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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA
DIPARTIMENTO DI SCIENZE UMANISTICHE
CORSO DI LAUREA IN LETTERE MODERNE
________________________________________________________________________
ERMINIO ALBERTI
LA STORIA DI ELSA MORANTE, TRA DIBATTITO CRITICO E INDAGINE
FILOLOGICA
Tesi di Laurea
RELATOREChiar.mo Prof. ANTONIO DI GRADO
ANNO ACCADEMICO 2012 - 2013
Indice
Introduzione » pag. 6
I. Il dibattito critico, tra ideologia e mercato editoriale » pag. 9
I.1. La calda estate del '74: il corpus di articoli e saggi
sulla Storia » pag. 9
I.2. Le lettere al «manifesto» e lo scontro polemico di
matrice ideologica » pag. 24
I.3. Pasolini, Calvino, Ginzburg: le opinioni degli autori » pag. 28
I.4. «È o non è un capolavoro»: il dibattito critico su
«La Fiera Letteraria» » pag. 33
II. La Storia nel lungo termine: cosa rimane di un capolavoro » pag. 37
II.1. Senza i conforti della religione: appunti e intenzioni
dell'autore » pag. 37
II.2. Il mondo salvato dai ragazzini e La Storia:
la dialettica di un'idea » pag. 42
II.3. La biblioteca dell'autore: La Storia, il Beato Angelico
e Simone Weil » pag. 47
II.4. Elsa Morante e la critica di genere » pag. 52
3
III. La funzione poetica nella Storia: Davide e Useppe » pag. 57
III.1. Davide Segre e la crisi dell'intellettuale » pag. 57
III.2. Useppe, ovvero il fanciullino della poesia pura » pag. 63
Conclusioni » pag. 70
Appendice fotografica » pag. 73
Bibliografia » pag. 78
4
Introduzione
L'uscita del romanzo La Storia, nel mese di giugno del 1974, trascinò con
sé una lunga bagarre polemica – e politica – che si svolse nelle pagine dei
principali quotidiani di sinistra, coinvolgendo molti esponenti
dell'Intelligencija culturale italiana di quegli anni.
Oggi, grazie alla lucidità di sguardo che la distanza nel tempo ci permette,
possiamo analizzare questi interventi, comparandoli con l'opera, isolandoli
dalla contestazione politica e ideologica non pertinente.
Il primo capitolo tenta, attraverso una rassegna degli articoli principali nel
dibattito sulla Storia, un'analisi delle cause che favorirono un numero così
vasto di interventi, mettendo in risalto le argomentazioni più o meno
attinenti all'opera, e soffermandosi, soprattutto, su casi eclatanti quali le
lettere al «manifesto».
Nel secondo capitolo viene presa in esame l'opera, mettendola a confronto
con altri scritti dell'autore: dall'inedito Senza i conforti della religione al
Mondo salvato dai ragazzini. Si procede poi nell'individuare autori e opere
che possono aver influito nella creazione del romanzo, per poi tentare,
attraverso le ricostruzioni della critica, una chiave di lettura plausibile.
Il terzo capitolo approfondisce alcuni aspetti del testo che possono essere
considerati la chiave di volta dell'opera, analizzando più in dettaglio due
personaggi che, nella loro caratterizzazione, contengono l'ideologia portante
dell'intero universo della Storia.
6
Capitolo I.
Il dibattito critico, tra ideologia e mercato editoriale
I.1
La calda estate del ’74:
il corpus di articoli e saggi sulla Storia
Un’analisi statistica del corpus di saggi e articoli usciti in seguito alla
pubblicazione della Storia ci permette di chiarire la dinamica del dibattito –
nonché delle polemiche – che ebbe luogo nelle pagine di vari giornali e
riviste nazionali1. Si può contare, con un margine di errore potenziale verso
il difetto, una mole di 1102 articoli, di cui 102 usciti nei primi sei mesi dalla
pubblicazione del libro, con una particolare concentrazione relativa al
periodo che va dal 18 luglio – giorno in cui venne pubblicata la caustica
lettera firmata da Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi e
Umberto Silva3 – al 17 agosto: in un mese uscirono 40 articoli, buona parte
frutto della polemica “ideologica” sorta intorno all’opera. Il numero
1 Prenderemo in considerazione gli interventi pubblicati nel corso del primo anno dall’uscita del romanzo.
2 Le fonti bibliografiche di questo elenco sono la nota bibliografica sulle recensioni a La Storia, a cura di Irene Babboni in E. Morante, La Storia, Einaudi, Torino 1974 (ed. del 2011) e la nota bibliografica sugli articoli e saggi sulla Storia, in G. Bernabò, Come leggere La Storia di Elsa Morante, Mursia, Milano 1991. Tre articoli sono stati integrati da noi.
3 N. Balestrini, L. Paolozzi, E. Rasy, U. Silva, Contro il «romanzone» della Morante, «il manifesto», 18 luglio 1974. Fig. 2.
9
maggiore di interventi – 13 – venne pubblicato dal quotidiano «il
manifesto»4, seguito da «La Stampa», in cui furono pubblicati 10 articoli –
12, considerando i due articoli pubblicati su «Stampa Sera» – e «Rinascita».
Altro intervento imponente è da considerare quello de «La Fiera
Letteraria»5 del 6 ottobre, in cui sette critici – A. Asor Rosa, R. Barilli, G.
Mariani, G. Petrocchi, G. Salinari, G. Spagnoletti, F. Ulivi – risposero alle
domande formulate dal prof. A. R. Pupino. Del resto le testate giornalistiche
che hanno pubblicato articoli, lettere, recensioni su La Storia sono, in
questo elenco, 49 e spaziano da quelle specialistiche letterarie a «Vogue»6,
alla rivista di fumetti «Linus»7: ciò dà una misura della ripercussione che
ebbe l’uscita del romanzo su un pubblico fatto non solo di addetti ai lavori.
Le cause di questo fenomeno devono essere ricercate in due principali
fenomeni: da un lato la linea editoriale della casa editrice Einaudi, che ha
investito molto nella pubblicità di questo libro8 – ma dietro questa linea vi è
anche la volontà dell’autrice di destinare la propria opera a un pubblico più
vasto possibile, anche attraverso il linguaggio adoperato e il prezzo di
copertina, nel tentativo di diffondere il Verbo, di agire attivamente nel
mondo reale attraverso la scrittura9 –, dall’altro la polemica ideologica sorta
sulle pagine del «manifesto», polemica di ordine ideologico-politico nel
tentativo di inquadrare l’opera morantiana nell’ottica storico-materialistica
di matrice marxista.
4 Vengono prese in considerazione anche le lettere al giornale.
5 «La Storia», è o non è un capolavoro?, «La Fiera Letteraria», 06 ottobre 1974
6 M.R., Il caso Morante, «Vogue» - Italia, settembre 1974.
7 O. del Buono, Bando di recensione. La Storia di Elsa Morante, «Linus», X (1974), n. 8 (agosto), pp. 61-62; e successivamente aa.vv., Ma che storie, questa storia!, «Linus», X, n. 10 (ottobre).
8 Cfr. L. Simonelli, E. Morante scrittrice perfezionista si preoccupa anche delle foto, «Domenica del Corriere», 30 giugno 1974, fig. 2: «Per giorni e giorni sui maggiori quotidiani italiani era possibile leggere un annuncio pubblicitario che suonava come il lancio di un missile».
9 Cfr. G. Bernabò, La fiaba estrema, Carocci Editore, Roma 2012, pag. 193: «In questo contesto, nel giugno 1974, uscì presso Einaudi La Storia, in un’edizione che la stessa autrice aveva voluto economica perché fosse accessibile a tutti».
10
È interessante in questa sede citare l’articolo uscito sulla «Domenica del
Corriere» il 30 giugno del ’74 a firma di Luciano Simonelli: l’articolo,
velato di sottile ironia, racconta la – futile – vicenda della scelta della foto
dell’autrice da spedire ai giornali:
Ma mentre la casa editrice torinese, con uno stile che forse le è inconsueto, giocava tutte le sue carte pubblicitarie nel lancio di un libro in cui crede moltissimo […], Elsa Morante poneva involontariamente alcuni ostacoli. Lo dimostra la vicenda della foto della scrittrice. Pochi giorni dopo che l’ufficio stampa della Einaudi mi aveva mandato una bella immagine di Elsa Morante giungeva in redazione un telegramma: «Fotografia Elsa Morante spedita per errore stop preghiamovi pertanto scusandoci cestinarla stop se ritenete utile pubblicare fotografia Morante invitiamovi servirvi di quella spedita oggi meglio rispondente sia attualità sia carattere et contenuto libro stop grazie cordiali saluti Giulio Einaudi Editore. Un telegramma cortese, una richiesta alla quale sarebbe stato facile aderire, ma quando è giunta la nuova immagine della Morante sinceramente sono apparsi incomprensibili tanti problemi ed allora ecco la decisione di pubblicare ambedue le foto10.
Al di là della polemica, emerge qui non solo l’impegno della casa editrice a
pubblicizzare ampiamente il libro in uscita, ma anche l’interesse dell’autore
per ogni minimo particolare, compreso quello della foto più consona al
«carattere et contenuto» del libro (Fig. 1).
Degli articoli riconducibili alla polemica sulle pagine del manifesto, che
incorre dal 18 luglio e si protrae per quasi un mese, come quelli a firma di
grandi autori, parleremo nei prossimi paragrafi. Qui tenteremo di fornire
una panoramica dei principali interventi scritti su La Storia.
Possiamo analizzare i primi articoli pubblicati, poco dopo l’uscita del
romanzo, alla luce della volontà propagandistica veicolata dalla casa
editrice e dall’autore in primis.
10 L. Simonelli, E. Morante scrittrice perfezionista si preoccupa anche delle foto, cit.
11
Ad esempio, già dall’anteprima del libro, pubblicata sul «Messaggero» del
16 giugno 1974, si mette in risalto un carattere che verrà poi a lungo
discusso nella lunga bagarre dei mesi a venire: è la frase all’occhiello che
definisce il romanzo «l’epica dei tempi moderni»11. Successivamente, il 20
giugno, giorno dell’uscita del romanzo, esce un articolo di Lietta
Tornabuoni, su «La Stampa»12, dove si annuncia l’uscita del «prevedibile e
previsto “caso” letterario di stagione», facendo poi un parallelo, nella
sinossi, con i Promessi Sposi:
Come nei Promessi Sposi, gli avvenimenti storici son visti dagli occhi dolenti e confusi dei poveri […]. È un romanzo scritto con volontaristica semplicità13.
I primi interventi prettamente critici sul romanzo appaiono sul Corriere
della Sera del 30 giugno, a firma di Carlo Bo e di Cesare Garboli14.
Nel suo articolo, Bo analizza il percorso narrativo della Morante che,
partendo dai primi romanzi che hanno «costretto i suoi critici a muoversi in
cerca di appigli e giustificazioni, giuocando con riferimenti alla favola e alla
più libera religione dell’immaginazione», è passata ad affrontare la spietata
realtà attraverso l’innocenza dei suoi fanciulli – innocenza che «avrebbe
sopraffatto ed annullato lo spirito di prevaricazione e di ingiustizia» ne il
Mondo salvato dai ragazzini15 – per poi «verificare nella carne del tempo la
crudele catena di vergogne umane» nella Storia16. Segue poi spiegando la
11 Il 19 luglio 1943, «Il Messaggero», 16 giugno 1974.
12 L. Tornabuoni, Poveri Cari. La Storia, «La Stampa», 20 giugno 1974.
13 Ibidem.
14 C. Bo, I disarmati, e C. Garboli, Un crocicchio di esistenze, in «Corriere della Sera», 30 giugno 1974.
15 E. Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, Einaudi, Torino 1965.
16 C. Bo, I disarmati, cit.
12
struttura narrativa del romanzo, e giudica il personaggio di Useppe come
«senza dubbi possibili la creatura più straordinaria che sia mai nata dalla
fantasia della Morante ed uno dei pochi personaggi autentici della nostra
letteratura»17. Conclude l’articolo analizzando il metodo di narrazione, che
si allontana dal modello zoliano naturalista:
No, per la scrittrice vale l’altro criterio della partecipazione e del costante sottofondo di reazioni psicologiche dirette. E questo che potrebbe sembrare un metodo abusivo, alla fine, risulta estremamente preciso e più criticamente omogeneo18.
Garboli nel suo articolo delinea l'ambiente sociale in cui si svolge il
romanzo, focalizzandone alcuni punti chiave: il ruolo di Useppe quale
«bastardello celeste», nato da un' «aggressione che era un'Annunciazione»,
il ruolo di «corrucciato Achille» di Ninuzzu, «il paio di stanze con cesso e
cucina» che diventa «punto essenziale dell'universo»19. La vita viene
celebrata dalla Morante leopardianamente, come il massimo dei beni e il
massimo dei mali, e a questa dicotomia si possono ricollegare la gioia
liberatrice di Useppe e il delirio visionario di Davide Segre, che fanno sì
che il romanzo si sdoppi in due romanzi: uno organico e reale, e l'altro
frantumato e attraversato dall'irrealtà20. E con questo anche il mondo della
Storia viene diviso:
Da una parte un limbo indistinto di là da una spiaggia di morte, di qua il rumoroso popolo delle creature umane e animali, testimoni di gioia offesa e immemore, o di uno strazio di gente irresponsabile di un orrore. Eccoli, quelli che passano inosservati su questa terra, e che il romanticismo narrativo di Tolstoj e Manzoni
17 Ibidem.
18 Ibidem.
19 C. Garboli, Un crocicchio di esistenze, cit.
20 Ibidem.
13
aveva elevato a protagonisti, relegandoli tuttavia nella vaga astrattezza di personaggi di testa, o se si preferisce, «simbolici». Questa gente anonima, la Morante la individua, la identifica. Solo di costoro, ormai, la vita è raccontabile e interessante. Per il resto, poche righe in corpo minore, premesse a ogni capitolo, bastano a sbarazzarci da un funereo intreccio di assurdità da cui la vita è assente.21
Per Garboli non c'è dubbio che si tratti di un capolavoro:
Per lunghi anni ci si è chiesto se il romanzo era in crisi, e si sono studiate le sue malattie. Ma ora che il romanzo è tornato fra noi, ci accorgiamo che solo una donna poteva guarirlo.22
Altro elemento importante è la considerazione secondo cui «la Storia nasce
da un oscuro rimpianto di maternità e di virilità»23.
