperi rivali e lo scontro è inasprito dagli odi di razza. L’a-ria pesante, stagnando fra le alte mura della città, è caricadel ricordo dei massacri del 1895». Ma è con l’arrivo delVali (Governatore) Doktor Mehmet Re�id Bey che, inpiena guerra mondiale, la situazione assume le tinte tra-giche del genocidio. Re�id arriva in città nel marzo diquell’anno e a maggio ha già fatto imprigionare l’éliteculturale cristiana della città. 807 notabili armeni, intel-lettuali e uomini d’affari, vengono portati fuori dalle nere

mura di basalto della città, verso le sponde del Tigri. Quivengono caricati sulle zattere di legno usate per il com-mercio di legname fra Diyarbakir e Mosul e qualche chi-lometro più a valle vengono massacrati. Unico superstiteè il vescovo Tchilgadian, lasciato vivo perchè racconti allacomunità e semini il terrore. Qualche mese più tardiRe�id offre al resto della popolazione la salvezza in cambiodella conversione all’Islam. Gran parte della popolazionerifiuta e viene massacrata. Negli anni ’90 lo scrittore ar-meno Migirdic Margosyan, originario della città ma sta-bilitosi ad Istanbul, inizia a scavare nella memoria e a de-scrivere in brevi racconti gli anni della sua infanzia, quan-do nel “quartiere degli infedeli” a Diyarbakir si parlavacorrentemente armeno, curdo e turco per le strade e i suoigenitori ricordavano i massacri del 1915 a cui avevano as-sistito. Qualche anno più tardi lo scrittore curdo MehmedUzun, emigrato in Svezia per motivi politici, scrive inturco I fiori del melograno (Nar Çiçekleri, 1996). Uzunriallaccia i nodi della pacifica coabitazione fra curdi e ar-meni nell’antica città, seguendo le memorie delle colla-borazioni artigianali, degli scambi culinari, delle festi-vità condivise e dei suoni nel cielo di Diyarbakir quandoalla voce del muezzin che richiama i fedeli alla preghierae risponde il rintocco della campana da una chiesa adia-cente. Nel cuore di quel quartiere ‘infedele’ di Diyarbakirsorge la più grande chiesa armena di tutto il Medioriente.È chiamata Surp Giragos, costruita con la locale pietra la-

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vica, consta di tre navate orizzontali e ben sette altari. Fi-no al 2009 era in abbandono e decadimento, con il tettocompletamente collassato. La municipalità curda diDiyarbakir, sostenuta da una fondazione di cittadini ar-meni, ha restaurato la chiesa riportandola al suo stato ori-ginale e aprendola alle celebrazioni delle messe nel 2011.Durante il suo discorso inaugurale, il sindaco curdoOsman Baydemir invitava gli armeni a “tornare nella lorocasa, nella loro città”. Nell’aprile del 2015 la chiesa è ri-masta aperta per accogliere i visitatori durante la comme-morazione del centenario del genocidio.

Il centenarioL’atteggiamento del presidente della Repubblica Er-doğan nei confronti della ricorrenza del centenario è di al-tra natura. Un anno prima Erdo�an aveva dato segnali diammorbidimento, porgendo le condoglianze ai familiaridelle vittime, nel 2015 le celebrazioni sono state prece-dute da settimane di polemiche.La scelta del presidente di anti-cipare di un giorno la celebra-zione della battaglia di Gallipo-li - Çanakkale in turco - avvenu-ta il 25 aprile del 1915 e nellaquale l’esercito turco guidatodall’allora generale Mustafa Ke-mal bloccò l’offensiva alleata suiDardanelli, ha fatto pensare alla volontà di oscurare le ce-lebrazioni per il centenario del genocidio, previste comeogni anno per il 24. Ed è sembrato provocatorio e irriden-te l’invito di partecipare alle celebrazioni di Gallipoli ri-volto da Erdo�an al presidente armeno Serzh Sarkisian, colpretesto che in quella battaglia cruciale per le sorti dellastoria turca morirono anche cittadini armeni. Intanto,Papa Francesco, durante l’udienza in Vaticano al sinododella chiesa armeno-cattolica denuncia la necessità dichiamare i fatti con il proprio nome: genocidio. Non è so-lo una questione di terminologia, il valore legale del ter-

mine genocidio implica un’esatta quantificazione dei be-ni e delle terre confiscati durante le operazioni di depor-tazione e un corrispettivo economico da pagare alle vitti-me. Erdoğan risponde al Papa a mo’ di Sultano, dicendominacciosamente che può i 100.000 cittadini armeni re-sidenti in Turchia quando vuole. L’ostracismo turco neiconfronti dell’accettazione della parola genocidio, suscitada sempre commenti indignati.

