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27 Learning by doing “È tutto mestiere che entra…” Giuseppe Alessandro Fichera Ricomporre le storie che emergono da uno scavo archeologico è come leggere un libro partendo dall’ultima pagina. Tra le metafore che più chiaramente ci permettono di raccontare il nostro lavoro, questa è sicuramente quella che preferisco; quella che meglio di tutte riesce a racchiudere in una semplice immagine la bellezza e la complessità del lavoro di un archeologo. La bellezza che nasce dal poter ricostruire e raccontare delle storie, e la complessità figlia del lavoro di indagine e di investigazione: sono questi gli ele- menti che, a distanza di ormai molti anni, continuano a indicarmi la rotta da seguire. Elementi che erano presenti sin dalle origini, sin da quando ho intrapreso il percorso di studi in archeologia. Il mio lavoro attuale si può riassumere in una quotidianità divi- sa tra libri, cazzuola e computer. Non voglio certo dire che sia tutto “rose e trowel”. Ci sono mille difficoltà da affrontare per continuare – Sai, ieri ho conosciuto un tizio che caccia i cinghiali con arco e frecce come nella preistoria. Si costruisce persino da sé le armi imitando le tecniche antiche. È fantastico! – Eh sì, è un lavoro complicato. Si fa con tutto, anche pelli e gioielli. Si tratta di sperimentare la tecnica finché non si ottengono oggetti uguali a quelli antichi. Così si capisce davvero come si facevano le cose nel passato. – Mi piace troppo! Quasi quasi l’arco me lo faccio anch’io. – Beh, puoi faticare a fare l’arco, ma anche cercare qualcuno che an- cora oggi fa le cose come nel passato. Magari è all’altro capo del mondo, ma se lo trovi, sei a cavallo! Archeostorie 01 - 02 Fichera.indd 27 16/02/15 11:19

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Learning by doing “È tutto mestiere che entra…”

Giuseppe Alessandro Fichera

Ricomporre le storie che emergono da uno scavo archeologico è come leggere un libro partendo dall’ultima pagina.

Tra le metafore che più chiaramente ci permettono di raccontare il nostro lavoro, questa è sicuramente quella che preferisco; quella che meglio di tutte riesce a racchiudere in una semplice immagine la bellezza e la complessità del lavoro di un archeologo. La bellezza che nasce dal poter ricostruire e raccontare delle storie, e la complessità figlia del lavoro di indagine e di investigazione: sono questi gli ele-menti che, a distanza di ormai molti anni, continuano a indicarmi la rotta da seguire. Elementi che erano presenti sin dalle origini, sin da quando ho intrapreso il percorso di studi in archeologia.

Il mio lavoro attuale si può riassumere in una quotidianità divi-sa tra libri, cazzuola e computer. Non voglio certo dire che sia tutto “rose e trowel”. Ci sono mille difficoltà da affrontare per continuare

– Sai, ieri ho conosciuto un tizio che caccia i cinghiali con arco e frecce come nella preistoria. Si costruisce persino da sé le armi imitando le tecniche antiche. È fantastico!

– Eh sì, è un lavoro complicato. Si fa con tutto, anche pelli e gioielli. Si tratta di sperimentare la tecnica finché non si ottengono oggetti uguali a quelli antichi. Così si capisce davvero come si facevano le cose nel passato.

– Mi piace troppo! Quasi quasi l’arco me lo faccio anch’io.– Beh, puoi faticare a fare l’arco, ma anche cercare qualcuno che an-

cora oggi fa le cose come nel passato. Magari è all’altro capo del mondo, ma se lo trovi, sei a cavallo!

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a rendere ogni giorno l’archeologia un lavoro a tutti gli effetti: bandi, cantieri, appalti, tagli governativi continui e indiscriminati, commer-cialisti, tasse, ritardi nei pagamenti, ingiustizie... ma in quale ambito non ci sono gli stessi problemi?

Anche se non avevo le idee così chiare da giovane studente di ar-cheologia, era esattamente questo quello che desideravo. Oggi vedo l’archeologia e gli archeologi come dei professionisti sempre sospesi tra il fascino dell’antico e la curiosità per il moderno, anelli di con-giunzione tra passato e futuro, interpreti e traduttori di mondi non più esistenti ma indispensabili da conoscere e comprendere per af-frontare il presente e costruire il futuro. In un’immagine più poetica, li vedo come sognatori con le mani sporche di terra.

