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La poetica della Merope nella Drammaturgia Amburghese di Lessing. Pubblico e catarsi

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«MAI NON MI DIERO I DEI SENZA

UN EGUAL DISASTRO UNA VENTURA»

La Merope di Scipione Maffei nel terzo centenario (1713-2013)

a cura di

Enrico Zucchi

MIMESIS

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) [email protected]

Collana: L’ippogrifo, n. 2Isbn: 9788857528915

© 2015 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383Fax: +39 02 89403935

indice

presentazione di Guido Baldassarri ed elisaBetta selmi 7

premessa di Beatrice alfonzetti 9

i i modelli della MEROPE

e la MEROPE come (anti)modello

alla ricerca di una tradizione moderna: attraverso le MEROPi del teatro italiano 15 di Elisabetta Selmi

da voltaire a manzoni. staGioni critiche della MEROPE di scipione maffei 49 di Gian Paolo Marchi

MEROPE nell’ottocento 75 di Stefano Verdino

ii il “teatrale” della MEROPE

contro scipione maffei a proposito del FEMia sEntEnziatO e del tEatRalE maffeiano 91 di Stefano Locatelli

marGherita Boccapaduli: dalla MEROPE al tEatRO italianO del 1784 113 di Valentina Varano

diderot, Goldoni, Barone 131 di Piermario Vescovo

la poetica della MEROPE nella DRaMMatuRgia aMbuRghEsE di lessinG. puBBlico e catarsi 149 di Paolo Scotton

iii il proBlema della forma traGica

della MEROPE

la traGedia deGli inverisimili. Girolamo tartarotti critico della MEROPE maffeiana 169 di Corrado Viola

stile e metro della MEROPE di scipione maffei 199 di Tobia Zanon

l’irraGionevolezza della MEROPE nelle OssERvaziOni di domenico lazzarini 215 di Enrico Zucchi

postfazione di aGostino contò 235

✹�

LA POETICA DELLA MEROPE NELLA DRAMMATURGIA AMBURGHESE DI LESSING.

PUBBLICO E CATARSIdi Paolo Scotton

-tazioni alla Merope di Scipione Maffei fu seguito quasi immediatamente da

-tiva dimensione continentale. Anche solo considerando il suo primo anno di vita come testo a stampa, vale a dire durante il solo 1714, le edizioni di tale testo furono ben quattro e, a quanto riportato da Gotthold Ephraim Lessing – sul cui rapporto con tale opera si dirà nelle pagine che seguono – nei sedici anni successivi se ne poterono contare circa trenta in Italia, a Vienna, Parigi e Londra1, con relative traduzioni e rimaneggiamenti come quello, ben noto e assai discusso, da parte di Voltaire.

Di tale ampia e duratura fortuna ci offre una preziosa testimonianza lo stesso Lessing attraverso la sua Hamburgische Dramaturgie, vasta ed ar-ticolata rassegna teatrale con la quale egli si proponeva di accompagnare con periodici interventi critici l’avventura sperimentale del Nationaltheater

principiata nel 1767 sotto gli auspici della ricca città anseatica. Un progetto -

mento, animato dalla viva convinzione che potesse avere una preziosa fun-zione anche pedagogica nei confronti di un pubblico in via di formazione.

Le pagine dedicate a Merope all’interno di questa rassegna teatrale si articolano perlomeno secondo tre differenti livelli che si potrebbero sintetizzare nei termini sommari di «avversario», di un «suolo» e da ultimo di un «sottosuolo»2. In primo luogo, l’«avversario» con il quale

1 G. E. LESSING, Hamburgische Dramaturgie, in ID., Werke, IV. Dramaturgische Schriften, hrsg. von K. Eibl, Darmstadt, Wisseschaftliche Buchgesellschaft, 1996, p. 420, trad. it. Drammaturgia d’Amburgo, a cura di P. Chiarini, Roma, Bulzoni, 1975, p. 195, da qui in avanti LESSING, DdA.

2 Questa distinzione fu operata con riferimento a problemi non solo di natura estetica ma con interesse ben più generale riguardante l’interpretazione delle motivazioni e dei fini che animano l’attività intellettuale, da parte del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset. Cfr J. ORTEGA Y GASSET, ¿Qué es filosofía?, in Obras Completas, Madrid, Edición Fundación José Ortega y Gasset Centro de

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Lessing polemizza nel corso di tale scritto è senza dubbio Voltaire, il cui rifacimento dell’opera di Maffei appare al tedesco come una copia, se non peggiore della precedente, certo nemmeno migliore di essa3. La «base» da cui prende le mosse il suo intero ragionamento è inve-ce costituita proprio dalla tragedia dello scrittore veronese, mentre il «sottosuolo» di cui vi è traccia all’interno testo, in questa come in altre sezioni4, è da ultimo dato dal costante confronto con la Poetica di Aristotele, testo ritenuto indispensabile per qualsiasi riflessione sul senso del tragico.

Il primo di questi aspetti che compone il ragionamento del drammaturgo

Marchi nel suo scritto precedente5 – non sarà ora preso in considerazione; si cercherà invece di concentrare l’analisi in particolar modo sulle altre due componenti che si sono qui delineate, nel tentativo di coglierne la pregnan-za in riferimento alla portata anche teoretica che animò l’analisi dell’opera maffeiana da parte di Lessing.

Innanzitutto, la costante presenza del sottosuolo aristotelico non può certo sorprendere, dal momento che le speculazioni del filosofo greco erano considerate imprescindibili per la comprensione del genere tra-gico, seppure non per questa ragione acriticamente accettate. Di ciò dà testimonianza il fatto che, volente o nolente, pure lo stesso Maffei dovette confrontarsi con questo testo e con le regole che, a partire da esso, andarono stabilendosi sino a costituire un vero e proprio canone

Estudios Orteguianos, 2004-2010, VIII. Revista de Occidente, 1958. Sembra in questo caso che tali categorie riescano a restituire in maniera quanto mai effica-ce la struttura generale delle pagine dedicate da Lessing all’opera del dramma-turgo veronese.

