59
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO Facoltà di Studi Umanistici Corso di Laurea Triennale in Filosofia LA GENEALOGIA DELLA MENTE LOGICA CARLO SINI E LA RIFLESSIONE SULL’ ALFABETO Relatore: Prof.ssa Rossella FABBRICHESI Elaborato Finale di: Stefano MEDAGLIA Matr. 780163 Anno Accademico 2012 2013

La genealogia della mente logica. Carlo Sini e la riflessione sull'alfabeto

  • Upload
    unimi

  • View
    1

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

1

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO

Facoltà di Studi Umanistici

Corso di Laurea Triennale in Filosofia

LA GENEALOGIA DELLA MENTE LOGICA

CARLO SINI E LA RIFLESSIONE

SULL’ALFABETO

Relatore: Prof.ssa Rossella FABBRICHESI

Elaborato Finale di:

Stefano MEDAGLIA

Matr. 780163

Anno Accademico 2012 – 2013

2

INDICE

Introduzione

Capitolo 1

Le pratiche. ovvero saper fare, saper dire, saper scrivere

1.1 Non sapere di sapere

1.2 La pratica come saper fare

1.3 Saper dire e la sua superstizione

Capitolo 2

Il contenuto della forma. ovvero una genealogia del

pensiero logico-razionale

2.1 La sega, l’accetta, il ceppo

2.2 Il mondo dell’oralità

2.3 La pratica di scrittura

2.4 l’alfabeto e le sue lettere

2.5 La “Y” capovolta, ovvero il bivio di Eracle

Capitolo 3

Etica della scrittura. ovvero provocazione ed espediente

per un esercizio filosofico

3.1 Una verità più vera?

3.2 Doppio sguardo e doppia lettura

3.3 Etica della scrittura

p. 4

p. 8

p. 8

p. 10

p. 16

p. 18

p. 18

p. 22

p. 27

p. 30

p. 37

p. 45

p. 45

p. 48

p. 51

3

Bibliografia

p. 58

4

INTRODUZIONE

«Ciò che ci manca è una genealogia della mente logica, cioè del cammino della

mente, del suo purificarsi e ancor prima del suo costituirsi entro il logos»1.

In queste parole di Carlo Sini non è da leggere la volontà di completare un

ipotetico edificio della conoscenza, riempiendo i buchi rimasti vuoti, trattando i temi

non ancora sviluppati. Se Sini in vari suoi scritti traccerà questa genealogia del

pensiero logico-razionale sarà per ben altri motivi: il reale nodo in questione è quello

del soggetto, del nostro essere soggetti alle pratiche.

Quel soggetto occidentale che noi siamo, dotato di una mente logica e di un

atteggiamento critico, non è sempre esistito e non esisterà per sempre: esso è un

divenuto, figlio di particolari e determinate operazioni. Per Sini la genealogia ha

proprio il compito di disegnare la traiettoria di questo soggetto razionale, di mostrare

quelle concrete pratiche di vita che lo producono come loro oggetto, pratiche senza le

quali esso non esisterebbe. Si scopre dunque che al fondo dei nostri saperi razionali,

puri, critici, si nasconde un’infinità di operazioni non razionali, non pure, non

critiche: queste operazioni sono proprio ciò che rende possibile la filosofia, la scienza

e tutta l’episteme occidentale.

In particolare Sini rintraccia nell’alfabeto e nella sua modalità di scrittura la radice

della mente logica: l’alfabeto sarebbe allora ciò che costituisce la purezza della

logica, la sua idealità formale. Il procedere razionale per concetti, per definizioni che

dicono l’essenza, sono il prodotto particolare di una particolare pratica alfabetica;

1 Sini, C., Etica della scrittura, Mimesis, Milano 2009, p.71.

5

solamente che questa pratica di scrittura viene poi dimenticata come evento

trascendentale di tali oggetti.

Solo uomini educati dalla scrittura alfabetica hanno imparato a ragionare per

concetti […], solo a partire da un’umanità dedita alla scrittura e alla lettura

alfabetiche si è resa possibile la scienza occidentale, vale a dire una considerazione

«oggettiva» e «universale» delle cose.2

Ma la pratica alfabetica (come ogni pratica) è fatta in modo da celarsi in favore

degli oggetti che rende possibile (ovvero in favore dei saperi puri e distaccati):

la pratica della scrittura alfabetica, appresa nel modo più rapido e più automatico

quando ancora siamo innocenti e non abbiamo la malizia di nessuna domanda, ci si

cancella ben presto dalla vista; eppure, essa silenziosamente ci plasma e ci conforma

alla sua nascosta “logica”, senza che nessuno ne sappia niente.3

È in questo cancellarsi dell’alfabeto come condizione necessaria per l’apparire di

una mente logica che si trova la questione centrale della filosofia di Sini: la questione

dell’essere soggetto a.

La questione del soggetto è molto più semplicemente e concretamente la questione

del nostro essere divenuti soggetti. E soggetti propriamente nella forma del soggetto

a: soggetti alle pratiche del sapere razionale dell’Occidente, soggetti alla pratica

filosofica, soggetti all’enciclopedia del sapere.4

Il soggetto è sempre nel modo e nella forma dell’essere soggetto a (in questo caso,

all’alfabeto), mai in quella dell’essere soggetto di. Noi siamo sempre soggetti

all’alfabeto, ai sui incanti e alle sue superstizioni: siamo guidati da questa pratica, ma

non ce ne rendiamo conto. Nascosta al di sotto dei nostri saperi distaccati e scientifici

giace una sterminata catena di operazioni e altri saperi che si intrecciano tra loro e

non vengono notati perché la nostra attenzione è catturata dal fine della pratica

presente; ma questa antichità di pratiche, seppur ignorata, non ci è indifferente:

2 Id., La scrittura e il debito. Conflitto tra culture e antropologia, Jaca Book, Milano 2002, p.29.

3 Id., Idoli della conoscenza, Raffaello Cortina, Milano 2000, p.116-7.

4 Id., Filosofia e scrittura, Laterza, Roma-Bari 1994, p.116-7.

6

siamo soggetti a essa; noi siamo un oggetto interno a queste pratiche che

costantemente accadono.

È evidente che, se ad essere in gioco è la questione della figura del soggetto, a

Sini non interesserà ricostruire una semplice storia dell’alfabeto o della scrittura; non

gli interesserà banalmente ricordarci quanto siamo storici, o che accanto alle verità

della scienza ne esistono altre, con la loro dignità. Se Sini delinea una genealogia

della mente logica che trova nell’alfabeto la condizione del suo apparire, è per

spronarci ad un nuovo abito del nostro essere soggetti a.

Non avrebbe alcun senso sbarazzarsi dell’alfabeto o dei nostri saperi scientifici,

non si tratta di questo: nell’atto di allontanarci mostreremmo di essere ancora più

sottomessi alle loro logiche, di non comprendere qual è la reale posta in gioco.

Quello che invece accade nella filosofia di Sini è un mutamento degli interessi: non

interessano più le teorie, superstiziose perché già decise dagli incanti delle pratiche;

interessa invece provocare nel soggetto una nuova postura, un nuovo ethos.

L’etica della scrittura si situa in questo snodo teoretico: non si può fuggire in un

luogo altro, ma bisogna permanere nella nostra figura dell’essere soggetti a,

inscrivendovisi con nuovi abiti, con un nuovo ethos. Allora la filosofia di Sini si

tramuta in un esercizio da praticare costantemente per imparare ad abitare

diversamente i nostri saperi e le nostre pratiche: il filosofo torna ad essere mimo

della verità, come voleva Platone.

Gli scritti e le parole di Sini, dunque, hanno senso solo se evocano una certa

postura nel soggetto; pragmaticamente, il loro significato è negli abiti di risposta che

essi producono, in ciò che il filosofo è pronto a fare.

7

Non bisogna quindi cercare altre scritture o altre filosofie fuggendo chissà dove; si

tratta invece di farsi carico della responsabilità dell’esser filosofi, instaurandosi non

superstiziosamente nelle vecchie pratiche con nuovi abiti, aperti alla possibilità

dell’accadere di nuovi stacchi e nuove sinergie: aperti dunque alla verità dell’evento

nel suo fugace transito.

Praticare la filosofia come esercizio etico significa assumersi pienamente la

responsabilità del pensiero e non sottrarsi ad essa, con tutte le difficoltà e i problemi

che ciò può comportare; significa pensare il proprio essere soggetti alfabetici con

onestà fino alle conseguenze più radicali. Allora Sini incarna in sé la figura di una

filosofia che chiede realmente conto del proprio operare, senza nascondersi o

ingannarsi. Tutto questo nella convinzione che

il pensiero non ha da sviarsi e cedere alla tentazione di prendere scorciatoie e strade

laterali. Inventarsi dire poetici, racconti, narrazioni, retoriche da salotto e da giornale

equivale solo ad abbandonare la partita e a fuggire la responsabilità del pensiero e la

più profonda e insieme affascinante possibilità cui forse sia stato mai chiamato. Non

c’è alcun altrove, alcun immaginario Oriente cui ritornare; c’è un Occidente in cui

permanere, nella trasmutazione che è necessaria.5

5 Id., Filosofia e scrittura, cit., p.91-2.

8

CAPITOLO 1

LE PRATICHE

OVVERO SAPER FARE, SAPER DIRE, SAPER SCRIVERE

1.1 Non sapere di sapere

Il filosofo si fa vanto di «sapere di non sapere», ne fa la sua divisa e il suo principio.

Ma più in profondità il punto non è questo. Esso è anzi esattamente l’opposto, cioè il

fatto che egli «non sa di sapere». Sa già di fatto molte cose, e anzitutto l’alfabeto e la

logica della sua scrittura, per potersi permettere il lusso del suo provocatorio «non

sapere»; sicché il non sapere di cui parla cela molti saperi, dei quali però egli non sa

nulla, senza peraltro sapere di non saperli.1

In queste poche righe tratte da Filosofia e scrittura sono in gioco alcune delle

tematiche principali che attraversano tutta la ricerca teoretica di Carlo Sini: il tema

delle pratiche e, in primo luogo, quello della pratica di scrittura alfabetica.

Ma cosa significa che il non sapere del filosofo cela molti saperi? Quali sarebbero

poi questi saperi ignorati? Perché la logica di scrittura dell’alfabeto ha un ruolo così

importante?

Il soggetto razionale occidentale, figlio della filosofia e delle scienze, sarebbe

quindi ignaro di ciò che giace dietro o al fondo dei suoi saperi: il soggetto socratico,

critico, distaccato, non saprebbe che proprio questo atteggiamento di dubbio di cui va

fiero, è reso possibile da un’infinita catena di saperi non saputi di cui non viene fatto

problema. Questo atteggiamento distaccato si appoggerebbe su uno sterminato

intreccio di saperi tutt’altro che puri e distaccati, che restano inavvertiti e impensati;

1 Sini, C., Filosofia e scrittura, Laterza, Roma-Bari 1994, p.119.

9

nascosti proprio da quel procedere critico che non domanda su se stesso, ma vela le

operazioni che lo rendono possibile.

Questi problemi non sussistono solo per la filosofia, ma interessano tutti i saperi

che sono debitori della domanda socratica, domanda che chiede come risposta un

sapere distaccato e critico, non più i saperi partecipativi e patici della tradizione.

«Il paradosso della pratica filosofica […] si è trasmesso a tutte le pratiche della

cultura occidentale: alle pratiche religiose, politiche, scientifiche, artistiche»2, che

proprio nella filosofia hanno le loro radici. Problemi non solo per la filosofia,

dunque, benché al filosofo spetti il compito e la responsabilità di questo domandare

su se stesso e sul senso del suo fare filosofia.

Sini sta dicendo che al di sotto dei nostri saperi si celano, ignorati, molti altri

saperi. Dunque: di che saperi si tratta? Perché non li avvertiamo e ci sono nascosti?

Tra questi saperi c’è “anzitutto” l’alfabeto e la sua logica: «senza scrittura alfabetica

non ci sarebbe stata nessuna filosofia, nessuna episteme, nessuna scienza»3. Perché la

scrittura (e in particolar modo quella alfabetica) influenza così fortemente i nostri

saperi? Come fa a modificarli così profondamente?

«Ogni pensiero logico qual è comunemente inteso non sarà un prodotto

dell’alfabetizzazione greca?»4: questa domanda ripresa da Erick A. Havelock segna

uno dei nodi teoretici centrali della filosofia di Carlo Sini. Sarebbe dunque l’alfabeto

uno di quei saperi che rende possibile l’apparire dei nostri saperi oggettivi e

distaccati? Dalle considerazioni di Havelock e di altri autori come Ong o Kallir, Sini

disegna una genealogia della mente logica che rintraccia le radici del pensiero

2 Ivi, p.18.

3 Id., Idoli della conoscenza, Raffaello Cortina, Milano 2000, p.117.

4 Havelock, E.A., La Musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo dall’antichità al

giorno d’oggi, Laterza, Roma-Bari 1986, p.51.

10

logico-razionale nella pratica di scrittura alfabetica, che celerebbe se stessa in favore

degli oggetti che pone al mondo.

Dunque tra i saperi non saputi c’è “anzitutto” l’alfabeto, ma per prima cosa, quali

sono gli altri saperi celati al fondo dei nostri saperi? Si tratterà di capire che questi

saperi non sono altro che le pratiche con le loro peculiari superstizioni e i loro

incanti. Prima di trattare l’alfabeto è necessario quindi un passaggio attraverso il

pensiero delle pratiche che chiarirà le coordinate in cui si muoverà Carlo Sini nel

tracciare la sua genealogia del pensiero logico-razionale per risalirne alle radici che,

impensate, giacciono al fondo dei nostri saperi critici. Si tratterà di capire come il

pensare le pratiche in modo radicale modifichi la stessa genealogia che verrà

delineandosi, che non potrà più intendersi come una mera storia del nostro pensare in

modo logico e scientifico, ma diventerà ben altro (il cui senso si chiarirà solo alla

fine del percorso). Si tratterà di capire come da ultimo tutto questo modifichi il senso

stesso del fare filosofia di Sini.

1.2 La pratica come saper fare

La prima domanda che si pone è dunque: cosa è una pratica per Carlo Sini?

Com’è possibile che celi molti saperi e da ultimo celi anche se stessa?