Hrant DinkForse l’intellettuale armeno più importante nella Turchianegli ultimi decenni. Giornalista e fondatore della rivistabilingue armeno-turco Agos, viene ucciso a Istanbul nel2007 davanti all’ingresso del suo giornale da un membrodi frange ultranazionaliste turche. Il tragico evento su-scitò nel paese la reazione veemente della società civileturca. Decine di migliaia di persone si riversarono nellestrade al grido di “siamo tutti armeni, siamo tutti Hrant

Dink”. Hrant Dink aveva ilgrande merito di spostare il di-battito sul genocidio da una que-stione di cifre di morti a una que-stione di sentimenti dei vivi. Ciòche gli stava più a cuore era ritro-vare la via della convivenza stori-ca fra turchi, curdi e armeni. E aquesto proposito si scagliava

contro gli interventi ‘politici’ di stati esterni che toccanosul vivo l’orgoglio nazionalista turco, agganciano il pre-sente degli armeni a un passato traumatico e allontananole possibilità concrete di collaborazione e riconciliazione.«Andrò in Francia a dire che non ci fu alcun genocidio ar-meno e starò in Turchia a dire che ciò che avvenne fu ge-nocidio», dice Dink quando la Francia nel 2001 riconosceufficialmente i fatti del 1915 come genocidio. Per scopri-re l’opera di Hrant Dink il lettore italiano può far ricorsoal volume L’inquietudine della colomba (Guerini e Asso-ciati, 2008). L’assassinio di Hrant Dink, per mettere a ta-

«Andrò in Francia a direche non ci fu alcun

genocidio armeno e staròin Turchia a dire che ciò

che avvenne fu genocidio»

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cere una voce scomoda di dialogo fra i fronti opposti, sca-turì l’effetto opposto. Ogni anno nel giorno dell’anniver-sario dell’assassinio, in migliaia sfilano ancora per le stra-de di Istanbul, gridando il bisognodi fare i conti con la storia. La Fon-dazione Hrant Dink, guidata dallamoglie del giornalista scomparso,Rachael Dink, organizza annual-mente una conferenza intesa a rom-pere il muro di silenzio e a riunireintellettuali e accademici.

La letteratura della memoriaOltre al patrimonio storico artisti-co, un bacino potenzialmente infi-nito di patrimonio immateriale èquello che sta riemergendo negli ultimi anni. C’è un’o-pera che segna simbolicamente il ritorno sulla scenapubblica delle memorie armene in Turchia, Anneannem(Alet, 2007, col titolo Heranush, mia nonna). FethiyeÇetin, la sua autrice, è una figura fra le più attive dellaFondazione Hrant Dink. Çetin toglie il velo di silenziosteso sopra le memorie dei cosiddetti ‘criptoarmeni’, co-loro che scampano al genocidio, spesso aiutati da fami-glie musulmane curde e turche, si convertono all’Islamper salvare la vita durante i tragici eventi del 1915, da al-

lora timorosi di venire allo scoperto con la loro vera iden-tità. Lo scrittore Şeyhmus Diken, nel ricostruire la storiadella città di Diyarbakir, segue le tracce degli armeni in

diaspora fuggiti dalla città, rimastanel loro immaginario come una pa-tria amata e traumaticamente per-duta. Elif �afak, tradotta in tutto ilmondo, nel suo La bastarda diIstanbul racconta la storia della ri-scoperta delle proprie origini arme-ne da parte della protagonista. Ilpremio Nobel per la letteraturaOrhan Pamuk, in un’intervista del2005, afferma chiaramente che l’e-sercito dei Giovani Turchi si è resocolpevole del massacro di più di un

milione di armeni. Questi interventi sono spesso seguitida procedure legali a carico degli scrittori per aver offesoi valori di ‘turchicità’ della patria. L’editore e attivista peri diritti umani Ragıp Zarakolu è forse colui che più du-ramente ha sperimentato sulla propria pelle i rischi di fa-re opera di divulgazione sul genocidio armeno in Tur-chia, subendo una serie pletorica di processi e arresti peraver pubblicato opere su argomenti ‘controversi’, fon-dando assieme a sua moglie Ayşe, la casa editrice ‘Belge’.Ma il processo avviato sembra inarrestabile e la fetta di

Il processo avviatosembra inarrestabile ela fetta di società civileche riconosce i fatti del

1915 esplicitamentecome genocidio cresce

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Il monte Ararat Scena del film...

società civile che riconosce i fatti del 1915 esplicitamen-te come genocidio cresce costantemente, come dimostrail grandissimo successo di vendite del libro del giornali-sta e scrittore Hasan Cemal, intitolato semplicemente,1915: il Genocidio Armeno (1915: Ermeni Soykırımı,Everest editore), pubblicato nel 2012.