3 Cfr. LESSING, DdA, p. 178: «Ho detto che la Mérope di Voltaire è stata ispirata dal-la tragedia omonima del Maffei; ma “ispirata” significa troppo poco giacché quel-la deriva completamente da questa» e ivi, p. 232: «Dunque diciamo che Voltaire si è qui dimostrato semplice traduttore e imitatore del Maffei, non perché abbia trat-tato il medesimo argomento, ma perché l’ha trattato alla stessa maniera». Unica nota positiva che Lessing riscontra nella versione del dramma di Voltaire è quella legata all’eliminazione di uno dei tentativi di Merope di uccidere il proprio figlio.

4 Lessing stesso in una famosa lettera a Moses Mendellsohn confessò a quest’ulti-mo di voler scrivere al termine della sua Drammaturgia e quale suo naturale com-plemento un commento alla Poetica di Aristotele, progetto, come noto, mai realiz-zato. Il carteggio tra Lessing, Mendellsohn e Friedrich Nicolai è contenuto in Briefwechsel über den Trauerspiel, in G. E. LESSING, Werke, IV. Dramaturgische Schriften, cit., pp. 153-228.

5 G. P. MARCHI, Voltaire, Lessing e Alfieri di fronte alla Merope di Scipione Maffei, in Vittorio Alfieri. Il poeta del mito, «Studi Italo-Tedeschi», XXIII, 2002, pp. 141-66.

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a cui ogni realizzazione di opere tragiche, nel corso dell’età moderna, dovette conformarsi6.

-

può certo dire a proposito di quanto proveniva direttamente dalla lettura del testo di Aristotele, dalla sua diretta autorità. Infatti, nonostante Maffei ritenesse, in accordo col noto commentatore cinquecentesco Ludovico Ca-stelvetro7, che la Poetica non fosse altro che «una prima raccolta rozza e disordinata delle cose, ch’egli per non dimenticarle pose insieme»8, nella quale quindi si potevano trovare errori commessi tanto dell’autore che da coloro che ne avevano tramandato l’opera, sicché il trattato doveva essere

mostrò sempre allo stesso tempo preoccupato di innovare il rigore classico senza però uscire eccessivamente dal solco segnato dallo Stagirita.

Ciò è testimoniato del resto anche da quanto ebbe modo di scrivere il primo difensore della tragedia maffeiana, il marchese ed erudito Giovan Gioseffo Orsi9

prese di posizione di fatto avanzate da Maffei, e ciò anche per via dell’esplici-ta volontà e dell’interesse, comune ai due amici, di offrire un testo potenzial-mente canonico per dar vita ad un’autentica rinascita della tragedia italiana in grado di resistere anche agli attacchi e alle critiche di lettori colti e preparati.

Da tale volontà sembra del resto animato anche lo stesso Maffei il quale, seppur in apparenza si disinteressasse dei dettati della poetica aristotelica,

6 Sulla fortuna della Poetica di Aristotele in epoca rinascimentale, a partire dalla traduzione del Pazzi e poi nel periodo successivo si vedano in particolare le pagi-ne a ciò dedicate da E. GARIN, La diffusione della Poetica di Aristotele dal sec. XV in poi, «Rivista Critica di Storia della Filosofia», III, 1973, pp. 446 e sgg.; per il secolo XVIII, le sue numerose e controverse variazioni sul tema si veda in parti-colare l’articolato studio di E. MATTIODA, Teorie della tragedia nel Settecento, Modena, Mucchi, 1994.

7 Per un profilo completo di tale importante commentatore di Aristotele si veda in particolare il volume Ludovico Castelvetro. Letterati e grammatici nella crisi re-ligiosa del Cinquecento, Atti della XIII giornata Luigi Firpo, Torino (21-22 set-tembre 2006), a cura di M. Firpo e G. Mongini, Firenze, Olschki, 2008.

8 S. MAFFEI, Proemio, in ID., La Merope. Tragedia. Con annotazioni dell’autore, e con la sua risposta alla lettera del Sig. di Voltaire, Verona, Ramanzini, 1745, p. 11. Tale edizione sarà da qui in poi abbreviata in MAFFEI, Merope.

9 G. G. ORSI, Avvertimento al lettore, in La Merope. Tragedia del Marchese Scipio-ne Maffei Veronese, Torino, Stamperia Reale, 1765, pp. 14-35. Questa avvertenza corredò anche le prime due edizioni modenesi dell’opera stando a quanto scritto a tal proposito dal Maffei stesso nelle sue Annotazioni.

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dedicò tuttavia al tema del rapporto della sua opera con tale testo gran parte del Proemio e delle sue ben note Annotazioni, caratterizzate da una marcata volontà di nobilizzazione, riportate nell’edizione veronese del 1745, pro-

In questi brevi scritti teorici è infatti possibile individuare la presenza di un costante confronto con lo Stagirita, alle cui tesi il veronese accenna

in questo modo, di nobilitarla agli occhi di un pubblico colto. Il confronto con Aristotele risulta in effetti più fecondo di quanto in apparenza possa apparire, e non riguarda solo l’uso di un lessico che inevitabilmente dove-va essere bagaglio comune di ogni letterato, indipendentemente da letture

evidente già a partire dalla scelta assai peculiare delle qualità morali posse-dute dai personaggi della Merope.

-ma, Maffei sostiene, in stretto accordo con il dettato di Aristotele riguardo alla medietà dei caratteri e al particolare status della colpa morale, che l’errore di Cresfonte, ravvisabile nel fatto di aver disubbidito al padre Po-lidoro, solo in quanto non risulta essere di grave entità può a tutti gli effetti essere apprezzato e perdonato dal pubblico. Quest’ultimo, dunque, è così posto nelle condizioni di potersi impietosire per gli sviluppi della sua pe-ripezia, immedesimandosi nel personaggio rappresentato10, cosa che non sarebbe stata invece possibile nel caso in cui tale atto di disobbedienza fosse apparso come un vero e proprio peccato di 11.