«Noi siamo costantemente in pratiche di vita […] e ci muoviamo in esse. Ogni

pratica di vita è una “sapienza” sui generis. Come minimo è un saper fare questo e

quello (stare ritti, camminare, afferrare e così via); e poi un saper dire; e infine un

saper scrivere»5

5 Sini, C., Etica della scrittura, Mimesis, Milano 2007, p.126.

11

La pratica è dunque un concreto saper fare, è «un’azione che si dirige a un fine»6,

un’azione sapiente che «sa» come fare: un fare che porta all’esistenza un universo di

senso, che disegna il mondo secondo la propria apertura7.

Ogni pratica è «un’apertura trascendentale di senso che è contemporaneamente

subiettivante e obbiettivante, che delinea cioè insieme un soggetto e un mondo»8:

«esplosione duplice»9 che pone i propri oggetti e soggetti. Questi due infatti non pre-

esistono alle pratiche, ma si danno sempre e solo entro determinati intrecci di esse: la

pratica è «quel “a partire da che” in grado di rendere possibile ogni nostra esperienza

di mondo, ogni nostro incontro col mondo»10

. La pratica di cui parla Sini è al di là (o

per meglio dire: prima) dell’opposizione tra teoria e prassi: non bisogna pensare ad

un soggetto che agisce da un lato, ed un mondo con i suoi oggetti dall’altro, che se ne

sta lì inerme, in attesa di essere conosciuto o modificato. «Il termine “pratica” non

indica dunque una “cosa”, o un “contenitore” all’interno del quale si trovano

collocati gli oggetti e i soggetti»11

. La pratica è l’evento di quella relazione che pone

i suoi poli: «i soggetti e gli oggetti sono le conseguenze (non le premesse): punti di

solidificazione volta a volta determinati»12

. Il soggetto dunque è sempre soggetto alle

pratiche, mai delle pratiche: soggetto al fine trascendentale della pratica, cioè quel

fine costitutivo della stessa prassi e del soggetto come quel determinato soggetto a

quella determinata pratica13

.

6 Redaelli, E., Il nodo dei nodi. L’esercizio del pensiero in Vattimo, Vitiello, Sini, Edizioni ETS, Pisa

2008, p.273. 7 Cfr. «Ogni pratica porta all’esistenza un universo di senso. Ogni pratica disegna il mondo in modo

peculiare.» Sini, C., Etica della scrittura, cit., p. 127. 8 Redaelli, E., Il nodo dei nodi, cit., p.276.

9 Sini, C., Pensare il progetto, Tranchida, Milano 1992, p.53.

10 Brovelli, L., Figure della distanza. La proposta teoretica di Sini e Vitiello, tesi di laurea magistrale

in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano, A.A. 2008-2009, p.28. 11

Ivi, p.25. 12

Sini, C., Etica della scrittura, cit., p.127. 13

Cfr. Sini, C., Gli abiti, le pratiche, i saperi, Jaca Book, Milano 1996, p.69.

12

Non esistono oggetti assoluti (ab-soluti), cioè sciolti dalle pratiche: le cose si

danno sempre all’interno delle determinate pratiche che le hanno poste in essere.

Nessun universale. Nessun “in sé”14

. «Gli oggetti che incontriamo entro queste nostre

pratiche sono gli oggetti di queste pratiche, e non sono esistenti altrove»15

.

Questo punto è uno dei più soggetti a fraintendimenti e incomprensioni: Sini lo sa.

Spesso nei vari saggi si sofferma per chiarire questo passaggio fondamentale del

pensiero delle pratiche. In Idoli della conoscenza spiega così il rapporto tra le

pratiche e la realtà dei loro oggetti:

Lo scienziato [e più in generale il senso comune (N.d.A.)] sembra convinto che i

filosofi siano dei mattacchioni che sostengono che il tavolo c’è perché lo pensano; e

come non lo pensano più, rimane solo l’aria. Non stiamo dicendo questo. Non

abbiamo mai detto che le cose ci sono in quanto interpretate, in quanto poste in

opera in una pratica. Stiamo dicendo che le cose ci sono, ma sempre nel modo

d’essere in una pratica; ovvero che non ci sono cose il cui modo d’essere non sia

relativo a una pratica. Ma non è che ci siano in quanto sono relative a una pratica;

diciamo che sono così: relative a una pratica, non che la pratica sia la causa del loro

esserci; piuttosto, è la loro “modalità”. […] L’espressione “una cosa esiste”, “una

cosa sta così” indica: in quella pratica la trovi16

.

Ogni pratica è quindi trascendentale rispetto ai propri oggetti: è la condizione che

permette il loro manifestarsi proprio come quegli oggetti. Ma nello stesso tempo ogni

pratica è anche empirica: empirica perché sulla soglia dello stacco (dove accade

l’apertura trascendentale dell’evento della pratica) si trova la solidarietà delle

pratiche, in una catena infinita che «risale alla notte dei tempi»17

. Ogni pratica

«eredita e assume il senso di altre pratiche e lo reinterpreta a partire da sé»18

:

14

Più avanti si chiarirà che l’universale, l’“in sé”, più propriamente esistono, ma solo all’interno della

pratica filosofica, come suoi oggetti particolari. 15

Id., Idoli della conoscenza, cit., p. 196. 16

Ivi, p. 241. 17

Id., Gli abiti, le pratiche, i saperi, cit., p.68. 18

Redaelli, E., Il nodo dei nodi, cit., p. 277.

13

non si tratta di un generico stare ritti, di un generico leggere e scrivere o battere sulla

tastiera […]; si tratta di stare ritti, scrivere, battere, riflettere per; cioè, nel nostro

caso, per comporre un libro di filosofia […]. Questo fine influenza in modo più o

meno rilevante le pratiche che lo mettono in opera.19

Detto in altre parole:

un conto è afferrare l’ombrello per uscire, un altro afferrare la mano della persona

amata o afferrarsi ad un appiglio per non cadere. Questi afferramenti sono elementi

empirici ogni volta riformulati e ritrascritti entro il senso della pratica che li pone in

opera e che li vive entro il proprio orizzonte di senso.20

Dunque «le pratiche non se ne stanno per loro stesse separate»21

, da nessuna parte

esiste “una” pratica ma sempre ci sono intrecci di pratiche: «l’evento della pratica è

sempre l’evento di un insieme sterminato di molte pratiche, un intreccio che

assembla in sé elementi differenti, che sono a loro volta prodotti divenuti in altre

pratiche»22

. Segue che una pratica non si può mai definire a partire da se stessa:

mentre la dico mi trovo già “praticato” in altri intrecci e in altre aperture di senso, mi

trovo già in un’altra pratica.

Ogni volta che, per farci intendere, nominiamo una pratica, già siamo in debito,

sicché la vita e la comprensione della vita non abitano più lì. […] Le pratiche infatti

sono fatte e fanno così: che i loro confini sono indecidibili (sicché il «deciderli» non

è che una nuova pratica dai confini indecidibili), affondano, come diceva Vico, in

una «sterminata antichità», assemblano pratiche diverse in una sinergia fluente di

intrecci che nessuna parola o scrittura può fissare, perché arriverebbe comunque in

ritardo e per difetto.23

Con ciò inizia a venire alla luce uno dei punti centrali dell’intera filosofia di Carlo

Sini: l’abbaglio segnico e la superstizione. «Ogni pratica, nel suo accadere, produce

dunque un singolare abbaglio segnico: essa rinvia (all’oggetto) e svia (da sé: dal

19

Sini, C., Gli abiti, le pratiche, i saperi, cit., p.69. 20

Id., Filosofia e scrittura, cit., p.152 21

Ivi, p.81. 22

Ibidem. 23

Sini, C., La scrittura e il debito. Conflitto tra culture e antropologia, Jaca Book, Milano 2002, p.63.

14

proprio evento e dalla catena di pratiche che la supportano)»24

. L’apertura della

pratica è uno svelare (nuovi oggetti) che però vela se stesso come evento (come ciò

che rende possibile lo “svelare”)25

.

Ora si chiarisce il senso del «non sapere di sapere» con cui si era iniziato: «ogni

“sapere” è una stratificazione di “saperi” e azioni “sapienti” costituitisi entro una

sterminata catena di pratiche. Catena che al soggetto rimane celata»26

. Il soggetto

dunque (che, non dimentichiamolo, è uno dei poli posti in essere dall’evento della

pratica) è sempre nel modo dell’essere soggetto a (soggetto alle pratiche e non delle

pratiche); sempre catturato nell’abbaglio segnico della pratica da cui è praticato;

sempre portato a “retroflettere” i significati fuori e prima delle pratiche:

superstiziosamente. Noi «procediamo per lo più inconsapevoli della “sterminata

antichità” delle pratiche che ci costituiscono»27

.

Ecco che si definisce cosa Sini intenda per superstizione:

Si ritiene che superstiziosi siano certi contenuti a differenza di altri. Per esempio la

credenza che gli spiriti facciano ballare i tavolini o che i fantasmi prediligano i

vecchi castelli. È però più giusto ritenere che superstiziosa sia ogni credenza, la

quale assuma un contenuto indipendentemente dalla pratica che lo ha posto in

essere28

.

Dunque abbiamo e che fare con «un risultato che, come tutti i risultati, ha la

tendenza a distogliersi da tutto ciò che l’ha prodotto proprio perché vi si riferisce alla

luce del risultato che si è prodotto»29

.

In questa accezione la superstizione non è sempre il contrario della verità, ma anzi

24

Redaelli, E., Il gesto politico, in Redaelli, E. (a cura di), Il filosofo e le pratiche. In dialogo con

Carlo Sini, CUEM, Milano 2011, p.89. 25

Cfr. Redaelli, E., Il nodo dei nodi, cit., p.278. 26

Redaelli, E., Il nodo dei nodi, cit., p.277. 27

Sini, C., Filosofia e scrittura, cit., p.86. 28

Id., Gli abiti, le pratiche, i saperi, cit., pp.83-4. 29

Id., Idoli della conoscenza, cit., p.198.

15

addirittura «esiste una superstizione della verità»30

: le stesse verità delle scienze o

della logica possono «diventare superstiziose, quando esse sono “astratte” dalle loro

pratiche e fatte valere indipendentemente da quelle»31

.

Ma qui bisogna prestare molta attenzione: si è detto che al fondo dei nostri saperi

si celano molti altri saperi che noi ignoriamo; si è compreso che questi saperi sono

gli intrecci di pratiche che formano la base empirica, sempre interpretata alla luce

dello stacco dell’apertura trascendentale e proprio per questo non saputi, ma celati. Si

è detto, poi, che la pratica oltre a nascondere il proprio empirico (trascritto secondo

la propria prospettiva), vela se stessa mentre svela l’oggetto, rinvia ai propri

significati mentre svia dal proprio evento: così il soggetto alla pratica è portato ad

assumere gli oggetti di questa pratica superstiziosamente, come esistenti anche prima

e fuori da essa.

Ma ora è necessaria una precisazione. Come spiega bene Redaelli32

, un conto è

l’abbaglio segnico costitutivo di ogni pratica, un altro conto è quella particolare

forma di abbaglio segnico che è la superstizione. A livello del saper fare c’è abbaglio

segnico, ma non c’è alcuna superstizione: ad esempio la pratica del toccare «si cela a

favore dell’oggetto che in essa si staglia (il mondo “toccato”)»33

, ma

questa rivelazione di mondo, che svela l’oggetto e vela le condizioni del suo

apparire (che invia e svia), si esaurisce nelle concrete circostanze del suo accadere.

L’oggetto del toccare, ad esempio il tavolino «toccato», non è assunto al di fuori

della prassi tattile che lo rivela, ma svanisce non appena ritiro la mano dal tavolo.34

La superstizione propriamente inizia col linguaggio (saper dire), poi si accresce e

rafforza con la scrittura (saper scrivere).

30

Id., Gli abiti, le pratiche, i saperi, cit., p.83. 31

Ivi, p.84. 32

Cfr. Redaelli, E., Il gesto politico, cit., p.89. 33

Ivi, p.90. 34

Ibidem.

16

1.3 Saper dire e la sua superstizione

Con il saper dire dunque inizia la superstizione vera e propria: «la voce […] fa

apparire l’inaudito, pone nel mondo “cose” che prima non c’erano»35

:

Il linguaggio ha la capacità di appropriarsi degli schemi di risposta di tutti i gesti. Li

nomina, li evoca e li rende disponibili all’autocomprensione. Il linguaggio non tocca

nulla e non vede nulla, ma ci consente di impadronirci consapevolmente dello

schema del vedere e del toccare.

Così il linguaggio ridisegna il mondo, e lo fa dal punto di vista dell’«oggettività»

(non mio o tuo) […]. Nel linguaggio nasce quel soggetto universale che ognuno è in

quanto parlato dalla voce. Sicchè ognuno ne acquisisce il «sapere».36

La pratica di parola assume gli oggetti propri di altre pratiche e li «tiene nella

presenza»37

, li nomina (e dunque li porta al mondo) anche indipendentemente dalle

pratiche in cui sono sorti.

Genericamente la mano «sa» come fare; per esempio la mano infantile sa come

afferrare il dito dell’adulto. Così facendo, però, «non sa» che cosa fa e per attingere

questo sapere deve assimilare quella pratica di voce che conduce al linguaggio.38

«La parola ha la capacità di evocare l’assente»39

, dice Sini: posso nominare il

tavolo anche quando ritiro la mano che lo tocca. Ecco che l’abbaglio segnico del

toccare (saper fare), con l’avvento della parola (saper dire), diventa superstizione: la

voce può sempre evocare il tavolo anche al di fuori della pratica del toccare, anche

quando il tavolo non c’è.

Ma cosa accade quando dal saper dire si passa al saper scrivere?

In quanto oggettivato e fissato su un supporto materiale, il segno scritto è l’analogon

di un senso cristallizzato, posto come una realtà «in sé» valida per tutta l’umanità

passata, presente, futura. La pratica di scrittura, cioè, rinvia il soggetto a significati

35

Sini, C., Gli abiti, le pratiche, i saperi, cit., p.33. 36

Ivi, pp.39-40. 37

Ivi. p.35. 38

Ivi. p.47. 39

Ivi. p.36. Sini specifica poi che la cosa della parola è assente anche quando l’oggetto è presente: se

dico «rosa», la rosa è assente anche se ce l’ho tra le mani, perché la voce nomina il concetto.