Piero Dallamano, sul «Corriere della Sera», dedica un lungo articolo24 al
romanzo «concepito e nato come un messaggio, come un evangelo diretto
ai minimi della terra»: a funzione di ciò sia la forma che veicola il
contenuto, che non concede nulla agli sperimentalismi e agli
avanguardismi, sia il prezzo ridotto all'osso25. È interessante l'analisi di
Useppe come «tramite tra la pura animalità e la pura umanità», nonché
come Cristo portatore di un messaggio di salvezza che viene per questo
immolato, per redimere l'umanità dalla Storia26:
La Storia, questo enorme personaggio con la maiuscola che dà il titolo al romanzo, straborda da ogni dimensione politica […]. È un simbolo luciferino, è forse un
21 Ibidem.
22 Ibidem.
23 Ibidem.
24 P. Dallamano, Ecco la Storia degli umili, «Paese Sera» - Supplemento Libri, 5 luglio 1974.
25 Ibidem.
26 Ibidem.
14
male immedicabile della creazione, forse potremmo curarlo, salvarci da soli: non per niente questo romanzo della Morante gira attorno più volte alla parola Dio, evocandola tra i fumosi strepiti di una conversazione di osteria27.
Il compito che la Morante si è assegnato, secondo Dallamano, è già
delineato dalla precedente opera, Il mondo salvato dai ragazzini28: la
letteratura in funzione salvifica, funzione che ha radici non nel
“sessantotto” e nei suoi moti, ma in Rousseau, in Schopenhauher, nei culti
orientali. E la Storia è come «l'esemplificazione oggettiva, in prosa,
dell'intuizione che il libro di poesie aveva afferrato a caldo […]; vuol
essere, come sognava Davide Segre […] nelle sue blande velleità di
diventare scrittore, un libro dopo il quale la vita degli uomini diventa
effettivamente diversa.»29 Anche Dallamano, quindi, si sbilancia, parlando
di «ombra luminosa che avverte dell'avvento di un grande romanzo […].
“La Storia” possiede una capacità di impatto che va ben oltre la letteratura,
se misuriamo questo salto qualitativo al metro dell'emozione»30, e individua
anche lui una risonanza con il romanzo del Manzoni.
Galasso, sulla «Stampa», esprime le proprie riserve sui giudizi in toto
esaltanti della Ginzburg31, ammettendo pur tuttavia che nel romanzo vi sono
«pagine di una commozione schietta e immediata, con personaggi,
immagini e situazioni indimenticabili e – già si vede – da antologia»32.
Nella sua analisi Enzo Siciliano riscontra, invece, una incompatibilità tra
l'ideologia potenziale che la Morante esprime nella Storia, e il corso degli
eventi: la morte di Useppe, o quella di Davide, sono per Siciliano pagine
27 Ibidem.
28 E. Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, cit.
29 P. Dallamano, Ecco la Storia degli umili, cit.
30 Ibidem.
31 N. Ginzburg, Elzeviri, «Corriere della Sera», 30 giugno 1974.
32 G. Galasso, Che dice allo storico un romanzo di oggi, «La Stampa», 5 luglio 1974.
15
intrise di decadentismo, dove «la morte è il momento in cui il velo di Maja
si lacera», e non l'espressione del grande male che è la Storia33; per cui il
messaggio che la Morante avrebbe voluto lanciare all' «analfabeto» rimane
muto.
Il primo intervento su «La Fiera Letteraria» porta la firma di Ferdinando
Virdia34. Nel suo articolo Virdia sostiene che «al fondo del romanzo […] c'è
qualcosa di più che non un messaggio sia pure “civile” e se si vuole
libertario, […] ed è, soprattutto, in una sorta di respiro solidale, in una
“cognizione del dolore”, che a volte si vela di ironia, una consanguineità
della scrittrice con gli umili sempre sconfitti dall'orrore della Storia»35.
Per Lorenzo Mondo, La Storia costituisce, «al di qua dell'avanguardia e
delle febbri linguistiche, delle frantumazioni della coscienza e delle
infatuazioni psicanalitiche, […] quello che negli ultimi vent'anni si è
detestato come il fumo negli occhi, si è affermato come improponibile e
cheap: un grosso romanzo pieno di personaggi e vicende ben definiti e
conchiusi»36. Useppe, «generato dal sangue dell'oppresso e dell'oppressore,
dall'abbraccio di due paure, […] annulla in sé ogni storico discrimine, la sua
innocenza è la stessa del primo uomo gettato allo sbaraglio su un pianeta
dolcissimo e funesto»37. È come un piccolo Budda – per ritornare alle
ascendenze orientali della Morante – che «scopre la miseria e il dolore, ma
non si lascia intorbidare la sorgiva di gioia di vivere e tutta la sua esperienza
trasforma in favola»38. Di Nino invece evidenzia la festosità che finisce con
33 E. Siciliano, «La Storia» decadente, «Il Mondo», 11 luglio 1974.
34 F. Virdia, Gioia di vivere e destino di morte, «La Fiera Letteraria», 14 luglio 1974.
35 Ibidem.
36 L. Mondo, Una saga moderna della povera gente, «La Stampa», 19 luglio 1974.
37 Ibidem.
38 Ibidem.
16
l'essere leziosa, mentre le elucubrazioni di Davide e la sua volontà di
annientamento appaiono in parte libresche39.
Luigi Baldacci parla addirittura – nell'accezione positiva del termine – di
romanzo pascoliano40, mentre alquanto forzato risulta il tentativo di
Spinazzola di ricondurre l'opera alla dialettica marxista, a eccezione del
legame che rintraccia con Vittorini, Verga, Manzoni, Dostoevskij, e del
riconoscimento qualitativo della scrittura morantiana rispetto al modello
neorealista41.
Per Luigi Anderlini la Storia, nonostante il grande successo, non è un
romanzo popolare nel senso gramsciano del termine42, in quanto:
La Morante ha escluso accuratamente tutti gli ingredienti popolareschi dal suo armamentario narrativo: non c'è ombra di romanzesco, nel suo romanzo, non ci sono eroi né in positivo né in negativo ma solamente anti-eroi; la stessa connessione con gli avvenimenti storici […] è realizzata attraverso una tecnica di giustapposizione quasi polemica tra il corpo otto in cui è stampata la cronologia scheletrica dei grandi avvenimenti della Storia e il corpo dieci in cui torna ogni volta a modularsi la voce accorata della narratrice43.
Tuttavia proprio questa giustapposizione, secondo l'Anderlini, non porta a
nessuna «inter-azione reciproca», sicché la vita narrata non trova riscontro
nella Storia e viceversa44.
Di romanzo popolare invece, secondo Golino, si tratta, e tanti sono gli
indizi disseminati lungo la narrazione: agnizioni, caratteri, l'incipit del
39 Cfr. Ibidem.
40 L. Baldacci, Il romanzo pascoliano di una nuova Elsa Morante, «Epoca», 20 luglio 1974.
41 Cfr. V. Spinazzola, Lo scandalo della storia, «L'Unità», 21 luglio 1974.
42 L. Anderlini, «La Storia» di Elsa Morante. L'aquilone non prende il vento della speranza, «L'astrolabio», XII (1974) n. 7-8 (luglio-agosto), pp. 41-42.
43 Ibidem.
44 Ibidem.
17
romanzo, e vari esempi di «stile della maniera romanzesco-popolare»45.
Individua inoltre due coppie di opposti in Ida-Nino e Useppe-Davide.
Difatti mentre «Ida è stabilità, ordine, tradizione, certezza», Nino è
«fluttuazione, sradicamento, dissacrazione, anarchia, avventura»: caratteri
che emergono anche dal linguaggio «laddove Ida tende all'eufemismo, al
parlar pulito», mentre «Nino invece all'esplicitezza, alla volgarità, al
dialetto, al gergo»46. L'altra coppia vede invece contrapporsi la poesia, il
mito, la purezza di Useppe all'inquietudine, turbamento e inquinamento
ideologico di Davide:
Il più alto momento di contatto, l'estremo punto di tensione dell'opposizione simbolica tra i due personaggi, scattano quando Davide, poco prima di morire stremato dalla droga e perduto nel vicolo cieco delle sue contraddizioni, rifiuta la visita di Useppe, quasi una torbida rinuncia della salvezza47.
Il punto debole del romanzo, sempre secondo Golino, è l'eccessiva presenza
della morte, che rischia di avviare il lettore su una «pista sbagliata […]
poiché questo libro non è una funebre variazione sul tema della morte, bensì
un affresco fortemente affettivo e lirico sul tema della maternità»48.
Il ritorno alla comunicatività è, secondo Ferretti, il motivo del tanto clamore
suscitato dal romanzo, scritto dopo «una fase caratterizzata da esperienze in
diverso modo avanguardistiche»49. Secondo il critico, ci si trova di fronte a
un'opera di grande valore, nonostante l'utopia dei protagonisti rischi di
«dare una coloritura religioso-consolatoria e mistico-evasiva» al tema del
45 E. Golino, La Storia della Morante, «Mondo operaio», n. 8-9 (agosto-settembre 1974), pp. 97-102.
46 Ibidem.
47 Ibidem.
48 Ibidem.
49 G. C. Ferretti, Dentro e fuori la Storia, «Rinascita», n. 32, 9 agosto 1974.
18
romanzo50. Più severo invece Bruno Schacherl, che nel numero successivo
di «Rinascita» affronta il romanzo da tre punti di vista: il lavoro letterario,
l'operazione culturale e l'operazione editoriale51:
La Storia come operazione editoriale cerca dunque la saldatura con la parte nuova del pubblico […] e la cerca per così dire polemicamente, in nome della «leggibilità» e della «popolarità» […]52.
Secondo l'autore, la sfasatura colta da Ferretti nel precendente articolo53 non
è «sfasatura rispetto alla Storia, ma rispetto alla vita stessa»: siamo di
fronte a personaggi incapaci di vivere, ma la Morante invece di guardare
loro con vergogna, ripone tutto il Male al di fuori di essi54.
Giuliano Gramigna ne «Il Giorno» evidenzia l'importanza della voce
narrante e lo scarto tra intelligenza ed esistenza esposto mediante terza
persona55.
Su «L'Espresso» dell'11 agosto vengono pubblicate due recensioni a firma
di Garboli, in positivo, e Saltini, in negativo56. Saltini critica la visione del
mondo del romanzo: un'«apologia della vitalità naturale e “popolare”» che
si oppone alla Storia e alla borghesia, riscontrabile non solo nella mitezza di
Ida e Useppe, ma anche nella prepotente figura di Ninuzzu; per cui al di là
della Storia resta il mondo «vitalissimo e naturalissimo dell'“homo homini
50 Ibidem.
51 B. Schacherl, Il mito di Useppe e il romanzo popolare, «Rinascita», n. 33, 23 agosto 1974.
52 Ibidem.
53 G. C. Ferretti, Dentro e fuori la Storia, cit.
54 B. Schacherl, Il mito di Useppe e il romanzo popolare, cit.
55 G. Gramigna, La Storia di Elsa Morante – Quella scritta dalle vittime, «Il Giorno», 3 agosto 1974.
56 V. Saltini e C. Garboli, Pro e contro, «L'Espresso», 11 agosto 1974.
19
lupus”», e infine «la Morante […] svaluta la coscienza, la maturità, il
progetto spirituale: anche i suoi adulti vivono nell'infernale paradiso
dell'infanzia, e lei li assolve tutti come la Grande Madre del mito: in odio al
padre, alla Storia»57.
Garboli mette l'accento sulla frase di Gramsci58 che chiude il libro, la quale
sta ad indicare la volontà della Morante di non volersi scagliare contro tutta
la Storia:
La Morante ci sta dicendo […] che “anche” Gramsci è storia: un fiore e non un erbaccia […], non fa altro che ripeterci che “non tutta la storia è storia”. […] Il vero bersaglio polemico della Morante non è la storia, è l'“irrealtà” […]. Cos'è l'irrealtà?È tante cose, naturalmente, ma è soprattutto fascismo. Il fascismo di oggi: un potere senza volto, un potere che è insieme politico e intellettuale. Sì, possiamo chiamare l'irrealtà col nome che le dà Pasolini: fascismo indiscriminato, puerilità gonfiata da cultura degradata e deteriorata, borghesizzazione assoluta, omologazione culturale nel senso di una totale adesione al consumo e alle idee di paglia del consumo59.
Walter Pedullà sull'«Avanti» critica ferocemente l'opera, e per il
tradizionalismo dell'opera, e per la pericolosità dell'ideologia anarchica,
volti a immobilizzare il popolo in una situazione di subalternità, auspicata
dalla scrittrice la quale fa parlare il popolo con un linguaggio
«precostituito» e «fasullo»60.
Prende le distanze dalle posizioni critiche più estreme, in positivo e in
negativo, Geno Pampaloni, il quale coglie nel romanzo due linee
ideologiche: quella evangelico-anarchica di Useppe e Ida, e quella
57 Ibidem.
58 Cfr. E. Morante, La Storia, cit., pag. 657: «Tutti i semi sono falliti eccettuato uno, che non so cosa sia, ma che probabilmente è un fiore e non un'erbaccia»
59 C. Garboli, Pro e contro, cit.
60 W. Pedullà, rec. a La Storia, «Avanti!», 17 agosto 1974.
20
caratterizzata da «un confuso populismo marxista» incarnata da Davide
Segre61.