Oltre a ciò, anche per quanto riguarda la composizione del testo la le--

«leggi e regolette»12

critici sulla scorta della Poetica, Maffei sottolinea come «il fondamento

10 Cfr. S. MAFFEI, Proemio in ID., Merope, pp. 18-19: «Ma poiché prima d’altro è da far considerazione su quello, che chiamano Protagonista, e poiché nel fatto di Merope sembra senz’altro doversi aver per tale Cresfonte, secondo l’idea già fin d’allora dall’autore concepita, ecco il suo errore nel disubbidire i creduti genito-ri, e nel grandissimo affanno lor dato col trafugarsi senza far motto; ed ecco la pena nell’estremo pericolo d’esser due volte ucciso; di che tanto maggior com-passione si genera, quanto che l’errore fu condonabile, e non rende chi lo com-mise abborrito né scelerato, ond’è appunto di quella spezie di errori che per la Tragedia richieggonsi».

11 Cfr. ARISTOTELE, Poetica, 13, 1453 a 7-12.12 S. MAFFEI, Proemio, in ID., Merope, p. 19.

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delle regole ha da esser la verità e la natura»13, termini ripetuti spesso in

ricorrono di continuo nel corso del trattato aristotelico, vale a dire quelli di verosimiglianza e necessità ( ). Questi principi non costituiscono infatti solo una norma vincolante di aderenza alla realtà, ma

luogo le condizioni imprescindibili che devono regolare lo svolgimento stesso dell’intreccio drammatico, ossia i rapporti che legano una scena

reali e che, pur essendo in gran parte frutto della fantasia e immaginazione dell’autore14, appaiono potenzialmente credibili agli occhi del lettore e agli orecchi dello spettatore.

Sempre in merito alla struttura e alla composizione dell’opera, ancora, la soddisfazione di Maffei per la buona costruzione della scena VI del pri-mo atto, in cui Merope vede confermati i suoi sospetti funesti attraverso il riconoscimento dell’anello contro le aspettative del servo Euriso, è dovuta proprio alla fedeltà al dettato aristotelico. Infatti tale compiacimento non sorgerebbe da altro se non dal fatto che l’episodio desta di per se stesso

fatto inaspettato e, come dice Maffei, «inaspettato un avvenimento non è mai tanto, come quando succede appunto per quell’istesso mezzo, per cui si pensava di certamente distruggerlo»15. Si ritrovano qui le parole stesse di Aristotele secondo cui fatti paurosi e pietosi si producono, dice lo Stagi-rita, «soprattutto quando si producono contro le aspettative, l’uno a causa dell’altro, in questo modo si realizzerà meglio il meraviglioso»16. Un lega-me di causa ed effetto del tutto inaspettato e sorprendente è quindi ciò che crea la meraviglia, e non – è bene evidenziarlo – la stravaganza del fatto

Non deve quindi sorprendere il fatto che, nonostante la professata disi-stima per regole e precetti da parte di Maffei che già si è messa in evidenza, proprio nel Proemio

13 S. MAFFEI, Annotazioni, in ID., Merope, p. 116.14 ARISTOTELE, Poetica, 7, 1451 a 9-15. Come osserva a tal proposito Guastini «il

mythos poetico è una successione e non una serie episodica di fatti esattamente nella misura in cui possiede e riesce a rappresentare nessi causali tra gli eventi raccontati, manifestando un carattere di “probabilità o necessità”», D. GUASTINI, Filosofia ed etica nella Poetica di Aristotele, «Isonomia. Rivista di Filosofia», 2004, pp. 1-28: p. 8.

15 S. MAFFEI, Annotazioni, in ID., Merope, p. 125.16 ARISTOTELE, Poetica, 9, 1452 a 1-7.

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cosa costituisca a suo modo di vedere l’essenza della tragedia. Una de-

descrittivo che prescrittivo, al pari della più nota formulazione aristotelica, sul modello della quale del resto essa dal tragediografo veronese come una «[r]appresentazion teatrale, e poetica di faccenda illustre, che oltre al dilettare tende a migliorare i costumi con eccitar compassione, e terrore»17

di Aristotele18, essa, pur nella sua esemplare brevità, contiene qualcosa in più di quella dello Stagirita, qualcosa che appare inoltre di fondamentale importanza all’interno del progetto teatrale maffeiano e che ha fatto par-lare, a ragione, di una vera e propria «estetica della ricezione»19 presente nella elaborazione del veronese.

Mi riferisco, in modo particolare, all’accento posto da Maffei sul diletto e il piacere che accompagnano la rappresentazione scenica della tragedia, a quel “dilettare” posto addirittura in primo piano rispetto alla tradizionale

per Maffei la tragedia appaia di fatto come qualcosa che non può in alcun modo darsi al di fuori del contesto rappresentativo, al di fuori del teatro in cui essa prende vita incessantemente, eppure sempre in modo diverso. Per tale motivo si può affermare che per il veronese la mera sceneggiatura non costituisce di per sé la tragedia, che il testo non ne esaurisce mai propria-

maggiore rigore e puntualità affermando che l’essenza della tragedia, per Maffei, sta in fondo proprio nella sua rappresentazione.

Questa particolare attenzione per la rappresentazione e, soprattutto, per l’effetto da essa destato nel pubblico testimonia della profonda relazione, quasi simbiotica in un primo momento e assai più tribolata poi che, come

17 MAFFEI, Proemio, in Merope, p. 19.18 ARISTOTELE, Poetica, 6, 1449 b 24-28: « ☞✌✍ ✎✏✑✒✓✔✕✑ ✖✕✖✗✘✙✚ ✛✏✜✢✣✤✚

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19 Uso a questo riguardo la felice espressione coniata a tal proposito da A. M. LA

TORRE, Scrittura drammatica e fascinazione del teatro: la Merope, in Il lettera-to e la città. Cultura e istituzioni nell’esperienza di Scipione Maffei, a cura di G. P. Marchi e C. Viola, Verona, Accademia Filarmonica di Verona – Cierre, 2009, p. 138.