17

supposti permanenti ed esistenti oggettivamente e universalmente come tali,

generando l’illusione che il loro senso, così determinato, esista da sempre, a

prescindere da ogni circostanza e al di fuori delle concrete pratiche che ne sono

all’origine.40

La scrittura fissa la voce su un supporto, crea nuove “cose”, immobili, che si

conservano immutate nel tempo: il lettore non è più obbligato alla partecipazione

patica propria dell’uditore della società orale, ma può assumere un atteggiamento

distaccato e critico verso ciò che legge, impensabile invece in una società di oralità

primaria41

.

È proprio questo passaggio dal saper dire al saper scrivere, da una società orale

ad una alfabetica, che è tematizzato nella genealogia del pensiero logico che Sini

traccia in vari suoi scritti.

Quali profonde conseguenze ha dunque l’avvento della pratica della scrittura?

Quale è la peculiarità dell’alfabeto rispetto agli altri sistemi di scrittura? Come

influisce l’alfabeto sui saperi che frequentano questa particolare pratica con la sua

particolarissima superstizione?

Ci avviciniamo alla domanda sull’alfabeto come fondamento della mente logica

occidentale.

40

Redaelli, E., Il gesto politico, cit., p.91. 41

«Con il termine “oralità primaria” intendo quella di una cultura del tutto ignara della scrittura e

della stampa.» (Ong, W.J., Oralità e scrittura. La tecnologia della parola, Il Mulino, Bologna 1986,

p.29).

18

CAPITOLO 2

IL CONTENUTO DELLA FORMA

OVVERO UNA GENEALOGIA DEL PENSIERO LOGICO-RAZIONALE

2.1 La sega, l’accetta, il ceppo

Chiestogli in cosa differissero sega, accetta e ceppo, un contadino analfabeta

rispose che sono tutti simili, che «si accordano tutti l’uno con l’altro: la sega segherà

il ceppo, e l’accetta lo romperà in piccole parti. Se bisogna buttare via qualcosa,

butto l’accetta. L’accetta lavora peggio della sega»1.

Questo e altri colloqui, frutto delle ricerche di Aleksandr Lurija tra le popolazioni

illetterate delle repubbliche sovietiche dell’Uzbekistan e della Chirghisia negli anni

Trenta, spiazzano e sorprendono il lettore alfabetizzato occidentale: c’è la sensazione

che «non ci siamo intesi, non parliamo delle stesse cose»2, c’è la sensazione che

qualcosa non vada tra lo psicologo russo e i contadini da lui intervistati.

D’altro canto però, come nota Sini, è «ben evidente che tra Lurija e il contadino

molte cose, pur nel malinteso, sono invece intese e sono comuni»3: è evidente che

«se Lurija chiede al contadino di dargli l’accetta, questi non gli darà la sega o il

tronco»4. Il malinteso nasce da ben altri motivi: si tratta di vedere quali sono.

Walter Ong in Oralità e scrittura riflette su queste ricerche di Lurija, con

l’obiettivo di analizzare la peculiare psicodinamica dell’oralità, evidenziandone le

1 Lurija, A.R., La storia sociale dei processi cognitivi, Giunti Barbèra, Firenze 1976, p.99.

2 Sini, C., Eracle al bivio. Semiotica e filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p.222.

3 Ibidem.

4 Ibidem.

19

differenze con la mente dell’uomo figlio della scrittura. Ong interpreta così le

risposte date dai contadini analfabeti:

i soggetti sembravano non operare affatto mediante processi formali di deduzione; il

che non significa che non fossero in grado di pensare, o che il loro pensiero non

fosse retto dalla logica, ma soltanto che essi non lo adattavano a schemi puramente

logici, i quali sembravano loro privi di interesse.5

Il contadino illetterato secondo Sini, che riprende le riflessioni di Ong, «pensa le

cose nell’unità di una funzione, nell’unità di una pratica, e non ha invece interesse

per gli “schemi puramente logici” e per le definizioni»6: se gli viene chiesto di

raggruppare gli oggetti tra loro simili della serie martello – sega – ceppo – accetta,

risponderà che «se prepariamo la legna per la stufa bisogna scartare il martello, ma se

prepariamo delle tavole, è inutile l’accetta»7. Il contadino continua a guardare quegli

oggetti alla luce delle concrete pratiche per lui essenziali, alla luce delle sue esigenze

giornaliere. Anche i raggruppamenti degli oggetti nella serie, anziché seguire il

criterio razionale della definizione comune di “strumenti”, varieranno a seconda del

fine della pratica che si intende attuare: per la legna da bruciare nella stufa ci

vogliono certi attrezzi, ma per preparare delle tavole ce ne vorranno altri.

Il contadino intervistato da Lurija

guarda all’unità della funzione del tagliare alberi per fare legna. È questa funzione

che conferisce un medesimo senso o aspetto a quegli oggetti. Noi li guardiamo

invece in loro stessi, cioè scissi da ogni attivo averci a che fare entro pratiche

determinate, e dichiararli di uguale aspetto assume per noi il carattere di una

clamorosa falsità. […]

In un senso più profondo bisognerebbe osservare che Lurija e il contadino non

hanno in comune la pratica della scrittura alfabetica. È questa pratica, origine di

5 Ong , W.J., Oralità e scrittura, cit., p.83.

6 Sini, C.,Etica della scrittura, p.31.

7 Lurija, A.R., La storia sociale del processi cognitivi, cit., p.100.

20

ogni sapere scientifico e classificatorio, che ha come suo risultato la produzione di

una «mente logica»8.

Si comprende dunque che per Sini il contadino non è soggetto alla superstizione

della verità logica (effetto della pratica alfabetica); non è soggetto al gesto di Platone

che nel Sofista inaugura la definizione col celebre esempio della pesca con la lenza9.

Certamente anche il contadino è soggetto ai peculiari abbagli e incanti del saper dire:

anche lui parla di quelle “cose” che sono l’accetta, la sega e il ceppo pur standosene

seduto a colloquiare in una casa da tè; ma altrettanto certamente non è soggetto ad un

sapere logico che chiede la forma pura, l’ousìa ultrasensibile.

Per il contadino quegli oggetti non esistono in sé, non hanno un’essenza al di fuori

della loro funzione; e non ce l’hanno proprio perché egli non possiede la pratica della

definizione, che ha il compito di dire tale essenza oggettiva, pura, universale.

Probabilmente gli illetterati dell’Uzbekistan intervistati da Lurija risponderebbero

alle domande di Socrate proprio come gli Ateniesi del V sec.: avrebbero indicato una

persona giusta, anziché definire la giustizia in sé, e proprio come i cittadini ateniesi

non avrebbero compreso fino in fondo il senso (rivoluzionario) delle domande

socratiche.

Ecco dunque che dalla sorpresa per le risposte del contadino analfabeta riaffiora la

domanda genealogica sulle radici del nostro pensare logico-razionale. La logica

(come ogni pratica) nasconde le operazioni che la sostengono: nasconde proprio

quell’infinità di saperi che rendono possibile il suo pensare critico, distaccato e

scientifico. La forma logica, quell’eidos che il contadino uzbeko non riesce a

8 Sini, C., Eracle al bivio, cit., p.223 (corsivo mio).

9 «Sofista, cioè in quel luogo “sacro”, per noi filosofi, nel quale Platone si inventa la definizione, la

logica, la scienza e tutto il resto che ne è derivato» (Id., Idoli della conoscenza, cit., p.92).

21

scorgere al di là della situazione concreta, forse non è proprio così pura come si dà a

vedere.

«Ma ora io ti chiedo: qual è il contenuto di questa forma logica considerata

puramente in se stessa?»10

. È in questi termini che Carlo Sini si pone la domanda

genealogica sui nostri saperi filosofici e scientifici. «Come disciplina eminentemente

formale la logica studia la forma del discorso o del logos, cioè la forma logica; e io

appunto chiedo (anche se ciò può apparire dapprima paradossale) quale sia il

contenuto di questa forma»11

. In altre parole, per Sini «la domanda genealogica

concerne ciò che potrebbe essere o costituire tale “purezza”» formale.

Ora si tratterà di comprendere che la pratica della scrittura alfabetica è proprio

questo “contenuto della forma logica”. Si tratterà di comprendere soprattutto in che

modo questa pratica generi quel suo particolare oggetto che è l’universale, l’in sé,

l’oggettivo; e come generi nel suo rimbalzo il soggetto occidentale razionale, il

soggetto dotato di una mente logica.

Ma per comprendere la rivoluzione e la crisi innescata dall’avvento e dalla

diffusione della scrittura (e in particolar modo di quella alfabetica), conviene volgere

lo sguardo all’oralità primaria: quell’oralità che non ha mai conosciuto la scrittura.

Con le parole di Ong:

Una più profonda comprensione dell’oralità primaria ci permette di capire meglio

anche il nuovo mondo della scrittura, la sua essenza, e come essa influisca sugli

esseri umani ristrutturandone, direttamente o indirettamente, i processi mentali.12

10

Id., Etica della scrittura, cit., p.11. 11

Ivi, p.14. 12

Ong, W.J., Oralità e scrittura, cit., p.119.

22

2.2 Il mondo dell’oralità

«Il mondo della cultura negli ultimi decenni ha cominciato a rendersi conto del

carattere orale della lingua e di alcune implicazioni insite nella differenza tra oralità e

scrittura»13

. Con queste parole inizia Oralità e scrittura di W.J. Ong. Constatazioni

simili fa E.A. Havelock ne La musa impara a scrivere, testo che compendia il suo

percorso di ricerca e come una sorta di autobiografia ne traccia lo sviluppo e i debiti;

egli indica addirittura una data: il 196314

. A questo periodo risalirebbero le

pubblicazioni di autori diversi per disciplina e nazionalità che segnerebbero una sorta

di spartiacque e una nuova coscienza dei complessi rapporti tra oralità e scrittura.

Tale fioritura di studi, secondo Ong, sarebbe stata innescata dalla rivoluzione dei

mezzi di comunicazione come la radio, il telefono e la televisione: questi nuovi

media avrebbero portato ad un ritorno dell’oralità, sebbene di un’oralità che si

innesta in una società già altamente influenzata da scrittura e stampa, un’oralità

definita secondaria o di ritorno15

.

Carlo Sini si confronta con questi studi e ricerche, la sua prospettiva però è

eminentemente filosofica e portatrice di una radicalità nuova: «il problema filosofico

che qui sta sul tappeto non si lascia risolvere con un semplice ricorso a

un’antropologia, a una sociologia o a una psicologia della scrittura»16

. È chiaro che

non si tratta di semplici ricerche culturali, che casomai ci diranno quanto siamo

13

Ivi, p.23. 14

Havelock, E.A., La Musa impara a scrivere, cit., p.32. 15

«una nuova oralità è incoraggiata dal telefono, dalla radio, dalla televisione e da altri mezzi

elettronici la cui esistenza e il cui funzionamento dipendono dalla scrittura e dalla stampa» (Ong,

W.J., Oralità e scrittura, cit., p.29-30). Questa opinione è condivisa anche da Havelock: il quarto

capitolo de La Musa impara a scrivere è intitolato significativamente La radio e la riscoperta della

retorica. Sini è invece di un altro parere, secondo lui è possibile riflettere sull’alfabeto perché al

giorno d’oggi riusciamo a distanziarcene: infatti la scrittura a cui siamo soggetti principalmente non è

più quella alfabetica, ma quella matematica (Cfr. Sini, C., Filosofia e scrittura, cit., p.71-2). 16

Sini, C., Filosofia e scrittura, cit., p.22.

23

“storici”; è chiaro che non si tratta di una semplice presa di coscienza di questi

fenomeni: si tratta di praticare questo nostro abito dell’essere soggetti alla pratica di

scrittura alfabetica17

. Nel pensiero di Sini quella che potrebbe apparire come una

semplice storia della scrittura alfabetica, assume invece un ruolo tutto particolare: se

pensata con la necessaria onestà e coraggio fino alle estreme conseguenze, questa

genealogia costringe ad una torsione del soggetto e delle sue teorie in un’etica, il cui

senso si chiarirà pienamente solo in conclusione del percorso teoretico tracciato da

Sini.

In un mondo di oralità primaria, dunque, l’esperienza del soggetto si conforma in

una maniera del tutto peculiare: per questo le risposte del contadino illetterato ci

scandalizzano, scandalizzano noi, lettori, figli della scrittura alfabetica.

L’evanescenza del suono costringe a conservare le parole dette attraverso la

memoria: questo influisce profondamente sulla forma e sul contenuto di ciò che

viene tramandato, e non da ultimo sulla paideia delle società orali.

Per un fruitore della parola discorsiva

la sua identità umana dipende qui dall’orecchio, per il cui mezzo egli si installa nei

racconti, nelle leggende, nelle genealogie della sua stirpe. Ma il suo uso

dell’orecchio non è il nostro e correlativamente diversa è la sua pratica di parola.18

Sarebbe un errore ritenere che chi vive in una condizione di oralità primaria sia

uguale al soggetto razionale formato dalla scrittura, meno la scrittura; scrittura che

poi gli si aggiungerebbe come un semplice strumento. Intendendo in questo modo il

nesso che unisce e separa oralità e scrittura, le risposte del contadino illetterato ci

17

La critica alla filosofia intesa come cultura filosofica, letteratura è frequente nei saggi di Sini, una

critica estesa all’ermeneutica è presente nel quinto capitolo di Filosofia e scrittura, cit. 18

Ivi, p.28.

24

apparirebbero incomprensibili e frutto di una sostanziale arretratezza e ignoranza di

come stanno le cose nella realtà.

Come nota Havelock bisogna «abbandonare la tesi che parifica la raffinatezza

culturale al grado di alfabetizzazione»19

. La scrittura non rappresenta che un episodio

recente nella storia dell’uomo, apparso solo presso alcune società e in modo non

uniforme:

La scrittura propriamente detta […] fu un’invenzione molto tarda nella storia umana.

L’homo sapiens è vissuto sulla terra circa 50.000 anni, mentre il primo vero esempio

di scrittura, di cui siamo a conoscenza, si sviluppò fra i Sumeri della Mesopotamia

soltanto intorno all’anno 3500 a.C.20

Quella che vuole identificare l’intelligenza umana con l’alfabetizzazione è solo

una «curiosa forma di arroganza culturale»21

.