Renato Barilli sul Verri attacca il romanzo, considerandolo reazionario e
restauratore, «il punto più basso raggiunto in Italia dalla cultura attorno ai
problemi del romanzo», per la scelta di personaggi socialmente e
intellettualmente inferiori al narratore, per la commiserazione verso questi,
per la scelta di un narratore onnisciente, «che vuole, a livello profondo, tutte
quelle morti e quelle crudeltà»62.
Siro Ferrone, nel suo articolo sul «Ponte», opera un'interessante e
approfondita analisi linguistica del romanzo63:
La lingua tende a recuperare, sfidando la banalità, la certezza dei significati, entro un vocabolario di larga divulgazione, che non arretra davanti a espressioni anche logore, a loro modo gergali […], un mosaico dal fondo incolore e dalle combinazioni stereotipe, al quale collabora il linguaggio burocratico e giornalistico […]. Grazie a questo vocabolario che è volutamente elementare e semplificato, la
Morante può avviare con il lettore una comunicazione piana e discorsiva64.
Tuttavia nella narrazione si rilevano «alcuni campioni di un edonismo
musicale che punta alla dolcezza e all'ingenuità del sottofondo, in
contraddizione con l'apparente sobrietà lessicale e sintattica»65. La Morante
costruisce un rapporto esplicito con i personaggi e i lettori proprio
attraverso la «concettualizzazione» del linguaggio. E il mondo «adulto e
storico, formalizzabile nel linguaggio del gergo giornalistico e burocratico»
61 G. Pampaloni, Il «vogliamo tutto» di Elsa Morante, «Il Tempo», 29 settembre 1974.
62 R. Barilli, rec. a La Storia, «Il Verri», n. 7, ottobre 1974, pp. 105-107.
63 S. Ferrone, Davanti a un plotone di esecuzione, «Il Ponte», XXX, 1974, n. 10, pp. 1155-1159.
64 Ibidem.
65 Ibidem.
21
si fronteggia con quello dei bambini e degli animali, fatto di un linguaggio
«visionario e alogico»66.
Su «Belfagor» la Stefani focalizza la propria attenzione sul personaggio di
Davide Segre, personaggio meno riuscito del romanzo, a causa dei
«contrasti irrisolti» della scrittrice, che «risultano estremamente semplificati
e impoveriti quando si passa dal piano della coscienza del negativo a quello
delle proposte»67:
Ma dove il personaggio frana è nel lungo soliloquio che precede di poco la sua morte, quando Davide si improvvisa filosofo ed espone una problematica di cui non riesce ad appropriarsi: l'assunzione di tutte le responsabilità storiche, il senso di un'impotenza che può risolversi solo nell'annientamento e insieme l'ansia insopprimibile di un'identificazione totale con gli altri esseri viventi. Qui è la scrittrice che scopertamente parla per interposta persona […]. È un'autocritica disperata, ma espressa troppo confusamente per costituire un momento attivo all'interno del libro68.
Secondo Luperini, invece, il fallimento della Storia risiede non nel fatto che
la Morante non sia marxista, ma piuttosto nella struttura interna del
romanzo e nella soluzione del rapporto tra scrittore e società, «con le
conseguenti scelte stilistiche», che la portano ad eludere il problema del
reale con «un bel balzo all'indietro nel “classico”, nel “popolare”,
nell'“ottocentesco”»69.
66 Ibidem.
67 L. Stefani, rec. a La Storia, «Belfagor», XXIX, 1974, n. VI, pp. 716-717.
68 Ibidem.
69 R. Luperini, La «Storia» della Morante, la critica della «nuova sinistra» e alcuni problemi di metodo, «Marxismo e intellettuali», pp. 242-243; 245-246.
22
Vogliamo concludere il paragrafo con un articolo di Goffredo Fofi, critico e
amico tra i più cari della Morante. Fofi considera la disperazione della
Storia coerente e positiva70, perchè:
a) tenta una narrazione per gli altri e tenta di esprimere anche la disperazione di quegli altri […];
b) tenta tuttavia […] un argine positivo nell' individuazione e nel richiamo a un'affermazione possibile, a una felicità possibile, la cui semplicità è avulsa dalle complicazioni delle utopie positive correnti, restando così essenziale e di richiamo a un mondo antico […];
c) infine ci pare, soggettivamente, più autentica, cioè più disposta alle rese dei conti di quanto non sia quella dei più dei suoi «colleghi di scrittura»71.
Per Fofi inoltre i personaggi del romanzo non sono «emarginati», come
molti hanno sostenuto, bensì membri di «strati sociali ben definiti: infima
borghesia, contadini inurbati e sottoproletari», e via dicendo. Personaggi
che vivono la storia subendola, «succubi dei grandi avvenimenti storici e
delle scelte dei potenti e della lotta imperialistica e anche della lotta di
classe»: è proprio in questo modo di vivere la storia, che molti dei lettori,
secondo Fofi, si sono riconosciuti72.
70 G. Fofi, Alcuni appunti sul romanzo «La Storia», «Ombre rosse», n. 7, dicembre 1974, pp 92-93.
71 Ibidem.
72 Ibidem.
23
I.2
Le lettere al «manifesto» e lo scontro di matrice ideologica
La responsabilità critica nei confronti del senso dell'autore, soprattutto se non è di quelli verso i quali incliniamo, dipende da un principio etico di rispetto per il prossimo73.
Il 18 luglio del 1974, nella rubrica delle «lettere al manifesto», viene
pubblicata la lettera firmata da Balestrini, Rasy, Paolozzi, Silva, con
evidente intento polemico74. La lettera vuole, più che avanzare delle
critiche, suscitare clamore, tenuto conto del fatto che gli autori non hanno
nemmeno letto il romanzo per intero. Secondo quanto scrive Rina Gagliardi
in una lettera di risposta del 19 luglio75, l'unico peccato della Morante
sarebbe quello di non essere marxista, e di essere lontana dalle soluzioni
avanguardiste del gruppo '63: da qui la critica di questi intellettuali, che
però non si accorgono della distanza che incombe tra De Amicis, Pascoli e
la Morante. «Il “buono”, il valore che essa esalta è la disperata proiezione
d'infinito dei suoi personaggi soli e isolati […]. Non vede essa l'orizzonte
del sole dell'avvenire, non predica fiducia: mette a nudo la sofferenza
73 A. Compagnon, Il demone della teoria, Giulio Einaudi editore, Torino 2000, pag. 99.
74 N. Balestrini, L. Paolozzi, E. Rasy, U. Silva, Contro il «romanzone» della Morante, cit.
75 R. Gagliardi, La Morante non è marxista. E allora?, «il manifesto», 19 luglio 1974.
24
impotente con una spietatezza che farebbe rabbrividire De Amicis e anche
Pascoli»76.
Risponde alla Gagliardi Franco Rella, con una lettera successiva di qualche
giorno77, in cui critica il suo giudizio: la «perfetta aderenza» e la
«semplicità assoluta» di cui parla la Gagliardi 78sono, secondo Rella, spie
dell'ideale borghese del naturalismo. Ma il «peccato» non sta nell'essere o
meno una «scrittrice borghese», «il peccato della Morante è di non essere
nemmeno una grande scrittrice borghese. E cioè di non esprimere le
contraddizioni proprie della borghesia, la tensione […] tra la mistificazione
ideologica e le contraddizioni della realtà»79.
Cosimo Ortesta attacca l'atteggiamento critico degli intellettuali di sinistra
di fronte a un'opera «eteronoma» come La Storia, un «coatto esercizio di
“sistemazione” o di espulsione dell'opera dentro o fuori l'ideologia più
“rivoluzionaria” […]. Alla Morante non interessa "sistemare" i suoi
personaggi in una logica prestabilita, nemmeno nella logica della lotta di
classe (sarà il suo limite ma è un limite estremamente ricco e produttivo nel
testo) e tanto meno le interessano i canoni del romanzo naturalista. Questo è
quanto non ha capito Pasolini che, tra stizze e rimbrotti, distingue poesia e
non poesia in un romanzo che lui avrebbe voluto obbediente alla
rassicurante chiarezza e verosimiglianza del romanzo naturalista. Il suo
linguaggio ha la forza di essere lucida Utopia e miseria, dalle quali la
scrittrice non prende più le distanze come invece fa chi si assoggetta agli
splendidi esercizi (e castighi) dell'intelligenza»80.
76 Ibidem.
77 F. Rella, "La storia": un mediocre romanzo borghese, da criticare da un punto di vista marxista e proletario, «il manifesto», 24 luglio 1974.
78 R. Gagliardi, La Morante non è marxista. E allora?, cit.
79 F. Rella, "La storia": un mediocre romanzo borghese, da criticare da un punto di vista marxista e proletario, cit.
80 C. Ortesta, E. Morante, l'utopia che contamina e non redime, «il manifesto», 31 luglio 1974.
25
Il 6 agosto viene pubblicata una lettera firmata dalla redazione de «il
piccolo Hans. Rivista di analisi materialistica». Secondo gli autori, quello
della Morante è «un romanzo profondo e semplice “che vorrebbe parlare a
tutti” e si vende al modico prezzo di lire 2.000 perché “La Storia” si legga
sulle spiagge e non si faccia in piazza», un' «operazione ideologica
mistificante» che rivela il suo «risvolto politico», con «l'avvallo dei nomi
istituzionalizzati della mediazione interclassista»81.
La posizione della Rossanda nel suo intervento del 7 agosto è schiettamente
politica: La Storia nega agli umiliati e agli offesi qualunque possibilità di
riscatto, di rapporto attivo con gli eventi storici, non resta quindi che subirli.
Per la Rossanda invece è possibile un riscatto82.
La querelle sulle pagine del «manifesto», insomma, non fa altro che
riproporre l'annosa «questione dell'organicità o meno dell'intellettualità al
partito»83, guardando all'opera da una visuale ridotta – eccezion fatta per
autori come Ortesta e Gagliardi – e, ad oggi, fuoriluogo. Scrive la Bernabò
in un articolo apparso su «Lo Straniero» nel mese di ottobre del 2012:
È decisamente inquietante rileggere oggi le recensioni del 1974 su la Storia. Non solo per il senso di generico "straniamento" che acquista la lettura fuori tempo di giornali e riviste; e neppure semplicemente perché, intorno a questo romanzo, sorse un vero e proprio "caso" letterario: […] ciò che più risalta attualmente è la profonda ingiustizia consumata in quell'occasione da ampi settori del mondo culturale italiano – con giudizi tanto distruttivi quanto superficiali – nei confronti di una scrittrice come Elsa Morante […]. Appaiono assurde certe stroncature dettate da una lettura frettolosa dell'opera, a volte addirittura da una voluta "non lettura", oppure dalla rigida applicazione di alcune categorie critiche allora dominanti a un romanzo che traeva la sua forza dirompente proprio dal fatto di essere estraneo […] a qualunque schema, politico o letterario, che pretendesse di rinchiudere la realtà
81 Vuoto nelle piazze e purezza nei cuori, «il manifesto», 6 agosto 1974.
82 R. Rossanda, Una storia d'altri tempi, «il manifesto», 7 agosto 1974.
83 L. De Angelis, Il dibattito su La Storia, in Le Stanze di Elsa, Editore Colombo, Roma 2006, pag. 111.
26
[…], e la sua rappresentazione poetica, in qualche formula ideologicamente accettabile84.
84 G. Bernabò, a cura di, Il dibattito su “La Storia”, «Lo Straniero», n. 148, ottobre 2012.
27
I.3
Pasolini, Calvino, Ginzburg: le opinioni degli autori
La Storia è un romanzo scritto per gli altri. Ora, da moltissimi anni, l'idea di un romanzo scritto per gli altri sembrava volata via dalla terra. L'idea degli altri, da moltissimi anni, è un'idea che genera angoscia, perché gli altri appaiono irraggiungibili. Nei poeti, come Kafka o Beckett, la sterminata lontananza degli altri e l'angoscia diventano un grande universo notturno, nel quale l'uomo riconosce se stesso. Ma quando sono assenti la poesia e la grandezza, ciò che resta è uno squallore sterile, fatuo e triste. Da moltissimi anni, i romanzieri scrivono unicamente per sé. Scrivono per essere meno tristi, meno angosciati, meno soli85.
Una delle principali «morantiane», esaltante in toto La Storia come il
ritorno del romanzo in letteratura, è Natalia Ginzburg, la quale sin dalla sua
uscita ne ha tessuto le lodi86. In primis, per la Ginzburg, è lodevole
«l'assoluta assenza di quelli che sono oggi, nei romanzieri, i vizi dello
spirito. Assente il ribrezzo, assente la vanagloria, assente la preoccupazione
della propria miseria, dell'angustia dei propri confini»: le parole sono spese
«per gli altri»87. La narrazione viene affrontata, senza remore, in terza
persona, e l'io narrante si affaccia ogni tanto, «punto insieme altissimo e
sotterraneo, dotato di uno sguardo che vede l'infinita estensione degli
orizzonti e le infinite e minime rughe e crepe del suolo. Tale sguardo non
85 N. Ginzburg, I personaggi di Elsa, «Corriere della Sera», 21 luglio 1974.
86 N. Ginzburg, Elzeviri, cit.
87 N. Ginzburg, I personaggi di Elsa, cit.
28
conosce limiti, né in estensione, né in profondità»88. La sventura dei
personaggi rappresenta, rispetto alla felicità, «un'esplosione di luce ancora
più abbagliante», cosicché le gioie e le offese si trovano in «condizione di
parità». La Ginzburg non è assolutamente d'accordo con chi ha ricollegato il
romanzo al Neorealismo, in quanto il punto di vista è assolutamente
diverso:
Qui le medesime cose sono viste in una dimensione immensa e confusa, in profondità e nello stesso tempo come da lontananze sterminate, e non ci sono più tracce di quelle stesse rozze speranze89.