Riassumere la mia carriera professionale significa tornare indietro a una laurea in Archeologia medievale all’Università di Siena, dopo la quale ho proseguito gli studi con un dottorato di ricerca sui castelli medievali della Maremma: li ho scavati e studiati pietra per pietra per capire come, quando e perché erano stati costruiti, ma soprattut-to da chi erano stati costruiti. La mia visione romantica e adolescen-ziale di quelle inespugnabili fortificazioni cambiava forma, cresceva e maturava con gli anni e trovava nuove motivazioni, nuove ragioni per proseguire una carriera professionale a volte faticosa e complica-ta, ma spesso foriera di grandi soddisfazioni.

Si sviluppava un amore per una Storia diversa da come me l’ave-vano raccontata a scuola. Una Storia che non era fatta soltanto da grandi uomini che avevano compiuto grandi imprese in date epocali. Non era fatta soltanto da imperatori, re e papi. La Storia che si ma-terializzava sotto i miei occhi e tra le mie mani era fatta soprattutto di piccoli gesti di vita quotidiana, era popolata da un’umanità del-la quale di rado avevo sentito parlare nei miei vecchi libri di storia. Dietro ognuna delle pietre che formavano i miei castelli iniziavo a vedere la mano anonima di un giovane apprendista muratore che, in un giorno qualsiasi di un anno qualsiasi attorno al celebre anno Mille, si svegliava prima dell’alba e affrontava una faticosissima giornata di lavoro al termine della quale era riuscito a costruire un pezzo di un muro di cinta, o l’angolata di una torre, o a imparare un modo nuovo di impugnare lo scalpello per squadrare un blocco informe di pietra. Il tutto all’interno di un macro contesto storico, economico e sociale di estremo interesse. Non si trattava di allucinazioni dovute al sole cocente di una giornata di scavo: si trattava della necessità di

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immedesimarmi sempre più e sempre meglio nei veri protagonisti di quelle storie che per professione avevo deciso di raccontare. Si trat-tava della voglia di trasformare quelle tracce archeologiche – talvolta confuse e disordinate – in istantanee di vita vissuta, in un affresco leggibile e comprensibile da chiunque, che fosse archeologo, storico o semplice appassionato. Si trattava della voglia di ribaltare il punto di vista, di trasformarmi da indagatore di quelle tracce in autore con-sapevole delle tracce medesime.

Quando il mio percorso ha incrociato una disciplina chiamata ar-cheologia sperimentale, ho capito che quel famoso libro che su un normale scavo archeologico doveva essere letto partendo dall’ultima pagina, all’interno di un cantiere sperimentale avrebbe potuto invece essere riscritto partendo proprio dalla prima.

In fondo la sperimentazione archeologica è esattamente questo: è una disciplina che riproduce fenomeni o tecnologie del passato per verificare o arricchire di dettagli ipotesi archeologiche. Il fatto che gli esperimenti possano essere replicati e misurati, a differenza di quan-to succede in uno scavo archeologico (dimenticavo di dirvi che la metafora del libro letto al contrario prosegue obbligandoci a bruciar-ne le pagine dopo averle lette, a indicare l’unicità e irripetibilità del momento di scavo), avvicina l’archeologia sperimentale più a una disciplina scientifica che a una tecnica didattico-dimostrativa.

Un ultimo ingrediente fondamentale l’ho preso a prestito dall’et-noarcheologia, ovvero da quella disciplina che studia la cultura mate-riale di popolazioni contemporanee, secondo un’ottica archeologica. Nel mio caso la componente etnoarcheologica mi aveva permesso di mettere a fuoco la figura professionale di cui avevo bisogno per con-cretizzare un progetto folle: per trasformare anni di teoria in realtà, per diventare protagonista delle storie che avevo sempre indagato e ricostruito dall’esterno e a posteriori, avevo bisogno di qualcuno che co-noscesse bene un mestiere antico come l’uomo, quello del costruttore.