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è noto anche grazie alle recenti puntualizzazioni di Stefano Locatelli20, Maffei instaurò con la compagnia d’attori guidata da Luigi Riccoboni21, la quale doveva preoccuparsi innanzitutto di soddisfare in maniera costante i desideri degli spettatori paganti che costituivano l’unica possibile garan-zia di sopravvivenza per la compagnia. Tale particolare attenzione spesa

da parte del letterato veronese che del resto sostenne di aver scelto di ci-mentarsi nella composizione della sua Merope proprio in virtù dell’effetto della tragedia sull’animo degli spettatori. Sembra che da ciò si possa quindi affermare che il veronese sia riuscito ad aggiungere in maniera assai sugge-stiva alla Poetica aristotelica quell’«altro discorso»22 riguardo il rapporto tra rappresentazione e pubblico, che lo Stagirita lascia in sospeso nella sua

È possibile apprezzare tale inclinazione prendendo in considerazione i tratti peculiari della composizione maffeiana, icasticamente riconoscibile anche in alcuni aspetti contingenti che costituiscono solo l’ornamento della

-vente per i suoi tratti umili e comuni, nonché per i modi semplici, talvolta ridicoli che emergono nei plurimi discorsi autocommiserativi, che ne carat-

O figlio, se sapessi, quante dolci memorie in seno risvegliar mi sento!Io vidi un tempo, io vidi questa cortee riconosco il loco: anche a quel tempocosì soleasi illuminare la notte.Ma allor non era io già qual or mi vedi:fioria la guancia; e per vigore, o fosse

20 Si veda, oltre al saggio contenuto nel presente volume, lo scritto introduttivo in-cluso nell’edizione della Merope da lui curata: S. LOCATELLI, In scena, in S.

MAFFEI, Merope, a cura di S. Locatelli, ETS, Pisa, 2008, pp. 309-45.21 Si veda su questo l’interessante saggio di R. TESSARI, Teatro e Spettacolo nel

Settecento, Roma-Bari, Laterza, 2003, in part. pp. 3-51. Scrive qui in maniera assai chiara l’autore: «La ricezione da parte del pubblico e gli effetti che l’“arti-ficiosa naturalezza” di buoni interpreti può realizzare sono, in ultima analisi, i criteri di verifica e le linee guida ispiratrici d’una scrittura drammatica tanto at-tenta alle ragioni del parterre teatrale quanto poco arrendevole di contro ai for-malismi ideologici di Voltaire e dei suoi amici. La tragédie larmoyante di Maf-fei ha successo perché è frutto d’un impegno compositivo risoltosi a dialogare non più con i loro stili recitativi», p. 19. Su questo punto si rimanda inoltre a S.

LOCATELLI, In scena, cit.22 ARISTOTELE, Poetica, 4, 1449 a 7-9.

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nel corso o in aspra lotta, al più robustoal più legger non la cedea: ma il tempopassa, e non torna. Or io de la benignascorta, che fatta m’hai, quante più possograzie ti rendo. (IV, 4)

E si pensi anche alle molteplici espressioni colloquiali e ai numerosi

detti di uso comune e popolare che Maffei mette in bocca ai suoi personag-

propri adagi ripetuti in modo ammiccante nel corso della rappresentazione. Su di essi, ad esempio, è costruita l’intera Scena I dell’Atto IV nel freneti-co dialogo brachilogico tra Ismene ed Adrasto, in cui quest’ultimo accusa Merope di essere causa del proprio male attraverso una sequenza di detti comuni che vanno a rafforzare la sua tesi: «Non si dolga del mal chi ’l ben ricusa», «Di sé si dolga chi al peggior s’appiglia», «Pazzo è il nocchier, che non seconda il vento»…, mentre la di lei ancella con toni simili difende la tesi della non ammissibilità di una scelta così contraria al volere della sua padrona: «Diletto amaro a chi col cor ripugna».

Proseguendo sulla stessa falsariga, per mezzo ancora una volta del per-sonaggio dai lineamenti più popolari presente in scena, vale a dire Polidoro, un altro topos assai battuto da Maffei è quello del giudizio delle azioni che segue gli effetti di queste ultime: « », «nulla ha mai fatto chi non compie l’opra»; senza poi dimenticare l’altro tema spesso ricorrente nel corso del dramma, ossia la commiserazione dei mala senectute per cui sempre Polidoro può dichiarare a ragion veduta che «tutto l’oro del mondo, e tutti i regni / darei per giovinezza»23. Tale modo di esprimere con semplicità e con accenti popolari questi sentimenti era

-fatti, proprio a proposito del frequente uso di queste espressioni da parte di Polidoro, è la dichiarazione di Maffei il quale sostiene che proprio «i detti di questo vecchio, ci han insegnato che il maggior diletto della drammatica

-co, e ricercato, ma da detti semplicissimi, che l’uditore ne gli avvenimenti della vita abbia veramente da persone simili udite»24.

Tuttavia non sono soltanto questi aspetti esornativi che contribuiscono a en scene della tragedia da parte di Maf-

fei, ma pari importanza detengono gli aspetti strutturali che caratterizzano

23 Significativo in questo senso è l’intera scena VII del IV atto.24 ❙. MAFFEI❉ Annotazioni, in ID., Merope, p. 136.

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la sceneggiatura dell’opera. Oltre agli abbellimenti, i quali sono espressio-ne di un diletto strumentale, sono infatti soprattutto gli aspetti sostanziali

Aristotele seguita da Lessing e per certi versi come visto pure da Maffei – l’essenza stessa della tragedia nella sua struttura logica, che contribuiscono a determinare questa peculiare poetica maffeiana.