La funzione di Useppe, nella «Storia», è quella di rappresentare
«l'innocenza festosa e ignara, e insieme l'onniveggenza a cui non sfugge
alcuna anche lontana sventura90». Ed infine, sempre secondo la Ginzburg,
dalla disperazione del romanzo sembra venire fuori una «sorta di strana
speranza».
Pier Paolo Pasolini recensisce la Storia in un lunghissimo intervento uscito
sul «Tempo», fortemente critico nei confronti della scrittrice91 – cause di
tale acrimonia furono anche alcuni screzi personali intercorsi tra i due: di
fatto proprio questo articolo segnò la rottura definitiva dei loro rapporti92.
Egli individua, nel romanzo, tre libri diversi, fusi tra loro:
88 Ibidem.
89 Ibidem.
90 Ibidem.
91 P. P. Pasolini, La gioia della vita - La violenza della storia, «Tempo illustrato», 25 luglio 1974; Un'idea troppo fragile nel mare sconfinato della storia, «Tempo illustrato», 1 agosto 1974.
92 G. Bernabò, La fiaba estrema, cit., pp. 188-190.
29
Il primo di questi libri è bellissimo – è straordinariamente bello – basti dire che mi è capitato di leggerlo nel bel mezzo di una lettura dei “fratelli Karamazov” e che reggeva mirabilmente il confronto. Il secondo invece è completamente mancato, non è altro che un ammasso di informazioni sovrapposte disordinatamente, quasi, si direbbe, senza pensarci sopra; il terzo libro è bello, benché molto discontinuo e con molte ricadute nella confusione un po' presuntuosa del libro di mezzo93.
Il primo libro, inerente la storia dei genitori di Ida, si muove nella sfera del
«mito», e si protrae fino alla nascita di Useppe. Il secondo va dalla nascita,
narra lo sfollamento nella caserma di Pietralata, la fine della guerra, fino al
trasferimento a Testaccio. Il terzo libro è un«libro delle morti», in cui,
nonostante la guerra sia terminata, tutti i personaggi muoiono94.
La vita del primo libro, che si oppone alla Storia, è una vita di morti, una
vita «non esaltata e strumentalizzata in quanto tale»: questo confronto – vita
dei morti vs Storia – perde la sua forza e scade con la nascita di Useppe. Il
secondo libro, infatti, la narrazione cede il passo al «manierismo», e la vita
non viene più «rappresentata», viene «celebrata»95. Pasolini trova inoltre il
linguaggio di questa parte di un'«elementarità disarmante», e la mimesi del
parlato dei personaggi goffa, rispecchiante più «certi trafiletti di costume
del “Messaggero”»96. Per questo, a Nino, Useppe e Davide, preferisce la
poetica figura di Ida, una povera di spirito, «incapace di guardare una sola
volta nella vita in faccia la realtà, eppure così piena di grazia, non mai
manieristica»97. L'ideologia morantiana, che non trova riscontro in altre
ideologie, in quanto «pastiche» di più correnti di pensiero, mantiene la sua
forza solo se espressa in una «assoluta illeggibilità» come ne Il mondo
salvato dai ragazzini: una volta tradotta in forma di romanzo popolare,
93 P. P. Pasolini, La gioia della vita - La violenza della storia, cit.
94 Ibidem.
95 Ibidem.
96 Ibidem.
97 P. P. Pasolini, Un'idea troppo fragile nel mare sconfinato della storia, cit.
30
«perde ogni credibilità: diviene un fragile pretesto che finisce col
derealizzare la sproporzionata macchina narrativa che ha preteso di mettere
in moto»98.
Italo Calvino usa, come termine di paragone alla Storia, i Miserabili di
Hugo, «summa del romanzesco popolare e di rapsodia dell'epos storico-
sociale», il cui pathos però è accettabile perché l'opera è apertamente
melodrammatica99. Diverso è il caso del romanzo morantiano:
Oggi sentiamo che far ridere il lettore, o fargli paura, sono procedimenti letterari onesti; farlo piangere, no. Perché nel far piangere ci sono pretese che il far ridere o il far paura non hanno. […] La vera riuscita sarebbe quella di chi sapesse affrontare l'insieme di procedimenti e di effetti di tecnica letteraria della commozione e cercare di capire cosa sono, cosa significano, come funzionano, perché comunicano qualcosa che molti lettori credono di riconoscere. A una chiara coscienza tecnica di questi procedimenti letterari forse potrebbe corrispondere un nuovo uso del pathos come pedagogia morale non mistificante. Il nodo di una futura possibile letteratura popolare è lì: ma siamo lontani dal saper lo risolvere.100
Uno degli interventi favorevoli al romanzo, a nostro parere esemplare per la
lucidità d'analisi, è quello di Giovanni Raboni, pubblicato nel mese di
dicembre sui «Quaderni piacentini»101. Secondo questi, le accuse
ideologiche mosse al romanzo – per alcuni «consolatorio» per altri
«disperato» – sono frutto di un fraintendimento della «realtà poetica del
libro»:
La Storia non è un libro consolatorio, non è un libro disperato: è un libro sull'atroce non presenza di una felicità possibile. Questa non presenza è, nel libro, una presenza infinitamente costitutiva. Non è qualcosa che sta dentro il libro: è il libro,
98 Ibidem.
99 I. Calvino, Allora Hugo disse alla Morante..., «L'Espresso», 1 settembre 1974.
100 Ibidem.
101 G. Raboni, Il libro di Elsa Morante, «Quaderni piacentini», nn. 53-54, dicembre 1974.
31
la sostanza della sua immaginazione, della sua scrittura; se si vuole della sua "ideologia". Solo la formicolante attività corporea di questa assenza (la felicità che non c'è, la felicità che dovrebbe esserci, che ci sarà perché naturalmente appartiene agli uomini) spiega l'enorme, silenziosa ilarità che anima tante pagine della Storia, facendo di questo libro "disperato", di questa cronaca di macelli, una sorta di grandioso inno alla gioia102.
Non si tratta di una gioia consolatoria, ma di una gioia continuamente
negata dalla «macchina disumana della Storia», che non può far altro,
poiché negata, che manifestarsi sotto forma di «tensione espressiva»103.
E ancora:
La Storia è un romanzo non borghese perché (il paradosso è solo apparente) non contiene un'ideologia antiborghese, anzi […] non contiene nessuna ideologia, ma esprime a-ideologicamente o pre-ideologicamente la privazione ingiusta della felicità e l'istinto di felicità di chi, spinto ai margini della vita dalla violenza e dall'istinto di conservazione e di morte della società borghese, e d'altra parte incapace di contrapporre alla violenza di cui è vittima un'alternativa cosciente per il futuro, non può far altro che vivere nel presente, passivamente e fantasticamente, il fantasma della felicità negata104.
Viene così superata la feroce invettiva di quella parte di critica che avrebbe
voluto soppesare La Storia alla luce di strumenti che, come ha rilevato
Raboni, poco hanno a che fare con la materia che costituisce il romanzo.
102 Ibidem.
103 Ibidem.
104 Ibidem
32
I.4
«È o non è un capolavoro»: il dibattito critico su «La Fiera Letteraria»
Il clamore della comparsa della Storia nel panorama letterario italiano
spinge la redazione de «La Fiera Letteraria» a dedicare il numero del 6
ottobre all'opera, e al dibattito innescato da questa105. Evitando le
polemiche, le prese di posizione “politiche”, Angelo Pupino introduce e
dirige gli interventi di otto critici – compreso l'intervento di Michel David,
pubblicato sul numero successivo – più o meno favorevoli al romanzo.
Nell'introduzione, Pupino si mostra piuttosto critico nei confronti del
romanzo, da lui considerato populista e conservatorio, con brani – come
quello della morte di Nora – da antologia, e scelte più infelici, come la
mimesi del linguaggio infantile, o – secondo Mario Praz – i ritratti
«ridicoli» di Hitler e Mussolini.
Asor Rosa focalizza la sua attenzione sul linguaggio, volutamente
accessibile a tutti, come indica la citazione del vangelo di Luca sul retro-
copertina del libro: un linguaggio comune che descrive «ogni aspetto della
realtà, sia esterna sia psichica, in modo [...] da non lasciare al lettore nessun
margine per una propria autonoma reinvenzione ed estensione della parola e
105 A. Pupino, A. Asor Rosa, R. Barilli, G. Mariani, G. Petrocchi, C. Salinari, G. Spagnoletti, F. Ulivi, M. David, «La Storia» è o non è un capolavoro?, «La Fiera Letteraria», nn. 40-41, 6 e 13 ottobre 1974
33
dell'immagine, ossia per un rapporto problematico e “aperto” con il
testo»106, avente la funzione principale di «deformare […] l'“immagine della
realtà” quel tanto che basta per suscitare nel lettore un effetto di pronta e
pressoché irresistibile reazione emotiva»107. Questo linguaggio, con le sue
minuziose descrizioni del reale, rimanda al cinema, in particolare ai
kolossal, e agli short pubblicitari. Il significato storico de La Storia consiste
quindi nell'aver introdotto questa forma di linguaggio in letteratura.
Al di là della visione negativa di Asor Rosa, va tuttavia sottolineato come la
sua analisi linguistica possa essere ritenuta valida. Basta confrontare il
linguaggio della Storia con la definizione che S. Mannori dà del linguaggio
pubblicitario:
Il linguaggio pubblicitario deve rendersi accessibile e comprensibile ai destinatari attraverso l'utilizzo di forme linguistiche che tendono ad una certa originalità nella creazione di neologismi e nell'utilizzo di costruzioni inedite e accattivanti108.
Sono infatti i neologismi e le costruzioni messe in bocca a Useppe a
coinvolgere il lettore in una συν-πάσχω totalizzante con quest'ultimo, a
condurlo verso l'elettivo ingresso nel mondo infantile e puro da cui il
«bambinello» vede la realtà.
Mariani rileva proprio questo legame tra il tema del linguaggio e la figura di
Useppe «il quale, miracolosamente appunto e precocemente, vedendo
perdersi il palloncino nello spazio (mitica reminiscenza sabiana e
106 A. Asor Rosa, Il linguaggio della pubblicità, ibidem.
107 Ibidem.
108 E. Borello, S. Mannori, Teoria e Tecnica delle comunicazioni di massa, Firenze University Press, Firenze 2007, pag. 67.
34
montaliana), pronunzierà le sue prime parole nelle quali è racchiuso il senso
della sua vita futura»109.
La Morante, con la sua polemica storica, si riallaccia alla tradizione in
modo rivoluzionario, guardando più al Nievo delle Confessioni che al
Manzoni, in quel tentativo del protagonista di vivere la storia di tutti i
giorni, a dispetto della grande Storia. A questo ritorno alla tradizione del
romanzo, nonché a certi giudizi, favorevoli o meno, e alla campagna
mediatica si deve il successo di pubblico, di un'opera che Mariani ritiene
problematica.
Petrocchi emette un cauto giudizio positivo sull'opera, considerando pur
tuttavia mal riuscito il «tentativo di ricostruire la “storia” nella Storia».
Occorre che passino molti anni, come fu per il Pasticciaccio, per emettere
un giudizio lucido sulla Storia110.
Per Salinari, invece, il linguaggio del romanzo raggiunge, grazie al suo
impasto di lingua e dialetto, una «originalissima naturalezza espressiva», e
sul piano delle costruzioni narrative riprende il romanzo autentico111.
G. Spagnoletti trova, nella voce narrante divisa tra «l'onniscienza del
narratore ottocentesco e la donna del Testaccio», un «errore di
impostazione»112, mentre Ulivi apprezza la «coerenza stilistica», nonostante
alcune soluzioni abbiano l'aria di «curiose saldature»113.
109 G. Mariani, Un libro problematico, in «La Storia» è o non è un capolavoro?, cit.
110 G. Petrocchi, Aspettiamo dieci anni, ibidem.
111 C. Salinari, Il barolo e la Coca-Cola, ibidem.
112 G. Spagnoletti, Scrivere alla «Morante», ibidem.
113 F. Ulivi, Connotati insoliti, ibidem.
35
Capitolo II.
La Storia nel lungo termine: cosa rimane di un capolavoro
II.1
Senza i conforti della religione: appunti e intenzioni dell'autore
Protagonista del nuovo libro è un ragazzo del popolo che abita nel quartiere romano del Testaccio […]. Il nuovo personaggio ha un po' del Don Chisciotte e un po' di Achille. Secondo la Morante, infatti, nell'opera narrativa si possono riconoscere sempre tre personaggi, che poi sono i diversi atteggiamenti dell'uomo di fronte alla realtà; il Pelide Achille, cioè il greco dell'età felice, per il quale la realtà è viva, nuova, naturale; don Chisciotte, per il quale la realtà è insoddisfazione, talvolta repugnanza, cosicché egli cerca salvezza nella finzione. Il protagonista di «Senza i conforti della religione» è Achille e don Chisciotte1.
La stesura di Senza i conforti della religione ha inizio nel 1958, pensato
inizialmente come un racconto da inserire nella raccolta Lo scialle
andaluso2. La scrittura si protrae fino al 1964, all'epoca della stesura del
Mondo salvato dai ragazzini3. L'opera, incompiuta, è particolarmente
interessante poiché contiene in nuce personaggi e concetti che verranno
1 G. Massari, La sua patria è l'Isola di Arturo, «L'Illustrazione italiana», maggio 1960.
2 E. Morante, Lo scialle andaluso, Einaudi, Torino 1963.
3 Cit.
37
ripresi, elaborati e approfonditi nelle successive opere, e, in particolare,
nella Storia.