Si è detto che in un mondo orale la memoria assume un ruolo fondamentale: non

ci sono quegli oggetti immobili, che sono gli scritti, a cui demandare il compito della

trasmissione dei saperi. Gli enunciati da trasmettere devono assumere una forma

“memorizzabile”, cioè si formano utilizzando frasi formulaiche ed appoggiandosi al

ritmo della recitazione. Le composizioni di una società orale saranno quindi in forma

poetica: il ritmo e la metrica aiuteranno il cantore nella memorizzazione.

Anche la partecipazione del fruitore a ciò che ascolta assume caratteristiche sue

proprie: nell’oralità non è possibile un uditore critico, distaccato, al modo del lettore

moderno.

Colui che ascolta, affinché la sua pratica abbia successo, deve tendenzialmente

immedesimarsi con colui che racconta. La sua collocazione non è immediatamente

«critica», ma anzi partecipativa. […]

19

Havelock, E.A., Dalla A alla Z. Le origini della civiltà della scrittura in Occidente, Il Melangolo,

Genova 1987, p.12. 20

Ong, W.J., Oralità e scrittura, cit., p.125. 21

Havelock, E.A., Dalla A alla Z, cit., p.13.

25

Bisognava parteggiare per Achille o per Ettore; non c’era spazio per un

atteggiamento neutrale

e tanto meno per un atteggiamento «estetico» (che è

un’invenzione metafisica per uomini che leggono e che scrivono). L’ascolto è qui

piuttosto «etico», non in senso morale, ma come partecipazione passionale ai destini

pratici dell’uomo.22

La parola dell’oralità «non educa dunque gli uomini al “pensiero”»23

: più

propriamente «questi uomini non “pensano”, non pensano affatto, non frequentano

concetti logici e astratti»24

.

La memoria orale e la sua creatività sono fenomeni collettivi, il cui tratto costante è

la fedeltà alla tradizione (che pure rinnovano). Un uomo della memoria orale non è

un uomo che «ha le sue idee», come noi diciamo.25

La parola orale è patica: dice l’azione e spinge all’azione.

Se uno dice: – via sulle navi, Achei! All’esortazione segue una reazione congrua e

corrispondente. Il significato espresso vive immediatamente in pratiche intelligenti o

in pratiche di senso. Parola e azione non fanno che praticarsi reciprocamente.26

Si comprende bene come in un mondo di oralità primaria non vi sia quella

“separatezza discorsiva” che invece caratterizza il lettore rispetto allo scritto, che gli

si para di contro come un manufatto.

Il pensiero (se di “pensiero” si può parlare) dell’oralità è dunque situazionale e

non astratto: «il linguaggio della narrazione orale parla delle cose in riferimento a ciò

che agisce o patisce: mostra azioni giuste, non la giustizia staticamente definita»27

.

22

Sini, C., Filosofia e scrittura, cit., p.28-9. 23

Ivi, p.29. 24

Ivi, p.30. Con buona pace di Ong che ritiene il contadino pensare in modo logico, solo non

esclusivamente; Havelock invece è vicino alle riflessioni di Sini. Sini riassume così il nesso tra

scrittura e alfabeto: «Si può parlare propriamente, e sensatamente di pensiero solo attraverso la

trasfigurazione del gesto di scrittura, che immobilizza la pratica discorsiva e la traduce in un corpo

solido, visibile separatamente nella sua immobilità, scissa dalla dinamicità acustica in azione» (Ivi,

p.52). 25

Ivi, p.33-4. 26

Ivi, p.53. 27

Ivi, p.32.

26

Non possono non tornare alla mente le risposte del contadino analfabeta: egli non

pensa all’accetta in sé, come se ne starebbe nel mondo delle idee, ma pensa sempre a

delle concrete pratiche di vita intrecciate con le sue necessità vitali.

Scrive Sini, citando Havelock:

La poesia dell’oralità e ancora la tragedia greca mancano […] “di ogni impalcatura

linguistica per l’enunciazione di principi astratti”. Non ci imbattiamo mai in esempi

“di soggetto concettuale collegato a un predicato concettuale dalla copula ‘è’ ”.

“L’espressione proposizionale con la copula in cui cadiamo di continuo è

precisamente ciò a cui Platone voleva che la lingua greca si convertisse, e in questo

sforzo impiegò tutta la sua vita di scrittore”.28

Nel discorso dell’oralità primaria non manca solo la copula, ma anche l’“io” è

assente: l’ascolto dell’uditore è partecipativo, non c’è spazio per un individuo critico,

con idee originali. «Non c’è dubbio che l’“io” fu una scoperta socratica,

un’invenzione del vocabolario socratico, rese “testuali” da Platone e dalla sua

“strategia dell’anima” (che è la nascita stessa della filosofia)»29

. Come dice

Havelock:

può darsi che Achille avesse un «io» nel nostro senso della parola, ma non ne era

cosciente, e se lo fosse stato, non si sarebbe comportato come un eroe del linguaggio

orale, pronto all’eloquio e all’impresa guerresca.30

Volgendo lo sguardo verso quelle società orali primarie, che non conoscono la

scrittura, ecco che

“Le procedure della logica” ci appaiono […] come una scoperta della civiltà della

scrittura, non qualcosa da sempre radicato nella “natura umana”. Cioè si vede che la

forma logica ha un contenuto: qualcosa di contingente e non di universale. O, per dir

meglio, quella particolarità di contenuto che è l’universale stesso.31

28

Id., Etica della scrittura, cit., p.31. 29

Ivi, p.35. 30

Havelock, E.A., La Musa impara a scrivere, cit., p.141. 31

Sini, C., Etica della scrittura, cit., p.36.

27

2.3 La pratica di scrittura

«Nella parola patica la prassi è in primo piano: ravvisare, toccare, indicare,

tracciare: tutto ciò è un far vedere il mondo e un farsi vedere in esso»32

, ma con

l’accadere della scrittura inizia una rivoluzione di questa oralità: dal saper dire si

passa al saper scrivere. Ora, però, non bisogna immaginare due universi discreti,

oralità e scrittura, uno distinto dall’altro: in ogni pratica c’è sempre una solidarietà di

molte pratiche; ogni pratica ha sempre una base empirica, ovvero una sterminata

sinergia di pratiche reinterpretate alla luce dello stacco della pratica presente. Infatti

L’apertura di mondo che è resa possibile dalla voce, dal suo rimbalzo autofonico

costitutivo dell’autocoscienza, non è che venga meno e scompaia entro l’esperienza

visiva e obiettivante della scrittura. Questa apertura continua a permanere con la sua

intenzionalità e il suo fare specifico. Solo che noi la assumiamo, sul piano del

sapere, dal punto di vista della pratica di scrittura, della sua intenzionalità e della sua

logica. Di qui l’ambiguità dei nostri discorsi: non sanno ciò che dicono e non dicono

ciò che sanno, ovvero ciò che fanno.33

E non solo il saper dire viene conservato e riletto alla luce dell’apertura e dello

stacco della pratica di scrittura alfabetica, ma inoltre

nel saper dire, cioè nella voce, è il germe dell’universalità “generica” e della

obiettivazione “logica” (del discorso o del logos). Provenendo dall’esterno e per

tutti, l’udito e la voce vengono appunto esperiti come un “per tutti” (detto a tutti e

detto di tutti); cioè come quello strumento comunicativo per eccellenza che crea

immagini di senso “ideali”, luoghi invisibili, “oggetti” inattingibili, “cose”

inattingibili, ma a disposizione di tutti e per tutti.34

Il mondo dell’oralità entra dunque a far parte dell’empirico della pratica di

scrittura, sicché da un lato senza quello non sarebbe possibile l’evento della scrittura,

32

Ivi, p.74. 33

Ivi, p.40. 34

Ivi, p.74. Sul ruolo della voce nella nascita dell’autocoscienza Cfr. Id., Gli abiti, le pratiche, i

saperi, cit.

28

dall’altro lato tale esperienza sopravvive (seppur reinterpretata) anche nel mondo

della scrittura e della stampa.

Ma perché il saper scrivere comporta un mutamento così radicale? Quali nuovi

orizzonti di senso si aprono con la scrittura?

La scrittura, si è detto, trasforma la parola detta in un manufatto, sempre

disponibile, su cui, per la prima volta è possibile “pensare” e “riflettere

criticamente”: «il lettore non aderisce in alcun modo allo scritto (quanto meno non

deve farlo); non lo contempla e non lo decifra»35

. Ecco che si comprende dove nasce

quella “separatezza discorsiva”

che rende il lettore freddo, distaccato, apatico, in una parola: razionale. La pratica

orale […] è partecipativa: è qualcosa che si consuma sul posto e sull’istante. Lo

scritto invece posso portarmelo a casa e consumarmelo con comodo. La parola si è

congelata in un oggetto che posso scongelare a piacere.36

Il soggetto, allora, è soggetto alla pratica di scrittura, e non soggetto di questa

pratica: «è la pratica di lettura che gli trasmette un abito mentale analitico, distaccato

e logico; in una parola un abito “critico”, in cui sono implicite le possibilità del

dubbio, del ragionare astraente e del giudizio soggettivo»37

. Non è che queste

capacità le possediamo in quanto “uomini”, non fanno parte di una presunta “natura

umana” identica sempre ed ovunque: siamo soggetti razionali, dotati di una mente

logica, proprio perché lettori e scrittori di questa particolare scrittura alfabetica38

.

Ritornano quei «saperi non saputi» da cui si era partiti, quei saperi che rendono

possibile il nostro atteggiamento di dubbio critico e scientifico: dubbio che dubita su

tutto, tranne che sulle operazioni che lo rendono possibile.

35

Id., Filosofia e scrittura, cit., p.42. 36

Ivi, p.44. 37

Ivi, p.45. 38

«Tutte queste “capacità” il lettore non le ha in quanto “uomo”; le ha e le acquisisce proprio in

quanto “lettore”» (Ibidem).

29

La voce pone nel mondo cose nuove, “inaudite”: superstizione del saper dire. La

scrittura fa apparire queste cose come esistenti in sé, oggettive e valide

universalmente: superstizione del saper scrivere.

Per ora si è parlato indistintamente di scrittura e alfabeto, ma quali sono le

differenze e le specificità di ognuna secondo Sini? Qual è il loro stacco rispetto

all’oralità?

Inizialmente «c’è una pratica di parola (come noi la chiamiamo) che non sa nulla

di nomi e di verbi»39

: questa è la voce orale, voce sensuale e patica. «Poi un po’ alla

volta accade, attraverso “stacchi” e sinergie di pratiche innumerevoli, che si viene

imponendo una pratica di scrittura pittografica o ideografica»40

: appaiono “cose” che

prima non c’erano, e ora sono incise e tracciate su dei supporti; se ne stanno lì,

immobili, come delle “cose”, appunto. Attraverso nuovi intrecci di pratiche pian

piano emergono le sillabe (nome improprio, perché così le chiamiamo noi, e

pensiamo subito all’unione di consonante e vocale): nascono i sillabari (come quello

fenicio, da cui spesso si dice derivi l’alfabeto greco). Ma perché sorga la scrittura

alfabetica sono necessari dei profondi mutamenti di prospettiva, sono necessari nuovi

stacchi41

.

39

Id., La scrittura e il debito, cit., p.48. 40

Ivi, p.49. 41

Questo processo che dai pittogrammi conduce alle lettere dell’alfabeto, è parallelo al processo di

“stilizzazione” descritto da Kallir in Kallir, A., Segno e disegno. Psicogenesi dell’alfabeto,

Spirali/Vel, Milano 1994. Tale studio e i suoi risultati sono spesso citati da Sini: in particolare sono

analizzati in Idoli della conoscenza, cit.

30

2.4 L’alfabeto e le sue lettere

Che l’invenzione dell’alfabeto rappresenti una «breccia» rispetto a tutti gli altri

sistemi di scrittura42

, Sini lo ripete svariate volte:

non è dunque affatto vero ciò che ancora si legge in certi manuali: che i greci

presero dai fenici i segni consonantici e vi aggiunsero le vocali. Questi concetti

(vocale, consonante) non esistevano prima di loro. […] I greci fecero un’altra

straordinaria cosa: inventarono le «lettere»43

.

Infatti si è soliti ritenere che i greci inventarono il loro alfabeto prendendo quello

fenicio e aggiungendovi le vocali, per comodità di lettura: le cose, però, non stanno

in questa maniera semplicistica, come dimostra bene Havelock in Dalla A alla Z.

Il fenicio, ed i sistemi semitici occidentali, più propriamente devono essere

definiti dei “sillabari senza vocali”: analizzando la loro logica si comprende la

distanza dall’alfabeto vero e proprio. Se pensiamo che «una lingua è composta di

suoni e non di simboli e lettere»44

, allora ci accorgiamo che questi suoni alla base del

linguaggio sono ciò che noi chiamiamo “sillabe”45

. Si comprende dunque che

il sillabario ha un fondamento empirico molto più reale di qualsiasi sistema

veramente alfabetico, poiché cerca di rappresentare senza troppa ambiguità le unità

vocali del discorso, così come sembrano essere effettivamente emesse dalla nostra

bocca quando le chiamiamo “sillabe”.46

Ciò che fecero i greci non fu la semplice aggiunta delle vocali, bensì, come dice

Sini, l’invenzione delle “lettere”.

42

«quest’invenzione [dell’alfabeto (N.d.A.)] rappresentava una breccia qualitativamente più

importante di tutti i precedenti tentativi di elaborazione di un sistema di scrittura» (Havelock, E.A.,

Dalla A alla Z, cit., p.57). Nei suoi scritti Havelock insiste molto sull’unicità dell’alfabeto greco, e

Sini utilizza spesso queste argomentazioni. Ong, diversamente, non pare porre sostanziali differenze

tra sillabari non vocalizzati (come il fenicio) e l’alfabeto greco vero e proprio (Cfr., Ong, W.J., Oralità

e scrittura, cit., p.131). 43

Sini, C., Filosofia e scrittura, cit., p.38. 44

Havelock, E.A., Dalla A alla Z, cit., p.32. 45

Bisogna prestare però attenzione a non intendere “sillaba” come “consonante+vocale”: «non ci sono

propriamente sillabe prima che emergano, da determinate pratiche di scrittura, le lettere e la loro

distinzione in vocali e consonanti» (Sini, C., La scrittura e il debito, cit., p.47). 46

Havelock, E.A., Dalla A alla Z, cit., p.33.