Essi possono essere colti in particolare in diversi aspetti che costitu-iscono l’intelaiatura del dramma. In primo luogo nella deliberata scelta di ritrarre una passione universale in grado di muovere tutti gli astanti a

poi, ancora, nel riconoscimento, anche da parte di Egisto stesso, della sua vera identità in un modo assai peculiare che fa di esso un personaggio

corso del dramma attraverso l’intervento di chi lo circonda in scena, dando esito ad una sorpresa che in lui rispecchia quella che lo spettatore stesso avrebbe dovuto provare di fronte a tali incredibili avvenimenti. Si tratta in questo caso di un’agnizione che muta radicalmente il carattere stesso del personaggio, per cui ciò che da lui e allo stesso tempo dagli spettatori vie-ne creduto essere vero non solo diventa per tal motivo una incontestabile verità di fatto, in un fulgido esempio di corrispondenza tra nome e realtà,

-sta rendendolo in tal modo un dato del carattere naturale che lo fa più che mai valente e sicuro di sé:

Polidoro: Il ver ti narro:tu di quel re sei figlio: a l’empie manidi Polifonte Merope tua madreti sottrasse, ed a me suo fido servoti dié, perch’io là ti nodrissi occultoe a la vendetta ti serbassi, e al regno.Egisto: Son fuor di me per meraviglia, e in forse mi sto, s’io creda o no. Polidoro: Credermi dei,che quanto dico, il giuro, e quella gemma(gemma regal) Merope a me già diede,e spento or ti volea, perch’altri a tortole asserì che rapita altrui l’avevi,e l’omicida in te di te cercava.Egisto: Ora intendo. O gran Giove, ed è pur veroche mi trasformo in un momento, e ch’io più non son io? D’un re son figlio? È dunque

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mio questo regno; io son l’erede. Polidoro: È vero,s’aspetta il regno a te, se’ tu l’erede.Ma quanto e quanto …Egisto: In queste vene dunquescorre il sangue d’Alcide. O come io sentofarmi di me maggior! Ah! Se tu questo,se questo sol tu mi scoprivi, io gli annigià non lasciava in ozio vil sommersi:grideria forse già fama il mio nome;e ravvisando omai l’erculee prove,forse i messeni avrianmi accolto, e infrantoavriano già del rio tiranno il giogo.I’ mi sentia ven io dentro il mio pettoun non so qual, non ben inteso ardore,che spronava i pensier, né sapea dove. (V, 1)

-sciare la continua sospensione e ripetizione delle agnizioni e del rovescia-mento messa in atto da Maffei a partire dalle scene conclusive dell’Atto

usando un termine forse non così distante anche nella sua accezione attua-le dalla volontà stessa di Maffei. L’insieme di questi mezzi era usato con piena consapevolezza da parte del veronese tanto che la Scena V del quinto Atto, così come la prima parte dell’ultima scena della tragedia, conservano volontariamente lo spettatore in un continuo stato di attesa e di inesausta suspense

d’animo e d’inaspettati»25 a cui seguono immancabili colpi di scena i quali a loro volta contribuiscono a mutare rapidamente i sentimenti degli spetta-tori così riuscendo nell’intento del loro autore di avvincerli e commuoverli, poiché egli ben sa, e il successo del dramma confermerebbe, «le mutazioni d’affetto sono un de’ maggior segreti per intenerire e far piangere»26.

Non può dunque sorprendere il fatto che l’attenzione costantemente ri-volta alle reazioni dello spettatore costituisse in senso proprio l’elemento chiave dell’opera anche nell’interpretazione che ne diede Lessing nella sua Dramaturgie nelle pagine ivi dedicate ad un lungo commento della Merope.

Ciò risulta inoltre di grande interesse qualora si ponga attenzione al fatto che Lessing stesso si dimostrò tutt’altro che disinteressato al rapporto tra rappre-

25 Ivi, p. 143.26 Ivi, p. 133.

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sentazione e pubblico, punto centrale, questo, del suo più ampio e complesso progetto teatrale che, in primo luogo attraverso i suoi scritti, egli cercò di realizzare. La stessa Drammaturgia Amburghese altro non è infatti che una rassegna critica indirizzata in prima istanza al pubblico che si recava a teatro,

-lontà programmatica di Lessing non è solo quella di dilettare il proprio pub-blico, ma è innanzitutto quella di spronarlo ad esercitare le proprie capacità di critica nei confronti di quanto rappresentato sulla scena27 fornendolo così di quegli strumenti indispensabili per poter godere a pieno della complessità

--

damente il modus pensandi della nascente borghesia anseatica28. Per tale ragione quindi, rispetto all’importanza assegnata da Maffei alla rappresen-tazione nella globale riuscita dell’opera drammaturgica, Lessing, in questo molto più fedele al dettato di Aristotele, assegna un insindacabile primato

dell’attore poiché «il giudizio su di un autore può sempre mutare; la sua

27 Cfr. LESSING, DdA, p. 7: «Questa Drammaturgia sarà una rassegna critica di tutti i lavori che verranno rappresentati, e accompagnerà passo per passo poeti attori nel loro cammino. La scelta delle opere non è piccola cosa, presuppone abbon-danza; onde se non saranno messi in scena esclusivamente dei capolavori, si sa-prà a cosa addebitarne la colpa. Del resto non è un male se la produzione medio-cre viene presentata per quello che realmente è; lo spettatore insoddisfatto potrà almeno esercitare le proprie capacità di critica. Per formare il gusto di un uomo che abbia sano intendimento, è sufficiente spiegargli i motivi per i quali qualco-sa non ha incontrato la sua approvazione».

28 Il teatro iniziò infatti in Germania, proprio in tal periodo, a costituire una istituzio-ne nella formazione di un pubblico maturo, come scrive J. HABERMAS, Storia e Cri-tica dell’opinione pubblica (1962), Roma – Bari, Laterza, 2008, pp. 49-51: «I cri-«I cri-I cri-tici d’arte possono considerarsi portavoce del pubblico – nella loro contesa con gli altri è questo il topos centrale – poiché sono consapevoli di non avere altra autori-tà che quella dell’argomento e si sentono legati a tutti coloro i quali si fanno per-suadere da argomenti.[…] Nello stesso tempo però essi devono potersi far ascol-tare dall’intero pubblico, che ancora all’epoca della loro fioritura va crescendo oltre il ristretto ambito dei salotti, dei caffè, delle riunioni di società. Ben presto la rivista, prima la corrispondenza scritta a mano, poi il mensile o il settimanale a stampa, diventa lo strumento pubblicistico di questa critica. Le gazzette di critica artistica e culturale, come strumenti della critica d’arte istituzionalizzata sono cre-azioni tipiche del XVIII secolo. […] [I]l pubblico, solo attraverso una appropria-zione critica della filosofia, della letteratura e dell’arte perviene a rischiarare se stesso, anzi a intendere se stesso come il vivente processo dell’illuminismo».