Personaggio principale di questa storia è Giuseppe Ramundo, figlio di una
maestra elementare. Giuseppe decide di narrare, dopo la morte del fratello
Alfio (nel manoscritto però viene a volte chiamato Nino), più grande di lui,
la storia della propria famiglia. I due fratelli hanno un padre – quindi un
cognome – diverso, come diverso è il loro aspetto: alto, atletico e di bel
colorito Alfio-Nino; piuttosto piccolo, gracilino e di colorito olivastro
Giuseppe4.
Gli elementi in comune con la Storia sono numerosissimi: personaggi
omonimi – Giuseppe, durante la sua infanzia, viene chiamato
affettuosamente Useppe – il bombardamento di San Lorenzo, la morte del
cane Fritz-Blitz, le vicende di Alfio – dalla partecipazione alle Brigate Nere,
alla lotta partigiana, al contrabbando del dopoguerra – la stanza erbosa sulle
rive del Tevere, la cagna Bella acquistata dal fratello, sono alcuni esempi.
Ma c'è, nel secondo fascicolo dei manoscritti, un incipit indicato dalla
Morante come definitivo, che, come sostiene Beràrd, può forse essere
considerato una chiave di lettura della vicenda5:
Certe costruzioni dell’infanzia si condannano forse, già da se stesse, alla distruzione. Si aspetta forse dalla maturità, una qualche spiegazione risolutiva che valga a sgombrarci da quelle rovine incantate... ma certe distruzioni precoci e brutali non negheranno forse, in anticipo, ogni spiegazione futura? Io sono, oggi ancora, troppo lontano dalla maturità, per tentare di darmi una spiegazione [bastevole] [possibile] [plausibile]. La sola che saprei darmi (vulnerabile e provvisoria quanto le mie costruzioni stesse) avrebbe quest’una: che io per istinto, fin da bambino, mi ero innamorato della felicità. Si dice che gli amanti [l’amore] della felicità [contrasta] contrastano con gli amanti [l’amore] della virtù. Ma per me, spontaneamente la felicità assumeva il valore della virtù [stessa]
4 Per una sinossi dell'opera, si legga C. C. Beràrd, Il romanzo in-finito, «Testo & Senso», n. 13, 2012, http//www.testoesenso.it.
5 C. C. Beràrd, Il romanzo in-finito, cit.
38
perfetta. Le persone naturalmente più felici mi sembravano le massime proclamazioni della nobiltà umana. E la speranza della felicità, proprietà intima e singolare di ogni persona per me è il vero segno che nessuno è mortale e che, alla fine, ciascuno sarà beato! (fasc.2, cc 3 = 1bis – 4= 1 ter) Ogni cenno, ogni parvenza dell’amata felicità muoveva il mio affetto. La pietà del dolore è in quel pianto della felicità negata [il suo patire] come di un bandito che cerca la sua patria]6.
(Gi)useppe ricerca questa felicità nelle cose, ma è soprattutto attraverso
l'esercizio della poesia che il protagonista si impegna in una recherche più
profonda, vero punto chiave del personaggio, che può aiutarci a
comprendere l'Useppe fanciullino della Storia:
Le ignoranze) dei viventi! le quali, dando a lui, un nome credevano [presumevano] di affermare [asserire] o di negare lui in questo nome. Quando [mentre] invece l’affermazione [lo splendore] di Dio non era il suo nome [lui forse non aveva nome affatto] ma l’innominata speranza della sua felicità [del suo Paradiso], che era citata segretamente, come in un crittogramma, da ogni singola esistenza, e si confidava alla profonda attenzione come una grazia parlante. [...] E si spiegava allora perché si trovasse [qui] una tale contentezza nel gioco delle poesie: dove si conosceva solo una suprema attenzione, senza giudizio7.
In un altro passo, in cui Giuseppe ragiona sull'esistenza del paradiso,
troviamo una ancor più esplicita equazione:
Là non vi è luogo, non vi è distanza: e tutti i numeri sono come zero. Là c’è l’infinito, e tutto è interno, sta dentro l’anima. C’è solo un presente senza ricordi, che è un’unica felicità. E questa felicità è il mistero di Dio. [Essa è uguale a Dio: anzi, forse, essa è Dio] (c.160 = 12)8.
6 Il manoscritto inedito di Senza i conforti della religione è custodito presso la Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele di Roma. Tuttavia, viene qui consultato come fonte C. C. Beràrd, Il romanzo in-finito, cit.
7 Ibidem.
8 Ibidem.
39
Ma in questo Giuseppe Ramundo più antico troviamo un altro personaggio,
che verrà poi sviluppato autonomamente nella Storia: trattasi di Davide
Segre. Se infatti Useppe9 è formato ad immagine e somiglianza di Giuseppe
infante, Davide non è altro che il Giuseppe narrante, ovvero adulto, che con
la morte del fratello Alfio rinuncia alla poesia e alla «religione segreta»,
ormai inutili, per imboccare – ma a quel punto il romanzo si interrompe – la
strada dell'“alienazione” e delle “droghe”10.
Non solo «don Chisciotte», quindi, ma «Amleto»: è questo il terzo
personaggio ravvisabile in Giuseppe. Sono i tre personaggi principali
maschili della Storia: Achille-Ninuzzu, Amleto-Davide, don Chisciotte-
Useppe.
Come il romanzo originale di Cervantes, anche il piccolo «don Chisciotte»
morantiano si rifugia in un mondo di fantasia, dove gli animali parlano, e
gli uccelli rivelano enormi misteri.
Il motivetto cantato dagli uccelli a Useppe – «è uno scherzo uno scherzo
tutto uno scherzo»11 – sorta di sacro e sibillino messaggio, si trova già nel
manoscritto di Senza i conforti della religione, fischiettato da un uccello
nella valletta Tiberina in riva al Tevere che ritroveremo nella Storia:
Se voglio, ancora oggi, posso fischiettare le note di quella cantatina, per quante volte la udii, ripetuta sempre uguale salvo capricci impercettibili. Era un’aria di quindici note in tutto: spiritosa, ma senza ironia, anzi con una specie di allusione affettuosa nella sua [ingenua] malizia. E il significato che suonava facile ad intendersi, tradotto in parole, pareva: «è uno scherzo: uno scherzo! È stato tutto uno scherzo!»12.
9 Per comodità chiameremo Useppe il personaggio de La Storia, e Giuseppe il protagonista di Senza i conforti della religione.
10 C. C. Beràrd, Il romanzo in-finito, cit.
11 E. Morante, La Storia, cit. , pag. 269. Il motivetto si ripete nelle pagine seguenti con piccole varianti.
12 C. C. Beràrd, Il romanzo in-finito, cit.
40
Tra le pagine del manoscritto compare più volte l'acronimo «T.U.S.»: è
probabile che fosse stato pensato come titolo di una sezione, e sappiamo
che ricomparirà nel manoscritto della Storia, pensato in un primo tempo
come titolo dell'opera13.
13 1618/1.1 c.1, Biblioteca Nazionale Centrale, Roma. Fig. 3.
41
II.2
Il mondo salvato dai ragazzini e La Storia: la dialettica di un'idea
E mendicando rincorro lo sventolio di un ciuffettoo una maglietta rossa che scantona...14
La morte di Bill Morrow, nel '62, segna nella vita di Elsa un duro
cambiamento. Il dolore di questa perdita confluisce nell'Addio15 – e non solo
– che apre Il mondo salvato dai ragazzini.
Quest'opera, sorta di ibrido originale di poesia, teatro e canzone, esce nel
'68, e contiene in sé i germi di varie esperienze, che vanno da Senza i
conforti della religione alla conferenza Pro o contro la bomba atomica,
tenuta a Torino e a Roma nel '6516, alle frequentazioni amicali dell'autrice in
quegli anni – ad esempio William Edwards.
Molti sono i punti di collegamento con la Storia: a cominciare dall'ideologia
di fondo, la «speranza nell'anti-potere della poesia come religione e politica,
come filosofia»17: ed Il mondo salvato è proprio il «manifesto» di questa
ideologia, come lo descrive la Morante nella quarta di copertina della prima
14 E. Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, cit., pag. 5.
15 I versi di Addio vengono cominciati a scrivere nel 1964.
16 E. Morante, Pro o contro la bomba atomica, «L'Europa letteraria», n. 34, marzo-aprile 1965, pp. 31-42, pubblicato successivamente nel volume omonimo da Adelphi.
17 G. Fofi, Prefazione a Il mondo salvato dai ragazzini, cit. , pag. IX.
42
edizione. Fofi aggiunge le definizioni di «comizio» e «predica», «invito» e
«monito» ai ragazzini, agli analfabeti a cui la Storia è dedicata18.
A cominciare proprio da Addio ritroviamo – a ritroso – gli echi del
personaggio di Useppe:
Dietro la belva in fuga irraggiungibilemi butto sulla traccia del sangue.
Voglio salvarti dalla strage che ti rubae riportarti nel tuo lettuccio a dormire.Ma tu vergognoso delle tue feritemascheri i cammini della tua tana.
[…]
Ma tu rintanato nel tuo freddo nascondigliodisprezzi la mia commedia miserable19.
Questa descrizione riporta alla mente un altro passo della Storia:
Benché fosse stato lo stesso Useppe a esiliarsi (per quell'istinto che caccia gli animali feriti nei nascondigli), Ida a quel colpo […] s'era sentita offesa carnalmente dall'intero mondo degli altri20.
Il comportamento dell'uno è identico a quello dell'altro: come bestie ferite –
dal «grande male» – Useppe e Bill rifuggono il mondo e gli altri. Non solo:
un altro pezzo di Addio ci mostra la Morante – il suo fantasma letterario –
come Ida nell'atto di consolare il ragazzino dopo un attacco epilettico:
Quando gli spiriti della strage mi atterravano con un urlotu mi carezzavi caduto dicendomi che non era niente.
18 Ivi, pag. VI.
19 E. Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, cit., pp. 5-6.
20 E. Morante, La Storia, cit., pag. 476.
43
Quando i miei occhi consapevoli pieni di paurati chiedevano aiuto, tu me li baciavi ridendo21.
Ma il ragazzetto dell'Addio è invocato con disperazione, giacché «non c'è
passo terrestre» che porti a lui, forse solo una perdizione (droga, veleno,
morte) che richiama la fine di Davide Segre22.
E così, nel finale di Addio, vediamo l'autrice, risvegliata dal fantasma-
ragazzino, rimproverare – ma con quale amore – questi come Ida Mancuso
avrebbe rimproverato Ninnarieddu, rincasato troppo tardi.
E così non ho udito il tuo passo, né il tintinniodel mazzetto delle chiavi, né l'aprirsi dell'usciomentre tu rincasi. Due mani fanciullesche mi solleticano la nuca.
Riconosco, vicino alla mia faccia, il sapore di nidodelle tue ciocche. Intravedo, con le mie pupille confuse,le ombre luminose dei tuoi occhi, del colore di un mare stellato.«Ah, teppista! Ci sei finalmente! A quest'ora, si torna?
Potevi almeno dirmelo, ieri sera, che facevi nottata!Che hai fatto? Forse è successo qualcosa? una lite? chi ti ha offeso?Oppure un malore... t'hanno fatto bere, di nuovo? sei caduto?...ti sei ferito? dove hai male?»...23
Questa scena potrebbe essere benissimo la resa in versi di una delle sere in
cui Nino, dopo essere stato in giro a bagordi coi suoi amici, rincasa
trovando Ida sveglia: ciò ci dà la misura di quanto i caratteri dell'universo
morantiano siano interconnessi tra loro.
Avo di Ninuzzo è pure il «pazzariello», figura centrale del poema che dà il
nome alla raccolta, sorta di Achille che, grazie alla sua naturalezza – al suo
contatto col reale – diventa eroe in contrapposizione alla «Grande Opera»,
21 E. Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, cit., pag. 20.
22 Ivi, pag. 6.
23 Ivi, pag. 18.
44
la Storia che soggioga tutti gli «Infelici Molti» sotto il dominio
dell'«Irrealtà»24.
Ecco Nino, ne La Storia, inveire con euforia contro il potere:
«La guerra è stata una commedia, a’ mà!» E si alzò in piedi. Così denudato, moro, dentro la stanzuccia accaldata e misera, pareva un eroe: […] «…Questi se credono de ricomincià tutto come prima, nun te n’accorgi? Embè, se sbaieno a’ mà! Ci hanno messo in mano le armi vere, quann’eravamo pischelli! E mò noi ce divertimo a faie la pace! Noi, mà, JE SFASCIAMO TUTTO!» D’un tratto si esilarò. Quest’idea di sfasciare pareva mettergli addosso un’allegria straordinaria: «E vi credete pure di farci tornare alla scuola!» riprese, parlando italiano civile apposta con l’intenzione di sfottere sua madre, «il latino scritto il latino orale la storia e la matematica… la geografia… La geografia, io me la vado a studià sur posto. La Storia, è una commedia loro, che ha da finì! NOI gliela famo finì! E la matematica… Lo sai qual è il numero che più mi piace a’ mà? È lo ZERO!…25
Nel «pazzariello» del Mondo salvato dai ragazzini questa opposizione è
vissuta più inconsapevolmente, è un'opposizione quasi genetica. Il
«pazzariello», però, è anche anticipatore di Useppe – che nella Storia viene
chiamato, ma solo una volta, «pazzariello»26 – per quella innocenza-
inconsapevolezza che ne fa una figura cristologica, un vessillo di quel
messaggio che proprio il Re dei Giudei pronuncia al ragazzino Rufo nella
Canzone della Forca che apre il poema:
PURE SE CI FA TREMAREPER GLI SPASIMI E LA PAURA,TUTTO QUESTO,IN SOSTANZA E VERITÀ,NON È NIENT'ALTRO
24 Ivi, pp. 159-245.
25 E. Morante, La Storia, cit., pag. 442.
26 Ivi, pag. 506: «Forse, quella voce non percepita, ma che pure batteva in lei [Ida] da qualche punto, di là dalle soglie del suono, già la avvertiva che al suo pazzariello non resterebbero più tante altre estati?».