31

Il sistema greco scavalcò con un balzo sia la parlata sia l’empirismo. Esso concepì il

progetto di analizzare l’unità linguistica nelle sue due componenti teoriche, la

vibrazione della colonna d’aria e le trasformazioni apportate dall’azione della bocca

su questa vibrazione.47

Mentre i sillabari fanno coincidere ad ogni suono un simbolo, con l’alfabeto

avviene un salto verso l’astrazione: il suono viene scomposto in “vocali” e

“consonanti”, che nella loro combinazione possono riprodurre teoricamente tutti i

suoni. Propriamente però le consonanti sono dei segni aphona, senza voce (secondo

la celebre definizione di Platone): «suoni inesistenti», «semplici idee della nostra

mente»48

. «Il sistema greco si mise ad isolare questo suono inesistente e gli fornì una

propria identità concettuale»49

: le consonanti propriamente non hanno nessun suono,

sono mute, e per pronunciarle è necessario appoggiarsi ad una vocale (da qui il loro

nome di “con-sonanti”). Appare dunque è più corretto dire, casomai, che i greci non

aggiunsero affatto le vocali ai sillabari, ma inventarono le consonanti vere e proprie:

come conseguenza di ciò nacquero le lettere in generale. Come riassume Sini,

nell’atto di inventare l’alfabeto, i greci

non guardano l’empiricità della parola parlata, la «sensualità» del nastro fonico […].

Inventano un sistema ideale di classificazione (questo è il nostro alfabeto): essi

«definiscono» le lettere. I greci per primi scrissero suoni che nessuno pronuncia, che

sono «letteralmente» impronunciabili e immaginari, ed è così, appunto scrivendo,

che compirono l’audace salto dell’idealizzazione (essi videro per primi l’idea del

suono). In quanto videro dei suoni ideali, che per sé non suonano, ma sono appunto

«con-sonanti», videro anche le vocali, come suoni d’appoggio e di risoluzione dei

primi.50

È con l’accadere dell’alfabeto, però, che compaiono quelle “cose” che sono le

“vocali” e le “consonanti”, prima non c’era niente di simile alle “lettere”: queste

47

Ivi, p.48. Dove le vibrazioni sono le vocali, mentre le trasformazioni della bocca le consonanti. 48

Ibidem. 49

Ibidem. 50

Sini, C., Filosofia e scrittura, cit., p.38.

32

sono degli oggetti interni alla scrittura alfabetica, che appaiono solo grazie a quello

straordinario gesto che fu l’astrazione dal suono del parlato e la creazione di enti

ideali. «Quella ventina circa di segni che costituiscono l’alfabeto sono la

riproduzione grafico-convenzionale del concetto e dell’idea di lettera, cioè di

qualcosa che di principio nessuno potrebbe pronunciare»51

.

Il segno della ‘A’ è un criterio di classificazione di tutte le ‘A’ empiricamente

pronunciate (ma, si badi, solo ora, in virtù della classificazione, veniamo a «sapere»

che quelle sono appunto ‘A’ […]). La pratica alfabetica spezza la continuità della

lingua, il suo corpo sensuale, e la ricompone, la riaggrega su tutt’altro piano,

attraverso un sistema chiuso di pure relazioni grafico-concettuali.52

L’alfabeto si distanzia ora dalla parola orale, la rigetta, la caccia via dalla città: in

questo senso si deve leggere la critica di Platone alla poesia come strumento della

paideia dei cittadini nella sua polis ideale53

. La poesia è portatrice dei valori della

tradizione, vissuti paticamente e partecipati attivamente: ora il nuovo soggetto

razionale, allevato dalla scrittura, non può che riflettere in modo distaccato, criticare

questa tradizione. La forma poetica era imposta dai problemi della trasmissione dei

saperi in una società orale, ma la scrittura non ha più bisogno di essere memorizzata

perché fissata su un supporto e dunque il ritmo e il metro non sono più necessari:

«l’alfabeto è lo strumento che rende possibile la creazione della “prosa corrente”.

Questo non è solo un fatto stilistico, ma è un evento che apre un nuovo universo di

senso»54

.

La rivoluzione formale dell’alfabeto (determinata dal suo contenuto “letterale”)

incide direttamente sul contenuto di ciò che può essere conservato. Se devo

conservare degli enunciati sul filo della memoria orale, allora il ritmo, il metro,

51

Ibidem. 52

Ivi, p.39. 53

Cfr., Havelock, E.A., La Musa impara a scrivere, cit., p.37. Questa tesi di Havelock è condivisa

anche da Sini: cfr., Sini, C., Etica della scrittura, cit., p.75. 54

Ivi, p.44.

33

l’intonazione, la rima ecc. sono gli strumenti materialmente indispensabili per

favorire la memorizzazione. […]

Con la prosa abbiamo uno strumento di registrazione universale che abolisce la

necessità della memoria, in quanto la materializza, la traduce in una “cosa” che è

idealmente sempre a disposizione per tutti, senza bisogno di particolari sforzi.55

«L’alfabeto non riproduce, piuttosto “spiega” la parola orale, e così ne produce

l’effetto»56

: in questo senso bisogna intendere, dice Sini, la “trascrizione” della voce

nello scritto. La scrittura non è una semplice registrazione del parlato, della voce

dell’oralità:

l’alfabeto […] non trascrive elementi preesistenti, ma li crea. Crea gli elementi

«atomici della scrittura», cioè le lettere. Queste lettere non si riferiscono a elementi

atomici che già esisterebbero nell’oralità. Non ci sono una “a” o una “b” che poi

vengono resi con questi circolini, lineette, puntini, ovvero con segni grafici. Al

contrario sono le lettere che instaurano, per retroflessione, un’analisi atomica del

parlato in accordo con la pratica scrittoria delle lettere.57

Le lettere dell’alfabeto dunque non riproducono i suoni empiricamente percepiti,

ma sono dei «modelli di classificazione della pratica di parola»58

: «le lettere sono

letteralmente “idee inesistenti”, nel senso che non esiste e che non è empiricamente

pronunciabile la “a” scritta, così come ogni altra lettera dell’alfabeto»59

.

Gli effetti di questa particolare “trascrizione” operata dalla pratica di scrittura

alfabetica non sono indifferenti per la voce dell’oralità: proprio qui si cela, dice Sini,

«il segreto e il senso profondo della pratica alfabetica»60

.

«Alla voce “patica”, tipica della pratica dell’oralità, si sostituisce una voce

“logica”, che è appunto il frutto della scrittura alfabetica»61

: questa strana

55

Ivi, p.45. 56

Id., Filosofia e scrittura, cit., p.39. 57

Id., Eracle al bivio, cit., p.213-4. 58

Ivi, p.214. 59

Ivi, p.215. 60

Ibidem. 61

Ibidem.

34

trasformazione avviene in due momenti che però non sono successivi l’uno all’altro,

ma correlativi. Strana trasformazione perché la voce, proprio quella voce che dice e

spinge all’azione (voce patica e sensuale), ora assume i caratteri di purezza e idealità

che le vengono conferiti dall’alfabeto, alfabeto che invece diventa il corpo empirico

di quella voce invisibile: significante sensibile di un significato ultrasensibile.

Dobbiamo individuare qui due momenti. Il momento della desomatizzazione: il

discorso, la voce, perde, per così dire, il suo Leib, il suo corpo-vivente dinamico-

gestuale, patico, evocativo, narrativo, musicale ecc., cioè così come quel discorso si

determinava nelle innumerevoli pratiche dell’oralità. Il momento della

risomatizzazione convenzionale: la voce desomatizzata acquisisce un nuovo corpo

artificiale «univoco», cioè ideale.62

I due momenti di desomatizzazione/risomatizzazione, insiste Sini, devono essere

considerati «come il risultato contemporaneo dell’unico atto di scrittura»63

; nessuna

priorità cronologica, ma simultaneità dei due movimenti:

desomatizzo in quanto risomatizzo convenzionalmente; risomatizzo in quanto

spoglio di ogni «contestualità patica», di ogni «fisicità naturale», il discorso. È così

che si produce la «voce pura», cioè purificata dal pathos dell’oralità, e quindi (che è

il medesimo) è così che si produce il suo corpo empirico artificiale, il suo segno o la

sua traccia grafica: questo tipo di scrittura per questo tipo di voce. D’altra parte:

questo scrivere, puntualizzando la voce nella lettera, la dà a vedere nella sua

convenzionalità, e quindi come corrispettivo della sua idealità pura. La purifico

perché la scrivo (alfabeticamente); la scrivo perché la purifico (idealmente).64

Da questo doppio movimento «nasce il residuo di una voce pura, nel senso di

silenziosa (aneu phone, come dice Platone)»65

: voce ultrasensibile che è ciò che resta

dopo aver trascritto la voce sensuale nel sistema di classificazione ideale

dell’alfabeto. Alfabeto che ora assume su di sé, sulle sue lettere tracciate, tutta la

materialità di quella voce: alfabeto che diventa mezzo e strumento di quella voce

62

Ibidem. 63

Ibidem. 64

Ibidem. 65

Ivi, p.216.

35

pura, suo significante. La lettera uccide e lo spirito vivifica. «Costituendo la lettera

come replica e immagine sensibile di un significato ultrasensibile, l’alfabeto rende

possibile l’idea di una realtà in sé, corrispondente “onto-logicamente” al concetto»66

.

Sini mostra chiaramente, in questa analisi genealogica, come

la voce ultrasensibile […] non è nient’altro che la voce della scrittura, un oggetto

che può incontrarsi solo all’interno e in funzione della pratica di scrittura alfabetica;

una pratica che è nel contempo costitutiva dei soggetti «logici» occidentali che noi

siamo.67

Questa voce pura è infatti «il fondamento stesso di ciò che in Platone sono

l’anima e il concetto»68

: è su questo doppio gesto (desomatizzazione/

risomatizzazione) che «si impianta l’intera episteme occidentale»69

. Gesto che rimane

celato, nascosto proprio dagli oggetti che pone in essere, ma che ora noi siamo in

grado di vedere. Siamo capaci, a questo punto del percorso, di «mettere

compiutamente a fuoco l’operazione e di vedere come da essa scaturisca la voce

pura, la voce ultrasensibile che parla silenziosamente all’anima, e l’anima stessa

come luogo di questa voce, e cioè, finalmente, di vedere il concetto»70

.

D’altra parte, però, se la scrittura vuole apparire come semplice mezzo della voce

ultrasensibile, la sua materialità grafica deve scomparire, deve annullarsi per

mostrare proprio quel senso puro rappresentato dalla voce della scrittura:

è l’alfabeto stesso, per la natura strutturale della sua pratica, che ci cancella, si fa

trasparente, si fa dimenticare sfumando nell’assenza ultrasensibile. La scrittura

alfabetica funziona come una soglia trasparente, come un vetro il più possibile terso.

[…] La scrittura non deve interferire, non deve «far corpo», non deve dar fastidio

alla lettura, ma deve anzi annullarsi in suo favore.71

66

Id., Gli abiti, le pratiche, i saperi, cit., p.55. 67

Id., Eracle al bivio, cit., p.216. 68

Ibidem. 69

Ibidem. 70

Id., Filosofia e scrittura, cit., p.61. 71

Ivi, p.42-3.

36

Al contrario della parola orale, la scrittura non deve portare ad una sua fruizione

partecipativa, ma anzi, deve dileguarsi in favore del messaggio. Ecco che l’alfabeto

emerge nuovamente in tutta la sua particolarità. È con l’alfabeto, presso i greci, che

per la prima volta nasce il lettore universale72

: le scritture degli scribi erano molto

più complesse dell’alfabeto, da scrivere, ma soprattutto da leggere, perché la loro

lettura costringeva a delle scelte fonetiche (cosa che invece l’alfabeto elimina quasi

del tutto). Queste scritture erano molto specializzate: pratiche che si compivano «in

ristretti ambiti esoterici»73

.

Questa pratica di scrittura non veniva propriamente «letta»; è più giusto dire che

veniva «decifrata». Perciò non poteva innescare quel fenomeno, che solo i greci

misero in moto e che culminò nell’era moderna con la diffusione della stampa, il

quale produceva […] un popolo di lettori.74

Nella scrittura alfabetica il lettore non deve fermarsi alla materialità delle lettere,

«colui che legge bene è colui che, per così dire, non legge più, o che non si accorge

di leggere»75

:

l’occhio oltrepassa i segni fonetici, non vi si sofferma e non vi si concentra (non

deve farlo, se appunto vuole leggere “correntemente”). L’occhio usa la scrittura

alfabetica, questo “mezzo tecnico” esemplare, tenendola a distanza, fuori dal fuoco

dell’attenzione. Di qui la particolare “posizione” del lettore (la “separatezza

discorsiva”) e la connessa funzione dell’essere soggetto di questa e per questa

pratica.76

72

Sul ruolo del lettore si è concentrato Illich in Illich, I., Nella vigna del testo. Per una etologia della

lettura, Raffaello Cortina, Milano 1994. L’autore analizza le trasformazioni che durante la Scolastica

avvengono al leggere ed al suo supporto materiale, con la nascita del testo nel senso moderno,

condizione essenziale per la successiva invenzione della stampa a caratteri mobili. Secondo Illich nel

XII sec nasce il testo libresco: Sini, che si confronta direttamente con questo saggio ne Gli abiti, le

pratiche, i saperi, così riassume: «Prima del XII secolo il libro è una registrazione della parola da

ascoltare, una traccia della dettatura fatta dall’autore a viva voce allo scriba. Nel corso del XII secolo

il libro diviene invece uno specchio del concetto, cioè uno schermo sul quale proiettare direttamente,

sia scrivendo che leggendo, i propri pensieri silenziosi» (Sini, C., Gli abiti, le pratiche, i saperi, cit.,

p.62). 73

Sini, C., Filosofia e scrittura, cit., p.40. 74

Ibidem. 75

Ivi, p.43. 76

Id., Etica della scrittura, cit., p.20.

37

Si è compreso ormai che la scrittura alfabetica non registra senza conseguenze la

voce dell’oralità. Con la trascrizione alfabetica del parlato accade un’ulteriore

trasformazione, un ulteriore stacco: la «temporalità della parola epica non è

semplicemente lineare: essa è governata dal ritmo»77

, l’azione non è composta di

unità discrete poste in successione su una linea, ma «ha un senso, che si apre e si

chiude ritmicamente, governato dal fine e dal progetto»78

; mentre «la scrittura

alfabetica iscrive invece i suoi elementi ideali (apatici), depositari di significati

oggettivi e universali (non di sensi), su una linea omogenea»79

.