✶❈✂ «Mai non mi diero i Dei senza un egual disastro una ventura»

opera resta e può esserci messa sotto gli occhi ad ogni momento»29 e su questo aspetto concentra segnatamente le sue critiche all’opera maffeiana.

Riguardo poi allo sviluppo dell’intreccio che contraddistingue la Mero-

pe, i continui deferimenti dello scioglimento dell’azione tragica e le ripe--

tore sono duramente stigmatizzate dal tedesco, secondo il quale «la nostra sorpresa è tanto maggiore, se veniamo a conoscenza con piena sicurezza della vera identità di Egisto non prima che l’abbia appresa Merope stessa. Ma qual misero piacere può procurarci la sorpresa! E che bisogno ha l’autore di sorprenderci?»30.

stesso della rappresentazione tragica differisca in modo radicale. Può aiu-tare a comprendere tale marcata differenziazione il fatto che, in linea con l’argomentazione sviluppata a tal proposito da Diderot31, per Lessing la sorpresa dovrebbe manifestarsi nelle reazioni degli attori in scena e non in quelle del pubblico in sala per il quale tutto dovrebbe essere invece chiaro

cosa, ma il come della tragedia32. Questo perché alla tragedia egli sembra assegnare un valore epistemico al contrario del tutto alieno all’orizzonte maffeiano. Per apprezzare maggiormente le motivazioni addotte da Lessing a difesa di tale scelta strutturale, è bene però concentrarsi, anche se molto brevemente, su

, ornamentali della poetica maffeiana, ai quali lo scrittore tedesco dedica del resto parti-colare attenzione proprio perché funzionali a creare piacere nello spettato-re, seppur assumano un ruolo secondario rispetto al piacere anche intellet-tuale che la tragedia può apportare.

Il Polidoro di Maffei, proprio per i suoi tratti più umili e popolari, si esprime per Lessing in un modo tutt’altro che commovente e piuttosto ridi-colo, in primo luogo perché artefatto, libresco e non confacente al momen-to tragico raggiunto dalle scene in cui il vecchio interviene con «chiacchie-

29 LESSING, DdA, p. 7.30 Ivi, p. 223.31 Lessing cita infatti un lungo estratto della Poétique dramatique di Diderot in cui

l’autore francese sostiene tra le altre cose che tutto debba essere chiaro allo spet-tatore fin da subito evitando sospensioni e colpi di scena poiché solo in tal modo «l’intérêt doublerait pour le spectateur, s’il est assez instruit et qu’il sente que les actions et les discours seraient bien différents si les personnages se connais-saient». Cfr. ivi, pp. 224-25.

32 Ivi, p. 226.

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re pronunciate a sproposito»33. Tale considerazione offre il destro a Lessing per una dura critica a Maffei. «Egli – dice – ci ha dato né più ne meno quello che ci può dare un erudito saturo di gusto classico, il quale considera un’impresa del genere più uno svago che una fatica degna di lui»34, sarebbe insomma colpevole di aver voluto copiare modelli inesistenti e pertanto

motti e detti del tutto alieni al piano della realtà. Curiosamente, quindi, proprio la ricerca di aderenza alla natura e alla

verità professata dal veronese darebbe come esito, nell’interpretazione del tedesco, il suo esatto contrario, privando il testo di naturalezza e allo stesso tempo rendendolo insopportabilmente sciatto. I frequenti ammiccamenti agli spettatori, inoltre, potrebbero rischiare, per Lessing, di togliere il velo d’illusione scenica e quindi di privare il pubblico della condizione a suo

35, vale a dire la catarsi dello spettatore stesso. Lessing non rimprovera quindi a Maffei una qualche mancanza di aderenza a regole e precetti, da lui stesso

considerarlo autore di un’opera infallibile al pari della geometria euclidea36 ante

litteram -pretativa37, Lessing indirizza a Maffei critiche che si muovono su un livello più profondo della mera precettistica compositiva.

Questa profondità critica risulta quanto mai evidente proprio in riferi-mento ai caratteri strutturali dell’opera stessa. In primo luogo, con riguardo all’agnizione di Egisto/Cresfonte da parte di se stesso e, simultaneamente, alla rivelazione di tale identità al pubblico. Il sospetto che anima lo spetta-

-

33 Ivi, p. 197. 34 Ivi, p. 199.35 Ivi, pp. 201-202.36 Ivi, p. 433.37 Cfr. D. DAVIDSON, Sulla verità, Roma - Bari, Laterza, 2006, in part. si veda il cap.

III. Per Davidson, come sostiene in questo passo Lessing rifacendosi in modo as-sai diverso all’autorevolezza di Aristotele piuttosto che ad un’analisi linguistica, è doveroso assumere l’argomentare di un soggetto come espressione di un pensiero di tipo razionale, in cui la coerenza dell’insieme permette di risolvere razional-mente possibili difficoltà che si presentano in luoghi poco chiari, ma non per que-sto in contraddizione con il tutto di cui fanno parte.

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noscenza maggiore, mettendolo anticipatamente a parte di tutti gli avveni-menti principali che avrebbero avuto luogo nel corso del dramma, attraver-so un prologo introduttivo o l’impiego di altri espedienti, come ad esempio apporre nella lista dei personaggi il doppio nome; scelta al contrario dura-

che per suscitare meraviglia deve essere celato il più a lungo possibile38. Al contrario, per Lessing l’interesse e l’aspettativa non devono interes-

sare l’autore tragico, il quale deve invece preoccuparsi di suscitare nello spettatore il terrore e la pietà quali espressione di sentimenti durevoli, pro-fondi, in grado di mutare non tanto l’umore di chi osserva lo spettacolo quanto piuttosto la sua indole più profonda, la sua disposizione morale che, come si sa, è un’acquisizione abituale e non una subitanea illuminazione,

«conoscere l’uomo e noi stessi; essere attenti ai nostri sentimenti; indagare e amare la natura per le vie più piane e più brevi; giudicare ogni cosa secon-do la sua destinazione»39. Insomma, sebbene anche Lessing consideri il di-letto un carattere per nulla trascurabile della tragedia, ad esso egli premette un tratto di Aristotele che Maffei aveva completamente tralasciato, ma che deve essere tenuto in debita considerazione se si vuole ricomporre un’au-tentica estetica della ricezione della tragedia: vale a dire il suo valore cono-scitivo e la conseguente necessità che essa istruisca lo spettatore40, il quale deve risultare protagonista attivo del dramma che viene rappresentato.