45
CHE UN GIOCO27
Questi versi vengono, con varianti, ripetuti più volte nel poema, e sono
variazione del «tutto uno scherzo» che ritroviamo nella Storia, novella
diffusa ai «piccoli» da francescani uccellini: non sarà un caso che il
«pazzariello» soffra di «ornitomania contagiosa»28.
Per ultimo citiamo la Serata a Colono, una parodia, come la definisce la
Morante stessa29. Secondo Concetta D'Angeli, vi è una stretta connessione
tra il personaggio di Edipo e Davide Segre30: essa confronta alcuni passaggi
poco chiari del monologo di Edipo con il discorso di Davide all'osteria,
mettendone in evidenza i punti comuni: dalla «specie di cosmogonia», alla
«condanna disperata dell'uomo e della sua ricerca», per finire con il «delirio
autoaccusatorio e autodistruttivo»31.
27 E. Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, cit., pag. 165.
28 Ivi, pag. 198.
29 Ivi, pp. 35-108.
30 C. D'Angeli, Leggere Elsa Morante, Carocci editore, Roma 2003, pp. 129-130.
31 Ibidem.
46
II.3
La biblioteca dell'autore: La Storia, il Beato Angelico e Simone Weil
Il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell'Iliade è la forza. La forza usata dagli uomini, la forza che sottomette gli uomini, la forza davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae. L'anima umana vi appare di continuo alterata dai suoi rapporti con la forza: trascinata, accecata dalla forza di cui crede di disporre, curva sotto il giogo della forza che subisce32.
Intorno al 1970 Elsa Morante si occupa di scrivere un'introduzione a un
libro sul Beato Angelico33. Non è un artista a lei particolarmente caro, ma,
una volta approfonditane la conoscenza, ne rimane colpita.
Attraverso un discorso per nulla accademico, la Morante descrive il mondo
artistico dell'Angelico alla stregua della Luce Divina: l'arte diviene
propaganda di quel mondo superiore che l'Angelico, innamorato della luce
suprema – quella che non viene «degradata nella scala» visibile – va
narrando agli «idioti», i veri destinatari del messaggio iconografico34.
Non una religione bigotta e assopita sui propri modelli, ma un messaggio
d'amore e di suprema bellezza è quello dell'Angelico: giacché «le opere
32 S. Weil, L'Iliade o il poema della forza, Cahiers du Sud, 1943; oggi pubblicato da Asterios Editore, Trieste 2012, pag. 39.
33 E. Morante, Il Beato propagandista del Paradiso, prefazione al volume Tutta l'opera del Beato Angelico, “Classici dell'arte”, Rizzoli, Milano 1970, pp. 5-10; ripubblicato in Pro o contro la bomba atomica ed altri scritti, Adelphi, Milano 1987, pp. 95-138.
34 Ibidem.
47
dell’arte di propaganda sono un siero della verità. Se la propaganda è
spontanea e sincera, riescono belle. Se no, riescono dei mostri»35.
Questo voler «predicare agli idioti, nella loro lingua», lo ritroviamo
espresso nel suo potenziale più alto proprio nella Storia: sin dalla dedica –
Por el analfabeto a quien escribo36 – che apre il romanzo, per poi ritrovarlo
in quel linguaggio semplificato che si serve di frasi d'uso comune e di un
burocratese preso a prestito dai giornali.
Secondo Graziella Bernabò,
Se la figura del fraticello può essere considerata come una sorta di modello per una poetica che intende fondere ragione ed emozione, essa può essere vista anche come uno dei possibili riferimenti per il personaggio di Useppe, che sarà centrale nella Storia. Del confidenziale nome di Guidolino, dato all'Angelico dai suoi contemporanei, la Morante si chiede infatti se non fosse dipeso dal fatto che «almeno da ragazzetto, cresceva fragile, e di piccola statura». Anche Useppe sarà presentato come un bambino molto piccolo, ma delizioso, quasi divino, innamorato fin dalla nascita della vita e della luce37.
Tra gli autori che più hanno influito sulla Storia, si può citare su tutti
Simone Weil38. Vi influisce in due modi: da un lato nell'impostazione
ideologica del romanzo, nella concezione della Storia in cui troviamo
l'influenza della sua filosofia; dall'altro, nei tratti biografici di Davide Segre,
oltre che nella sua ideologia personale.
Ideologicamente, il romanzo offre una visione del mondo raffrontabile con
la letteratura greca, in particolare l'Iliade. Ma è più attraverso il saggio
35 Ibidem.
36 E. Morante, La Storia, cit., pag. 3.
37 G. Bernabò, La fiaba estrema, cit., pp. 191-192.
38 Cfr. Ivi, pp. 198-201.
48
weiliano l'Iliade o il poema della forza39 che si attua questa visione
ideologica: oppressi e oppressori sono vittime, inconsapevolmente, della
«forza» – il potere – che guida il mondo:
La forza annienta tanto impietosamente, quanto impietosamente inebria chiunque la possiede o crede di possederla. Nessuno la possiede veramente. Nell'Iliade gli uomini non sono divisi in vinti, schiavi, supplici da un lato e in vincitori, capi dall'altro; non vi è un solo uomo che non sia in qualche momento costretto a piegarsi alla forza40.
Allo stesso modo sono trattati i personaggi della Storia, dal soldato Gunther
che apre il racconto41,a Ida, Useppe e tutti gli altri. Si pensi all'episodio in
cui Davide Segre finisce, a calci in testa, un soldato tedesco sorpreso su una
mulattiera:
Ma Piotr respinse la rivoltella, e in un odio determinato, furente, sferrò un calcio spaventoso, col suo pesante scarpone sulla faccia rovesciata di colui. Dopo un istante di pausa, ripeté il gesto, uguale, e così di nuovo più volte, sempre con la stessa violenza folle, ma con un ritmo stranamente calcolato. […] Al primo colpo, il tedesco aveva reagito con un urlo soffocato e rantolante, che ancora sapeva di rivolta; ma le sue urla via via s'erano indebolite fino a ridursi a un piccolo gemito femminile, quasi un'interrogazione intrisa di vergogna senza nome42.
In questo punto dell'opera troviamo i ruoli di vittima e carnefice
palesemente rovesciati nell'insensata violenza di Piotr-Davide e nel gemito-
interrogazione del soldato tedesco – che ricorda forse l'interrogazione
39 si veda la citazione a inizio di paragrafo.
40 S. Weil, L'Iliade o il poema della forza, cit., pag. 51.
41 E. Morante, La Storia, cit., pag. 13, e lungo tutta la prima sezione (…..19**).
42 Ivi, pag. 273.
49
ancestrale del piccolo Useppe che, «con lo stupore di una bestiola, disse in
una voce disperata: “a mà... pecché?”»43.
Così per il soldato tedesco come per Gunther, Nino, Davide, Giovannino e
tutti gli altri, la vita si svolge lontano dal mondo degli affetti e della
famiglia, e il contrasto tra l'evocazione di questo mondo e la realtà vissuta è
simile a quello descritto dalla Weil sempre riguardo all'Iliade:
Ancora più dilacerante, tanto il contrasto è doloroso, è l'improvvisa evocazione, subito cancellata, di un altro mondo: il mondo lontano, precario e toccante della pace, della famiglia, quel mondo in cui ogni uomo è ciò che conta di più per quelli che lo circondano. […] Certo, era lontano dai bagni caldi, lo sventurato. Non era l'unico. Quasi tutta l'Iliade si svolge lontano dai bagni caldi. Quasi tutta la vita umana si è sempre svolta lontano dai bagni caldi44
A confronto si potrebbero citare molti passi della Storia, come la
descrizione del «villaggetto materno in Baviera» da cui proviene Gunther,
«unico punto chiaro e domestico nel ballo imbrogliato della sorte»45, o la
morte di Giovannino con la sua regressione allucinatoria al mondo
dell'infanzia46.
Tornando alla concezione del mondo nella Storia e dei paralleli con la
filosofia weiliana, la Weil, in un saggio del 1937, parla di irrealtà dei
conflitti:
Per chi sa vedere, non c'è oggi sintomo più angosciante del carattere irreale della maggior parte dei conflitti che sorgono. Hanno ancor meno realtà del conflitto tra
43 Ivi, pag. 500.
44 S. Weil, L'Iliade..., cit., pag. 41.
45 E. Morante, La Storia, cit., pag. 16.
46 Ivi, pp. 383-387.
50
greci e troiani. […] Per i nostri contemporanei, il ruolo di Elena è svolto da parole adorne di maiuscole47.
Ecco l'irrealtà che la Morante vuole combattere attraverso la poesia: essa
deve riportare gli uomini alla realtà dei rapporti umani. Con la poesia, e non
con la ragione: Davide Segre, vessillo della speculazione intellettuale, non
riesce a convincere il pubblico dell'osteria – anche se preda di droghe – e
allontana se stesso dagli altri, dalla famiglia, dagli amici, da Useppe.
Questo personaggio ha in sé caratteri della stessa Morante, ma è
biograficamente – come abbiamo accennato – ispirato alla figura della Weil.
Basta confrontarlo con la vita di quest'ultima: di origini ebraiche, alto-
borghese, vicina alle correnti anarchiche; nel 1934 matura l'esperienza in
fabbrica, a contatto con gli operai; nel 1936 si arruola nelle milizie
partigiane contro i franchisti. Sono tutti episodi che ritroviamo nella vita di
Davide48.
Per concludere riguardo all'ideologia presente nella Storia, possiamo citare
la filosofia orientale, in particolare gli insegnamenti di Milarepa – nella
biblioteca della Morante erano presenti molti libri di mistica orientale,
compreso The hundred thousand songs of Milarepa, una autobiografia di
Gandhi e altri libri sull'argomento49 – che ritroviamo nella religione
innocente di Useppe e nelle parole degli animali con cui discute.
Infine, per la ricostruzione storica, bisogna citare l'importante saggio di De
Benedetti, 16 ottobre 194350, usato come fonte per la descrizione della
deportazione del ghetto di Roma.
47 S. Weil, Non ricominciamo dalla guerra di Troia, «Noveaux Cahiers», aprile 1937: oggi in Sulla Guerra, Scritti 1933-1943, Il Saggiatore, Milano 2005.
48 E. Morante, La Storia, pp. 407-422
49 Per i libri posseduti da Elsa, Cfr. Le Stanze di Elsa, cit., pp. 138-148.
50 G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Il saggiatore, Milano 1959.
51
II.4
Elsa Morante e la critica di genere
Nell'affrontare questo argomento, seppur brevemente, occorre mettere
l'accento sul personaggio di Ida.
A discapito di quanto detto da alcuni critici – Barilli e Pedullà su tutti51 –
negli articoli esaminati nel precedente capitolo, con questo personaggio
l'autore è tutt'altro che una «narratrice borghese superiore e distaccata»52.
Lo si evince, prova inconfutabile, dal riversamento, nell'inconscio di Ida, di
sogni appartenuti alla stessa Elsa, raccontati in pagine poi confluite nella
raccolta Diario 193853.
Questo confronto viene eseguito dalla Bernabò ne La fiaba estrema54: ci
pare tuttavia utile ripeterlo in questa sede.
Si prenda, ad esempio, il sogno del 22 gennaio 1938:
Davo lezione al mio allievo di latino, ma stando seduti sul divano, egli sull'orlo, io quasi accoccolata sul divano, e non portavo che un cappotto blu, cercavo di
51 W. Pedullà, rec. a La Storia, cit., e R. Barilli, rec. a La Storia, cit.
52 G. Bernabò, Come leggere La Storia di Elsa Morante, cit., pag. 70.
53 E. Morante, Diario 1938, a cura di A. Andreini, Einaudi, Torino 1989.
54 G. Bernabò, La fiaba estrema, cit., pp 211-214
52
nascondere raccogliendomi in me stessa, i piedi nudi (ritorna spesso quest'ansia di nascondere i piedi nudi).
Egli posseduto da una rabbia che a me par finta, afferra la mia bambola e la getta in fondo alla stanza. Sento il tonfo molle del corpo di pezza, il suono cupo della testa di coccio: – Se mi hai rotto la bambola... – dico. […]
E tutto il resto che sarà? Tutte queste fanciulle? Ieri si è parlato di neonati, di maternità, ecc. Ma quelle strane fanciulle?55.
Il tema della bambola si trova in un sogno della piccola Ida, in cui «essa si
vedeva correre in un luogo fosco di caligine o di fumo (fabbrica, o città, o
periferia) stringendosi al petto una bambolina nuda, e tutta di un colore
vermiglio, come fosse stata intinta in una vernice rossa»56. Nel sogno del
Diario la Morante ipotizza, in chiave freudiana, un collegamento tra la
bambola e la verginità.
Ecco un altro sogno, datato al 19 gennaio 1938, in cui la scrittrice sogna di
intrufolarsi nella casa di E. C.:
La confronto con le mie camere buie; perché vivere qui e non là? Ritornerò là. Mentre mi avvio, sento che mi sono sopravvenuti i mestrui. Un peso liquido, molle, caldo, fra le mie gambe, tutto mi pesa. Mi avvio, ad ogni modo. Ed ecco E. C. di là dalla piccola porta della stanza, oltre il porticato. Ha trovato l'uscio aperto, la stanza violata. Che avrà pensato di me, sua vicina, che ora, per colmare la misura, arrivo, perdendo fiocchi di sangue di fra le gambe che pesano? Lui ha infatti un'aria severa, delusa57.