Dice Sini che questa linea ideale «è costituita di punti omogenei la cui unica

relazione è la successione astratta»80

: che proprio questa linea astratta sia il «tratto

essenziale del logos logico»81

? Che in questa temporalità analitica si nasconda il

segreto della definizione logica, proprio quella definizione che vuole l’essenza

ultrasensibile?

2.5 La “Y” capovolta, ovvero il bivio di Eracle

«Essenza della logica è il tempo, cioè il tempo lineare. Ciò è lo stesso che dire che

essenza della logica è la linea»82

. Il principio di non contraddizione, che sta alla base

della logica, nasce proprio da questa linearizzazione astratta della voce83

:

non si può affermare e negare la stessa cosa; non si può dire “A” e “non A” nello

stesso tempo e nello stesso senso. Questa legge universale del logos “logico” è un

77

Ivi, p.82. 78

Ibidem. 79

Ivi, p.83. 80

Ibidem. 81

Ibidem. 82

Ivi, p.84. 83

« La pratica della linerizzazione dei discorsi è […] la condizione del principio di non contraddizione,

sul quale si fonda la verità pubblica e intersoggettiva a tutti comune» (Id., Eracle al bivio, cit., p.217).

38

principio formale il cui contenuto è la linearità crono-logica della scrittura

alfabetica.84

Ritorna qui il contenuto della forma logica, forma che ora si mostra come

tutt’altro che pura: ciò che costituisce questa purezza infatti non è altro che la

materialità dell’alfabeto. «Nello stesso punto non può stare che una lettera»85

: a ciò si

riduce genealogicamente il principio fondamentale della logica, il principio di non

contraddizione. «Ciò che avete scritto, l’avete scritto»86

. L’alfabeto, come contenuto

della forma, «stabilisce sul piano delle lettere e della linea di scrittura una univocità

topologica sulla quale si modella la struttura dialettica delle idee»87

: i punti della

linea sono omogenei tra loro e discreti, occupano uno spazio che non potrà essere

occupato da altro. Nessuna ambiguità: o “A” o “non A”.

«Spogliandosi di ogni contenuto patico-sensuale, il significato logico non ha

nessun altro contenuto, salvo il suo essere collocato dia-grammaticalmente tramite

una lineare alternativa di “è” e “non è”»88

: questo è il segreto della definizione

filosofica. Proprio la definizione inaugurata da Platone nel Sofista con l’esempio

della “pesca con la lenza”, quella definizione che è l’arte del dialettico (ovvero del

filosofo, e poi successivamente del logico e dello scienziato), ha origine in questa

pratica di scrittura alfabetica.

«La scrittura alfabetica pone in linea il suono della parola parlata; la definizione

filosofica linearizza il loro significato»89

: ecco che la definizione allora «traduce

84

Id., Etica della scrittura, cit., p.84. 85

Id., Eracle al bivio, cit., p.217. 86

Ivi, p.218. 87

Ivi, p.217. 88

Id., Etica della scrittura, cit., p.85. 89

Id., Filosofia e scrittura, cit., p.56.

39

topologicamente (scrivendo: come si potrebbe mai definire senza tracciare

concretamente lo schema?) la linearizzazione puntuale della scrittura alfabetica»90

.

La definizione si scrive, dice Sini, è uno schema che segue l’alternativa del bivio:

o “A” o “non A”. Questo è il bivio di Eracle.

Un mito greco narrava che Eracle fosse l’inventore dell’alfabeto, «che in quel

tempo terminava con la lettera “Y”»91

: lettera che rappresenta graficamente il bivio.

A questo mito si intreccia il racconto di Eracle al bivio del sofista Prodico. Giunto al

ventesimo anno di età, all’efebia (ovvero al passaggio all’età adulta), Eracle si trova

di fronte ad una scelta tra due vie divergenti: «quella della virtù (Areté) e quella della

depravazione (Kakia)»92

. Le due opzioni sono rappresentate allegoricamente come

due donne di differente aspetto: Areté porta ad un buon utilizzo delle tecniche

sociali, mentre Kakia porta all’abuso di queste. Come questo bivio tra Virtù e

Depravazione si collega al bivio rappresentato dalla “Y”?

Scrittura e alfabeto «conducono l’uomo a un bivio in cui ne va del senso della sua

vita, e in particolare della sua civiltà»93

: o un loro uso corretto secondo virtù, oppure

un loro uso distorto secondo depravazione. Per discernere la via corretta, però, è

necessaria «una peculiare sophia, cioè la formazione di una mente dialettica capace

di discriminare il vero dal falso bene […]. A ciò si richiede la philo-sophia»94

. Qui si

colloca l’invenzione di Socrate e Platone: la dialettica. Capovolgendo la “Y” si

ottiene l’immagine dello schema del procedere dicotomico dialettico ( ). Eracle,

l’inventore dell’alfabeto, si trova dinnanzi ad un bivio su come utilizzare la sua

invenzione, bivio rappresentato dalla lettera “Y”: capovolgendo questa lettera

90

Ivi, p.57. 91

Id., Etica della scrittura, cit., p.24. Su Eracle Cfr. anche Id., Eracle al bivio, cit. 92

Id., Etica della scrittura, cit., p.24. 93

Ibidem. 94

Ivi, p.25.

40

Platone risolve l’aporia di Eracle. È il filosofo colui che guiderà nella scelta della

strada da imboccare, proprio perché è solo il dialettico colui che sa qual è il vero

bene e quale non lo è; e lo sa perché sa scomporre le idee secondo la koinonìa ton

genon (la comunanza di generi), assegnando ad ognuna il suo luogo specifico

all’interno dello schema costruito95

.

«Definire non è cogliere intuitivamente chissà quali essenze ultrasensibili […]; il

definire consiste semplicemente nel tracciare linee, nel delimitare, nell’uniformare

linearizzando»96

. Dunque per definire la “pesca con la lenza” bisogna scrivere,

tracciare: «definirla equivale a collocarla entro uno schema di relazioni lineari topo-

logiche, in base all’alternativa secca della dicotomia (o di qua o di là della linea)»97

.

Il diagramma che ne risulta «è la definizione»98

:

Techne

di produzione di acquisizione

mediante caccia mediante cattura

con reti con uncini

dall’alto al basso dal basso all’alto

(fiocina) (pesca alla lenza) 99

95

«Il dialettico attinge l’articolazione vera, che è poi il luogo ideale stesso» (Id., Filosofia e scrittura,

cit., p.58), a differenza del sofista, che usa la logica della scrittura, ma in modo ambiguo e spurio, per

potenziare la voce retorica e patica; il sofista quindi non compie il passo decisivo verso

l’idealizzazione e non raggiunge il luogo puro della definizione, continuando così a fare confusione

sui significati. In sostanza i discorsi doppi dei sofisti sono possibili perché la linearizzazione e la

schematizzazione dell’alfabeto non si sono ancora completate e restano mescolate con l’aspetto

situazionale della voce. 96

Ivi, p.56. 97

Ibidem. 98

Id., Etica della scrittura, cit., p.23. 99

Schema rielaborato da Ivi, p.24.

41

«È così che accadono luoghi puri, elementari, cioè soggetti alla semplice

alternativa del sì e del no, dell’essere e del non essere, dell’identico e del diverso»100

.

Si comprende allora come l’essenza (l’ousìa) sia un oggetto che nasce solo con la

definizione, un oggetto di questa specifica pratica. La definizione è logos tes uosìas

in un senso radicale: è il discorso che dice l’essenza, ma creandola, inserendola nel

reticolo di relazioni topologiche dello schema dialettico.

L’idea, l’essenza, non è una «figura» (né sensibile né ultrasensibile), è uno schema;

è questo schema che si tratta di «vedere» (cioè di scrivere, che è l’unico modo per

renderlo visibile).101

«Confondere i “sensi” significa non aver presenti i luoghi di appartenenza

“ontologica” (topologica) delle parole, cioè in quale punto o snodo successivo della

linea esse vanno collocate»102

: è esattamente questo “errore” che compie il contadino

analfabeta. La sega, l’accetta e il ceppo non sono “simili” perché occupano luoghi

diversi dello schema: il contadino fa confusione su come stanno le cose in sé103

.

Si ritorna alla questione dei saperi e delle pratiche: ora si comprende perché Sini

collocava “anzitutto” l’alfabeto tra i saperi non saputi. L’alfabeto con la sua logica di

scrittura è proprio ciò che rende possibile la mente razionale, salvo che questo venga

poi dimenticato. L’alfabeto, la sua linearizzazione e la voce della scrittura (frutto

della trascrizione alfabetica), sono ciò che rende possibile la dialettica di Platone, e

con la dialettica tutta l’episteme razionale occidentale che da questa deriva. Tale

100

Ivi, p.91. 101

Id., Filosofia e scrittura, cit., p.57. 102

Id., Etica della scrittura, cit., p.87. 103

Un’ operazione parallela all’invenzione della definizione nel Sofista è compiuta da Platone nel

Cratilo, dove viene tralasciato il corpo sensuale della parola, per concentrarsi sull’ousìa, l’essenza

ultrasensibile. Sini riassume così questo gesto epocale del Cratilo (che si intreccia indissolubilmente

con quello del Sofista): «Il nome vero non è ciò che risuona nelle parole; tutt’al più è ciò che risuona

attraverso le parole; e questo è appunto un luogo, un “luogo ideale”, come si esprimeva Platone. Un

luogo, cioè una intersezione: la definizione di un topos, una topologia» (Id., Idoli della conoscenza,

cit., p.110). Sini tratta diffusamente del Cratilo in Id., Idoli della conoscenza, cit.

42

collegamento tra le lettere dell’alfabeto e le idee emerge significativamente (e

paradossalmente) in un paragone che Platone stesso fa nel Sofista; così lo commenta

Sini:

Come il grammatico sa quali lettere devono connettersi per formare le parole e quali

no, […] così il dialettico, cioè il filosofo nella sua consapevolezza logica, sa quali

idee devono combinarsi, e quali no, onde pervenire alla definizione, al logos tes

ousias. La competenza logica è una classificazione degli elementi e delle loro

connessioni. Questi elementi sono come le lettere dell’alfabeto. Oppure sono le

lettere dell’alfabeto?104

Il pensare logico-razionale, come ogni pratica, nasconde le operazioni che lo

pongono in essere, e genera la sua specifica superstizione.

La mente «astratta» (o sempre più astratta) è un prodotto e un effetto del carattere di

«stacco» connesso alle pratiche, in particolare alle pratiche di scrittura in ogni senso

intese; un effetto di rimbalzo o di riflesso. È la pratica dello «scrivere» che fa

astrazione, per la sua stessa natura operativa, e non una mente «astraente»

presupposta; questa è invece il risultato di quella.105

A differenza di ciò che avviene in altre pratiche, però, in questo caso siamo di

fronte ad un paradosso:

Noi pensiamo come universalmente vero ciò che è il prodotto veritativo della nostra

particolare pratica di scrittura; la quale però è produttrice proprio dell’universale e

della verità universale. […] Ecco che la superstizione di una pratica diviene di fatto

l’unica verità frequentabile e possibile e quella particolarità o peculiarità che è la

produzione dell’universale diviene universalmente vera. Vera alla lettera.106

Qui si cela il senso profondo del nostro saper dire: la sua superstizione si espande,

fino ad inglobare ogni altra pratica. Non si tratta semplicemente di astrarre degli

oggetti dalle pratiche che li hanno concretamente posti al mondo; si tratta del fatto

che questo oggetto particolare, frutto di una particolare pratica, è proprio

l’universale. La scrittura alfabetica «non si accontenta di produrre artificialmente

104

Id., Etica della scrittura, cit., p.18. 105

Id., La scrittura e il debito, cit., p.32. 106

Id., Filosofia e scrittura, cit., p.50-1.

43

l’universale come sua “specialità”; poi dice che questo universale è appunto

“universale”, vero per tutti»107

.

Ormai è chiaro il contenuto della forma logica antica. Esso consiste nella

linearizzazione definitoria della voce, nella sua puntualizzazione lineare. Questo

contenuto rinvia a quella grandiosa apertura che fu l’evento del gesto e della pratica

della scrittura alfabetica.108

Nasce così la verità in sé. Questa verità è un oggetto interno alla pratica di

scrittura alfabetica, alla pratica definitoria platonica: verità che viene ricercata e detta

dai saperi razionali e scientifici, saperi che hanno le loro radici nella filosofia, da cui,

pian piano, si sono separati.

Storia e filosofia, fisica e geometria: con l’alfabeto una nuova verità e un nuovo

tempo entrano nel mondo; un nuovo mondo entra nel mondo; e nuove cose, nuove

immagini, nuovi oggetti frequentano la terra. Nuovi uomini.109

Nascono nuovi uomini, «nasce un nuovo soggetto, e anzi proprio il soggetto, con

la sua mente logica e il suo interrogare critico, con la sua anima dubbiosa che guarda

perplessa il suo corpo»110

.

Allora, cosa ne deriva da tutto ciò per la filosofia? La genealogia che Sini traccia

ci dice che la nostra mente logica è un effetto della pratica alfabetica: la verità,

l’essenza, l’in sé, non sono altro che oggetti interni di questa scrittura alfabetica. Sini

ha mostrato che «ciò che sta dietro il problema della logica non è la verità

(manifestativa o assertiva). Ma è l’emergere di quella universalità o purezza che

governa il carattere formale dell’enunciato»111

. I nostri saperi sono allora

superstiziosi («non sanno ciò che dicono e non dicono ciò che sanno, ovvero ciò che

107

Ivi, p.76. 108

Id., Etica della scrittura, cit., p.94. 109

Id., Filosofia e scrittura, cit., p.50. 110

Ivi, p.73. 111

Id., Etica della scrittura, cit., p.26.