Tale convinzione espressa da Lessing contribuisce a definire in ma-niera assai chiara il modo in cui egli interpretò il senso di uno dei passi più enigmatici e pertanto più discussi dell’intera Poetica di Aristotele, vale a dire quello contenuto nel sesto capitolo di tale opera all’interno del quale lo Stagirita fa menzione del concetto di “catarsi”, a sua volta corrispondente al fine ultimo del genere tragico. Nel corso del tempo, a partire dai commentatori antichi, passando per gli autori rinascimentali per giungere infine alle più attuali letture critiche condotte dagli stu-diosi, numerose sono state le interpretazioni di tale termine fornite in riguardo al testo aristotelico. Esse, per esempio, sono state addirittura suddivise, stando alla categorizzazione stabilita in modo assai chiaro da Stephen Halliwell, perlomeno in sei principali tipologie interpreta-tive, che si sarebbero susseguite e talvolta ripetute senza soluzione di

38 S. MAFFEI, Annotazioni, in ID., Merope, pp. 109-11.39 LESSING, DdA, p. 229.40 ARISTOTELE, Poetica, 4, 1448 b, 12-20; LESSING, DdA, p. 343.

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continuità nel corso della storia fino agli studi a noi contemporanei41. Sotto la prima di esse lo studioso inglese sussume il concetto di catarsi

intesa come sinonimo di insegnamento moralistico atto ad evitare che lo spettatore sia affetto da quelle emozioni nocive che ne alterano l’anima e

-pretazione, questa, che in ultima analisi implica che la tragedia altro non sia che una sorta di protrettica atta a far sì che il soggetto sia in grado di giun-

-durlo alla sofferenza e al dolore, ma devono essere accuratamente evitate.

attraverso il quale le passioni non andrebbero eliminate tout court, bensì

poiché lo spettatore, ad esse assuefatto e come immunizzato grazie ad un esercizio di “fortezza emotiva”, riuscirebbe a frapporre fra queste e se stes-so un velo di indifferenza.

Ancora, per la terza via la catarsi costituirebbe un processo attraverso il quale lo spettatore acquisirebbe un habitus, un’etica – corrispondente alla moderazione dell’etica aristotelica – che gli consentirebbe di contemperare

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ro apprendendo un modo di rapportarsi alla vita che valorizzi l’esperienza

senza dubbio capo lo stesso Lessing, secondo il quale lo spettatore, at-traverso la rappresentazione scenica, diviene consapevole di sé e padrone delle proprie emozioni. Infatti per il drammaturgo tedesco la catarsi a cui la tragedia deve condurre lo spettatore si avvale della pietà e del timore,

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41 Si veda in particolare S. HALLIWELL, Appendix 5: Interpretation of catharsis, in ID., Aristotle’s Poetics, Chapel Hill – London, University of North Carolina Press, 1986, pp. 350-57. In modo assai simile a quanto fatto da Halliwell, ma con pro-In modo assai simile a quanto fatto da Halliwell, ma con pro-fonde differenze strutturali, lessicali e di ordine espositivo, stila una sua lista ri-partita in sei modelli più recentemente anche J. HELGE SOLBAKK, Catharsis and moral therapy II: An Aristotelian Account, «Medicine, Health Care and Philoso-«Medicine, Health Care and Philoso-Medicine, Health Care and Philoso-phy», IX, 2006, pp. 141-53, in part. pp. 142-46. L’autore individua queste sei li-», IX, 2006, pp. 141-53, in part. pp. 142-46. L’autore individua queste sei li-, IX, 2006, pp. 141-53, in part. pp. 142-46. L’autore individua queste sei li-nee interpretative elencate seguendo tale sequenza: 1) di analogia con l’arte medi-ca; 2) di comprensione intellettuale ed emotiva; 3) con intento morale ed educativo; 4) di sollievo dalle emozioni; 5) di ordine estetico inerente alla struttu-ra stessa della tragedia; 6) olistica, ossia caratterizzata da un tentativo complessi-vo di regolazione del corpo e della mente.

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altre passioni il quale prende forma nell’intima esperienza del soggetto che osserva e vive in prima persona tali emozioni; che non si limita a vederle meramente rappresentate sul palcoscenico42.

La quarta interpretazione, indicata come rappresentante della vulgata dominante negli studi moderni circa l’interpretazione della catarsi, identi-

emozioni che porterebbe ad un sollievo da esse. Un’interpretazione quasi terapeutica della tragedia tuttavia criticata con decisione dallo studioso.

La quinta invece punterebbe a sottolineare in maniera più marcata gli aspetti cognitivi ed epistemici legati al procedimento estetico della catarsi

-le simile al processo di inferenza logica, in grado di portare lo spettatore a riconoscere la verità, la realtà di ciò che lo circonda, dopo aver eliminato le cause che lo ponevano in errore poiché gli facevano in quel modo percepire emozioni non adeguate le quali conducono a false credenze.