Questa vergogna delle mestruazioni, della nudità – nel sogno precedente –
e, più in generale, della fisicità, la ritroviamo nel personaggio di Ida:
55 E. Morante, Diario 1938, cit., pag. 16.
56 E. Morante, La Storia, cit., pag. 32.
57 E. Morante, Diario 1938, cit. pag. 6.
53
Si trova [in sogno] a correre qua e là, tutta nuda, per un piazzale che sembra deserto, ma tuttavia risuona, da ogni parte, d'insulti e di risate... […] Cammina con suo padre, che la ripara sotto il proprio mantello; quand'ecco il mantello se ne vola via come da solo, senza più suo padre. E lei si trova bambina piccola sola per certi sentieri di montagna, perdendo rivoletti di sangue dalla vagina. Tutto il sentiero indietro è segnato dalla traccia del suo sangue. A peggiorare lo scandalo incombente, s'ode dabbasso il noto fischio di Ninnarieddu; e intanto lei come una stupida, invece di scappare s'è fermata sul sentiero a giocare con una capretta... Ma come non s'accorge che la capretta urla, ha le doglie, sta per partorire!58.
Questa pesanteur, vissuta da Elsa e donata al personaggio di Ida, ce la
descrive Moravia nella sua autobiografia:
Per lei la pesanteur non era un fatto storico, etnico, religioso, ma di natura; in un certo modo avrebbe voluto non essere una donna, pur essendolo e per giunta in modo esemplare. […] La natura era la fisiologia, ora salvata come innocenza, ora invece accusata di pesanteur59.
Una gravità, in opposizione alla grâce di personaggi come Useppe e Nino –
di Bill Morrow e Rimbaud – che ritroviamo nei personaggi femminili della
Storia. Mentre Nino, Useppe, gli animali, possono sfidare la Storia con il
gioco, l'allegria sprezzante, le donne la subiscono passivamente, perché «il
corpo della donna è ingombrante, ferito, violentato, sanguinante, deformato
dalla sofferenza, dalla miseria, dalla maternità»60.
La concreta corporeità di Ida, nel romanzo, con le mestruazioni, la
gravidanza, il parto, le crisi epilettiche, è , secondo la Bernabò, molto
significativa «sul piano conoscitivo, poiché implica la valorizzazione di
quello che la storica Gianna Pomata chiama il “codice ristretto”», ovvero il
58 E. Morante, La Storia, cit., pag. 86.
59 A. Moravia – A. Elkann, Vita di Moravia, Bompiani, Milano 1990, p. 158.
60 A. M. Cucchi, Il gioco e la storia, in Letture di Elsa Morante, Rosemberg & Sellier, Torino 1987, pag. 64.
54
linguaggio «legato alla fisicità, alla rete di relazioni, al mondo degli affetti,
diversamente dagli altri linguaggi che costituiscono invece il “codice
elaborato”»61. In passato il corpo per le donne (attraverso fenomeni come
l'isteria o l'estasi) è stato infatti uno dei pochi mezzi per esprimersi:
Ecco che allora la corporeità di Ida, e la sua stessa epilessia psicologica, acquistano un senso molto più complesso rispetto a quello, riduttivo, loro attribuito da tanta parte della critica della prima ora, per la quale Ida era solo una poveretta: diventano cioè il linguaggio per eccellenza dell'estraneità della donna alla “Storia” e alle infinite offese all'umano che essa ha sempre comportato62.
Lo sguardo di Ida è uno sguardo inedito nel mondo letterario: discende
dalle origini ebraiche della madre – e della madre di Elsa – e possiede
caratteri ancestrali, magici: si pensi alla preveggenza di Ida quando sente
che Useppe sta morendo63; ritroviamo questa visionarietà in Vilma, la donna
del ghetto circondata dai gatti, che annuncia, inascoltata, le disgrazie a
venire64. Lo sguardo di Ida è, ben più di quello di Useppe, o Nino, o Davide,
lo sguardo dell'autrice di fronte allo «scandalo che dura da diecimila
anni»65.
61 G. Bernabò, La fiaba estrema, cit., pag. 206. Riguardo al «codice ristretto» Cfr. G. Pomata, La Storia delle donne: una questione di confine, in N. Tranfaglia (a cura di), Il mondo contemporaneo, vol. X, tomo II/2, La Nuova Italia, Firenze 1983, pp. 1434-69.
62 G. Bernabò, La fiaba estrema, cit., pag. 206.
63 E. Morante, La Storia, cit., pp. 644-647.
64 Ivi, pag. 60: «La sola, forse, che la stava a sentire con terribile serietà, era Iduzza, perché ai suoi occhi Vilma, nell'aspetto e nelle maniere, rassomigliava a una sorta di profetessa».
65 Frase posta sotto il titolo nella copertina della prima edizione de La Storia.
55
Capitolo III.
La funzione poetica nella Storia: Davide e Useppe
III.1
Davide Segre e la crisi dell'intellettuale
Ma il cambiamento più sconcio era nell'espressione che, sul ritratto, perfino da quella comune fototessera, stupiva per la sua ingenuità. Era seria, fino alla malinconia; ma quella serietà somigliava alla solitudine sognante d'un bambino. Adesso invece la sua fisionomia era segnata da qualcosa di corrotto, che ne pervertiva i lineamenti dall'interno. E questi segni, ancora intrisi di uno stupore terribile, parevano prodotti non da una maturazione graduale; ma da una violenza fulminea, simile a uno stupro1.
Fin dalla sua comparsa il personaggio di Davide Segre viene presentato
come scontroso e diffidente, incapace di instaurare rapporti sinceri con gli
altri. Lo stesso narratore, come nota G. Rosa in un capitolo
dall'emblematico titolo “L'antipatico Davide”, «ostenta di prendere subito le
distanze»2. I numerosi aggettivi, con i quali vengono descritte le espressioni
e le azioni di questo personaggio, ci fanno capire la volontà dell'autore di
renderlo antipatico al lettore: persino la sua morte – che, come tutte le morti
dei personaggi della Storia, è un richiamo e una regressione all'innocenza
1 E. Morante, La Storia, cit., pag. 199.
2 G. Rosa, Cattedrali di carta, Il Saggiatore, Milano 1995, pag. 260.
57
infantile – viene controbilanciata dal gesto offensivo compiuto nei confronti
di Useppe:
Gettò a Useppe un'occhiata senza luce, resa cieca dal furore, e gli gridò con voce brutale, estranea, addirittura trasfigurata:«Vattene, brutto idiota, col tuo cagnaccio!»Useppe non udì altro. […] I brutti-buoni gli caddero dal pugno e incominciarono a svolazzare d'intorno a lui […]. Di lì a un momento si mise a correre, cercando scampo sulla via di casa. […] Come Ida, allarmata, accorse all'uscio, Useppe le si riparò in petto continuando a lagnarsi: «a' mà... a' mà...» […]. Per una buona parte del pomeriggio, il bambino le si tenne appeso alle sottane, sussultando a qualche rumore più forte dalla strada o dai cortili3.
Dopo una descrizione del genere, culminante nell'attacco epilettico
notturno, la morte di Davide viene vissuta quasi con insofferenza,
nonostante la descrizione tenera di questo ragazzo con «troppa paura e
troppo freddo»4.
Detto questo, può essere scartata l'interpretazione di Davide Segre come
alter-ego ideologico del narratore, nonostante risieda in lui l'ideologia
anarchica condivisa dalla Morante. Lo dimostra anche l'episodio
dell'osteria, dove Davide, in preda alla confusione mentale, si cimenta in un
discorso sul potere, non riuscendo però a farsi prendere sul serio dalla
platea dei frequentatori del locale, attenti a tutt'altre faccende5. Il discorso
sulla Storia, sulla rivoluzione, viene continuamente interrotto dal rumore
della radio, dai giocatori al tavolo, dalle battutine. Vi è soprattutto il
personaggio di Manonera – altra vittima della guerra – che guarda e
risponde con sarcasmo a Davide: lo stesso risentimento critico lo
ritroviamo nel narratore.
La sensazione che ne viene fuori è quella di una condanna della
presunzione intellettuale del personaggio, un mettere alla berlina la sua
3 E. Morante, La Storia, cit., pag. 619.
4 Ivi, pag. 621.
5 Ivi, pp. 558-598.
58
razionalità e il suo modo di vedere la realtà da un piedistallo che lo isola da
tutti gli altri. Ce lo conferma, come scrive la D'Angeli6, l'episodio – tutto
weiliano, anche nei risultati – dell'esperienza in fabbrica:
E intanto, per la propria iniziazione reale, gli parve suo primo dovere di subire direttamente e fisicamente – lui, nato di classe borghese – l'esperienza del lavoro salariato in una fabbrica. […] E solo a patto di una esperienza personale, lui avrebbe potuto – a suo giudizio – sentirsi prossimo di quella parte dell'umanità che, nella società industriale odierna, nasce già soggetta per destino al potere e alla violenza organizzata: ossia, della classe operaia!7
Questo fervore ideologico si risolve però in un modo diverso dalle sue
aspettative:
E così, l'esperienza operaia di Davide Segre, che secondo lui doveva durare, nell'ipotesi minima, cinque o sei mesi (e nell'ipotesi somma, addirittura tutta la vita!), si era conclusa miseramente nel giro di diciannove giorni diciannove!8
È evidente come, con la ripetizione – «diciannove... diciannove» – la
Morante rimarchi con ironia il fallimento dei propositi intellettuali del
giovane, pur condividendo – con la Weil – l'idea che «non si possa
elaborare un progetto di società né un'ipotesi di lavoro capace di scardinare
il sistema borghese se i teorici rivoluzionari non fanno diretta esperienza
delle condizioni fisiche, “che determinano la servitù o la libertà operaia”»9.
La critica che viene avanzata, allora, dalla Morante, copre tutt'altro campo:
6 C. D'Angeli, Leggere Elsa Morante, cit., pp. 86-87.
7 E. Morante, La Storia, cit., pag. 411.
8 Ivi, pp. 421-422.
9 C. D'Angeli, Leggere Elsa Morante, pag.87.
59
L'obiezione che la Morante porta a questo punto della riflessione weiliana – e dunque la sfumatura critica che accompagna il racconto della défaillance di Davide – sia rivolta alla pretesa tutta intellettuale di conservare, nell'esperienza anche fisica dell'abbrutimento, il valore centrale dell'individualità soggettiva e soprattutto di ribadire il ruolo dell'intellettuale in un modo così pervicace da diventare una presunzione dell'intelletto10.
Ma c'è anche, come scrive la Bernabò11, l'incapacità dell'autore di riuscire a
delineare bene i tratti di questo personaggio, che sfuggono via man mano
che la narrazione procede, forse per la troppa vicinanza ad esso.
Molto probabilmente questa decadenza riflette quella dei valori e delle
ideologie incarnate da Davide, sclerotizzati negli slogan della cultura post-
sessantottina.
Con ciò non bisogna dimenticare, però, che Davide Segre ha anche i tratti di
un fanciullo. Ma, ancora più importante, non bisogna dimenticare che
Davide Segre, oltre a fornirci la chiave di interpretazione delle poesie di
Useppe, è stato anche poeta: come Useppe, quindi, anch'egli riconosceva
Dio «attraverso le somiglianze di tutte le cose»12. L'ultima poesia recitata da
Davide a Useppe e Bella sembra uscire direttamente dalle pagine del Beato
propagandista del paradiso13:
«Ombre luminose
“E come riconoscerlo?” ho domandato.E m'hanno risposto: “Il suo segnoè l'OMBRA LUMINOSA.Si può ancora incontrare chi porta questo segnoche raggia dal suo corpo ma insieme lo recludee perciò si dice LUMINOSA
10 Ivi, pag.87.
11 G. Bernabò, Come leggere La Storia di Elsa Morante, cit., pag.63.
12 E. Morante, La Storia, cit., pag. 523.
13 Cit.
60
ma anche OMBRA.A percepirlo non basta il senso comune.Ma come spiegare un senso? Non esiste un codice.Si potrebbe paragonare al desiderioche chiama gli innamorati intorno a una ragazzascontrosa, bruttina, sciatta, ma rivestitadelle proprie ignare visioni erotiche.Forse, potrebbe darsene un esempionel favore tribale, che consacrai nati diversi dagli altri, visitati dai sogni.Ma gli esempi non servono.Forse lo si vede forse lo si ode forse lo si indovinaquel segno.C'è chi lo aspetta chi lo precede chi lo rifiutaqualcuno crede di scorgerlo sul punto di morire.E certo è per quel segno che sul fiume Giordanofra tutta la folla anonima confusaa uno il Battista ha detto: 'Sei tuche devi battezzarmi, e chiedi a me il battesimo!' ”Ombre ombre ombre luminoseluminose lu-mi-no-se...»14.
La chiave di lettura va forse ricercata nuovamente in Senza i conforti della
religione, nel Giuseppe Ramundo che contiene in sé Useppe e Davide
Segre.
Davide Segre è un Useppe cresciuto, non sacrificato sull'altare della Storia:
egli è, a differenza di quest'ultimo, «testimone» del Male; e «di fronte a
questa oscenità decisiva della Storia ai testimoni si aprivano due scelte: o la
malattia definitiva, ossia farsi complici definitivi dello scandalo, oppure la
salute definitiva – perché proprio dallo spettacolo dell'estrema oscenità si
poteva ancora imparare l'amore puro...»15. La scelta di Davide, ce lo dice lui
stesso, è la complicità.
Crediamo che, in definitiva, se di materiale autobiografico ne è confluito, in
Davide, questo non è certamente il lato intellettuale, ideologico, ma quello
14 E. Morante, La Storia, cit., pag. 526.
15 Ivi, pag. 584.
61
meno esplicito, quasi accennato: il rapporto conflittuale con la madre16,
aspetto che viene fuori, in tutta la sua potenza, nel delirio dell'ultima notte
di vita – «“Mama mia, mama mia...” comincia a dire; ma perfino queste due
sillabe primordiali ma-ma, il destino, a lui, gliele ha devastate, in uno
strappo così aberrante che nessun oracolo, mai, poteva presagirne il simile,
a nessuna nascita d'uomo»17 – culminando nella morte, che nelle intenzioni
del ragazzo sarebbe dovuta essere «una dormita fonda, fonda, sotto l'infima
soglia del freddo, e della paura, e d'ogni rimorso o vergogna: simile al
letargo d'un riccio o alla ninna prenatale di una creatura dentro l'utero della
madre...»18.