44

fanno»112

). È evidente che «non possiamo parlare della pratica della scrittura come se

ne fossimo fuori»113

: ora è dunque necessario

sollevare un’ulteriore domanda che investe il senso stesso di tutto quello che

abbiamo detto. Come abbiamo potuto dirlo? E che senso effettivamente ha il suo

esser stato detto? Quale significato di verità? Abbiamo detto infatti che la filosofia, e

poi la scienza, sono un prodotto della scrittura; […] non è anche questo dire, proprio

nel modo in cui è detto e negli abiti che comporta, un prodotto di quella scrittura e di

quell’alfabeto di cui dice? […]

Come potremmo scrivere o condividere una storia della scrittura se è la scrittura che

ci costituisce come soggetti storici, cioè capaci di scriverla?114

112

Ivi, p.40. 113

Id., Filosofia e scrittura, cit., p.75. 114

Ivi, p.74-5.

45

CAPITOLO 3

ETICA DELLA SCRITTURA.

OVVERO PROVOCAZIONE ED ESPEDIENTE PER UN ESERCIZIO

FILOSOFICO

3.1 Una verità più vera?

La genealogia tracciata da Sini mostra chiaramente che «l’alfabeto è il luogo in

cui si creano i concetti e una lingua concettuale»1: senza alfabeto «nessuna filosofia,

nessuna episteme, nessuna scienza»2. Ma allora che ne è di questo stesso dire, che ne

è della filosofia di Sini? Quale può essere il senso della genealogia, se anch’essa è

una conseguenza della pratica di scrittura?

Sappiamo bene che la nostra scrittura non è venuta dal cielo. Essa, come ogni altra, è

sorta in contesti di pratiche di vita, di espressione e di sapere volta a volta

determinati da quelle che noi chiamiamo funzioni materiali, storiche e sociali.

Quindi la nostra scrittura è un fatto contingente; se il suo influsso sul nostro modo di

intendere la verità è innegabile, allora anche questa verità (e la verità stessa di quel

che stiamo dicendo) è contingente. […] Queste sono appunto «verità» che la nostra

scrittura ci insegna a pensare, sono parte della sua indiscussa potenza ed efficacia, il

tratto caratteristico della sua verità. Proprio per ciò non possiamo fare a meno di

applicarne le conseguenze anche a noi e ai nostri discorsi «scientifici» sulla realtà,

sulla storia e sulla mente.3

Carlo Sini è cosciente delle problematiche che sorgono e non si astiene dal porsi

domande sul proprio lavoro di ricostruzione genealogica: se la verità oggettiva e in sé

è un prodotto della scrittura, quale può essere il senso della verità che la genealogia

1 Sini, C., Idoli della conoscenza, cit., p.117.

2 Ibidem.

3 Id., La scrittura e il debito, cit., p.30.

46

enuncia? Non è anche tutto questo dire figlio della scrittura, proprio di quella

scrittura alfabetica che si vorrebbe smascherare come l’impensato al fondo dei nostri

saperi?

Non bisogna pensare che «la genealogia conosca meglio o conosca qualcosa di

più»4 rispetto alle altre scienze. La genealogia è «una pratica e come tutte le pratiche

istituisce una soglia»5: questa «è la soglia di quella differenza […] che rende visibile

le differenze e che così, in un certo modo, le relativizza. Rendendo visibili le

differenze, non ne assume nessuna come assoluta»6. Allora «la genealogia relativizza

anche se stessa e perciò non si attribuisce in alcun modo un sapere più vero»7. La

genealogia non pretende di parlare da un luogo esterno, panoramico.

Il genealogista non può riedificare l’origine oggettiva […] della scrittura alfabetica;

ma è d’altra parte indispensabile riaffermare e ricordare che non è neanche ciò a cui

il genealogista tende […]. Il filosofo non mira allora alla descrizione di qualcosa di

essenziale, che è in sé e pertanto di conseguenza invisibile, ma piuttosto a tracciare

un’autobiografia del suo gesto.8

Il domandare di Sini, «non domanda di una cosa estranea, ma domanda di quel

che appunto noi siamo, e in questo senso è l’esercizio di una autobiografia della

pratica che stiamo esercitando»9. Il pensiero delle pratiche e le sue genealogie sono

delle pratiche tra le altre, senza uno statuto speciale di diritto: non ci sono “super-

pratiche” che dicono la realtà oggettiva di altre pratiche. Siamo sempre soggetti alle

pratiche e alle loro sinergie; non c’è nessun “fuori”: alla genealogia non spetta allora

il compito di dire verità più profonde (e, d’altra parte, il genealogista ciò non l’ha

4 Id., Idoli della conoscenza, cit., p.201.

5 Ivi, p.202.

6 Ibidem.

7 Ibidem.

8 Aronica, B.A., La genealogia come dinamite. Nietzsche, Foucault e Sini, Albo Versorio, Milano

2011, p.87. 9 Sini, C., Idoli della conoscenza, cit., p.127.

47

mai preteso). Ogni genealogia è dunque «autogenealogia»10

e «auto-bio-grafia»11

:

mira a ricostruire cioè la traiettoria della figura del soggetto attraverso gli infiniti

intrecci di pratiche che sempre accadono e lo plasmano. La genealogia non dice

l’origine in sé, ma parla sempre del soggetto e delle pratiche che questo esercita: al

genealogista interessa «ricomprendere se stesso attraverso la genesi (in questo caso)

della scrittura alfabetica, azione possibile però soltanto grazie al suo e al nostro

essere già inseriti in questa soglia, evento che ci ha messo nella condizione di poter

domandare precisamente in questa maniera»12

. «La genealogia non è dunque un

tentativo di rintracciare l’origine ma un modo di ri-tracciarla che mira non alle

figure così “tracciate” bensì al gesto stesso del tracciare»13

. Ecco che allora non si

esce mai dalle pratiche, e «la pretesa di disegnare il volto degli altri si traduce così, o

si rivela, in realtà, per quello che è: l’esecuzione inconsapevole del proprio

autoritratto»14

.

Si configura una situazione di “attiva paralisi”:

La paralisi è attiva, perché noi continuiamo a interpretare le pratiche (anzi, non

facciamo mai altro), e cioè a dar conto della nostra pratica. È quello che anche qui

stiamo facendo, esercitando bene o male una pratica filosofica: eredi di una

tradizione e di un’infinità di pratiche […]. Attività però paralizzante, perché non

trova il bandolo della propria matassa, ovvero la possibilità di formulare domande

così «pure» e così «radicali» che non siano già compromesse dall’abito del

domandare e dai presupposti che lo accompagnano.15

10

Ivi, p.126. 11

Ivi, p.127. 12

Aronica, B.A., La genealogia come dinamite, cit., p.87. 13

Redaelli, E., Il nodo dei nodi, cit., p.302. Per tali motivi Sini può scrivere frasi come queste,

enigmatiche ed assurde se non lette nel percorso complessivo della genealogia dell’alfabeto:«l’origine,

o la nascita dell’alfabeto è dunque un evento che non è mai accaduto ed è pertanto un falso problema.

Ciò che di fatto accade è che noi retrocediamo il nostro modo di intendere e di praticare questo

oggetto […]. Non possiamo fare diversamente, sicché l’origine dell’alfabeto è sempre propriamente

qui, nel momento, nel luogo e nel modo in cui ne trattiamo.» (Sini, C., La scrittura e il debito, cit.,

p.43). 14

Sini, C., Eracle al bivio, cit., p.231. 15

Ibidem.

48

Ogni dire della filosofia è già compromesso perché si fonda su una sterminata

antichità di pratiche con i loro incanti e le loro superstizioni: «si consuma ogni

pretesa di un fondamento fondante e di ogni pratica del fondare»16

.

Ma allora, come leggere ciò che Sini scrive nei suoi libri? Come bisogna intendere

il senso delle genealogie e, in ultima istanza, la stessa filosofia di Sini?

3.2 Doppio sguardo e doppia lettura

La genealogia della mente logica ci ha detto che il pensiero logico-razionale,

scientifico e critico, è frutto della scrittura alfabetica; che il concetto, la verità in sé,

sono oggetti della pratica alfabetica. Ma allora, che ne è di questo stesso dire

genealogico, che procede in modo razionale, per concetti, enunciando verità?

Carlo Sini spesso incita il lettore all’attenzione, alla riflessione sulle conseguenze

profonde di ciò che dice e scrive17

: davanti ad una genealogia che mette in

discussione il fondamento di tutta l’episteme occidentale non si nasconde al

paradosso, ma anzi, vi si espone.

Vi sto chiedendo di praticare un esercizio impossibile. Da un lato vi chiedo di

ascoltare fedelmente ciò che vi sto dicendo; ma dall’altro vi chiedo anche di non

fidarvi, di non affidarvi interamente a ciò che vi viene detto: che bisogna seguire lo

svolgimento logico dei significati, ma anche, attraverso questi, osservare la trama

della pratica di scrittura che governa e fonda i significati stessi. Presi da questo

paradosso, riproponiamo la domanda: che significa scrivere? […] È evidente che

non ci servirà a nulla, a questo punto, elaborare teorie sulla scrittura filosofica, teorie

che già la presuppongono. Dobbiamo entrare nel cuore della pratica stessa per

16

Ivi, p.232. 17

«Lettore, apri gli occhi.» (Id., Etica della scrittura, cit., p.18).

49

tentare un esercizio, per quanto paradossale e impossibile, che ci addestri a quel

doppio sguardo che qui è richiesto.18

Il doppio sguardo a cui Sini incita il lettore è ciò che Redaelli definisce «doppia

lettura»19

: una prima lettura si concentrerà sui significati, sulle teorie; la seconda

lettura rivolgerà invece l’attenzione all’evento, cioè alla pratica ed ai soggetti che

essa produce.

In sostanza si tratta di non cedere e di non accettare la superstizione della

genealogia stessa. Superstizione, si è detto, è considerare gli oggetti come esistenti

indipendentemente dalle pratiche che li hanno concretamente posti in essere: compito

della genealogia era proprio ricondurre questi oggetti alle pratiche in cui sorsero. Ma

anche la genealogia può creare una sua peculiare superstizione: credere che essa dica

la verità in sé degli altri saperi, che quella indicata sia l’origine oggettiva, il reale che

le altre pratiche mistificano. Si è già specificato che il genealogista non mira a

questo, ma mira invece a ricomprendere autobiograficamente il suo gesto: dire

questo, però, non basta. Così si resta sul piano del significato e si rischiano di

pronunciare parole a cui non corrisponde nessun senso, ovvero, pragmaticamente:

nessuna azione. E tutto resta come era prima. È necessario praticare quel dire, far

corrispondere ad esso un abito, un ethos. Questo praticare la genealogia come abito

inizia con la “seconda lettura”.

La seconda lettura […] disarticola l’andamento «teorico», inteso come «visione

pan-oramica» (descrizione oggettiva della realtà o di uno stato di cose) e ne cancella

la forma del «saggio». Sicché le opere di Sini assumono piuttosto la forma del

18

Id., Teoria e pratica del foglio-mondo. La scrittura filosofica, Laterza, Roma-Bari 1997, p.173. 19

Cfr., Redaelli, E., Il nodo dei nodi, cit., p.302, e Id., Il gesto politico, cit., p.98, dove Redaelli

analizza gli shifter, elementi linguistici che hanno significato solo in relazione all’istanza di

enunciazione che li contiene, paragonandoli all’operazione di seconda lettura dei testi siniani.

50

manuale di ginnastica, le cui proposizioni vanno intese in senso etico-pragmatico,

ovvero pratico-operativo.20

Dopo una prima lettura che si concentra sulle “cose” dette, nella seconda lettura si

tratta di lasciar cadere i significati messi in opera dalla genealogia, per concentrarsi

sull’evento di questi significati, sul gesto di scrittura che li traccia, sulla pratica che,

accadendo, li fa accadere.

Quello che si attua è un mutamento degli interessi: «mutamento in cui il soggetto

della pratica filosofica rivolge l’attenzione non più ai significati (agli oggetti della

pratica che frequenta), ma alla prassi che li mette in opera e che egli sta

esercitando»21

. Il lettore deve «riprendere il testo daccapo e ricondurre tutti i

significati, che esso ha via via inanellato, all’evento della pratica che li ha posti in

essere»22

. Viene così meno la superstizione, perché gli oggetti sono ancorati alle

pratiche di vita, di parola, di scrittura, che li hanno prodotti: si tratta di non celare le

concrete operazioni che rendono possibili quei significati.

Si comprende allora come l’obbiettivo di questa seconda lettura sia forzare il

soggetto ad un mutamento della postura: nessun significato e nessuna teoria, ma

l’instaurazione di un ethos. La pratica si era chiarita come quello svelare (l’oggetto)

che vela (se stessa come evento trascendentale): il doppio sguardo a cui spingono i

testi siniani ha lo scopo di “stanare” la pratica nel momento in cui essa vela se stessa.

Tutto questo ha il fine di tracciare l’autobiografia del soggetto attraverso le pratiche a

cui è soggetto: si scova la pratica dietro gli oggetti proprio perché in questa pratica si

cela il segreto del soggetto.

20

Id., Il nodo dei nodi, cit., p.303. 21

Ivi, p.302. 22

Id., Il gesto politico, cit., p.102.

51

Ecco che allora ciò che interessa dei testi di Sini, delle sue teorie (anche della

genealogia della mente logica che qui si è delineata), è il mutamento che producono

nel soggetto, la postura che instaurano:

La genealogia è da Sini intesa e messa in opera come un esercizio. I percorsi

genealogici che egli traccia non vanno perciò letti dal lato del significato, ma dal lato

dell’evento, non per ciò che esse sembrano «voler dire» ma per ciò che essi fanno

accadere.23

E ciò che accade è un nuovo ethos, un nuovo abitare le pratiche a cui sempre

siamo soggetti: per questo il senso della seconda lettura è quello di mostrare

l’operare delle pratiche che costituiscono i significati del testo, per far apparire il

soggetto come polo di condensazione e rimbalzo di tali pratiche, oggetto interno ad

esse.

3.3 Etica della scrittura

La sospensione dei significati genera un nuovo abito del soggetto, abito che

assume la forma di un esercizio etico: «mettere il sapere in esercizio significa non

“congelare” le sue “figure” in una “stabile dimora” […], ovvero non ipostatizzarle e

idolatrarle, ma attraversarle e lasciarle svanire a favore dell’ethos che con esse e per

esse si apprende»24

.

In Variazioni sul foglio-mondo, Sini fa un esempio molto chiaro:

23

Id., Il nodo dei nodi, cit., p.302. 24

Ivi, p.304.