43 si contraddistinguere dalle altre per il fatto che valorizza l’aspetto catartico intrinseco all’opera poetica stessa, all’interno della quale non le passioni del soggetto sono fatte oggetto di catarsi, bensì il motivo tragico che con-traddistingue la struttura stessa del racconto narrato e messo in scena. Un’

42 LESSING, DdA, p. 346-347. Si veda l’interpretazione classica e puntuale di ●❋ TOF❍FANIN, La fine dell’Umanesimo, Padova, Bocca, 1920, in part. cap. XX. Per l’au-tore il modo in cui Lessing intende la catarsi costituisce una soluzione ermeneuti-ca del tutto originale e affascinante: «non si tratta più di combattere quelle [passioni] sostituendovi il loro contrario: l’amore all’odio, la liberalità all’avari-zia, nella luce, insomma, della carità; si tratta di trovare a esse passioni quel giu-sto mezzo che ti rende padrone di te, nella pienezza delle tue forze, immune da ri-morsi e da rimpianti», ivi, p. 339. Una contemperanza di aspetti differenti che non mira a rimpiazzare le passioni nocive con altre o a eliminarle totalmente, ma che ha come scopo la costruzione di un corretto rapporto tra di esse conquistato attra-verso un processo di formazione, di educazione alla moderazione. Per un’ulterio-re approfondimento del modo d’intendere le passioni nelle opere di Maffei e Les-sing si veda l’interessante volume di P. LUCIANI, Le passioni e gli affetti. Studi sul teatro tragico del Settecento, Pisa, Pacini, 1999. Di particolare interesse è inoltre la discussione a tal proposito da parte di Lessing circa il corretto modo di tradur-re i termini aristotelici éleos e fòbos, la quale non è possibile qui sviluppare e per cui si rimanda a LESSING, DdA, pp. 332-40.

43 Per una discussione più analitica e dettagliata di tali e altre interpretazioni si veda l’interessante ed articolato saggio di M. ZANATTA, Recenti interpretazioni della ca-tarsi tragica in Aristotele, in Studies on Aristotle and the Aristotelian Tradition. Proceedings of the International Conference of Padua (December 11-12-13, 2006), Lecce, Edizioni di Storia della Tradizione Aristotelica, 2011, pp. 177- 205.

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-mente slegato dalla sua resa scenica44.

Delineate le maggiori linee interpretative del concetto di catarsi stori-camente declinatesi a partire dalla lettera di Aristotele resta ora da com-prendere se e in quale misura anche Maffei, a sua volta, cercò di spiegare

Poetica e quali siano i tratti più interessanti legati alla sua particolare interpretazione del termine “catarsi”. È noto, del resto, come secondo Maffei la purgazione di cui discute Aristotele sarebbe da intendersi come eliminazione di una molteplicità di passioni nefande che, proprio per mezzo della compassione e del timore, verrebbero emendate dall’animo dello spettatore: «[I]n fatti facendo vedere il tragico gli orribili casi, che da esse produconsi, con la compassione, e col terror che ne nasce, eccita a raffrenarle, e insegna ad usarvi sempre circospezione, e cautela»45. Le passioni vanno quindi rappresentate sulla scena e non espulse da essa, dal momento che solo in quanto capaci per la loro vivezza di destare in

-te tragiche e devono pertanto essere eliminate dall’animo dello spettatore solo una volta che esse hanno in lui raggiunto il loro apice.

Questo, quindi, il motivo per cui Maffei sostiene di aver deciso di por-tare in scena una passione tanto violenta come quella che congiunge una

-passione sono dunque propriamente solo dei mezzi che, attraverso la fun-zione emblematica dei personaggi che se ne fanno carico in scena (rispet-tivamente del primo Polifonte e del secondo Merope), sono in grado di allontanare le passioni smisurate e perniciose che inondano l’animo dello spettatore46, conservando invece quelle dilettevoli, ossia il piacere che alla

determinandone l’essenza stessa, e poiché i due autori hanno a riguardo di

44 Un esempio molto caratteristico di tale linea interpretativa è fornito dal saggio di C B. DANIELS - S. SCULLY, Pity, Fear and Catharsis in Aristotle’s Poetics, «Nous», XXVI, 2, 1992, pp. 204-17. Qui l’autore argomenta, con costante riferimento al testo aristotelico, che le emozioni e le passioni che la tragedia provoca o al contra-rio contribuisce a emendare nella reazione dello spettatore non risultano affatto decisive per comprendere cosa sia la tragedia. Essa, infatti, si definisce solo sulla base del rispetto di regole intrinseche al contenuto della tragedia stessa e alla di-sposizione di questo, non alla sua rappresentazione.

45 ❙. MAFFEI❉ Proemio, in ID., Merope, p. 13.46 Ivi, pp. 19-21.

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essa concezioni assai differenti, attraverso un ragionamento di tipo transiti-vo possiamo arrivare a concludere senza soluzione di continuità che diver-so è allo stesso tempo, per i due, il compito da essi assegnato alla tragedia. Per Lessing, infatti, lo scopo della tragedia, come di ogni genere poetico,

non consiste nell’appassionare lo spettatore a ciò che egli osserva sulla scena in maniera tale da eccitare tanto e di continuo opposte passioni per

loro volta per darsi non possono fare a meno di un epilogo felice. -

ra ineludibile ad una preoccupazione ulteriore che pare in gran parte essere assente dal ragionamento sviluppato da Maffei: quella di costruire una vera e propria opinione pubblica in grado di apprezzare in maniera autonoma la bellezza, di comprenderla e giudicarla in maniera critica. Un’attenzione quindi non solo legata allo spettacolo teatrale e al suo effetto di straniamen-to dalla realtà e di diletto a buon mercato, ma con ripercussioni notevoli anche sul piano sociale e politico, uno sperimentalismo di gran lunga dif-ferente da quello pur praticato in altra direzione da Maffei, un rapporto che sembrerebbe instaurarsi in modo assai diverso nei confronti della nuova borghesia emergente.

Per il veronese, infatti, risulta evidente come ad essa e ai suoi appetiti la tragedia si debba il più possibile conformare, tanto che proprio la reazione del pubblico può contribuire in maniera determinante ad orientare le scelte drammaturgiche sia in relazione al testo che alla recitazione degli attori47, mentre per Lessing allo spettatore vanno innanzitutto forniti gli elementi per giudicare con attenzione ciò a cui assiste; lo scrittore tragico sarebbe pertanto prima di tutto un intellettuale che come tale detiene un compito assai importante all’interno della società nel suo complesso, non soltanto nel teatro in cui lavora, poiché, come egli scrive sempre nella Dramma-

turgia

«il pubblico si accontenta... Ciò è un bene e un male, poiché non si ha mai troppo desiderio della mensa di cui ci si deve accontentare»48.

47 Cfr. A. M. LA TORRE, Scrittura drammatica e fascinazione del teatro, cit., pp. 146 e ss.

48 LESSING, DdA, p. 352.