La fotografia, il cinema, la letteraturaLa tradizione fotografica armena in Turchia ha radici cherisalgono all’atelier fotografico del sultano AbdulhamitII gestito da tre fratelli armeni, per arrivare al fotografoAra Güler, soprannominato ‘l’occhio d’Istanbul o ‘ilprincipe della Leica’. Cittadino turco di origine armena,Ara Güler è colui che forse più sistematicamente ha do-cumentato la devastante trasformazione urbana d’Istan-bul, testimoniando la scomparsa delle comunità di pe-scatori armeni e greci sulle rive del Bosforo, nel quartieredi Kumkapı, mentre tutt’attorno cresceva una megalo-poli sconfinata di circa 15 milioni di abitanti. L’atelier diAra Güler, un ristorante nel centralissimo quartiere diBeyo�lu, costituisce forse il più importante archivio dimemoria visuale per la comunità armena di Istanbul. La diaspora armena ha dato alti frutti. Dallo scrittore

statunitense William Saroyan, celebre per The HumanCommedy (La Commedia Umana, Marcos y Marcos,2010) allo scacchista russo Garry Kasparov; dalla musi-ca heavy-metal della band statunitense System of aDown, alla voce del famoso chansonnier, scrittore e di-plomatico francese Charles Aznavour. In Italia è sicura-mente Antonia Arslan una delle voci letterarie più luci-de della diaspora armena. Non solo raccoglie le testimo-nianze degli armeni italiani in un importante lavoro didocumentazione e compilazione, ma attraverso la suanarrativa racconta la sofferenza del suo popolo. La stradadi Smirne (Rizzoli, 2009) e Il rumore delle perle di le-gno (Rizzoli, 2015) seguono il suo primo La masseriadelle allodole (Rizzoli, 2004) dal quale i fratelli Taviani

hanno tratto l’omonimo film nel 2007. Il cinema è ilmezzo più potente nel divulgare e far conoscere. Duran-te il Festival del Cinema di Venezia del 2014, è statopresentato The Cut, del regista turco-tedesco FatihAkin. In The Cut, il protagonista interpretato da TaharRahim, superstite del genocidio, perde la voce e va incerca delle sorelle sopravvissute e assimilate da famigliemusulmane. Il silenzio del protagonista sta a simboliz-zare sia la voce perduta della cultura armena a causa del‘taglio’, sia il silenzio sui fatti. La prima intervista rila-sciata da Akin in merito al film è stata pubblicata dalgiornale fondato da Hrant Dink, Agos, il quale ha suc-cessivamente ricevuto minacce da parte di frange fasci-ste turche. Akin aggiunge che diversi proprietari di ci-nema in aree della Turchia dove la retorica ultranazio-nalista ha più presa, non proiettano il film nelle loro saleper paura di ritorsioni. La questione del silenzio e dellatrasmissione della memoria ritorna in quella che forse èla più alta recente realizzazione artistica sul genocidioarmeno. Si tratta del romanzo di Varujan Vosganian, Illibro dei sussurri (Keller editore, 2011). Nell’opera diVosganian, è proprio nella dimensione del sussurro chesi racconta e si tramanda per cent’anni la memoria dellatragedia, è il sussurro che sfugge al silenzio e lo sconfig-ge. Vosganian ricostruisce l’ossessione della memoriadegli armeni in diaspora, la convinzione di essere statidepredati del ricordo tanto quanto della terra condu-cendo con delicatezza e malinconia il lettore dentro lacultura e i simboli ‘quotidiani’ della cultura armena (co-me il frutto del melograno, la pianta d’albicocche o dinoce, il rito del caffè). Le pagine del Libro dei sussurriche raccontano i momenti della deportazione dall’Ana-tolia al deserto siriano, delle fustigazioni lungo il per-corso e delle grida soffocate nelle gole assetate, sono for-se fra le più crude e potenti pagine contemporanee ingrado di ridare voce, in un sussurro appunto, a chi perun secolo è stato tenuto in silenzio. �