16 Per approfondire il rapporto di Elsa con la propria madre, Cfr. G. Bernabò, La fiaba estrema, cit., pp. 30-33.
17 E. Morante, La storia, cit., pp. 614-615.
18 Ivi, pag. 621.
62
III.2
Useppe, ovvero il fanciullino della poesia pura
« Le stelle come gli alberi e fruscolano come gli alberi.« Il sole per terra come una manata di catenelle e anelli.« Il sole tutto come tante piume cento piume mila piume.« Il sole su per l'aria come tante scale di palazzi.« La luna come una scala e su in cima s'affaccia Bella che s'annisconne.« Dormite canarini arinchiusi come due rose.« Le 'ttelle come tante rondini che si salutano. E negli alberi.« Il fiume come i belli capelli. E i belli capelli.« I pesci come canarini. E volano via.« E il cavallo come una bandiera.« E vola via »19.
Sin dal concepimento Useppe porta con sé un legame con una felicità
superiore, una comunione con tutte le creature e le cose della terra:
E nello stato di rilassamento e di quiete che sempre le interveniva fra l’attacco e la coscienza, lo sentì che di nuovo penetrava dentro di lei […]. Essa ritrovava quel senso di compimento e di riposo che aveva già sperimentato da bambina, alla fine di un attacco, quando la riaccoglieva la stanza affettuosa di suo padre e di sua madre; ma quella sua esperienza infantile oggi le si ingrandì, attraverso il dormiveglia, nella sensazione beata di tornare al proprio corpo totale. Quell’altro corpo ingordo, aspro e caldo, che la esplorava al centro della sua dolcezza materna era, in uno, tutte le centomila febbri e freschezze e fami adolescenti che confluivano dalle loro terre gelose a colmare la propria foce ragazza. Era tutti i centomila animali ragazzi, terrestri e vulnerabili, in un ballo pazzo e allegro, che si ripercuoteva fino nell’interno dei suoi polmoni e fino alle radici dei suoi capelli, chiamandola in tutte le lingue. Poi si abbatté, ridiventando una sola carne
19 E. Morante, La Storia, cit., pag. 523.
63
implorante, per disciogliersi dentro il suo ventre in una resa dolce, tiepida e ingenua, che la fece sorridere di commozione, come l’unico regalo di un povero, o di un bambino. […] Fu una straordinaria felicità senza orgasmo, come talora capita in sogno, prima della pubertà20.
La porta nel nome, Useppe, la sua gioia e la sua innocenza: Giuseppe Felice
Angiolino21. E la scopre nelle cose del mondo, sin dalla prima sua uscita:
Così Giuseppe recluso fino dalla nascita compieva la sua prima uscita nel mondo, né più né meno come Budda. Però Budda usciva dal giardino lucente del re suo padre per incontrarsi, appena fuori, coi fenomeni astrusi della malattia, della vecchiaia e della morte; mentre si può dire che per Giuseppe, al contrario, il mondo si aperse, quel giorno, come il vero giardino lucente22.
Abbiamo già parlato, nel capitolo II.1, della poesia come ricerca di Dio
nelle cose: approfondiamo meglio questo aspetto. Sempre nel manoscritto
di Senza i conforti della religione, leggiamo:
Questo è il segno parlante di Dio: dove si riconosce il segreto araldico che unisce tutte quante le cose e le persone in una sola parentela con lui. Per tale motivo, forse, ai poeti piace scoprire le somiglianze per le cose più diverse, inventando nelle loro poesie tanti paragoni fantastici: quasi che la loro speranza fosse di risalire attraverso le figure disuguali fino all’ultimo vero stemma misterioso! Per me, quando presumevo di scrivere una poesia, non c’era divertimento più incantevole di questo: anzi i miei versi addirittura, consistevano quasi esclusivamente di paragoni fra le cose23.
Questa spiegazione rimarca il senso dell'analisi delle poesie di Useppe fatta
da Davide Segre:
20 Ivi, pp. 70-71.
21 Ivi, pag. 96.
22 Ivi, pag. 122.
23 C. Beràrd, Il romanzo in-finito, cit., pp. 9-10.
64
«Le tue poesie parlano tutte di DIO! […] Tutte le tue poesie […] sono centrate su un COME... E questi COME, uniti in coro, vogliono dire: DIO! L'unico Dio reale si riconosce attraverso le somiglianze di tutte le cose. Dovunque si guardi, si scopre un'unica impronta comune. E così, di somiglianza in somiglianza, lungo la scalinata si risale a uno solo. Per una mente religiosa, l'universo rappresenta un processo dove, di testimonianza in testimonianza, tutte concordi, si arriva al punto della verità... E i testimoni più certi, si capisce, non sono i chierici, ma gli atei. […] Dio, ossia la natura... Per una mente religiosa […] non c'è oggetto, foss'anche un verme o una paglia, che non renda l'identica testimonianza di DIO!»24
Così Useppe, attraverso i suoi versi, risale la scala delle somiglianze, verso
Dio, e compie anche un viaggio a ritroso nella sua storia: dagli alberi che
«fruscolano» della valletta Tiberina, passa attraverso Bella che si affaccia e
si nasconde, per poi ricordare i canarini di Eppetondo, Peppiniello e
Peppiniella, dormienti «come due rose», fino al cavallo – quello morto che,
piccolissimo, vede dopo il bombardamento di San Lorenzo, e che lo fa
piangere – che, come una bandiera, insieme ai pesci, ai canarini, alle foglie,
vola via. Come stelle, come la luna: termini che nel linguaggio infantile di
Useppe si confondono: egli da piccolissimo chiamava infatti «ttella» o
«dòndine» la luna, o «le lampade accese, i palloncini colorati, o perfino i
barattoli di latta o gli sputi in terra, se appena appena la luce li faceva
brillare»25. Ecco di nuovo la luce, che nelle poesie è quindi paragonata agli
alberi, alle creature terrestri, a Bella.
La concezione della morte, in Useppe, è legata a questo volare via,
impresso in lui sin dal bombardamento di San Lorenzo: è una signora
rifugiata, come loro, all'osteria, che spiega al bambino, disperato per la
perdita di Blitz, che esso è volato via:
«Non piangere pupé, che il cane tuo s'è messo l'ali, è diventato una palombella, e è volato in cielo». […]
24 E. Morante, La Storia, cit., pp. 522-523.
25 Ivi, pag. 497.
65
«L'ali? Pecché l'ali?»«Perché è diventato una palombella bianca».«Palommella bianca», assentì Useppe, esaminando attentamente la donna con gli occhi lagrimosi che già principiavano a sorridere, «e che fa, là, mò?»«Vola, con tante altre palombelle». […] «Sono tante! Sono tante! eh! Ma là, che fanno?»«Volano, se la spassano. Beh».«E le dòndini pure, ci stanno? E pure i vavalli, ci stanno?»«Ci stanno».«Pure i vavalli?»«Pure i cavalli».«E loro pure, ci volano?»«E come, se ci volano!»26.
Anch'essa è quindi vissuta come parte integrante del meraviglioso giardino
della vita. Ciò che turba l'equilibrio del suo mondo è l'ingiustizia che il
bambino intuisce, ma ancora non comprende, come risposta ai suoi pecché:
l'ingiustizia dei mali del mondo, come l'ingiustizia delle assenze taciute –
Nino, Carulina – e di quelle temute:
In uno dei suoi mutamenti d'umore imprevisti, le corse vicino, e le baciò il vestito. Però nei suoi festanti occhi levati, già spuntava la prossima domanda inquieta:«Tu... mica parti, a' ma?»«Io! Partire! MAI! MAI, MAI lo lascio, io, il mio Useppe!» L'omettino trasse un sospiro, fra di soddisfazione e di dubbio irrisolto27.
Useppe, ideologicamente, è forse il vero portatore di quella anarchia
festante che la Morante riversò nel Mondo salvato dai ragazzini28, ne è la
parte più vulnerabile, e per questo, la più sincera. E solo un bambino
avrebbe potuto portare con sé, lungo il romanzo, un tale carico: da qui la
scissione di Giuseppe in Useppe e Davide. Perché il fanciullo morantiano,
prima di essere, come scrisse Baldacci29, pascoliano, è figlio di Nietzsche:
26 Ivi, pp. 172-173.
27 Ivi, pag. 456.
28 Cit.
29 L. Baldacci, Il romanzo pascoliano di una nuova Elsa Morante, cit.
66
Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sí. Sí, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sí: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo30.
Solo un fanciullo può, in opposizione alla Storia, creare nuovi valori, e
crearli attraverso un gioco: nella Morante però egli non li crea, questi valori
– o almeno non è dato saperlo: egli li può vedere però nella natura, nel
grande gioco-scherzo della vita, e può sentire, nel silenzio, l'intero universo
di esistenze e di pulsioni, formanti un unico suono, un'unica entità:
Il silenzio, in realtà, era parlante! anzi, era fatto di voci […]: e allora s’intese che quelle luci tremanti, pure loro, in realtà, erano tutte voci del silenzio. Era proprio il silenzio, e non altro, che faceva tremare lo spazio, serpeggiando a radice più in fondo del centro infocato della terra, e montando in una tempesta enorme oltre il sereno. Il sereno restava sereno, anzi più abbagliante, e la tempesta era una moltitudine cantante una sola nota (o forse un solo accordo di tre note) uguale a un urlo! Però dentro ci si distinguevano chi sa come, una per una, tutte le voci e le frasi e i discorsi, a migliaia, e a migliaia di migliaia: e le canzonette, e i belati, e il mare, e le sirene d’allarme, e gli spari, e le tossi, e i motori, e i convogli per Auschwitz, e i grilli, e le bombe dirompenti, e il grugnito minimo dell’animaluccio senza coda… e «che me lo dài, un bacetto, a’ Usè?…»31
Useppe è, quindi, il nucleo centrale, ideologico, della Storia. Ma la sua
funzione non finisce qui.
Elsa Morante, con questo romanzo, ha voluto far piangere il lettore: ha
voluto far maturare in lui un affetto, per poi toglierglielo, attraverso una
lunga agonia, allo scopo di trasmettere un lutto, una mancanza. Nello
30 Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1976, vol. XXV, pag. 235.
31 E. Morante, La Storia, cit., pag. 510.
67
specchio autobiografico, che fiancheggia sempre l'opera dell'autrice, vi
possiamo osservare la morte di Bill Morrow, vissuta da Elsa come una
colpa, e il suo desiderio, mai appagato, di maternità.
La morte di Useppe non è un coup de théâtre: è annunciata, sottintesa,
sussurrata tra le righe delle pagine della Storia, lo sente in cuor suo Ida32, lo
annuncia la voce narrante centoquaranta pagine prima33 . Al lettore non
resta che vivere l'impotenza – la stessa che visse Elsa – di non riuscire a
impedire una morte ingiusta:
Si dice che in certi casi cruciali davanti agli uomini ripassino con velocità incredibile tutte le scene della loro vita. Ora, nella mente stolida e malcresciuta di quella donnetta, mentre correva a precipizio per il suo piccolo alloggio, ruotarono anche le scene della storia umana (la Storia) che essa percepì come le spire multiple di un assassinio interminabile. E oggi l'ultimo assassinato era il suo bastarduccio Useppe. Tutta la Storia e le nazioni della terra s'erano concordate a questo fine: la strage del bambinello Useppe Ramundo34.
32 Ivi, pag. 506.
33 Ivi, pag. 507.
34 Ivi, pp. 646-647.
68
Conclusioni
La focalizzazione del dibattito critico su una presunta intenzione
«consolatoria» della Morante, e sulla presenza dell'ottica marxista-
proletaria all'interno della Storia, ha fatto sì che la maggior parte degli
interventi abbia travisato del tutto il senso e il campo in cui si è mossa
l'intenzione dell'autore. Anzi, se qualcosa questo dibattito ha potuto mettere
in luce, ciò non si trova nel romanzo, ma nel dibattito stesso: ovvero la
capziosità, le aporie di una certa critica militante che, invece di esaminare
l'opera, ha cercato le misure di quanto questa potesse essere conforme ai
canoni di certa letteratura coetanea.
La Storia vuole essere un romanzo popolare, nel senso gramsciano del
termine – ovvero vuole influire sul popolo – nei termini in cui può
trasmettere quell'etica e quei valori incarnati nei personaggi del romanzo,
Useppe su tutti: Balestrini, Rossanda, Rella, mai avrebbero potuto trovare,
nel testo, i segni della «loro» lotta di classe, in quanto la lotta della Morante
contro il Potere poggia le basi su ideologia, etica, e valori diversi, in certi
casi opposti ai loro.
Al di là delle banalizzazioni, quello che rimane, della lettura dell'opera, è un
messaggio evangelico, cristiano nella misura di una cristianità pre-cattolica,
anti-gerarchica.
La lotta al Potere, nel romanzo, non viene messa in scena: vi è una vaga
speranza, che in futuro possa essere attuata. Ma sarebbe una lotta senza
scontro, senza oppressi né oppressori, anarchica come l'ha pensata la Weil,
70
non-violenta come l'ha attuata Gandhi. Forse più un utopia letteraria, scritta
con la consapevolezza di chi scrive di un utopia, ma spera in cuor suo che
non tutti i semi siano falliti.
71
Fig. 1: Foto allegate all'articolo di L. Simonelli, Elsa Morante scrittrice
perfezionista si occupa anche delle foto, cit.
74
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WEIL, S., Non ricominciamo dalla guerra di Troia, «Nouveaux Cahiers», aprile 1937; adesso in S. Weil, Sulla Guerra, Scritti 1933-1943, il Saggiatore, Milano 2005.
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