52

25

È evidente che questa scrittura (un manuale di ginnastica?) descrive un esercizio:

quel che qui è scritto non ha nulla a che vedere con la verità in senso comune. Si

impartiscono ordini e istruzioni; non si asserisce qualcosa su uno stato di cose. La

verità di questa scrittura è di altro ordine: essa è «pratica», cioè allude all’evento di

una pratica ed esige di esser posta in pratica. Ciò che questa scrittura rende noto non

ha valore per ciò che rende noto (che il braccio è alzato ecc.), ma perché ciò che

rende noto allude a un esercizio da mettere in pratica.26

Vi è allora in Sini la necessità di trovare una scrittura che non si celi dietro le cose

scritte (che non si veli e che non svii da sé), ma che al contrario si mostri come

compito da svolgere, ancorando il soggetto alla pratica ed al gesto che lo costituisce:

scrittura che abbia valore non per i significati che rende noti, ma per l’esercizio a cui

allude. Questo è il «foglio-mondo»: «luogo di scrittura in cui il gesto filosofico non

si cancella dietro i segni dell’alfabeto, ma anzi si esibisce e si mostra, si manifesta e

si rappresenta. Scrittura etica che potremmo immaginare come archivio infinito e

genealogia illimitata di tutte le nostre scritture, di tutte le nostre pratiche»27

.

Il lavoro di trascrizione delle altre pratiche in fogli-mondo assume i caratteri di un

esercizio etico che si configura «come un approfondimento (e un’esibizione) entro

25

Sini, C., Fabbrichesi, R., Variazioni sul foglio-mondo. Peirce, Wittgenstein, la scrittura, Hestia,

Como 1993, p.111. 26

Ibidem. 27

Sini, C., Filosofia e scrittura, cit., p.121.

Si alzi il braccio destro, il sinistro

lungo la gamba, i piedi uniti, la testa

normalmente eretta, il respiro regola-

re, il corpo composto ma non rigido.

53

l’evento della scrittura»28

. Foglio-mondo impossibile: «esso non designa un’opera,

quanto piuttosto un’assenza d’opera. Come tale è un esercizio in cui è messa in opera

una trascrizione infinita». Nell’improduttività del foglio-mondo (nel suo non arrivare

mai a completarsi, a concludersi) è da scorgere però «la produttività etica stessa che

si rivolge al soggetto e lo pone in esercizio, secondo la libertà dell’evento»29

. A

questo punto è ovvio che la trascrizione operata non ha il compito di raggiungere un

sapere più alto: non è questo che vuole il foglio-mondo.

L’esercizio etico della trascrizione delle pratiche non ha il senso di “dire la verità”

delle pratiche, o di dire una verità più alta. Nell’etica del pensiero la figura della

verità […] è dileguata […]. La verità è ora una figura finita della pratica, cioè di

pratiche determinate […].

La trascrizione è come un esercizio che renda altrimenti disponibile il nostro corpo e

l’abitare del nostro corpo. Essa infatti muta la nostra collocazione nelle pratiche che

esercitiamo e che si esercitano attraverso di noi. […] L’esercizio etico ha il suo fine

in se stesso; cioè è una pratica sapienziale, una “iniziazione” del soggetto.30

Il senso della «rivoluzione etica»31

è uno spostamento dalla verità, all’abitare32

:

non si tratta di uscire dalle pratiche, «non si tratta di abolire l’alfabeto; si tratta di

starci nella maniera giusta, cioè di assumerlo come formazione del soggetto, o etica

del soggetto, e non come strumentalità pacifica e organo della verità in sé e per sé»33

.

Si tratta di abitare i luoghi dell’episteme occidentale (e primo fra tutti l’alfabeto)

28

Id., Etica della scrittura, cit., p.178. In Id., Filosofia e scrittura, cit., p.149-155, è trascritta la

risposta di Sini ad una domanda di Vincenzo Vitiello sui rapporti tra foglio-mondo e pittura, pratica

che mostra il proprio gesto, invece di celarlo come l’alfabeto. Sini dice ci essersi cullato

«nell’illusione che il foglio-mondo potesse contenere anche elementi iconici», scardinando la linearità

magari disponendo altrimenti la scrittura sul foglio, con l’obbiettivo di superare la sua strumentalità.

Ma per Sini in ultima analisi foglio-mondo non significa uscire fuori dalla scrittura alfabetica: «non si

tratta affatto di immaginare semplicemente nuovi mezzi di scrittura, per così dire entro l’uso

tradizionale dei vecchi. Si tratta di disporsi entro la possibilità […] che la parola scrittura finisca per

significare un’altra cosa». 29

Id., Filosofia e scrittura, cit., p.122. 30

Id., Etica della scrittura, cit., p.178. 31

Cfr., Id., Filosofia e scrittura, cit., p.118: «dove “etica” non significa ovviamente “morale”». 32

Cfr., Ivi, p.149-150. 33

Ivi, p.146.

54

come occasione per un esercizio filosofico del soggetto. L’etica della scrittura è

proprio questa «trasformazione profonda della figura dell’essere soggetto»34

:

l’etica a cui qui ci si rivolge è ciò che concerne l’abito e il costume […]. Abito che

non è propriamente «pratico» se con ciò si intende la mera strumentalità del fare. la

rivoluzione etica non è semplicemente una prassi, come non è semplicemente una

teoria. Non è una teoria o una superteoria delle pratiche (che sarebbe un puro non-

senso […]) e non è una normativa per l’azione.35

Doppia lettura, esercizio “ginnico”, foglio-mondo: è chiaro che l’obbiettivo dei

“percorsi” tracciati da Sini è «quello di produrre una certa “postura” nel soggetto»36

.

L’etica del pensiero, il suo esercizio, riscrive il soggetto (come esempio per l’abitare

di tutti). […] Perché il soggetto che tu sei, che noi tutti siamo, sempre e non altro è,

ed è stato, se non questo: un essere soggetto a, cioè soggetto all’intreccio delle sue

pratiche che lo conformano e lo plasmano come loro oggetto. Sicché noi ignoriamo

cosa significhi, o possa significare, essere soggetti di, soggetti delle nostre pratiche

nell’avvertita presenza del loro evento.37

Ecco che ritorna la questione dei saperi saputi e non saputi. Il filosofo che si

vantava del suo socratico sapere di non sapere ha scoperto che al fondo del suo

atteggiamento dubbioso e critico si celano in realtà molti saperi misconosciuti: ha

scoperto che il suo è un non sapere di sapere. Questi saperi non saputi sono le

pratiche che rendono possibile il dubbio socratico, all’apparenza così provocatorio,

ma fondamentalmente superstizioso. Superstizioso perché ignora che la forma pura,

su cui si basa la mente logica e il pensiero razionale, ha un contenuto molto “impuro”

e contingente: l’alfabeto. La genealogia tracciata da Sini ci ha mostrato come proprio

la pratica di scrittura alfabetica sia l’operazione e il gesto da cui diviene possibile

ragionare in modo logico, per concetti, enunciando verità in sé sulla realtà.

34

Ibidem. 35

Ibidem. 36

Redaelli, E., Il nodo dei nodi, cit., p.305. 37

Sini, C., Etica della scrittura, cit., p.180.

55

«Il sapere di non sapere socratico ora si muta in un peculiare non sapere di sapere

(in un ethos del sapere peculiare). Esso ha la sua peculiarità in ciò: che è un non

sapere di sapere saputo»38

. L’etica della scrittura ci invita ad abitare in una nuova

modalità il luogo del nostro essere soggetti all’alfabeto e alle sue superstizioni: non

una pratica acritica, né una critica della critica. Nel primo caso si tratterebbe del non

sapere di sapere del senso comune, che pratica le sue pratiche senza badare alla

sterminata catena di saperi che sorreggono e rendono possibile proprio quel senso

comune; nel secondo caso si tratterebbe di un sapere di non sapere che però non fa

questione del suo stesso gesto, ovvero che è tanto più soggetto all’alfabeto e ai sui

incanti, quanto più crede di allontanarvisi39

.

Allora bisogna abitare le pratiche nel modo del non sapere di sapere saputo, e il

fatto che «il non sapere quel sapere che l’apertura rende possibile venga finalmente

“saputo”, non significa che esso divenga “oggetto” di sapere»40

: se così fosse

saremmo ancora soggetti alle superstizioni dell’alfabeto e delle altre sinergie di

pratiche (che nascondono il nuovo gesto con cui svelano i vecchi incanti). «Il

“saputo” è tale solo in quanto abitato: in quanto ti esponi consapevolmente all’invio

del tuo stesso non sapere che produce e che fa»41

.

La trasmutazione etica che si esercita «dubitando del dubbio (mettendo in

questione il soggetto del domandare e del dubbio)»42

non domanda più per sapere e

per ottenere una risposta:

la trasmutazione coglie proprio l’abito stesso nel suo stesso esercizio, poiché ora

l’interesse non è rivolto al sapere e alla risposta, a questi «oggetti» già «decisi», ma

al soggetto che domanda e che si tiene sospeso nella domanda per la domanda; cioè

38

Ivi, p.171. 39

Cfr., Ivi, p.170-171. 40

Ivi, p.173. 41

Ibidem. 42

Id., Filosofia e scrittura, cit., p.120.

56

al soggetto che è soggetto alla domanda e che così finalmente si vede e si abita in

uno spazio, in un frammezzo, in un transito di libertà.43

Se la domanda socratica che chiede l’essenza (l’ousìa) è possibile solo all’interno

della scrittura alfabetica e delle sue logiche, non ha senso domandare di questo

domandare, dubitare di questo dubbio, per avere delle risposte: le risposte sono già

decise dalla pratica alfabetica. E l’etica della scrittura invita proprio a questa torsione

dello sguardo filosofico: sguardo da rivolgere al soggetto (sempre in quanto soggetto

a).

Allora il soggetto è

Luogo, occasione e istanza di «esercizio»: là dove il soggetto, non rinnegando nulla

del suo destino e del suo trovarsi già sempre deciso, va appunto ad abitare il suo

destino e ne fa luogo della sua formazione etica, e non soltanto della sua

informazione critica.44

L’esercizio «come ogni esercizio, trova il suo senso ultimo non altrove che nella

sua applicazione»45

: «ci siamo dati le nostre mappe, ma dobbiamo anche saperle

abbandonare a loro stesse e cioè saperle abitare come transiti di quella pratica,

eminentemente transitoria, che è la pratica filosofica»46

. Allora tutte le scritture che

si sono succedute, tutte le parole e le altre «diavolerie»47

, non sono altro che

espedienti: «espedienti per suggerire un itinerario a ritroso del significato che

risalisse l’alveo della nostra pratica in direzione del suo irraffigurabile evento»48

.

Il tema delle pratiche, come uno specchio, non pretende di restituire l’immagine

reale (immagine reale che del resto non esiste), «ma come lo specchio è un

43

Ibidem. 44

Ibidem. 45

Redaelli, E., Il nodo dei nodi, cit., p.334. 46

Sini, C., Teoria e pratica del foglio-mondo, cit., p.226. 47

Ibidem. 48

Ibidem.

57

espediente pratico di controllo»49

: l’etica della scrittura dunque non è altro che un

inganno: «occasione, circostanza, provocazione etica»50

.

Quello di Carlo Sini si delinea dunque come «un insegnamento interamente etico,

volto cioè a produrre un ethos, un abito, una prassi. Non dottrine, né teorie»51

: tutte le

“diavolerie” richiamate nei testi da Sini vengono a cadere, per lasciare spazio al

filosofo ed al suo esercizio.

Per dirla con le parole di Sini: «l’essenziale è che non ci dimentichiamo […] che

noi non possiamo esserci, come filosofi, senza l’esercizio: senza l’esercizio ripetuto

della verità, ovvero senza l’autoiscrizione del soggetto nella verità dell’evento»52

.

49

Id., Filosofia e scrittura, cit., p.148. 50

Ibidem. 51

Redaelli, E., Introduzione, p.9, in Id., Il filosofo e le pratiche, cit. 52

Sini, C., Gli abiti, le pratiche, i saperi, cit., p.96.

58

BIBLIOGRAFIA

Testi di Carlo Sini:

Sini, C., Pensare il progetto, Tranchida, Milano 1992

Sini, C., Fabbrichesi, R., Variazioni sul foglio-mondo. Peirce, Wittgenstein, la

scrittura, Hestia, Como 1993

Sini, C., Filosofia e scrittura, Laterza, Roma-Bari 1994

Sini, C., Gli abiti, le pratiche e i saperi, Jaca Book, Milano 1996

Sini, C., Teoria e pratica del foglio-mondo. La scrittura filosofica, Laterza, Roma-

Bari 1997

Sini, C., Idoli della conoscenza, Raffaello Cortina, Milano 2000

Sini, C., La scrittura e il debito. Conflitto tra culture e antropologia, Jaca Book,

Milano 2002

Sini, C., Il gioco del silenzio, Mondadori, Milano 2006

Sini, C., Eracle al bivio. Semiotica e filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2007

Sini, C., Etica della scrittura, Mimesis, Milano 2009

Altri testi:

Aronica, B.A., La genealogia come dinamite: Nietzsche, Foucault, Sini, Albo

Versorio, Milano 2011

59

Brovelli, L., Figure della distanza. La proposta teoretica di Sini e Vitiello, Tesi di

Laurea magistrale presso l’Università degli studi di Milano, A.A. 2008-2009

Havelock, E.A., Dalla A alla Z. Le origini della civiltà della scrittura in Occidente,

Il Melangolo, Genova 1987

Havelock, E.A., La Musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo

dall’antichità al giorno d’oggi, Laterza, Roma-Bari 1987

Illich, I., Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Raffaello Cortina,

Milano 1994

Kallir, A., Segno e disegno. Psicogenesi dell’alfabeto, Spirali/Vel, Milano 1994

Lurija, A.R., La storia sociale dei processi cognitivi, Giunti Barbèra, Firenze 1976

Ong, W.J., Oralità e scrittura. La tecnologia della parola, Il Mulino, Bologna 1986

Platone, Sofista, in Platone, Opere complete, vol.2, Laterza, Roma-Bari 1982

Platone, Cratilo, in Platone, Opere complete, vol.2, Laterza, Roma-Bari 1982

Redaelli, E., Il nodo dei nodi. L’esercizio del pensiero in Vattimo, Vitiello, Sini,

Edizioni ETS, Pisa 2008

Redaelli, E. (a cura di), Il filosofo e le pratiche, CUEM, Milano 2011