“È tutto mestiere che entra...”. Non so più quante volte ho senti-to Dario ripetermi questa frase durante le nostre lunghe giornate di cantiere. Le parole, sempre accompagnate dal suo sorriso saggio e bo-nario, seguivano un mio errore di valutazione, una martellata su un dito, un secchio d’acqua di troppo nell’impasto della calce, la scelta di una pietra inadatta a completare il filare del nostro muro (fig. 1). Errori a cui lui rimediava senza sforzo grazie al suo mezzo secolo di esperienza da muratore e che io, novello apprendista del XXI secolo,

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alla fine non commettevo più grazie a un percorso pratico e diretto di apprendimento. Dario è il mastro costruttore, un omone alto e robusto dai gesti lenti e dalla mente curiosa, depositario di un sapere empirico legato all’universo dell’edilizia, scrigno di conoscenze che non smetto-no mai di stupirmi. Io e lui lavoriamo gomito a gomito in mezzo a un bosco, ai piedi di una vera rocca medievale, tra cumuli di sabbia, boz-ze di pietra, chiazze di malta, scalpelli, corde e secchi. Abbiamo dato vita a un cantiere di archeologia sperimentale e stiamo ricostruendo una casa come facevano nel medioevo. Con le stesse tecniche, gli stessi materiali, le stesse attrezzature. Alla cazzuola dell’archeologo (proprio non possiamo farne a meno) ho associato dunque scalpello e mazzuo-lo, e ho affrontato una nuova esperienza con la stessa curiosità, le stes-se emozioni e lo stesso approccio scientifico di sempre.

Il cantiere si trova ai piedi della Rocca di San Silvestro, scavata dal professor Riccardo Francovich a partire dalla metà degli anni Ottanta, negli stessi anni in cui l’archeologia medievale muoveva i primi passi come disciplina autonoma di ricerca. E la nostra struttura ricalca il mo-

Figura 1. Mastro Dario al lavoro.

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Figura 2. Le tavole di progetto per la costruzione della casa.

dello di una delle case del castello che risalgono alla ricostruzione del XII secolo: una casa a un solo piano, di dimensioni pari a 6 x 4 metri, con un tetto a una falda coperto da lastre di pietra (fig. 2). Il progetto si chiama Medioevo in corso ed è portato avanti grazie a una stretta collabo-razione tra la società Coopera, di cui faccio parte, la società Parchi Val di Cornia, che da più di venti anni gestisce in maniera esemplare una rete di musei, parchi archeologici e parchi naturalistici nella zona del promontorio di Populonia (LI), e il Laboratorio di archeologia dell’ar-chitettura del Dipartimento di Archeologia dell’Università di Siena.

In pratica però, il gruppo di lavoro è composto da Dario Falco, ossia la mano e il “sapere”, muratore da quasi sessant’anni, oggi de-positario di un sapere che rischia di scomparire. E dal sottoscritto, apprendista muratore e consulente scientifico del progetto, oggetto delle battute continue del mastro per la frenesia con la quale prendo appunti, fotografo e registro anche le cose per lui più insignificanti. Di norma c’è anche un terzo aiutante che condivide con noi le fatiche di una giornata di lavoro.

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Perché ricostruire una casa come nel medioevo? Quali tra-me legano l’archeologia e l’edi-lizia sperimentale? Le risposte possibili sono tante: le ricadute del progetto spaziano dalla va-lorizzazione alla comunicazio-ne del dato archeologico, dalla ricerca scientifica al restauro archeologico, o anche alla bioar-chitettura, solo per dirne alcune. La faticosa vita quotidiana del cantiere, la meticolosa ricostru-zione di tutte le operazioni lega-te a un cantiere edilizio permet-tono di rispondere a domande che il solo studio teorico non potrebbe mai affrontare. A oggi ho un’idea molto più chiara del-le risorse necessarie a costruire una casa (pietra, calce, acqua, legna), e posso di conseguenza ipotizzare un calcolo non troppo lontano dal vero per la costruzione di un intero castello (fig. 3).

Come in una “bottega”, grazie agli insegnamenti di Dario imparo i delicati passaggi necessari a “spegnere” la calce, a tra-sformare cioè la calce viva in grassello di calce, da impastare poi con sabbia e acqua in un “miscelatore” ricostruito sul modello di quelli portati alla luce durante lo scavo del castello di Donoratico (Castagneto Carducci, LI). Si tratta di vasche scavate nel terreno nelle quali, grazie a un meccanismo in legno, si poteva impastare la calce a ciclo continuo evitando le faticose operazioni manuali (fig. 4). Strutture rivoluzionarie come queste risalgono a un perio-do compreso tra l’VIII e il X secolo, e i pochi esemplari rinvenu-ti in Europa corrispondono sempre a cantieri legati a importanti monasteri o palazzi regi, luoghi dove circolavano maestranze al-tamente specializzate.

Imparo poi a squadrare un concio di pietra con scalpello e maz-zuolo, imparo a murare usando solo filo a piombo e livella, e la

Figura 3. Tempi e materiali da costruzione: qualche numero.

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Figura 4. Il miscelatore da calce in funzione.

Figura 5. La costruzione della casa.

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fatica è ripagata ogni sera da un muro che cresce in altezza e che i miei colleghi archeologi troveranno ancora lì fra centinaia di anni (fig. 5). Tra l’altro, con ironico spirito di emulazione nei confron-ti dei costruttori di mille anni fa, abbiamo anche inserito alcuni centesimi di euro nelle fondazioni della casa. Imparo a costruire un ponteggio in legno e un tetto in lastre di ardesia. Imparo che la trasmissione dei saperi è un percorso che nasce dalla silenziosa osservazione dei gesti e dall’imitazione degli stessi, e capisco il significato dell’adagio “rubare il mestiere con gli occhi”.

Un cantiere medievale è una sfida al tempo, è un gioco con l’eter-nità, e solo adesso riesco a capirlo davvero e solo adesso sto impa-rando a raccontarlo.

Medioevo in corso è un progetto ambizioso, unico nel suo genere nel-l’attuale panorama archeologico italiano, grazie al quale oggi, nel cuore del Parco archeominerario di San Silvestro (Campiglia Marittima, LI), è possibile compiere un vero e proprio viaggio nel tempo e vivere l’esperien-za di passeggiare all’interno di un cantiere edilizio di epoca medievale. Un grazie speciale a Silvia Guideri (Parchi Val di Cornia), Giovanna Bianchi (Università di Siena), Cosimo Postiglione e Jacopo Bruttini (Coopera) e a tutto lo staff della Società Parchi Val di Cornia per il supporto costante e professionale che hanno sempre offerto al progetto.

Per saperne di più

Sull’esperimento di San Silvestro e altri studi sulle architetture medievaliG. Bianchi, G. Fichera, D. Miriello, N. Chiarelli, G.M. Crisci, Archeologia di un can-

tiere curtense: il caso del castello di Donoratico tra IX e X secolo. Sequenze stratigrafiche e analisi archeometriche, in “Archeologia dell’Architettura”, XVI (2011), pp. 34-50.

G. Fichera, Archeologia Sperimentale alla Rocca di San Silvestro. Ricomposizione del ciclo di lavorazione della malta, in “Restauro Archeologico, Bollettino del Gruppo di ricerca sul restauro archeologico, Conservazione e manutenzione di edifici allo stato di rudere, Università di Firenze”, 2 (2010), pp. 42-45.

G. Fichera, Archeologia Sperimentale alla Rocca di San Silvestro: Dal ciclo di produzione della calce alla costruzione di una casa, in “Archeologia dell’Ar-chitettura”, XVI (2011), pp. 81-91.

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Su archeologia sperimentale ed etnoarcheologiaM. Vidale, Etnoarcheologia, in R. Francovich, D. Manacorda (a cura di), Dizionario

di archeologia, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 143-144.M. Vidale, Archeologia sperimentale, in R. Francovich, D. Manacorda (a cura di),

Dizionario di archeologia, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 280-282.M. Vidale, Che cos’è l’etnoarcheologia, Roma, Carocci, 2004.

Su www.guedelon.fr la storia della costruzione moderna di un intero castello me-dievale con le stesse tecniche e gli stessi materiali di allora.

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